a cura della redazione di Lex24&Repertorio24
Accanimento terapeutico e
omicidio del consenziente
Aggiornamento: settembre 2008
Selezione della documentazione tratta dalla banca dati
SOMMARIO
pagina
Legge
Codice penale, art.579 e 580
03
Federazione Nazionale Ordini dei Medici Chirurghi e Odontoiatri
Codice di deontologia medica, artt. 16, 17, 35 e 39
03
Prassi
Giurisprudenza
Corte d'Appello Milano, sez. I, decreto 09.07.2008
05
Tribunale per i Minorenni Bari decreto 31.05.2008
32
Rassegna della giurisprudenza
33
Commenti
Il Merito n. 7/8, 01.07.2008 pg 38
Omicidio del consenziente tra dissenso terapeutico e adempimento
del dovere
34
Guida al Diritto n. 30, 26.07.2008 pg 78
Resta ancora da sciogliere il nodo sul ricorso del Pm in Cassazione
44
Famiglia e Minori n. 7, 01.07.2008 pg. 80
Un intervento attuato sulla valutazione del possibile pregiudizio
48
Ventiquattrore Avvocato n. 5, 01.05.2008 pg. 8
Il testamento biologico: requisiti formali e sostanziali
52
Rassegna dei commenti
63
Testamento biologico
Riflessioni di dieci giuristi – Fondazione Umberto Veronesi (Ed. dic. 2005)
64
Libri
2
LEGGE
Codice penale
Libro II. dei delitti in particolare - Titolo XII. dei delitti contro la persona - Capo I. dei delitti contro la vita e
l'incolumità individuale
Articolo 579 - Omicidio del consenziente
Chiunque cagiona la morte di un uomo, col consenso di lui, è punito con la reclusione da sei a quindici anni.
Non si applicano le aggravanti indicate nell'articolo 61.
Si applicano le disposizioni relative all'omicidio se il fatto è commesso:
1) contro una persona minore degli anni diciotto;
2) contro una persona inferma di mente, o che si trova in condizioni di deficienza psichica, per un`altra
infermità o per l'abuso di sostanze alcooliche o stupefacenti;
3) contro una persona il cui consenso sia stato dal colpevole estorto con violenza minaccia o suggestione,
ovvero carpito con inganno.
Articolo 580 - Istigazione o aiuto al suicidio
Chiunque determina altri al suicidio o rafforza l'altrui proposito di suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi
modo l'esecuzione, è punito, se il suicidio avviene, con la reclusione da cinque a dodici anni. Se il suicidio
non avviene, è punito con la reclusione da uno a cinque anni sempre che dal tentativo di suicidio derivi una
lesione personale grave o gravissima.
Le pene sono aumentate se la persona istigata o eccitata o aiutata si trova in una delle condizioni indicate
nei numeri 1 e 2 dell'articolo precedente. Nondimeno, se la persona suddetta è minore degli anni quattordici
o comunque è priva della capacità d'intendere o di volere, si applicano le disposizioni relative all'omicidio.
***
Riferimenti di legge disponibili in banca dati
Convenzione di Oviedo 04.04.1997; L. 145/2001; C.P. artt. 50, 51; Cost. artt. 13, 32; art. 33 L. 833/1978.
PRASSI
Federazione Nazionale Ordini dei Medici Chirurghi e Odontoiatri
Provvedimento del 3 ottobre 1998
Codice di deontologia medica (medici chirurghi ed odontoiatri)
Articolo 16 - Accanimento diagnostico-terapeutico
Il medico, anche tenendo conto delle volontà del paziente laddove espresse, deve astenersi dall'ostinazione
in trattamenti diagnostici e terapeutici da cui non si possa fondatamente attendere un beneficio per la salute
del malato e/o un miglioramento della qualità della vita. (1)
---(1) Il presente articolo è stato così modificato dal provvedimento del 16.12.2006.
Si riporta, di seguito, il testo previgente:
"Aggiornamento e formazione professionale permanente
Il medico ha l'obbligo dell'aggiornamento e della formazione professionale permanente, onde garantire il continuo
adeguamento delle sue conoscenze e competenze al progresso clinico scientifico.".
3
Articolo 17 - Eutanasia
Il medico, anche su richiesta del malato, non deve effettuare né favorire trattamenti finalizzati a provocarne
la morte.(1)
----
(1) Il presente articolo è stato così modificato dal provvedimento del 16.12.2006.
Si riporta, di seguito, il testo previgente:
"Titolo - III Rapporti con il cittadino - Capo - I Regole generali di comportamento - Rispetto dei diritti del cittadino
Il medico nel rapporto con il cittadino deve improntare la propria attività professionale al rispetto dei diritti fondamentali
della persona."
Articolo 35 - Acquisizione del consenso
Il medico non deve intraprendere attività diagnostica e/o terapeutica senza l'acquisizione del consenso
esplicito e informato del paziente.
Il consenso, espresso in forma scritta nei casi previsti dalla legge e nei casi in cui per la particolarità delle
prestazioni diagnostiche e/o terapeutiche o per le possibili conseguenze delle stesse sulla integrità fisica si
renda opportuna una manifestazione documentata della volontà della persona, è integrativo e non sostitutivo
del processo informativo di cui all'art. 33.
Il procedimento diagnostico e/o il trattamento terapeutico che possano comportare grave rischio per
l'incolumità della persona, devono essere intrapresi solo in caso di estrema necessità e previa informazione
sulle possibili conseguenze, cui deve far seguito una opportuna documentazione del consenso.
In ogni caso, in presenza di documentato rifiuto di persona capace, il medico deve desistere dai conseguenti
atti diagnostici e/o curativi, non essendo consentito alcun trattamento medico contro la volontà della
persona.
Il medico deve intervenire, in scienza e coscienza, nei confronti del paziente incapace, nel rispetto della
dignità della persona e della qualità della vita, evitando ogni accanimento terapeutico, tenendo conto delle
precedenti volontà del paziente. (1)
----
(1) Il presente articolo è stato così modificato dal provvedimento del 16.12.2006.
Si riporta, di seguito, il testo previgente: "Assistenza d'urgenza
Allorché sussistano condizioni di urgenza e in caso di pericolo per la vita di una persona, che non possa esprimere, al
momento, volontà contraria, il medico deve prestare l'assistenza e le cure indispensabili.".
Articolo 39 - Assistenza al malato a prognosi infausta
In caso di malattie a prognosi sicuramente infausta o pervenute alla fase terminale, il medico deve
improntare la sua opera ad atti e comportamenti idonei a risparmiare inutili sofferenze psichicofisiche e
fornendo al malato i trattamenti appropriati a tutela, per quanto possibile, della qualità di vita e della dignità
della persona.
In caso di compromissione dello stato di coscienza, il medico deve proseguire nella terapia di sostegno vitale
finché ritenuta ragionevolmente utile evitando ogni forma di accanimento terapeutico. (1)
----
(1) Il presente articolo è stato così modificato dal provvedimento del 16.12.2006.
Si riporta, di seguito, il testo previgente:
"Titolo - III Rapporti con il cittadino - VI - Trapianti - Prelievo di organi e tessuti da persona vivente
Il prelievo di organi e tessuti da persona vivente è consentito solo se diretto a fini diagnostici, terapeutici o di ricerca
scientifica e se non produttivo di menomazioni permanenti dell'integrità fisica o psichica del donatore, fatte salve le
previsioni normative in materia. Il prelievo non può essere effettuato per fini di commercio e di lucro e presuppone
l'informazione e il consenso scritto del donatore o dei suoi legali rappresentanti.".
4
GIURISPRUDENZA
Corte d'Appello Milano, sez. I, decreto 09.07.2008
Bioetica - Interruzione del sostegno vitale artificiale - Autorizzazione - Richiesta del tutore - Principio posto
dalla Cassazione - Sussistenza delle due condizioni necessarie - Irreversibilità dello stato vegetativo Giudicato interno al procedimento - Richiesta corrispondente alla «voce del paziente» - Elementi di prova
chiari, univoci e convincenti - Disposizioni attuative
Su richiesta del tutore è autorizzata l'interruzione del trattamento di sostegno vitale artificiale di una persona
che è alimentata e idratata con sondino naso-gastrico, in quanto ricorrono entrambe le condizioni l'irreversibilità dello stato vegetativo, già acquisita al procedimento in base al «giudicato interno», e la
corrispondenza della richiesta, sulla base di elementi di prova chiari, univoci e convincenti, rispetto alla «voce
del paziente» risultante da precedenti dichiarazioni, dalla sua personalità, dal suo stile di vita - richieste nel
principio di diritto stabilito dalla Cassazione, e sono dettate apposite disposizioni accessorie da rispettare in
sede attuativa.
Status e capacità - Tutela e curatela - Persona in stato di coma neurovegetativo - Accanimento terapeutico e
consenso informato - Durata straordinaria - Determinazioni volitive del soggetto - Interruzione del
trattamento vitale - Autorizzazione
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE D'APPELLO DI MILANO
PRIMA SEZIONE CIVILE
composta dai Sigg.ri Magistrati:
1) Dott. Giuseppe Patrone - Presidente
2) Dott. Paolo Negri della Torre - Consigliere
3) Dott. Filippo Lamanna - Consigliere rel. est.
ha pronunciato il seguente:
DECRETO
nel procedimento di reclamo in grado d'appello ex art. 739 c.p.c. rubricato al numero di ruolo di volontaria
giurisdizione sopra indicato, promosso, a seguito di cassazione con rinvio pronunciata dalla Suprema Corte di
Cassazione con sentenza n. 21748 in data 16 ottobre 2007, con ricorso in riassunzione depositato in data 5
febbraio 2008, e vertente tra:
Be.En., quale tutore della figlia interdetta El.En., rappresentato e difeso dagli avvocati Vi.An. e Ma.Cu. ed
elettivamente domiciliato presso il loro studio, in Mi., Galleria De.Co. (...), giusta procura rilasciata in calce al
ricorso in riassunzione
RICORRENTE IN RIASSUNZIONE - RECLAMANTE
E Avv. Fr.Al., quale curatrice speciale di El.En., con studio in Le., via Ro. (...)
RESISTENTE
e con l'intervento
del Pubblico Ministero in sede, in persona del Sostituto Procuratore Generale dott.ssa Maria Antonietta
Pezza.
IN FATTO E IN DIRITTO
1. Cenni sugli antecedenti di fatto e processuali e sul contenuto della sentenza di cassazione con rinvio da
cui ha tratto causa l'attuale fase decisoria.
Il 18 gennaio 1992 si verificò un incidente stradale a seguito del quale fu diagnosticato ad El.En., che vi era
rimasta coinvolta, e che era allora appena ventunenne (essendo nata il (...)), un gravissimo trauma cranio-
5
encefalico con lesione di alcuni tessuti cerebrali corticali e subcorticali, da cui derivò prima una condizione di
coma profondo, e poi, in progresso di tempo, un persistente Stato Vegetativo con tetraparesi spastica e
perdita di ogni facoltà psichica superiore, quindi di ogni funzione percettiva e cognitiva e della capacità di
avere contatti con l'ambiente esterno.
Dopo circa quattro anni dall'incidente, El.En. - essendo stata accertata la mancanza di qualunque
modificazione del suo stato - fu dichiarata interdetta per assoluta incapacità con sentenza del Tribunale di
Lecco in data 19 dicembre 1996. Fu nominato tutore il padre, Be.En.
Dopo altri tre anni circa prese avvio una lunga vicenda giudiziaria snodatasi in tre principali procedimenti
consecutivi, nei quali il tutore, deducendo l'impossibilità per El. di riprendere coscienza, nonché
l'inguaribilità/irreversibilità della sua patologia e l'inconciliabilità di tale stato e del trattamento di sostegno
forzato che le consentiva artificialmente di sopravvivere (alimentazione/idratazione con sondino nasogastrico) con le sue precedenti convinzioni sulla vita e sulla dignità individuale, e più in generale con la sua
personalità, ha ripetutamente chiesto, nell'interesse e in vece della rappresentata, l'emanazione di un
provvedimento che disponesse l'interruzione della terapia di sostegno vitale.
Nel primo procedimento, instaurato con ricorso ex art. 732 c.p.c. depositato in data 19 gennaio 1999,
l'istanza del tutore fu dichiarata inammissibile dal Tribunale di Lecco (perché ritenuta incompatibile con l'art.
2 della Costituzione, letto ed inteso come norma implicante una tutela assoluta e inderogabile del diritto alla
vita) con decreto depositato il 2 marzo 1999, poi confermato in sede di reclamo dalla Sezione "Persone
Minori e Famiglia" della Corte d'Appello di Milano con decreto del 31 dicembre 1999 (da questo Giudice
reputandosi invece sussistente una situazione d'incertezza normativa tale da non consentire l'adozione di una
precisa decisione in merito all'istanza d'interruzione del trattamento di alimentazione/idratazione forzata).
Nel secondo procedimento, instaurato con ricorso depositato il 26 febbraio 2002, la medesima istanza fu
disattesa dal Tribunale di Lecco con decreto depositato il 20 luglio 2002 (con cui si ribadiva il principio di
necessaria e inderogabile prevalenza della vita umana anche innanzi a qualunque condizione patologica e a
qualunque contraria espressione di volontà del malato), ancora una volta poi confermato dalla predetta
Sezione della Corte d'Appello di Milano, in sede di reclamo, con decreto del 17 ottobre 2003 (ivi reputandosi
comunque inopportuna un'interpretazione integrativa volta ad attuare il principio di autodeterminazione della
persona umana in caso di "paziente in SVP").
Quest'ultimo provvedimento fu successivamente impugnato dal tutore con ricorso straordinario per
cassazione (ex art. 111 Costituzione), dichiarato inammissibile dalla Suprema Corte con ordinanza n. 8291
del 20 aprile 2005 per difetto di partecipazione al procedimento di un contraddittore ritenuto necessario, e
da individuarsi nella persona di un curatore speciale della rappresentata incapace ex art. 78 c.p.c..
Nel terzo procedimento, avviato, a seguito della predetta ordinanza, con ricorso depositato in data 30
settembre 2005, il tutore chiese la previa nomina di un curatore speciale, che fu in effetti nominato nella
persona dell'avv. Fr.Al. (da indicare dunque, più esattamente, come "curatrice" speciale), la quale prestò
adesione all'istanza del tutore.
Tale istanza fu non dimeno dichiarata ancora inammissibile dall'adito Tribunale con decreto depositato il 2
febbraio 2006 (questa volta reputandosi che il tutore non fosse legittimato, neppure con l'assenso della
curatrice speciale, a esprimere scelte al posto o nell'interesse dell'incapace in materia di diritti e "atti
personalissimi").
Il decreto fu però riformato dalla Sezione "Persone Minori e Famiglia" della Corte d'Appello di Milano, in sede
di reclamo, con provvedimento in data 15 novembre/16 dicembre 2006.
In tal caso, infatti, la Corte, andando di contrario avviso rispetto al Tribunale, reputò ammissibile il ricorso in
ragione del generale potere di cura della persona da riconoscersi in capo al rappresentante legale
dell'incapace ex artt. 357 e 424 c.c..
Tuttavia, esaminando e giudicando nel merito l'istanza del tutore, la Corte la giudicò insuscettibile di
6
accoglimento, sul rilievo secondo cui l'attività istruttoria espletata non consentisse di attribuire alle idee
espresse da El. all'epoca in cui era ancora pienamente cosciente un'efficacia tale da renderle idonee anche
nell'attualità a valere come "volontà sicura della stessa contraria alla prosecuzione delle cure e dei
trattamenti che attualmente la tengono in vita".
Proposto dal Sig. Be.En. ricorso per cassazione (notificato il 6 marzo 2007) anche avverso tale decisione,
peraltro autonomamente impugnata anche dalla curatrice speciale con un ricorso incidentale sostanzialmente
adesivo a quello principale, la Suprema Corte si è infine pronunciata con sentenza n. 21748 in data 16
ottobre 2007 disponendo la cassazione dell'impugnato provvedimento e il rinvio della "causa" per una nuova
decisione, relativamente alle parti cassate (secondo la disciplina di cui agli artt. 384, 392 e 394 c.p.c.), ad
altra Sezione della medesima Corte d'Appello di Milano.
La Suprema Corte, in particolare, ha accolto i ricorsi proposti sia dal tutore che dalla curatrice speciale di
El.En., nei limiti meglio specificati in motivazione, reputando, in estrema sintesi, che:
- in situazioni ove sono in gioco il diritto alla salute o il diritto alla vita, o più in generale assume rilievo critico
il rapporto tra medico e paziente, il fondamento di ogni soluzione giuridica transita attraverso il
riconoscimento di una regola, presidiata da norme di rango costituzionale (in particolare gli artt. 2, 3, 13 e
32 della Costituzione), che colloca al primo posto la libertà di autodeterminazione terapeutica;
- pertanto è la prestazione del consenso informato del malato, il quale ha come correlato la facoltà non solo
di scegliere tra le diverse possibilità o modalità di erogazione del trattamento medico, ma anche
eventualmente di rifiutare la terapia e di decidere consapevolmente di interromperla in tutte le fasi della vita,
a costituire, di norma, fattore di legittimazione e fondamento del trattamento sanitario;
- il riconoscimento del diritto all'autodeterminazione terapeutica non può essere negato nemmeno nel caso
in cui il soggetto adulto non sia più in grado di manifestare la propria volontà a causa del suo stato di totale
incapacità, con la conseguenza che, nel caso in cui, prima di cadere in tale condizione, egli non abbia
specificamente indicato, attraverso dichiarazioni di volontà anticipate, quali terapie avrebbe desiderato
ricevere e quali invece avrebbe inteso rifiutare nel caso in cui fosse venuto a trovarsi in uno stato di
incoscienza, al posto dell'incapace è autorizzato ad esprimere tale scelta il suo legale rappresentante (tutore
o amministratore di sostegno), che potrà chiedere anche l'interruzione dei trattamenti che tengano
artificialmente in vita il rappresentato;
- tuttavia questo potere-dovere che fa capo al rappresentante legale dell'incapace non è incondizionato, ma
soffre di limiti "connaturati" al fatto che la salute è un diritto "personalissimo" di chiunque, anche
dell'incapace, e che la libertà di rifiutare le cure presuppone il ricorso a valutazioni della vita e della morte
che trovano il loro fondamento in concezioni di natura etica o religiosa, e comunque (anche) extragiuridiche,
quindi squisitamente soggettive, che per ciò stesso devono essere pur sempre riferibili al soggetto-malato,
anche se incapace;
- un primo limite, coessenziale alla scelta del rappresentante, va in particolare ravvisato nella necessità che
tale scelta sia sempre vincolata, come attività rappresentativa, e nella concretezza del caso, al rispetto del
migliore interesse ("best interest") del rappresentato;
- due ulteriori ed indefettibili condizioni si riassumono poi nel seguente principio di diritto, cui deve
conformarsi il Giudice di rinvio:
«Ove il malato giaccia da moltissimi anni (nella specie, oltre quindici) in stato vegetativo permanente, con
conseguente radicale incapacità di rapportarsi al mondo esterno, e sia tenuto artificialmente in vita mediante
un sondino nasogastrico che provvede alla sua nutrizione ed idratazione, su richiesta del tutore che lo
rappresenta, e nel contraddittorio con il curatore speciale, il giudice può autorizzare la disattivazione di tale
presidio sanitario (fatta salva l'applicazione delle misure suggerite dalla scienza e dalla pratica medica
nell'interesse del paziente), unicamente in presenza dei seguenti presupposti: (a) quando la condizione di
stato vegetativo sia, in base ad un rigoroso apprezzamento clinico, irreversibile e non vi sia alcun
fondamento medico, secondo gli standard scientifici riconosciuti a livello internazionale, che lasci supporre la
benché minima possibilità di un qualche, sia pure flebile, recupero della coscienza e di ritorno ad una
percezione del mondo esterno; e (b) sempre che tale istanza sia realmente espressiva, in base ad elementi
di prova chiari, univoci e convincenti, della voce del paziente medesimo, tratta dalle sue precedenti
dichiarazioni ovvero dalla sua personalità, dal suo stile di vita e dai suoi convincimenti, corrispondendo al suo
modo di concepire, prima di cadere in stato di incoscienza, l'idea stessa di dignità della persona. Ove l'uno o
l'altro presupposto non sussista, il giudice deve negare l'autorizzazione, dovendo allora essere data
7
incondizionata prevalenza al diritto alla vita, indipendentemente dal grado di salute, di autonomia e di
capacità di intendere e di volere del soggetto interessato e dalla percezione, che altri possano avere, della
qualità della vita stessa»;
- alla luce del suddetto principio, il decreto impugnato, reso dalla Corte d'Appello di Milano nella pregressa
fase del procedimento, non si sottrae alle censure articolate dal tutore e dal curatore speciale di El.En.,
poiché, pur risultando "pacificamente dagli atti di causa che nella indicata situazione si trova El.En., la quale
giace in stato vegetativo persistente e permanente a seguito di un grave trauma cranico-encefalico riportato
a seguito di un incidente stradale (occorsole quando era ventenne), e non ha predisposto, quando era in
possesso della capacità di intendere e di volere, alcuna dichiarazione anticipata di trattamento", la Corte di
merito ha comunque omesso di indagare adeguatamente sulla sussistenza dell'altra imprescindibile
condizione idonea a legittimare la scelta del rappresentante intesa al rifiuto dell'alimentazione artificiale,
ossia non ha ricostruito la "presunta volontà" di El. dando rilievo ai desideri da lei precedentemente espressi,
o più in generale alla sua personalità, al suo stile di vita e ai suoi più intimi convincimenti; accertamento che
dovrà quindi essere effettuato dal Giudice del rinvio, tenendo conto di tutti gli elementi emersi dall'istruttoria
e della convergente posizione assunta dalle parti in giudizio (tutore e curatore speciale).
A seguito di tale pronuncia, il pregresso procedimento di reclamo è stato riassunto dal tutore, originario
reclamante, con ricorso depositato in data 5 febbraio 2008 e assegnato - secondo predeterminato criterio
tabellare previsto per il caso di cassazione di provvedimenti emessi dalla Sezione "Persone Minori e Famiglia"
- a questa Prima Sezione Civile.
Nel procedimento si è costituita con propria memoria la curatrice speciale, non opponendosi, ma aderendo
nuovamente all'istanza del tutore.
Ha formulato le sue conclusioni anche l'Ufficio del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore
Generale designato, chiedendo il rigetto del reclamo o, in subordine, un supplemento istruttorio.
Sentite le parti all'odierna udienza, e disposta ed esperita in tale frangente un'integrazione probatoria con
l'audizione del Sig. Be.En., che ha riferito profusamente in relazione alle concezioni di vita che aveva avuto
modo di esprimere El. prima di cadere in stato di permanente incapacità, e più in generale sulla sua
personalità, questa Corte ha assunto la riserva di decidere che provvede ora a sciogliere.
2. Delimitazione dell'accertamento demandato al Giudice di rinvio. L'intervenuto giudicato interno sul
carattere "irreversibile" dello Stato Vegetativo: esclusione della possibilità di svolgere un nuovo accertamento
su tale aspetto.
In concreto, dev'essere ancora verificata da questo Collegio giudicante solo la seconda delle due condizioni
che - secondo il principio di diritto enunciato dalla Suprema Corte - possono legittimare la scelta del tutore
orientata al rifiuto del trattamento di sostegno vitale; ossia quella riguardante la corrispondenza di tale scelta
alla "volontà presunta" di El., e non invece la prima, concernente il carattere irreversibile del suo Stato
Vegetativo.
Su tale aspetto, infatti, risulta già espresso nella precorsa fase di reclamo un giudizio accertativo che,
essendo ormai coperto da giudicato interno o comunque da un'equivalente preclusione endoprocessuale, ha
assunto in questo procedimento efficacia definitiva.
La gravità, importanza e delicatezza della decisione da assumere impone però di dar conto di tale
conclusione - come pure delle altre di cui si darà giustificazione successivamente - con una motivazione non
sintetica, ma analiticamente estesa ad ogni punto che presenti rilevanza ai fini del decidere.
Si rileva dunque che, in ragione degli accertamenti di diagnostica strumentale e clinica effettuati su El.En. sin
dal primo ricovero che fece seguito all'incidente stradale del gennaio 1992, e poi dei successivi controlli
periodicamente posti in essere, il fatto che lei si trovasse in uno Stato Vegetativo Permanente, e come tale
"irreversibile", è sempre stato considerato comprovato e "pacifico" nelle diverse fasi processuali pregresse.
8
E' stato evidentemente ritenuto di preminente rilievo, in primo luogo, il fatto che, ai fini della dichiarazione di
interdizione, fosse stato svolto già nel 1996 un accertamento molto accurato, di carattere diagnostico e
prognostico, sulle condizioni di El., sfociato nella certificata persistenza della sua condizione vegetativa.
Ma rilievo conclusivo è stato poi certamente dato alla circostanza che, nel successivo sviluppo delle fasi
processuali attivate dal tutore, è stata acquisita ulteriore ed aggiornata documentazione finalizzata a
dimostrare sia sul piano clinico la sussistenza e l'irreversibilità di tale stato, sia a dar conto dei parametri che,
sul piano dei più accreditati studi medici di carattere internazionale in questa materia, potevano giustificare
scientificamente tale diagnosi-prognosi.
Quanto a quest'ultimo tipo di documentazione, in particolare, risulta essere stata prodotta in causa dal tutore
- proprio a giustificazione della reiterata presentazione dell'istanza finalizzata all'interruzione del trattamento
di sostegno vitale dopo i primi provvedimenti reiettivi - copia della Relazione tecnica, di riconosciuto valore
scientifico, redatta da un Gruppo di lavoro interdisciplinare formato da esperti, in relazione agli obiettivi
conoscitivi di cui ai Decreti del Ministero della Sanità 20.10.2000 prot. SSD/l/4. 223.1 e 4 maggio 2001.
L'importanza di tale studio è risultata in effetti talmente significativa che la stessa elaborazione della
sentenza n. 21748/2007 della S. Corte di Cassazione sembra confermare anche letteralmente alcuni
suggerimenti e conclusioni in essa contenuti (come ad esempio in riferimento alla necessità, che rileva
giustappunto sotto il profilo qui in esame, di valutare la sussistenza dello Stato Vegetativo Permanente
proprio «sulla base» - come si esprime la Relazione prima, e la Suprema Corte poi - «di un'osservazione
prolungata, per il tempo necessario secondo gli standard scientifici riconosciuti a livello internazionale»).
Nella Relazione risulta svolta un'ampia disamina delle differenze tra Stato Vegetativo Permanente ed altre
contigue e talora controverse patologie (stati comatosi, sindrome di deafferentazione, mutismo acinetico,
morte del tronco encefalico, morte dell'encefalo).
Quanto, in particolare, allo Stato Vegetativo Persistente e Permanente, la Relazione precisa che in esso:
«Il paziente ventila, gli occhi possono restare aperti, le pupille reagiscono, i riflessi del tronco e spinali
persistono, ma non vi è alcun segno di attività psichica e di partecipazione all'ambiente, e le uniche risposte
motorie riflesse consistono in una ridistribuzione del tono muscolare. Consegue alla totale distruzione della
corteccia o delle connessioni cortico-diencefaliche, mentre il tronco encefalico sopravvive e resta
funzionante. I principali referti neuropatologici sono necrosi laminare della corteccia cerebrale, il danno
diffuso delle vie sottocorticali o la necrosi bilaterale del talamo, ove originano le proiezioni reticolari per la
corteccia. L'essenza dello Stato vegetativo, come descritto da Je. e Pl. [avvertenza dell'estensore: nel testo
della Relazione risulta una nota con citazioni a piè di pagina] è "la mancanza di ogni risposta adattativa
all'ambiente esterno, l'assenza di ogni segno di una mente che riceve e proietta informazioni, in un paziente
che mostra prolungati periodi di veglia". Questi pazienti sono in grado di respirare spontaneamente, e le loro
funzioni cardiovascolari, gastrointestinali e renali sono conservate (di solito non le funzioni sfinteriche, e i
pazienti sono incontinenti). A volte sembrano dormire, con gli occhi chiusi, altre volte sembrano svegli, con
gli occhi aperti. Gli stimoli sensoriali intensi possono provocare accelerazione del respiro, apertura degli
occhi, smorfie mimiche o movimenti degli arti. Talora sono presenti, senza alcuno stimolo, movimenti
spontanei automatici (masticazione, deglutizione ma anche sorrisi o smorfie di pianto). L'EEG può mostrare
una residua attività elettrica corticale. Escludono lo stato vegetativo la presenza di segni anche minimi di
percezione cosciente o di motilità volontaria, come una risposta riproducibile a un comando verbale o
gestuale, anche limitata al semplice battito degli occhi. I concetti di persistenza e di permanenza vanno
distinti. Mentre l'aggettivo persistente si riferisce solo a una condizione di passata e perdurante disabilità con
un incerto futuro, l'aggettivo permanente implica l'irreversibilità. Può dirsi quindi che quella di Stato
vegetativo persistente sia una diagnosi, mentre quella di Stato Vegetativo Permanente sia una prognosi. Tale
distinzione, elaborata dalla Mu.Ta.Fo. on Pv. nel lavoro pubblicato sul Ne.En.Jo. of Me., vol. 330. n. 21 e 22.
è condivisa da questo gruppo di lavoro, che considera quell'elaborato la migliore sintesi scientifica e clinica
oggi disponibile [avvertenza dell'estensore: nel testo risulta una nota con citazioni a piè di pagina]. La Ta.Fo.
ha raggiunto un accordo su alcuni punti. Uno di essi è che prima di dichiarare permanente, cioè irreversibile,
lo stato vegetativo di origine traumatica di un soggetto adulto è necessario attendere almeno dodici mesi
[avvertenza dell'estensore: nel testo risulta una nota con citazioni a piè di pagina, ove in particolare si
precisa che "è sufficiente un lasso di tre mesi per gli adulti e i bambini che siano in Stato Vegetativo
9
Persistente a seguito di danni di origine non traumatica"]. Trascorso tale lasso di tempo, la probabilità di una
ripresa di funzioni superiori è insignificante (...). Lo Stato Vegetativo Permanente indica una situazione sia
clinica sia giuridica del tutto diversa da quella che, secondo la legislazione attuale italiana (e di tutti gli altri
paesi), può portare alla certificazione di morte cerebrale. E' fuori discussione, dunque, che gli individui in SVP
non rispondono ai criteri per l'accertamento della morte cerebrale. Resta il fatto, però, che per essi non sarà
mai più possibile un'attività psichica e che in essi è andata perduta definitivamente la funzione che più di
ogni altra identifica l'essenza umana. Essi (...) sono esseri puramente vegetativi (...) » [N.B.: le enfasi
grafiche sono state aggiunte qui ed ora].
Come dunque emerge dai riportati passaggi della Relazione del citato Gruppo di studio (costituente organo
tecnico di primario livello, la cui opinione in ordine alla stato della scienza medica in materia di Stato
Vegetativo Permanente poteva essere evidentemente quanto meno equiparata a quella di un C.T.U. esperto
nella materia), deve considerarsi "Permanente", ossia "Irreversibile" (giacché i due aggettivi sono da
accepire come equivalenti), in caso di adulti (come appunto è, e già era, El. al momento della perdita di
coscienza), lo Stato Vegetativo - nei termini specificamente enunciati in premessa sempre dalla Relazione di origine traumatica protrattosi oltre i dodici mesi, periodo di durata che, evidentemente, ha valore non
assoluto, ma statistico.
La Relazione si preoccupa dunque di fornire sia gli elementi per definire sul piano clinico-diagnostico lo Stato
Vegetativo, sia gli elementi per connotarlo, ai fini della formulazione di un giudizio prognostico, nella sua
evoluzione temporale/funzionale, trascorrendo da Stato Persistente a Stato Permanente/Irreversibile.
Sul primo aspetto, la Relazione prende atto degli studi che, in ambito internazionale, sono pervenuti a
definire gli standards per la definizione di SVP, avvalendosi in particolare dei dati elaborati dalla Mu.Ta.Fo.
on Pv. nel lavoro pubblicato sul Ne.En. Jo. of.Me., vol. 330, n. 21 e 22, considerato la migliore sintesi
scientifica e clinica oggi disponibile".
Quando dunque il medesimo Gruppo di studio, nel concludere la sua Relazione, fa un richiamo alla necessità
che l'accertamento in ordine alla sussistenza dello Stato Vegetativo Permanente venga poi effettuato dai
medici, nei diversi casi concreti, "sulla base di un'osservazione prolungata, per il tempo necessario secondo
gli standard scientifici riconosciuti a livello internazionale", in realtà sembra riferirsi a null'altro che a quegli
standards di cui esso stesso ha dato atto al fine di illustrare, sotto il profilo diagnostico, i caratteri definitori
dello Stato Vegetativo (sussistenza di lesioni della corteccia o delle connessioni cortico-diencefaliche
determinanti sul piano funzionale la conseguente mancanza di ogni risposta adattativa all'ambiente esterno e
l'assenza di ogni segno di una mente che riceva e proietti informazioni), e, sotto il profilo prognostico, il
tempo di durata senza variazioni di tale condizione, e quindi, in modo concomitante, il necessario "tempo di
osservazione" della stessa, per poterla definire "Permanente" (ossia Irreversibile"), tempo di durata pari ad
almeno dodici mesi in caso di SVP da etiologia traumatica relativa ad un adulto. In presenza della diagnosi di
tale condizione, precisa la Relazione, e trascorso il lasso di tempo-limite, la prognosi è definitivamente
infausta quanto ad un possibile recupero delle funzioni percettive e cognitive, poiché la probabilità di una
ripresa di funzioni superiori è insignificante" e "non sarà mai più possibile un'attività psichica" (conclusione,
questa, peraltro avallata anche da altri studi autorevoli; si deve poi precisare che, nella specifica patologia in
oggetto, la sua irreversibilità va correlata anche al concetto di inguaribilità sotto il profilo terapeutico, nel
senso che qualunque terapia farmacologica, chirurgica, radioterapica o qualunque altro tipo d'intervento non
è più in grado di modificare lo stato della patologia stessa).
Dal che non avrebbe potuto che derivare anche l'ininfluenza di eventuali opinioni minoritarie, più o meno
scettiche sulla possibilità di effettuare attendibili valutazioni prognostiche di irreversibilità.
Trascorrendo dal piano generale a quello particolare, la documentazione che la Corte d'Appello ha avuto
modo di compulsare nella pregressa fase processuale in relazione alla concreta diagnosi/prognosi effettuata
sulle condizioni di El.En., si è sostanziata in una relazione medica redatta dal prof. C.A.De., neurologo di
chiara fama e primario del reparto di Neurologia dell'Ospedale Ni.Cà.Gr. di Milano.
Non risulta che la correttezza ed attendibilità scientifica di tale Relazione sia mai stata posta in dubbio da
alcun contraddittore processuale del tutore (né dal Pubblico Ministero, né dalla curatrice speciale, la quale
10
ultima ha anzi confermato anche ora, per quanto a sua conoscenza, l'effettiva mancanza di variazioni nello
stato di El. rispetto alle risultanze cliniche di cui si dava atto nella Relazione del prof. De.).
Deve aggiungersi che a tale documento non avrebbe fatto difetto neppure alcun ipotetico requisito di forma,
tenuto conto che la Suprema Corte non ha stabilito affatto di quali mezzi di prova o di valutazione della
prova debba avvalersi il Giudice di merito, che, nella specie, già nella precedente fase avrebbe potuto
dunque certamente basare il suo apprezzamento su tutti quelli ritenuti in concreto più confacenti, tanto più
mancando una disciplina legislativa di carattere prescrittivo in ordine all'eventuale necessità od opportunità
di consultare istituzionali organi tecnici o specifiche commissioni mediche.
Da tale relazione emerge anzitutto una ricostruzione delle modalità di insorgenza della patologia in base
all'esistente documentazione clinica.
Emerge in particolare che, a seguito dell'incidente stradale del 18 gennaio 1992, derivò ad El. il già detto
gravissimo trauma cranio-encefalico con frattura frontale, frattura dell'epistrofeo e lussazione anteriore di
detta vertebra; che El. fu ricoverata in Rianimazione presso l'Ospedale di Lecco, ove giunse con un
punteggio di 3-4 alla "Glasgow Coma Scale"; che la TC dimostrava raccolte ematiche intraparenchimali in
sede frontotemporale sinistra e iperdensità, espressione di sofferenza, a livello talamico bilaterale; che la
paziente veniva intubata e ventilata artificialmente; che nei giorni seguenti si manifestavano i segni di un
impegno transtentoriale con atteggiamento in decerebrazione e crisi vegetative; che parallelamente una TC
dimostrava la comparsa di un'emorragia a livello mesencefalico; che poi gradualmente la situazione si
stabilizzava e, circa un mese dopo il trauma, la paziente ricominciava ad aprire gli occhi entrando da quel
momento in Stato Vegetativo Persistente; che nel 1996 veniva ricoverata presso l'U. O. Neurologia degli
Ospedali Ri. di Bergamo, ove veniva confermata la valutazione diagnostica e prognostica di Stato Vegetativo
Postraumatico; che l'evoluzione successiva confermava la diagnosi-prognosi allora formulata, non essendosi
avuta negli anni successivi, e neanche in occasione del successivo accertamento svolto nel 2002 previo
apposito ricovero all'Ospedale Ni. di Milano, alcuna modificazione significativa dello stato clinico e nessuna
ripresa di contatto con l'ambiente; che, pertanto, «malgrado un'osservazione estremamente accurata e
protratta nel tempo, non è mai stato possibile rilevare indizi di contatto della paziente con l'ambiente
circostante».
Quanto all'obiettività neurologica di cui ha dato atto il prof. De., vi è anzitutto una descrizione delle
condizioni di El. riassumibile come segue: giovane donna in buone condizioni generali e di nutrizione, con gli
occhi per lo più aperti, deviazione sghemba dei globi oculari, anisocoria per midriasi fissa in OD; mioclonia
ritmica interessante le labbra, la lingua, la mandibola e in minor misura le palpebre e i globi oculari stessi
(con scosse di tipo nistagmico); tetraparesi spastica con atteggiamento in flessione delle dita delle mani e
atteggiamento equino dei piedi; respiro spontaneo e valido, senza ingombro tracheobronchiale; nutrizione
indotta tramite sondino nasogastrico; alvo regolare con minzione autonoma e incontinenza.
Il prof. De. ha poi dato atto dei vari esami strumentali eseguiti anche nel 2002 (esami di laboratorio di
routine, ECG, RX al torace) e, in particolare, dell'esito:
- di un EEG: «tracciato caratterizzato da un'attività monotona in banda alfa e 10 Hz, con sovrimposti artefatti
di origine muscolare e oculare, insopprimibili. Nessuna reattività allo stimolo algico. Il tracciato è compatibile
con un "alfa coma"»;
- nonché di una RM all'encefalo particolarmente eloquente: «esame eseguito in sedazione farmacologica. In
fossa posteriore vi è un marcato ampliamento del quarto ventricolo e delle cisterne dell'angolo
pontocerebellare e degli spazi corticali con importante atrofia delle strutture della fossa posteriore. In
particolare estremamente atrofico si presenta il mesencefalo, che è caratterizzato da una nettà alterazione di
segnale ipointensa in FFE T2 da residui emosiderinici di pregressa emorragia (tipo Duret). Marcata
alterazione di segnale iperintensa in entrambi gli echi interessante la sostanza bianca periventricolare attorno
alle celle medie ed estesa ad interessare la corona raggiata di entrambi i lati sino alla giunzione corticalesotto corticale da danno assonale diffuso cronico. Massiva atrofia del corno calloso con alterazione di segnale
da danno assonale. Piccoli segnali di alterato segnale sono riconoscibili nella capsula interna di ambo i lati
con residui emosiderinici: altri piccoli focolai consimili da esiti di focolai contusivi appaiono localizzati in sede
nucleo capsulare bilaterale, temporale sinistra, nel ginocchio del corpo calloso, in sede parasagittale e
frontale sinistra posteriore cortico-sottocorticale».
11
Traendo dunque le somme dalle indagini strumentali e sintomatologiche compiute, il prof. De. ha confermato
la conclusione, diagnostica e prognostica, già risalente al 1996, secondo cui: «la paziente si trova in uno
stato vegetativo permanente, cioè irreversibile. Nessun recupero della vita cognitiva è ormai possibile.
Le indagini ora effettuate, e in particolare la Risonanza Magnetica, corroborano l'ipotesi del danno assonale
diffuso come meccanismo fisiopatologico del danno cerebrale che ha portato al tragico sbocco attuale» [N.
B.: enfasi grafiche qui ed ora aggiunte].
Tale conclusione, di carattere clinico, rispondeva e risponde dunque pienamente, nella sua elaborazione
inferenziale-scientifica, proprio a quei criteri - distillati alla luce degli studi e degli standards internazionali cui ha fatto riferimento sia la Relazione redatta dal citato Gruppo di lavoro, che la Suprema Corte nella
sentenza di cassazione con rinvio, ponendo in evidenza come lo Stato Vegetativo di El., da reputarsi tale in
ragione della obiettivamente accertata irreparabile lesione cerebrale (per consolidata alterazione/atrofia di
alcuni tessuti corticali e subcorticali, del mesencefalo e degli assoni, ossia della sostanza bianca che interessa
l'encefalo e il tronco cerebrale con conseguente disconnessione anche tra queste due parti, senza più
evidenza di una coscienza di sé e dell'ambiente, di risposte comportamentali intenzionali o volontarie a
stimoli esterni, di comprensione o espressione del linguaggio, pur in presenza di riflessi del tronco cerebrale
conservati), abbia certamente assunto carattere irreversibile per la sua straordinaria durata, cui corrisponde,
peraltro, quel parallelo e necessario prolungarsi del periodo di osservazione medica (che va ben oltre il limite
dei dodici mesi necessario e sufficiente, come s'è visto, per un'attendibile prognosi di Stato Vegetativo
Permanente/Irreversibile nei casi da etiologia traumatica) che integra uno dei parametri - insieme alla natura
delle lesioni cerebrali e alla perdita di funzionalità di tipo percettivo, cognitivo ed emotivo - cui riferirsi per
valutare la rispondenza della diagnosi-prognosi (svolta in concreto) a "standard scientifici riconosciuti a livello
internazionale".
La lunghissima ed invariata durata del predetto stato, peraltro, sembra in effetti superare di molto quella già
considerata in altri noti precedenti giudiziari come idonea a suggellare l'irreversibilità della patologia in
oggetto (solo a titolo esemplificativo può ricordarsi, fra i vari casi che hanno assunto rilievo internazionale e
di cui si ha traccia negli atti del procedimento, che in Francia, nel caso Hervè Pierra, vicenda di SVP tra le più
lunghe, è stata disposta l'interruzione dell'alimentazione con sondino naso-gastrico che teneva in vita una
donna in Stato Vegetativo Permanente da otto anni, mentre in Gran Bretagna, nel caso To.Bl., io Stato
Vegetativo Permanente durava da soli tre anni).
Ad ogni modo, di tutti i sopra illustrati elementi conoscitivi ha già preso atto la Corte d'Appello nella
pregressa fase del procedimento, e in particolare ha preso atto della conclusione prognostica testé riferita,
secondo cui "Nessun recupero della vita cognitiva è ormai possibile", pervenendo alla duplice conclusione
che tali elementi fossero idonei ad attestare sia il fatto che El. versasse in Stato Vegetativo, sia che tale
condizione fosse irreversibile.
La motivazione addotta al riguardo è inequivocabile.
Già nel decreto pronunciato in data 17 ottobre/10 dicembre 2003, non impugnato sul punto con il primo
ricorso innanzi alla Suprema Corte, la Corte d'Appello aveva osservato che, pur avendo avvertito nel corso
della trattazione del procedimento l'esigenza di acquisire uno specifico profilo clinico della patologia di El.,
doveva considerarsi del tutto «superflua la consulenza tecnica, in quanto alla stregua delle risultanze
processuali non sussistono dubbi sulla diagnosi, la prognosi e la condizione clinica attuale di El., quale
paziente in stato vegetativo permanente con il Quadro prognostico di irreversibilità descritto nella letteratura
scientifica».
Si trattò, tuttavia, di un accertamento svolto, in apparenza, in via meramente incidentale, nel contesto di un
provvedimento che si limitò a confermare il decreto reiettivo emanato dal Tribunale di Lecco.
Diversa la situazione, invece, in occasione della pronuncia del successivo decreto in data 15 novembre/16
dicembre 2006.
In tal caso la Corte d'Appello non ha confermato affatto la declaratoria d'inammissibilità dell'istanza del
tutore resa dal Tribunale di Lecco sulla base dell'opinione secondo cui il legale rappresentante dell'incapace
12
non sarebbe stato legittimato (neppure con l'assenso della curatrice speciale) a esprimere scelte al posto o
nell'interesse del rappresentato; ha al contrario ritenuto che l'istanza fosse ammissibile in ragione del
generale potere di cura della persona da riconoscersi in capo al rappresentante legale dell'incapace ex artt.
357 e 424 c.c..
Proprio per tale ragione la Corte ha riformato il decreto reclamato e ha dovuto esaminare e giudicare la
fondatezza dell'istanza del tutore nel merito, a tal fine affrontando proprio il problema circa il se
sussistessero in concreto entrambe quelle due condizioni di legittimità della scelta del tutore cui proprio la
Suprema Corte ha fatto poi riferimento.
Quanto alla prima, quella dell'irreversibilità dello Stato Vegetativo, la Corte d'Appello ha dovuto esaminarla
per prima, poiché di carattere logicamente prioritario, atteso che, senza di essa, sarebbe stato in effetti
incongruo procedere ad accertare l'ulteriore condizione riguardante la ricostruibilità di una precedente o
presunta volontà di El. orientata verso un rifiuto del trattamento di sostegno vitale.
Dopo aver risolto positivamente tale prima questione, ha quindi affrontato la seconda, in tal caso
risolvendola negativamente sul rilievo secondo cui l'attività istruttoria espletata non avrebbe consentito di
attribuire alle idee espresse da El. all'epoca in cui era ancora pienamente cosciente un'efficacia tale da
renderle idonee anche nell'attualità a valere come "volontà sicura della stessa contraria alla prosecuzione
delle cure e dei trattamenti che attualmente la tengono in vita".
Solo tale secondo punto della decisione è stato poi impugnato per cassazione, e solo in ordine ad esso la S.
Corte ha pronunciato la sentenza di annullamento, imponendo la rinnovazione dell'accertamento di merito in
sede di rinvio.
Il tema del decidere si ripresenta dunque in questa sede esattamente in tale stato e con il suddetto
contenuto: da un lato l'accertamento sul carattere dell'irreversibilità è stato già effettuato e, non essendo
stato impugnato, è divenuto definitivo e immodificabile in questo procedimento; dall'altro, occorre rinnovare
invece l'accertamento riguardante la ricostruzione della "volontà presunta" di El., in quanto impugnato
innanzi alla Suprema Corte e da questa annullato perché non correttamente svolto dalla Corte di merito.
Che l'accertamento sullo stato d'irreversibilità sia stato già effettuato, e con esame svolto pure in via
principale, si evince con estrema chiarezza dalla motivazione del decreto in data 15 novembre/16 dicembre
2006.
Preso atto della documentazione anche di natura clinica acquisita, la Corte ha ritenuto al riguardo provato,
appunto, che El. effettivamente si trovasse «in Stato Vegetativo Permanente. condizione clinica che, secondo
la scienza medica, è caratteristica di un soggetto che "ventila, in cui gli occhi possono rimanere aperti, le
pupille reagiscono, i riflessi del tronco e spinali persistono, ma non vi è alcun segno di attività psichica e di
partecipazione all'ambiente e le uniche risposte motorie riflesse consistono in una redistribuzione del tono
muscolare". Questo stato (...) è caratterizzato da un quadro prognostico di irreversibilità" (...). È accertato
che lo stato vegetativo di El. è immodificato dal 1992, è irreversibile e che la cessazione della alimentazione
a mezzo del sondino nasogastrico, richiesta dal tutore e dal curatore speciale, la condurrebbe a sicura morte
nel giro di pochissimi giorni» [N. B.: enfasi grafiche aggiunte qui ed ora].
In definitiva, l'accertamento sulla sussistenza di uno Stato Vegetativo Permanente/Irreversibile è stato
effettuato già nella precorsa fase del procedimento, in via principale e non meramente incidentale, e appare
ormai coperto da giudicato interno, o in ogni caso da un effetto preclusivo endoprocessuale di
stabilità/immodificabilità del tutto equiparabile al giudicato (dovendo solo ricordarsi a questo proposito che il
concetto di giudicato interno è più ampio di quello di giudicato esterno, perché non attiene solo ai diritti, o ai
fatti-diritti, che per di più siano oggetto solo di statuizioni di accoglimento della domanda, ma anche a tutti i
fatti semplici e a tutte le possibili questioni sostanziali e processuali che possono insorgere nel processo ed
essere oggetto di esame da parte del Giudicante con esito accertativo positivo o negativo).
Effetto, questo del giudicato o di una preclusione ad esso equivalente, nemmeno incompatibile (forse è il
caso di precisarlo, per quanto possa apparire superfluo) con la struttura formale del presente procedimento,
13
ancorché basata sul modello cd. camerale, considerata la natura della pronuncia terminativa cui il
procedimento tende: essa implica, infatti, all'evidenza, una decisione su diritti soggettivi (perdippiù
costituzionalmente garantiti, come il diritto alla vita, all'autodeterminazione terapeutica, alla libertà
personale), idonea ad assumere efficacia definitiva (sia per difetto di ulteriore impugnabilità nel merito, ma
anche - come effetto correlato all'oggettiva natura della materia trattata - a causa dell'efficacia definitiva che
sulla residua aspettativa di vita di El. non potrebbe non avere un provvedimento di autorizzazione
all'interruzione del sostegno vitale di cui è stata chiesta la pronuncia; oltre che in ragione del fatto stesso che
il ricorso straordinario per cassazione ex art. 111 Cost. sia stato ritenuto ammissibile dalla Suprema Corte,
tale ammissibilità potendo predicarsi solo in caso di impugnativa riguardante diritti, avverso una decisione
atta a divenire definitiva), sì da essere equiparabile a una sentenza in senso sostanziale.
Ciò esclude che tale accertamento, già divenuto definitivo e immodificabile, possa essere sottoposto ad una
rinnovata verifica, la quale sarebbe, prima ancora che ultronea, processualmente inammissibile.
È forse opportuno rimarcare che la sussistenza del giudicato interno è poi tanto più indiscutibile in quanto,
alla luce della motivazione contenuta nella sentenza n. 21748/2007, la medesima Suprema Corte sembra
aver dato- atto, in sostanza, del prodursi di tale effetto, ed è principio giurisprudenziale ormai ricevuto che,
quando l'interpretazione del giudicato interno possa considerarsi in tutto o in parte compiuta dalla stessa
Corte di Cassazione (nella sentenza di cassazione con rinvio), essa vincoli e condizioni, in modo irreversibile,
i poteri del Giudice di rinvio (Cass. SEZ. Un. 23 aprile 1971, n. 1175; Cass. 11 luglio 1968, n. 2433).
La Suprema Corte, infatti, ha apertamente riconosciuto come sia emerso «pacificamente dagli atti di causa
che nella indicata situazione si trova El.En. la quale giace in stato vegetativo persistente e permanente a
seguito di un grave trauma cranico-encefalico riportato a seguito di un incidente stradale (occorsole quando
era ventenne) » [N. B.: enfasi grafiche aggiunte qui ed ora].
La Suprema Corte ha anche descritto la condizione di El. come un dato di fatto obiettivo, evidenziando i
caratteri del suo Stato Vegetativo Permanente: «In ragione del suo stato, El., pur essendo in grado di
respirare spontaneamente, e pur conservando le funzioni cardiovascolari, gastrointestinali e renali, e
radicalmente incapace di vivere esperienze cognitive ed emotive, e quindi di avere alcun contatto con
l'ambiente esterno: i suoi riflessi del tronco e spinali persistono, ma non vi è in lei alcun segno di attività
psichica e di partecipazione all'ambiente, né vi è alcuna capacità di risposta comportamentale volontaria agli
stimoli sensoriali esterni (visivi. uditivi, tattili, dolorifici), le sue uniche attività motorie riflesse consistendo in
una redistribuzione del tono muscolare».
Si tratta evidentemente della presa d'atto dell'accertamento già contenuto nel predetto decreto della Corte
d'Appello, accertamento che, non essendo stato impugnato (come invece quello relativo all'impossibilità di
ricostruire la volontà di El.), non poteva che essere considerato definitivo anche dalla Suprema Corte.
Non a caso essa, per indicare in presenza di quali presupposti il Giudice possa autorizzare una scelta del
rappresentante legale dell'incapace orientata alla disattivazione del trattamento di sostegno artificiale, è
partita esplicitamente proprio dalla constatazione effettuale - basata su quanto emerso in concreto dalle
risultanze processuali del presente giudizio - che, di fatto, El. giaceva già «da moltissimi anni (nella specie,
oltre quindici) in stato vegetativo permanente, con conseguente radicale incapacità di rapportarsi al mondo
esterno».
Ora è del tutto evidente che, nel rilevare che nel caso di specie il malato - ossia El.En. - versava
concretamente in Stato Vegetativo Permanente da oltre quindici anni (al momento in cui la Cassazione ha
redatto la sua sentenza, ma ora gli anni sono già divenuti sedici e passa), la Suprema Corte ha
necessariamente riconosciuto che tale stato, prolungatosi per un lasso di tempo straordinario (comunque
ben oltre il termine di dodici mesi riconosciuto idoneo, statisticamente e scientificamente, per formulare una
prognosi di irreversibilità secondo le indicazioni e gli studi internazionali di cui s'è detto), nei caso di El. è
diventato, appunto, definitivo e come tale non più soggetto a regressione o a guarigione, anche solo parziali,
l'aggettivo "Permanente" - certamente utilizzato dalla Suprema Corte con piena consapevolezza del dato
scientifico - equivalendo, come si è visto, all'aggettivo Irreversibile" (che a sua volta, per definizione, esprime
un significato di immodificabilità/irrecuperabilità/inguaribilità di carattere assoluto, escludendo, per ciò
14
stesso, la benché minima possibilità di un qualche, sia pure flebile, recupero della coscienza e di ritorno ad
una percezione del mondo esterno", che, se fossero possibili, contraddirebbero in re ipsa la nozione di
irreversibilità).
Sarebbe dunque anche logicamente contraddittorio, in via consequenziale, oltre che contrario all'intervenuto
effetto sostanziale e processuale di giudicato (o a quello analogo di stabilità/preclusione comunque
prodottosi), ipotizzare ora che un tale presupposto - l'irreversibilità - possa non più sussistere.
Sul che sembra peraltro aver concordato lo stesso Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore
Generale intervenuto in causa, visto che, pur concludendo per il rigetto del reclamo - com'era ovviamente
suo pieno diritto in virtù della personale valutazione delle risultanze processuali che era chiamato ad
esprimere -, ha comunque riconosciuto nel suo parere conclusivo che «in base alle conoscenze mediche El.
si trova in condizione di Stato Vegetativo Permanente, non essendosi evoluto lo stato di coma derivato dalle
lesioni riportate nel sinistro automobilistico da lei subito nel gennaio 1992» [N. B.: enfasi grafica aggiunta
qui ed ora], conclusione sulla quale questo Collegio giudicante non avrebbe potuto comunque che
concordare, alla luce degli elementi conoscitivi acquisiti, anche nel caso in cui, se il giudicato non avesse
avuto modo di formarsi, fosse stato chiamato ad esprimere ex novo il giudizio già anteriormente espresso
dalla medesima Corte d'Appello, in quanto meritevole senza dubbio, in fatto, di essere condiviso.
Infine, non può non rimarcarsi ancora che la Suprema Corte, una volta ricostruito il principio di diritto da
applicare al caso, ha espressamente cassato il decreto emesso dalla Sezione "Persone Minori e Famiglia" di
questa Corte solo con riferimento al mancato accertamento circa la sussistenza della seconda condizione,
quella di carattere soggettivo, riguardante la ricostruzione della "volontà presunta" di El., attribuendo ad
altra designanda Sezione della medesima Corte territoriale il compito di svolgere appunto (soltanto) tale
residuo accertamento.
La Suprema Corte, infatti, alla stregua del limitativo e specifico contenuto delle impugnative proposte da
tutore e curatrice speciale, ha esclusivamente sanzionato il fatto che i Giudici della Corte di merito, pur preso
atto delle convinzioni e dichiarazioni a suo tempo espresse da El., così come emerse in istruttoria, non
abbiano «affatto verificato se tali dichiarazioni - della cui attendibilità non hanno peraltro dubitato -, ritenute
inidonee a configurarsi come un testamento di vita, valessero comunque a delineare, unitamente alle altre
risultanze dell'istruttoria, la personalità di El. e il suo modo di concepire, prima di cadere in stato di
incoscienza, l'idea stessa di dignità della persona».
Ha quindi concluso, la Suprema Corte, che (proprio) «tale accertamento dovrà essere effettuato dal giudice
del rinvio».
Tutto ciò autorizza pertanto, senza altri residui dubbi, a procedere con carattere di novità alla sola indagine
riguardante l'unico punto di fatto relativamente al quale la sentenza rescindente della Suprema Corte ha
mostrato di voler disporre il rinvio all'attuale giudizio rescissorio: quello riguardante la ricostruzione della
"volontà presunta" di El.3. Opportunità e doverosità di un'indagine incidentale e preliminare sull'eventuale
sussistenza di plausibili dubbi di legittimità costituzionale del principio di diritto enunciato dalla Suprema
Corte.
Reputa peraltro questa Corte di non potersi considerare esentata, prima di concentrarsi su tale aspetto, dallo
svolgere ancora un'ulteriore indagine di carattere preliminare ed incidentale.
Tale esigenza trae causa dal fatto che, poco tempo dopo l'emanazione della sentenza n. 21748/2007, la
Suprema Corte, con un'altra pronuncia ampiamente motivata (Cass. 21 dicembre 2007, n. 27082),
abbandonando un suo precedente indirizzo propugnato in apparente contrasto con quello della Corte
Costituzionale, ha compiuto un deciso revirement riguardo alla questione circa il se, il Giudice di rinvio, possa
rilevare profili di sospetta incostituzionalità del principio di diritto che, a seguito di sentenze di cassazione
con rinvio, egli sia tenuto ad applicare.
Ha in particolare ritenuto che il principio di diritto, almeno nei casi e nei limiti in cui la Corte di Cassazione sia
pervenuta ad affermarlo senza esaminare esplicitamente specifici profili della sua conformità alla
15
Costituzione, dovrebbe ritenersi pur esso ancora soggetto ad un autonomo controllo di costituzionalità da
parte del Giudice di rinvio.
Questa, appunto, è sempre stata l'interpretazione della Corte costituzionale, secondo la quale la contraria
interpretazione si porrebbe-in contrasto «con il chiaro disposto della Legge Cosi. n. 1 del 1948, art. 1 e L n.
87 del 1953, art. 23, secondo cui tali questioni possono essere sollevate nel corso del giudizio, senza alcuna
specifica limitazione (...) altrimenti, la Corte costituzionale non potrebbe pronunciarsi sulle questioni di
legittimità costituzionale relative a norme che devono ancora ricevere applicazione nella fase di rinvio, con
conseguente violazione della disposizione costituzionale sopra indicata" (Corte cost. nn. 138/1977, 11/1981,
21/1982, 2/1987, 345/1987, 30/1990, 138/1993, 257/1994, 321/1995, 58/1995, 78/2007).
Il contrastante indirizzo della Suprema Corte sul punto (secondo cui invece non sarebbe stato possibile
effettuare tale accertamento nel giudizio rescissorio di rinvio, benché il principio di diritto altro non sia che il
sostanziarsi di una norma di legge ordinaria, come tale soggetta a valutazione incidentale di legittimità
costituzionale da parte del Giudice chiamato a farne applicazione) risulta dunque ora - e almeno per il
momento - superato in forza della sopra citata pronuncia n. 27082 del dicembre 2007, con la conseguenza
che anche questa Corte d Appello, nella presente sede, non solo ha la possibilità/facoltà, ma ancor prima il
dovere, di valutare, anche ex officio (tanto più in ragione dei molti commenti, anche critici sul piano della
legittimità costituzionale, che si sono registrati dopo la pronuncia di cassazione con rinvio in oggetto, della
grande delicatezza del tema trattato e dell'enorme importanza degli interessi e dei valori coinvolti), se il
principio di diritto enunciato dalla Suprema Corte - in mancanza peraltro, fino ad oggi, di uno jus
superveniens di segno contrario rispetto ad esso - non si ponga in eventuale contrasto con norme di rango
costituzionale, non risultando svolta da essa alcuna indagine in tal senso, o, comunque, nella parte in cui
non ha svolto esplicitamente una siffatta indagine.
La quale può proporsi, virtualmente, con riferimento ad entrambi i punti problematici principali del
ragionamento sviluppato dalla Suprema Corte: quello del fondamento del diritto di scelta terapeutica che
viene esercitato dall'incapace, attraverso il proprio tutore, rifiutando il trattamento di sostegno alimentare
forzato; e quello dei limiti - ritenuti coessenziali ("connaturati") - all'espressione di tale opzione volitiva da
parte del tutore.
Indagine il cui esito, tuttavia, sembra non poter essere che negativo.
Quanto, infatti, al primo punto del ragionamento giuridico sviluppato dalla Suprema Corte, è davvero poco
plausibile ipotizzare un qualunque tipo di eventuale contrasto con principi costituzionali, se non altro perché
la premessa maggiore da cui muove il suo argomentare a sostegno del pieno diritto di autodeterminazione
terapeutica del malato, anche se incapace, si racchiude nella - in effetti ineccepibile -valorizzazione, sul piano
giuridico, della preminenza della persona umana e della sua potestà di autodeterminazione terapeutica, che
hanno un diretto fondamento normativo proprio in norme di rango costituzionale (artt. 2, 3, 13 e 32 della
Costituzione).
Il valore-uomo (nei suo essere "dato" e nel suo essere "presupposto" come "valore etico in sé") non viene
disgiunto dalla Suprema Corte, nella sua lettura delle norme costituzionali (ma com'è del resto congruente
anche in senso logico nel rapporto tra soggetto e suoi predicati giuridici), dagli stessi diritti che l'ordinamento
costituzionale repubblicano gli riconosce.
Tale correlazione si esprime anche rispetto al diritto alla salute e alla vita; chiarimento, questo, certo non
nuovo, per quanto di copernicana importanza nell'interpretazione dell'art. 2 della Costituzione, che è norma
fondazionale - nel nostro ordinamento - del riconoscimento dei diritti inviolabili dell'uomo, e chiarissima nel
riferire tali diritti, appunto, all'uomo, quali predicati del soggetto-titolare cui essi appartengono.
La Suprema Corte ha voluto dunque eliminare ogni possibile fraintendimento, respingendo la contraria
concezione che considera il diritto alla salute o alla vita, in certo senso, come un'entità esterna all'uomo, che
possa imporsi, in questa sua oggettivata, ipostatizzata autonomia, anche contro e a dispetto della volontà
dell'uomo.
16
Laddove, in particolare, la Suprema Corte ha posto in evidenza che la prosecuzione della vita non può essere
imposta a nessun malato, mediante trattamenti artificiali, quando il malato stesso liberamente decida di
rifiutarli, nemmeno quando il malato versi in stato di assoluta incapacità, ha prospettato un'interpretazione
che appare in effetti in grado di attuare, più che di contrastare, il principio di uguaglianza nei diritti di cui
all'art. 3 della Costituzione, che evidentemente non va riguardato solo nella finalità di assicurare sostegno
materiale agli individui più deboli o in difficoltà, come gli incapaci, ma anche in quella di rendere possibile la
libera espressione della loro personalità, della loro dignità e dei loro valori.
E tale diritto non può che - necessariamente - esprimersi attraverso la mediazione di "qualcun altro", nella
specie non irragionevolmente individuato in un legale rappresentante (peraltro 'istituzionale"), ossia il tutore
o l'amministratore di sostegno, giacché, se non vi fosse nessun "mediatore" abilitato ad esprimere la "voce"
del malato-incapace, non potrebbe neppure attuarsi, per definizione, quel diritto "personalissimo"
all'autodeterminazione terapeutica che pure non può non essergli riconosciuto.
Risulta altresì ben chiaro come l'orientamento della Suprema Corte non avalli comunque l'esistenza di un
diritto assoluto di morire (inteso come negazione o contraddizione del diritto di vivere), ma si limiti a
riconoscere l'esistenza di un diritto, di matrice costituzionale - ma che prima ancora incarna la necessità di
assecondare un inevitabile destino biologico - a lasciare che la vita segua il suo corso "naturale" fino alla
morte senza interventi "artificiali" esterni quando essi siano più dannosi che utili per il malato, o non
proporzionati, né da lui tollerabili; senza potersi confondere tale diritto, dunque, con quello, certamente fino
ad oggi non riconosciuto dal nostro ordinamento, di eutanasia.
Ma da ciò la conseguenza che, paradossalmente, eventuali profili di disformità costituzionale potrebbero
tutt'al più ipotizzarsi, sia pure solo in astratto, non già in rapporto al riconoscimento del diritto di
autodeterminazione terapeutica anche in favore del malato incapace, ma semmai, piuttosto, con riferimento
alle condizioni limitative poste dalla Suprema Corte all'esercizio del diritto stesso da parte del tutore per
conto di lui, in quanto potenzialmente idonee a far emergere, appunto, un disparitario trattamento in danno
del malato incapace (rispetto a quello pienamente capace e cosciente), in violazione dell'art. 3 della
Costituzione appena citato.
Sennonché, nemmeno in tal caso un dubbio di costituzionalità ha motivo di porsi plausibilmente in concreto,
almeno a giudizio di questo Collegio giudicante, e nei limiti consentiti da una mera delibazione incidentale e
sommaria, potendo al più ravvisarsi, nel pronunciamento della Suprema Corte, un semplice parziale difetto di
enunciazione dei fondamenti logici atti a giustificare l'operare delle condizioni limitative da essa dettate
(fondamenti logici che però, come ora si dirà, appaiono comunque enucleabili proprio in quanto le dette
condizioni limitative sono state considerate dalla Suprema Corte come "connaturate" alla necessità di far
capo alla volontà dell'incapace), e non un difetto di conformità a parametri costituzionali.
Così, dove la Suprema Corte ha ritenuto che l'opzione del tutore orientata al rifiuto del trattamento medico
non sia del tutto libera, ma debba comunque essere espressione del reale sentire e della "voce" dell'incapace
da ricostruire in via presuntiva, essa ha sì posto una condizione limitativa, senza peraltro aver modo di
esplicitarne in modo più esteso il fondamento logico di carattere generale (e nemmeno normativo, questo
non apparendo del tutto surrogabile, forse, con il richiamo, apparentemente analogico, all'art. 5 del D.Lgs. n.
211 del 2003, a tenore del quale il consenso del rappresentante legale alla sperimentazione clinica - dunque
rispetto ad una ipotesi del tutto speciale - deve corrispondere alla "presunta volontà" dell'adulto incapace),
ma pur sempre una condizione che si muove all'interno della sfera logica del principio di libera
autodeterminazione terapeutica del malato, poiché mira in effetti solo a ricostruire compiutamente proprio
quella volontà del soggetto incapace senza la quale non potrebbe per definizione realizzarsi il suo diritto di
autodeterminazione.
Si tratta quindi, in effetti, di un limite di natura logica coessenziale all'espressione del diritto "personalissimo"
(come precisa la Suprema Corte, ponendolo in connessione con i limiti nascenti dalla "funzionalizzazione del
potere di rappresentanza") di autodeterminazione volitiva orientata al rifiuto del trattamento, e dunque
all'interno di quella tutela di tale diritto basata sulle norme costituzionali sopra citate. In tal senso, il suddetto
limite non sembra dunque porsi specificamente in contrasto con il principio di uguaglianza, ma piuttosto
realizzarlo.
17
Parimenti, ove si è ritenuto che solo il carattere irreversibile dello stato vegetativo del malato possa in via di
principio conferire legittimità al rifiuto del tutore al trattamento, anche in tal caso la condizione limitativa
sembra muoversi sempre all'interno della sfera logica dell'autodeterminazione.
La Suprema Corte non ha avuto modo di motivare con ampiezza neppure il fondamento logico di tale
condizione limitativa, ma è ragionevole ritenere che essa si sia mossa partendo dall'implicito, ma evidente
presupposto che, se il tutore potesse esprimere una volontà orientata al rifiuto anche in caso di patologia
reversibile, come si è ritenuto che possa fare motu proprio un malato non incapace (dal che l'eventuale
dubbio di trattamento diseguale), finirebbe per privare il malato, nella prospettiva di un recupero delle sue
facoltà psichiche (reso possibile appunto dal carattere reversibile della patologia), della potestà di esprimersi
un domani lui stesso, direttamente e personalmente, in merito a tale scelta; privazione, questa, che finirebbe
per contraddire logicamente proprio quel diritto di autodeterminazione terapeutica del malato che trae
fondamento dagli artt. 2, 3, 13 e 32 della Costituzione (e proprio per questo motivo tale diritto potrebbe
tradursi invece, senza indegradati residui, in una valida espressione di volontà del tutore in caso di
un'incapacità patologica del malato che, in quanto irreversibile, escluda in re ipsa la possibilità di un futuro
ripristino della sua possibilità di determinazione volitiva).
In tal caso, perciò, l'estrapolazione della condizione di irreversibilità della patologia che determina il diverso
modo di operare della volontà a seconda che il malato sia o meno capace di esprimerla validamente e
direttamente al fine dell'interruzione delle cure mediche, non sembra tradursi affatto in un'ipotesi di
discriminazione ingiustificata; la quale, peraltro, nemmeno avrebbe rilevanza nel presente giudizio ai fini del
decidere, considerato che, come si è visto, nel caso di specie effettivamente sussiste, in base ad un già
effettuato e definitivo apprezzamento di fatto, secondo l'accertamento compiuto nella pregressa fase dei
procedimento, appunto quel carattere della permanenza/irreversibilità dello stato vegetativo in cui versa
l'incapace, che la Suprema Corte ha considerato imprescindibile.
Resta infine da rilevare che un plausibile dubbio» di eventuale disformità costituzionale per disparità di
trattamento non ha modo di porsi nemmeno con riferimento all'ultimo e più generale profilo, enuclearle - allo
stato attuale del dibattito giuridico - ai fini di tale indagine: quello attinente, cioè, al ribaltamento di
prospettiva cui sembra dar luogo il principio di diritto enunciato dalla Suprema Corte laddove essa ha
prospettato che, mentre per il malato capace di esprimersi, sempre e soltanto la prestazione di un valido
consenso informato al trattamento medico possa legittimare quest'ultimo; al contrario, per il malato
incapace, il trattamento sia da considerare di per sé legittimo, salvo motivato e valido rifiuto del tutore alla
sua erogazione (e sempre che risulti espresso conformemente alle richiamate condizioni limitative).
Tale distinzione risponde, infatti, proprio all'evidente diversità di situazione oggettiva che accompagna chi
cada non già in una qualunque situazione di incapacità, più o meno totale e più o meno transitoria, ma solo
chi cada in quella del tutto speciale condizione-limite definibile Stato Vegetativo Permanente.
Ove sopravvenga tale stato, il trattamento di sostegno alimentare forzato non può che autolegittimarsi
sempre, nell'immediatezza, anche in mancanza di esplicito consenso, e non solo per un elementare principio
di precauzione, ma ancor prima per il suo carattere di cura medica doverosa sin dall'inizio, in quanto
finalizzata al rispetto del diritto alla vita del malato incapace.
Ma, proprio per questo, la legittimità del trattamento non può venir meno sic et simpliciter successivamente,
almeno fino al momento in cui non sopravvenga una valida espressione di volontà contraria del tutore (nei
termini e secondo i requisiti già detti) o altra giusta causa legalmente riconosciuta come idonea a
determinare la cessazione della terapia.
La possibilità di considerare legittima una richiesta del tutore volta all'interruzione del trattamento di
sostegno vitale non può essere poi esclusa (nemmeno ora che una disciplina legislativa specifica non è stata
ancora emanata su tale problematica) neppure nei casi in cui sia di fatto impossibile ricostruire una volontà
presunta dell'incapace orientata al rifiuto del trattamento (ipotesi di impossibilità - di esperire un substituted
judgment di carattere soggettivo/volontaristico - rispetto alla quale potrebbe in effetti apparire
ingiustamente sfornito di tutela il diritto alla dignità individuale del malato incapace, da un lato non
potendosi affermare, ma neppure escludere, che egli sarebbe stato contrario al trattamento, e dall'altro
18
correndo egli il rischio di restare indefinitivamente esposto a trattamenti che potrebbero anche essere -prima
ancora che per soggettiva opinione - obiettivamente degradanti), anche se tale soluzione potrebbe sembrare
a prima vista incoerente con l'opinione della Suprema Corte, laddove questa, ad oggettiva confutazione della
contraria prospettazione del tutore, ha ritenuto che non sia ravvisabile nel trattamento alimentare forzato
con sondino naso-gastrico una forma di accanimento terapeutico in sé, dando così adito alla possibilità di
inferirne che l'interruzione del trattamento stesso non potrebbe mai considerarsi come il "best interest" del
malato incapace.
Il convincimento espresso dal S. Collegio circa la non configurabilità oggettiva di un'ipotesi di accanimento
terapeutico sembra infatti prospettato e riguardare solo, nella concreta situazione esaminata (e dunque sulla
base, in apparenza, di un apprezzamento più di fatto, che di natura nomofilattica), la specifica terapia
costituita dall'alimentazione con sondino naso-gastrico erogata ad una malata in condizioni di riceverla senza
particolare difficoltà o intolleranza fisica, e non qualunque altro genere di trattamento medico di sostegno
vitale che risultasse pure in concreto praticato con carattere intollerabilmente invasivo e secondo le mutevoli
prassi operative della scienza medica (peraltro soggette ad evolversi anche in tale ambito).
Vero è che tale convincimento sembra poi essersi riflesso in senso restrittivo nell'enunciazione del principio di
diritto (poiché questo risulta perentoriamente formulato come se non vi fosse mai spazio per un giudizio di
sproporzionalità oggettiva della cura quando non fosse possibile ricostruire la volontà presunta del malato
incapace); tuttavia, siccome il principio enunciato può vincolare solo questo Giudice nel presente giudizio e
solo in relazione alla ritenuta non sproporzionalità della specifica terapia di alimentazione forzata che le parti
ricorrenti in cassazione avevano considerato e chiesto di considerare come accanimento terapeutico
(appunto l'alimentazione/idratazione forzata con sondino naso-gastrico erogata ad El.), è lecito inferirne che
la forma espressiva utilizzata dalla Suprema Corte per formulare il detto principio vada al di là delle sue
stesse intenzioni, e che nulla comunque impedisca di ritenere che il tutore possa adire l'Autorità Giudiziaria
quando, pur non essendo in grado di ricostruire il pregresso quadro personologico del rappresentato
incapace che si trovi in Stato Vegetativo Permanente, comunque ritenga, e riesca a dimostrare che, il
(diverso) trattamento medico in concreto erogato sia oggettivamente contrario alla dignità di qualunque
uomo e quindi anche di qualunque malato incapace, o che sia aliunde non proporzionato, e come tale una
forma di non consentito accanimento terapeutico, e quindi un trattamento in ogni caso contrario al "best
interest" del rappresentato, quale criterio, quest'ultimo, da utilizzare come dirimente fattore diacritico in via
surrogatoria per una decisione di interruzione del trattamento.
Da un lato, infatti, se si esamina l'intera motivazione, emerge come la Suprema Corte abbia comunque fatto
salvo il ricorso al criterio generale del "best interest", il quale, è appena il caso di notarlo, avendo sempre
come referente l'utilità del malato, non può restare confinato in senso meramente soggettivistico solo
nell'area di un'indagine riguardante la volontà/personalità.
Dall'altro, poi, il riferimento alla specifica tipologia del trattamento di sostegno alimentare sembra assumere,
nell'enunciato principio di diritto, ed alla stregua del valore attribuito all'indagine sulla volontà presunta
dell'incapace, un rilievo logicamente secondario: la Suprema Corte, infatti, si preoccupa sì di chiarire che
l'alimentazione forzata non è una forma di accanimento terapeutico, ma richiede al Giudice dì rinvio, prima
ancora di accertare se El. avrebbe o meno accettato tale trattamento in particolare, di valutare piuttosto se,
in ragione delle sue concezioni di vita e in ispecie di dignità della vita, lei avrebbe comunque accettato o
meno di sopravvivere in una condizione di totale menomazione fisio-psichica e senza più la possibilità di
recuperare le sue funzioni percettive e cognitive.
Pertanto, con il principio di diritto in esame, la Suprema Corte sembra essersi peritata più di rimarcare
questo rapporto logico, che di escludere in via di principio, e con riferimento ad ogni altra ipotesi, il rilievo
che potrebbe assumere il carattere oggettivamente degradante o sproporzionato di un singolo trattamento di
sostegno vitale (non a caso, del resto, la stessa Suprema Corte ha evidenziato che, finanche quando tale
trattamento ancora consista nell'alimentazione indotta con sondino naso-gastrico, la quale, di norma, non
dovrebbe considerarsi, secondo la sua opinione, una forma di accanimento terapeutico, essa può non
dimeno assumere tale connotazione in alcune particolari situazioni, a loro volta indicate dalla Suprema Corte,
ma chiaramente soltanto a titolo esemplificativo, con riferimento ai due casi in cui, nell'imminenza della
morte: a) l'organismo non sia più in grado di assimilare le sostanze fornite; b) oppure sopraggiunga uno
19
stato di intolleranza, clinicamente rilevabile, collegato alla particolare forma di alimentazione; si tratta
peraltro di casi - per quanto controversi - riportati anche nella sopra citata Relazione redatta dal Gruppo di
esperti del Ministero della Sanità, e si suppone che, ove tali casi ricorrano, possa farsi luogo ad un
provvedimento di autorizzazione all'interruzione del trattamento anche se manchi la possibilità di ricostruire
la volontà presunta dell'incapace).
Ne consegue il superamento del rischio di ravvisare un vuoto di tutela ingiustificato del malato incapace
(potenzialmente tale da concretare una lesione al paradigma di cui all'art. 3 della Costituzione) nei casi in cui
sia impossibile ricostruire una sua volontà presunta chiaramente rivolta al rifiuto del trattamento, almeno se,
ed in quanto, l'opinione della Suprema Corte venga recepita, come sembra più corretto, nei termini appena
indicati, e dunque con interpretazione coerente rispetto al suo dictum e anche costituzionalmente orientata.
Nessun particolare dubbio sul piano della disformità costituzionale sembra porre, infine, l'enunciazione del
principio di diritto laddove, in forza del ragionamento della Suprema Corte, deve ritenersi ormai accertato sulla base di un'interpretazione che, se non propriamente di natura nomofilattica, comunque rende non più
controversa la questione nel presente giudizio ai fini del decidere - che l'alimentazione/idratazione artificiale
con sondino naso-gastrico sia un trattamento di natura medica, giusta la specificazione con cui la Suprema
Corte ha ritenuto di dover confutare la contraria opinione espressa in proposito dalla Sezione "Persone Minori
e Famiglia" di questa Corte d'Appello nel decreto emesso all'esito della precedente fase processuale.
Su tale aspetto, si tratta solo di prendere francamente atto che l'accertamento della Suprema Corte fa stato
in questa sede, e non può quindi essere revisionato.
Per il che, non potendo ormai più individuarsi alcun ostacolo atto ad impedirlo, deve infine procedersi a
trattare del profilo tematico riguardante la corrispondenza alla presunta volontà di El. della richiesta di
autorizzazione del tutore orientata al rifiuto del trattamento di sostegno vitale.
4. Il residuo accertamento demandato al Giudice di rinvio: valutazione in ordine all'attendibilità della
ricostruzione effettuata dal tutore sulla "volontà presunta" di El. orientata al rifiuto del trattamento di
sostegno vitale. Parametri di riferimento cui attenersi ai fini dell'apprezzamento di fatto.
Al riguardo, peraltro, tre elementi di giudizio contenuti nella motivazione della sentenza n. 21748/2007 ed un
altro contenuto nel decreto di questa Corte in data 15 novembre/16 dicembre 2006 rendono almeno in parte
già compiuta tale indagine, il che allevia non poco la responsabilità del decidere che compete a questo
Collegio giudicante. La Suprema Corte, infatti, proprio nello specificare la condizione consistente nella
necessità di ricostruire la volontà presunta, ha puntualizzato (v. paragrafo 9 della sentenza) :
a) che nell'indagine istruttoria già svolta nella pregressa fase del procedimento è stato "appurato, per testi,
che El., esprimendosi su una situazione prossima a quella in cui ella stessa sarebbe venuta, poi, a trovarsi,
aveva manifestato l'opinione che sarebbe stato per lei preferibile morire piuttosto che vivere artificialmente
in una situazione di coma";b) che in tal modo sono stati acquisiti convincimenti e dichiarazioni di El. "della
cui attendibilità [leggasi: "i Giudici della Corte d'Appello] non hanno peraltro dubitato"]
c) che l'accertamento demandato ai Giudici del rinvio va da essi effettuato tenendo conto di tutti gli elementi
emersi dall'istruttoria, compresa la "convergente posizione assunta dalle parti in giudizio (tutore e curatore
speciale) nella ricostruzione della personalità della ragazza".
Alla luce di tale triplice puntualizzazione, costituente presupposto - e quindi per ciò stesso parte connotativa
e costitutiva - del principio di diritto posto a base della pronuncia di cassazione con rinvio, deve ritenersi
dunque già "appurato, per testi, che El. (...) aveva manifestato l'opinione che sarebbe stato per lei preferibile
morire piuttosto che vivere artificialmente in una situazione di coma"; che comunque sulle idee e sulle
dichiarazioni espresse da El. a tale riguardo è stato già espresso un giudizio orientato a considerarle
indubitabilmente attendibili; e che ai fini della conclusiva valutazione circa la conformità dell'interpretazione
data dal tutore in ordine alla presunta volontà di El. assume rilievo anche la circostanza che la curatrice
speciale abbia in effetti completamente confermato e avallato tale interpretazione, aderendo in tutto e per
tutto alle allegazioni e alle istanze del tutore.
20
Quanto ai decreto di questa Corte in data 15 novembre/16 dicembre 2006, ivi risulta affermato, con
riferimento alle testimonianze rese dalle amiche di El., che il relativo contenuto, «benché sia indicativo della
personalità di El. caratterizzata da un forte senso di indipendenza, intollerante delle regole e degli schemi,
amante della libertà e della vita dinamica, molto ferma nelle sue convinzioni, non può essere tuttavia
utilizzato al fine di evincere una volontà sicura della stessa contraria alla prosecuzione delle cure e dei
trattamenti che attualmente la tengono in vita».
Come si è detto, la Suprema Corte ha considerato erronea la conclusione di tale ragionamento, ma non la
sua premessa valutativa, che pertanto assume anch'essa in questa fase del procedimento il significato di un
apprezzamento di fatto non più controverso, nel senso che le prove testimoniali assunte sono state già
considerate "indicative della personalità di El. caratterizzata da un forte senso di indipendenza, intollerante
delle regole e degli schemi, amante della libertà e della vita dinamica, molto ferma nelle sue convinzioni".
Può allora ritenersi che, anche in tal caso, anche all'interno dello specifico accertamento riguardante la
"volontà presunta", il giudizio di fatto demandato a questa Corte sia alquanto più ristretto di quanto non
appaia ad una prima sommaria lettura del principio di diritto enunciato dal Supremo Collegio.
Ad ogni modo può essere utile ricordare che tale giudizio, secondo il principio enunciato dal Supremo
Collegio, deve intendersi finalizzato in generale ad accertare complessivamente (comprese cioè le predette
circostanze già appurate) :
1) quale sia - nei suoi aspetti essenziali - la ricostruzione effettuata dal tutore in ordine alla presunta volontà
di El.;
2) se tale ricostruzione, laddove suppone che la decisione ipotetica che El. avrebbe assunto ove fosse stata
capace sarebbe stata quella del rifiuto del trattamento di sostegno vitale, possa considerarsi attendibile e
non quindi espressione del giudizio sulla qualità della vita proprio del rappresentante, né in alcun modo
condizionata dalla particolare gravosità della situazione;
3) se la ricostruzione della volontà ipotetica abbia riscontro nei vari elementi conoscitivi emersi
dall'istruttoria, che devono connotarsi come elementi di prova chiari, univoci e convincenti;
4) se e in che misura la curatrice speciale abbia assunto una posizione convergente con quella del tutore;
5) se la ricostruzione effettuata dal tutore e riscontrata con gli elementi di prova sopra indicati tenga conto,
con riferimento al passato di El.:
5a) della sua personalità;
5b) della sua identità complessiva;
5c) del suo stile di vita e del carattere della sua vita;
5d) del suo senso dell'integrità;
5e) dei suoi interessi critici e di esperienza;
5f) dei suoi desideri;
5g) delle sue precedenti dichiarazioni;
5h) del suo modo di concepire l'idea di dignità della persona (alla luce dei suoi valori di riferimento e dei
convincimenti etici, religiosi, culturali e filosofici che orientavano le sue determinazioni volitive).
4.1. Aspetti salienti della ricostruzione effettuata dal tutore in ordine alla "volontà presunta" di El.;
convergente posizione della curatrice speciale.
Cominciando dal primo aspetto, quello riguardante il contenuto della ricostruzione della volontà di El.
effettuata dal tutore, ne costituiscono fonte sia i molteplici scritti difensivi, sia alcune specifiche dichiarazioni
rese in alcuni documenti, sia le dichiarazioni raccolte a verbale in sede di interrogatorio.
Questa Corte ha infatti ritenuto opportuno interrogare direttamente e nuovamente il Sig. En. nel corso
dell'udienza camerale odierna, ponendogli molteplici domande e richieste di chiarimento, nella convinzione
non solo che l'istruttoria, in questa fase rescissoria del procedimento, per la parte ancora oggetto di giudizio,
21
dovesse estendersi - per quanto possibile - a recepire ogni ulteriore ed utile elemento informativo oltre alle
prove già acquisite, ma anche che parte della valutazione di credibilità della ricostruzione offerta dal tutore
dipendesse anche dal modo in cui egli fosse riuscito oralmente ad esporre di persona, e convincentemente,
le esperienze e le convinzioni di vita di El. ed esposto di persona le ragioni della sua istanza di autorizzazione
all'interruzione del trattamento.
In questa occasione il Sig. En. ha fornito una rappresentazione globale della personalità di El., che, a questo
Collegio giudicante, è parsa lucida e precisa, pienamente in linea con il quadro personologico tratteggiato già
nei precedenti scritti difensivi.
Egli ha in particolare raffigurato - anche con l'ausilio del riferimento a specifici episodi - una ragazza dalla
precoce ed acuta intelligenza e dalla vibrante sensibilità, responsabile, indipendente, estranea a qualunque
compromesso o ipocrisia, piena di voglia di vivere con intensità la sua vita, franca ed aperta alle esperienze
con gli altri, con la voglia di viaggiare e vedere il mondo, un autentico "purosangue della libertà" (questa la
definizione datane dai genitori anche in una congiunta dichiarazione scritta recante la data del 15.12.2005).
Ha ricordato - tra gli episodi più sintomatici della precocità di El. - che, già quando non aveva ancora
compiuto dieci anni, era riuscita a colpire e carpire, durante una lunga passeggiata, l'attenzione del suo
anziano nonno (imprenditore e insegnante in una scuola tecnica, e certamente in grado di dare un giudizio
culturalmente adeguato) per come aveva dialogato con lui su argomenti riguardanti in generale la vita e la
morte, lasciando sorpreso il nonno di tanta già acquisita maturità di pensiero e del suo manifestarsi come
"spirito libero".
Ha detto di essere stato sempre impressionato proprio dall'intensità della voglia di libertà di El., che
mostrava "di voler essere a tal punto libera e responsabile da reagire con forza in qualunque occasione le
stesse sembrando che gli altri la forzassero a fare o a dire qualcosa" contro la sua volontà.
A questo riguardo ha anche menzionato - tra gli altri - un ulteriore episodio particolarmente significativo,
accaduto quando El. aveva circa tredici anni, allorché, trovandosi in vacanza al mare ("lei adorava il mare"),
reagì in maniera "sorprendentemente intensa" alla proibizione impostale dal padre di non uscire di casa oltre
una certa ora: cominciò a sudare tanto profusamente che la norma, presente alla scena, preoccupata di
questo tipo di reazione, "fulminò il padre con lo sguardo" affinché recedesse dalla sua imposizione.
Nel riferire di tali ed altri particolari episodi, peraltro, è bene sottolineare che il Sig. En. non ha mostrato di
voler trarre da essi alcuna conclusione generale sul piano della correttezza comportamentale di El., né di
voler farsi vanto del modo di agire "ribelle" di El., ma ha mostrato solo di voler dare un quadro quanto più
verace possibile della personalità "indipendente" della figlia e delle sue convinzioni di vita, che egli si sente,
in sostanza, "vincolato" a rispettare e far rispettare in una situazione in cui El. non è più in grado di farlo da
sola.
In quest'ordine di idee il Sig. En. ha posto in luce anche lo stato di disagio e di sofferenza che ha
accompagnato una parte dell'esperienza scolastica di El., quella riguardante i cinque anni trascorsi, dopo
aver frequentato la scuola pubblica fino alla terza media, presso un liceo linguistico privato gestito da suore
nella sua città di residenza (liceo che - a suo dire - si era trovata "costretta" a frequentare, perché non vi era
in loco altro liceo linguistico pubblico, e non per particolari motivazioni religiose, in quanto El. non era una
cattolica praticante, ma anzi piuttosto ribelle alle regole che una qualunque istituzione pretendesse di
imporle dall'alto), essendosi dovuta adattare ad un contesto ambientale e ad un corpo docente che, nel
giudizio di El., sarebbero stati del tutto refrattari al confronto e ai dialogo, mentre lei considerava questi
ultimi di essenziale importanza.
Tale esperienza le avrebbe creato una così forte crisi di rigetto e di insofferenza da indurla a cercare, dopo i
primi tre anni di frequenza, di transitare ancora alla scuola pubblica, ma trovandosi ancora impedita a farlo
perché il liceo linguistico pubblico nel frattempo istituito non prevedeva ancora i corsi per la quarta e la
quinta classe.
Ha evidenziato il Sig. En. che nemmeno la successiva iscrizione di El. al corso di laurea in Giurisprudenza
22
presso l'Università Statale di Milano, pur fatta per sua libera scelta, riuscì ad appagarne l'inquieto spirito,
tanto che, desiderosa di intraprendere poi una carriera che le potesse permettere di viaggiare il più possibile
e di valorizzare al massimo le sue abilità linguistiche in modo da moltiplicare le sue possibilità di avere
scambi e contatti con gli altri, mutò successivamente indirizzo di studi passando a frequentare una facoltà
linguistica di tipo turistico-manageriale; segno anche questo, a detta del padre, della sua "irrefrenabile
esplosività", che non le consentiva di "appagarsi se non attraverso un continuo confronto, libero e profondo,
con tutte le esperienze della vita".
Questo modo di intendere la vita è stato ritenuto dal Sig. En. del tutto inconciliabile con l'attuale condizione
di El. e con le scelte che lei avrebbe verosimilmente fatto se avesse potuto decidere.
A conferma di tale convincimento sono stati fatti anche altri riferimenti, che risultano poi ancor più profusi
negli scritti difensivi, in ordine alle reazioni manifestate da El. con specifico riferimento ad eventi tragici che
avevano determinato il coma, o comunque condizioni di assoluta incapacità di locomozione o di percezione,
di amici suoi o di personaggi noti (come lo sciatore Le.Da. della Nazionale azzurra, la cui analoga tragedia,
sfociata, dopo vari anni di "coma" - come si affermava genericamente all'epoca - nella morte avvenuta nel
1985, secondo quanto è stato riferito dal Sig. En. in udienza anche con memoria del riferimento temporale,
sarebbe stata pure molto commentata da El., anche perché il noto sciatore pare abbia passato un certo
tempo proprio in Le., città di residenza della ragazza).
In vari frangenti El. avrebbe manifestato (a ferma convinzione che restare in quelle condizioni non sarebbe
stato, per lei, un vero vivere, perché solo una vita piena, o comunque in condizioni di capacità di muoversi,
di pensare, di comunicare e di rapportarsi con gli altri avrebbe meritato di essere vissuta, mentre non lo
sarebbe stato una vita meramente biologica.
Più volte il tutore ha ripetuto il concetto che, in ogni caso, El. non avrebbe sopportato di sopravvivere in
condizioni tali da dover dipendere dall'altrui costante assistenza o tali da renderla un semplice oggetto
sottoposto all'altrui volontà, e ha sostenuto che lei stessa avrebbe in varie occasioni manifestato tale idea.
Il Sig. En. ha in conclusione evidenziato che "sarebbe stato per lei inconcepibile che qualcun altro potesse
disporre della sua vita contro la sua volontà e le sue scelte" (...) e ha indicato proprio nel rispetto di tale
sentire l'iniziativa processuale da lui intrapresa: "tutta la vicenda che ancora conduce al presente
procedimento nasce proprio anche dalla convinzione paterna e materna che El. avesse diritto
all'affermazione di questo suo modo di essere e di pensare".
Ciò premesso, deve segnalarsi che le dichiarazioni rese nell'odierna udienza dal Sig. En. appaiono credibili
anzitutto, come già rilevato poc'anzi, per le modalità con cui sono state espresse, avendo potuto notare
questa Corte il suo atteggiamento pacato, ma fermo e preciso nel delineare la figura di El.
Non è trapelata, in particolare, ad onta delle molteplici sollecitazioni con cui si è cercato di approfondire le
sue dichiarazioni, alcuna tendenza a "mettere in bocca" ad El. parole del tutore, che invece ha più volte
voluto precisare che determinate frasi ed espressioni da lui utilizzate per descrivere la personalità di El.
erano proprio quelle che aveva pronunciato quest'ultima.
Un ulteriore e significativo elemento di conforto in ordine alla credibilità di quanto dichiarato dai Sig. En.
deriva dalla già ricordata "convergente posizione" assunta dalla curatrice speciale.
Merita rimarcare, a tal proposito, che, secondo il senso apparente della direttiva interpretativa della Suprema
Corte, tale convergenza di posizione gioca un ruolo rilevante non solo sul piano probatorio, ma, ancor prima,
sul piano della stessa intrinseca credibilità della ricostruzione della volontà presunta dell'incapace offerta dal
tutore, tale effetto derivando appunto dal fatto che a quella sorta di "interpretazione autentica" della
volontà, dei desideri e della personalità di El. che si richiedeva fornisse, e che ha in concreto fornito, il
tutore, quale suo "fiduciario" istituzionale, si è aggiunta, convergendo con essa, l'identica versione data dalla
curatrice speciale, nominata al fine di eliminare ogni possibile rischio derivante da un eventuale conflitto
d'interessi tra rappresentante e rappresentata.
23
Integrazione - di valutazione e di volontà - che non può non rivestire un rilevante significato ai fini decisori,
data la funzione di garanzia e di controllo che alla curatrice speciale è stata demandata, come soggetto
imparziale, proprio al fine di verificare in via di principio la genuinità e trasparenza delle intenzioni e dei fini
che possono aver mosso il tutore, onde depurarli da ogni possibile rischio d'interesse egoistico.
Rischio peraltro che, nella specie, sembra quasi da doversi escludere in re ipsa già sul piano puramente
economico-materialistico-logistico, considerate le modalità di cura di cui ha sempre fruito e ancora fruisce El.
(pacificamente risultando ricoverata presso una struttura ospedaliera esterna che non richiede l'assistenza
domiciliare continua dei familiari, e con costo integralmente a carico del S.S.N.) e tenuto conto che,
trattandosi di persona incontestatamente nullatenente, non viene in gioco neppure alcun interesse ereditario
dei genitori (nei confronti dei quali, del resto, è difficile anche ipotizzare un generico interesse a liberare
eventualmente altri figli, specie rispetto al futuro, dal "peso" di El., visto che lei era, ed è rimasta, figlia
unica).
La curatrice speciale ha inoltre pienamente confermato nei suoi contenuti la genuinità ed attendibilità della
ricostruzione effettuata dal tutore, basandosi sulle indagini da lei stessa personalmente svolte, escludendo
espressamente che - a suo giudizio - la suddetta scelta possa essere stata condizionata da particolari
interessi egoistici.
Può essere utile rimarcare, incidentalmente, che le dichiarazioni del tutore risultano avallate anche dalla
madre di El., la Sig.ra Sa.Mi., che ha sottoscritto due lettere inviate ad Autorità istituzionali con cui entrambi
i genitori di El. hanno concordemente ricostruito la lunga vicenda umana e processuale della figlia e descritto
nei suoi tratti essenziali la sua personalità libera e la sua convinzione di non poter vivere in uno stato di
assoluta menomazione e soggezione.
Infine, rende anche credibile la genuinità del sentimento che ha portato il tutore ad effettuare la sua scelta,
una lettera - acquisita in atti e mai contestata - scritta da El. ai genitori in prossimità delle ultime festività
natalizie cadenti poco prima dell'incidente stradale in cui restò coinvolta. In essa El. dichiarò l'intenzione di
voler comunicare e trasfondere al padre e alla madre tutta la fiducia e il grande affetto che provava per loro,
la sua riconoscenza per quello che essi erano come persone, per come avevano sempre dialogato con lei,
per come le erano stati sempre vicini, per come l'avevano curata, educata e trattata, e per quello che erano
riusciti a fare di lei.
Si tratta di espressioni che contribuiscono a rendere recessivo il dubbio sulla possibilità che la scelta a difesa
di El. come delineata dal tutore, possa essere stata inquinata o appannata da interessi o fini secondi,
piuttosto che essere stata dettata semplicemente da affetto e rispetto.
4.2. I riscontri testimoniali. Valutazione finale e conseguenze dell'esito istruttorio.
Il dato probatorio più rilevante non può che restare comunque, a parere di questa Corte, la conferma della
ricostruzione effettuata dal tutore così come emergente dalle dichiarazioni testimoniali rese da alcune amiche
di El. (Fr.Da., La.Po. e Cr.St.) sui fatti indicati nei capitoli di prova che la curatrice speciale (e non il tutore, si
badi) ha potuto comporre e formulare dopo aver svolto lei stessa indagini sul passato di El.
Reputa questa Corte che le testimoni abbiano offerto un decisivo contributo conoscitivo, tanto più credibile in
quanto tali amiche hanno quasi tutte frequentato El. sin dall'infanzia (e dunque hanno avuto modo di
conoscerla profondamente) e non hanno riferito solo di singoli episodi, ma hanno tratteggiato anch'esse una
sorta di modello personologico di El.
In ogni caso è proprio nel rapporto di amicizia fra coetanei, forse ancor di più che nel rapporto con genitori o
fratelli, che ciascuno esprime la maggior parte delle proprie convinzioni, delle ansie, delle angosce, del suo
vero modo di essere. Da qui il valore inevitabilmente molto rilevante che assumono le dichiarazioni di amici
ed amiche (oltre che dei familiari), specie quando siano passati molti anni dal momento in cui una persona
ha avuto modo - come nel caso di El. - di esprimere se stessa, poiché solo l'immagine che si forma nella
memoria di chi è stato con essa in una relazione di maggiore intimità può riuscire, almeno in parte, a
sfuggire ai deleteri effetti del tempo e del distacco.
24
Questo senza poi considerare che, come già s'è rilevato prima, almeno parte della valutazione
sull'attendibilità delle prove testimoniali e sul loro significato (sia sulla personalità indipendente, ribelle e
irremovibile di El., sia sulla sua concezione di una vita degna solo se vissuta con pienezza di facoltà motorie
e psichiche) è stata già compiuta dalla Sezione "Persone Minori e Famiglia" di questa Corte con il decreto del
15.11/16.12.2006, come rilevato anche dalla Suprema Corte.
Ad ogni modo, in relazione appunto a quella che è stata - con espressione sintetica - la "Weltanshauung" di
El., presentano considerevole interesse le seguenti dichiarazioni estratte dalle complessive deposizioni
testimoniali.
Ha riferito la teste Fr.Da.:
«El. era molto vivace, sempre allegra, con mille interessi (...).
Le sarebbe piaciuto fare qualcosa che avesse attinenza con i viaggi.
Voleva fare una professione che le consentisse di viaggiare. La sua indipendenza non le consentiva di essere
inquadrata nelle regole, ad esempio a scuola. El. dava un valore molto profondo alla vita che però, secondo
lei, doveva essere vissuta fino in fondo. Non avrebbe mai accettato una vita con limitazioni sia di tipo fisico
che mentale (...).
L'andare a scuola dalle suore era una scelta forzata, perché era il solo liceo linguistico in zona (...).
L'incidente di El. è avvenuto quando la stessa aveva circa venti anni e quindi quasi un anno dopo che aveva
cambiato università, anzi pochi mesi dopo, perché l'università è iniziata ad ottobre e l'incidente è avvenuto a
gennaio. El. aveva cambiato facoltà da giurisprudenza a lingue».
Ha soggiunto la teste La.Po.:
«El. aveva il sogno di lavorare con me e andare in giro per il mondo con il nostro lavoro, una attività di
movimento e non certo sedentaria. El. non era sportivissima, ma sempre in movimento e molto, molto
vivace».
Infine, per la teste Cr.St.:
«El. era vivacissima - non stava mai ferma - doveva sempre fare qualcosa - diventava matta all'idea di stare
un pomeriggio in casa - era lei che organizzava e animava la compagnia degli amici».
Si tratta di dichiarazioni in effetti conformi alla descrizione di alcuni significativi tratti della personalità di El.
fatta dal Sig. En. e confermano senza dubbio lo spiccato spirito di libertà e di indipendenza di El., la sua
insofferenza a qualunque costrizione.
La credibilità dei riferimenti alla voglia di essere libera ed indipendente trae anche conforto dai contestuali
riferimenti all'indole di El., descritta come "vivacissima", come una che "non stava mai ferma", che non
voleva "essere inquadrata nelle regole", alla sua voglia di muoversi e viaggiare per il mondo.
Particolarmente importante è poi il significato che, nel giudizio di El., come riferito dalia prima teste, doveva
attribuirsi alla vita: "El. dava un valore molto profondo alla vita che però, secondo lei, doveva essere vissuta
fino in fondo" e senza limitazioni.
Appare dunque sin da questi tratti una ragazza che, prima nel suo intimo essere, e poi anche nelle sue
convinzioni, era espressione di un innato, genuino spirito di libertà e di indipendenza, che amava muoversi di
continuo, che voleva vivere intensamente.
Il suo senso della vita, poi, appare non meramente astratto o metafisico, ma concreto. Proprio il suo grande
amore per la vita esprimeva una condizione limitativa di senso: vita (amata e da amare) era solo quella che
poteva essere vissuta pienamente.
Dunque la valutazione già espressa dalla Sezione "Persone Minori e Famiglia" di questa Corte nel decreto del
15.11/16.12.2006, con specifico riferimento al fatto che il contenuto delle suddette testimonianze fosse e sia
«indicativo della personalità di El., caratterizzata da un forte senso di indipendenza, intollerante delle regole
e degli schemi, amante della libertà e della vita dinamica, molto ferma nelle sue convinzioni», appare, oltre
che conclusione valutativa ormai definitiva in quanto non specificamente impugnata, anche e comunque
frutto di un accertamento pienamente corrispondente alle prove acquisite.
Quanto, poi, al relazionarsi di El. con problematiche specificamente attinenti alla vita e alla morte, e in
particolare alla scelta verso cui si sarebbe diretta la sua volontà in caso di assoggettamento a un trattamento
di sostegno alimentare forzato in una situazione di assoluta perdita delle sue capacità di locomozione,
percezione e cognizione, si è già detto che il predetto decreto ha anche definitivamente riconosciuto che El.
ha più volte espresso l'idea che sarebbe stato meglio per lei morire subito piuttosto che restare costretta ad
un'indefinita sopravvivenza meramente biologica.
25
E in effetti, l'opzione del rifiuto alla prosecuzione del trattamento espressa dal tutore, e confermata e
condivisa dalia curatrice speciale, trova in altre dichiarazioni delle amiche di El. assunte come testimoni
un'ulteriore precisa ed inequivoca conferma.
La teste Da. ha su questo aspetto riferito che:
«El. mi ha parlato di Al., un suo amico, eravamo già all'università. Al. aveva avuto un incidente in moto ed
era in coma. El. era andato a trovarlo in ospedale ed era rimasta sconvolta dalla situazione e mi aveva
confidato che secondo lei era meglio se fosse morto perché quella non poteva considerarsi vita. Non so
quale sia stata poi la evoluzione delle situazione di Al., El. mi ha però ripetuto più volte la frase che mi aveva
riferito sul fatto che quella non era vita, sia riferita ad Al., sia riferita ad altre persone che avevano avuto
vicende analoghe. Mi ricordo in particolare due episodi. In particolare di Fi., un altro nostro amico che aveva
avuto un incidente in macchina ed era morto sul colpo. Era l'ultimo anno di liceo. Ricordo che El. mi aveva
detto che Fi., nella sua disgrazia, era stato fortunato perché era morto sul colpo e non era rimasto
immobilizzato in coma, o comunque paralizzato o incosciente. L'altro episodio si riferisce ad un racconto delle
suore di Ma.Au. presso le quali noi abbiamo frequentato il liceo. Il racconto si riferiva ad una ragazza che
viveva in un polmone d'acciaio e le suore parlavano del coraggio di questa ragazza che, pur vivendo in
queste condizioni, riusciva a confortare gli altri e a godere della vita, pure essendo in quelle condizioni. lo, El.
ed altre compagne siamo rimaste molto impressionate e ci siamo chieste come fosse possibile vivere in
condizioni del genere (...) ».
Quanto alla teste La.Po., ella ha riferito che:
«Quando El. ha perso un anno all'università perché si era in precedenza iscritta a giurisprudenza, si è trovata
mia compagna di università al primo anno della facoltà di lingue. In quegli anni abbiamo avuto alcuni amici
che hanno avuto sinistri stradali, tra cui Fi. e St. che sono deceduti sul colpo. In questo caso eravamo
rimaste colpite, ma non abbiamo fatto commenti. Quando però un suo amico (solo di El.), Al., detto Fu., era
in coma in ospedale a seguito di un sinistro, lei era andato a trovarlo ed era rimasta traumatizzata. Mi ha
detto che subito dopo era andata in chiesa ed aveva acceso una candela per chiedere per lui la grazia di
morire piuttosto che vivere cosi. Ciò mi aveva colpito perché El., accendendo la candela non aveva neppure
pensato o accennato di chiedere che Al. migliorasse e guarisse. Non aveva neppure pensato che Al. potesse
guarire o migliorare. Per molti anni sono andata a trovare El., soprattutto quando era degente a So.. Mi
aveva molto colpito il fatto che ogni volta che doveva essere mossa bisognava usare un paranco, cioè una
imbracatura. Ho pensato che ciò non fosse dignitoso, soprattutto per El., che avrebbe spaccato il mondo e
non avrebbe mai accettato una situazione del genere».
Infine, la teste Cr.St. ha dichiarato:
«(...) eravamo molto amiche ed avevamo amici comuni. Fi. (Ro.) l'avevamo conosciuto entrambe, perché
frequentava le elementari nella nostra stessa scuola, ma in classi diverse. Era una domenica mattina di
dicembre 1988 ed eravamo andate a Messa con Fi. e ci eravamo fermati sul piazzale della chiesa per
concordare di passare il pomeriggio in discoteca in Va.. lo poi non ero andata.
Alla sera della domenica ho appreso che Fi. era morto in un sinistro stradale. Ho visto El. il lunedì mattina
che era venuta a casa mia prima di andare a scuola per commentare la vicenda di Fi.. Era scossa. Ricordo in
particolare una sua frase che mi aveva lasciata scossa: e cioè che era meglio che fosse morto piuttosto che
rimanere immobile in un ospedale in balia di altri attaccato a un tubo - per cui era meglio morire. (...) lo quel
lunedì avevo cercato di dirle che per me la vita era importante, ma lei era ferma nella sua opinione. El. era
così. Non c'era verso di farle cambiare idea - era molto determinata nelle sue convinzioni (...) ».
Alla luce di tali deposizioni testimoniali, è indubitabile la correttezza dell'interpretazione prospettata dai
tutore in ordine alla scelta (orientata all'interruzione del trattamento di sostegno vitale) che presumibilmente
El. avrebbe fatto o farebbe nella tragica condizione in cui versa, se avesse potuto o potesse esprimersi
direttamente e liberamente.
In sostanza, risulta che El. dava un peso preminente sia alla possibilità di muoversi liberamente ed
autonomamente, sia di esprimere una volontà cosciente interagendo con il mondo attraverso le sue facoltà
intellettive-percettive-cognitive. Tali facoltà, in sostanza, erano da lei viste come i soli strumenti capaci di
dare senso alla vita.
26
Si tratta di una concezione personale, ma certo non rara, e comunque non nuova, essendo anzi un antico
portato della stessa scienza medica: «E l'uomo deve sapere che soltanto dal cervello derivano le gioie e i
piaceri e la serenità e il riso e lo scherzo, e le tristezze, i dolori, l'avvilimento e il pianto. E per merito suo
acquisiamo saggezza e conoscenza, e vediamo e sentiamo e giudichiamo e impariamo cos'è giusto e cos'è
sbagliato, cos'è dolce e cos'è amaro ...» (Ippocrate, "Sulla malattia sacra", 400 circa A.C.).
Può ritenersi dunque che, effettivamente, per El. sarebbe stato inconcepibile vivere senza essere cosciente,
senza essere capace di avere esperienze e contatti con gli altri.
Sarebbe davvero poco coerente con la realtà dei fatti non riconoscere che le indicazioni testimoniali su
questo punto sono di una tale chiarezza, univocità, concordanza e ricchezza di dettagli da non poter dare
adito a dubbi.
Non può quindi condividersi (né comunque ed evidentemente può conservare efficacia alla stregua del
pronunciamento della Suprema Corte) l'opinione manifestata a questo specifico proposito dalla Sezione
"Persone Minori e Famiglia" di questa Corte nel decreto del 15 novembre/16 dicembre 2006, laddove ha
argomentato che l'esito testimoniale «non può tuttavia essere utilizzato al fine di evincere una volontà sicura
della stessa contraria alla prosecuzione delle cure e dei trattamenti che attualmente la tengono in vita».
Dopo aver consentito l'immissione nei procedimento di tutto il materiale probatorio che è stato fin qui
nuovamente esaminato, e in particolare delle testimonianze delle amiche di El., che, per di più (come ha
segnalato la Suprema Corte), sono state anche giudicate attendibili (né sussisteva o sussiste alcun apparente
motivo per giudicarle diversamente), non si vede come potesse negarsi poi a tale materiale probatorio, dopo
la sua intervenuta acquisizione, quell'inequivocabile rilevanza ai fini del decidere che la stessa Sezione
"Persone Minori e Famiglia" gli aveva del resto anticipatamente riconosciuto già prima, perlomeno in senso
astratto e potenziale, nel momento in cui aveva disposto l'ammissione dei capitoli di prova testimoniale
dedotti dalla curatrice speciale e relativi proprio ai fatti che sono stati in seguito esattamente confermati
dalle amiche di El.
D'altronde, proprio tale conclusiva valutazione negativa in ordine alla rilevanza del materiale probatorio
concretamente acquisito è stata l'oggetto specifico della sanzione cassatoria della Suprema Corte, la quale,
nel giudicarla incoerente (rispetto alla premessa secondo cui il contenuto delle testimonianze era appunto
'indicativo della personalità di El.") ha rilevato che, per privare di efficacia le suddette deposizioni
testimoniali, non sarebbe bastato neppure ritenere che le convinzioni espresse da El., così come riferite nelle
dette deposizioni, fossero «inidonee a configurarsi come un testamento di vita», poiché ciò che andava
invece appurato era piuttosto se esse «valessero comunque a delineare, unitamente alle altre risultanze
dell'istruttoria, la personalità di El. e il suo modo di concepire, prima di cadere in stato di incoscienza, l'idea
stessa di dignità della persona, alla luce dei suoi valori di riferimento e dei convincimenti etici, religiosi,
culturali e filosofici che orientavano le sue determinazioni volitive».
Da ciò risulta chiaro che, nello strutturare ed enunciare il principio di diritto, la Suprema Corte non ha
ritenuto che fosse indispensabile la diretta ricostruzione di una sorta di testamento biologico effettuale di El.,
contenente le sue precise dichiarazioni anticipate di trattamento (advance directives), sia pure rese in modo
non formale; ma che fosse necessario e sufficiente piuttosto «accertare se la richiesta di interruzione del
trattamento formulata dal padre in veste di tutore riflettesse gli orientamenti di vita della figlia».
Dal che ulteriormente si deduce che gli apprezzamenti contenuti nel precedente decreto di questa Corte in
ordine alla inconferenza/ininfluenza delle dichiarazioni di El. non potevano e non possono considerarsi idonei
a sminuire l'importanza delle dichiarazioni stesse, perché esse erano comunque idonei elementi informativi
concorrenti a definire in modo univoco il quadro personologico, l'identità, la "Weltanshauung" di El., come
pure la stessa Sezione "Persone Minori e Famiglia" aveva in premessa riconosciuto.
Ma in realtà dall'espletata istruttoria emerge non solo questo, come si è appena rilevato; emerge anche
qualcosa di più, proprio perché il diretto riferimento a frasi dette e a commenti fatti in occasione di tragici
incidenti capitati ad altri amici in giovane età (ma anche ad altre persone note, come lo sciatore Le.Da. di cui
s'è detto), sono inequivocabili nell'indicare non solo che El. non avrebbe voluto essere un mero soggetto
27
passivo di un trattamento finalizzato al mero sostegno artificiale per la sua sopravvivenza biologica, ma
anche le ragioni del "perché" non avrebbe ammesso tale possibilità: in particolare perché considerava
radicalmente incompatibile con le sue concezioni di vita uno stato patologico di totale incapacità motoria e di
assoluta deprivazione sensoriale (immobilità da tetraplegica e incoscienza da lesioni cerebrali in cui poi è
effettivamente caduta) che le impedisse completamente di muoversi, di sentire e di pensare, passivamente
restando come un semplice "oggetto" in balia dell'altrui volontà.
Ecco allora che, dinanzi alla sorte dell'amico Al., caduto in coma, El. confida che secondo lei sarebbe stato
"meglio se fosse morto, perché quella non poteva considerarsi vita"; perché una vita cioè, da passare
sempre in un letto, senza poter più pensare o sentire, "non era vita" sia riferita ad Al., sia riferita ad altre
persone che avevano avuto vicende analoghe".
Tali considerazioni - che palesemente escludono che El. avrebbe potuto essere anche in minima parte
propensa a subire un trattamento medico purchessia in una situazione di totale deprivazione sensoriale come
quella definita di Stato Vegetativo Permanente, e che lei dunque potesse nella sua concezione di vita
considerare anche la terapia di alimentazione artificiale e le altre modalità di trattamento del corpo cui
ancora è sottoposta come non lesive della sua dignità individuale (stante «l'inaccettabilità per sé dell'idea di
un corpo destinato, grazie a terapie mediche, a sopravvivere alla mente», secondo l'incisiva sintesi fatta dalla
Suprema Corte) - emergono con coerenza nelle plurime occasioni, riferite dalle amiche-testimoni, in cui El.
ebbe modo di esprimere sempre lo stesso concetto: che cioè non sarebbe stato possibile vivere
"immobilizzato in coma, o comunque paralizzato o incosciente" o nelle condizioni di una ragazza messa in
"un polmone d'acciaio"; e che sarebbe stato molto meglio morire "sul colpo".
Non potrebbe poi essere più toccante, e densa di significato ai fini del decidere, la plastica e vivida immagine
di El. che accende un cero pregando per ... la morte del suo amico rimasto paralizzato a causa di un
incidente stradale, senza aver nemmeno ipotizzato che potesse essere preferibile per lui la diversa soluzione
di vivere in condizioni di assoluta menomazione.
Infine, concorre a tratteggiare l'inconciliabilità tra il carattere e le intime convinzioni di El. da un lato, e uno
stato di costrizione dovuta all'incapacità di sentire, pensare, comunicare ed agire, dall'altro, anche il
riferimento alla scena cui assiste una delle sue amiche quando va a trovarla nella casa di cura ove El. è
ricoverata, quando viene colpita dal «fatto che ogni volta che doveva essere mossa bisognava usare un
paranco, cioè una imbracatura. Ho pensato che ciò non fosse dignitoso, soprattutto per El., che avrebbe
spaccato il mondo e non avrebbe mai accettato una situazione del genere».
Vero è che si tratta di una valutazione soggettiva dell'amica di El., ma nel contesto della ricostruzione di una
volontà presunta non possono non avere spazio anche gli apprezzamenti soggettivi di chi più da vicino ha
conosciuto El., naturalmente se ed in quanto comunque correlagli a specifici fatti ed esperienze, il che però è
quanto accade appunto nel caso di specie.
In tale ordine d'idee assume dunque un non irrilevante valore espressivo, indirettamente utile al fine di
tratteggiare quello stato di assoluta soggezione e costrizione che El. non avrebbe sopportato, per l'appunto
quell'immagine del corpo avvolto come un semplice oggetto in un'Imbracatura" e sollevato da un "paranco"
ogni volta in cui occorre spostarlo, o lavarlo, o massaggiarlo, o altrimenti manipolarlo.
Difficile in effetti dubitare, alla luce del quadro personologico di El. fin qui delineatosi in base alle prove
assunte, che lei non avrebbe mai accettato - nemmeno per un breve periodo, e men che mai per sedici anni
e più -, proprio come ha pensato la sua amica, di restare inchiodata a tale condizione costrittiva
oggettivamente immutevole e senza speranza.
Sembra dunque ulteriormente confermata l'"interpretazione autentica" della presunta volontà di El. datane
dal tutore, laddove ha evidenziato che per El. sarebbe stato inconcepibile subire non solo un trattamento
invasivo finalizzato a tenerla artificialmente in vita in condizioni di totale soggezione all'altrui volontà, di
necessità tali da implicare un'inevitabile esposizione allo sguardo e alla manipolazione da parte di altri
soggetti, ma più in generale restare immobilizzata a letto come un "oggetto", indefinitivamente privata della
possibilità di vivere pienamente la sua vita, stato per definizione incomponibile con la sua concezione di
28
dignità individuale, le condizioni di sopravvivenza meramente biologica non potendo considerarsi "degne di
lei" per come lei stessa concepiva la dignità e una vita dignitosa.
In tal senso emerge, di conserva, come la scelta dei tutore sia conforme anche al "best interest" della malata
incapace, così come da lei stessa inteso, nel contesto di una concezione della vita talmente radicata - anche
in ragione del temperamento e del carattere - nei profili fin qui evidenziati, da apparire nemmeno facilmente
soggetta ad ipotetici ripensamenti che potessero renderla inattuale solo per effetto del successivo trascorrere
del tempo e delle esperienze (tanto che l'amica Cr.St., pur cercando di convincere El. a deflettere dall'idea
che fosse "meglio morire piuttosto che restare in balia di altri attaccato a un tubo" prospettandole che la vita
era importante", non ha potuto fare altro che dare atto che "lei era ferma nella sua opinione, El. era così.
Non c'era verso di farle cambiare idea - era molto determinata nelle sue convinzioni"; irremovibilità peraltro
considerata già comprovata anche nel citato decreto del 15 novembre/16 dicembre 2006).
Dinanzi a tale concezione, il fatto, indubitabile, che nutrire e idratare i malati non autosufficienti e totalmente
incapaci sia un obbligo cogente per il medico ed un irrinunciabile dovere di solidarietà sociale, perde
evidentemente di rilievo, acquisendo prioritaria importanza, invece, il fatto che El., quando era ancora
cosciente, aveva manifestato una personalità, un modo e uno stile di vita, convincimenti e desideri,
chiaramente indicativi del fatto che non avrebbe voluto essere curata per nulla nell'evenienza di uno stato di
totale immobilità/incapacità fisio-psichica (dunque nemmeno mediante quella terapia di sostegno-base
costituita dall'alimentazione/idratazione), preferendo che la si lasciasse morire, ogni intervento esterno in
grado di frapporsi alla naturale evoluzione verso la cessazione di una vita meramente biologica, essendo da
lei visto come una violenza o una lesione degradante della sua dignità di persona.
Né contro tale evidenza - che nell'apprezzamento di fatto demandato in via esclusiva a questa Corte appare
indubitabile -potrebbe giocare alcun ruolo, anche solo parzialmente confutativo, la circostanza che El.,
secondo l'opinione espressa dall'Ufficio del Pubblico Ministero nel suo parere conclusivo, avrebbe avuto una
"formazione religiosa" e una "impostazione conforme a quella della religione cattolica".
Anzitutto perché poi lo stesso Pubblico Ministero ha correttamente riconosciuto che le "informazioni raccolte
attraverso le testimonianze non parrebbero essere in antitesi con l'istanza del tutore"; ha cioè ammesso che
il tutore ha correttamente interpretato quelle che sarebbero state le determinazioni volitive di El. nella
situazione data, sì che - a parte la conferma che su tale conclusione sembra che in fin dei conti siano tutti
d'accordo - non è chiaro come la pura e semplice rilevazione del fatto che El. avesse un credo religioso
potrebbe contraddire un'interpretazione della sua volontà già compiuta e ritenuta corretta alla stregua di
tutti gli altri sopra considerati elementi di giudizio.
Ma poi anche perché, anche a voler dare il massimo rilievo possibile a questo particolare aspetto
(dell'"impostazione cattolica") concernente la sfera religiosa di El., pur al cospetto di un così fuggevole
accenno fatto ad esso da parte del Pubblico Ministero, ma com'è giusto comunque fare in un contesto
decisorio tanto grave, mancano comunque i necessari elementi, sia sul piano generale ed astratto, che
particolare e concreto, per considerarlo antinomico rispetto alla personalità indipendente e alle convinzioni
ed idee di El. sulla vita e sulla dignità individuale.
Così, deve segnalarsi anzitutto come non risulti affatto chiarito, nel citato parere del P.M., sotto quale profilo
la formazione religiosa cattolica avrebbe potuto implicare per El. una scelta contraria all'interruzione del
trattamento di sostegno alimentare artificiale.
Ma una tale specificazione sarebbe stata tanto più necessaria considerato che, come già rilevato prima, il
giudizio che la Suprema Corte ha richiesto di svolgere sulle convinzioni di El., anche di carattere religioso,
non può che essere riferito alla sua specifica e concreta individualità così come si era già formata ed
espressa al momento in cui era pienamente cosciente, e non certo basarsi in via meramente astratta su
quelli che potrebbero essere in via generale sulla problematica in oggetto i canoni e le regole morali della
Chiesa cattolica (peraltro rimasti privi, nel fuggevole accenno fattone dal Pubblico Ministero, di qualsivoglia
precisazione contenutistica), che evidentemente ciascuno, anche se genericamente qualificabile come
"credente", o più specificamente come "credente cattolico", è ben libero - tanto più in uno Stato laico che
tutela la libertà di coscienza come valore preminente - di condividere o meno, di applicare o meno nella
29
concretezza della sua esperienza di vita privata e individuale (è del resto evidente che una professione di
appartenenza - più o meno formale o generica - ad una certa confessione religiosa non implica affatto anche
la inesorabilità di una piena condivisione ed osservanza pratica, e in concreto, di tutte le relative regole,
anche morali).
In ogni caso, alla luce del quadro personologico di El. emerso in sede istruttoria, e dunque al cospetto della
sua già rimarcata indipendenza di giudizio e della sua insofferenza verso qualunque imposizione esterna,
anche di tipo religioso, sembra ragionevole escludere che, se anche fosse stato comprovato un preciso ed
univoco orientamento della Chiesa cattolica sul tema in oggetto (e con specifico riferimento, comunque,
all'epoca in cui El. era pienamente cosciente, e non all'epoca attuale), esso - ove in ipotesi consentaneo ad
una prosecuzione del sostegno vitale - avrebbe potuto costituire efficace controindicazione ad una
presumibile scelta di El. orientata al rifiuto di tale trattamento.
In concreto, infatti, e con particolare riguardo all'ipotizzata "formazione cattolica" di El., il Sig. En. ha posto
in evidenza, e alcune dichiarazioni testimoniali hanno confermato, che la scelta di El. di iscriversi ad una
scuola media superiore gestita da suore cattoliche fu resa inevitabile e "costretta" dalla mancanza di un
equivalente istituto scolastico pubblico, e ha soggiunto che anzi proprio l'esperienza presso tale scuoia le
procurò una reazione di insofferenza per quella che lei riteneva fosse un'oggettiva impossibilità di dialogo e
di confronto con il corpo docente.
Il Sig. En. ha poi evidenziato che, pur essendo vissuta nel formale rispetto dell'istituzione religiosa, El. non è
mai stata di fatto una cattolica praticante e che, al di là della sua intima religiosità, è stata sempre critica
verso qualunque richiesta istituzionale di adesione a pratiche o ideologie che fosse basata sul puro e
semplice principio di autorità.
Tale più specifico insieme di elementi informativi, dunque, qualunque sia il grado di efficienza probatoria che
gli si voglia riconoscere, è comunque l'unico da cui emerga una qualche traccia un po' più chiara sulla
dimensione religiosa della personalità di El., e si pone semmai esattamente agli antipodi del dubbio che il suo
intimo credo religioso potesse non conciliarsi con una scelta orientata verso l'interruzione del trattamento di
sostegno artificiale.
Non potrebbe esservi poi nulla di più esplicito nel dimostrare il modo del tutto soggettivo e libero di
interpretare il sentimento religioso da parte di El., di quella già ricordata ed icastica immagine consegnata
all'istruttoria soprattutto dalla sua amica La.Po., in cui El. accende sì un cero in chiesa, ma per chiedere
come grazia non che il suo amico, in coma a causa di un incidente stradale, possa continuare a vivere, ma
che invece possa morire.
In tale circostanza si esprime indubbiamente un profondo sentimento religioso, che nasce e si sublima, nel
rapporto con un'altra persona, nella più empatica pietà per la sua tragica condizione, e che non rifugge
nemmeno dalla speranza o dalla convinzione dell'esistenza di una divinità trascendente che possa intervenire
a risolvere dall'alto le tragedie umane; ma si esprime al tempo stesso anche la convinzione di come sia
intollerabile e inconcepibile accettare la riduzione di sé a un corpo privo della possibilità di muoversi, di
pensare e di sentire, e in definitiva incapace ormai di vivere una vita nel senso più umano e completo del
concetto.
Perché, a ben vedere, proprio il suddetto sentimento di pietà, che nell'occasione in cui El. chiese per il suo
amico la grazia della morte la indusse ad interpretare questa come un bene, anziché come un male (ovvero,
come dovrebbe o potrebbe dirsi restando nella sfera terminologica della sentenza di cassazione con rinvio,
come il "best interest" per il suo amico nella condizione in cui costui si era trovato), altro non pare che il
sintomo rivelatore della proiezione del sé di El., del proprio modo di sentire e concepire la vita e la morte, del
proprio modo di immaginare quale sarebbe stata, anche e in primo luogo per lei stessa, la soluzione migliore
in quella data situazione: poter morire, assecondando un esito "naturale", e non già consegnarsi al lungo
trascorrere di una vita solo organica ed apparente, senza più contatti con il mondo esterno, e senza la
possibilità di vivere coscientemente e pienamente la propria esperienza di vita.
Ebbene, il compito di questa Corte è solo quello, per quanto ostico e ingrato, data la gravosa natura delle
scelte del tutore soggette in questa sede a controllo e autorizzazione, che è stato segnato dalla pronuncia
della Suprema Corte; ossia di controllare - con logico apprezzamento di fatto delle prove acquisite
30
(insindacabile purché congruamente motivato) - la correttezza della determinazione volitiva del legale
rappresentante dell'incapace nella sua conformità alla presumibile scelta che, nelle condizioni date, avrebbe
fatto anche e proprio la rappresentata, di cui il tutore si fa e deve farsi porta-"voce": nulla di più e nulla di
meno.
Le prove assunte, attendibili, univoche, efficaci e conferenti, e definitivamente ritenute in buona parte già
tali con l'accertamento di fatto già espresso nel precedente decreto del 15 novembre/16 dicembre 2006,
unitamente alla condivisione della scelta del tutore fatta dalla curatrice speciale (che ha peraltro svolto in
modo apparentemente ineccepibile la sua attività di controllo imparziale), tranquillizzano in ordine al fatto
che la scelta in questione non sia espressione del giudizio sulla qualità della vita dei rappresentante di El.,
anziché di quest'ultima, e che non sia stata in alcun modo condizionata da altro fine o interesse se non
quello di rispettare la sua volontà ed il suo modo di concepire dignità e vita.
Per tutte le precedenti considerazioni, in conclusione, ponderate anche alla luce di quella «logica orizzontale
compositiva della ragionevolezza» indicata dalla Suprema Corte - bilanciamento in cui non può non trovare
spazio sia la valutazione della straordinaria durata dello Stato Vegetativo Permanente (e quindi Irreversibile)
di El., sia la, altrettanto straordinaria, tensione del suo carattere verso la libertà, nonché la inconciliabilità
della sua concezione sulla dignità della vita con la perdita totale ed irrecuperabile delle proprie facoltà
motorie e psichiche e con la sopravvivenza solo biologica del suo corpo in uno stato di assoluta soggezione
all'altrui volere, tutti fattori che appaiono e che è ragionevole considerare nella specie prevalenti su una
necessità di tutela della vita biologica in sé e per sé considerata -, l'istanza di autorizzazione all'interruzione
del trattamento di sostegno vitale artificiale, così come proposta dal tutore di El.En. e condivisa dalla
curatrice speciale, va inevitabilmente accolta, a tale decisione non potendo sottrarsi i decidenti, per quanto
non senza partecipata personale sofferenza.
5. Disposizioni accessorie cui attenersi in fase attuativa.
Resta solo da precisare, sebbene possa apparire ultroneo alla luce degli stessi accorgimenti suggeriti dal
tutore istante quanto alle modalità con cui attuare l'interruzione del trattamento di sostegno vitale, ma
accogliendosi un esplicito richiamo della Suprema Corte a impartire qualche ulteriore disposizione pratica e
cautelativa, che, in accordo con il personale medico e paramedico che attualmente assiste o verrà chiamato
ad assistere El., occorrerà fare in modo che l'interruzione del trattamento di alimentazione e idratazione
artificiale con sondino naso-gastrico, la sospensione dell'erogazione di presidi medici collaterali (antibiotici o
antinfiammatori, ecc.) o di altre procedure di assistenza strumentale, avvengano, in hospice o altro luogo di
ricovero confacente, ed eventualmente - se ciò sia opportuno ed indicato in fatto dalla miglior pratica della
scienza medica - con perdurante somministrazione di quei soli presidi già attualmente utilizzati atti a
prevenire o eliminare reazioni neuromuscolari paradosse (come sedativi o antiepilettici) e nel solo dosaggio
funzionale a tale scopo, comunque con modalità tali da garantire un adeguato e dignitoso accadimento
accompagnatorie della persona (ad es. anche con umidificazione frequente delle mucose, somministrazione
di sostanze idonee ad eliminare l'eventuale disagio da carenza di liquidi, cura dell'igiene del corpo e
dell'abbigliamento, ecc.) durante il periodo in cui la sua vita si prolungherà dopo la sospensione del
trattamento, e in modo da rendere sempre possibili le visite, la presenza e l'assistenza, almeno, dei suoi più
stretti familiari.
P.Q..M.
La Corte d'Appello di Milano - Prima Sezione Civile
1) accoglie il reclamo proposto dal Sig. Be.En., quale tutore di El.En., cui ha aderito anche la curatrice
speciale di quest'ultima, avv. Fr.Al., e per l'effetto, in riforma del decreto n. 727/2005 emesso dal Tribunale
di Lecco in data 20 dicembre 2005 e depositato in data 2 febbraio 2006, accoglie l'istanza - conformemente
proposta da entrambi i legali rappresentati di El.En. - di autorizzazione a disporre l'interruzione del
trattamento di sostegno vitale artificiale di quest'ultima, realizzato mediante alimentazione e idratazione con
sondino naso-gastrico;
2) rinvia per le altre disposizioni relative all'attuazione in concreto di tale misura alle indicazioni di massima
contenute nella parte conclusiva (punto 5) della sopra estesa motivazione;
3) manda la cancelleria per le comunicazioni a tutte le parti del procedimento.
31
Tribunale per i Minorenni Bari decreto 31.05.2008
Potestà genitoriale - Minori - Trattamenti sanitari - Cure necessarie alla sopravvivenza - Consenso dei
genitori - Reintegrazione nella potestà genitoriale - Obbligo di massima collaborazione verso i sanitari Adesione a tutte le indicazioni impartite.
Il pieno consenso dei genitori ai trattamenti sanitari proposti dal personale medico affinché il figlio minore
possa ricevere le cure necessarie per la sopravvivenza, consente di reintegrarli nella potestà genitoriale,
prescrivendo loro nel contempo l'obbligo di prestare la massima collaborazione nei confronti dei sanitari e di
aderire a tutte le indicazioni che saranno impartite da questi ultimi.
Potestà genitoriale - Minori - Trattamenti sanitari - Cure necessarie alla sopravvivenza - Consenso dei
genitori - Reintegrazione nella potestà genitoriale - Obbligo di massima collaborazione verso i sanitari Adesione a tutte le indicazioni impartite.
Letti gli atti relativi al minore (A), nato a (X) il xx/xx/2008, figlio di (B) e (C);
richiamato integralmente il proprio precedente decreto provvisorio n. cron. 10535/08 del 10 maggio 2008,
pronunciato al solo fine di consentire l'immediato trasferimento del predetto minore presso altra struttura
ospedaliera idonea a somministrargli i trattamenti necessari (terapia dialitica) per la sua sopravvivenza, in un
momento in cui i genitori, evidentemente e comprensibilmente provati dalla grave situazione riguardante il
loro piccolo, non avevano ancora sciolto le loro riserve in ordine all'assenso a tale trasferimento;
preso atto che dall'ulteriore attività istruttoria espletata è emerso che pur permanendo una prognosi
riservata, il piccolo (A) è sottoposto alle terapie del caso (trattamento dialitico extracorporeo e terapia
medica) presso l'ospedale (K) di (XA) - Unità operativa di Nefrologia e Dialisi Pediatrica - ove è stato
trasferito in data xx/xx c.a., con il pieno consenso e la costante collaborazione dei genitori, i quali anche in
sede di ascolto hanno ribadito la loro volontà di continuare a collaborare con il personale medico, affinché il
loro piccolo possa ricevere tutte le cure idonee a garantirgli la sopravvivenza;
preso atto del parere positivo espresso nella seduta del 21 maggio c.a. del Comitato Etico Indipendente
dell'Ospedale (KA) di (XA), in merito alla prosecuzione del trattamento terapeutico in corso in favore del
minore;
ritenuto allo stato, non più sussistenti i presupposti per il mantenimento del provvedimento limitativo della
potestà genitoriale sopra richiamato;
ritenuto tuttavia di dover impartire prescrizioni ai genitori e nel contempo, di dover prevedere forme di
sostengo e monitoraggio sia da parte del competente servizio sociale che dei sanitari della struttura
ospedaliera presso cui il piccolo attualmente trovasi ricoverato;
ritenuta l'urgenza di provvedere;
P.Q.M.
Applicati gli artt. 332-336 c.c. e 737 c.p.c., sentito il pubblico ministero in sede, così provvede in via
provvisoria ed urgente:
1) reintegra i genitori (B) e (C) nella potestà genitoriale sul figlio minore (A);
2) revoca la nomina di tutore provvisorio del dott. (D);
3) prescrive ai genitori di continuare a prestare la massima collaborazione nei confronti dei sanitari aderendo
a tutte le indicazioni che saranno loro impartite, con l'avvertenza che in caso di inottemperanza potranno
essere adottati nuovamente nei loro confronti provvedimenti limitativi della potestà genitoriale;
4) incarica i sanitari dell'Azienda ospedaliera (K) di (XA) di aggiornare costantemente questo Tribunale sulle
condizioni di salute del piccolo (A), segnalando direttamente eventuali situazioni di pregiudizio;
5) impegna l'amministrazione comunale di (X), affinché per il tramite del proprio servizio sociale svolga
accurata attività di sostegno e monitoraggio in favore dell'intero nucleo del minore, sollecitando interventi,
ove possibile anche di tipo economico, atti a rendere più agevole per i genitori l'esercizio della loro funzione
genitoriale;
6) attribuisce al presente decreto efficacia immediata;
7) manda alla cancelleria per la comunicazione al P.M. e per le notifiche con il mezzo più celere, ai genitori
presso il procuratore costituito, al dott. (D), al Presidio Ospedaliero (K) - Dipartimento di medicina Pediatrica
- ed al Servizio Sociale del Comune di (X).
32
Rassegna della giurisprudenza presente in banca dati Lex24&Repertorio24
Tribunale Modena decreto 13 maggio 2008
Amministrazione di sostegno - Diritti inviolabili dell'uomo - Principio di autodeterminazione - Tutela
costituzionale - Trattamento sanitario - Precluso al medico senza il consenso informato del paziente - Diritto
alla scelta della cura e alla sottoposizione alla stessa - Ammissibilità - Eutanasia - Esclusione
Può essere autorizzato l'amministratore di sostegno affinché, in nome e per conto della beneficiaria, neghi il
consenso ai medici coinvolti a praticare ventilazione forzata e tracheostomia all'atto in cui, senza che sia
manifestata contraria volontà della persona, l'evolversi della malattia imponesse la specifica terapia salvifica.
Tribunale Roma, pen., sentenza 17.10.2007, n. 15381
Diritto all'autodeterminazione della persona in materia di trattamento sanitario - Terapie salvavita - Morte del
paziente - Delitto di omicidio del consenziente - Operatività della scriminante di cui all'articolo 51 del cp Non luogo a procedere
La scelta di rifiutare o di interrompere o meno la terapia, spetta e deve essere esercitata unicamente dal
titolare del diritto e segnatamente dal paziente. L'individuo può rifiutare trattamenti medici e la sua volontà
consapevole deve essere rispettata anche quando il rifiuto riguardi terapie salvavita. Non è l'esistenza
dell'accanimento terapeutico a connotare di legittimità la condotta del medico che lo faccia cessare; bensì è
la volontà espressa dal paziente di voler interrompere la terapia a escludere la rilevanza penale della
condotta del medico che interrompa il trattamento. Pur se la condotta posta in essere dal medico integra
l'elemento materiale del reato di omicidio del consenziente (il distacco della vittima dal respiratore artificiale
effettuato dal medico determinava il suo decesso dopo poco) e, pur sussistendo l'elemento psicologico (il
medico ben sapeva che l'interruzione della terapia di ventilazione assistita era antigiuridica e avrebbe
comportato il decesso del paziente) sussistono tutti gli elementi per l'applicabilità dell'esimente
dell'adempimento di un dovere, con conseguente liceità della condotta posta in essere dall'imputato.
(Integrale disponibile in banca dati)
Corte di Cassazione sez. I, civ., sentenza 16.10.2007, n. 21748
Costituzione della Repubblica - Principi fondamentali - Adulto in stato vegetativo permanente Autorizzazione, da parte del giudice, alla interruzione della alimentazione e della idratazione mediante
sondino nasogastrico - Condizioni e limiti - Irreversibilità dello stato e corrispondenza della istanza del tutore
alla voce del paziente, secondo univoci e appaganti elementi di prova - Mancanza dell'uno o dell'altro
presupposto - Conseguenze - Prevalenza incondizionata del diritto alla vita, a prescindere dalla percezione di
altri, compreso il tutore, della qualità della vita stessa
Ove il malato giaccia da moltissimi anni (nella specie, oltre quindici) in stato vegetativo permanente, con
conseguente radicale incapacità di rapportarsi al mondo esterno, e sia tenuto artificialmente in vita mediante
un sondino nasogastrico che provvede alla sua nutrizione ed idratazione, su richiesta del tutore che lo
rappresenta, e nel contraddittorio con il curatore speciale, il giudice - fatta salva l'applicazione delle misure
suggerite dalla scienza e dalla pratica medica nell'interesse del paziente - può autorizzare la disattivazione di
tale presidio sanitario, in sé non costituente, oggettivamente, una forma di accanimento terapeutico,
unicamente in presenza dei seguenti presupposti: (a) quando la condizione di stato vegetativo sia, in base
ad un rigoroso apprezzamento clinico, irreversibile e non vi sia alcun fondamento medico, secondo gli
standard scientifici riconosciuti a livello internazionale, che lasci supporre la benché minima possibilità di un
qualche, sia pure flebile, recupero della coscienza e di ritorno ad una percezione del mondo esterno; e (b)
sempre che tale istanza sia realmente espressiva, in base ad elementi di prova chiari, univoci e convincenti,
della voce del paziente medesimo, tratta dalle sue precedenti dichiarazioni ovvero dalla sua personalità, dal
suo stile di vita e dai suoi convincimenti, corrispondendo al suo modo di concepire, prima di cadere in stato
33
di incoscienza, l'idea stessa di dignità della persona. Ove l'uno o l'altro presupposto non sussista, il giudice
deve negare l'autorizzazione, dovendo allora essere data incondizionata prevalenza al diritto alla vita,
indipendentemente dal grado di salute, di autonomia e di capacità di intendere e di volere del soggetto
interessato e dalla percezione, che altri possano avere, della qualità della vita stessa. (Integrale disponibile
in banca dati)
Corte d'Appello Milano, pen., sez. I, sentenza 21.06.2002, n. 23
Reati contro la persona - Reati contro la vita e l'incolumità individuale - Omicidio - Configurabilità - Distacco
dei tubi di ventilazione forzata del paziente in stato di coma - Esclusione
Si è in presenza di un omicidio impossibile per insufficienza della prova dell'esistenza in vita nel caso
dell'imputato che volontariamente interrompe la ventilazione forzata per la respirazione artificiale del
paziente in stato di coma.
COMMENTI
Il Merito
Il Merito n. 7/8, 01.07.2008 pg 38 - Natalini Aldo
Omicidio del consenziente tra dissenso terapeutico e adempimento del dovere
La fattispecie di omicidio del consenziente è stata concepita dai compilatori del codice penale vigente come
un'autentica innovazione che avrebbe dovuto completare il quadro dei delitti contro la vita ereditato dal
codice Zanardelli (1).
Come si legge nella relazione ministeriale, sotto l'impero del codice del 1889, al fine di colmare il vuoto di
disciplina a quel tempo esistente in rapporto ai casi di omicidio «assentito» dalla vittima, la giurisprudenza
era stata indotta sovente a forme di indulgenzialismo od a forzature del dato normativo: «il minor grado di
dolo e la minore pericolosità del delinquente erano stati così sentiti nella pratica che, per superare
l'inconciliabilità tra le rigide disposizioni del codice vigente e le esigenze della realtà, i giudici spesso erano
tratti ad inesatte interpretazioni estensive o analogiche della norma regolatrice del delitto di istigazione o
aiuto al suicidio, ovvero ad assoluzioni ispirate a senso di pietà» (2).
La funzione, anche simbolica, dell'art. 579 c.p. Di qui la necessità di introdurre nel sistema penale una figura
di reato del tutto nuova che prendesse atto della «influenza veramente notevole, che il consenso della
vittima esercita nell'apprezzamento del dolo in generale e della personalità del colpevole», senza per questo
però fornire una disciplina «espressa» né tantomeno «dedicata» del fenomeno dell'eutanasia («...non si è
voluto disciplinare una causa di esclusione del reato per il caso della cosiddetta eutanasia...») (3). E tale
intenzionale omissione dei codificatori dà tutto il senso della funzione, anche sistematico- simbolica, che la
norma in esame ha subito svolto e svolge tuttora nel quadro ordinamentale in punto di intangibilità della vita
umana, quale momento essenziale nella cornice dei valori che poi, storicamente, sarebbe stata accolta dalla
stessa Carta costituzionale del 1948 attraverso la sottrazione allo Stato dello ius necandi .
L'«attualità» della tematica dell'indisponibilità della vita. In effetti, l' art. 579 c.p. designa e connota il profilo
dell'indisponibilità del benevita, sia pur già emergente dal complessivo tessuto del codice penale. Un profilo,
questo dell'intangibilità lato sensu della vita, che negli ultimi tempi ha toccato e non solo nel panorama
italiano (4) l'apice del dibattito nel controverso terreno dell'eutanasia cosiddetta «pietosa» (5), oggetto di
considerevoli riflessioni con prevalente riferimento alla discussa liceità delle condotte omissive del medico,
specialmente in rapporto all'annoso dibattito del «rifiuto delle cure» (6). Per questo la tematica dell'omicidio
del consenziente è tornata vivacemente di attualità, nel suo innestarsi col controverso rapporto tra obbligo di
cura e diritto al rifiuto di quella cura.
34
Di questa nuova prospettiva cercheremo di dar conto sinteticamente per forza di cose nelle pagine che
seguono, muovendo dalla previa analisi dell'art. 579 c.p. per concludere con l'affrontare i complessi rapporti
esegetici tra art. 579 ed art. 51 c.p. e, sullo sfondo, tra art. 13 ed art. 32, comma 2, Cost. Il tutto, che per
dare una risposta a quell'interrogativo più volte propostosi di recente (a margine di una nota vicenda di
omicidio del consenziente: il caso Welby) (7) : esiste un «diritto ad essere lasciati morire in pace»? (8).
Interrogativo, da ultimo, divenuto vieppiù scottante dopo l'ultima decisione sul c.d. «caso Englaro» (vedi box
più avanti).
L'oggetto giuridico dell'art. 579 c.p. Iniziamo dal bene giuridico della fattispecie in esame. Se è indiscutibile
che l' art. 575 c.p. configuri una tutela oggettiva del bene vita operante anche a prescindere dalle
eventualmente opposte determinazioni del soggetto passivo, tale dato è ricavabile proprio dal disposto di cui
all'art. 579 c.p. che, unitamente all'art. 580 c.p., apprestano una tutela indipendente dalla volontà della
vittima, operando come una sorta di «proiezione» del fatto base di omicidio doloso sul più specifico tema
della disponibilità della vita. Naturalmente va subito precisato da questo profilo si differenzia quello, assai
problematico, dell'esistenza di un vero e proprio «dovere di vivere», al quale pare doversi contrapporre, in
tema di eutanasia, la recente emersione di un «diritto di morire» (9).
Al fatto del consenso della vittima che, invero, pone in primo piano l'idea che la norma operi in funzione
dell'interesse leso (10) l'incriminazione fa residuare una tutela di impronta obiettiva, sul cui sfondo si colloca,
in effetti, l'interesse della collettività intera alla preservazione del bene vita.
L'oggetto della tutela penale, in relazione al delitto previsto dall'art. 579 c.p., è insomma l'interesse dello
Stato alla sicurezza della persona fisica: per il nostro ordinamento, quindi, nessuno può disporre
dell'interesse concernente la propria vita, in modo da legittimare la sua uccisione compiuta da un terzo. In
questo senso l' art. 579 c.p. non costituisce una deroga alla regola dell'art. 50 c.p., ma un espresso
riconoscimento della indisponibilità di suddetto interesse.
La natura autonoma del reato. In dottrina si sottolinea la natura autonoma, e non circostanziata, della
fattispecie di omicidio del consenziente (11), facendo leva su plurimi ed univoci indici interpretativi: tra tutti,
sulla prevista esclusione, ai sensi del secondo comma dell'art. 579 c.p., dell'applicabilità alla fattispecie delle
circostanze aggravanti comuni di cui all'art. 61 c.p. (12).
Soggetto attivo. Soggetto attivo del delitto in esame può essere «chiunque», non essendo richiesta una
particolare qualità della persona offesa. Quest'essenza di reato comune quasi comproverebbe la sua
accennata non specificità rispetto alla problematica eutanasia: difatti, nell'ipotesi in cui la norma fosse stata
ex professo rivolta al tema dell'eutanasia, verosimilmente la qualifica soggettiva (13) e l'individuazione dei
suoi rapporti con il soggetto passivo sarebbero stati oggetto di una più analitica disciplina (14).
Elemento materiale: il consenso. Passando all'elemento materiale, trattasi di un reato a forma libera, ad
integrare il quale è sufficiente una qualsiasi condotta (attiva od omissiva, diretta o indiretta) causalmente
idonea a cagionare l'evento-morte.
Elemento costitutivo essenziale è il consenso del soggetto passivo, che comporta un nettissimo
ridimensionamento del disvalore oggettivo della condotta. Il consenso, difatti, pur strutturalmente affine alla
causa di giustificazione di cui all'art. 50 c.p., in questo caso non assolve ad una funzione di elisione
dell'illiceità, ma si configura semmai assai meno incisivamente come elemento specializzante rispetto
all'omicidio comune e, al contempo, come fattore degradante il titolo di responsabilità (15).
È per questo che la dottrina e la giurisprudenza ma in fondo lo stesso codificatore si sono mostrati
particolarmente attenti a descrivere puntualmente i caratteri del consenso (16) : esso deve essere valido,
serio, espresso senza riserve, inequivoco ed attuale (17), ovvero persistente al momento in cui viene posta
in essere la condotta omicidiaria. Talora si è preteso che il consenso sia pure reale, nel senso che esso non
sarebbe ravvisabile in mere manifestazioni verbali (18); più in generale, però, si reputa indifferente la forma
e il modo in cui il consenso stesso si esprime: accettazione, impetrazione o comando, per iniziativa
dell'agente o dello stesso soggetto passivo. Si ritiene ammissibile anche un consenso tacito, purché dotato
delle caratteristiche sopra elencate e sia prestato mediante manifestazione e comportamenti tali da indicare
35
in maniera univoca la volontà del consenziente (19). Assai problematico è, poi, il tema della revoca del
consenso: seppure sia pacifica (20), ci si è chiesti quale norma debba essere applicata alle ipotesi in cui la
revoca intervenga in corso di esecuzione. Occorre distinguere al riguardo i casi in cui il ripensamento sia
manifestato quando ormai l'evento è inevitabile, da quelli in cui l'agente può ancora interrompere il processo
mortale: nella prima eventualità, l'agente risponderà di omicidio del consenziente; nella seconda, ove non si
sia attivato per evitare la morte, risponderà, ex art. 40 c.p., di omicidio doloso comune. Tale interpretazione
non appare tuttavia corretta a chi ritiene invece insussistente un obbligo giuridico di attivarsi per evitare
l'evento in capo all'agente (21). La soluzione della controversia non può allora prescindere, dalla selezione
delle fonti da cui si ritiene derivare l'obbligo giuridico di cui all'art. 40 cpv. c.p. È certa invece l'irrilevanza del
consenso reso da minori degli anni diciotto, da persone inferme di mente o incapaci di intendere e di volere
ovvero vittime di violenza, minaccia o inganno. In queste ipotesi è la stessa incriminazione in esame che, al
terzo comma, considera applicabili le disposizioni sull'omicidio comune (artt. 575-577 c.p.), trattandosi di
consenso considerato ex lege non validamente prestato. Allo stesso modo, il soggetto agente risponderà ex
art. 575 c.p. nel caso in cui la vittima abbia manifestato un semplice desiderio o indifferenza rispetto alla
morte.
Elemento soggettivo. Passando infine all'elemento soggettivo, trattasi di delitto doloso, per la sussistenza del
quale è sufficiente il dolo generico: lo stesso dell'omicidio comune ma differenziato dalla consapevolezza di
agire col consenso del soggetto passivo. Il soggetto agente deve essere dunque consapevole del fatto che la
vittima aveva prestato il proprio consenso ad essere uccisa. Tale necessità obbliga a considerare e risolvere
la problematica relativa all'errore sull'esistenza dell'elemento in parola. Secondo una parte della dottrina,
quando l'agente ritiene per errore esistente il consenso della vittima, deve applicarsi l' art. 579 c.p. in virtù
dell'estensione analogica in bonam partem del principio dettato dall'art. 59 ultimo comma, c.p. in materia di
erronea supposizione delle cause di giustificazione (22). Si è però obiettato che nell'art. 579 c.p. il consenso
dell'offeso diversamente da quello previsto dall'art. 50 c.p., non elide l'antigiuridicità dell'aggressione al bene
tutelato, ma rileva solo ai fini della tipicità del fatto; sicché la questione andrebbe risolta al lume dell'art. 47
comma 2, c.p. (23), con la conseguenza che se il consenso della vittima, benché putativamente supposto,
non sussiste effettivamente, la condotta non potrebbe che ricadere nell'ambito dell'omicidio volontario (24).
Il problema del dissenso all'intervento terapeutico salvavita. Tanto sommariamente premesso in punto di
analisi strutturale del reato di omicidio del consenziente, la prospettiva da cui abbiamo preso le mosse
impone ora di riflettere sul non secondario problema che anzi è di scottante attualità posto
dall'autodeterminazione della vittima che si ritenga vittima di un accanimento terapeutico e per questo
esprima il consenso all'interruzione delle pratiche mediche salvifiche.
L'interrogativo è semplice quanto apparentemente insolubile: risponde di omicidio del consenziente il medico
che, su richiesta del malato, «stacca la spina» (25) ? O non è punibile perché agisce in adempimento degli
obblighi costituzionali di rispetto della volontà del paziente?
Il caso Welby e la scriminante ex art. 51 c.p. La questione come accennato ab initio è stata
drammaticamente posta all'ordine del giorno dalla vicenda umana di Piergiorgio Welby, conclusasi ad opera
di un anestesista che, aderendo alla pressante richiesta del paziente, disconnesse il respiratore che lo teneva
in vita artificialmente, praticandogli contemporaneamente un trattamento sedativo per accompagnarne il
decesso.
Sul fronte giudiziario, nonostante la richiesta di archiviazione della Procura di Roma (26), il G.I.P. ordinò al
P.M. l'imputazione coatta nei confronti del medico, ravvisando proprio il reato di cui all'art. 579 c.p.
assumendo, in particolare, sotto il profilo del dolo, che era stato lo stesso professionista a farsi avanti per
interrompere la terapia al Welby pur non essendo il suo medico curante e ad essersi dimostrato del tutto
incurante della decisione del Giudice civile che, pur riconoscendo nella specie l'esistenza di un diritto
soggettivo del paziente ad interrompere la terapia, lo ritenne privo di tutela giuridica in assenza di una
specifica normativa (27).
Ma il G.U.P. di Roma pronunciò il non luogo a procedere ex art. 51 c.p. a favore dell'anestesista (28),
sottolineando come non si possa riconoscere un diritto di rango costituzionale quale quello
all'«autodeterminazione individuale e consapevole» in materia di trattamento sanitario e poi lasciarlo senza
tutela, sulla scorta della pretesa vigenza di disposizioni normative di fonte gerarchica inferiore a contenuto
36
contrario. Così facendo ha statuito il giudice di prime cure si perverrebbe ad una palese violazione della
gerarchia delle fonti, in quanto non si può disattendere l'applicazione di una norma costituzionale assumendo
l'esistenza di norme contrastanti di valore formale inferiore. Insomma, delle due è l'una: o si privilegia
l'interpretazione che fa salvo il principio costituzionale con immediata applicazione di quest'ultimo,
discostandosi dall'interpretazione contraria della norma (29), oppure, in caso di insuperabile conflitto, si deve
sollevare questione di legittimità costituzionale (30); certamente non si può lasciare inattuato un principio
costituzionale e senza tutela giuridica il diritto soggettivo che da esso discende.
L'autodeterminazione del paziente. Il nodo della questione postasi in questo che, nel nostro ordinamento, ha
assunto il ruolo di vero e proprio leading case , passa evidentemente per il riconoscimento del diritto
fondamentale di ciascuno a non essere sottoposto a trattamenti sanitari contro la propria volontà. Com'è
stato autorevolmente scritto, ogni sistema giuridico laico, liberale e personalista «si fonda, grazie a Dio, sul
diritto all'autodeterminazione, che esclude un'"autorità della ragione" di terzi sulle decisioni di uomini adulti e
sani dal punto di vista psichico» (31).
Alla luce del dettato chiarissimo dell'art. 32, comma 2, della Costituzione, nonché dell'interpretazione che di
esso è stata data dalla giurisprudenza costituzionale (32) e di legittimità (33), non possono disattendersi il
riconoscimento e la tutela del diritto all'autodeterminazione della persona in materia di trattamento sanitario,
diritto che contempla ovviamente anche il caso di rifiuto di nuova terapia e lo speculare caso di interruzione
della terapia già iniziata, quand'anche essa sia salvifica. Infatti il diritto soggettivo riconosciuto
costituzionalmente nasce già perfetto, non necessitando di alcuna disposizione attuativa di normazione
secondaria, sostanziandosi in una pretesa di astensione, ma anche di intervento se ciò che viene richiesto è
l'interruzione di una terapia, da parte di terzi qualificati in ragione della loro professione. In altre parole, se la
disposizione del proprio corpo finanche a determinare la propria morte viene effettuata nell'ambito
dell'esercizio del diritto di cui all'art. 32, comma 2, Cost., questa è consentita, proprio in ossequio a
quest'ultima previsione costituzionale che attribuisce tale facoltà alla persona, salvo che non sia
diversamente stabilito con legge ordinaria. E se anche fosse rintracciabile nell'ordinamento una disposizione
che consentisse la sottoposizione forzata ad un determinato trattamento sanitario, essa andrebbe
considerata incostituzionale laddove superasse i limiti del rispetto della dignità della persona umana (34).
Il diritto al rifiuto di cure salvifiche. Il diritto al rifiuto dei trattamenti sanitari, facente parte dei diritti
inviolabili della persona di cui all'art. 2 Cost., è dunque insito nel principio di autodeterminazione. Il quadro
normativo delineato dalla Consulta nel corso degli anni non lascia dubbi, in quanto da esso discende con
chiarezza che l'individuo può rifiutare trattamenti medici e la sua volontà consapevole deve essere rispettata
anche quando il rifiuto riguardi terapie salvavita; e tutto ciò vale non solo nel rapporto tra Stato e cittadini,
ma anche tra privati ovvero tra il paziente ed il suo medico, che dovrà attenersi alla volontà del malato come
regola generale.
Si tratta di un diritto, del resto, confermato anche a livello internazionale nella convenzione di Oviedo sui
diritti dell'uomo e sulla biomedicina, ratificata con legge n. 145/2001 che, all'art. 5 prevede, che «un
intervento nel campo della salute non può essere effettuato se non dopo che la persona interessata abbia
dato consenso libero ed informato. La persona interessata può, in qualsiasi momento, liberamente ritirare il
proprio consenso» (35).
I requisiti del rifiuto. Affinché la manifestazione di volontà del paziente abbia rilievo giuridico onde escludersi
l'applicazione dell'art. 579 in forza della scriminante dell'art. 51 c.p. sono tuttavia necessari una serie di
requisiti, siccome evincibili dalla Costituzione e dai principi generali dell'ordinamento.
Il rifiuto (come il consenso) anzitutto deve essere personale, ovvero deve promanare dal titolare stesso del
diritto alla vita che potrebbe essere pregiudicata o che sarà pregiudicata, in quanto a nessuno è consentito
decidere della vita altrui senza incorrere nei divieti della legge anche penale (36).
Inoltre il dissenso, per essere valido, deve essere consapevole ovvero informato, incidendo esso su diritti
essenziali dell'individuo. Infatti, quest'ultimo ne può disporre solo se pienamente consapevole della sua
condizione psico-fisica, delle prospettive evolutive della sua condizione e delle conseguenze che possono
scaturire dalle sue scelte, perché altrimenti la sua volontà sarebbe viziata da elementi di conoscenza distorti
o mancanti e quindi non libera.
37
Il rifiuto deve essere poi autentico ovvero non apparente, non condizionato da motivi irrazionali (ad esempio
la paura) : deve essere, insomma, effettivamente attribuibile alla volontà del soggetto e non il frutto di
costrizione o di suggestione di alcun tipo esercitata da terzi; deve essere strettamente collegato a concrete
situazioni personali del malato (ad esempio la sofferenza causata dal male o l'incurabilità della malattia) e
non legato a superstizioni, pregiudizi o altro.
È necessario, altresì, che il rifiuto sia reale e, segnatamente, che sia compiutamente e chiaramente espresso
e che non sia semplicemente desumibile dalle condizioni di sofferenza o dalla gravità del male.
Requisito imprescindibile è poi l'attualità del rifiuto, non essendo sufficiente che la persona abbia espresso in
precedenza la propria volontà in tal senso (ad esempio, mediante le «dichiarazioni anticipate » od il
«testamento biologico», né tanto meno potrebbe aggiungersi soltanto quando desumibile dal suo «stile di
vita» (37)). E ciò in quanto l'«essenzialità dei diritti» sui quali incide il comportamento del medico comporta
la necessità di verificare che la volontà di rifiutare un trattamento «salva-vita» sussista sino al momento in
cui il medico si accinge ad attuare la volontà del malato.
Il limite del rifiuto: il rapporto medico/paziente. C'è poi un consistente limite di operatività a fini scriminanti
del dissenso: il possibile rifiuto del malato deve essere esercitato con riferimento ad un «trattamento
sanitario», potendo riguardare solo una condotta che ha come contenuto competenze di carattere medico e
sempre all'interno di un rapporto di natura contrattuale a contenuto sanitario. Solo sul professionista e non
su altri incombe, quindi, il dovere di osservare la volontà di segno negativo del paziente, in ragione della
relazione instauratasi tra i due per l'espletamento di una condotta di natura sanitaria a contenuto
concordato. Con la conseguenza che, se il professionista dovesse porre in essere una condotta direttamente
causativa della morte del paziente per espressa volontà di quest'ultimo, risponderà ad un preciso dovere che
discende dalla previsione dell'art. 32, comma 2, Cost., mentre la stessa condotta posta in essere da ogni
altro soggetto non risponderà ad alcun dovere giuridicamente riconosciuto dall'ordinamento, non essendo
stata esercitata all'interno di un rapporto terapeutico, nel quale solo nascono e si esercitano diritti e doveri
specifici. In altri termini, un parente od un amico del malato terminale mai e poi mai potranno beneficiare
della scriminante medica (38) : avuto riguardo all'art. 579 c.p., disporranno infatti solo del consenso (sotto
forma di dissenso terapeutico) dell'avente diritto, che però è elemento tipico dell'omicidio del consenziente
(39).
La sentenza del caso Welby. Alla luce di queste premesse, può essere condivisa la soluzione proscioglitiva in
ordine al reato di omicidio del consenziente sentenziata nel summenzionato caso Welby: difatti, il rifiuto di
una terapia, anche se già iniziata, ove venga esercitato nell'ambito sopra descritto ed alle condizioni
precedentemente illustrate, costituisce un diritto costituzionalmente garantito e già perfetto, rispetto al quale
sul medico incombe, in ragione della professione esercitata e dei diritti e doveri scaturenti dal rapporto
terapeutico instauratosi con il paziente, il dovere giuridico di consentirne l'esercizio. Con la conseguenza che,
se il medico in ottemperanza a tale dovere, contribuisse a determinare la morte del paziente per
l'interruzione di una terapia salvavita, egli non risponderebbe penalmente del delitto di omicidio del
consenziente, in quanto avrebbe operato alla presenza di una causa di esclusione del reato e segnatamente
quella prevista dall'art. 51 c.p. La fonte del dovere per il medico, quindi, risiederebbe in prima istanza nella
stessa norma costituzionale, che è di rango superiore rispetto alla legge penale, e l'operatività della
scriminante nell'ipotesi sopra delineata è giustificata dalla necessità di superare la contraddizione
dell'ordinamento giuridico il quale, da una parte, non può attribuire un diritto e, dall'altra, incriminarne il suo
esercizio.
LA GIURISPRUDENZA DI LEGITTIMITÀ SUL TRATTAMENTO TERAPEUTICO
Trattamento medico-chirurgico - Consenso del paziente - Rifiuto consapevole del trattamento - Persistenza
del trattamento - Configurabilità del reato di cui all'art. 610 c.p. (Cp, articolo 610; Legge n. 145/2001 articolo
3)
In mancanza di attuazione della delega di cui all'art. 3 della legge 28 marzo 2001, n. 145, con la quale è
stata ratificata la Convenzione di Oviedo del 4 aprile 1997 sui diritti dell'uomo e sulla biomedicina, in tema di
attività medico-chirurgica deve ritenersi che il medico sia sempre legittimato ad effettuare il trattamento
38
terapeutico giudicato necessario per la salvaguardia della salute del paziente affidato alle sue cure, anche in
assenza di esplicito consenso, dovendosi invece ritenere insuperabile l'espresso, libero e consapevole rifiuto
eventualmente manifestato dal medesimo paziente, ancorché l'omissione dell'intervento possa cagionare il
pericolo di un aggravamento dello stato di salute dell'infermo e, persino, la sua morte, potendosi profilare in
quest'ultima ipotesi, qualora il medico effettui ugualmente il trattamento rifiutato, il reato di violenza privata.
(A.Nat.)
Cass. Pen., Sezione I, sentenza 29 maggio 2002, n. 26446
Trattamento chirurgico - Mancanza del consenso del paziente o dei familiari per l'intervento eseguito Assenza di urgente necessità - Configurabilità del reato di omicidio preterintenzionale - Esclusione - Omicidio
colposo - Configurabilità. (Cp, articoli 50, 54, 582 e 584)
In tema di trattamento medico-chirurgico, qualora, in assenza di urgente necessità, venga eseguita
un'operazione chirurgica demolitiva, senza il consenso del paziente, prestato per un intervento di dimensioni
più ridotte rispetto a quello poi eseguito, che ne abbia determinato la morte, non è configurabile il reato di
omicidio preterintenzionale poiché, per integrare quest'ultimo, si richiede che l'agente realizzi
consapevolmente ed intenzionalmente una condotta diretta a provocare un'alterazione lesiva dell'integrità
fisica della persona offesa. (A.Nat.)
Cass. Pen., Sezione IV, sentenza 9 marzo 2001, n. 28132
IL CASO WELBY
Attività medico-chirurgica - Rifiuto di terapia - Diritto costituzionalmente garantito - Dovere giuridico di
consentirne l'esercizio - Conseguenze - Condotta attiva del medico causativa il decesso del paziente Omicidio del consenziente - Non sussiste - Scriminante dell'adempimento del dovere - Fonte costituzionale
del dovere - Ratio - Principio di non contraddizione . (Cp, articoli 51 e 570; Costituzione)
Il rifiuto di una terapia, anche se già iniziata, ove venga esercitato nell'ambito ed alle condizioni di legge,
costituisce un diritto costituzionalmente garantito e già perfetto, rispetto al quale incombe sul medico e solo
su questi in ragione della professione esercitata e dei diritti e doveri scaturenti dal rapporto terapeutico
instauratosi col paziente, il dovere giuridico di consentirne l'esercizio. Ne consegue che se il medico, in
ottemperanza a tale dovere, contribuisce a determinare la morte del paziente per l'interruzione di una
terapia salvavita, non risponde penalmente del delitto di omicidio del consenziente, in quanto opera alla
presenza di una causa di esclusione del reato e, segnatamente, quella prevista dall'art. 51 c.p., per aver
reagito in adempimento di un dovere la cui fonte è prevista dalla stessa norma costituzionale (art. 32,
comma 2, Cost.), essendo la scriminante giustificata dalla necessità di superare la contraddizione
dell'ordinamento giuridico che, da una parte, non può attribuire un diritto e, dall'altra, incriminarne il suo
esercizio. (A.Nat.)
Tribunale penale di Roma, Ufficio G.U.P., sentenza 23 luglio-17 ottobre 2007, n. 2049 (Integrale disponibile
in banca dati)
Diritti della persona - Persona affetta da gravissimo stato morboso degenerative - Necessità di respirazione
assistita - Richiesta del paziente d'interrompere la respirazione - Accanimento terapeutico - Mancanza di una
previsione normativa - Richiesta di provvedimento d'urgenza - Inammissibilità . (Cpc, articolo 700)
In assenza della previsione normativa degli elementi concreti, di natura fattuale e scientifica, di una
delimitazione giuridica di ciò che va considerato accanimento terapeutico, va esclusa la sussistenza di una
forma di tutela tipica dell'azione da far valere nel giudizio di merito, e di conseguenza, ciò comporta
l'inammissibilità dell'azione cautelare, attesa la sua finalità strumentale e anticipatoria degli effetti del futuro
giudizio di merito. Infatti solo la determinazione politica e legislativa, facendosi carico d'interpretare
l'accresciuta sensibilità sociale e culturale verso le problematiche relative alla cura dei malati terminali, di
dare risposte alla solitudine ed alla disperazione dei malati di fronte alle richieste disattese, ai disagi degli
operatori sanitari e alle istanze di fare chiarezza nel definire concetti e comportamenti, può colmare il vuoto
di disciplina, anche sulla base di solidi e condivisi presupposti scientifici che consentano di prevenire abusi e
39
discriminazioni (*) .
Tribunale civile di Roma, Sezione I, ordinanza 16 dicembre 2006 (Integrale disponibile in banca dati)
IL CASO ENGLARO
Diritti della persona - Diritto alla salute ed all'autodeterminazione - Possibilità di rifiutare le cure
indispensabili a tenerlo in vita - Soggetto incapace - Richiesta di sospensione del trattamento da parte del
tutore - Ammissibilità - Bilanciamento tra diritto alla dignità della persona e alla vita - Prevalenza del primo in
concreto - Fattori - Conseguenze - Accoglimento della richiesta . (Cpc, articoli 80 e 732)
Poiché la possibilità di considerare legittima una richiesta del tutore volta all'interruzione del trattamento di
sostegno vitale non può essere esclusa nei casi in cui sia di fatto impossibile ricostruire una volontà presunta
dell'incapace orientata al rifiuto del trattamento, va autorizzata l'interruzione del trattamento di sostegno
vitale artificiale ove, tenuto conto delle risultanze di specie, sulla generale necessità di tutela della vita
biologica in sé e per sé considerata sia ragionevole ritenere prevalenti, in concreto, gli opposti fattori, quali la
valutazione della straordinaria durata dello «stato vegetativo permanente» (e quindi irreversibile) del malato,
la tensione del suo carattere verso la libertà, nonché l'inconciliabilità della sua concezione sulla dignità della
vita con la perdita totale ed irrecuperabile delle proprie facoltà motorie e psichiche e con la sopravvivenza
solo biologica del suo corpo in uno stato di assoluta soggezione all'altrui volere. (A.Nat.)
Corte d'Appello di Milano, Sez. civile, decreto 9 luglio 2008
Diritti della persona - Diritto alla salute ed all'autodeterminazione - Soggetto capace - Possibilità di rifiutare le
cure indispensabili a tenerlo in vita - Soggetto incapace - Nutrizione con sondino naso-gastrico - Richiesta di
sospensione del trattamento - Morte certa del paziente in caso di sospensione - Valutazione del giudice Bilanciamento tra diritto alla dignità della persona e alla vita - Prevalenza di quest'ultimo - Inesistenza di un
diritto a morire - Conseguenze - Rigetto del ricorso - Configurabilità . (Cpc, articoli 80 e 732)
In campo sanitario, se è indubbio che in forza del diritto alla salute ed all'autodeterminazione, il soggetto
capace possa rifiutare anche le cure indispensabili a tenerlo in vita, nel caso di soggetto incapace per il quale
sia in atto un trattamento di nutrizione, che indipendentemente dalle modalità invasive con cui viene
eseguito (sondino naso-gastrico) è sicuramente indispensabile per l'impossibilità del soggetto di alimentarsi
altrimenti e che se sospeso condurrebbe lo stesso a morte, il giudice, chiamato a decidere se sospendere o
meno il trattamento, non può non tenere in considerazione le irreversibili conseguenze cui porterebbe la
sospensione richiesta, dovendo necessariamente operare un bilanciamento tra diritti parimenti garantiti dalla
Costituzione quali quello all'autodeterminazione e dignità della persona e quello della vita. Detto
bilanciamento non può che risolversi a favore del diritto alla vita ove si osservi la collocazione sistematica
(art. 2) dello stesso, privilegiata rispetto agli altri (contemplati dagli artt. 13 e 32), all'interno della
Costituzione (*) .
Corte d'Appello di Milano, decreto 15 novembre 2006
-------(*) Massime tratte da Guida al Diritto , n. 1/2007, pagg. 32-55
LA GIURISPRUDENZA DI LEGITTIMITÀ SULL’ART. 579 C.P.
Reati contro la persona - Delitti contro la vita e l'incolumità individuale - Omicidio del consenziente Istigazione o aiuto al suicidio - Distinzione tra le due figure delittuose - Indicazione (Cp, articoli 579 e 580)
Il discrimine tra il reato di omicidio del consenziente e quello di istigazione od aiuto al suicidio va individuato
nel modo in cui si atteggiano la condotta e la volontà della vittima in rapporto alla condotta dell'agente: si
avrà omicidio del consenziente nel caso in cui colui che provoca la morte si sostituisca in pratica all'aspirante
suicida, pur se con il consenso di questi, assumendone in proprio l'iniziativa, oltre che sul piano della
causazione materiale, anche su quello della generica determinazione volitiva; si avrà invece istigazione o
agevolazione al suicidio tutte le volte in cui la vittima abbia conservato il dominio della propria azione,
40
nonostante la presenza di una condotta estranea di determinazione o di aiuto alla realizzazione del suo
proposito, e lo abbia realizzato, anche materialmente, di mano propria.
Cass. Pen., Sezione I, sentenza 6 febbraio 1998, n. 3147, Rv 210190
Reati contro la persona - Delitti contro la vita e l'incolumità individuale - Omicidio del consenziente Consenso - Perduranza fino al momento del fatto - Necessità (Cp, articolo 579)
L'omicidio del consenziente (art. 579 c.p.) presuppone un consenso non solo serio, esplicito e non equivoco,
ma perdurante anche sino al momento in cui il colpevole commette il fatto.
Cass. Pen., Sezione I, sentenza 27 giugno 1991, n. 8128, Rv 187999
Reati contro la persona - Delitti contro la vita e l'incolumità individuale - Omicidio del consenziente Compatibilità con l'attenuante dei motivi di particolare valore morale o sociale - Sussistenza - omicidio
commesso a fini di eutanasia - Attenuante - Ricorrenza - Esclusione (Cp, articoli 62 e 579)
Per il riconoscimento dell'attenuante dei motivi di particolare valore morale o sociale non è sufficiente che i
motivi del reato siano genericamente apprezzabili o positivamente valutabili da un punto di vista etico o
sociale. I motivi considerati dall'art. 62 n. 1 c.p. devono corrispondere a finalità, principi, criteri i quali
ricevano l'incondizionata approvazione della società in cui agisce chi tiene la condotta criminosa ed in quel
determinato momento storico, appunto per il loro valore morale o sociale particolarmente elevato, in modo
da sminuire l'antisocialità dell'azione criminale e da riscuotere il generale consenso della collettività. In tema
di eutanasia, le discussioni tuttora esistenti sulla sua condivisibilità sono sintomatiche della mancanza di un
generale suo attuale apprezzamento positivo, risultando anzi larghe fasce di contrasto nella società italiana
contemporanea; ciò esclude che ricorra quella generale valutazione positiva da un punto di vista eticomorale che condiziona la qualificazione del motivo come «di particolare valore morale e sociale» (nella
specie l'imputato aveva ucciso la moglie gravemente inferma e, condannato per il delitto di cui all'art. 579
c.p., si doleva del mancato riconoscimento dell'attenuante di cui all'art. 62 n. 1 c.p. asserendo di aver agito
solo per porre fine alle sofferenze della moglie; la Cassazione, pur affermando la compatibilità tra la suddetta
attenuante e il delitto di omicidio del consenziente, ne ha escluso la ravvisabilità, enunciando il principio di
cui in massima).
Cass. Pen., Sezione I, sentenza 7 aprile 1989, n. 2501, Rv 183422
L'operatività della scriminante dell'art. 51 c.p. Conclusivamente, dunque, quand'anche nel comportamento
attivo sanitario immediatamente «letale» siano ravvisabili tutti gli elementi costitutivi del reato di cui all'art.
579 c.p., l'agente ben può invocare la sussistenza della scriminante di cui all'art. 51 c.p. Il contesto entro il
quale si consuma la condotta medica può senz'altro essere quello presupposto dal Costituente per il legittimo
esercizio del diritto all'autodeterminazione della persona attraverso la richiesta di interruzione del
trattamento sanitario. E ciò non equivale a dare ingresso nel nostro ordinamento all'«eutanasia»: quella che
viene in rilievo sembra costituire, al più, un caso di eutanasia consensuale passiva, cioè quella pratica lecita
ed anzi doverosa che si attua astenendosi dal, o smettendo di, posticipare la morte di chi rifiuta le cure che
lo manterrebbero in vita; tutt'altra cosa, dunque, rispetto all'eutanasia consensuale attiva, che si ha quando
la vita del paziente è abbreviata dal gesto di altra persona (40), la quale, pertanto è sempre punibile.
-----
(1) Sul dibattito dottrinale relativo al consenso dell'offeso sotto l'impero del codice penale del 1889 si veda PATALANO,
voce Omicidio (dir. pen.) , in Enciclopedia del diritto , XXIX, Milano, 1979, pag. 966 e MARINI, voce Omicidio , in Digesto
delle discipline penalistiche , VIII, Torino, 1994, pag. 81, cui si rinvia anche per un'analisi delle ragioni sottese
all'inserimento dell'omicidio del consenziente nel codice penale del 1930.
(2) Relazione ministeriale al progetto definitivo, in Lavori preparatori del codice penale e del codice di procedura penale ,
III, Roma, 1929, pag. 373.
(3) Relazione ministeriale , loc. ult. cit.
(4) Per una panoramica di diritto comparato relativa ai paesi di common law si veda TASSINARI, Profili penalistici
dell'eutanasia negli ordinamenti anglo-americani, in Indice penale, 2003, pag. 292.
(5) Su cui vedi PAPPALARDO, L'eutanasia pietosa: profili di interesse medico-legale , in AA.VV., Vivere: diritto o dovere? ,
41
a cura di STORTONI, Trento, 1992, pag. 122; CANESTRARI, Le diverse tipologie di eutanasia , in AA.VV., I reati contro la
persona. I. I reati contro la vita e l'incolumità individuale , trattato diretto da CADOPPI-CANESTRARI-PAPA, Torino, 2006,
pag. 128, che si dilunga sulla figura della eutanasia passiva consensuale e rispetto a soggetti in stato di incoscienza.
(6) In argomento, ad esempio, TASSINARI, Emotrasfusioni e libera autodeterminazione dell'individuo , in Critica del
diritto, 1999, pag. 101.
(7) A Piergiorgio Welby, all'età di 18 anni, venne diagnosticata una distrofia faccio-scapolo-omerale, una patologia
degenerativa dei muscoli scheletrici, progressiva ed ereditaria, che lascia inalterate le funzioni intellettive. Il 14 luglio
1997 Welby perse i sensi ed entrò in coma per il subentro dello stadio della malattia nel quale si consolida l'insufficienza
respiratoria. Contro la sua volontà (in precedenza espressa) venne tracheotomizzato e quindi si risvegliò dal coma. Da
quel momento in poi respirò con l'aiuto di un ventilatore polmonare, nutrendosi di un alimento artificiale, il Pulmocare,
parlando con l'ausilio di un computer e di un software, sempre tuttavia conducendo una vita intellettualmente attiva. Dal
2002 intraprese la sua battaglia per il riconoscimento del diritto di morire, attraverso il sito internet dei Radicali italiani e
l'Associazione Luca Coscioni, di cui era copresidente. Morì il 21 dicembre 2006, dopo che un anestesista, sensibile alle
problematiche dei malati terminali, eseguì la volontà del paziente disconnettendo il respiratore previa sedazione,
accollandosi così il rischio di un procedimento penale in effetti aperto dalla Procura di Roma per omicidio del
consenziente. Cfr. WELBY, Lasciatemi morire , Milano, 2006.
(8) In argomento DONINI, Il caso Welby e le tentazioni pericolose di uno «spazio libero dal diritto» , in Cassazione
penale , 2007, pag. 903; PORTIGLIATTI BARBOS, voce Diritto a morire , in Digesto delle discipline penalistiche , IV,
Torino, 1990, pag. 31; VIGANÒ, Esiste un «diritto a essere lasciati morire in pace»? Considerazioni in margine al caso
Welby , in Diritto penale e processo , 2007, pag. 5; VALLINI, Lasciar morire, lasciarsi morire: delitto del medico o diritto
del malato , in Studium iuris , 2007, pag. 539.
(9) Sul punto si vedano, tra i tanti, CORNACCHIA, Il diritto penale di fronte alle scelte di fine vita , in Teoria del diritto e
dello Stato, 2002, pag. 374; SEMINARA, Riflessioni in tema di suicidio e di eutanasia, in Rivista italiana di diritto e
procedura penale, 1995, pag. 670; GIUNTA, Diritto di morire e diritto penale. I termini di una relazione problematica, ivi,
1997, pag. 74; STORTONI, Riflessioni in tema di eutanasia, in Indice penale, 2000, pag. 479.
(10) Rimarca, in particolare, il fatto che sia l'uomo, quale soggetto passivo del reato, e non la collettività dei consociati,
ad essere titolare dell'interesse leso, MARINI, voce Omicidio, cit. , pag. 82.
(11) Per tutti, si veda PANNAIN, voce Omicidio , in Novissimo Digesto Italiano , XI, Torino, (rist. 1976), 1965, pag. 966.
(12) Così in particolare RAMACCI, I delitti di omicidio. Corso di lezioni , Torino, 1997, pag. 966.
(13) Si pensi alla figura del medico o a quella del familiare della vittima, entrambi normali protagonisti degli episodi di
eutanasia pietosa.
(14) In termini, TASSINARI, L'omicidio del consenziente , in AA.VV., I reati contro la persona. I reati contro la vita e
l'incolumità individuale, cit., pag. 97.
(15) Così, fra gli altri, SERIANNI, voce Omicidio , in Enciclopedia giuridica , XXIII, Roma, 1990, pag. 8.
(16) Cfr. in particolare MARINI, voce Omicidio, cit. , pag. 94 e PATALANO, I delitti contro la vita , Padova, 1984, pag.
193.
(17) In giurisprudenza, tra le altre, vedi Cass., 27 giugno 1991, in Cassazione penale , 1992, pag. 3047; Cass., 13
novembre 1970, ivi , 1972, pag. 195; Cass., 25 luglio 1991, in CED 187999; Cass., 24 aprile 1953, in Giurisprudenza
completa della Cassazione penale , 1953, II, pag. 186.
(18) Cfr. PANNAIN, op. cit. , pag. 881. Secondo Cass., 5 dicembre 1941, in Rivista penale , 1942, pag. 102, alla quale si
richiama PATALANO, voce Omicidio, cit. , pag. 969, non è ravvisabile un valido consenso nell'ipotesi in cui una donna,
all'amante che impugna l'arma contro se stesso, gridi: «a me, a me!» semplicemente per distoglierlo dal proposito
suicida.
(19) Corte d'Assise di Roma, 10 febbraio 1983, Papini, in Foro italiano , 1985, II, pag. 489, con nota di LANZA.
(20) Vedi Cass., 13 novembre 1970, in Cassazione penale , 1972, pag. 195.
(21) Sono di questo avviso MARINI, Delitti contro la persona , Torino, 1996, pag. 89; MANTOVANI, Diritto penale. Parte
speciale. Delitti contro la persona, I, Padova, 1995, pag. 171, secondo i quali, pertanto, in assenza di obblighi impeditivi,
42
l'agente risponderebbe esclusivamente del reato di cui all'art. 579 c.p. Secondo MANTOVANI, loc. ult. cit., una posizione
di garanzia potrebbe semmai ravvisarsi nel caso dell'infermiere che, dopo aver somministrato un veleno alla vittima, ha
comunque l'obbligo di soccorrerla allorché questa, cambiando idea, chieda di essere salvata.
(22) Così ANTOLISEI, Manuale di diritto penale. Parte speciale , I, Milano, 14ª ed., 2002, pag. 64.
(23) In virtù del quale l'errore sul fatto che costituisce un determinato reato non esclude la punibilità per un reato
diverso.
(24) PATALANO, voce Omicidio, cit. , pag. 200.
(25) Sul problema della rappresentanza legale di chi non è più in grado di decidere cfr. CASSANO, Eutanasia indiretta:
chi può chiedere di staccare la spina, in Diritto e giustizia, quotidiano on line del 24 maggio 2005.
(26) Per un'analoga richiesta di archiviazione fondata sul «diritto di essere lasciato morire», vedi di recente Procura della
Repubblica di Sassari, richiesta di archiviazione del 23 gennaio 2008, in Diritto e giustizia , quotidiano on line del 25
gennaio 2008.
(27) Trib. civile di Roma, Sez. I, ordinanza 15 dicembre 2006, Welby c. Antea Associazione Onlus e G.C., in Guida al
diritto, 2007, n. 1, pag. 32, con nota di SALERNO, Un rinvio della questione alla Consulta poteva essere la soluzione
appropriata; in Responsabilità civile e previdenza, 2007, pag. 78, con nota di ALPA, Il danno da accanimento terapeutico.
(28) Trib. pen. di Roma, Ufficio Gup, 23 luglio 2007, n. 2049, in Diritto e giustizia , quotidiano on line del 20 ottobre
2007.
(29) Come insegna la giurisprudenza costituzionale che più volte ha negato la fondatezza delle questioni di legittimità
sollevate nel caso specifico, dovendo il giudice a quo , tra più interpretazioni possibili del dato normativo, privilegiare
sempre quella conforme alla Carta fondamentale: vedi ad esempio Corte cost., sentenza 6 luglio 2001, n. 224; Corte
cost., ordinanza 4 luglio 2002, n. 315.
(30) Soluzione propugnata da SALERNO, op. cit. , pag. 50 che, criticando l'esito rassegnato dal Tribunale civile di Roma
nel ricorso ex art. 700 c.p.c., ha sostenuto: «Probabilmente, se si fosse adottata una diversa lettura delle disposizioni
vigenti, si sarebbe potuto attribuire maggiore rilievo alla forza assiologicamente espansiva e cogente dei precetti della
Costituzione, e dunque interpretare la normativa vigente nel senso conforme al dettato costituzionale».
(31) ROXIN, Sul consenso presumibile , in Antigiuridicità e cause di giustificazione , Napoli, 1996, pag. 154.
(32) La Corte Costituzionale ha ripetutamente chiarito come il diritto al rifiuto di trattamenti terapeutici sia un diritto
inviolabile della persona, immediatamente precettivo ed efficace nell'ambito del nostro ordinamento, non limitato dalla
previsione dell'art. 5 c.c., e soprattutto rientrante «tra i valori supremi» che l'ordinamento giuridico tutela a favore
dell'individuo, non diversamente dal diritto alla vita con il quale concorre «a costituire la matrice prima di ogni altro
diritto» della persona. Cfr. sentenza n. 45/65 ove ha affermato che «i principi fondamentali di libertà» debbono «essere
immediatamente immessi nell'ordinamento giuridico con efficacia erga omnes »; sentenza n. 161/85, ove ha ritenuto
consentito l'intervento chirurgico di disposizione del proprio corpo, se effettuato in conformità al diritto alla salute,
prevalendo l'art. 32 Cost. sul divieto di cui all'art. 5 c.c.; sentenza n. 471/90, ove ha riconosciuto esplicitamente la
possibilità di disporre del proprio corpo, quale necessario postulato «della libertà personale inviolabile» ex art. 13 Cost.;
sentenza n. 238/96, ove ha escluso categoricamente che una persona possa essere costretta a subire un intervento
sanitario non voluto, in assenza di una norma che esplicitamente lo imponga.
(33) La Cassazione, sia in sede civile che penale, ha elaborato nel corso degli anni una giurisprudenza di apertura alle
predette problematiche, riconoscendo, ad esempio, «che in una società ispirata al rispetto ed alla tutela della persona
umana, portatrice di un patrimonio culturale e spirituale prezioso per l'intera collettività, non possa non darsi assoluta
prevalenza al valore sociale dell'individuo», dovendo essere posti al centro della tutela giuridica i suoi diritti fondamentali,
tra cui anche quello promanante dall'art. 32, comma 2, Cost., in ragione del quale va predicata l'assoluta «rilevanza della
volontà del paziente quando si manifesti in forma inequivocabilmente negativa e si concreti in un rifiuto del trattamento
terapeutico prospettatogli»; ne consegue che, in questo caso, il medico «in presenza di una determinazione autentica e
genuina non può che fermarsi, ancorché l'omissione dell'intervento terapeutico possa cagionare il pericolo di un
aggravamento dello stato di salute dell'infermo e, persino, la sua morte... giacché per il medico, di fronte ad un
comportamento nel quale si manifesta l'esercizio di un vero e proprio diritto, la sua astensione da qualsiasi iniziativa di
segno contrario diviene doverosa, potendo diversamente configurarsi a suo carico persino gli estremi di reato» (così
Cass. pen., 29 maggio 2002, Pg in proc. Volterrani, n. 26446, in CED rv. 222581; conformi: Cass. pen., 9 marzo 2001, n.
28132, Barese, in Rivista penale , 2001, pag. 806). Più di recente, le Sezioni Civili della stessa Corte regolatrice (Cass.
civ., 19 maggio 2004, Verzé, n. 14638) hanno affermato il primato assoluto della volontà del paziente non solo in caso di
43
rifiuto o di interruzione della terapia come avvenuto nella fattispecie in esame ma anche per qualsiasi intervento sanitario
del medico, argomentando che, indipendentemente dalla mancata esecuzione in Italia delle disposizioni della
Convenzione di Oviedo per incompletezza della relativa procedura di ratifica, tale principio discende inequivocabilmente
dall'art. 32, comma 2, Cost. (conformi: Cass. civ., 25 novembre 1994, n. 10014, Sforza c. Milesi Olgiati, in La nuova
giurisprudenza civile commentata , 1995, pag. 937, con nota di FERRANDO, Chirurgia estetica, «consenso informato» del
paziente e responsabilità del medico ; Cass. civ., 24 settembre 1997, n. 9374, Università degli studi di Genova c. Siciliano
ed altri, in Responsabilità civile e previdenza , 1998, pag. 78, con nota di MARTORANA, Brevi osservazioni su
responsabilità professionale ed obbligo di informazione ; in Rivista italiana di medicina legale , 1998, pag. 821, con nota
di INTRONA, Consenso informato e rifiuto ragionato. L'informazione deve essere dettagliata o sommaria? ; Cass. civ., 15
gennaio 1997, n. 364, Scarpetta c. Ospedale Umberto I Ancona, in Foro italiano , 1997, I, c. 771, con nota di PALMIERI,
Relazione medico-paziente tra consenso «globale» e responsabilità del professionista ; in La nuova giurisprudenza civile
commentata , 1997, pag. 374, con nota di MARTORANA, Considerazioni su informazione del paziente e responsabilità
medica ; in Guida al Diritto , 1997, n. 5, pag. 63, con nota di UMANI RONCHI, Il consenso all'operazione deve essere
esplicito e non filtrato dalla mediazione dei familiari ; in Giurisprudenza italiana , 1998, pag. 37, con nota di CAGGIA, In
tema di responsabilità del medico ; Cass. civ., 16 maggio 2000, n. 6318, Valli c. Tozzi, in Rivista italiana di medicina
legale , 2000, pag. 1301, con nota di LA MONACA/FIORI, L'informazione del paziente ai fini del consenso: senza più limiti
; in Responsabilità civile e previdenza , 2000, pag. 940, con nota di GORGONI, L'incidenza delle disfunzioni della
struttura ospedaliera sulla responsabilità «sanitaria» .
(34) Così SALERNO, op. cit. , pag. 48. Sulla dignità umana quale elemento essenziale ed indefettibile del nostro
ordinamento, vedi SALERNO, Ragioni di Stato e dignità dell'uomo , in GIANELLI/PATERNÒ (a cura di), Tortura di Stato.
Le ferite della democrazia , Roma, 2004, pag. 181.
(35) Sul punto vedi VALLINI, Il valore del rifiuto di cure «non confermabile» nel paziente alla luce della convenzione di
Oviedo sui diritti umani e la biomedicina, in Diritto pubblico, 2003, pag. 185.
(36) Pertanto non potranno esercitare tale diritto per conto del malato il rappresentante legale del minore o dell'infermo
di mente, in quanto egli ha titolo solo per effettuare interventi a favore e non in pregiudizio della vita del rappresentato,
né hanno giuridicamente potere di rappresentanza in materia i familiari dell'interessato.
(37) Come invece ipotizzato, nel noto «caso Englaro» dalla Suprema Corte (Cass. civ., 4 ottobre 2007, n. 21748, in
Guida al Diritto , 2007, n. 43, pag. 29, con nota di SALERNO, L'apertura al testamento biologico non cancella i problemi
applicativi ) : «(...) la ricerca della presunta volontà della persona in stato di incoscienza - ricostruita alla stregua di
chiari, univoci e convincenti elementi di prova, non solo alla luce dei precedenti desideri e dichiarazioni dell'interessato,
ma anche sulla base dello stile e del carattere della sua vita, del suo senso di integrità e dei suoi interessi critici e di
esperienza assicura che la scelta in questione non sia espressione del giudizio sulla qualità di vita proprio del
rappresentante, ancorché appartenente alla stessa cerchia familiare del rappresentato (...) ».
(38) Per l'esclusione del valore terapeutico dell'atto, quando la sua esecuzione non esige competenze o delibazioni
sanitarie, come tale eseguibile da non sanitari solo sulla base della richiesta libera e responsabile del malato, ROXIN,
Strafrech , AT, Bd. II, Beck, 2003, § 31/123, pag. 666, nel paragrafo specificamente dedicato all'interruzione tecnica del
trattamento sanitario quale esempio secondo l'A. di condotta omissiva mediante azione.
(39) In proposito vedi DONINI, op. cit. , pagg. 910-911, che si interroga sulla scriminante medica e sulla sua estensibilità
al fatto del parente, facendo notare che il distacco di un respiratore può essere attuato anche solo disinserendo a monte
il tubo dell'aria, dalla macchina (nota 12).
(40) Ad esempio, un'iniezione letale, tipica ipotesi di omicidio del consenziente: così VILLANI, Lasciar morire, lasciarsi
morire: delitto del medico o diritto del malato?, cit., pag. 541.
Guida al Diritto
Guida al Diritto n. 30, 26.07.2008 pg 78 - De Nicola Sergio , Porracciolo Antonino
Resta ancora da sciogliere il nodo sul ricorso del Pm in Cassazione
La sezione I civile della Corte d'appello di Milano, con decreto datato 25 giugno 2008 (e depositato il
successivo 9 luglio), ha scritto un'ulteriore (e, forse, l'ultima) pagina della storia giudiziaria che ha coinvolto suo malgrado - Eluana Englaro.
44
Il caso - La vicenda di cui si è occupata la Corte meneghina è notissima, essendo alla ribalta delle cronache
già da diversi anni. Il 18 gennaio 1992 Eluana Englaro rimase vittima di un incidente stradale che ne
comportò inizialmente una condizione di coma profondo e, successivamente, un persistente stato vegetativo,
con conseguente perdita di ogni facoltà psichica superiore e, quindi, di qualunque funzione percettiva e
cognitiva.
Beppino Englaro, padre e tutore di Eluana, già nel 1999 e poi nel 2002, aveva chiesto, nell'interesse della
propria rappresentata, l'emanazione di un provvedimento che disponesse l'interruzione della terapia di
sostegno vitale attuata in favore della figlia, deducendo l'impossibilità, per costei, di riprendere conoscenza,
nonché l'irreversibilità della patologia e l'inconciliabilità di tale stato con le precedenti convinzioni della figlia
stessa in ordine alla vita e alla dignità individuale. In entrambi i casi i giudici avevano respinto le istanze.
Nel terzo procedimento, il tutore chiese inizialmente la nomina di un curatore speciale, la cui assenza aveva
comportato la declaratoria di inammissibilità di un precedente ricorso per Cassazione; e la Corte d'appello di
Milano, riformando il terzo provvedimento (negativo) del tribunale di Lecco, dispose la chiesta nomina,
tuttavia disattendendo, nel merito, la richiesta di Beppino Englaro, sul rilievo che l'attività espletata non
consentiva di attribuire alle idee espresse da Eluana, all'epoca in cui era ancora pienamente cosciente,
un'efficacia che consentisse di considerarle, anche nell'attualità, quale sicura volontà della stessa di non
proseguire le cure e i trattamenti che la tenevano in vita.
La sentenza 21748/2007 - Il resto è cronaca recente. Avverso il (terzo) provvedimento della Corte d'appello
venne proposto ricorso per Cassazione, e il giudice di legittimità, con la sentenza 4-16 ottobre 2007 n.
21748, ha cassato il decreto impugnato e rimesso le parti innanzi a diversa sezione della stessa Corte
d'appello (per la motivazione della sentenza e per alcune considerazioni di carattere generale sulla vicenda,
ci permettiamo di rinviare all'inserto-dossier contenuto nel n. 11/2007 di «Famiglia e minori»).
Al giudice di rinvio venne tracciato l'articolato - ma chiarissimo - principio di diritto da applicare. Secondo la
Cassazione, la Corte territoriale avrebbe avuto il potere-dovere di autorizzare la richiesta di disattivazione del
sondino naso-gastrico che nutre e idrata, e dunque tiene in vita, Eluana Englaro, ove fosse rimasta accerta la
contestuale presenza delle seguenti condizioni:
1) l'irreversibilità dello stato vegetativo, da valutarsi sulla base di un rigoroso apprezzamento clinico, nonché
l'insussistenza, secondo gli standard scientifici riconosciuti a livello internazionale, della benché minima
possibilità di un qualche, sia pure flebile, recupero della coscienza e di un ritorno a una percezione del
mondo esterno;
2) la circostanza che l'istanza di disattivazione dello strumento sanitario fosse realmente espressiva, in
relazione a elementi di prova chiari, univoci e convincenti, della volontà (la sentenza usava,
emblematicamente, il termine «voce») del paziente, desumibile dalle sue precedenti dichiarazioni ovvero
dalla sua personalità, dal suo stile di vita e dai suoi convincimenti, e quindi del suo modo di concepire, prima
di cadere in stato di incoscienza, l'idea stessa di dignità della persona.
Ove l'uno o l'altro presupposto non fosse stato ricorrente (così si concludeva la sentenza della Cassazione),
al giudice sarebbe stata preclusa la possibilità di accordare la chiesta autorizzazione, dovendo in tal caso
esser data incondizionata prevalenza al diritto alla vita, indipendentemente dal grado di salute, di autonomia
e di capacità di intendere e di volere del soggetto interessato, nonché dalla percezione, che altri potessero
avere, della qualità della vita stessa.
Il decreto di Milano - In sede di rinvio dalla Cassazione, il giudice di secondo grado del capoluogo lombardo,
all'esito di un articolato provvedimento, ha accolto il reclamo proposto da Beppino Englaro avverso il decreto
del tribunale di Lecco, autorizzandolo, quindi, a disporre l'interruzione del trattamento, attuato in favore della
figlia Eluana, di sostegno vitale artificiale, realizzato - come già visto - mediante alimentazione e idratazione
con sondino naso-gastrico.
Il contenuto di quel provvedimento appariva ampiamente prevedibile. Avemmo, infatti, già modo di scrivere
(nell'inserto-dossier in precedenza richiamato) che era quasi scontato l'esito positivo del duplice
accertamento - quello di natura medica e l'altro fattuale - che il giudice di legittimità aveva demandato alla
Corte territoriale.
L'aspetto sanitario. - Sotto il profilo clinico, infatti, si era rilevato che il neurologo Carlo Alberto Defanti, il
quale aveva avuto in cura Eluana Englaro, aveva dichiarato di aver già sottoposto costei a diversi esami, tutti
conclusisi nel senso di escludere qualunque segno di coscienza; anzi, il giudice di rinvio ha ritenuto di non
dover procedere ad alcuna (ulteriore) verifica della questione, giacché la stessa risultava coperta da
giudicato interno (o, comunque, da un'equivalente preclusione endoprocessuale) a seguito del giudizio
accertativo svolto nella precedente fase di reclamo.
45
... e la volontà di Eluana - In ordine alla questione fattuale, osservammo che la stessa Corte di cassazione
rilevava che l'indagine istruttoria, già svolta nella suindicata fase del procedimento, aveva appurato,
attraverso testimoni, che Eluana, «esprimendosi su una situazione prossima a quella in cui ella stessa
sarebbe venuta, poi, a trovarsi, aveva manifestato l'opinione che sarebbe stato per lei preferibile morire
piuttosto che vivere artificialmente in una situazione di coma».
Mette conto di evidenziare che la Corte d'appello di Milano, prima di procedere alla ricostruzione della
volontà di Eluana Englaro, si è data carico di valutare se il principio di diritto enunciato dalla Cassazione si
ponesse in contrasto con norme di rango costituzionale, quanto meno nella parte in cui il giudice di
legittimità non aveva esplicitamente svolto la relativa indagine. Il risultato della disamina è stato negativo,
essendosi dato atto che il pieno diritto di autodeterminazione terapeutica del malato, anche se incapace, si
racchiude nella valorizzazione della preminenza della persona umana e della sua potestà di
autodeterminazione terapeutica, principi che hanno un diretto fondamento normativo proprio nelle norme
contenute negli articoli 2, 3, 13 e 32 della Carta fondamentale.
Superato positivamente il vaglio di un eventuale contrasto con le regole costituzionali, la Corte milanese
richiama alcuni passaggi della nuova audizione, a cui essa stessa aveva proceduto il 25 giugno 2008, del
padre-tutore di Eluana, da cui era emerso che in vari frangenti la medesima Eluana aveva manifestato la
ferma convinzione che restare in una condizione di assoluta incapacità di locomozione o di percezione «non
sarebbe stato, per lei, un vero vivere, perché solo una vita piena, o comunque in condizioni di capacità di
muoversi, di pensare, di comunicare e rapportarsi con gli altri avrebbe meritato di essere vissuta, mentre
non lo sarebbe stato una vita meramente biologica».
Il giudice d'appello si sofferma, successivamente, sulle dichiarazioni testimoniali di tre amiche di Eluana,
dichiarazioni che, secondo la Corte, costituiscono «conferma della ricostruzione effettuata dal tutore», e che
consentono di concludere che, «effettivamente, per Eluana sarebbe stato inconcepibile vivere senza essere
cosciente, senza essere capace di avere esperienze e contatti con gli altri»: «non potrebbe essere poi più
toccante, e densa di significato ai fini del decidere - così si legge nel decreto - la plastica e vivida immagine
di Eluana che accende un cero pregando per ...la morte del suo amico rimasto paralizzato a causa di un
incidente stradale, senza aver nemmeno ipotizzato che potesse essere preferibile per lui la diversa soluzione
di vivere in condizioni di assoluta menomazione».
Sicché, secondo la Corte, sarebbe difficile dubitare, «alla luce del quadro personologico di Eluana fin qui
delineatosi in base alle prove assunte, che lei non avrebbe mai accettato - nemmeno per un breve periodo, e
men che mai per sedici anni e più - (...) di restare inchiodata a tale condizione costrittiva oggettivamente
immutevole e senza speranza».
Sulla scorta delle premesse così sintetizzate, i giudici della Corte milanese, nella consapevolezza della
«responsabilità del decidere», hanno quindi deliberato di dover «inevitabilmente» accogliere il ricorso di
Beppino Englaro, non senza aver sottolineato la propria «partecipata personale sofferenza».
Gli ulteriori scenari - Sono molteplici le questioni giuridiche e metagiuridiche proposte da vicende come
quelle di Eluana Englaro e di Piergiorgio Welby. Per ovvie ragioni di spazio ci limitiamo a evidenziarne - a mo'
di spunto - soltanto alcune.
Accanimento terapeutico e trattamento sanitario - Appare discutibile (e dubitiamo che - almeno su questo
punto - la discussione potrebbe condurre a una convergenza di opinioni) se gli interventi operati nei
confronti di Eluana diano luogo a una forma di accanimento terapeutico, inteso - secondo la definizione
dell'articolo 14 del codice di deontologia medica - come somministrazione ostinata di trattamenti da cui non
si possa fondatamente attendere un beneficio per la salute del malato e/o un miglioramento della qualità
della vita.
Sul punto la richiamata sentenza 21748/2007 della Suprema corte si era pronunciata in senso negativo,
affermando che l'intervento in questione rappresenta, piuttosto, un presidio proporzionato rivolto al
mantenimento del soffio vitale, salvo che, nell'imminenza della morte, l'organismo non sia più in grado di
assimilare le sostanze fornite o che sopraggiunga uno stato di intolleranza, clinicamente rilevabile, collegato
alla particolare forma di alimentazione.
Secondo la stessa pronuncia, non potrebbero esservi dubbi, comunque, circa il fatto che l'alimentazione e
l'idratazione a cui è sottoposta Eluana Englaro integrino gli estremi del trattamento sanitario: esse, infatti, si
fondano su un sapere scientifico, che è posto in essere da medici, anche se poi proseguito da non medici, e
consiste nella somministrazione di preparati come composto chimico implicanti procedure tecnologiche.
Ma, una volta che si ritenga di dover inquadrare il tipo di alimentazione (e idratazione) praticato nei confronti
di Eluana nell'alveo del trattamento sanitario, è breve (e corretto) il passo al richiamo, effettuato anche dalla
46
Corte d'appello di Milano, all'articolo 32, secondo comma, della Costituzione, che esclude qualunque forma di
obbligatorietà di quel tipo di trattamento.
La possibilità di un nuovo ricorso - Appare, altresì, discutibile la possibilità che il decreto della Corte milanese
possa essere ulteriormente impugnato in Cassazione.
È evidente che la questione non si pone relativamente alla posizione processuale del tutore e del curatore
speciale di Eluana Englaro, avendo il primo domandato, con adesione del secondo, l'adozione del
provvedimento poi pronunciato dalla Corte, sicché difetterebbe, in capo agli stessi, l'interesse ad agire
(rectius, impugnare) previsto dall'articolo 100 del codice di procedura civile.
Il dubbio sussiste quanto alla possibilità di un gravame del pubblico ministero intervenuto nel procedimento
conclusosi con il decreto in commento, il quale, peraltro, aveva chiesto il rigetto del reclamo o, in subordine,
un supplemento istruttorio.
Sul punto va evidenziato che, ai sensi del comma 1 dell'articolo 72 del Cpc, il pubblico ministero, che
interviene nelle cause che avrebbe potuto proporre, ha gli stessi poteri che competono alle parti. Il che
significa - secondo l'opinione prevalente - che l'organo pubblico può esercitare il potere di impugnazione
esclusivamente nelle cause che esso stesso avrebbe potuto iniziare e non anche in quelle per le quali gli è
consentito esclusivamente di intervenire.
Ne consegue che un'impugnazione del pubblico ministero avverso il decreto in questione può ritenersi
ammissibile solo ove la problematica di cui si discute possa farsi rientrare, magari attraverso un'applicazione
analogica (stante la novità della questione), in una delle materie per le quali la legge consente all'organo
pubblico la facoltà di promuovere l'azione civile.
Un'indicazione valutata - In ogni caso, seppure si ritenesse consentita un'ulteriore impugnazione dell'Ufficio
del Procuratore generale, essa difficilmente potrebbe essere fondata sulla mancata adesione da parte del
collegio giudicante alla indicazione formulata dal medesimo ufficio del pubblico ministero che, facendo leva
sulla presunta sicura appartenenza confessionale di Eluana (quale persona di «formazione religiosa», che
aveva aderito sul piano esistenziale a una «impostazione conforme a quella della religione cattolica»), ha
ritenuto di farne derivare un atteggiamento spirituale (e culturale) riferibile alla stessa Eluana che l'avrebbe
quindi determinata - se fosse stata in grado di esprimere anticipatamente la propria volontà in proiezione
futura ovvero, il suo best interest per l'ipotesi in cui si fosse trovata a essere nel corso successivo della sua
esistenza totalmente priva della capacità cognitiva, e della possibilità di continuare a condurre in autonomia
la propria vita - ad accettare anticipatamente «di sopravvivere in una condizione di totale menomazione
fisiopsichica e senza più la possibilità di recuperare le sue funzioni percettive e cognitive», formulando quindi
un'opzione preferenziale per essere mantenuta in vita, con qualunque mezzo.
La predetta indicazione, infatti, è stata espressamente valutata dalla Corte milanese, che l'ha motivatamente
confutata, rilevando che lo stesso Procuratore generale non aveva comunque chiarito - nel suo parere sulla
(in) accoglibilità del reclamo proposto dal padre-tutore della sfortunata protagonista di questa eccezionale
vicenda esistenziale - «profilo la formazione religiosa cattolica avrebbe potuto implicare per Eluana una
scelta contraria all'interruzione del trattamento di sostegno alimentare artificiale»: e, in ogni caso, il collegio
decidente ha ritenuto che, seppure si fosse attribuito un rilievo particolare alla sfera religiosa della giovane,
includendola fra gli elementi da utilizzare per effettuare ex post il giudizio richiesto dalla Suprema corte nella
citata sentenza 21748/2007, l'istruttoria compiuta già nella precedente fase processuale, e le ulteriori
audizioni effettuate nel corso del giudizio di rinvio dopo l'annullamento del primo decreto emesso dalla
stessa Corte milanese, non avevano offerto «i necessari elementi, sia sul piano generale e astratto, che
particolare e concreto, per considerarlo antinomico rispetto alla personalità indipendente e alle convinzioni
ed idee di Eluana sulla vita e sulla dignità individuale».
L'interesse superiore - Ma, soprattutto, il collegio decidente - richiamando ex professo i criteri enunciati dai
giudici di legittimità nella decisione citata - ha ritenuto che il giudizio diretto a ricostruire il best interest di
Eluana, seppure debba includere (fra gli altri elementi valutabili) anche le «convinzioni (...) di carattere
religioso», doveva tuttavia essere «riferito alla sua specifica e concreta individualità così come si era già
formata ed espressa al momento in cui era pienamente cosciente, e non certo basarsi in via meramente
astratta su quelli che potrebbero essere in via generale sulla problematica in oggetto i canoni e le regole
morali della Chiesa cattolica (peraltro rimasti privi, nel fuggevole accenno fattone dal Pubblico ministero, di
qualsivoglia precisazione contenutistica), che evidentemente ciascuno, anche se genericamente qualificabile
come credente, o più specificamente come credente cattolico, è ben libero - tanto più in uno Stato laico che
47
tutela la libertà di coscienza come valore preminente - di condividere o meno, di applicare o meno nella
concretezza della sua esperienza di vita privata e individuale (è del resto evidente che una professione di
appartenenza - più o meno formale o generica - a una certa confessione religiosa non implica affatto anche
la inesorabilità di una piena condivisione e osservanza pratica, e in concreto, di tutte le relative regole, anche
morali) ».
I piani a confronto - Con tale affermazione, dunque, che rappresenta sul piano etico (e lato sensu, culturale)
lo snodo fondamentale di questa certamente sofferta decisione, la Corte milanese ha optato per un
approccio non confessionalmente orientato sulle tematiche della tutela della vita umana, e della libertà di
auto-determinazione della singola persona, individuata come valore fondamentale che caratterizza la
condizione dell'uomo in funzione di salvaguardia della sua «dignità», in sintonia con la previsione che
avevamo formulato nel commento alla altrettanto storica sentenza del tribunale di Cagliari 22-24 settembre
2007, in precedenza richiamata, allorché affermammo che spettava e «spetta alla giurisprudenza il non facile
compito di coniugare una visione laica - o comunque, non confessionalmente orientata - delle delicatissime
problematiche coinvolte, con una (attenta) lettura costituzionalmente orientata delle singole disposizioni» di
legge, e precisamente, in quella fattispecie, della legge 19 febbraio 2004 n. 40 (si veda «Guida al Diritto», n.
46/2007, pag. 69).
Famiglia e minori
Famiglia e Minori 01.07.2008 n. 7 pg. 80 – Salerno Giulio M.
Un intervento attuato sulla valutazione del possibile pregiudizio
Il tribunale per i minorenni di Bari, con due decreti, rispettivamente del 10 e del 30 maggio 2008, ha deciso
su un caso di assoluta drammaticità. I genitori di un bimbo di pochi giorni e affetto da una gravissima
patologia non hanno inizialmente prestato il consenso al trasporto del neonato in un centro ospedaliero
specializzato, e dunque implicitamente hanno rifiutato la proposta di proseguire i trattamenti sanitari presso
una sede ritenuta dai medici più idonea a prestare le cure indispensabili per la sopravvivenza del neonato. Il
tribunale ha, così, sospeso la potestà genitoriale e nominato un tutore provvisorio, autorizzando il
trasferimento del neonato presso il centro specialistico. Con il successivo decreto, il tribunale ha
sostanzialmente revocato la sospensione della potestà genitoriale (mediante un atto di reintegrazione nella
potestà ex articolo 332 del Cc), avendo constatato il venir meno dei presupposti in quanto i genitori hanno
poi manifestato il loro «pieno consenso e la costante volontà di collaborazione» alla sottoposizione alle
terapie che sono state effettuate, e «hanno ribadito la loro volontà di continuare a collaborare con il
personale medico, affinché il piccolo possa ricevere tutte le cure idonee a garantirgli la sopravvivenza».
Gli altri provvedimenti - La seconda decisione è accompagnata dalla prescrizione di altri provvedimenti
adottati nell'interesse del minore (ai sensi dell'articolo 336 ultimo comma, del Cc), e che si rivolgono sia ai
genitori, sia ai sanitari, sia all'amministrazione comunale interessata. Ai primi è stato ricordato che devono
«prestare la massima collaborazione nei confronti dei sanitari» e dovranno «aderire a tutte le indicazioni che
saranno loro impartite», a pena di subire, in caso di inottemperanza, ulteriori provvedimenti «limitativi» (cioè
di sospensione o forse, più verosimilmente, di decadenza) della potestà genitoriale. Ai sanitari è stato
imposto l'obbligo di tenere costantemente aggiornato il giudice competente sulle condizioni di salute del
neonato, anche segnalando le «eventuali situazioni di pregiudizio», ovvero, presumibilmente, quelle che
potrebbero derivare dall'inosservanza del predetto dovere di «massima collaborazione» posto a carico dei
genitori. Al comune, infine, è stato attribuito il compito di svolgere, tramite i suoi appositi uffici e servizi, una
non meglio specificata ma comunque «accurata attività di sostegno e monitoraggio» a favore della famiglia
in questione, mediante la sollecitazione (anch'essa piuttosto generica, ma sembra da doversi rivolgersi ad
altri enti) di interventi, pure di carattere economici, che possano agevolare lo svolgimento dei compiti di cura
che sono propri dei genitori.
Le questioni sollevate - Dunque, circa il primo atto in questione, questo ha comportato la sottrazione ai
genitori non solo della specifica decisione circa il trasporto del neonato in un centro medico specialistico decisione il cui mancato assenso, viceversa, sembra porsi, almeno formalmente, come causa prima ed
esclusiva del provvedimento giurisdizionale in questione - ma anche, seppure in via provvisoria, di ogni
48
futura decisione in ordine al neonato, e precipuamente in relazione ai trattamenti sanitari che sarebbero stati
adottati dal personale medico del centro specialistico (seppure, invero, il secondo decreto tenda a
restringere gli effetti del primo provvedimento, forse per attenuare l'eco ormai prodottasi, al solo
trasferimento nel centro specializzato), almeno fino a quando non si fosse proceduto alla revoca del
provvedimento di sospensione della potestà genitoriale. Tale provvedimento, così come l'intera procedura
seguita nel caso in questione, sollevano dilemmi etici della massima rilevanza e presentano anche numerosi
aspetti di interesse giuridico in ordine ai quali in questa sede si prospetteranno i profili essenziali.
Valutazione in via emergenziale - In primo luogo, dal punto di vista procedurale, il provvedimento di
sospensione della potestà genitoriale appare come il risultato di una valutazione posta in essere dal giudice
competente in via pressoché emergenziale, dato che l'atto è stato adottato sulla base della necessità di agire
con estrema urgenza in ordine al neonato gravemente malato, e quindi tenendo conto solo delle richieste
inizialmente formulate del pubblico ministero e senza neppure sentire le parti direttamente interessate, cioè i
genitori. Tale rapidità procedurale, dimostrata anche dal fatto che si è deciso di non svolgere «ulteriori
approfondimenti del caso», è stata sommariamente giustificata dal giudice stesso «in ragione della gravità
ed urgenza della situazione». Parimenti, anche il contenuto del provvedimento ha trovato la sua essenziale e
stringata motivazione nelle «gravissime condizioni del minore che rendono necessario il suo trasporto presso
un centro specializzato». In altre parole, sia la particolare speditezza della procedura seguita (che ha
precluso il contraddittorio con i genitori) che la peculiare ampiezza del provvedimento adottato (che ha
provvisoriamente escluso i genitori medesimi dall'adozione di qualsiasi decisione in ordine al neonato) sono
apparse tipiche conseguenze dell'applicazione di alcuni principi generalissimi del diritto, vale a dire la
necessità e l'urgenza del provvedere in relazione a situazioni del tutto peculiari e che per ciò stesso, nel caso
di specie, hanno determinato il giudice a disporre la temporanea deviazione rispetto al regime ordinario
dell'esercizio della potestà genitoriale.
La gravità della situazione - In particolare, dal punto di vista del fondamento normativo del provvedimento di
sospensione, il tribunale ha richiamato innanzitutto l'articolo 333 del codice civile, che attribuisce al giudice e in specie al tribunale dei minorenni ai sensi dell'articolo 38 delle disposizioni di attuazione del Cc - il potere
di adottare «i provvedimenti convenienti» nel caso in cui «la condotta di uno o di entrambi i genitori non è
tale da dare luogo alla pronuncia di decadenza» della potestà, «ma appare comunque pregiudizievole al
figlio». In breve, il presupposto indispensabile per l'adozione del provvedimento giurisdizionale per l'appunto
«conveniente» e dunque adatto al singolo e specifico caso, è stato fornito dalla valutazione circa il
pregiudizio che il figlio avrebbe subito (o avrebbe potuto ragionevolmente subire nell'immediato futuro) a
causa della condotta già posta in essere (ovvero che presumibilmente sarebbe stata posta in essere) dai
genitori. Evidentemente, il tribunale dei minorenni ha ritenuto, sulla base delle risultanze agli atti, che la
condotta dei genitori non dovesse essere ritenuta come fonte di «grave pregiudizio» nei confronti del
minore, in quanto, se così fosse stato, avrebbe dovuto dichiarare non la sospensione, ma la decadenza dalla
potestà genitoriale ai sensi dell'articolo 330 del Cc (si veda anche l'articolo 332 sulla successiva
reintegrazione nella potestà «quando, cessate le ragioni per le quali la decadenza è stata pronunciata, è
escluso ogni pericolo di pregiudizio per il figlio»). Tuttavia, non può non rilevarsi che se, come è stato
espressamente dichiarato nelle stesse premesse dell'atto in questione, al giudice la situazione del minore è
apparsa connotata da «gravità» - anche perché è noto a tutti che le decisioni genitoriali in contestazione
riguardavano trattamenti sanitari collegati alla stessa possibilità di sopravvivenza del neonato - allora la
motivazione del provvedimento non appare del tutto coerente con le conclusioni adottate, quasi che il
giudice, di fronte all'estrema delicatezza della questione, abbia preferito una soluzione meno drastica.
Del resto, che vi sia stata una qualche sovrapposizione nella concreta applicazione dei due istituti
(sospensione e decadenza) è palesemente dimostrato dal fatto che il secondo provvedimento per un verso
non specifica l'esatto contenuto del precedente decreto - se cioè si sia trattato di sospensione o decadenza per altro verso è espressamente volto alla «reintegrazione» nella potestà genitoriale ai sensi dell'articolo 332
del Cc. Ciò, peraltro, induce a riflettere sulla sostanziale inadeguatezza dei modelli processuali attualmente
offerti dal nostro codice civile al giudice competente per verificare se, in casi così complessi come quello in
esame, la potestà genitoriale si eserciti costantemente in conformità agli effettivi interessi del minore.
La manifestazione di consenso - Il sindacato esercitato dal giudice nel caso in questione appare coerente con
quanto usualmente seguito - pur in mancanza di un'apposita disciplina generale sui poteri dei legali
rappresentanti e sui limiti che questi incontrano in tema di prestazione del consenso in materia di salute (si
49
veda, invece, la legge n. 211 del 2003 che nel campo della sperimentazione clinica prevede che il minore o
l'incapace sia informato e sentito in rapporto alla sua capacità di discernimento e di autodeterminazione) allorché un individuo, a causa della minore età o perché interdetto, non sia capace di esprimere validamente
il suo consenso personale e informato alla sottoposizione a un determinato trattamento sanitario. Come
noto, il consenso è espresso dal legale rappresentante, e dunque, nel caso di minori, da coloro che hanno la
potestà genitoriale, i quali, in tali casi, agiscono nell'esercizio delle funzioni di cura che la legge riconosce
loro nei confronti del figlio (articoli 147 e 357 del Cc; anche la Convenzione di Oviedo del 1997 che
attribuisce ai genitori dei figli minori, in qualità di «rappresentanti legali» di questi ultimi, il compito di dare il
consenso informato ai trattamenti sanitari relativi ai figli medesimi). In tal senso, trattandosi non di un atto
di natura patrimoniale, ma di un compito attinente a un diritto personalissimo, correttamente si ritiene che la
valutazione posta in essere dai genitori incontri limiti diversi e ulteriori rispetto a quelli che sono propri dei
poteri di rappresentanza esercitati, ad esempio, in materia patrimoniale (si pensi, in specie, alla convenienza
economica dell'atto). Dunque, poiché trattasi di attività spettante ai genitori non in quanto manifestazione di
un diritto loro proprio, ma come specifico aspetto di un munus che deve essere esclusivamente volto alla
tutela degli interessi personalissimi della prole, i genitori devono essenzialmente prendere in considerazione
il pregiudizio di tipo esistenziale che consegue o che può ragionevolmente conseguire dalla sottoposizione o
meno del minore al trattamento sanitario proposto dal personale medico.
La scelta sulla cura - Diversamente, nel nostro ordinamento, né ai genitori di un minore, né comunque ai
familiari di una persona incapace di intendere o volere, spetta la valutazione ultima circa la configurabilità
dell'atto medico come «accanimento terapeutico» e dunque il compito di decidere circa la sottoposizione o
meno del minore o dell'incapace a tali trattamenti sanitari, giacché, salvo l'eventuale intervento
giurisdizionale, il discrimine in questione risiede essenzialmente nella responsabilità assunta dal personale
medico nel rispetto delle leggi e del proprio codice deontologico. In ogni caso, la volontà espressa dai
genitori nel momento in cui rifiutano di far sottoporre il minore a trattamenti sanitari proposti dal personale
medico nell'interesse del minore, appare giuridicamente sindacabile dal giudice, il quale può pertanto
avvalersi dei poteri attribuiti dall'ordinamento ai sensi dell'articolo 333 del Cc proprio al fine di evitare quelle
condotte dei genitori ritenute «pregiudizievoli» per il figlio minore (si vedano, ad esempio, i casi di rifiuto
della trasfusione di sangue da parte dei genitori per motivi religiosi oppure ancora di rifiuto di sottoporre a
trattamento chemioterapico il minore affetto da tumore; si veda, per quest'ultimo caso, la decisione del
tribunale dei minorenni di Perugia del 26 aprile 1999, in «Diritto di famiglia», 1999, pagine 1231 e
successive).
Di norma, la decisione circa il «se e a quali cure sottoporsi» è di esclusiva spettanza della persona afflitta
dallo stato patologico, la quale, compiutamente informata sulle sue condizioni e sui trattamenti sanitari resi
possibili dalla scienza, ha l'esclusiva facoltà di valutare in piena consapevolezza le conseguenze della sua
decisione, anche in virtù di fondamentali principi chiaramente deducibili dalla Costituzione (si vedano gli
articoli 2, 13 e 32 quali fonti primarie della tutela offerta a favore dei diritti inviolabili della persona, della
dignità umana, della libertà personale e del diritto alla salute).
I figli minori - Nel caso di figli minori, dal punto di vista costituzionale, subentrano anche i principi che da un
lato attribuiscono ai genitori il diritto e il dovere di mantenere, istruire ed educare i figli (articolo 30 comma
1), dall'altro garantiscono l'infanzia e la gioventù (articolo 31, comma 1). Insomma, ai genitori, nell'esercizio
di quei «diritti della famiglia» richiamati nel comma 1 dell'articolo 29 della Costituzione, spettano in via
primaria le decisioni attinenti alla cura, anche sotto il profilo medico-sanitario, dei figli minori, ma queste
stesse decisioni trovano fine essenziale e limite ultimo nell'interesse esclusivo dei figli medesimi e in specie
nella garanzia dei diritti fondamentalissimi di minori, e in primo luogo del diritto alla vita. In ultima analisi,
nel nostro ordinamento spetta al giudice controllare se la valutazione dei genitori risponda all'interesse del
minore incapace di esprimersi.
Un interesse prevalente - Nel caso in esame, come detto, il giudice ha concluso che, rispetto al rifiuto
opposto dai genitori al trasferimento del neonato nel centro medico specialistico - e dunque,
contemporaneamente, a sottoporre il figlio a ulteriori trattamenti sanitari - dovesse considerarsi prevalente
l'interesse del minore a usufruire dei trattamenti considerati indispensabili dal personale medico al fine di
garantire la tutela della salute del neonato.
Come si è avuto modo di riscontrare anche nelle interviste rilasciate da medici e autorevoli esperti, anche la
determinazione della sussistenza del «pregiudizio» che il neonato avrebbe subito a causa del comportamento
50
dei genitori in un caso così complesso come quello in oggetto, non appare suscettibile di univoca soluzione,
ma al contrario appare soggetta a notevole oscillazioni interpretative.
A ben vedere, conclusioni così diverse sembrano dipendere, almeno per quanto è dato comprendere anche a
chi non è esperto della scienza medica, non soltanto dall'inevitabile variabilità delle considerazioni di ordine
prognostico in ordine alle presumibili conseguenze che deriverebbero dall'applicazione o meno di determinati
trattamenti sanitari, ma anche dal «pre-giudizio» circa la preventiva assunzione del quadro di interessi e
valori da considerare prevalenti e dunque condizionanti la sfera cognitiva e la conseguente attività
decisionale in ordine al caso concreto.
La funzione genitoriale - Da ultimo, per evidenti ragioni di sintesi non si possono qui considerare le ulteriori e
complesse questioni che scaturiscono anche dal secondo provvedimento, soprattutto nella parte in cui
impone ai genitori di aderire a «tutte le indicazioni che saranno loro impartite dal personale medico», a pena
di successivi provvedimenti giurisdizionali incidenti sulla potestà genitoriale. In vero, non può non segnalarsi
che nulla nel nostro ordinamento - neppure un provvedimento di un giudice - può imporre la permanente
subordinazione dell'esercizio della funzione genitoriale a indicazioni di carattere prescrittivo provenienti da
soggetti terzi (e, ben inteso, diversi dalla stessa autorità giurisdizionale che sia competente e legittimata a
intervenire sulla base delle norme vigenti), dato che ciò determinerebbe il sostanziale svuotamento di
un'attribuzione costituzionalmente attribuita e garantita ai genitori medesimi.
Forse, sarebbe stato più opportuno evitare una formula così imperiosa che, peraltro, nel caso di specie
suona come una sorta di ormai non indispensabile memento rispetto a ciò che ai genitori appare assai
chiaro, tanto più che ben diversamente si è operato nei riguardi nell'amministrazione comunale interessata, il
cui impegno è stato definito nel secondo decreto mediante il ricorso a formulazioni assai meno pressanti.
Le previsioni del Codice civile
Reintegrazione nella potestà
(Cc, articolo 332) Il giudice può reintegrare nella potestà il genitore che ne è decaduto, quando, cessate le
ragioni per le quali la decadenza è stata pronunciata, è escluso ogni pericolo di pregiudizio per il figlio.
Condotta del genitore pregiudizievole ai figli
(Cc, articolo 333) Quando la condotta di uno o di entrambi i genitori non è tale da dare luogo alla pronuncia
di decadenza prevista dall'articolo 330, ma appare comunque pregiudizievole al figlio, il giudice, secondo le
circostanze può adottare i provvedimenti convenienti e può anche disporre l'allontanamento di lui dalla
residenza familiare ovvero l'allontanamento del genitore o convivente che maltratta o abusa del minore.
Tali provvedimenti sono revocabili in qualsiasi momento.
Procedimento
(Cc, articolo 336) I provvedimenti indicati negli articoli precedenti sono adottati su ricorso dell'altro genitore,
dei parenti o del pubblico ministero e, quando si tratta di revocare deliberazioni anteriori, anche del genitore
interessato.
Il tribunale provvede in camera di consiglio, assunte informazioni e sentito il pubblico ministero. Nei casi in
cui il provvedimento è richiesto contro il genitore, questi deve essere sentito.
In caso di urgente necessità il tribunale può adottare, anche d'ufficio, provvedimenti temporanei
nell'interesse del figlio.
Per i provvedimenti di cui ai commi precedenti, i genitori e il minore sono assistiti da un difensore.
L'impugnabilità
La revocabilità
(Cassazione, sezione I, sentenza 28 marzo 1994 n. 3009) Il provvedimento emesso dalla Corte d'Appello in
sede di reclamo avverso il decreto del tribunale per i minorenni, con il quale, ai sensi dell'articolo 333 del Cc,
si fa obbligo di presentare il minore all'autorità sanitaria per gli accertamenti immunologici imposti dalla
particolarità del caso, al fine dell'eventuale assoggettamento del medesimo alla vaccinazione obbligatoria
contro la poliomielite, tutelando in via interinale gli interessi del minore senza risolvere alcun contrasto tra
contrapposti diritti soggettivi, né incidere sul diritto alla salute del minore, non acquista autorità di cosa
giudicata, essendo sempre revocabile, tal ché non è impugnabile per Cassazione a norma dell'articolo 111
della Costituzione.
51
Atti di volontaria giurisdizione
(Cassazione, sezione I, sentenza 30 marzo 1988 n. 2673) I provvedimenti adottati dal giudice minorile, a
tutela degli interessi dei figli, in caso di condotta del genitore pregiudizievole, ai sensi dell'articolo 333 del Cc,
configurano atti di volontaria giurisdizione, non idonei ad acquistare autorità di giudicato, in quanto sempre
modificabili e revocabili, e, pertanto, ancorché resi dalla Corte d'appello in esito a reclamo, non sono
impugnabili con ricorso per Cassazione a norma dell'articolo 111 della Costituzione.
Ventiquattrore Avvocato
Ventiquattrore Avvocato n. 5, 01.05.2008 pg. 8 - Nissolino Laura , Forcella Virginia
Il testamento biologico: requisiti formali e sostanziali
Possibilità di redigere un testamento biologico: i principi normativi di riferimento. Natura giuridica e dibattito
bioetico. Requisiti formali e sostanziali e forme di custodia. Problematiche giuridiche che ostano al
testamento biologico. I disegni di legge.
La QUESTIONE
È giuridicamente valida la manifestazione di volontà avente a oggetto atti dispositivi della vita? In quale caso
è possibile predisporre un testamento biologico? Chi può redigerlo e custodirlo? Esistono requisiti formali e
sostanziali da rispettare nella corretta compilazione del testamento biologico?
l'INTRODUZIONE
Il testamento biologico - o testamento di vita, secondo la traduzione letterale dell'espressione anglosassone
living will, ovvero dichiarazione anticipata di trattamento - è un documento con il quale una persona
(testatore), in condizioni di lucidità mentale, fornisce al medico indicazioni anticipate in merito a future
terapie cui potrà essere sottoposto qualora dovesse trovarsi in una condizione di incapacità di esprimere il
proprio diritto (consenso informato). In particolare, egli manifesta anticipatamente la propria disponibilità, o
meno, ad acconsentire a trattamenti permanenti con macchine o sistemi ar tificiali in caso di malattie o
lesioni traumatiche cerebrali irreversibili o invalidanti.
In Italia manca una normativa avente a oggetto l'autonomia privata della persona nella fase finale della sua
esistenza, pertanto a eccezione di alcune norme specifiche - ad esempio, in tema di trapianti - occorre fare
riferimento ai principi generali.
Tuttavia, all'assenza di una normativa specifica fa riscontro un dibattito dottrinale ricco e stimolante che
vede coinvolti bioetici, medici e, non da ultimo, giuristi. Da tempo ci si chiede infatti se e in quale misura
l'ordinamento consenta all'individuo di disporre dei beni strettamente personali, quali l'integrità psico-fisica o
la vita.
Le soluzioni proposte, in genere, tengono conto delle posizioni assunte dal Comitato Nazionale per la
Bioetica (CNB). Questo comitato, del quale fanno par te impor tanti giuristi, ha espresso alcune
raccomandazioni sul tema della fine della vita umana; a esse occorre soprattutto fare riferimento per
comprendere quale potrà essere l'evoluzione dell'ordinamento italiano nella materia in esame.
la FATTISPECIE
Il testamento biologico: definizione e natura giuridica
La definizione di testamento biologico oggi vigente, cui peraltro fanno riferimento tutte le ulteriori
denominazioni del medesimo fenomeno (living will, direttive anticipate, testamento di vita) è quella data dal
Comitato Nazionale per la Bioetica secondo cui esso si identificherebbe con «un documento con il quale una
52
persona, dotata di piena capacità, esprime la sua volontà circa i trattamenti ai quali desidera o non desidera
essere sottoposto nel caso in cui, nel decorso di una malattia o a causa di traumi improvvisi, non fosse in
grado di esprimere il proprio consenso o il proprio dissenso informato».
Nel corso degli ultimi decenni il rapporto medico-paziente è significativamente mutato e il medico, prima
ritenuto unico detentore delle cognizioni tecniche necessarie per operare ogni scelta in campo terapeutico, è
ora chiamato a colmare il gap conoscitivo del paziente e, dunque, a illustrare, informare, prospettare,
affinché quest'ultimo - vale a dire il titolare dell'interesse che la prestazione medica è volta a salvaguardare sia in grado di esprimere consapevolmente il proprio consenso. Inoltre, il progresso della scienza medica ha
por tato a un maggior interventismo da parte dei medici che viene avvertito spesso dai pazienti come
eccessivo, per cui sono gli stessi malati che frequentemente chiedono di limitare le cure proposte, viste in
alcuni casi come un vero e proprio accanimento terapeutico. Tale concetto è stato acquisito dal Codice
deontologico dei medici italiani nel 1989. Il bisogno avvertito da molti di voler dare, in ogni caso, un proprio
consenso o dissenso informato alle terapie, associato al timore di essere vittime di accanimenti terapeutici,
ha portato alla necessità di trovare forme di consenso anche nei casi in cui il paziente non fosse in grado di
darlo personalmente. Su tale presupposto si sono sviluppate le cosiddette direttive anticipate o testamento
biologico. Negli Stati Uniti tale procedura è ormai riconosciuta in molti paesi. In Canada ad esempio è stata
varata da alcuni anni la «Pianificazione anticipata delle cure». Anche in Europa si sta seguendo la stessa
direzione. In Inghilterra, benché non esista una legge specifica al riguardo, i medici raccomandano ai
pazienti di lasciare il proprio testamento biologico; in Danimarca e in Olanda è invece espressamente
ammesso il ricorso al testamento biologico. In Italia nel corso dell'ultima legislatura sono stati presentati
quattro diversi disegni di legge volti all'introduzione di una normativa che permetta al paziente di dare
indicazioni anticipate al medico circa le cure cui essere, o meno, sottoposto in caso di propria incapacità
successiva.
I principi normativi di riferimento per il riconoscimento del diritto
Il tema, come si accennava, costituisce senza dubbio un fecondo terreno di riflessione etica, medica e
giuridica coinvolgendo, allo stesso tempo, questioni pratiche di sicura importanza. Si pensi ad esempio ai
problemi che i familiari dei pazienti, il personale sanitario o gli operatori giuridici si trovano ad affrontare nei
casi in cui un soggetto, in stato vegetativo permanente, abbia manifestato, in epoca antecedente la perdita
di capacità di intendere e di volere, il desiderio di non essere tenuto in vita ar tificialmente; ovvero al caso in
cui una persona, in stato di incoscienza a seguito di un trauma, professi una fede religiosa che gli imponga di
rifiutare determinati tipi di cure.
In tali ipotesi, il testamento di vita rappresenterebbe un adeguato strumento per dare concreta attuazione al
principio dell'autodeterminazione della persona, nozione ormai riconosciuta da numerose fonti normative
nazionali e sovranazionali.
La Costituzione europea
In particolare, la Costituzione europea all'art. II-63, comma 2, stabilisce che, nell'ambito della medicina,
deve essere rispettato il principio del «consenso libero e informato della persona interessata» secondo le
modalità definite dalla legge nazionale. Già prima della nascita della Costituzione europea la Convenzione del
Consiglio d'Europa per la protezione dei diritti dell'uomo e della dignità dell'essere umano riguardo
all'applicazione della biologia e della medicina all'art. 5, comma 1, aveva previsto che un intervento nel
campo della salute non potesse essere effettuato se non dopo che la persona interessata avesse dato il
proprio consenso libero e informato.
La Costituzione italiana e le altre norme che danno rilevanza al consenso
Per quanto concerne invece l'ordinamento interno, si deve anzitutto richiamare il dettato della Carta
costituzionale e in modo particolare oltre all'art. 2 il disposto dell'art. 13 che sancisce l'inviolabilità della
libertà personale e dell'art. 32, comma 2, secondo il quale nessuno può essere obbligato a un determinato
trattamento sanitario se non sia previsto per legge. Tra le altre disposizioni che ribadiscono la rilevanza del
consenso, si ricordano l'art. 33, comma 1, legge 23 dicembre 1978, n. 833 - legge istitutiva del servizio
53
sanitario nazionale - in base alla quale, in accordo con il dettato costituzionale, gli accertamenti e i
trattamenti sanitari sono di norma volontari; l'art. 18, legge 22 maggio 1978, n. 194 relativa alla tutela
sociale della maternità e all'interruzione volontaria della gravidanza, che prevede la reclusione da quattro a
otto anni per chiunque cagioni l'interruzione della gravidanza senza il consenso della donna, nonché l'art. 6
della legge 19 febbraio 2004, n. 40 che disciplina la materia della procreazione medicalmente assistita e
prevede un'articolata disciplina del consenso alle tecniche di fecondazione artificiale. Indicative, si rilevano,
infine, le disposizioni dettate dal Codice di deontologia medica che all'art. 34, comma 1, prevede l'obbligo
per il medico di attenersi, nel rispetto della dignità, della libertà e dell'indipendenza professionale, alla
volontà di curarsi, liberamente espressa dalla persona.
Il rispetto della volontà dell'interessato
Da quanto sin qui osservato, appare dunque evidente l'impossibilità di prescindere, in tema di scelte
concernenti la salute, dalla volontà dell'interessato che dovrà essere rispettata tanto nel caso in cui sia volta
a ottenere un trattamento terapeutico, quanto nell'ipotesi in cui sia finalizzata al rifiuto di cure.
Al fine di riconoscere validità al testamento biologico ci si può dunque riferire ai principi di tutela e
salvaguardia dei diritti della persona riportati nelle direttive europee citate, nonché sul dettato dell'art. 9
della Convezione di Oviedo, secondo il quale i desideri precedentemente espressi da par te di un paziente
che, al momento dell'inter vento, non sia più in grado di esprimere la sua volontà, devono essere tenuti in
debita considerazione. Medesimo orientamento è seguito nell'art. 34, comma 2, del Codice di deontologia
medica che prevede che il medico, in caso di grave pericolo di vita del paziente, qualora egli non sia più in
grado di esprimere la propria volontà, debba tenere conto di quanto precedentemente manifestato dal
medesimo.
Un segnale verso il riconoscimento del living will è giunto dal parere positivo espresso dal Comitato
Nazionale per la Bioetica sulle «dichiarazioni anticipate di trattamento» il 18 dicembre 2003. Tale organismo
le ha ritenute ammissibili - ancorché non vincolanti - purché non contenenti disposizioni aventi finalità di
eutanasia o, comunque, in contrasto con il diritto positivo, le regole di pratica medica e la deontologia. In
particolare il CNB nelle raccomandazioni conclusive del documento «Dichiarazioni anticipate di trattamento»
ha previsto che «la legge obblighi il medico a prendere in considerazione le dichiarazioni anticipate,
escludendone espressamente il carattere vincolante ma imponendogli, sia che le attui sia che non le attui, di
esplicitare formal-mente e adeguatamente in cartella clinica le ragioni della sua decisione».
Sono altresì significative alcune decisioni dei giudici di merito che hanno talvolta riconosciuto rilevanza a
documenti sottoscritti in via anticipata dal paziente, o alle dichiarazioni di volontà rilasciate dallo stesso ai
propri congiunti.
Su tali presupposti si basa l'orientamento che riconosce validità al testamento di vita contenente il consenso
o il rifiuto alle cure manifestati in previsione di un futuro stato di incapacità, quale strumento idoneo a dar
voce, in via preventiva, agli intendimenti volitivi del paziente fino al momento in cui egli è ancora in grado di
intendere e volere e manifestare tale volontà.
Le problematiche giuridiche che ostano al testamento biologico
Nonostante le varie manifestazioni di consenso verso il riconoscimento dell'istituto del testamento biologico,
molteplici sono le difficoltà che nel nostro ordinamento si incontrano ad ammettere la piena vincolatività ed
efficacia della manifestazione preventiva della volontà del paziente. Gli ostacoli derivano dai requisiti
elaborati da dottrina e giurisprudenza in materia di consenso - o dissenso - informato. Questo, infatti, per
essere considerato efficace, deve essere non solo personale - eccettuati i casi di incapacità dell'interessato,
nei quali sarà il rappresentante legale a prestare il consenso alle cure - ma anche consapevole, libero,
gratuito, espresso in modo chiaro, incontrovertibile e, soprattutto, attuale, specifico e revocabile in ogni
tempo. È proprio l'impossibilità di ravvisare nelle direttive europee di riferimento la sussistenza di tali ultimi
requisiti che ha dato vita a consistenti obiezioni circa la loro efficacia. La prima critica cui si espone il
riconoscimento dell'efficacia del consenso manifestato in un momento antecedente al trattamento sanitario
attiene infatti alla mancanza del requisito dell'attualità, in quanto esso risulta del tutto decontestualizzato
54
rispetto alla futura e ipotetica situazione nella quale sarebbe chiamato ad avere effetto. Sul punto la dottrina
ha sottolineato come solo in occasione di una concreta situazione di fatto sia possibile fornire all'interessato
elementi precisi - quali, ad esempio, una prognosi attendibile, le alternative terapeutiche a disposizione in
quel preciso momento storico - per condurlo verso una scelta realisticamente ponderata. È stato altresì
rilevato come una tale manifestazione di volontà sia destinata a operare in un momento in cui le condizioni
mentali e personali dell'interessato potrebbero rivelarsi assai differenti rispetto a quelle in cui venne
espressa, senza poi tenere conto dei progressi che la scienza medica potrebbe avere nel frattempo compiuto
e del conseguente miglioramento delle aspettative di vita del paziente. Un'ulteriore obiezione è stata
avanzata con riguardo alla mancanza di specificità del consenso manifestato in via anticipata, posto che gli
interventi sanitari sono spesso frutto di una pluralità di atti medici che richiedono differenziate e specifiche
competenze professionali e che devono essere singolarmente accettati dal paziente. In particolare, se alcuni
interventi collegati a quello principale possono essere implicitamente accettati dall'interessato, lo stesso non
può dirsi riguardo ad altri trattamenti aventi ad esempio natura invasiva e implicanti determinati rischi, quali
ad esempio le trasfusioni di sangue o gli interventi dell'anestesista, i quali devono pertanto essere autorizzati
in maniera specifica. Da par te di alcuni si è peraltro osservato come le perplessità manifestate con riguardo
alla validità delle direttive europee potrebbero essere superate prevedendo che, nella stessa dichiarazione
anticipata, sia contenuta la nomina di un fiduciario tenuto ad attuare la volontà del disponente e a operare,
in mancanza di istruzioni, nel miglior interesse dello stesso, considerando la volontà in precedenza espressa
dall'incapace nonché i valori e le convinzioni personali di quest'ultimo. L'introduzione di una figura attiva in
grado di dialogare col personale sanitario rappresenterebbe il mezzo più sicuro per attuare la volontà del
paziente, permettendo altresì di ottenere un valido consenso per procedere agli interventi che non potevano
preventivamente essere presi in considerazione dall'interessato.
Le difficoltà rappresentate, connesse ai casi in cui non vi sia contestualità tra le dichiarazioni rilasciate dal
paziente e il momento concreto della scelta, nonché le possibili soluzioni per esse prospettate, non fanno
tuttavia che porre ulteriormente in evidenza come la finalità principale dello strumento in esame resti proprio
quella di consentire all'interessato di poter decidere quando è ancora in tempo a quale trattamento
sottoporsi e, ancor prima, se sottoporsi o meno a qualsivoglia attività medica o terapeutica. È evidente che
tale necessità si manifesta, in via principale, ove si determini uno stato di incapacità del soggetto, poiché è in
casi del genere che è necessario evitare che altri - la legge, il medico, i parenti - decidano per il malato.
Non riconoscere, dunque, forza vincolante al testamento di vita, attribuendo questa facoltà solo al rifiuto
espresso dal paziente capace al momento in cui il trattamento andrebbe applicato, equivarrebbe a ritenere
che, perduta quella capacità, la persona non sia più tale e quindi perdano la possibilità di essere tutelate le
manifestazioni già espresse della sua volontà.
I disegni di legge in itinere
Le normative in corso di approvazione relative all'introduzione in Italia del testamento biologico - presentate
nel corso della XIV Legislatura - sono quattro.
Disegno di legge 23 maggio 2002, n. 1437
In particolare, nel Disegno di legge n. 1437 del 23 maggio 2002, «Dichiarazioni in materia di consenso
informato e di dichiarazioni di volontà anticipate» è previsto un obbligo del medico di informare il paziente
anche quando le sue condizioni sono gravi, salvo espresso rifiuto del paziente stesso, nonché di adottare le
necessarie cautele nei trattamenti sanitari.
Disegno di legge 23 maggio 2003, n. 2279
Inoltre tale disegno di legge, unitamente al successivo n. 2279 del 23 maggio 2003, recante «Disposizioni in
materia di consenso informato e di dichiarazioni di volontà anticipate nei trattamenti sanitari» prevede che il
medico in casi particolari consulti anche i congiunti stretti del paziente, anche se tale previsione si pone in
contrasto con le indicazioni del Codice deontologico del 1998 che raccomanda di informare solo le persone
indicate dal paziente. Entrambe le proposte affermano inoltre il diritto di ciascuno a esprimere il proprio
consenso o dissenso agli atti medici.
55
Disegno di legge 30 giugno 2003, n. 4121
Il disegno n. 4121 del 30 giugno 2003, «Disposizioni in materia di dichiarazione anticipata di volontà sui
trattamenti sanitari» raccomanda al medico di adottare ogni cautela nella comunicazione con il paziente
utilizzando uno standard medio di comunicazione secondo le raccomandazioni contenute nel documento del
1995 del Comitato Nazionale di Bioetica. Nella proposta citata ci si riferisce esplicitamente ai trattamenti
medici appropriati, volendo in tal modo escludere quelli inappropriati o futili, cioè l'accanimento terapeutico.
Di particolare rilievo la previsione del disegno di legge in esame secondo cui l'eventuale rifiuto deve
considerarsi valido anche successivamente a una sopravvenuta perdita della capacità naturale e ciò perfino
se da tale rifiuto possa derivare un pericolo per la vita o la salute del paziente. In relazione al testamento
biologico vero e proprio, il testo in commento precisa che in caso di malattie allo stadio terminale o
implicanti l'uso permanente di apparecchiature o di altri sistemi artificiali, ovvero nel caso di lesioni cerebrali
invalidanti e irreversibili, è diritto del paziente poter esprimere la propria volontà: 1) rifiutando qualsiasi
forma di rianimazione o di continuazione dell'esistenza dipendente da apparecchiature e di essere sottoposto
a qualsivoglia trattamento terapeutico; 2) rinunciando all'alimentazione e all'idratazione artificiale;
3) acconsentendo all'utilizzo, in caso di gravi sofferenze, degli opportuni trattamenti analgesici, anche
qualora gli stessi possano accelerare l'esito mortale della patologia in atto.
Tutti i disegni di legge proposti prevedono la nomina di una persona - fiduciario - che rappresenti le volontà
del paziente in caso di incapacità sopravvenuta, nonché la necessità che la dichiarazione sia formulata per
iscritto, abbia una data certa e la sottoscrizione sia autenticata dal testatore. Tutte le dichiarazioni debbono
essere sempre modificabili e revocabili. Secondo le previsioni del disegno di legge n. 4121 la sottoscrizione
del testamento biologico deve essere apposta oltre che dal paziente e dall'eventuale fiduciario, anche da due
testimoni; in caso di ricovero, tali dichiarazioni dovranno essere sempre allegate alla cartella clinica e alle
medesime dovrà essere riconosciuto valore vincolante per i sanitari. Alle eventuali associazioni depositarie
delle dichiarazioni è consentito presentare le stesse in vece del fiduciario o del paziente impossibilitato. Vi è
inoltre l'ulteriore previsione procedurale per il caso di mancata indicazione del fiduciario da par te del
testatore, secondo cui sarebbe il giudice tutelare del luogo ove ha dimora l'incapace di decidere a dover
provvedere a tale nomina.
Disegno di legge 4 maggio 2004, n. 2943
Il disegno di legge n. 2943 del 4 maggio 2004 - pubblicato dopo le dichiarazioni del CNB - utilizza per la
prima volta in modo esplicito il termine testamento di vita, traduzione letterale del termine inglese living will
e chiarisce che si tratta di un atto scritto con il quale ciascuno dispone in merito ai trattamenti sanitari e al
destino del proprio corpo dopo la morte. Inoltre, il testo della proposta individua una vera e propria ipotesi di
mandato in capo al fiduciario - mandatario - attribuendogli il potere di compiere atti giuridici in vece
dell'interessato - mandante - in previsione della sua futura incapacità. Viene poi definito il trattamento
sanitario come ogni atto medico, eseguito con qualsiasi mezzo, con scopi connessi alla salute a fini
terapeutici, diagnostici, palliativi ed estetici e la nozione di persona priva di capacità decisionale intesa come
quella che - anche solo temporaneamente - non è in grado di comprendere le informazioni sulla sua
patologia e sulle conseguenze della propria decisione. Da ultimo viene chiarito che il consenso informato
deve essere prestato in modo esplicito, da persona libera e consapevole al fine di rendere lecito il
trattamento sanitario. Il paziente può rifiutare in qualsiasi momento, del tutto o in parte, l'informazione. In
caso di incapacità, se non è stato indicato un fiduciario, mandatario, amministratore di sostegno o tutore, si
ipotizza il ricorso ai parenti sino al quarto grado, ovvero al giudice tutelare. Tale ipotesi appare in contrasto
con il Codice deontologico medico del 1998 che fa riferimento a terzi stabiliti dal paziente stesso. L'art. 13
prevede poi un collegio medico - composto da tre specialisti tra cui un neurologo e uno psichiatra - che
verifichi lo stato di incapacità del paziente in analogia con la legge n. 578 del 1993 recante «Norme per
l'accertamento e la certificazione di morte» e con il disegno di legge n. 2758/A.S. del 17 febbraio 2004 sulle
«Norme per la depenalizzazione dell'eutanasia», presentato dall'onorevole Battisti. L'art. 13 precisa infine
che il medico può disattendere le richieste del paziente soltanto qualora «siano divenute inattuali o
inadeguate dal punto di vista scientifico e terapeutico».
I requisiti formali e sostanziali del testamento biologico
56
Allo stato, in base alla normativa italiana vigente, quando vi sia una perdita irreversibile della coscienza il
medico deve tenere conto delle direttive anticipatamente espresse, secondo quanto disposto della
Convenzione europea di bioetica (art. 9) e dal Codice di deontologia medica (art. 34), ma non è tenuto a
riconoscere a tali direttive valore vincolante. Circa i contenuti delle dichiarazioni anticipate di volontà, il CNB
sottolinea che quanto indicato dal paziente nelle direttive non può trascendere le richieste che qualsiasi
paziente in grado di dare un consenso o dissenso valido possa legittimamente formulare. Ciò significa che
non è possibile richiedere pratiche eutanasiche - comunque illegali - mentre è possibile chiedere «la
sospensione o la non attivazione di pratiche terapeutiche nei casi più estremi o tragici di sostegno vitale». Il
testamento biologico - sulla base delle normative in corso di approvazione - deve essere redatto
personalmente dall'avente diritto e custodito da un suo incaricato espressamente indicato nell'atto. Per la
sua validità non è necessario che sia rilasciato avanti a un notaio, può quindi essere olografo ma deve
contenere alcuni requisiti di forma e di sostanza. In particolare i requisiti for-mali richiesti sono: le generalità
complete del testatore, il luogo e la data di emissione del documento, l'indicazione che la propria volontà è
espressa in modo capace, libero e consapevole e che alla stessa debba essere riconosciuta validità anche per
il futuro, le generalità complete dei testimoni - almeno due - e dell'eventuale fiduciario indicato, nonché
l'espressa accettazione di quest'ultimo e dei testimoni e infine l'indicazione di colui a cui è affidato il
documento.
I requisiti sostanziali invece attengono l'individuazione precisa dei trattamenti sanitari che il paziente intende
ricevere e quelli a cui intende rinunciare quando non sarà più in grado di prendere decisioni
autonomamente; l' eventuale nomina di un fiduciario che, in tali situazioni, agisca come decisore sostitutivo
facendo proprie le preferenze e i valori del testatore biologico; tutte le disposizioni in ordine al proprio corpo
e in particolare quelle circa eventuali trapianti e/o l'utilizzo per scopi scientifici e didattici del proprio corpo;
l'eventuale assistenza religiosa richiesta e le disposizioni in ordine alla sepoltura e/o cremazione.
la GIURISPRUDENZA
La Corte europea
La Corte europea si è pronunciata in maniera conforme riconoscendo tutela al diritto alla vita ma ritenendo
in linea generale che il divieto di suicidio possa costituire una lesione del diritto al rispetto della vita privata.
La giurisprudenza italiana
La giurisprudenza italiana invece è stata prevalentemente orientata nel ritenere che un'eventuale desistenza
terapeutica - sia pure preordinata nel living will - dalla quale derivi un danno alla salute o la mor te del
soggetto, anche nel caso di tempo più breve della prevedibile sopravvivenza che sarebbe stata garantita
dalle cure omesse, può configurare i reati della lesione personale (a titolo di colpa o di dolo) o dell'omicidio
(colposo, doloso o preterintenzionale). Recentemente, però, tale orientamento è stato in par te superato sul
presupposto che la tutela dell'autodeterminazione individuale e consapevole in materia di trattamento
sanitario - quale diritto di rango costituzionale - non possa essere limitata da disposizioni normative di fonte
gerarchica inferiore a contenuto contrario, quali l'art. 5 c.c., e gli artt. 575, 576 e 577 n. 3, 579 e 580 c.p.
RICONOSCIMENTO DEL DIRITTO DI MORIRE
Corte europea dir. uomo, Pretty vs. United Kingdom, Application no. 2346/02 del 29 aprile 2002
L'art. 2 Conv. eur. dir. uomo, che tutela il diritto alla vita e definisce le circostanze limitate nelle quali è
consentito infliggere intenzionalmente la morte, non può essere interpretato nel senso che esso tuteli anche
l'aspetto negativo di tale diritto, inteso come diritto di morire ovvero come facoltà dell'individuo di
autodeterminarsi alla morte. Tale inter-pretazione, infatti, sarebbe possibile solo a costo di una grave
distorsione della lettera della norma. La protezione della vita garantita dall'art. 2 Conv. eur. dir. uomo,
inoltre, non ha alcun rapporto con le questioni relative alla qualità della propria vita o a quello che ciascuna
persona sceglie di fare della propria vita, aspetti questi che, se ritenuti fondamentali al punto di chiedere una
protezione dalle ingerenze dello Stato, si riflettono in altri diritti consacrati dalla Convenzione o in altri
strumenti internazionali in materia di diritti dell'uomo. La sofferenza dovuta a una malattia che sopraggiunge
naturalmente, sia essa fisica o psichica, può essere addebitata a uno Stato, in quanto trattamento inumano o
57
degradante la cui inflizione è vietata dall'art. 3 Conv. eur. dir. uomo, se viene o rischia di essere aggravata
da un trattamento - che consegua a talune condizioni di detenzione, a una espulsione o ad altre misure - del
quale le autorità statali possono essere ritenute responsabili. Non rientra, invece, in tale concetto il mancato
impegno di tali autorità, espressamente interpellate, a non perseguire il soggetto che abbia intenzione di
prestare aiuto al suicidio di persona affetta da un male incurabile, destinata a morire fra gravi sofferenze, né
la mancata istituzione di un sistema legale per qualsiasi altra forma di suicidio assistito in tali situazioni,
poiché l'art. 3 Conv. eur. dir. uomo deve essere interpretato in armonia con l'art. 2 Conv. eur. dir. uomo, il
quale sancisce il divieto di ricorso alla forza o a qualsiasi altro comportamento idoneo a provocare la morte
di un essere umano, mentre non conferisce affatto un diritto di esigere dallo Stato che consenta o faciliti la
sua mor te. L'ingerenza dello Stato nella vita privata del singolo realizzata mediante il generale divieto di
suicidio assistito - non potendo la Cor te escludere che l'impedimento frapposto dalla legge a compiere una
scelta che, ai suoi occhi, costituisce un epilogo della vita indegno e doloroso rappresenti una violazione del
diritto al rispetto della vita privata ai sensi del paragrafo 1 dell'art. 8 Conv. eur. dir. uomo - deve ritenersi
giustificata ai sensi del paragrafo 2 del medesimo articolo, in quanto necessaria, in una società democratica,
alla protezione dei diritti altrui. Detto divieto, infatti, è stato concepito per salvaguardare la vita, proteggendo
le persone deboli e vulnerabili - fra le quali rientra la categoria delle persone affette da una malattia in fase
terminale, pur variando da caso a caso la situazione di tali persone singolarmente considerate - contro gli
atti che mirano a porre fine alla vita o ad aiutare a morire e spetta agli Stati la valutazione dei manifesti
rischi che un'attenuazione del generale divieto di suicidio assistito o la creazione di eccezioni al principio
implicherebbero. Non rientrano nella tutela dell'art. 9 Conv. eur. dir. uomo le opinioni e le convinzioni da
taluno espresse in favore del proprio suicidio assistito, né, dunque, può dirsi violato il diritto alla libertà di
pensiero dalla incriminazione del suicidio assistito stesso, poiché tali opinioni e convinzioni non concernono
una forma di manifestazione di una religione o di una convinzione mediante il culto, l'insegnamento, le
pratiche o il compimento di riti, intendendosi per pratiche, in particolare, qualsiasi azione motivata o
influenzata da una religione o una convinzione. Non viola l'art. 14 Conv. eur. dir. uomo il generale divieto di
suicidio assistito derivante dall'art. 2 par. 1 del Suicide Act del Regno Unito, che non differenzia la situazione
di chi sia fisicamente in grado di suicidarsi da quella di chi non lo sia. L'assenza di distinzione giuridica,
infatti, è da considerarsi supportata da una giustificazione obiettiva e ragionevole, poiché la linea di confine
fra le due categorie è spesso labile e l'introduzione nella legge di un'eccezione per le persone ritenute capaci
di suicidarsi da sole ne comprometterebbe seriamente la finalità di protezione della vita, aumentando in
maniera significativa il rischio di abuso. (Banche Dati Platinum, Utet, 2007)
EFFICACIA DEL CONSENSO DEL PAZIENTE
Cassazione pen., Sez. IV, 11 luglio 2001, n. 1572
Il consenso afferisce alla libertà morale del soggetto e alla sua autodeterminazione, nonché alla sua libertà
fisica intesa come diritto al rispetto delle proprie integrità corporee, le quali sono tutte profili della libertà
personale proclamata inviolabile dall'art. 13 Cost. Ne discende che non è attribuibile al medico un generale
diritto di curare, a fronte del quale non avrebbe alcun rilievo la volontà dell'ammalato che si troverebbe in
una posizione di soggezione su cui il medico potrebbe ad libitum intervenire, con il solo limite della propria
coscienza; appare, invero, aderente ai principi dell'ordinamento riconoscere al medico la facoltà o la potestà
di curare, situazioni soggettive queste derivanti dall'abilitazione all'esercizio della professione sanitaria, le
quali, tuttavia, per potersi estrinsecare necessitano di regole, del consenso della persona che al trattamento
sanitario deve sottoporsi. Uniche eccezioni a tale criterio generale sono configurabili solo nel caso di
trattamenti obbligatori ex lege, ovvero nel caso in cui il paziente non sia in condizione di pre-stare il proprio
consenso o si rifiuti di prestarlo e, d'altra parte, l'intervento medico risulti urgente e indifferibile al fine di
salvarlo dalla morte o da un grave pregiudizio alla salute. Per il resto, la mancanza del consenso
(opportunamente informato) del malato o la sua invalidità per altre ragioni determina l'arbitrarietà del
trattamento medico chirurgico e, la sua rilevanza penale, in quanto posto in violazione della sfera personale
del soggetto e del suo diritto di decidere se permettere interventi estranei sul proprio corpo. Le ipotesi
delittuose configurabili possono essere di carattere doloso: art. 610-613-605 c.p. nell'evenienza del
trattamento terapeutico non chirurgico; ovvero, art. 582 c.p. nell'evenienza di trattamento chirurgico: di
fatto, il delitto di lesioni personali ricorre nel suo profilo oggettivo, poiché qualsiasi intervento chirurgico,
anche se eseguito a scopo di cura e con esito fausto, implica necessariamente il compimento di atti che nella
loro materialità estrinsecano l'elemento oggettivo di detto reato, ledendo l'integrità corporea del soggetto.
58
(Banche Dati Platinum, Utet, 2007)
POTERE DI SCELTA TERAPEUTICA DEL MEDICO
Cassazione pen., Sez. VI, 4 aprile 2006, n. 11640
In tema di lesioni colpose, il consenso del paziente a un trattamento medico - che non si identifica con quello
di cui all'art. 50 c.p., ma che costituisce un presupposto per la validità e liceità dell'attività medica - perde di
efficacia, ancorché consapevolmente prestato in ordine alle conseguenze lesive all'integrità personale, se
queste si risolvano in una menomazione permanente che incide negativamente sul valore sociale della
persona umana. (Lex 24 & Repertorio 24)
Cassazione pen., Sez. I, 11 luglio 2002, n. 26646
In tema di attività medico-chirurgica (in mancanza di attuazione della delega di cui all'art. 3, legge 28 marzo
2001, n 145, con la quale è stata ratificata la convenzione di Oviedo del 4 aprile 1997 sui diritti dell'uomo e
sulla biomedicina), deve ritenersi che il medico sia sempre legittimato a effettuare il trattamento terapeutico
giudicato necessario per la salva-guardia della salute del paziente affidato alle sue cure, anche in mancanza
di esplicito consenso, dovendosi invece rite-nere insuperabile l'espresso, libero e consapevole rifiuto
eventualmente manifestato dal medesimo paziente, ancorché l'omissione dell'intervento possa cagionare il
pericolo di un aggravamento dello stato di salute dell'infermo e, persino, la sua morte; in tale ultima ipotesi,
qualora il medico effettui ugualmente il trattamento rifiutato, potrà profilarsi a suo carico il reato di violenza
privata ma non - nel caso in cui il trattamento comporti lesioni chirurgiche e il paziente muoia --- il diverso e
più grave reato di omicidio preterintenzionale, non potendosi ritenere che le lesioni chirurgiche, strumentali
all'intervento terapeutico, possano rientrare nella previsione di cui all'art. 582 c.p. (Banche Dati Platinum,
Utet, 2007)
DOVERE DI INFORMAZIONE DEL MEDICO E CONSENSO DEL PAZIENTE
Tribunale di Brescia, Sez. III, 31 dicembre 2003
Il dovere di informazione che grava sul sanitario si prospetta come funzionale al consapevole esercizio, da
par te del paziente, del diritto, di rilevanza costituzionale, di scegliere se sottoporsi o meno all'intervento
sanitario, posta la regola della natura volontaria del trattamento sanitario medesimo. Il bene tutelato non è
solo quello della libertà di auto-determinarsi in ordine ad atti che coinvolgono il proprio corpo (art. 13 Cost.),
ma è, altresì, lo stesso bene salute, da intendersi nell'accezione più ampia (art. 32 Cost.); il consenso
validamente prestato è infatti presupposto necessario e imprescindibile della stessa liceità del trattamento
sanitario e ciò in quanto il paziente che sia capace di intendere e di volere è l'unico soggetto legittimato a
consentire trattamenti che incidano sul proprio corpo e sulla qualità della propria vita. (Banche Dati
Platinum, Utet, 2007)
Cassazione civ., Sez. III, 6 ottobre 1997, n. 9705
In tema di terapia chirurgica, il dovere di informazione che grava sul sanitario è funzionale al consapevole
esercizio, da parte del paziente, del diritto, che la stessa Car ta Cost., agli ar tt. 13 e 32, comma 2, a lui solo
attribuisce (salvi i casi di trattamenti sanitari obbligatori per legge o di stato di necessità), alla scelta di
sottoporsi o meno all'intervento terapeutico. In particolare, dalla peculiare natura del trattamento sanitario
volontario scaturisce, al fine di una valida manifestazione di consenso da par te del paziente, la necessità che
il professionista lo informi dei benefici, delle modalità di intervento, dell'eventuale possibilità di scelta tra
diverse tecniche operatorie e, infine, dei rischi prevedibili in sede post operatoria, necessità, quest'ultima, da
ritenersi particolarmente pregnante nel campo della chirurgia estetica (ove è richiesta la sussistenza di
concrete possibilità, per il paziente, di conseguire un effettivo miglioramento dell'aspetto fisico che si
ripercuota favorevolmente sulla sua vita professionale o di relazione), con la conseguenza che l'omissione di
tale dovere di informazione genera, in capo al medico, nel caso di verificazione dell'evento dannoso, una
duplice forma di responsabilità, tanto contrattuale quanto aquiliana. (Lex 24 & Repertorio 24)
59
Tribunale di Messina 11 luglio 1995
Non è condivisibile l'assunto secondo cui il trattamento medico-chirurgico possa prescindere dal consenso del
paziente o, in caso di incapacità a consentire di questi, dei suoi familiari, specie nei casi in cui esso si
presenti come a elevato rischio e dal verosimile esito infausto. (Banche Dati Platinum, Utet, 2007)
Cassazione pen., Sez. V, 21 aprile 1992
Il consenso del paziente deve essere manifestato preventivamente al trattamento medico-chirurgico da
eseguire; il chirurgo non è abilitato a eseguire un altro inter vento, non preventivato né consentito e al di
fuori di una condizione di necessità e urgenza per la salute del paziente; le lesioni derivanti da un intervento
chirurgico eseguito senza consenso del malato configurano il delitto di lesioni personali volontarie; si delinea
il delitto ex art. 584 c.p. qualora dalle lesioni consegua, come evento non voluto, la mor te del paziente.
(Banche Dati Platinum, Utet, 2007)
DIRITTO A RIFIUTARE LE CURE
Tribunale di Roma, g.u.p., 17 ottobre 2007, n. 2049 (sentenza correlata al caso Welby)
La condotta di colui che rifiuta una terapia salvavita costituisce esercizio di un diritto soggettivo
riconosciutogli in ottemperanza al divieto di trattamenti sanitari coatti sancito dalla Costituzione.
(www.penale.it)
la DOTTRINA
Come già ampiamente illustrato il dibattito sul tema è molto serrato. In senso favorevole e positivo al
riconoscimento del diritto di disporre della fase finale della propria vita ancorché in futuro incapaci si sono
espressi illustri giuristi i quali hanno ritenuto che il testamento biologico possa colmare, sia pure in modo
parziale, «la frattura che la sopravvenuta incapacità dell'individuo determina nel rapporto con il sanitario e
rappresenta, sotto questo profilo, l'approdo logico del processo di progressiva valorizzazione del consenso
informato». E ancora che «la dignità del morire umano è collegata con la libertà della scelta del morente».
Altra parte della dottrina ha invece ritenuto che la posizione di garanzia del medico debba comportare una
doverosità di intervento che non può subire condizionamenti dalla contraria volontà del paziente, anche nelle
sue proiezioni verso il futuro.
Per coniugare le opposte posizioni, in attesa dell'auspicato inter vento legislativo, si può fare riferimento alla
locuzione contenuta nel documento del CNB sulle «Dichiarazioni anticipate di trattamento» secondo cui il
medico deve «tener conto» delle precedenti disposizioni del paziente in modo «funzionale alla verifica
dell'attualità dei desideri e cioè alla possibilità di accer tare, da parte del medico, che i desideri del suo
paziente si applichino alla situazione in atto e restino validi in relazione all'evoluzione della malattia e delle
tecnologie mediche».
Per ulteriori approfondimenti dottrinali
- BARTOLONI, «Per il testamento biologico arriva il primo sì», in Il Sole 24 Ore, 19 dicembre 2003;
- CASONATO, Morte dignitosa e sospensione delle cure: ordinamenti giuridici a confronto, pubblicato sul sito
della Provincia di Bolzano (http://www.provincia.bz.it);
- CATTORINI, Le direttive anticipate del malato, Masson Italia, 1999;
- CRESPI, La responsabilità penale nel trattamento medico chirurgico con esito infausto, Priulla, 1955;
- COMMISSIONE VERONESI, Nutrizione e idratazione nei soggetti in stato di irreversibile perdita della
coscienza, 2001. Atti dei lavori del gruppo relativo alla nutrizione e idratazione nei soggetti in stato di
irreversibile perdita della coscienza, istituito con Decreto del Ministro della sanità, professore Umber to
Veronesi, del 20 ottobre 2000;
- DE BAC, «Testamento biologico: i contenuti dell'accordo», in Il Corriere della Sera, 21 settembre 2003;
- DE VERGOTTINI, Diritto costituzionale comparato, Cedam, 1999;
60
- DEL RE, «Bene della vita e controllo della mor te: riflessioni giuridiche in Pagine cattoliche», in
http://www.paginecattoliche.it/;
- DEL VECCHIO è citato da DEMETRIO NERI nel Forum Eutanasia: vita e morte dignitosa che la rivista
Quaderni Radicali ha realizzato con l'Associazione amici di QR il 13 dicembre 2000. Gli atti del convegno sono
pubblicati nel numero di gennaio/giugno 2001 di QR;
- GIUNTA, «Diritto di morire e diritto penale, i termini di una relazione problematica», Relazione svolta al
convegno internazionale di studi sul tema: «Una norma giuridica per la bioetica» (Siena 9-11 giugno 1994),
in Rivista italiana di diritto e procedure penale, 1997;
- GIUNTA, «Eutanasia pietosa e trapianti quali atti di disposizione della vita e del proprio corpo», in Diritto
penale e processo, 4/1999;
- IADECOLA, «Consenso del paziente e trattamento medico-chirurgico», in Rivista italiana medico legale,
1986;
- IAPICHINO, Testamento biologico e direttive anticipate, Ipsoa, 2000;
- MILONE, «Testamento biologico», in Vita notarile, 1997;
- NERI, «Note sul documento del CNB sulle Dichiarazioni anticipate di trattamento», in Bioetica, 2004;
- PERINU, «Il testamento biologico» in Diritto & Diritti portale giuridico (http://www.diritto.it), giugno, 2002;
- SANTOSUOSSO, «Novità e remore sullo stato neurovegetativo persistente», in Foro Italiano, 2000;
- SANTOSUOSSO, «Aperture importanti e remore inspiegabili della Corte d'appello di Milano sul caso E.E.»,
in Bioetica, 2000;
- SANTOSUOSSO, Il consenso informato, Raffaello Cortina Editore, 1996;
- TROYER, «Il consenso informato», in www.aisa.it, portale dell'Associazione italiana medici specialisti in
angiologia;
- UNGARO, «Eutanasia, basta che non se ne parli», L'Unità, 12 aprile 2002.
le CONCLUSIONI
Nel nostro ordinamento il testamento biologico non ha valore giuridico come espressione di volontà del
soggetto redigente e l'attuazione della volontà di quest'ultimo è rimessa esclusivamente al medico il quale
potrà, in base al proprio Codice deontologico, recepire le disposizioni ovvero discostarsene. Alla luce delle
riflessioni sin qui esposte nonché delle criticità evidenziate in merito alle diverse e delicate situazioni che
possono determinarsi nei casi in cui il paziente versi in uno stato di incapacità e sia dunque impossibilitato a
partecipare fattivamente alle scelte che lo riguardano, un intervento tempestivo ed efficace del nostro
legislatore appare allo stato improcrastinabile, anche per rispondere alle sempre crescenti richieste dei malati
affetti da gravi malattie degenerative di non essere sottoposti a cure non richieste. Diversamente, ogni
questione non potrà che restare affidata alla discrezionalità dei medici, alle loro diverse convinzioni e
comportamenti, alla morale, all'orientamento religioso anziché a norme di diritto.
la PRATICA
Si riporta di seguito un fac-simile di testamento biologico (redatto in base alle previsioni dei disegni di legge
in corso di approvazione).
61
Fac-simile di testamento biologico
TESTAMENTO BIOLOGICO
(da allegarsi alla cartella clinica)
Io sottoscritto/a, <...>, nato/a a <...>, il <...> e residente a <...> alla via <...>, nel pieno possesso delle
mie facoltà mentali - anche nell'ipotesi in cui dovessi perdere per il futuro tale capacità - manifesto la mia
volontà in caso di malattia di scegliere tra le diverse possibilità di cura disponibili nonché di rifiutarle tutte,
secondo le mie scelte che di seguito indico.
Pertanto,
dispongo che
Sia informato dai medici in modo chiaro e preciso circa la mia patologia e le possibilità di un eventuale
recupero totale o parziale e che se incapace tali informazioni siano fornite al mio fiduciario di seguito
indicato. Non siano effettuati interventi definiti provvedimenti di sostegno vitale (es. dialisi, chirurgia
d'urgenza, rianimazione cardiopolmonare, trasfusioni di sangue, alimentazione artificiale) se esse comportino
a giudizio dei medici il mantenimento di uno stato d'incoscienza permanente ovvero di demenza totale o
paralisi con incapacità a comunicare. In particolare rifiuto sin da ora qualsiasi forma di rianimazione o
prosecuzione della vita dipendente da macchine e confermo che non voglio essere sottoposto/a ad alcun
trattamento terapeutico per la cura di malattie allo stadio terminale, di lesioni cerebrali irreversibili e
comunque implicanti l'utilizzo permanente di macchine o altri sistemi artificiali, incluso ogni forma di
alimentazione e idratazione artificiale.
Chiedo inoltre che nel caso fossi affetto/a da una delle malattie sopra indicate siano utilizzate le terapie
idonee ad alleviare le mie sofferenze, compreso in particolare l'uso di farmaci oppiacei, e ciò anche qualora
essi possano anticipare la fine della mia vita.
Per l' attuazione delle volontà espresse nel presente atto nomino mio fiduciario il sig.<...>, nato/a a<...>.
il<...>, residente a <...>, alla via <...>, il/la quale accetta la nomina sottoscrivendo il presente documento.
Il medesimo dichiara sin da ora di impegnarsi per la realizzazione delle mie volontà, sostituendosi a me per
qualsiasi ulteriore decisione anche se qui non prevista, qualora perdessi la capacità di decidere per me
stesso/a.
Nel caso che il mio rappresentante fiduciario sia nell'impossibilità di esercitare la sua funzione, delego a
sostituirlo in tale compito <...>, nato/a a <...>il..., residente a <...>, alla via<...>
Sono testimoni del presente atto i signori: Nome<...>, nato/a a <...>il <...>, residente a <...> alla via <...>
Nome<...>, nato/a a <...>il <...>, residente a <...> alla via <...> Al sig. <...> consegno copia originale
della presente dichiarazione, precisando che, poiché la volontà da me espressa potrà essere revocata o
modificata in ogni momento con una successiva mia dichiarazione che provvederò a consegnare alla
medesima persona, la dichiarazione sopravvenuta cancellerà le precedenti disposizioni.
Luogo e data <...>
Nome <...> e Firma del testatore
Nome <...> e Firma del fiduciario
Nome <...> e Firma del fiduciario sostituto
Nome <...> e Firma del 1° testimone
Nome <...> e Firma del 2° testimone
<...>
<...>
<...>
<...>
<...>
62
Rassegna dei commenti presenti in banca dati Lex24&Repertorio24
Famiglia e Minori
Famiglia e Minori 01.09.2008, n. 8 pg. 75 - Salerno Giulio M.
Solo una legge può delineare regole condivise per garantire uniformità di
applicazione
Famiglia e Minori 01.07.2008, n. 7 pg. 74 - Leo Mauro
Una decisione permeata dal rifiuto di cure imposte contro la volontà
Famiglia e Minori 01.02.2007, n. 2 pg. 23 - Santosuosso A.
Lo schema del notariato come chiave di ricerca della "prassi accettabile"
Famiglia e Minori 01.02.2007, n. 2 pg. 27 - Santosuosso A.
Uno strumento già conosciuto e regolamentato in altri Paesi europei
Famiglia e Minori 01.02.2007, n. 2 pg. 19 - Santosuosso A.
Meno margini di "oscillazione" con l'approvazione di un'esplicita disciplina
Famiglia e Minori 01.02.2007, n. 2 pg. 14 - Corrado A.
Distanze e convergenze nei progetti attualmente all'esame del Parlamento
Guida al Diritto
Guida al Diritto n. 43, 03.11.2007 pg 42 - Salerno Giulio M.
L'apertura al testamento biologico non cancella i problemi applicativi
Guida al Diritto n. 16, 21.04.2007 pg 95 - Salerno Giulio M.
A questo punto diventa indispensabile avviare una "conversione costituzionale"
Guida al Diritto n. 1, 06.01.2007 pg 46 - Salerno Giulio M.
Un rinvio della questione alla Consulta poteva essere la soluzione appropriata
Guida al Diritto n. 40, 19.10.2002 pg 59 - Cananzi F.
Necessari nuovi strumenti di valutazione per eutanasia e assistenza al suicidio
Guida al Diritto n. 21, 01.06.2002 pg 107 - Cananzi F.
Dalla corte un 'no' al suicidio assistito ma anche l'invito a mitigare le sanzioni
www.lex24.ilsole24ore.com
e-mail: [email protected]
(C) Copyright Il Sole 24 Ore S.p.A. Tutti i diritti sono riservati. È vietata la riproduzione anche parziale e con qualsiasi
strumento.
63
M3_00_Prime pagine
26-01-2006
10:28
Pagina III
FONDAZIONE UMBERTO VERONESI
Testamento biologico
Riflessioni di dieci giuristi
Prefazione di Umberto Veronesi
M3_00_Prime pagine
16-12-2005
8:19
Pagina V
Sommario
VII
Prefazione
di Umberto Veronesi
XI
Introduzione
di Maurizio de Tilla
1
L’autonomia decisionale
della persona alla fine della vita
di Salvatore Patti
15
La scelta del testamento biologico
di Pietro Rescigno
25
Il principio di autodeterminazione
e le direttive anticipate sulle cure mediche
di Guido Alpa
47
Scelte di fine vita
di Lorenzo D’Avack
89
Efficacia del testamento biologico
e ruolo del medico
di Luigi Balestra
107
Il testamento biologico: perché?
di Rossana Cecchi
141
Stato vegetativo permanente
e sospensione dei trattamenti medici
di Gilda Ferrando
M3_00_Prime pagine
163
16-12-2005
8:19
Pagina VI
Quali strumenti per attuare
le direttive anticipate?
di Michele Sesta
177
Il silenzio della legge e il testamento di vita
di Diana Vincenti Amato
189
“Testamento per la vita” e amministrazione
di sostegno
di Giovanni Bonilini
M3_01_Prefazione
16-12-2005
8:20
Pagina VII
Prefazione
di Umberto Veronesi
Il tema della morte è molto impopolare per chiunque lo tratti.
Ogni volta che mi trovo ad affrontarlo – e la mia professione
mi porta a farlo forse più spesso di altri – come medico, come
scienziato o semplicemente come uomo, sono consapevole
che può essere lacerante per la sensibilità di molti perché è
difficile accettare che si spenga la vita che amiamo, o dovremmo amare, più di ogni cosa e che rappresenta il nostro bene
supremo. Ma ogni volta penso anche che è un tema che non si
può nascondere, ignorare o mistificare. Credo sia utile una
presa di coscienza e sia necessario un dibattito leale e civile e
il più possibile partecipato. Nell’antica Grecia, i problemi della vita e della morte si discutevano nell’agorà, la piazza, e io
credo che sia importante che la società del terzo millennio trovi un’agorà in cui confrontarsi. In fondo, non c’è argomento
che ci riguardi tutti indistintamente più da vicino.
“Il giorno seguente non morì nessuno. Il fatto, poiché assolutamente contrario alle norme della vita, causò negli spiriti
un enorme turbamento”, così inizia e così finisce il più recente capolavoro di Josè Saramago. Io vedo la morte come il
grande scrittore: è la norma della vita, la naturale conclusione
di ogni processo vitale, una fase del grande disegno biologico
a cui apparteniamo. E per questo penso anche che il morire
faccia parte di un corpus fondamentale di diritti individuali:
diritto di formarsi o non formarsi una famiglia, diritto alle cure mediche, diritto a una giustizia uguale per tutti, diritto all’i-
M3_01_Prefazione
VIII
16-12-2005
8:20
Pagina VIII
UMBERTO VERONESI
struzione, al lavoro, alla procreazione responsabile e all’esercizio di voto. E se, come dice Luca Goldoni, noi vogliamo avere il diritto di andarcene appena viene il buio “decidendolo
ora, quando la luce è ancora accesa” l’unico modo è esprimere pubblicamente questo desiderio. Questo è il principio fondante della “volontà anticipata” chiamata anche “biocard”, “testamento biologico”, “carta di autodeterminazione “ e nei Paesi anglosassoni, con la definizione più forte, living will.
* * *
In Italia il testamento biologico non ha valore giuridico come
espressione di volontà, ed è preso in considerazione solo attraverso un passaggio che è anche deontologico, vale a dire se
i medici curanti ravvisano nelle terapie che dovrebbero essere
praticate il carattere di “cure inappropriate”, in quanto il malato non può clinicamente guarire. Viene introdotto quindi un
criterio discrezionale – la decisione di sospendere le cure può
cambiare da medico a medico – e quindi si avverte l’esigenza
di una legge che tuteli l’inalienabile diritto del malato a decidere come morire.
Qualche iniziativa è stata presa in questo senso. Nel 2001 il
nostro Paese ha ratificato la convenzione di Oviedo del 1997
che stabilisce che “i desideri precedentemente espressi a proposito di un intervento medico da parte di un paziente che, al
momento dell’intervento, non è in grado di esprimere la propria volontà saranno tenuti in considerazione”. Inoltre, secondo il Comitato per la Bioetica, “le direttive anticipate potranno
essere scritte su un foglio firmato dall’interessato, e i medici
dovranno non solo tenerne conto, ma dovranno anche giustificare per iscritto le azioni che violeranno tale volontà”. Ma a
mio giudizio questo ancora non basta. I tempi sono maturi perché si passi dal piano etico a quello giuridico perché si tratta di
rispettare il diritto di ogni cittadino a decidere in autonomia e
libertà il proprio futuro, soprattutto nel caso si realizzasse la
sfortunata condizione di impossibilità e incapacità di esprimere la propria volontà. Si tratta quindi non solo di salvaguardare
M3_01_Prefazione
16-12-2005
8:20
Pagina IX
PREFAZIONE
IX
il principio dell’autodeterminazione, ma anche e soprattutto di
proporre alla popolazione giovane il tema difficile, ma fondamentale, del termine della vita. Infatti buona parte dei casi in
cui non è possibile esprimere la propria volontà riguarda proprio persone giovani, in condizione di danno cerebrale da trauma per incidenti automobilistici o motociclistici. Il testamento
biologico assume quindi un valore profondamente educativo
perché obbliga gli adolescenti e i giovani adulti ad affrontare i
temi esistenziali, a dibatterli e a interrogare se stessi su come
ciascuno vorrebbe concludere il proprio ciclo biologico, nel
caso che tale evento grave si realizzasse.
Questo dibattito non può che essere utile alla formazione
di una personalità consapevole e cosciente non solo sul grande tema dell’autonoma decisione sul proprio progetto di vita,
ma anche sul problema del consenso informato alle terapie
mediche, di cui il testamento biologico è una logica estensione. Il consenso informato è una grande conquista etica dei nostri tempi perché permette al cittadino che necessita di terapia di riappropriarsi della decisione se e a quali cure sottoporsi. Non dimentichiamoci che il grande movimento popolare
olandese che ha condotto alla legge sull’eutanasia è nato, ormai vent’anni fa, quando la popolazione ha potuto constatare
che i moderni mezzi della medicina possono prolungare artificialmente la vita, opponendosi alla sua conclusione naturale
per giorni, per mesi o per anni. Poiché la decisione di come e
quando prolungare con le nuove tecnologie l’assistenza è completamente nelle mani dei medici, le persone più illuminate
della cultura olandese (il movimento era iniziato negli anni
Settanta dopo la pubblicazione del libro di Van der Berg Medical Power and Medical Ethics) chiesero a gran voce che le
singole persone potessero riappropriarsi della decisione se e
quando tralasciare o sospendere la cura. Il movimento europeo a favore del testamento biologico è figlio di questo movimento civile, che vuole, in una società culturalmente evoluta,
riaffermare il principio dell’autodeterminazione e del consenso informato, da redigere anticipatamente prima che un danno cerebrale impedisca la sua consapevole espressione.
M3_02_Introduzione
16-12-2005
8:21
Pagina XI
Introduzione
di Maurizio de Tilla*
La presente pubblicazione sul “Testamento biologico”, che segue il volume sulla “Fecondazione assistita”, è curata dal Comitato “Scienza e Diritto” della Fondazione Umberto Veronesi. Hanno collaborato alcuni tra i più insigni giuristi delle materie civilistiche del nostro Paese: Salvatore Patti, Pietro Rescigno, Guido Alpa, Lorenzo D’Avack, Luigi Balestra, Rossana
Cecchi, Gilda Ferrando, Michele Sesta, Diana Vincenti Amato,
Giovanni Bonilini.
Attraverso il testamento biologico e attraverso la compilazione di direttive anticipate, un individuo può liberamente indicare i trattamenti sanitari che vuole ricevere e quelli cui intende rinunciare quando non sarà più in grado di prendere decisioni autonomamente. Può, inoltre, indicare un suo fiduciario che, in tali situazioni, agisca come decisore sostitutivo. Facendo proprie le preferenze e i valori del testatore biologico,
tale decisore dovrà chiedersi se questi avrebbe voluto che la
sua vita fosse prolungata in quella situazione oppure no. Solo
nel caso in cui dovesse mancare ogni informazione su ciò che
la persona avrebbe voluto si dovrebbe scegliere in base a quel
che appare il miglior suo interesse nella situazione data.
Con il testamento biologico la scelta di fine vita viene inti-
* Presidente Cassa Forense, Presidente Adepp, Coordinatore del Comitato “Scienza e Diritto” della Fondazione Umberto Veronesi.
M3_02_Introduzione
XII
16-12-2005
8:21
Pagina XII
MAURIZIO DE TILLA
mamente collegata alle dichiarazioni anticipate di trattamento. Denominazione questa che, unitamente ad altre analoghe
(living will, direttive anticipate, testamento di vita), fa riferimento “ad un documento con il quale una persona, dotata di
piena capacità, esprime la sua volontà circa i trattamenti
ai quali desidera o non desidera essere sottoposto nel caso
in cui, nel decorso di una malattia o a causa di traumi improvvisi, non fosse in grado di esprimere il proprio consenso o il proprio dissenso informato” (definizione data dal Comitato Nazionale per la Bioetica).
Da questa definizione si può ricavare da subito che è errato ritenere che le dichiarazioni anticipate implichino di per sé
l’ammissibilità dell’eutanasia. Le dichiarazioni e l’eutanasia
rientrano nella vicenda di fine vita, ma sono due problemi diversi, logicamente indipendenti e vanno trattati separatamente. Le dichiarazioni anticipate servono a dare indicazioni in
merito alla volontà del paziente, utilizzabili quando questi
non può far valere di persona le proprie scelte. In questo senso esse sono uno strumento dell’autonomia dei malati e non
hanno nessuna implicazione eutanasica necessaria. Esse possono prevederla (salvo gli effetti leciti e legittimi di tale previsione), ma possono anche includere precise clausole di esclusione dell’eutanasia, anche qualora essa fosse legislativamente riconosciuta. Così come potrebbero contenere indicazioni
di una prosecuzione delle cure al di là delle cautele suggerite
al medico affinché si eviti l’accanimento terapeutico (Lorenzo D’Avack).
Ancor più drasticamente si è sostenuto che quando si parla di dichiarazioni di volontà anticipate non ci si riferisce all’eutanasia, perché non si richiede né il comportamento attivo
di terzi per ottenere il risultato di mettere fine alla vita, né si
richiede la passiva partecipazione di terzi, in quanto oggetto
di tali dichiarazioni è il rifiuto del trattamento medico. Anche
se cristallizzato nel tempo, tale rifiuto vale a esercitare il diritto alla salute di cui all’art. 32 Cost., che può consistere, nel caso di adulti, nell’esercizio negativo del diritto (Guido Alpa).
A prescindere dalle problematiche sull’eutanasia le dichia-
M3_02_Introduzione
16-12-2005
8:21
Pagina XIII
INTRODUZIONE
XIII
razioni anticipate sono certamente un efficace strumento che
rafforza l’autonomia individuale e il consenso informato nelle
scelte mediche o terapeutiche, tanto più che grazie alla Carta
dei diritti fondamentali dell’Unione europea (artt. 1 e 3) e alla
Convenzione sui diritti dell’Uomo e la biomedicina (artt. 5, 6 e
9), questi principi acquisiscono nuovo e maggior rilievo, non
soltanto coinvolgendo i doveri professionali del medico e la
legittimazione dell’atto medico, ma dando sostanza al diritto
del cittadino all’integrità della persona e al rispetto delle sue
decisioni.
Che il “testamento biologico” possa ammettersi, ed essere
considerato valido, nel nostro ordinamento è domanda che
può ricevere una positiva risposta già sotto il profilo della liceità degli atti di disposizione del corpo e dell’integrità personale che rispettino i limiti di legge (nel senso che non ne derivi una diminuzione permanente dell’integrità e non si abbia lesione dell’ordine pubblico e del buon costume), e altresì la tutela della privacy e del potere di autodeterminazione in una
materia che tocca profondamente la libertà e il destino della
persona (Pietro Rescigno).
Vale qui la pena di ricordare l’intervento del Comitato Nazionale per la Bioetica (18 dicembre 2003) con il quale si è affermato che le “dichiarazioni anticipate di trattamento” si
iscrivono in un positivo processo di adeguamento della nostra
concezione dell’atto medico ai principi di autonomia decisionale del paziente. Le dichiarazioni possono essere intese sia
come un’estensione della cultura che ha introdotto, nel rapporto medico-paziente, il modello del consenso informato, sia
come spinta per agevolare il rapporto personale tra il medico
e il paziente proprio in quelle situazioni estreme in cui non
sembra poter sussistere alcun legame tra la solitudine di chi
non può esprimersi e la solitudine di chi deve decidere.
Devo in limine segnalare che l’istituto giuridico del “testamento biologico” – che costituisce una forma avanzata di civiltà giuridica nel senso di una progressiva valorizzazione del
consenso informato – non è presente nel nostro Paese, nonostante la presentazione di diversi disegni di legge da parte dei
M3_02_Introduzione
XIV
16-12-2005
8:21
Pagina XIV
MAURIZIO DE TILLA
parlamentari Tomassini, Acciarini, Ripamonti, Del Pennino,
Benvenuto e altri.
Mi corre, inoltre, l’obbligo di segnalare che gli autori del
presente volume curato dal Sole 24 ORE hanno affrontato
obiettivamente – anche con tesi in contrasto – l’argomento in
relazione alla possibile previsione e alle modalità di attuazione del testamento biologico.
Uno dei principali problemi è che, nell’attualità, il progresso della tecnologia medica ci impone di prendere decisioni
che non eravamo obbligati a prendere qualche tempo fa. E talvolta le decisioni andrebbero prese quando non si è, per incapacità, in grado di prenderle.
Su questa preliminare osservazione vi è da segnalare che
secondo un noto bioetico1, la sospensione o la mancata somministrazione di terapie di prolungamento della vita sono un
normale esercizio dell’attività medica e non equivalgono all’eutanasia o al suicidio medico assistito. In quest’ambito viene, tra l’altro, in evidenza il concetto di futilità medica.
Per futilità si intende una terapia che non è in grado di
portare un cambiamento fisiologico, ma anche una terapia
che non è in grado di portare miglioramenti alla qualità della vita.
Il ricorso al criterio della futilità del trattamento è usato
frequentemente negli Stati Uniti e in Gran Bretagna. Alla futilità si ricorre generalmente quando il medico e i familiari concordano di non utilizzare più una particolare terapia soprattutto quando si tratta di supporto artificiale di mantenimento
in vita. In molti casi il ricorso a questo criterio è stato utilizzato come difesa contro l’accusa di omicidio o di terapie di mantenimento in vita.
In molti casi la terapia del mantenimento in vita viene continuata contro la volontà del paziente, in circostanze talmente
gravi da far pensare che si stia negando al malato una morte
dignitosa, prolungandogli una sofferenza ormai insostenibile.
1
D. Lamb, L’etica alle frontiere della vita, Il Mulino, Bologna, 1998.
M3_02_Introduzione
16-12-2005
8:21
Pagina XV
INTRODUZIONE
XV
È, quindi, fuorviante parlare di “lasciar morire” quando si
sottrae il paziente terminale a un trattamento ormai inutile. In
alcuni casi, infatti, il medico si trova senza alternative. L’espressione “l’ho lasciato morire” avrebbe senso solo se vi fosse stata una qualunque possibilità di mantenere il paziente in
vita, ma quando la morte è ineluttabile non si può più scegliere tra la vita e la morte; l’unica scelta possibile è come il paziente deve morire2.
Nello scritto pubblicato nel presente volume Diana Vincenti Amato incalza il ragionamento sulle esigenze delle direttive
anticipate sul trattamento sanitario con interrogativi che sono
alla base del testamento di vita.
Come accertare la “vera” volontà del paziente quando è
in condizioni fisiche e psicologiche tali che altra sarebbe la
sua volontà in condizioni diverse? Quale peso dare alla volontà espressa al suo posto, o in conflitto con le sue, dai parenti più stretti? Esiste uno standard al quale fare riferimento per valutare la ragionevolezza di certe scelte, sia in ordine
al tipo di intervento terapeutico che si è disposto ad affrontare, sia in ordine alla “qualità della vita” che si è disposti ad
accettare?
Il testamento di vita può rispondere a questi interrogativi
con l’indicazione di alcuni limiti o incentivi finalizzati a un preventivo consenso o dissenso al trattamento sanitario.
Non è da trascurare il rilievo che le discussioni sul peso
morale da attribuire a eventuali atti o omissioni che rendono
la vita relativamente più breve, oppure le discussioni sulla
distinzione tra terapia straordinaria e ordinaria, poco importano ai fini della considerazione delle alternative per il trattamento di ammalati terminali. Bisogna dire chiaramente
che “sospensione della terapia” non è sinonimo di “cessazione di ogni trattamento”. Se viene inteso correttamente, il
concetto capta quegli aspetti che rientrano nel buon esercizio della pratica medica, riconoscendo che vi sono stadi nei
2
D. Lamb, op. cit., p. 38.
M3_02_Introduzione
XVI
16-12-2005
8:21
Pagina XVI
MAURIZIO DE TILLA
quali il processo di morte dovrebbe venir reso più “sostenibile” per il paziente. C’è un ampio consenso sul fatto che non
vi sia alcun imperativo di ordine etico che imponga di sottoporre un paziente a ripetuti tentativi di rianimazione, a un futile regime di alimentazione introvenosa, a dialisi, al mantenimento farmaco-dipendente della pressione sanguigna, a
profilassi antibiotica, o al controllo elettrocardiografico del
battito cardiaco, al mero fine di tenere in vita il malato terminale per un altro paio di giorni o una settimana. La cosa
più importante da fare, in questi casi, è adoperarsi per dare
sollievo al malato.
Capita in medicina, ad esempio durante il trattamento di
pazienti allo stadio terminale della malattia (o di neonati anencefalici senza speranza), che il trattamento in preparazione
della morte sia l’unico intervento moralmente accettabile,
mentre infliggere una qualsiasi forma di terapia per mantenere in vita il paziente nelle condizioni in cui versa appare moralmente ingiustificato.
Numerose forme di sospensione della terapia, anche a rischio di mettere in pericolo la sopravvivenza del paziente, sono pur sempre compatibili con i principi di buona pratica della medicina e con il rispetto dell’individuo. Quando vengono
rivolte nella giusta direzione, le decisioni per la sospensione
della terapia dovrebbero poter soppiantare gli argomenti sull’eutanasia, in quanto il contenuto morale essenziale della questione si incentra su quale forma di terapia sia appropriata dal
punto di vista etico, e non sul mero interrogativo se far continuare la vita sia eticamente appropriato. Ma se l’eutanasia è
incompatibile con i principi del buon esercizio della pratica
medica, infliggere una terapia per il mantenimento in vita con
il solo risultato di aumentare la sofferenza del paziente è altrettanto deplorevole.
Se l’argomento più convincente a favore dell’eutanasia è
alleviare la persona da inutili sofferenze, gli oppositori dell’eutanasia sbagliano nella difesa a oltranza del mantenimento in vita di un paziente, anche a costo di infliggergli terribili
sofferenze.
M3_02_Introduzione
16-12-2005
8:21
Pagina XVII
INTRODUZIONE
XVII
* * *
Per comprendere meglio i termini del dibattito provo a riportare alcune argomentazioni di David Lamb3, secondo il quale
la linea che divide l’interruzione della terapia dall’eutanasia risulta spesso poco chiara a causa della confusione che si viene
a creare nel corso della discussione sul rapporto tra azioni che
arrecano la morte (far morire) e le omissioni che portano alla
morte (lasciar morire). Così molti simpatizzanti dell’eutanasia
descrivono la distinzione fra eutanasia attiva e passiva, far
morire e lasciar morire, come moralmente irrilevante, e su
questa linea proseguono, equiparando sotto l’aspetto morale
l’eutanasia all’interruzione della terapia di sostegno vitale. Il
puro richiamo alle conseguenze dei vari tipi di azione, astratto
dal contesto nel quale la terapia viene applicata, negata o interrotta, servirebbe solo a farci capire che tale distinzione è in
realtà squisitamente semantica. Al contrario, attraverso uno
sguardo più attento al contesto nel quale vengono prese le decisioni riguardo alla terapia da effettuare, si evince che molti
argomenti ed esempi che vengono citati per far ricadere l’attenzione sulle conseguenze di un atto o omissione sono di
scarso rilievo morale, rappresentando spesso e volentieri l’intrusione forzata di un semplicistico dogma filosofico nell’etica medica.
Esistono motivi convincenti perché l’atto col quale si nega
l’applicazione di una terapia di mantenimento in vita e l’atto
col quale si causa il decesso del paziente vengano distinti. È
importante avere la consapevolezza che la discussione intorno al tipo di terapia che si nega o si applica appartiene a una
categoria morale ben diversa dagli argomenti relativi all’atto
di “consentire” o “causare” la morte4.
Nell’ambito delle tesi che favoriscono l’introduzione negli
ordinamenti giuridici di norme che disciplinano il “testamento
3
4
D. Lamb, op. cit., p. 47.
D. Lamb, op. cit., p. 52.
M3_02_Introduzione
16-12-2005
8:21
Pagina XVIII
XVIII MAURIZIO DE TILLA
biologico” è agevole affermare che ogni persona ha diritto alla
non interferenza sulle scelte che riguardano gli aspetti più intimi della sua vita. Le scelte relative alla salute sono fondamentali perché concernono il valore centrale del benessere
del paziente.
La salute e il prolungamento della vita non sono infatti dei
valori in sé, ma solo in quanto facilitano il perseguimento del
proprio piano di vita: perciò, “in molti casi la decisione di quale tra i trattamenti alternativi, compresa la scelta di nessun
trattamento, promuova meglio il benessere di un paziente non
può essere determinata oggettivamente, indipendentemente
dalle preferenze e dai valori del paziente stesso”. In prossimità
della morte sono particolarmente forti, da un lato, il pericolo
di andare incontro a sofferenze incoercibili, dall’altro quello
di perdere il controllo su di sé e di vedere perciò compromessa la propria dignità; dunque, l’affermazione di un “diritto di
morire” equivale a riconoscere a individui autonomi, in possesso delle proprie facoltà, la libertà di decidere che la loro
qualità di vita è così fortemente compromessa da rendere privo di senso continuare a vivere5.
* * *
Con il presente lavoro si è tentato di dare una risposta agli innumerevoli quesiti che riguardano il testamento biologico e le
direttive anticipate che costituiscono, secondo la maggior parte degli autori (salvo alcuni dissensi) un modo corretto per risolvere alcuni problemi che toccano marginalmente i confini
dell’eutanasia.
Con lo scritto che si pubblica, Gilda Ferrando tenta di
dare una risposta a importanti quesiti: “Quando una persona
si trova in stato vegetativo permanente è lecito chiedere di
interrompere l’alimentazione e l’idratazione forzata? Dato
5
M. Reichlin, L’etica e la buona morte, Edizioni di Comunità, Torino
2002, p. 109.
M3_02_Introduzione
16-12-2005
8:21
Pagina XIX
INTRODUZIONE
XIX
che il malato è in una condizione di perdita irreversibile della coscienza c’è qualcuno che può fare questa richiesta al
posto suo?”.
Questi sono alcuni dei drammatici interrogativi che i casi
di Eluana Englaro e di Terry Schiavo pongono all’opinione
pubblica.
Gilda Ferrando dà una precisa risposta collegandosi alla
rilevanza assunta dal consenso informato del paziente anche
con le direttive anticipate.
Deve, infatti, essere rispettata la scelta del paziente di non
intraprendere certe terapie o di sospendere quelle già iniziate.
Il Codice di deontologia medica prescrive al medico di desistere dalla terapia quando il paziente consapevolmente la rifiuti. Se il paziente non è in grado di esprimersi, la regola
deontologica prescrive al medico di proseguire la terapia fino
al quando lo ritenga “ragionevolmente utile”.
Allo stato attuale della legislazione italiana, quando vi sia
una perdita irreversibile della coscienza non vi è altra soluzione che quella di tener conto delle direttive anticipatamente
espresse, secondo quanto dispongono la Convenzione europea di bioetica (art. 9) e il Codice di deontologia medica (art.
34). È vero che né l’uno né l’altro testo attribuiscono un valore vincolante alle direttive anticipate. Di qui il valore giuridico
e vincolante da attribuire con legge al testamento biologico.
In senso favorevole e positivo Luigi Balestra asserisce che
il cosiddetto testamento biologico è volto a colmare, sia pure
in modo parziale, la frattura che la sopravvenuta incapacità
dell’individuo determina nel rapporto con il sanitario e rappresenta, sotto questo profilo, l’approdo logico del processo
di progressiva valorizzazione del consenso informato. Balestra osserva puntualmente che sembra fuorviante sostenere
che nel dibattito sul testamento biologico la vera posta in gioco sia la legalizzazione dell’eutanasia.
L’eutanasia è certamente e fortemente presente nel dibattito, ma la vera posta in gioco è più ampia e si identifica col tentativo di rivestire di nuovi contenuti la relazione medico-paziente attraverso un processo di adeguamento della nostra
M3_02_Introduzione
XX
16-12-2005
8:21
Pagina XX
MAURIZIO DE TILLA
concezione dell’atto medico ai principi di autonomia decisionale del paziente. In una tale prospettiva, l’eutanasia non è più
centrale rispetto alla discussione sulla meritevolezza di tutela
del testamento biologico e si colloca, più opportunamente, nel
contesto dei limiti cui la “volontà di testatore” deve soggiacere al cospetto di un ordinamento che concepisce la vita umana come bene indisponibile.
Michele Sesta osserva che appare di piena evidenza l’impossibilità di prescindere, in tema di scelta concernente la salute, dalla volontà dell’interessato, che dovrà essere rispettata
tanto nel caso in cui sia volta a ottenere un trattamento terapeutico, quanto nella differente ipotesi in cui sia finalizzato al
rifiuto di cura.
Giovanni Bonilini aggiunge con puntualità che il rifiuto del
trattamento sanitario non si può ritenere capace di innestare
la procedura di interdizione o di amministrazione di sostegno. È di assoluta gravità che si pretenda di sovrapporre la
decisione di un’altra persona a quella che ha deciso altrimenti: chi rifiuti l’amputazione di un arto, preferendo lasciarsi
morire, non può vedersi raggirato dall’attivazione di uno strumento che legittimi altri a decidere al posto suo, ottenendosi
un consenso al trattamento da chi sia stato tutore o amministratore di sostegno.
Rossana Cecchi richiama la Carta dei diritti fondamentali
dell’Unione Europea che, al titolo I, stabilisce che la dignità
umana è inviolabile e che ogni individuo ha diritto alla vita e
alla propria integrità psico-fisica.
La Carta ha, quindi, sentito la necessità di stabilire esplicitamente che “deve essere rispettato” in ambito medico il consenso libero e informato dalla persona interessata, secondo le
modalità definite della legge.
Salvatore Patti ha giustamente sottolineato che si riscontra, in materia, un vuoto legislativo che solo in parte può essere colmato con il ricorso ad alcune norme dettate con riferimento a singola fattispecie oppure ai principi generali.
Si riscontra tuttavia un’accresciuta sensibilità nei confronti dell’autonomia del paziente: nella prassi si perviene spesso
M3_02_Introduzione
16-12-2005
8:21
Pagina XXI
INTRODUZIONE
XXI
a forme di collaborazione decidendo tra paziente terminale e
medico, nell’ottica di una specie di alleanza terapeutica.
Patti non vede positivo l’istituto del testamento biologico
sollevando alcune interessanti obiezioni.
Ricordo, in proposito, che nel febbraio 1993 il Parlamento
olandese è andato ben al di là del “testamento biologico” ammettendo formalmente la pratica dell’eutanasia, a condizione
che si comprovi la richiesta “persistente” da parte del paziente. In Olanda la procedura di autorizzazione all’eutanasia non
prevede, infatti, il ricorso a direttive anticipate o alla delega, e
solamente la richiesta puntuale da parte del paziente è legalmente ammessa.
Nei Paesi Bassi la definizione di eutanasia in diritto e in
medicina corrisponde a una “interruzione della vita del paziente dietro sua personale richiesta attraverso l’intervento attivo del medico”. Il principio etico a fondamento di tale definizione sembra basarsi sul consenso libero e informato dell’individuo razionale. Nel diritto olandese esiste una peculiare
dottrina la quale consente che alcune pratiche, sebbene non
legittimate dal diritto scritto, vengano tollerate (gedogen) dai
pubblici ministeri e dai magistrati. Questa dottrina permette
che la pratica prenda corpo e si sviluppi grazie a un diffuso atteggiamento di tolleranza, per poi venire formalmente legalizzata. Allora, quando si è formato il consenso intorno a un certo tipo di pratica, si fa approvare una legge che disciplini quest’ultima nei termini nei quali si è sviluppata. Questa prassi è
marcatamente diversa dalla tendenza che si riscontra nel Regno Unito e negli Stati Uniti ad affrontare una problematica
sociale direttamente con la legge, con la possibilità semmai di
emendarla in un secondo momento a seguito della reazione
del pubblico in merito.
Va segnalato che in alcuni Stati americani si fa ricorso a
una procura speciale, attraverso la quale il rappresentato nomina un procuratore affinché agisca per suo conto in un qualsiasi momento successivo alla perdita della propria capacità
di autodeterminazione. Sotto taluni aspetti l’istituto del fiduciario per così dire “della salute” è un meccanismo che mette
M3_02_Introduzione
XXII
16-12-2005
8:21
Pagina XXII
MAURIZIO DE TILLA
il paziente in grado di indicare al medico chi dovrebbe essere
il proprio delegato o sostituto. Si ritiene che l’efficacia giuridica di tali strumenti sia superiore a quella del testamento di vita. In alcuni Stati americani l’autorità del procuratore può, infatti, prevalere sulle obiezioni sollevate dai familiari. Accomunate in un’unica categoria, il “testamento di vita” e la “procura
per la salute” rientrano nella categoria delle “direttive anticipate”. Nel Regno Unito l’opinione dei giuristi è leggermente
diversa da quella prevalente negli Stati Uniti. La Law Commission of England interpreta le “direttive anticipate” come
decisioni anticipatorie, distinguendole dal testamento di vita
che essa definisce come “la direttiva anticipata concernente il
rifiuto di procedure per il mantenimento in vita nel caso eventuale di uno stadio terminale della malattia”. Ma tanto negli
Stati Uniti quanto nel Regno Unito la legittimazione morale
delle direttive anticipate consiste nel promuovere l’autonomia
individuale, e sebbene il documento possa talvolta indicare la
scelta di ricevere o meno specifiche forme di terapia, le direttive anticipate, secondo il senso comune, sono associate all’opportunità di rifiutare l’ultima terapia di fronte alla percezione del timore di un accanimento terapeutico, come del resto si evince da molte argomentazioni volte a promuoverle.
* * *
Per bilanciare i contenuti di questa breve e sintetica introduzione vorrei concludere con una magistrale espressione del
Cardinale Dionigi Tettamanzi6, che facendo appello al “morire
con dignità umana e cristiana” sottolinea che “l’uomo è uomo
anche di fronte alla morte e nella morte stessa: questa da
evento inevitabile è chiamata a divenire per l’uomo un fatto
personale, un fatto da assumere e da vivere (vivere la morte!)
da uomo, ossia coscientemente e liberamente, dunque respon-
6
Riportata da Eugenio Lecaldano, Bioetica – Le scelte morali, Laterza,
Bari, 1999, p. 67.
M3_02_Introduzione
19-12-2005
10:57
Pagina XXIII
INTRODUZIONE
XXIII
sabilmente. In questo senso, morire con dignità umana significa affrontare la morte con serenità e coraggio”7.
A questo ispirato pensiero del Cardinale Tettamanzi (che
affronta la questione sotto il profilo ontologico), Eugenio Lecaldano obietta che ben diverso è il quadro in cui la dignità
del morire umano è collegata con la libertà della scelta del
morente. In questo caso emerge ancora chiaramente quell’uso
della nozione di dignità alternativo a quello appena richiamato, ovvero l’uso non più ancorato a una concezione ontologica
di ciò che è la natura umana o di quella che è la vita propria
della persona umana in generale, ma più peculiarmente a quelli che sono i tratti distintivi della vita individuale della persona
della cui dignità o meno si tratta. Numerose sono le elaborazioni in questo senso, e ad esempio molte determinazioni le
troviamo in una recente riflessione di Küng. Il problema – aggiunge Lecaldano – non è in generale quello della dignità della
vita umana, ma piuttosto il punto è che ogni uomo tiene al rispetto della sua propria dignità e di quella altrui. Inoltre – rileva Küng – anche da una prospettiva teologica il cristiano può
riconoscere che Dio “si attende dall’uomo libertà e responsabilità per la sua vita” e dunque “ha anche lasciato all’uomo che
è in procinto di morire la responsabilità e la libertà di coscienza e di decidere il modo e il tempo della sua morte”8. Un modo
di collegare la dignità del morire con il modo personale in cui
ciascuno intende vivere questo decisivo passaggio della propria esistenza è stato ad esempio affermato come uno dei
principi fondamentali della bioetica da Scarpelli9. La discussione più determinata, propria dei contesti bioetici, dell’uso
della nozione di dignità fa emergere – secondo Lecaldano –
chiaramente la necessità di connettere la valutazione in termini di dignità o umiliazione o degradazione a una considerazione più ampia e complessiva.
7
Tettamanzi, 1990, p. 461.
Küng e Jens, 1996, p. 86.
9 Scarpelli, 1998, specialmente pp. 230-232.
8
M3_02_Introduzione
16-12-2005
8:21
Pagina XXIV
XXIV MAURIZIO DE TILLA
Affrontando il problema sotto il profilo innovativo, Peter
Singer, docente di filosofia morale, in Scritti su una vita etica10, parlando di “come rimpiazzare la vecchia etica”, osserva
che il nuovo approccio alle decisioni concernenti la vita e la
morte è molto diverso da quello vecchio.
È importante rendersi conto che l’etica delle decisioni concernenti la vita e la morte è una parte dell’etica stessa.
Affermare che un individuo abbia, in talune circostanze,
un diritto a morire non significa certamente escluderlo dalla
sfera dell’interesse morale.
10
Il Saggiatore, Milano, 2001, p. 257.
M3_03_Testamento
16-12-2005
8:22
Pagina 1
L’autonomia decisionale della persona
alla fine della vita
di Salvatore Patti*
Mancanza di una disciplina di legge che garantisca
l’autonomia della persona alla fine della vita
In Italia manca una normativa che riguarda l’autonomia privata della persona nella fase finale della sua esistenza. Fatta
eccezione per alcune norme specifiche (ad esempio, in tema di trapianti) occorre quindi fare riferimento ai principi
generali.
All’assenza di una normativa specifica fa riscontro un dibattito dottrinale ricco e stimolante. Da tempo ci si chiede infatti se e in qual misura l’ordinamento consenta alla persona
umana di disporre dei beni strettamente personali, dell’integrità psico-fisica ovvero della vita.
Le risposte, in genere, tengono conto del prudente atteggiamento assunto dal Comitato Nazionale per la Bioetica
(CNB). Questo comitato, del quale fanno parte alcuni giuristi
(tra i quali i professori Francesco D’Agostino e Pietro Rescigno), ha espresso alcune raccomandazioni sul tema della “fine della vita umana”: ad esse occorre soprattutto fare riferimento per comprendere quale potrà essere l’evoluzione dell’ordinamento italiano nella materia in esame.
*
Ordinario di Diritto Privato all’Università La Sapienza, Roma.
M3_03_Testamento
2
16-12-2005
8:22
Pagina 2
SALVATORE PATTI
L’accanimento terapeutico
Il CNB muove dalla premessa che la morte non può essere
considerata come un mero evento biologico o medico, essendo essa portatrice di un significato nel quale deve essere individuata la radice della dignità dell’essere umano. La morte assegna all’essere umano un compito morale, che è quello di trovare un senso che guidi e assicuri la sua libertà.
Alla luce di questa visione di fondo della problematica, il
CNB considera criticamente ogni ipotesi di accanimento terapeutico, che volendo prolungare indebitamente il processo irreversibile del morire si pone contro la consapevolezza del
soggetto alla propria invincibile caducità.
Il cosiddetto accanimento terapeutico viene definito come un trattamento di documentata inefficacia in relazione
all’obiettivo, a cui si aggiunge la presenza di un rischio elevato per il paziente di ulteriori sofferenze, in un contesto nel
quale l’eccezionalità dei mezzi adoperati risulta chiaramente
sproporzionata rispetto agli obiettivi. Il concetto dell’inutilità si rinviene anche nell’art. 14 del Codice di deontologia
medica (1998), che definisce l’accanimento terapeutico come “... ostinazione in trattamenti di cui non si possa fondatamente attendere un beneficio per la salute del malato o un
miglioramento della qualità della vita”. Viceversa non si configura un accanimento terapeutico in caso di terapie impegnative, complesse e costose che portino comunque un benessere del paziente.
Il living will
Forti perplessità sono state espresse anche con riferimento
alle cosiddette direttive anticipate di trattamento, soprattutto
quando esse assumono la veste di veri e propri testamenti di
vita. Da un lato, infatti, si considera positivamente il tentativo
di attribuire rilievo alla volontà del paziente anche oltre le sue
possibilità biologiche di esprimerla, dall’altro si considera in
M3_03_Testamento
16-12-2005
8:22
Pagina 3
L’AUTONOMIA DECISIONALE DELLA PERSONA ALLA FINE DELLA VITA
3
termini negativi l’opinione di chi vorrebbe attribuire a tali direttive un carattere vincolante.
La Consulta di Bioetica, fin dal 1993, aveva tuttavia proposto l’adozione di regole tendenti a garantire il diritto della
persona all’autodeterminazione in ordine a scelte terapeutiche predeterminate da far valere anche in caso di successiva
impossibilità di esprimere un valido consenso o dissenso.
Una parte della categoria dei medici inquadrò tale iniziativa
in un positivo processo di adeguamento della concezione
della funzione del medico ai principi di autonomia decisionale del paziente. Nel 1999 è stata approvata la Carta dell’autonomia sino alla fine della vita, la quale prevede la possibilità di esprimere in anticipo la propria volontà sulle cure mediche per l’eventualità di una futura incapacità di decidere,
redigendo una Carta di autodeterminazione ed eventualmente delegando una persona di fiducia ad assumere le opportune decisioni.
L’opinione negativa nei confronti del consenso anticipato
esige viceversa la immediatezza del consenso informato e
consapevole. Altrimenti, si afferma, rimane immutato l’obbligo del medico di intervenire per salvare la vita umana in pericolo, qualunque sia stato il pregresso – ma attualmente non
verificabile – intento della persona.
Scarso favore ha incontrato altresì l’idea – maturata negli
Stati Uniti – del giudizio sostitutivo (substituted judgement),
per i pazienti privi di autonomia decisionale, che avviene tramite la designazione di un delegato, il quale si assume la responsabilità delle decisioni cliniche sulla base della situazione oggettiva del paziente, ma anche delle preferenze del soggetto precedentemente espresse o comunque ricostruibili.
Su tale problematica si soffermano, nelle pagine seguenti, i
saggi dedicati al ruolo nella materia in esame dell’amministrazione di sostegno.
Il principio del consenso informato è stato peraltro recepito dal Codice italiano di deontologia medica (art. 32), e da alcuni anni ispira la giurisprudenza, secondo cui il consenso costituisce l’essenziale e imprescindibile legittimazione giuridi-
M3_03_Testamento
4
16-12-2005
8:22
Pagina 4
SALVATORE PATTI
ca dell’atto medico, altrimenti suscettibile di essere valutato
come reato (Cass. pen., Sez. IV, 12 luglio 1991).
La giurisprudenza è comunque costante nel ritenere che
una eventuale desistenza terapeutica – sia pure preordinata
nel living will – dalla quale derivi un danno alla salute o la
morte del soggetto, anche nel caso di tempo più breve della
prevedibile sopravvivenza, che sarebbe stata garantita dalle
cure omesse, può configurare i reati della lesione personale (a
titolo di colpa o di dolo) o dell’omicidio (colposo, doloso o
preterintenzionale). Riassuntivamente può dirsi pertanto che
esiste un estremo rigore della giurisprudenza italiana nei confronti dell’omissione terapeutica.
Alla legittimazione del living will sembra contrastare anche l’art. 5 del codice civile che vieta gli atti di disposizione
del proprio corpo tali da determinare un danno permanente.
D’altra parte la libertà del paziente di sottrarsi a un trattamento terapeutico – utile ma non obbligatorio per legge – trova
fondamento nella norma della Costituzione in tema di salute
(art. 32). Ma anche tale base normativa non viene considerata
sufficiente per attribuire efficacia a un atto di volontà pregressa e non ripetibile a causa della sopravvenuta incapacità del
soggetto.
Il rifiuto del paziente ha quindi sicura rilevanza soltanto fin
quando egli sia cosciente e possieda la capacità di intendere e
di volere. Scarso favore – come detto – incontra inoltre l’idea
del conferimento a un “delegato” di un potere di guida del medico curante, affermandosi che quest’ultimo non può essere
privato della libertà di scelta terapeutica che caratterizza la
sua professione e che risulta garantita dal Codice italiano di
deontologia medica (1998). La medicina – si dice – non può ridursi a una mera esecuzione di prestazioni a richiesta.
Un’opinione intermedia – che appare preferibile – suggerisce di considerare il living will come un documento non vincolante ma orientativo, il quale consente di conoscere quali
fossero i sentimenti e i desideri del paziente prima della perdita di conoscenza. A sostegno di tale tesi si osserva, tra l’altro,
che le direttive della persona presentano in molti casi un ca-
M3_03_Testamento
16-12-2005
8:22
Pagina 5
L’AUTONOMIA DECISIONALE DELLA PERSONA ALLA FINE DELLA VITA
5
rattere di astrattezza, dovuta soprattutto al lasso di tempo che
intercorre tra il momento in cui esse vengono redatte e quindi
l’effettiva situazione del soggetto, e la situazione reale di malattia in cui versa la persona quando la direttiva dovrebbe essere applicata. Si rileva inoltre che spesso il linguaggio adoperato in tali documenti presenta forti ambiguità, non essendo il
paziente in grado di definire in modo corretto le situazioni cliniche in riferimento alle quali intende fornire direttive. In altri
termini, ogni direttiva anticipata perde di significato quanto
più è lontana nel tempo e quanto meno è espressa in modo
specifico e informato.
L’eventuale trasposizione in termini giuridici della suesposta soluzione intermedia determinerebbe probabilmente delle
difficoltà. Escludendo tuttavia che la legge possa considerare
assolutamente vincolanti le direttive anticipate del paziente, il
compito della norma giuridica dovrebbe essere quello di favorire la decisione anticipata del paziente nei casi che si prospettano drammatici e che sono a lui noti, lasciando peraltro al
medico – obbligato a tener conto di tali decisioni anticipate –
un certo margine di discrezionalità per la decisione clinica
concreta.
Le cure palliative
Molta attenzione in tutti i Paesi è stata dedicata al problema
delle cure palliative, che sarà trattato in modo approfondito
nelle pagine successive.
Il problema della medicina palliativa si pone quando la situazione patologica del paziente appare irreversibile ed è caratterizzata da particolari sofferenze del paziente e, in ultima
analisi, quando il compito del medico consiste soprattutto nell’accompagnare il “processo del morire”.
Le cure palliative vengono in genere valutate in termini
molto positivi, trovando il loro fondamento non nella pretesa
illusoria di strappare il paziente alla morte – o addirittura semplicemente di rinviare questo momento – bensì nel proposito
M3_03_Testamento
6
16-12-2005
8:22
Pagina 6
SALVATORE PATTI
di non lasciarlo solo e di aiutarlo a vivere l’ultima fase della
sua vita nel modo più umano possibile, sia dal punto di vista
fisico che da quello spirituale.
Soprattutto con riferimento ai cosiddetti malati terminali,
le cure palliative vengono viste come uno dei compiti della
medicina moderna, che concepisce la cura del paziente in
senso globale e quindi non soltanto fisico. Si auspica pertanto
che lo studio delle metodiche delle cure palliative trovi sempre maggiore spazio nella formazione del personale sanitario.
Anche in Italia la tendenza politico-legislativa sembra favorevole a uno sviluppo e a una intensificazione delle cure palliative. Il numero di pazienti sottoposto a tale tipo di cure è considerevolmente aumentato negli ultimi anni, sia per la maggiore
ricorrenza di malattie che comportano una indicazione di cure
palliative (cancro, Aids, Alzheimer, sclerosi multipla) sia per il
prolungamento del tempo medio di sopravvivenza.
Si osserva, tra l’altro, che il mantenimento di un’accettabile qualità della vita, conseguibile con il ricorso alle cure
palliative, anche nella sua fase terminale, rappresenta il migliore antidoto alle richieste di eutanasia. È infatti un dato di
comune esperienza quello secondo cui la richiesta di eutanasia è spesso accompagnata da condizioni di abbandono terapeutico. Il senso di solitudine e di abbandono del paziente e
quindi la sua decisione di “resa” sono collegati alla sospensione delle cure.
Le cure palliative non limitano in genere la coscienza del
paziente. Si ritiene comunque che nei casi in cui non siano
possibili altre soluzioni terapeutiche, sia lecito lenire il dolore
del paziente anche a costo di limitare il suo stato di coscienza,
dopo avere informato il paziente, avere ottenuto il suo consenso e avergli lasciato il tempo necessario per adempiere alle volontà finali.
Le cure palliative vengono in genere realizzate nel domicilio del paziente, garantendo con costi ridotti la migliore assistenza possibile. Il paziente continua infatti a vivere nel proprio ambiente, rispettando le sue abitudini, e spesso godendo
dell’affetto dei propri parenti.
M3_03_Testamento
16-12-2005
8:22
Pagina 7
L’AUTONOMIA DECISIONALE DELLA PERSONA ALLA FINE DELLA VITA
7
In questo contesto occorre ricordare la rilevante attività
svolta da numerose associazioni di volontariato che si prodigano nel campo dell’assistenza dei sofferenti. L’attività delle
associazioni di volontariato è stata favorita, tra l’altro dal punto di vista fiscale, con la legge n. 266 del 1991, che ha rappresentato il primo intervento organico del legislatore italiano in
materia di non profit organization.
I pazienti in stato vegetativo permanente
Un vuoto normativo si riscontra in Italia anche per quanto concerne i pazienti in stato vegetativo persistente (Persistent Vegetative State). Con tale espressione si indicano i pazienti nei
quali si è verificata la distruzione (non irreversibile) della maggior parte delle voci sopratentoriali, in assenza di lesioni del
troncoencefalo. Questa situazione si distingue pertanto dalla
cosiddetta morte cerebrale (brain death), che presuppone invece una lesione completa e irreversibile di tutto l’encefalo.
Al riguardo si discute quale debba essere la rilevanza da
dare alla volontà del paziente che abbia espresso un suo parere in merito prima del verificarsi della situazione descritta.
Un gruppo di studio della Società Italiana di Neurologia ha
proposto di considerare lecita la sospensione di ogni terapia
di sostegno vitale, incluse la nutrizione e idratazione artificiali, motivando tale parere con la sostanziale identificazione di
condizione di Persistent Vegetative State e morte della persona. Tale conclusione è stata criticata dal Comitato Nazionale
per la Bioetica, il quale osserva tra l’altro che l’ordinamento
giuridico vigente non prevede alcun criterio “corticale” per
l’accertamento della morte.
Nessuna menzione dei pazienti in stato vegetativo persistente si riscontra invece nel Codice di deontologia medica.
Esso afferma comunque che “il medico non deve intraprendere attività diagnostica o terapeutica senza l’acquisizione del
consenso informato del paziente” (art. 32) e che “in caso di
compromissione dello stato di coscienza, il medico deve per-
M3_03_Testamento
8
16-12-2005
8:22
Pagina 8
SALVATORE PATTI
seguire nella terapia di sostegno vitale finché ritenuta ragionevolmente utile” (art. 37). Quest’ultima norma stabilisce inoltre che “il sostegno vitale dovrà essere mantenuto sino a quando non sia accertata la perdita irreversibile di tutte le funzioni
dell’encefalo”.
Conviene altresì ricordare che nell’ordinamento italiano il
principio giuridico sul quale, attualmente, è basato l’accertamento della morte è quello secondo cui la perdita irreversibile
e completa della funzionalità dell’encefalo equivale alla morte
dell’intero organismo (legge 29 dicembre 1993, n. 578, “Norme
per l’accertamento e la certificazione di morte”).
L’eutanasia
Per quanto concerne il problema dell’eutanasia, l’opinione del
Consiglio Nazionale per la Bioetica è stata di segno contrario
rispetto a un intervento del legislatore. Infatti, pur prendendo
atto della drammatica situazione di molti malati terminali, è
stata ritenuta necessaria una valutazione del singolo caso e
sono state considerate pertanto poco opportune norme di carattere generale e astratto finalizzate alla legalizzazione di atti
eutanasici.
Si osserva comunque che nel linguaggio comune vengono
accomunate sotto la denominazione di eutanasia delle fattispecie diverse e si precisa quindi che con tale termine deve intendersi “l’uccisione diretta e volontaria di un paziente terminale in condizioni di grave sofferenza e su sua richiesta”.
Ciò premesso, le valutazioni del CNB possono così riassumersi: viene considerato lecito – e degno di essere osservato
da parte del medico – il rifiuto del paziente di sottoporsi a una
terapia, purché tale manifestazione di volontà sia libera, attuale e consapevole. Inoltre si considera doverosa la sospensione da parte del medico di ogni “accanimento terapeutico”.
Al contrario si considera illecita ogni forma di eutanasia operata su un paziente non consenziente come pure di eutanasia
eugenetica o su neonati malformati.
M3_03_Testamento
16-12-2005
8:22
Pagina 9
L’AUTONOMIA DECISIONALE DELLA PERSONA ALLA FINE DELLA VITA
9
L’atteggiamento contrario a un intervento del legislatore
viene motivato sulla base dell’impossibilità di disciplinare in
modo adeguato le singole situazioni che presentano caratteri
irripetibili. Ci si interroga in particolare sulla rilevanza giuridica che dovrebbe avere il mandato conferito dal paziente al
medico. Se si dovesse stabilire che esso non è sindacabile da
parte del medico, questi sarebbe tenuto a eseguirlo anche
quando, secondo la sua coscienza, non ritiene sussistenti tutte
le circostanze di fatto che il paziente indica – o aveva indicato
– come giustificanti l’eutanasia.
In questo caso l’intervento eutanasico si porrebbe in contrasto non soltanto con la deontologia medica ma anche con il
convincimento del singolo medico. Viceversa, se si dovesse ritenere il mandato sindacabile, il paziente non sarebbe sicuro
che il proprio atto di volontà venga rispettato dal medico. Per
altri versi il medico avrebbe un potere di vita e di morte sul
paziente, e si ritiene che, se questo potere venisse previsto
dalla legge, si altererebbe l’identità e la funzione della professione medica.
Altre preoccupazioni riguardano, infine, il probabile indebolimento della coscienza sociale del valore della vita, la possibilità di tragici abusi e la maggiore possibilità di tendere verso forme di eutanasia non volontaria.
Un’indicazione equilibrata si riscontra nell’art. 36 del Codice di deontologia medica, secondo cui: “in caso di malattie a
prognosi sicuramente infausta e pervenute alla fase terminale,
il medico può limitare la sua opera, se tale è la specifica volontà del paziente, all’assistenza morale e alla terapia atta a risparmiare inutile sofferenza, fornendogli i trattamenti appropriati e conservando per quanto possibile la qualità della vita”.
La sperimentazione
Anche in tema di sperimentazione sull’uomo manca in Italia
una normativa specifica. Da ciò deriva incertezza circa i requisiti e i limiti di liceità della sperimentazione che – pure nel
M3_03_Testamento
10
16-12-2005
8:22
Pagina 10
SALVATORE PATTI
caso di una persona in fin di vita – non deve scontrarsi, in primo luogo, con l’ordine pubblico, il buon costume e con il divieto specifico di atti di disposizione del proprio corpo che
comportino una diminuzione permanente dell’integrità fisica
(art. 5 c.c.).
Sia con riferimento alla sperimentazione puramente scientifica sia con riferimento a quella terapeutica è considerato inderogabile il principio del consenso consapevole della persona. Infatti, anche se il fondamento di liceità della sperimentazione umana viene ravvisato nella solidarietà sociale, si ritiene prevalente l’interesse della tutela della persona e risulta
quindi necessario un suo atto di volontà.
Soltanto nel caso di malati incurabili, cioè quando il trattamento sperimentale appare l’unico possibile tentativo per
sottrarli alla morte, si richiama il principio dello stato di necessità e si prescinde dal consenso della persona, non tuttavia dal suo eventuale rifiuto. Conseguentemente, la sperimentazione si considera lecita, ricorrendo le suddette circostanze, quando il soggetto non è in grado di prestare il suo consenso perché in stato di incoscienza o perché interdetto o comunque incapace di intendere e di volere. Condizione dell’intervento è che il trattamento venga intrapreso per il bene del
paziente, poiché altrimenti – in mancanza del consenso – la
considerazione del progresso della scienza e della tutela della salute collettiva deve cedere di fronte al rispetto dell’integrità fisica della persona.
La necessità del consenso “informato” e consapevole rappresenta pertanto la regola generale nell’ordinamento italiano. Vengono rifiutate le teorie secondo le quali il consenso alla sperimentazione, soprattutto nel caso di malattie gravi, sarebbe compreso nel generico consenso con cui il paziente si
affida alle cure del medico.
L’attività di sperimentazione si distingue infatti da quella
terapeutica per l’incertezza del risultato e per il maggiore rischio ad essa collegato. Vengono altresì respinte le tesi che
ammettono la sperimentazione su persone gravemente malate, in assenza di consenso, quando l’informazione in base alle
M3_03_Testamento
16-12-2005
8:22
Pagina 11
L’AUTONOMIA DECISIONALE DELLA PERSONA ALLA FINE DELLA VITA
11
circostanze si reputi contraria agli interessi del paziente che
non è a conoscenza della natura e della gravità della malattia.
Si respinge infine la configurabilità di un consenso presunto nel caso di malati non in grado di essere interpellati. Nel
consenso presunto viene infatti ravvisata una finzione destinata a coprire la mancanza di una dichiarazione di volontà,
che può essere superata soltanto nei casi in cui ricorre uno
stato di necessità (art. 2045 c.c.).
La normativa sui trapianti
La materia dei trapianti è stata da ultimo disciplinata in Italia
con la legge 1 aprile 1999, n. 91. L’art. 4 n. 1 di questa legge
stabilisce che “i cittadini sono tenuti a dichiarare la propria
libera volontà in ordine alla donazione di organi e di tessuti
del proprio corpo successivamente alla morte”. Lo stesso articolo stabilisce inoltre che i cittadini devono essere informati sul fatto che “la mancata dichiarazione di volontà è considerata quale assenso alla donazione”. L’art. 4 n. 3 prevede che
“per i minori di età la dichiarazione di volontà in ordine alla
donazione è manifestata dai genitori esercenti la potestà”. Se
i genitori non sono d’accordo, la donazione non è possibile. I
soggetti incapaci di agire non possono donare neanche mediante dichiarazione di volontà dei soggetti incaricati della
loro tutela.
Il prelievo non è tuttavia consentito se, “entro il termine
corrispondente per l’osservazione ai fini dell’accertamento
della morte, sia presentata una dichiarazione autografa di
volontà contraria al prelievo del soggetto di cui sia accertata la morte” (art. 4 n. 5). Pertanto la persona, purché in grado di scrivere, può modificare la propria volontà in ordine
alla donazione dei suoi organi, fino agli ultimi momenti della vita.
Riassumendo, il prelievo di organi e di tessuti, successivamente alla dichiarazione di morte della persona, è consentito
in due ipotesi:
M3_03_Testamento
12
16-12-2005
8:22
Pagina 12
SALVATORE PATTI
a) nel caso in cui dai dati inseriti in un apposito sistema informativo ovvero dai dati registrati sui documenti sanitari
personali risulti che il soggetto abbia espresso una dichiarazione di volontà favorevole al prelievo (successivamente
non revocata);
b) nel caso in cui dai dati risulti che il soggetto sia stato informato e non abbia espresso alcuna volontà, salvo che venga
presentata una dichiarazione autografa di volontà, del soggetto di cui sia accertata la morte, contraria al prelievo.
Nel secondo caso si configura pertanto il cosiddetto silenzioassenso, da alcuni criticato poiché un istituto nato per sopperire all’inerzia della pubblica amministrazione è stato in tal
modo utilizzato in una materia che riguarda interessi essenziali della persona umana. Nella scelta compiuta dal legislatore viene visto il trionfo di una concezione pubblicistica che
considera il corpo umano, dopo la morte, come un bene disponibile per la comunità e pertanto non considera indispensabile un’espressione esplicita della volontà del singolo.
Un nuovo istituto in tema di limitata capacità
della persona
L’autonomia del paziente non può manifestarsi nel caso in cui
la persona sia stata dichiarata incapace di agire. L’ordinamento italiano per oltre mezzo secolo ha previsto due istituti – l’interdizione e l’inabilitazione – che sia pure in modo più o meno
grave pongono la persona in una situazione di incapacità.
L’esperienza ha dimostrato che i suddetti istituti, destinati
a tutelare la persona rispetto al compimento di atti negoziali
di rilevanza patrimoniale contrari ai suoi interessi, finiscono
per porla in una situazione di incapacità. Tale situazione di incapacità esclude o limita gravemente l’autonomia del paziente
nella fase finale della vita.
La consapevolezza che i suddetti istituti, ideati per proteggere la persona, hanno finito molto spesso per privarla di ogni
M3_03_Testamento
16-12-2005
8:22
Pagina 13
L’AUTONOMIA DECISIONALE DELLA PERSONA ALLA FINE DELLA VITA
13
autonomia decisionale, in alcuni casi a seguito dell’iniziativa
di parenti interessati soprattutto alla sorte del patrimonio, ha
spinto all’approvazione di una legge che ha introdotto nel codice civile un terzo istituto, quello della “amministrazione di
sostegno” che mira a tutelare persone impossibilitate a provvedere alla cura dei propri interessi con la minore limitazione
possibile della loro capacità. Con l’introduzione della nuova
figura, il sistema previsto dal codice civile del 1942 risulta più
flessibile e consente di “graduare” l’intensità della misura del
sostegno in base alle esigenze del caso concreto. La persona
che gode dell’assistenza dell’amministratore di sostegno per
la gestione del patrimonio conserva tuttavia autonomia decisionale negli altri ambiti e pertanto si trova nella stessa posizione di ogni altro soggetto per le decisioni che riguardano la
fase finale della sua vita.
Conclusioni
In conclusione, nella tematica in esame si riscontra in Italia
un vuoto legislativo, che solo in parte può essere colmato con
il ricorso ad alcune norme dettate con riferimento a singole
fattispecie oppure ai principi generali.
Si avverte tuttavia un’accresciuta sensibilità nei confronti
dell’autonomia del paziente e nella prassi si perviene spesso a
forme di collaborazione decisionale tra paziente terminale e
medico, nell’ottica di una specie di alleanza terapeutica. Il medico diviene pertanto, in molto casi, una sorta di tutore o di
avvocato del paziente, finendo per svolgere nel modo migliore
la funzione che alcuni vorrebbero attribuire a un terzo, che
dovrebbe essere chiamato a provvedere alla realizzazione delle direttive anticipate del paziente.
Un ruolo importante, nell’esperienza italiana, è inoltre
svolto dai parenti che spesso rimangono il più possibile al
capezzale dei malati terminali preoccupandosi di condividere con il medico il peso di difficili decisioni nell’interesse del
loro caro.
M3_03_Testamento
16-12-2005
8:22
Pagina 14
M3_04_Testamento
16-12-2005
8:23
Pagina 15
La scelta
del testamento biologico
di Pietro Rescigno*
Di origine non legislativa ma conosciuto nell’esperienza di
molti Paesi è il cosiddetto testamento di vita.
“Testamento biologico” e living will sono formule che accostano un vocabolo tecnico-giuridico a una parola che evoca
la vicenda umana intesa nella sua “fisicità”.
Il termine “testamento” appartiene al generale patrimonio
linguistico; e deve aggiungersi che in esso supera i confini della
definizione normativa (che lo descrive come l’atto revocabile
“con il quale taluno dispone, per il tempo in cui avrà cessato di
vivere, di tutte le proprie sostanze o di parte di esse”). Basti pensare al cosiddetto “testamento spirituale”, che si esaurisce in apprezzamenti, giudizi, moniti, consigli, quasi in un esame della vita trascorsa per trarne motivi di compiacimento o di delusione.
È appena necessario aggiungere che dichiarazioni del genere non hanno nulla da spartire con le disposizioni di carattere non patrimoniale che la legge consente siano contenute
in un testamento, destinate a essere efficaci, anche se mancano disposizioni di carattere patrimoniale. Comune a tali disposizioni e a quelle patrimoniali è la creazione di vincoli e di
aspettative tutelate, in breve di rapporti in virtù dei quali un
soggetto può pretendere e un altro soggetto è tenuto a un
comportamento conforme alla volontà del disponente.
*
Ordinario di Diritto Civile all’Università La Sapienza, Roma.
M3_04_Testamento
16
16-12-2005
8:23
Pagina 16
PIETRO RESCIGNO
Le menzione di “categorie” e concetti giuridici, a proposito
del testamento biologico, è giustificata dalla domanda circa la
possibilità e la legittimità di accogliere nel “sistema” delle “disposizioni testamentari” una nozione resa attuale dall’esercizio di autodeterminazione che si compie con l’impartire “direttive” circa il trattamento da ricevere nel caso di malattia o
di un altro fatto che conduca a uno stadio “terminale” dell’esistenza. Pur se si tratta di un segno esteriore, non è da trascurare la presenza del tema nelle trattazioni recenti del diritto
successorio dell’esperienza statunitense: l’inquadramento è
nel capitolo “Will Substitutes: Nonprobate Transfers” e le
“Health Care Directives” seguono la sezione sul “Durable
Power of Attorney”; le “istruzioni” circa la cura della salute,
viste nel contesto della legislazione federale e di quella dei singoli Stati, e altresì in “codici” di categoria come nel caso dell’American Medical Association, trascendono la prospettiva
della morte come imminente e oggetto di specifica “rappresentazione” del soggetto, e tuttavia in larga misura si risolvono e coincidono col problema del living will.
Del testamento biologico il tratto caratteristico è dato dall’incidenza, sul piano degli effetti, su una fase temporale che
appartiene ancora alla vita del soggetto. Le “disposizioni” riguardano la fine della vita, intesa come “processo” oltre e più
che come “evento” (istantaneo), e più precisamente di quella
fase riguardano la durata, e dunque la protrazione o l’eventuale accelerazione.
Il termine “testamento” sembra appropriato, al di là dell’obiezione dell’essere riferite le disposizioni al tempo della vita,
e non già a quello in cui il soggetto avrà cessato di vivere, se in
esso si ravvisa il carattere di discorso – di un “monologo”, per
usare un termine letterario – destinato a essere in concreto ricevuto ed eseguito (ancorché “indirizzato” ai destinatari in
epoca remota, al di fuori di ogni conoscenza e specificazione)
quando non vi è più alcuna possibilità di controllarne l’esecuzione da parte dell’autore.
Nel sistema del diritto successorio è contemplata la figura
dell’esecutore testamentario, investito dell’incarico di curare
M3_04_Testamento
16-12-2005
8:23
Pagina 17
LA SCELTA DEL TESTAMENTO BIOLOGICO
17
che siano esattamente eseguite le disposizioni di ultima volontà del defunto; per singoli affari lo strumento del mandato
post mortem può garantire un’efficacia proiettata al di là della vita del soggetto; il testamento biologico deve affidarsi, come l’esperienza legislativa e pratica dimostra, in termini di sicura opportunità e forse di insuperabile necessità, alla relazione fiduciaria con soggetti che “eseguano” o siano in grado
di vigilare sulla “esecuzione” delle direttive. L’appartenenza
alla cerchia familiare dell’autore del living will, il sodalizio
nato dall’amicizia o dalla condivisione di ideali interessi, l’instaurazione del rapporto professionale di assistenza e trattamento col medico o l’infermiere rendono agevole la scelta
dell’interessato e semplificano la ricerca e l’individuazione di
chi debba in definitiva decidere – l’anonima struttura e gli uomini che per essa operano –, delle persone da consultare e
ascoltare.
Alla sopravvivenza “assistita” – poiché sulla durata di essa
incide il testamento biologico – si connettono principalmente
due temi, quello dei trapianti, poiché il consenso all’espianto
di organi può essere materia di un living will, e soprattutto la
“presa di posizione” del soggetto, nel prefigurarsi una situazione irreversibile senza possibilità di recupero, circa il ricorso e i limiti di uso delle “tecniche” di sostegno della vita, ma di
mantenimento in una vita intesa nel senso puramente “materiale” della parola.
Dalla legge californiana sulla “morte naturale” (che è un
capitolo, 3.9, aggiunto alla parte 1 della Division 7 dell’Health
and Safety Code), poiché il Natural Death Act di quella esperienza rimane uno dei testi collaudati dal tempo (risale al
1976) ed è scritto con buona tecnica e apprezzabile equilibrio,
possono trarsi accettabili e utili definizioni della terminal
condition e della life-sustaining procedure.
Che il “testamento biologico” possa ammettersi, ed essere
considerato valido, nel nostro ordinamento è domanda che
può ricevere una positiva risposta già sotto il profilo della liceità degli atti di disposizione del corpo e dell’integrità personale che rispettino i limiti di legge (nel senso che non ne deri-
M3_04_Testamento
18
16-12-2005
8:23
Pagina 18
PIETRO RESCIGNO
vi una diminuzione permanente dell’integrità e non si abbia lesione dell’ordine pubblico e del buon costume), e altresì la tutela della privacy e del potere di autodeterminazione in una
materia che tocca profondamente la libertà e il destino della
persona.
Se non può parlarsi di un diritto alla morte, è da condividere l’idea che abbia fondamento e possa ricevere tutela l’aspettativa individuale a morire “con dignità”, come si esprimono i
living will nei formulari proposti ai soggetti interessati a impartire le “direttive”. E qui si prescinde dagli aspetti socio-economici, legati in primo luogo alla limitatezza delle risorse e alla necessità di criteri di scelta nell’allocazione delle stesse, e
dal profilo dell’etica professionale chiamata a risolvere l’eventuale contrasto tra il rispetto delle opzioni individuali e i doveri giuridici a prima vista insuscettibili di dispensa. Il punto da
sottolineare è che si tratta della sospensione di misure “eroiche” di sostegno, mentre è ancora fermo nella nostra cultura
il divieto dell’eutanasia attiva.
Quanto ai requisiti del living will il discorso deve confermare – circa il formalismo, la revocabilità, la rinnovazione che
ne garantisce la definitività, la capacità e le condizioni di libertà necessarie – quanto venne chiarito alla luce di esperienze fallite (come il progetto della English Society, poi Euthanasia Society, esaminato dalla Camera dei Lord nel 1936 e il progetto Raglan del 1969, sempre nell’ambiente britannico).
I motivi del rifiuto erano suggeriti in prevalenza da preoccupazioni d’indole morale o religiosa – condensate nel wedge
principle che respinge, anche nella limitata dimensione del
singolo caso, ciò che offenderebbe il comune sentimento se
divenisse pratica diffusa –, in breve dal timore di privare il medico di poteri di decisione e il malato della libertà di ripensamenti. Di particolare interesse sono le motivazioni inserite nei
“modelli” di leggi o progetti: corrispondono ai living will della prassi, che si moltiplicano dove la legge ignora il fenomeno,
testamenti spesso affidati a medici che condividano la filosofia di vita dell’autore. Nella schedule del progetto inglese del
1936, esprimendosi fiducia nei parenti e nei sanitari, e ammo-
M3_04_Testamento
16-12-2005
8:23
Pagina 19
LA SCELTA DEL TESTAMENTO BIOLOGICO
19
nendo ad avvalersi della motivazione specialmente nei casi di
incertezza, l’autore dichiara: “ho paura della degradazione e
dell’indegnità più di quanto tema la morte prematura”.
È questo sentimento della dignità della morte che domina i
living will dell’esperienza americana: “se non vi è ragionevole
aspettativa di un mio recupero della infermità fisica o mentale, io chiedo di morire o di non essere lasciato in vita con mezzi artificiali o misure eroiche. La morte è una realtà al pari della nascita, dello sviluppo, della maturità e della vecchiaia, è
anzi una certezza. Non temo la morte quanto piuttosto non tema l’indegnità della degradazione, della dipendenza e del dolore senza speranza. Chiedo che per pietà mi siano somministrate droghe contro la sofferenza allo stato terminale, persino ove possano affrettare il momento della morte”.
Senza la preoccupazione di conferire all’atto formale una
motivazione di particolare solennità, il Natural Death Act californiano è estremamente dettagliato nel fissare limiti e finalità della legge. L’ambito dei fenomeni considerati, e dei comportamenti permessi, è esplicitamente ristretto all’uso, al
mantenimento e alla sospensione di ogni life sustaining procedure, e cioè di interventi che utilizzano mezzi meccanici o
altri mezzi artificiali per sostenere, ripristinare o surrogare
una funzione vitale, artificialmente prolungando il momento
della morte “imminente”. Così attribuito alla legge il compito
di assecondare il naturale processo della morte, risultano
esclusi dal campo di applicazione non solo l’uccidere per
pietà, ma altresì la somministrazione di medicamenti e ogni
altra attività diretta ad alleviare la sofferenza.
Si è detto del tono non retorico che, nella formula di quella
legge, assume la volontà da affidare alla “direttiva”. Le motivazioni della legge, in compenso, sono cariche di “valori” che la
normativa intende realizzare: il diritto individuale di controllare le decisioni che attengono al trattamento sanitario, sino
all’ipotesi estrema della life sustaining procedure allo stadio
terminale; la protezione dell’autonomia individuale contro il
rischio che sia perduta la dignità del paziente e, senza necessità medica e pratico beneficio, siano accresciute inutile sof-
M3_04_Testamento
20
16-12-2005
8:23
Pagina 20
PIETRO RESCIGNO
ferenze; il riconoscimento del decoro della privacy dei pazienti alla base del carattere vincolante che la direttiva riveste, per
i medici e lo Stato come ultimo destinatario.
La Carte, le Raccomandazioni, i Bills dei diritti e doveri dei
malati riconducono agli stessi valori quando si muovono attorno all’esigenza di informare e di fornire cure appropriate
nel rispetto della volontà e dignità, e soprattutto quando dichiarano materia di un diritto il non soffrire inutilmente.
La scelta fondamentale di politica del diritto, da operare
nella materia, riguarda la rimessione all’autonomia del singolo, sia pure attraverso meccanismi che garantiscano la libertà
e serietà del volere manifestato in condizioni di piena capacità (legale e naturale), o invece, pur senza trascurare il carattere individuale della decisione, l’inserimento dell’atto privato
in una sequenza “procedimentale” fortemente connotata dal
controllo “amministrativo”. Nell’una e nell’altra prospettiva –
e la prima, tutta “privatistica”, trova nei principi di autodeterminazione e di tutela della privacy la più appagante giustificazione – si inserisce l’ulteriore problema della rilevanza della
volontà manifestata dai soggetti legati all’autore delle “direttive” da vincoli giuridicamente rilevanti (in primo luogo, se non
esclusivamente, quelli familiari), una volontà che potrebbe discostarsi dalle “direttive” anche con l’invocare comportamenti dell’autore che con le disposizioni non appaiano coerenti.
Quest’ultimo aspetto prevale e diviene dominante quando
le decisioni circa la personale salute e le cure da intraprendere (o da continuare o da interrompere) siano, per volontà dello stesso interessato, rimesse a un terzo col meccanismo del
mandato, o sia la legge a investire, in mancanza di un fiduciario scelto dalla persona (maggiore di età o emancipata), o nell’impossibilità di utilizzarlo, determinati soggetti appartenenti
alla cerchia familiare.
L’efficacia del conferimento (che è un atto formale) del
power of attorney, circa le decisioni da assumere in ordine alla salute, non viene meno per la sopravvenuta incapacità del
soggetto, e anzi in vista di questa situazione l’attribuzione del
potere acquista particolare significato; l’agent, se non si tratta
M3_04_Testamento
16-12-2005
8:23
Pagina 21
LA SCELTA DEL TESTAMENTO BIOLOGICO
21
di persona legata da vincoli di sangue o da matrimonio o da
adozione, non può essere persona legata all’istituzione (con
carattere di residential long term) che esegue il trattamento;
l’agent deve assumere decisioni conformi alle istruzioni (se ve
ne sono) del principal, o ai desideri conosciuti; altrimenti il
criterio di decisione è quello del migliore interesse del disponente e, nel determinarlo, debbono rispettarsi i “valori” personali del soggetto.
Conviene qui far cenno di due orientamenti che vennero
manifestati con riguardo all’eventuale disciplina delle direttive anticipate: opinioni che in larga misura svuotano il senso e
la portata della novità che si vorrebbe accogliere nel mondo
del diritto.
La prima proposta di correzione, che modificherebbe radicalmente l’impostazione del tema, ha a che fare con la capacità del disponente. Un disegno ragionevole deve prevedere
che sia sufficiente, per esprimere direttive anticipate vincolanti per i destinatari, la capacità naturale: capacità che non
ricorre, generalmente, nel soggetto legalmente incapace di
agire e che potrebbe tuttavia, in linea di principio, conseguirsi
anche anticipatamente rispetto alla maggiore età; la capacità
naturale, per altro verso, restringe il campo dei soggetti maggiorenni, perché in concreto, in un certo momento, essi potrebbero non essere in condizione di esprimere liberamente e
validamente la loro volontà. L’obiezione, in proposito, è che la
perdita della capacità naturale porrebbe un problema di persistenza della volontà, che è alla base della direttiva anticipata.
In definitiva, si condivide l’attenzione per la capacità di discernimento della persona, per la capacità di fatto di intendere e
volere, ma si vorrebbe privare di effetti la direttiva anticipata
in seguito al suo successivo venir meno, perché la perdita di
tale naturale capacità precluderebbe al soggetto di cambiare
idea e di ritornare sulle sue determinazioni. Ma l’obiezione dovrebbe valere anche per le disposizioni patrimoniali del soggetto, mentre è noto che della persona che redige un testamento e successivamente perde la capacità, e la stessa capacità legale, il testamento resta efficace: la legge considera vali-
M3_04_Testamento
22
16-12-2005
8:23
Pagina 22
PIETRO RESCIGNO
da la manifestazione di volontà ultima nel tempo, se non è
contraddetta da manifestazioni successive. L’obiezione sulla
perdita eventuale della capacità naturale, ove accolta, finirebbe con l’incidere negativamente sulla libertà del soggetto: il
fatto che la persona non abbia più la possibilità di revocare
l’atto non è un motivo per disconoscerle a posteriori la libertà
che, compiendo l’atto, ha esercitato.
L’altra critica riguarda la possibilità, quando sopravvenga
la naturale incapacità del soggetto, di affidare la decisione a
un terzo, a un fiduciario, secondo l’idea praticata in altri ordinamenti. In essi ritroviamo figure, che si prestano a essere
usate sia con riguardo a rapporti patrimoniali, sia per decisioni che attengono al trattamento medico e alla vita della persona. Così in Germania si è creata di recente la Betreuvng,
che non sopprime ma in larga misura sostituisce il vecchio
istituto dell’interdizione: il soggetto incaricato può esercitare
la sua funzione sostituendosi sia nella gestione del patrimonio, sia nelle decisioni di natura personale, comprese quelle
che toccano il trattamento da ricevere nella malattia o nella
condizione terminale che qui interessa. La soluzione del fiduciario appare la più coerente col sistema che contempla, e
quindi valuta positivamente, figure come la rappresentanza e
il mandato.
Il potere di determinarsi riconosciuto al soggetto di diritto
consiste in generale sia nel compire gli atti e nello svolgere
l’attività che lo riguarda, sia nella possibilità di delegarne lo
svolgimento, con effetti vincolanti, ad altri, per singoli rapporti o per aree di decisioni e interessi; all’autonomia di ciascuno
appartiene persino di attribuire il potere di sostituzione per la
totalità dei rapporti, con esclusione dei diritti e dei rapporti di
natura strettamente personale che non appartengono alla materia di cui ci occupiamo. Non solo dunque la figura del fiduciario non è incoerente col sistema, ma corrisponde più di
ogni altra al principio di libera autodeterminazione, che si risolve nella possibilità di delegare la decisione in un momento
in cui il soggetto non sarà in grado di decidere personalmente.
Il potere di rappresentanza conferito attraverso una procura
M3_04_Testamento
16-12-2005
8:23
Pagina 23
LA SCELTA DEL TESTAMENTO BIOLOGICO
23
non si perde per il fatto che l’interessato sia divenuto incapace, anzi il sistema lo considera allora e a maggior ragione giustificato.
Proporre di trasferire alla famiglia i poteri del fiduciario significa innanzi tutto contrastare una volontà che ha preferito
il terzo; senza contare che la famiglia non è un unitario soggetto collettivo, ma dal diritto positivo è opportunamente considerata per quello che è: una pluralità di persone che ben potrebbero esprimere orientamenti e pareri difformi. Se pensiamo alle convivenze di fatto e a quelle comunità di vita che si
realizzano oggi attraverso processi di sovrapposizione o integrazione tra gruppi familiari diversi in seguito alla morte, alla
separazione, al divorzio, ancor più chiaramente ci rendiamo
conto della mancanza, tecnicamente, di organi di formazione
di una volontà comune imputabile alla famiglia come tale. Investire la famiglia delle decisioni in questa materia presenterebbe dunque, innanzitutto, il rischio di contrasti tra posizioni
differenti, e aggraverebbe il timore che le decisioni nascondano valutazioni di comodo e interessi personali, come accadeva nell’ultimo film di Sidney Lumet, dove le due sorelle che assistono il padre morente sono l’una portatrice del valore della
dignità della morte e l’altra della sacralità della vita, ma in
realtà ragionano alla stregua di interessi patrimoniali che sarebbero secondo la valutazione dell’una favoriti e per l’altra
pregiudicati dalla morte del padre.
M3_04_Testamento
16-12-2005
8:23
Pagina 24
M3_05_Testamento
16-12-2005
8:24
Pagina 25
Il principio di autodeterminazione
e le direttive anticipate
sulle cure mediche
di Guido Alpa*
Premessa
Il dibattito sulla rilevanza giuridica ed etica di “direttive anticipate” che l’interessato voglia esprimere sulle cure mediche
a cui potrà essere sottoposto nel futuro, specialmente nel caso in cui il trattamento debba essere effettuato sul paziente
che versi in stato di incapacità legale o naturale, si è riaperto
nel nostro Paese in un momento particolarmente complesso
dal punto di vista politico, culturale e sociale. Era appena terminata la vivace polemica sul referendum abrogativo della
legge n. 40 del 2004 concernente la procreazione medicalmente assistita1 che – registratosi il risultato negativo della consultazione – sono emersi ulteriori terreni di conflitto. Si è proposto di riesaminare la disciplina dell’aborto, di introdurre regole sull’adozione degli embrioni, di mantenere fermo il divieto di prescrizione di farmaci anticoncezionali, con una determinazione coerente nel riportare indietro negli anni le frontiere della laicità dello Stato e dei diritti civili, ormai attestate su
posizioni ragionevoli e condivise. Si è ritornati su argomenti
*
Ordinario di Diritto Privato all’Università La Sapienza, Roma.
Oggetto del volume intitolato La fecondazione assistita, edito a Milano
(2005) dalla Fondazione Veronesi e dalla Fondazione Corriere della Sera,
con prefazione di Veronesi, introduzione di de Tilla e interventi di Rescigno, Quadri, Celotto, Balestra, Ferrando, Patti, Alpa, Bellelli.
1
M3_05_Testamento
26
16-12-2005
8:24
Pagina 26
GUIDO ALPA
che sembravano ormai destinati all’oblio perché ritenuti definitivamente risolti. Si è postulata l’assolutezza dei diritti fondamentali, predicandone l’origine divina, si è condannata la
relatività etica, si è contrastata ogni iniziativa volta a riconoscere all’individuo la libertà di scelta nelle vicende biologiche
che riguardano la sua stessa persona. Si è acuito, in altri termini, il divario tra posizioni scientifiche e posizioni bioetiche:
la scienza prosegue il suo cammino verso nuove scoperte (sull’uso delle cellule staminali, sull’uso degli embrioni, sul ritardo dell’invecchiamento) e la bioetica ha imboccato il senso
opposto, tornando ad arroccarsi su presupposti fondamentalisti che ben poco spazio lasciano alla ricerca, alla libertà personale, alla vita e alla morte dignitose.
È certo semplificante parlare di scienza e bioetica in conflitto tra loro: perché gli indirizzi scientifici sono variegati e le
interpretazioni della bioetica non sono univoche; tuttavia, se
guardiamo alla situazione italiana – anche da questo punto di
vista anomala rispetto agli altri Paesi dell’Unione europea – la
contrapposizione sembra il paradigma più appropriato per descrivere la realtà delle cose in questa fase storica. Oggi, la
scienza, cioè la medicina, la biologia, la filosofia, sono prevalentemente favorevoli a una tutela della persona che non si
spinga a considerare la vita come sinonimo di concepimento e
la morte come sinonimo di esaurimento di tutte le possibilità
di alimentazione artificiale. Al contrario, oggi la bioetica è prevalentemente orientata a identificare l’embrione con la persona, e a considerare ogni iniziativa volta ad abbreviare la terapia del dolore, a evitare l’accanimento terapeutico, a dismettere i trattamenti di sopravvivenza artificiale come altrettante
forme di eutanasia, e pertanto da bandire in modo inesorabile.
Con un’intelligente e realistica analisi dei problemi della
vita e della morte, e con la delicatezza che solo il medico e lo
scienziato possono impiegare senza urtare le coscienze e le
posizioni preconcette, Umberto Veronesi ha trattato il tema
della fine della vita nel suo libro più recente, che ha suscitato
apprezzamenti e polemiche prima ancora di essere disponibile in libreria. Segno, questo, dell’attenzione con cui il pubblico
M3_05_Testamento
16-12-2005
8:24
Pagina 27
IL PRINCIPIO DI AUTODETERMINAZIONE E LE DIRETTIVE ANTICIPATE
27
segue i problemi della bioetica e partecipa, spesso con passione ma anche con pregiudizi inveterati, a una discussione che
dovrebbe essere affidata, per converso, alla ragione e quindi
alla distinzione tra etica religiosa ed etica laica2.
L’ambito dell’indagine di queste problematiche è molto vasto, mentre in queste pagine l’argomento è circoscritto alle
“direttive anticipate sui trattamenti sanitari”. Un problema
che più spesso, ormai per convenzione linguistica, si esprime
in termini di legittimità ed efficacia del “testamento biologico”, e che si ricollega all’accanimento terapeutico; talvolta,
ma a effetto, esso è associato alla tematica dell’eutanasia passiva, per inferirne una condanna morale e una valutazione di
illegittimità.
In termini di filosofia giuridica e di diritto positivo si può
anche descrivere ricorrendo a un’altra formula: il principio di
autodeterminazione (che fa pendant con il principio responsabilità teorizzato da Hans Jonas) in base al quale solo il soggetto (cioè la persona o l’interessato) ha diritto di decidere la
sorte del proprio corpo, della propria vita, delle terapie che
può accettare o rifiutare al fine di alleviare il dolore e di protrarre il corso della vita. Non voglio estendere la materia all’autodeterminazione nella scelta del momento di finire la vita, perché si dovrebbe allora coinvolgere le questioni del suicidio, dell’eutanasia nelle sue diverse forme, e così via. È sufficiente ripercorrere la dottrina, la giurisprudenza e la legislazione speciale attuative dell’art. 32 Cost., concernente il diritto alla salute, e poi la dottrina e la giurisprudenza sull’art. 5
c.c. concernente gli atti di disposizione del proprio corpo, e
ancora l’illustrazione delle regole che, di rango costituzionale
e ora anche europeo, costruiscono la persona come il titolare
di ogni diritto che la riguarda, per assegnare soluzione a tutte
2
Da ultimo v. gli interventi di Viola, Spagnolo, Bompiani, Mori, Palmaro,
in Testamento di vita. Presentazione, sul sito www.portaledibioetica.it;
ma v. il “Manifesto di bioetica laica”, a cura di Flamini, Massarenti, Mori,
Petroni, Il Sole 24 ORE, 9.6.1996; Rodotà (a cura di), Questioni di bioetica, Roma-Bari, 1997.
M3_05_Testamento
28
16-12-2005
8:24
Pagina 28
GUIDO ALPA
le questioni aperte ricorrendo al principio di autodeterminazione. Tuttavia, gli orientamenti oggi sono divisi e quindi occorre riprendere per alcuni capi il filo del dibattito.
A soli fini espositivi si possono individuare tre fasi del dibattito.
La prima fase del dibattito. Accanimento terapeutico
e diritti dei malati e dei morenti
Il 29.1.1976, dopo la discussione del rapporto preparato dalla
Commissione per i problemi sociali e sanitari, l’Assemblea del
Consiglio d’Europa adotta la Raccomandazione relativa ai
diritti dei malati e dei morenti3. Già allora si avvertiva la necessità di intervenire, con un testo che raccogliesse principi
generali condivisi da tutti i Paesi europei, sugli avanzamenti
della medicina, al fine di evitare che i suoi “progressi rapidi e
costanti” potessero creare problemi e celare minacce “per i
diritti fondamentali dell’uomo e per l’integrità dei malati”. Le
premesse della Raccomandazione sono molto ragionevoli,
meditate e moderate: prendono atto che la medicina, assumendo un carattere sempre più “tecnico”, corre il rischio di
perdere il suo volto “umano”; che i medici debbono rispettare
“la volontà dell’interessato circa il trattamento da applicare”;
che a tutti i malati deve essere riconosciuto e garantito il diritto alla dignità e alla integrità, il diritto alla informazione e alle
cure appropriate; che la professione medica, essendo al servizio dell’uomo, deve essere rivolta alla protezione della salute,
al trattamento di malattie e ferite, all’alleviamento delle sofferenze, “nel rispetto della vita umana e della persona umana”;
che “il prolungamento della vita non debba essere in sé lo scopo esclusivo della pratica medica”; che il medico “non ha il diritto, neppure nei casi che sembrano disperati, di affrettare intenzionalmente il processo naturale della morte”; che “il pro-
3
V. il testo in www.portaledibioetica.it.
M3_05_Testamento
16-12-2005
8:24
Pagina 29
IL PRINCIPIO DI AUTODETERMINAZIONE E LE DIRETTIVE ANTICIPATE
29
lungamento con mezzi artificiali dipende da fattori quali l’attrezzatura disponibile”; che i medici possono trovarsi in situazioni difficili quando la vita possa essere prolungata per molto
tempo anche in caso di irreversibilità della cessazione di tutte
le funzioni cerebrali; che i medici non debbono essere costretti ad agire contro la propria coscienza in correlazione con il
diritto del malato di non soffrire inutilmente.
Le premesse avrebbero potuto portare all’enunciazione di
raccomandazioni precise in ordine alla definizione dei diritti
dei malati e al comportamento dei medici. Tuttavia, proprio
perché allora la discussione era ai suoi albori e il consenso di
tutti gli Stati membri del Consiglio avrebbe potuto coagularsi
intorno a principi sufficientemente elastici e non prescrittivi,
le raccomandazioni che scaturiscono da quelle premesse sono scarne e piuttosto deludenti: si limitano a promuovere la
formazione del personale medico perché i malati siano alleviati nella loro sofferenza; a richiamare l’attenzione dei medici sul diritto dei malati a conoscere il loro stato di salute e –
con riguardo al nostro tema – a promuovere la possibilità per i
malati di preparasi psicologicamente alla morte.
Pur così mutilata della sua Raccomandazione fondamentale, che tuttavia si può considerare esplicitata nelle premesse –
consistente nel riconoscere al malato il diritto di sapere e quindi di determinarsi in ordine al trattamento sanitario impartitogli, e finanche di assumere disposizioni in ordine al trattamento, perché non sia protratto in contrasto con la dignità umana
– la Risoluzione fu accolta con positive valutazioni.
Pochi anni dopo la Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede (il 5.5.1980) diffonde la sua Dichiarazione sull’eutanasia4 in cui si pone in evidenza che la “vita umana è il fondamento di tutti i beni”, si contrappone la tutela della vita all’eutanasia, ma si consente l’uso di analgesici per lenire il dolore,
pur volendo mantenere vigile la coscienza dell’uomo per l’incontro con Cristo al termine della vita umana e all’inizio della
4
V. il testo in www.portaledibioetica.it.
M3_05_Testamento
30
16-12-2005
8:24
Pagina 30
GUIDO ALPA
vita eterna. Anche a queste condizioni, tuttavia, la stessa Congregazione aveva modo di precisare che “è molto importante
oggi proteggere, nel momento della morte, la dignità della persona umana”, anche in contrasto con le tecnologie che spingono la medicina a esperire ogni tentativo per prolungare la vita.
Il problema era posto, in allora, in modo rovesciato rispetto a
quello considerato dai laici: non tanto l’opportunità di far cessare le cure per salvare la dignità, quanto far cessare le cure
quando esse non diano, o non possano dare, il risultato sperato. Per dirlo con le parole della Dichiarazione: “In mancanza
di altri rimedi, è lecito ricorrere, con il consenso dell’ammalato, ai mezzi messi a disposizione dalla medicina più avanzata
(...) e anche lecito interrompere l’applicazione di tali mezzi,
quando i risultati deludono le speranze risposte in essi”.
La stessa Dichiarazione aggiunge una precisazione molto
rilevante: “È sempre lecito accontentarsi dei mezzi normali
che la medicina può offrire. Non si può quindi imporre a nessuno l’obbligo di ricorrere a un tipo di cura che, per quanto
già in uso, tuttavia non è ancora esente da pericoli o è troppo
oneroso. Il suo rifiuto non equivale a suicidio: significa piuttosto o semplice accettazione della condizione umana, o desiderio di evitare la messa in opera di un dispositivo medico sproporzionato ai risultati che si potrebbero sperare, oppure volontà di non imporre oneri troppo gravi alla famiglia o alla collettività. Nell’imminenza di una morte inevitabile nonostante i
mezzi usati, è lecito in coscienza prendere la decisione di rinunciare a trattamenti che procurerebbero soltanto un prolungamento precario e penoso della vita, senza tuttavia interrompere le cure normali dovute all’ammalato in simili casi.
Perciò il medico non ha motivo di angustiarsi, quasi che non
avesse prestato assistenza a una persona in pericolo”.
Considerate con attenzione, le due formulazioni non sono
molto distanti tra loro, anzi, sono più numerosi i punti di contatto che i punti di divergenza che esse presentano.
Entrambi i documenti collocano la questione del trattamento sanitario diretto al prolungamento della vita in una dialettica che vede tra loro contrapposte la posizione del pazien-
M3_05_Testamento
16-12-2005
8:24
Pagina 31
IL PRINCIPIO DI AUTODETERMINAZIONE E LE DIRETTIVE ANTICIPATE
31
te e quella del medico: al paziente si deve garantire la consapevolezza della situazione in cui egli versa e un trattamento
non contrastante con la dignità umana; il medico non deve
promuovere terapie sperimentali né accanirsi nel trattamento
perché lo scopo della medicina non consiste nel prolungamento della vita ma nell’alleviamento delle sofferenze; le terapie
prestate, inoltre, debbono essere bilanciate secondo i risultati
ottenibili senza inutili torture. Non sono coinvolti i congiunti,
e tanto meno il giudice. Non si considera il problema dei minorenni, anche se in ogni ordinamento le questioni inerenti il
trattamento sanitario dei minorenni sono risolte da chi esercita la potestà, a meno che l’ordinamento non preveda vincoli
invalicabili.
Entrambi i documenti si pongono problemi che investono
la collettività, ma soprattutto la Dichiarazione affronta il problema della disparità di trattamento dei pazienti a seconda delle loro disponibilità economiche. Per parte sua la Raccomandazione si pone il problema della situazione in cui versa il paziente incapace di decidere, e quindi si rivolge agli Stati aderenti perché siano istituite commissioni d’inchiesta dirette, tra
l’altro, a esaminare il problema “delle dichiarazioni scritte fatte da persone giuridicamente capaci autorizzando i medici a rinunciare a misure per prolungare la vita, in particolare in caso
di cessazione irreversibile delle funzioni cerebrali”.
La seconda fase del dibattito. Il “testamento biologico”
Dopo tre lustri il problema si acuisce, anche per effetto dell’evoluzione tecnologica che consente alla medicina di prolungare sine die la vita del paziente, anche se questi è incosciente,
ha perso le funzioni cerebrali, e può sopravvivere solo se alimentato artificialmente. I termini del problema – sopra esposti dai due primi documenti con un certo candore – si spostano ulteriormente: ora la medicina può osare di più, perché i
trattamenti un tempo ritenuti sperimentali possono considerarsi “ordinari”; la finalità del trattamento terapeutico non è
M3_05_Testamento
32
16-12-2005
8:24
Pagina 32
GUIDO ALPA
rivolta solo ad alleviare il dolore ma a prolungare comunque
la vita (sempre che di “vita” si possa parlare quando sia solo
respirazione e alimentazione, ma non coscienza vigile); compaiono sulla scena altri soggetti, come i congiunti e i giudici;
mentre sul piano legislativo, almeno nel nostro Paese, non si è
pronti per dettare soluzioni al problema. Forse per esacerbare
il dibattito i mass media tendono a parlare più di eutanasia
passiva che non di cessazione di trattamenti inutilmente lesivi
della dignità della persona. Nessuno parla ancora di sprechi
economici o di scelte tragiche quando le risorse sono scarse e
le cure non si possono assicurare a tutti, perché all’epoca è
persistente lo “Stato sociale”, lo “Stato-Provvidenza”, ed è ancora radicata la concezione che la collettività deve subentrare
quando l’individuo non può provvedere da sé al trattamento
medico.
È merito di alcuni studiosi – sociologi, medici, giuristi – e
di esponenti politici, di gruppi di ricerca e di animazione culturale, riproporre il tema. Al convegno organizzato da Politeia
a Roma nel marzo 1990, per sollecitazione del senatore Luigi
Manconi, si presenta alla comunità scientifica e alle istituzioni
una proposta di legge che incontra un largo favore. Avendone
discusso e rivisto il testo, la proposta prende il mio nome5. Ma
si tratta di un’iniziativa che associa il “testamento biologico”
all’accanimento terapeutico: in altri termini, il testamento biologico non è considerato in sé e per sé, ma piuttosto come
strumento per la tutela dei diritti fondamentali della persona e
per la sua difesa da trattamenti sanitari non desiderati, aggressivi e lesivi della dignità umana.
Per l’appunto lo scopo della proposta consiste nel difendere il diritto all’autodeterminazione, consentendo a tutti di disporre in ordine al divieto di iniziare o di proseguire il trattamento consistente nelle procedure di sostegno vitale in condizioni terminali o atte a procrastinare per breve tempo il pro-
5
V. il testo in Iapichino, Testamento biologico e direttive anticipate. Le
disposizioni in previsione dell’incapacità, Milano, 2000, p. 77, n. 39.
M3_05_Testamento
16-12-2005
8:24
Pagina 33
IL PRINCIPIO DI AUTODETERMINAZIONE E LE DIRETTIVE ANTICIPATE
33
cesso del morire. Il problema della comunicazione delle determinazioni era risolto nella loro raccolta in un atto scritto,
anche anteriore al momento in cui il trattamento dovesse essere applicato, e anche rivolto ad affidare la decisione a un
terzo nel caso in cui il disponente non fosse stato più in grado
di intendere o di volere. Quanto alla forma, si era pensato di
renderla solenne, ma solo con la presenza di due testimoni,
certo non con la formazione di un atto pubblico: al contrario,
il testo doveva affidarsi al medico curante, che l’avrebbe conservato. Si prevedeva anche un modello che avrebbe agevolato ogni interessato a stendere la dichiarazione, che comunque
doveva intendersi come sempre revocabile.
La proposta di legge non ebbe fortuna, anche se contribuì
ad agitare le coscienze e a stimolare il dibattito. Peraltro essa
era connessa con altre problematiche, inerenti la definizione
della morte. E il Comitato Nazionale di Bioetica (istituito presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri), nel breve volgere
di pochi mesi, approvò tre importanti documenti: uno dedicato a Definizione e accertamento della morte nell’uomo
(15.2.1991), l’altro all’Assistenza ai pazienti terminali
(6.9.1991), e il terzo alle Questioni bioetiche relative alla fine
della vita umana (14.7.1995)6.
C’è notevole difformità tra i primi due pareri e il terzo, ma
non è il caso di insistervi in questa sede. È comprensibile che
con il mutamento dei componenti del Comitato e del clima,
anche politico, nel corso degli anni, le valutazioni di natura
etica tendano a modificarsi, confermando il principio di relatività che si applica anche nelle valutazioni di questa natura.
In particolare, mentre i primi due pareri mostrano una certa
accondiscendenza a valutare la vita anche nei suoi aspetti psico-fisici, e quindi nella sua dimensione “qualitativa”, il terzo è
più dubitativo.
In ogni caso, riguardo al testamento biologico l’ultimo parere precisa che il Comitato “riconosce senz’altro rilievo mo-
6
V. il testo in www.governo.it/bioetica/testi.
M3_05_Testamento
34
16-12-2005
8:24
Pagina 34
GUIDO ALPA
rale alle direttive anticipate di trattamento, ma manifesta le
propria perplessità quando queste acquistano il carattere di
veri e propri testamenti di vita, perplessità che si fanno particolarmente gravi soprattutto nei confronti di alcune versioni
di essi, di cui è possibile riscontrare oggi una sempre maggior
diffusione (...). A giudizio del CNB non è comunque possibile
riconoscere un valore perentorio a tali direttive, ma eventualmente quello di mero orientamento del comportamento di chi
assiste il paziente.
Questo assunto è collocato tra l’affermazione che condanna
l’accanimento terapeutico, da un lato, e l’eutanasia passiva, dall’altro lato. Ma al di là della sua collocazione, che pure è significativa per darne un’interpretazione meta-giuridica, questo assunto sembra in contrasto con la disciplina già allora vigente.
Infatti, era convinzione di tutti i firmatari della proposta di
legge emersa al convegno di Politeia che essa non portasse innovazioni di sostanza ma piuttosto di forma, e che le regole
sottoposte all’attenzione del legislatore servissero soltanto a
semplificare l’applicazione delle direttive anticipate, ma non a
conferire loro una rilevanza giuridica che già ad esse si riconosceva. In altri termini, come si poteva ritenere che una manifestazione di volontà diretta all’esercizio di un diritto garantito costituzionalmente – il diritto di rifiutare cure mediche –
non potesse avere rilevanza giuridica7? Era d’altronde del tutto indifferente che tale dichiarazione non fosse contestuale al
momento in cui le cure, peraltro normalmente concernenti il
prolungamento della vita in situazioni di gravità e di disagio,
fossero prestate. Nessuno, ancora, riteneva che attraverso
quella proposta si volesse introdurre nella nostra esperienza
un nuovo tipo di testamento, destinato a valere fintanto che il
disponente fosse in vita. Tutti erano persuasi che l’espressione testamento biologico – traduzione approssimativa di living
will – non fosse solo allusiva a un atto formale di ultime volontà, ma piuttosto riguardasse una dichiarazione di volontà
7
Sul punto v. – in piena sintonia – la relazione di Maltese cit. alla nota 18.
M3_05_Testamento
16-12-2005
8:24
Pagina 35
IL PRINCIPIO DI AUTODETERMINAZIONE E LE DIRETTIVE ANTICIPATE
35
concernente trattamenti sanitari posticipati rispetto al momento in cui essi sarebbero stati praticati. Tutti erano d’accordo nel conferire validità alla dichiarazione, anche se chi l’avesse predisposta avrebbe corso il rischio che fosse applicata
in un momento in cui, non essendo più cosciente, non aveva
l’opportunità di revocarla. Ma chi scriveva una dichiarazione
di tal fatta poteva circoscriverne gli effetti, e comunque si assumeva volontariamente il rischio relativo.
La terza fase del dibattito. La dignità del morente
A distanza di cinque lustri dalla prima Raccomandazione del
Consiglio d’Europa, sviluppatisi enormemente i processi tecnologici applicati alla medicina, il problema si acuisce e diventa sempre più difficile tracciare una linea di demarcazione
tra la cura e l’accanimento terapeutico. Ciò che un tempo era
straordinario, sperimentale, particolarmente oneroso, diviene
routinario, normale, anche se continua a essere oneroso. Non
è più lo Stato sociale che provvede, ma le cliniche private e
l’assicurazione, e quando le scelte diventano tragiche, si comincia a discutere su quali criteri oggettivi debbano esser effettuate, per non incorrere nella discriminazione dei pazienti.
Il legislatore italiano, tuttavia, è ancora latitante, ma cominciano a moltiplicarsi gli interventi negli altri Paesi dell’Unione, che prendono a modello le leggi introdotte nell’America del Nord8. I siti americani e canadesi pullulano di informazioni sul living will, ne propongono modelli, ne illustrano gli
aspetti vantaggiosi, e nasce persino un settore professionale,
in cui sono attivi avvocati, medici e religiosi, che serve di guida, consiglio e strumento operativo per il cliente interessato a
profittarne9. Proprio dagli Stati Uniti provengono due tra i ca-
8
In argomento v. Iapichino, op. cit., pp. 25 ss.
Tra i siti più significativi, v. www.uslivingwillregistry.com; living willWikipedia, the free enciclopedia; www.agingwithdignity.org.
9
M3_05_Testamento
36
16-12-2005
8:24
Pagina 36
GUIDO ALPA
si più famosi e più discussi in tutto il mondo: quello di Nancy
Cruzan e quello di Terry Schiavo.
Mi preme ricordare che in un contesto molto diverso da
quello in cui fu calata la sua prima Raccomandazione, il Consiglio d’Europa interviene nuovamente con un testo intitolato
Protection des droits de l’homme et de la dignité des malades incurables et des mourants: si tratta della Raccomandazione n. 1418 adottata dall’Assemblea il 25.6.199910.
Tutto il testo è informato al principio della dignità dell’uomo, che non può esser passata sotto silenzio dalle tecnologie
della medicina che sembrano indifferenti, nel voler prolungare la vita di chi soffre, alla solitudine e al dolore del morente e
dei suoi congiunti. Richiamati i principi della Convenzione di
Oviedo sui diritti dell’uomo e sulla dignità umana nelle applicazioni della biologia e della medicina, la Raccomandazione si
sofferma sulla necessità di assicurare al paziente un trattamento ragionevole contro il dolore, sull’opportunità di effettuare una valutazione proporzionata delle misure con cui prolungare artificialmente la sua vita, sull’esigenza di formare
culturalmente la classe medica e i parenti, ma registra anche
l’assenza di un ambiente solidale, la carenza di risorse finanziarie e la discriminazione sociale di fronte alla malattia, all’agonia e alla morte. Le proposte finali sono molto più articolate di quelle, semplici, schematiche, e meramente programmatiche del 1999: esse coinvolgono non solo la comunità scientifica e le istituzioni politiche, ma tutti i soggetti che, a vario titolo, svolgono un ruolo nell’organizzazione della vita terminale dei malati.
Particolare attenzione, in questa Raccomandazione, ricevono le determinazioni del soggetto: il quale deve essere, innanzitutto, informato adeguatamente, deve essere protetto nell’osservanza delle sue volontà, protetto dall’intervento terapeutico
non desiderato, e protetto nel rispetto delle istruzioni o dichiarazioni formali (living will) dirette a rifiutare determinati trat-
10
V. il testo in www.portaledibioetica.it.
M3_05_Testamento
16-12-2005
8:24
Pagina 37
IL PRINCIPIO DI AUTODETERMINAZIONE E LE DIRETTIVE ANTICIPATE
37
tamenti terapeutici. La Raccomandazione precisa ancora che
occorre assicurare che il rappresentante legale del paziente
“non assuma, in luogo dell’interessato, decisioni fondate su dichiarazioni precedenti del paziente o su presunzioni di volontà
che questi non abbia mai espresso direttamente o chiaramente”; insiste cioè nel rispetto della volontà del paziente anche se
contrastante con i valori prevalenti nella società in cui egli vive
o con le indicazioni offerte dai medici.
Mentre sul piano dei principi condivisi dai Paesi europei
avanza l’idea di autodeterminazione del paziente, si irrigidisce
la posizione della Chiesa cattolica che, con il documento predisposto in epoca coeva alla Raccomandazione dalla Pontificia Accademia per la Vita, considera le argomentazioni rivolte
a prevenire l’accanimento terapeutico e il lenimento del dolore come strumenti ambigui, artatamente utilizzati per dare ingresso a forme più o meno larvate di eutanasia11.
Il principio di autodeterminazione viene inteso in senso restrittivo, e subordinato al valore della vita, comunque essa debba essere vissuta, non potendo l’uomo esserne il “padrone assoluto”. E pur riconoscendo che verso il malato grave e il morente occorre comportarsi in modo da non indulgere all’accanimento terapeutico, la Pontificia Accademia distingue tra cure ordinarie (comprensive della nutrizione e della idratazione,
anche se artificiali), cure palliative, dirette a lenire il dolore, e
terapie straordinarie o rischiose. Solo in quest’ultimo caso si
consente al paziente di esprimere le proprie volontà.
La medesima classificazione si rinviene nell’ultimo documento approvato in materia dal Comitato Nazionale per la
Bioetica, dedicato a L’alimentazione e l’idratazione di pazienti in stato vegetativo persistente, che è stato pubblicato
poco tempo fa, per l’appunto il 30.9.200512. Il Comitato si con-
11
Il rispetto della dignità del morente. Considerazioni etiche sull’eutanasia, 9.12.2000, a cura di Vial Correa e Sgreccia, in www.portaledi
bioetica.it.
12 V. il testo sul sito della Presidenza del Consiglio dei Ministri.
M3_05_Testamento
38
16-12-2005
8:24
Pagina 38
GUIDO ALPA
centra sulle cure, cioè sulla fase in cui occorre prendere la decisione di attivarle e su quella, eventuale, di sospenderle. Considera necessaria la prima, illegittima la seconda. Ciò in considerazione del fatto che i trattamenti volti a mantenere in vita
il paziente sono ormai accreditati dalla scienza medica come
cure normali e rispondono ai principi di civiltà solidale in cui
viviamo, che impongono a ciascuno di “prendersi cura del più
debole”.
Quanto alle dichiarazioni anticipate di trattamento, il CNB,
richiamato il precedente parere reso nel 200313, ritiene che esse siano lecite e vincolanti, e tuttavia possano essere prese in
considerazione soltanto se riferite a trattamenti di natura
straordinaria. In tutti gli altri casi, nonostante la volontà del
paziente, il medico, a parere del Comitato, ha il dovere di non
osservarle e di procedere con l’assoggettamento del paziente
alle cure stabilite14. Questo parere è stato contestato però nella sua fondatezza scientifica e nella sua coerenza con il precedente parere sulle dichiarazioni anticipate di trattamento, del
dicembre 2003.
A questo proposito, infatti, il CNB aveva dichiarato che
“ogni persona ha il diritto di esprimere i propri desideri anche
in modo anticipato in relazione a tutti i trattamenti terapeutici
e a tutti gli interventi medici circa i quali può lecitamente
esprimere la propria volontà attuale”.
La situazione attuale. Utilità dell’intervento legislativo.
In questo quadro complesso, in cui si intrecciano problemi di
biodiritto, posizioni filosofiche e religiose, ideologie tra loro
contrastanti come quelle a fondamento individualista e quelle
a fondamento solidaristico, e in cui la legge civile non è coordinata con la legge penale, l’intervento legislativo è utile per
13
14
Dichiarazioni anticipate di trattamento, 18.12.2003.
Il parere è stato approvato a maggioranza.
M3_05_Testamento
16-12-2005
8:24
Pagina 39
IL PRINCIPIO DI AUTODETERMINAZIONE E LE DIRETTIVE ANTICIPATE
39
molteplici ragioni, anche se, ragionando sui principi costituzionali e sulle regole che si applicano alle dichiarazioni di volontà, si potrebbe giungere alla conclusione che le “dichiarazioni di volontà anticipate” hanno una valenza giuridica in
ogni caso e già oggi.
Innanzitutto occorre sgombrare il campo da alcuni equivoci. Quando si parla di “dichiarazioni di volontà anticipate” non
ci si riferisce all’eutanasia, perché non si richiede né il comportamento attivo di terzi per ottenere il risultato di mettere
fine alla vita, né si richiede la passiva partecipazione di terzi,
in quanto oggetto di tali dichiarazioni è il rifiuto del trattamento medico. Anche se cristallizzato nel tempo, tale rifiuto vale a
esercitare il diritto alla salute di cui all’art. 32 Cost., che può
consistere, nel caso di adulti, nell’esercizio negativo del diritto. Sono quindi estranei a questo ambito di temi: (i) i problemi
inerenti al minore e a chi debba decidere in suo luogo; (ii) i
problemi relativi a persone che non abbiano esternato le loro
volontà circa i trattamenti terapeutici (e quindi restano estranei alla nostra discussione i casi di Nancy, Terry, Eluana e di
tutte le altre vittime di controversie giudiziarie riguardanti la
cessazione dei trattamenti terapeutici)15; (iii) lo stesso “testamento” biologico, nella misura in cui sia assimilato per l’appunto ad atti di ultima volontà, o sia prospettata l’analogia delle dichiarazioni in esame con atti mortis causa.
Tuttavia, anche se la tutela dell’autonomia privata comporta l’assegnazione di effetti a dichiarazioni di tal fatta, l’intervento legislativo segnerebbe vantaggi consistenti: (i) nella certezza del rapporto giuridico, nel senso che non vi sarebbero
più contrasti in ordine al fondamento giuridico, alla validità,
agli effetti di tali dichiarazioni; (ii) nella prevalenza delle dichiarazioni dell’interessato rispetto a qualsiasi altra volontà
imputabile a congiunti, parenti, conviventi, medici, comitati
15 L’estenuante vicenda giudiziaria di Terry Schiavo si può ricostruire nei
suoi diversi gradi sulla base di atti giudiziari, pareri e provvedimenti legislativi sul sito FindLaw.com.
M3_05_Testamento
40
16-12-2005
8:24
Pagina 40
GUIDO ALPA
etici ospedalieri, autorità amministrative e allo stesso giudice;
(iii) nell’esonero da qualsiasi responsabilità del medico curante e di ogni altro operatore coinvolto nelle terapie.
L’esigenza di dare una risposta alle attese di quanti intendono “morire con dignità” ha indotto esponenti di diverse parti politiche a presentare disegni di legge nelle ultime legislature16, e perfino la categoria professionale che – all’apparenza –
sarebbe investita dagli adempimenti del caso, quella notarile,
ha predisposto un testo diretto a disciplinare le dichiarazioni
anticipate di volontà nei trattamenti sanitari17. Si sono anche
moltiplicati i convegni organizzati da sedi universitarie e da
organizzazioni private per diffondere la cultura del “testamento biologico”18 e i siti web dai quali trarre utili informazioni,
oltre che modelli di “dichiarazioni anticipate”19.
Il dl n. 2943, in particolare, prevede due modalità per esternare la volontà dell’interessato al governo dei trattamenti sanitari che lo concernono o che lo potranno concernere in futuro: il “testamento di vita” e il “mandato in previsione dell’in-
16 Nella XIV legislatura v. ad esempio il dl n. 1437 d’iniziativa della senatrice Acciarini, comunicato alla Presidenza del Senato della Repubblica il
23.5.2002; il dl n. 2279 d’iniziativa dei senatori Ripamonti e Del Pennino,
comunicato alla Presidenza il 23.5.2003, e il dl n. 2943 d’iniziativa del senatore Tomassini comunicato alla Presidenza il 4.5.2004. È questo il testo
attualmente in esame presso la 12a Commissione (Igiene e Sanità), insieme con i disegni connessi.
17 V. Galletta, I testamenti di vita, sul sito del Consiglio Nazionale del
Notariato, con riguardo al congresso organizzato a Cagliari nei giorni
23-24 gennaio 2005 dal Comitato regionale dei Collegi notarili della Sardegna e dall’Associazione sindacale regionale.
18 Da ultimo v. gli atti del convegno organizzato a Trieste il 6 aprile 2005
dall’Associazione Goffredo de Banfield su Testamento biologico. Direttive anticipate di trattamento (con relazioni di Benciolini, Bompiani, Cendon, Dalla Palma, Defanti, Gullo, Maltese) reperibili sul sito web dell’Associazione.
19 V. in particolare il sito di A buon diritto. Associazione per le libertà
(www.abuondiritto.it); interessanti documenti si possono reperire anche
nel sito del Senato francese.
M3_05_Testamento
16-12-2005
8:24
Pagina 41
IL PRINCIPIO DI AUTODETERMINAZIONE E LE DIRETTIVE ANTICIPATE
41
capacità”. Al di là della terminologia utilizzata – ritengo preferibile parlare di “dichiarazioni anticipate di trattamento”, anziché di testamento biologico o di vita (anche se a suo tempo ne
avevo condiviso la dizione) – le finalità che si vogliono raggiungere sono altamente meritevoli: si vuol riservare all’interessato sia il diritto di esprimersi direttamente sui trattamenti
sanitari che lo concernono sia il diritto di scegliere la persona
che potrà in suo luogo provvedere alla bisogna, nel caso in cui
egli versi in stato di incapacità naturale.
Mi domando però se sia necessario sdoppiare l’atto, potendo esso contenere sia disposizioni direttamente impartite
dall’interessato, sia istruzioni conferite al mandatario che
debba operare in sua vece. Scorrendo l’articolato, si possono
muovere poi alcuni appunti al testo, che, sostanzialmente riprende le soluzioni offerte a suo tempo dai fautori del testamento biologico.
Tralasciando le definizioni contenute in apertura (art. 1),
ci si può chiedere se sia necessario associare le dichiarazioni
anticipate sul trattamento medico al “consenso informato”. Se
le regole riguardano il consenso in modo proprio, cioè qualsiasi forma e occasione in cui il consenso debba essere prestato, probabilmente la disposizione avrebbe potuto essere
collocata in altro contesto, ad esempio in una disciplina che
riordini i diritti del paziente affidato a strutture ospedaliere. È
probabile che il richiamo al consenso fosse necessario per far
“digerire” politicamente un testo, altrimenti tacciabile (da parte degli oppositori a qualsiasi forma di intervento legislativo
in materia) di essere troppo liberista in settore delicato come
quello della tutela della vita. In ogni caso, la disposizione è in
linea con i risultati cui sono pervenute la dottrina e la giurisprudenza prevalenti, sì che non recherebbe grandi novità.
Apre tuttavia un dubbio: consentendo la revoca del consenso
al trattamento anche “parziale”, non risolve il problema della
difficoltà di cessare il trattamento iniziato nell’eventualità che
la sospensione o la cessazione possano produrre lesioni o comunque danni, alterazioni, disfunzioni di cui sarebbe destinatario lo stesso revocante. Mi sembrerebbe pertanto opportu-
M3_05_Testamento
42
16-12-2005
8:24
Pagina 42
GUIDO ALPA
no, in caso di revoca di trattamento in corso, subordinare l’efficacia della revoca al giudizio del medico curante, che potrà
valutare, tenuto conto della volontà del paziente, gli eventuali
effetti nocivi determinati dalla revoca e le possibilità di recupero del paziente. Per contro, se si tratta di trattamenti a pazienti terminali, la revoca significa semplicemente esercizio
del diritto di morire dignitosamente, e quindi la valutazione
del medico è del tutto superflua, anzi potrebbe risultare dannosa perché ostativa della volontà dell’interessato.
L’art. 3 prevede la disciplina delle decisioni sostitutive, nel
caso in cui l’interessato non abbia provveduto direttamente.
Al di là della precedenza accordata al “mandatario” e al “fiduciario” – cioè al soggetto a cui ci riferisce il dl quale depositario del potere di sostituirsi all’interessato per volontà dell’interessato medesimo – ho molti dubbi che la scelta di iniziare,
proseguire, sospendere, o cessare il trattamento terapeutico
competano all’amministratore di sostegno o al tutore, soggetti che la disciplina vigente prende in considerazione solo per
il compimento di atti di amministrazione aventi natura patrimoniale.
Altri dubbi solleva la successione di legittimati: il coniuge
(non legalmente separato, oppure il convivente more uxorio)
è preferito ai figli; la preferenza è dovuta alla comunanza di vita, o al fatto che in via successoria il coniuge gode di una riserva che prevale quantitativamente su quella prevista per i figli? E perché non dare la preferenza ai figli, posto che in questa situazione è il vincolo del sangue che dovrebbe prevalere
su quello coniugale? E che dire dei genitori, posposti al coniuge e ai figli? Se si seguono le regole successorie, i genitori – in
presenza di coniuge e figli – non sono eredi necessari, e quindi
sono più liberi di esprimere una volontà “disinteressata”. Mi
rendo conto del fatto che ogni scelta presenti aspetti positivi e
aspetti negativi. Il caso di Terry Schiavo è emblematico al riguardo: sta a dimostrare che il conflitto tra coniuge e genitori
può essere motivato dall’interesse personale (l’interesse economico del marito e quello “ideologico” dei genitori).
Difficile poi capire perché il convivente stabile dovrebbe
M3_05_Testamento
16-12-2005
8:24
Pagina 43
IL PRINCIPIO DI AUTODETERMINAZIONE E LE DIRETTIVE ANTICIPATE
43
prevalere sui genitori, mentre è comprensibile che prevalga
sui parenti entro il quarto grado.
L’art. 5, riguardante le situazioni d’urgenza in cui il consenso non è esprimibile dall’interessato, precisa che tale consenso non è richiesto neppure al minore, quando questi versi in
pericolo di vita o sia minacciata la sua integrità fisica. Questa
precisazione riguardante il minore non si capirebbe (perché è
ovvio che il consenso non può essere espresso dal minorenne) se non fosse collegata con la disposizione successiva, prevista dall’art. 6 c. 3, che riconosce al minore quattordicenne il
diritto di prestare il consenso al trattamento medico. Non credo che si tratti di scelta ottimale, tenuto conto della giovane
età considerata e della generale immaturità propria dei giovani a quell’età.
Allo stesso modo, mi sembra del tutto peregrino richiedere
il consenso all’interdetto e all’inabilitato (art. 7).
Quando poi il consenso debba essere prestato dal giudice,
non si comprende perché il medico curante debba essere sentito solo nei casi di urgenza (art. 8 c. 1).
Il dl regola anche il “mandato in previsione dell’incapacità”
agli artt. 9-11. In realtà, non si tratta di un mandato che ha a
oggetto solo le determinazioni relative al trattamento sanitario. Tutta la disciplina inserisce una nuova figura diretta a salvare il potere sostitutivo anche in caso di sopravvenienza di
incapacità, anzi proprio a causa dell’incapacità. Occorrerebbe
allora distinguere il caso in cui il mandato riguardi solo le determinazioni di ordine sanitario – e allora non si vede perché
sia necessario l’atto notarile, peraltro oneroso (!) – dal caso in
cui esso abbia anche contenuto patrimoniale. Per questa seconda alternativa sarebbe sufficiente modificare appropriatamente le regole del codice civile.
Finalmente le ultime disposizioni – dall’art. 12 all’art. 16 –
riguardano la materia che ci interessa, cioè il “testamento di
vita”. Come sottolineavo in apertura, mi sembra preferibile
ricorrere ad altra terminologia, peraltro privilegiata dai dd.ll.
nn. 1437 e 2279, che si esprimono in termini di “direttive anticipate”. L’assonanza con il “testamento” favorisce l’idea che
M3_05_Testamento
44
16-12-2005
8:24
Pagina 44
GUIDO ALPA
queste determinazioni debbano essere affidate a un atto pubblico notarile, il che è una eventualità da scongiurare perché
finalità precipua di ogni intervento normativo deve rivolgersi
alla più diffusa e semplificata prassi di espressione della volontà, piuttosto che non a formalismi onerosi. Se si preferisce
l’atto pubblico, si può attribuire il potere necessario al direttore amministrativo della struttura ospedaliera presso la quale il paziente sia degente, oppure si può circoscrivere l’intervento del pubblico ufficiale all’autenticazione della firma, e
in entrambi i casi si potrebbe ricorrere agli uffici comunali;
oppure ancora conferire il potere di autenticazione delle volontà inerenti il trattamento sanitario al medico curante, o all’avvocato. Insomma, occorre rifuggire dai paludamenti e dagli oneri economici. Altrimenti si accredita il timore che la
soluzione dei problemi di bioetica sia appannaggio degli
happy few, anziché investire ogni persona in quanto tale. La
problematica diviene ancor più complessa in caso di revoca,
che deve essere effettuata nelle medesime forme, salvo il caso di urgenza in cui si pretendono due testimoni e il medico
curante (art. 14).
Se mai, questa potrebbe essere un’alterativa da utilizzare in
regime ordinario, anziché essere confinata ai casi d’urgenza.
Non si comprende poi perché le dichiarazioni acquistino
effetto solo in caso di sopravvenuta incapacità (ex art. 13):
l’interessato capace di intendere e di volere è sempre in grado
di revocare o modificare le sue determinazioni. Ancor più
macchinosa è la decisione in ordine all’effettiva incapacità
prevista dalla disposizione in esame, che pretende di investire
un collegio di tre medici, e altre formalità complesse, potendo
invece provvedere il medico curante.
Utile è l’istituzione di un registro nazionale, per far sì che
le dichiarazioni, comunque espresse, siano produttive di effetti. Se il Consiglio Nazionale del Notariato fosse disposto a curarlo gratuitamente, questa potrebbe essere la soluzione ideale. Il dl prevede un procedimento complesso – sul quale non
val la pena di indugiare (artt. 15 e 16) – per la registrazione.
L’esenzione fiscale dall’atto appare doverosa (art. 16).
M3_05_Testamento
16-12-2005
8:24
Pagina 45
IL PRINCIPIO DI AUTODETERMINAZIONE E LE DIRETTIVE ANTICIPATE
45
Conclusione
In conclusione, normativamente parlando, si sarebbe potuto
semplificare ogni procedura, se si fosse rovesciato il problema: e cioè se si fosse disposto l’abbandono di ogni terapia diretta alla protrazione artificiale della vita quando la situazione
sia senza speranza, a meno che l’interessato non abbia espresso consenso anticipato all’accanimento terapeutico e a ogni
tentativo per allontanare il momento del decesso. Ma una
scelta di questo tipo, pur in linea con la gran parte della legislazione vigente negli altri Stati europei, non avrebbe alcuna
chance di essere approvata. Soprattutto nel momento storico
che sta attraversando il nostro Paese.
M3_05_Testamento
16-12-2005
8:24
Pagina 46
M3_06_Testamento
16-12-2005
8:26
Pagina 47
Scelte di fine vita
di Lorenzo D’Avack*
Premessa
L’eutanasia o le scelte etiche e giuridiche di fine vita suscitano
un complesso di riflessioni su tematiche dove soprattutto in
gioco sono la dignità della persona con i suoi diritti fondamentali (diritto alla libertà, all’autonomia, all’uguaglianza, alla salute ecc.), il valore della vita e della sua integrità, il valore della professionalità del medico, le scelte giuridiche fatte proprie
dalle politiche pubbliche. Ne consegue anche che il dibattito
sull’eutanasia si traduce in un confronto multidisciplinare su
problematiche morali, mediche, giuridiche, sociologiche ed
economiche.
Una prima riflessione da fare è che in una società come la
nostra, caratterizzata dalla nuova utopia emergente della salute perfetta 1, potrebbe apparire quasi fuori luogo parlare
della buona morte. Sarebbe cioè consequenziale pensare che
la medicina con i suoi progressi, affiancata dalla tecnica e
dalla scienza, abbia accentuato nella nostra società la tendenza a escludere la morte dalle rappresentazioni collettive
e quotidiane, relegandola nell’oblio della segregazione ospedaliera. Eppure, avviene qualcosa di diverso e l’ampio dibat-
*
1
Ordinario di Filosofia del Diritto alla Facoltà di Giurisprudenza, Roma.
L. Sfez, La salute perfetta. Critica di una nuova utopia, Milano, 1999.
M3_06_Testamento
48
16-12-2005
8:26
Pagina 48
LORENZO D’AVACK
tito su questa tematica lo conferma. Ci confrontiamo, riflettiamo con sempre maggiore frequenza tanto sulla vita nel
momento della nascita, quanto sulla morte. La medicina, le
biotecnologie hanno potuto mettere a disposizione dell’uomo previsioni attendibili, strumenti affidabili sui modi e sulle opzioni con cui si realizzano e possono essere vissuti questi eventi e ciò porta a considerarli non come momenti strettamente naturali sui quali non si può intervenire, bensì come
aperti, campo di scelta, di autodeterminazione, di diritti. La
morte, affidata alla tradizione familiare nel mondo premoderno, poi al medico secondo il paradigma della modernità,
pare ora rimessa al morente che diventa protagonista del suo
congedo dal mondo.
Siamo al caso dell’eutanasia, termine con il quale generalmente si intende: un comportamento attivo od omissivo da
parte di un soggetto finalizzato a una morte indolore di un
altro soggetto, assecondandone la sua volontà espressa e
consapevole, data contestualmente o anticipata, per liberarlo, in occasione di grave malattia irreversibile e senza speranza di vita, da insopportabili sofferenze o per aiutarlo a
porre fine a una vita ritenuta non più dignitosa.
Nell’ambito di detta pratica possiamo dunque incontrare
un consenso espresso, contestuale, consapevole del paziente,
così come un consenso anticipato e presunto del paziente non
più competente. Nel secondo caso ha un peso la presenza di
dichiarazioni anticipate di trattamento (testamento biologico o direttive di vita) con la figura del curatore o fiduciario.
Gli altri due elementi irrinunciabili sono dati dalla presenza di
una condizione di malattia irreversibile, dolorosa e ritenuta
non dignitosa da chi la vive e dall’intenzione del terzo di operare nel rispetto della volontà di chi richiede l’eutanasia. Una
pratica che ricomprende anche il suicidio assistito, che si ha
quando è il malato che compie l’ultimo atto che provoca la
morte, ma con la determinante collaborazione e assistenza del
terzo.
La definizione da noi prescelta risulta idonea a delimitare
il fenomeno, escludendo dall’ambito di questa analisi, anche
M3_06_Testamento
16-12-2005
8:26
Pagina 49
SCELTE DI FINE VITA
49
se a volte i richiami non mancano, altre forme eutanasiche in
specie tutte quelle che prescindono dalla volontà esplicita del
paziente e vengono in certe circostanze cliniche e per diverse
ragioni (eugeniche, economiche, solidaristiche e sociali) rimesse alla decisione del familiare, del medico o della struttura ospedaliera.
Certamente questa stessa definizione dell’eutanasia sottolinea una differenza fra comportamento attivo e comportamento omissivo. Una differenza che fortemente si assottiglia,
in specie sotto il profilo etico, nel controverso discrimine tra
l’agire e l’omettere. L’affermazione secondo cui non vi è differenza moralmente significativa fra il somministrare la dose letale e non avviare o interrompere le misure di sostegno vitale
incontra poche opposizioni fra gli studiosi di bioetica. D’altronde, se si guarda al risultato finale non vi è proprio alcuna
differenza: sia la somministrazione di farmaci che l’interruzione di trattamenti di sostegno vitale conducono inesorabilmente alla morte. Anche se si guarda al comportamento può essere difficile cogliere una qualche differenza essenziale: è certamente attivo od omissivo mediante azione il comportamento
di chi stacca il respiratore, interrompe l’idratazione e la nutrizione, proprio come il comportamento di chi somministra la
pozione fatale. Sembrerebbe dunque inevitabile concludere
nel senso di una identica valutazione dell’eutanasia attiva e
dell’eutanasia passiva: nell’uno e nell’altro caso si tratterebbe
di un’attiva causazione della morte. Sotto l’aspetto concettuale si possono a tale proposito richiamare le tesi di alcuni utilitaristi, in specie del filosofo James Rachels, che sostengono
l’equivalenza tra uccidere e lasciar morire e pertanto l’irrilevanza della consolidata distinzione tra eutanasia attiva e passiva. Non ha diversa valenza morale il metodo di interruzione
della vita in tutte le situazioni in cui la morte anticipata è per il
paziente l’evento più desiderabile2.
2
J. Rachels, La fine della vita. La moralità dell’eutanasia, Torino, 1989,
pp. 121 ss.
M3_06_Testamento
50
16-12-2005
8:26
Pagina 50
LORENZO D’AVACK
Tuttavia la differenza permane e ne è conferma il fatto
che l’eutanasia, tout court definita pietosa, si sdoppia nella
sua forma attiva o passiva per ricevere un diverso giudizio
di liceità nei processi formativi della legge, nelle soluzioni
giurisprudenziali e suscita difformi reazioni nel sentire sociale. L’omissione, l’interruzione, la somministrazione appaiono al senso comune, e dal punto di vista psicologico al
medico stesso, comportamenti diversi, più o meno attivi,
più o meno partecipativi alla vicenda eutanasica. Proprio
questa voluta e sentita differenza spiega anche perché diversi Paesi, nell’abbandonare la penalizzazione illimitata di
qualsiasi atto di aggressione alla vita, riconducendo le decisioni sulla morte all’autonomia del singolo, abbiano ritenuto opportuno legittimare la sola eutanasia passiva o indiretta (rinuncia a mettere in atto i provvedimenti necessari al
mantenimento in vita; interruzione di tali provvedimenti;
somministrazione di sostanze i cui effetti secondari possono ridurre la durata della sopravvivenza) e limitarsi a depenalizzare il suicidio assistito. Ne consegue che solo l’eutanasia attiva è vietata e la configurabilità del reato è strettamente legata all’esistenza o meno di motivi egoistici da parte di chi si presta all’aiuto3.
D’altronde, la difficoltà di un’analisi etica e giuridica dell’eutanasia è legata al fatto che essa ha a che fare con la morte
voluta dallo stesso soggetto malato, rispetto alla quale l’autore, medico o terzo, è coinvolto e sembra pertanto intaccare
uno dei principi fondamentali delle nostre civiltà occidentali,
riassumibile nel valore della intangibilità della vita, garantito in termini giuridici dal divieto di uccidere. Differenziare allora l’eutanasia attiva da quella passiva, caratterizzata dall’idea che la natura faccia il suo corso, può indurre a ritenere il
problema di più facile approccio e con conseguenze meno
traumatiche.
Eppure, se l’eutanasia attiva appare facilmente riconosci-
3
Così le legislazioni di Danimarca, Norvegia, Svezia e Svizzera.
M3_06_Testamento
16-12-2005
8:26
Pagina 51
SCELTE DI FINE VITA
51
bile, quella passiva presenta, soprattutto quando si intraprendono terapie complesse e importanti, non poche incertezze e
ambiguità data la difficoltà di distinguere tra corso della natura e conseguenza dell’intervento medico. Tanto più che norme giuridiche e deontologiche sanciscono il divieto dell’accanimento terapeutico, l’insistere cioè con trattamenti di sostegno vitale che appaiono sproporzionati o ingiustificati. Di contro, consentono l’ampio utilizzo delle cure palliative, della terapia del dolore, che tuttavia in più di un’occasione si traduce
se non in un’anticipazione della morte stessa, certo in una forte riduzione delle capacità vitali. Tutto ciò attribuisce ora al
paziente, ora al medico poteri decisionali che possono implicare l’anticipazione di quell’evento biologico divenuto incontenibile che è la morte. Poteri decisionali di cui si discutono
gli ambiti di liceità: talvolta decisamente considerati penalmente rilevanti e quindi ricompresi nella fattispecie dell’eutanasia attiva, altre volte ritenuti con eccessiva assolutezza casi
di eutanasia passiva consentiti.
Peraltro, è consistente e motivata quella scuola di pensiero
che insiste sulla necessità sociale e giuridica, piuttosto che
etica, di conservare la distinzione attivo-passivo, ricomprendendo sia l’una che l’altra nella condanna dell’eutanasia. Si
sottolinea la validità della versione del pendio scivoloso (slippery slope) che vuole l’inevitabile effetto di causalità psicologica indurre nella società una graduale passiva accoglienza di
velate pratiche eutanasiche. “La distinzione – osserva J. Childress – tra uccidere e lasciar morire è un’espressione importante dell’ethos che indirizza la medicina alla vita e alla salute
del paziente nella forma della cura personale. Essa sembra essere strumentale oltre che simbolicamente importante”4. Secondo M. Reichlin la proibizione legale dell’eutanasia attiva è
l’unica garanzia per poter sviluppare una pratica diffusa e sufficientemente garantita di interruzione di terapie che non pre-
4
J. Childress, “To kill or let die”, in E.L. Bandman, B. Bandman (eds.),
Bioethics and Human Rights, Lanham, 1986, p. 128.
M3_06_Testamento
52
16-12-2005
8:26
Pagina 52
LORENZO D’AVACK
stino facilmente il fianco ad abusi e disincentivi la volontà di
collaborazione dei medici5.
L’argomento del pendio scivoloso è altresì utilizzato da diversi studiosi per avanzare critiche nei confronti di politiche
pubbliche che considerano accettabile l’eutanasia volontaria,
ma che in tal modo erodono il principio secondo cui la dignità
personale è indipendente dalle condizioni precarie in cui la
persona si trova. Ciò, si dice, porta a ridurre la distinzione tra
le diverse forme di uccisione e a far sì che una volta introdotta l’eutanasia volontaria, anche se vi siano basi razionali per
rifiutare quella non volontaria, di fatto questo non si verifica.
Non mancano, tuttavia, critiche a queste argomentazioni che
tentano di evidenziare il pericolo che passi l’idea che si possa
in tal modo arrivare a riconoscere anche la giustezza del togliere la vita senza esplicita richiesta. Un attento studioso di
questo dibattito, D. Neri, prendendo spunto dalla legge sull’eutanasia approvata in Olanda precisa che se vi deve essere la
convinzione del medico che l’eutanasia è la sola accettabile
via per eliminare la sofferenza, è altresì indispensabile la richiesta consapevole del paziente e come quest’ultima sia la
premessa irrinunciabile: “Resta però fermo che nella definizione di eutanasia largamente invalsa in Olanda è la richiesta
valida e non la condizione di sofferenza a costituire elemento
imprescindibile anche se, da solo, non sufficiente. Ed è solamente l’eutanasia in questa definizione che viene ritenuta tollerabile, mentre togliere la vita a un paziente in assenza di richiesta non può che restare un omicidio”6. D’altronde argomentare diversamente implica da un lato negare che ognuno
abbia la possibilità di assumere un proprio personale atteggiamento di fronte alla morte, in base ai valori da lui scelti per
dare significato alla sua vita, dall’altro attribuire al medico po5
M. Reichlin, “L’eutanasia in Olanda: contraddizioni, ambiguità, alternative”, in AA.VV., Quando morire? Bioetica e diritto nel dibattito sull’eutanasia, Padova, 1996.
6 D. Neri, “L’eutanasia in Olanda: una difesa (con qualche riserva)”, in
AA.VV., Quando morire?, p. 163.
M3_06_Testamento
16-12-2005
8:26
Pagina 53
SCELTE DI FINE VITA
53
teri che non gli competono, facendosi in esclusiva carico degli
interessi e dei bisogni del paziente. La volontà eutanasica è
stata messa in discussione come non autentica, perché, è detto, cela una diversa volontà di essere aiutati a non soffrire.
Un ragionare questo a cui ben potrebbe essere opposta l’argomento del pendio scivoloso, dato che una volta accettato, può
risultare difficile l’autenticità e la credibilità di tutte le altre
volontà esternate dal paziente verso i trattamenti medici.
È, forse, il caso di riflettere, come ricorda U. Scarpelli, sull’opportunità che in questo delicato passaggio, in questo momento di sospensione tra la vita e la morte, la possibilità etica
di lasciare a ciascuno la scelta finale per se stesso prevalga
sulla scelta etica di imporre norme e valori per tutti7.
Il dibattito culturale nell’area religiosa e in quella laica
Già da queste prime riflessioni appare evidente come il tema
si scomponga. Oggi non è corretto limitare in astratto l’indagine all’eutanasia attiva e passiva, perché occorre parlare e almeno distinguere: dignità e qualità della vita, autodeterminazione, consenso informato, cure palliative, accanimento terapeutico, costi economici, rifiuto sociale della morte. Certamente una tematica lacerante per la coscienza umana e che
fra le prime domande pone quella del perché tanta incertezza
e tante contrapposizioni intorno alla morte assistita, chiesta
da un essere umano cosciente che invoca rispetto e dignità,
quando quest’uomo è vivo solo per le leggi biologiche dell’organismo.
Una risposta potrebbe essere che è incerto il nostro concetto di vita, che oscilla tra la vita materiale dell’organismo e
quella personalizzata dell’individuo che, nelle residue possibilità biologiche del suo corpo, non ritrova alcuna immagine di
7
U. Scarpelli, “La bioetica. Alla ricerca dei principi”, Biblioteca della libertà, 1987, 99, p. 20.
M3_06_Testamento
54
16-12-2005
8:26
Pagina 54
LORENZO D’AVACK
sé e della sua ragione d’essere. L’incertezza è presente anche
sotto il profilo giuridico. Oggi è usuale ritenere che ciò che lega l’individuo alla sua dimensione biologica è una particolare
forma di rapporto che non può essere facilmente incasellata
secondo le direttrici di diritto privato ovvero di diritto pubblico. Certo è che negli ordinamenti giuridici il problema della
natura del diritto della persona sul proprio corpo non è stato
chiaramente risolto. Malgrado la distinzione tra persona e beni, i differenti codici rimangono prevalentemente muti su questo punto.
La dissertazione sul diritto di disporre del proprio corpo è
riflessione antica. Oggi per la cultura giuridica occidentale è
prevalente, ma non univoca, l’idea che il corpo umano non
può essere l’oggetto di una convenzione (soprattutto di una
convenzione commerciale) né essere ceduto, locato o in altre
forme alienato. Questa visione privilegia dunque la nozione di
persona su quella di cosa, quella della personalizzazione su
quella della strumentalizzazione. Una concezione che è tuttavia contraddetta dal passato antropologico che ha trattato e
considerato il corpo umano come oggetto in proprietà, come
un bene di cui disporre e sfruttare le risorse. La schiavitù ne è
un esempio, così come nel mondo romano la liceità di chiedere l’aiuto di un terzo per darsi la morte.
L’indisponibilità del corpo è un risultato successivo dovuto
alla sacralizzazione imposta dalla cultura e dalla tradizione cristiana. L’essere umano è al contempo anima e corpo, entrambi
indissolubilmente legati. Il corpo, come l’anima, appartiene a
Dio e acquista in ciò una duplice qualità. Da una parte, esso è
sacro e qualsiasi attentato alla sua integrità da parte di terzi è
vietato. Dall’altra, la sua disponibilità da parte dell’individuo
stesso è ridotta a poco più che zero. Mutilazione e suicidio sono considerati come un attentato al diritto di proprietà divina.
La razionalizzazione va ancora più lontana. Poiché il corpo è
ormai il luogo dell’anima, il suo contenitore, il suo recettore è
dunque intimamente legato con essa, niente può ridurre l’integralità di questa unione: una realtà concreta (il corpo) e un’idea astratta (la personalità) si fondono per così dire in una so-
M3_06_Testamento
16-12-2005
8:26
Pagina 55
SCELTE DI FINE VITA
55
la e stessa percezione. Ne consegue che l’uomo ha perduto i
suoi diritti sia sul corpo degli altri (impossibilità di asservirlo o
di possederlo), sia sul proprio corpo (impossibilità di disporne). Il passaggio dall’oggetto passivo ed esteriorizzato al soggetto attivo e interiorizzato è un fatto compiuto.
Tuttavia, attraverso la socializzazione teologica del corpo
umano si ritrova ugualmente la concezione filosofica fondamentale del diritto di disporre della natura, e di questa fa anche parte la natura umana. Le cose, come il corpo, si fanno allora oggetto di un diritto soggettivo diretto (il diritto di proprietà è un esempio). Ed è nell’epoca moderna, con il giusnaturalismo, che si delinea con maggior chiarezza il rapporto tra
l’uomo e la sua sfera biologica secondo criteri dogmaticamente oggettivisti e volontaristi che riducono la dimensione corporea dell’uomo a una cosa sulla quale esercitare una volontà, individuale o collettiva che sia. Questa visione proprietaria che
lega l’uomo alla vita in un rapporto del tutto simile a quello che
egli intrattiene con le cose si tramanda e arriva pressoché inalterata nelle legislazioni contemporanee8. Ed è sempre in questo periodo che, oltre all’idea della reificazione della corporeità dell’uomo e alla sottomissione di questa alla volontà, si
intravede in modo ben preciso quella profonda spaccatura
concettuale tra due ideologie che privilegiano la prima l’individuo, la seconda la collettività. Entrambe, è bene ricordarlo,
giungono tuttavia come problematiche irrisolte sino all’epoca
contemporanea, animando tuttora il dibattito sull’eutanasia,
diviso tra titolarità privata e pubblica tutela del corpo.
Aggiungasi che la percezione quasi angelica della corporalità umana tende sempre più a essere relativizzata anche da altre ragioni che brevemente indichiamo.
La prima è, senza dubbio, la presa di coscienza che il corpo
8
F. Cavalla, “Diritto alla vita e diritto sulla vita. Sulle origini culturali del
problema dell’‘eutanasia’”, Rivista Internazionale di Filosofia del Diritto, 1988, pp. 16-33; P. Sommaggio, Il dono preteso. Il problema del trapianto di organi: legislazione e principi, Padova, 2004.
M3_06_Testamento
56
16-12-2005
8:26
Pagina 56
LORENZO D’AVACK
umano non può oggi essere percepito, analizzato e regolato dal
diritto come un tutt’uno non suscettibile di dissociazione o di
frammentazione. Queste differenti componenti (cellule, sangue, cornee, midollo, reni, cuore, polmoni ecc.) sono potenzialmente suscettibili di alienazione, appropriazione, espropriazione e quindi soggette a una valutazione etica e giuridica
diversa da quella del corpo considerato nel suo insieme funzionale. Da ciò consegue una prima breccia nella concezione unitaria, ma anche una prima difficoltà per il diritto (come preservare il principio dell’intangibilità del corpo, ammettendo la dissacrazione delle sue diverse parti?) e le prime contraddizioni
apparenti (le parti sono tuttavia degli oggetti?).
Una seconda ragione è consequenziale a una scelta politica: il riconoscimento e poi l’affermazione delle libertà individuali. Il controllo individuale sul proprio corpo non è più percepito come qualcosa che si inserisce nella problematica analitica di un vero diritto-soggetto, ma come una manifestazione
più ampia della libertà individuale. Cessando così di porre il
problema della disponibilità del corpo umano unicamente in
funzione della validità degli atti giuridici compiuti sullo stesso, questa vicenda è ormai analizzata in termini di potere e di
scelta. Il diritto di disporre diviene un potere, una libertà di
disporre integrata con l’autonomia e legata al principio dell’autodeterminazione delle proprie azioni nei limiti generali di
una responsabilità verso i terzi. Il vantaggio di questa nuova
prospettiva è di eliminare le ipoteche poste, nell’analisi privatista, dal dualismo soggetto-oggetto e persona-bene. L’autonomia individuale, percepita come la resistenza dell’essere umano ai divieti, ai limiti imposti dalla collettività (la religione, lo
Stato) sul corpo, è ormai esaltata da ben precise correnti di
pensiero il cui modello ideologico di riferimento appare in via
generale indicato come quello del non cognitivismo etico.
Tutto ciò spiega le esitazioni attuali del diritto, ma anche le
difficoltà che esso incontra, a inserire il corpo in quella categoria elastica e incerta dei diritti della personalità, percepiti,
organizzati e tradotti in modo differente dal diritto civile, dal
diritto penale, dal diritto pubblico e dalla consuetudine. Que-
M3_06_Testamento
16-12-2005
8:26
Pagina 57
SCELTE DI FINE VITA
57
ste nuove libertà pongono dunque in modo evidente al diritto
dei problemi e dei limiti. A fronte del politeismo morale presente nella società, il sistema giuridico cerca dunque di ridefinire il perimetro di esercizio della disponibilità del corpo sempre più estensibile a due livelli: quello della legittimità e della
legalità.
Sulla posizione della sacralità della vita sono attestate, oltre che dottrine laiche, la Chiesa cattolica e le religioni monoteistiche che, partendo dal concetto che la vita è un dono di
Dio e che l’uomo è soltanto usufruttuario del suo corpo, ne
chiedono il rispetto incondizionato.
Per quanto concerne la Chiesa cattolica questa posizione è
stata ribadita dalla Congregazione per la Dottrina della Fede
in più di un’occasione e in specie nella Dichiarazione sull’eutanasia (1980) e nell’enciclica Evangelium vitae (1995), in
cui forte è il richiamo sul valore etico, non solo religioso ma
anche razionale, della vita umana dal suo inizio fino alla morte naturale, specialmente nelle due fasi più fragili, quali sono
appunto quella prenatale e quella della malattia grave e della
morte. Tale fondazione etica traduce l’eutanasia in una violazione della legge divina, in una offesa alla dignità della persona umana, in un crimine contro la vita, in un attentato alla umanità9. “Dalla sacralità della vita scaturisce la sua inviolabilità, inscritta fin dalle origini nel cuore dell’uomo”10.
Le tesi a favore dell’eutanasia sono di conseguenza ritenute
una delle manifestazioni dell’indebolimento spirituale e morale riguardo alla dignità della persona morente e una via utilitarista di disimpegno di fronte alle vere necessità del paziente. In merito a quest’ultimo aspetto i documenti del Magistero
offrono un itinerario di assistenza al malato grave e al morente sotto il profilo dell’etica medica e di quella spirituale e pastorale, ispirato alla dignità della persona, al rispetto della vita
e dei valori della fraternità e solidarietà, sollecitando la so-
9
Dichiarazione sull’eutanasia, II.
Evangelium vitae, n. 40.
10
M3_06_Testamento
58
16-12-2005
8:26
Pagina 58
LORENZO D’AVACK
cietà a rispondere con testimonianze concrete alle sfide attuali della cultura di morte11. Il cosiddetto principio di autonomia, invocato dalle campagne pro-eutanasia, è ritenuto, poi,
strumento per esasperare il concetto di libertà individuale,
spingendolo al di là dei suoi confini razionali e non può certo
per la Chiesa giustificare la soppressione della vita propria e
altrui. “L’autonomia personale, infatti, ha come presupposto
primo l’essere vivi e reclama la responsabilità dell’individuo,
che è libero per fare il bene secondo verità: egli giungerà ad
affermare se stesso, senza contraddizione, soltanto riconoscendo (anche in una prospettiva puramente razionale) d’aver
ricevuto in dono la sua vita, di cui perciò non può essere padrone assoluto”12.
Si propugnano dunque valori eterni che devono, se necessario, accantonare il benessere e la felicità dell’uomo. Quest’ultimo è solo uno strumento in un disegno più vasto e più
alto, un punto su di una linea che viene da lontano e prosegue
verso l’eterno.
Sebbene il pensiero della Chiesa cattolica si traduca in un
principio ostativo di natura religiosa, che vale a circoscrivere
l’imperatività di tale giudizio nell’ambito del popolo dei fedeli,
senza che se ne possa ricavare una valenza nella prospettiva
pienamente razionale dell’etica e una illiceità sul piano giuridico, resta tuttavia che esso ha non poca influenza nel mondo
sociale e nelle politiche pubbliche verso un rifiuto alla liceità
e legittimazione dell’eutanasia.
Nell’ambito del pensiero cristiano e cattolico si possono,
tuttavia, sottolineare evoluzioni concettuali e linee di pensiero che tendono ad attenuare un approccio tanto rigoroso.
La prima è che a partire dalla fine degli anni Cinquanta l’insegnamento della Chiesa cattolica considera con sempre maggiore insistenza la necessità di lenire la sofferenza del malato
quasi a subordinare ad essa la finalità di prolungare a ogni co-
11
12
Ivi, “Conclusione”.
Ivi, 68.
M3_06_Testamento
16-12-2005
8:26
Pagina 59
SCELTE DI FINE VITA
59
sto la vita13. Né mancano nell’Evangelium vitae affermazioni
che attribuiscono al malato stesso la responsabilità della fase
terminale della propria vita, pur ribadendo la condanna verso
l’eutanasia. “Se non sono disponibili altre cure è lecito con
l’approvazione del paziente applicare anche quelle rese disponibili dal progresso medico, anche quando esse non siano state sufficientemente sperimentate e comportino ancora qualche rischio... Allo stesso modo è lecito sospendere l’applicazione di queste cure quando i risultati non corrispondono alle
aspettative. In tale decisione si deve tenere conto del giusto
desiderio del malato e dei suoi cari come anche del giudizio
dei medici specialisti del settore”14.
La seconda è che teologi di area protestante quali H. Küng,
evangelisti quali W. Neidhart, J. Fletcher e H.M. Kuitert, e cattolici quali P. Sporken e A. Holderegger hanno tracciato una
terza via teologicamente e cristianamente definita responsabile tra un libertinismo antireligioso (diritto illimitato al suicidio) e un rigorismo reazionario senza compassione (anche ciò che è insopportabile deve essere accolto come dono
di Dio). In sintesi si sostiene che il Dio misericordioso, che si
attende dall’uomo responsabilità e libertà per la sua vita, ha
anche lasciato all’uomo, che è in procinto di morire, la responsabilità e la libertà di coscienza di decidere il modo e il tempo
della sua morte. Una responsabilità che nello Stato e nella
Chiesa né un medico né un teologo possono togliergli. Il punto d’arrivo è quello di una disposizione verso la morte che sia
diversa, più serena, degna dell’uomo15.
13
Messaggio di Pio XII al Convegno internazionale di anestesiologia.
Evangelium vitae, 65.
15 H. Küng, W. Jens, Della dignità del morire. Una difesa della libera
scelta, Milano, 1996; W. Neidhart, “Das Selbstbestimmungsrecht des
Schwerkranken aus der Sicht eines Theologen”, Schriftenreihe der
Schweiz. Gesellschaft für Gesundheitspolitik, 36, 1994; J. Fletcher, “The
Patient’s Right to Die”, in A.B. Downing (ed.), Euthanasia and the Right
to Death. The Case of Voluntary Euthanasia, London, 1969, pp. 61-70; P.
Sporken, Menschlich sterben, Dusseldorf, 1972.
14
M3_06_Testamento
60
16-12-2005
8:26
Pagina 60
LORENZO D’AVACK
Su queste posizioni troviamo un importante documento
sulla buona morte della Chiesa valdese che ha confutato il
concetto della sacralità e intangibilità della vita come rapporto tra Dio e l’uomo, in cui l’uomo non potrebbe intervenire
perché significherebbe prendere il posto di Dio. Si ricorda
che: “Per quanto paradossale possa essere, in tale situazione
accogliere la domanda della morte significa accogliere la domanda della vita, accogliere il diritto di vivere coscientemente
la propria morte”. Ancora, dicono i valdesi: “L’etica cristiana
deve fornire delle risposte credibili di fronte alla sofferenza e
al dolore, senza proiettarli irresponsabilmente in una dimensione di auto-redensione. Sono visioni dell’esistenza da accettare, ma anche da combattere”16.
Il concetto di vita, quello personalizzato dell’individuo, che
spinge alla depenalizzazione dell’eutanasia pur con criteri di
accuratezza, è fatto proprio dalle posizioni prevalentemente
laiche. Chi muove da una concezione personalistica ritiene
che la vita non sia semplice animazione della materia e che
questa si identifichi con il rispetto dell’individuo, della ragione, della sua dignità e libertà. Pertanto, il problema dell’eutanasia non mette in gioco il valore della vita che prolifera
ovunque, ma il valore dell’individuo, dell’uomo che in certe
condizioni può non ritenersi più degno di sé e può quindi sentirsi in diritto di decidere di porre fine a un’esistenza in cui
non si riconosce più, che vede tradursi in un processo biologico che, grazie all’assistenza tecnica, procede nella sua anonima irreversibilità.
In queste circostanze la domanda maggiormente problematica è se noi possiamo essere insensibili al rischio del rifiuto sociale della compassione. È il principio di beneficenza che
viene richiamato, “che comporta non solo un generico atteggiamento di benevolenza nei confronti degli altri, ma anche
un concreto impegno (che per il medico è anche un dovere
16
Documento riportato in gran parte in “Bioetica. I nuovi confini tra
scienza e coscienza”, Famiglia Cristiana, dossier, 17, 2003, pp. 122 ss.
M3_06_Testamento
19-12-2005
10:56
Pagina 61
SCELTE DI FINE VITA
61
professionale) ad aiutare gli altri a conseguire ciò che è nel loro interesse”17. Scuole di pensiero motivate spingono, dunque,
affinché lo Stato non obblighi i suoi cittadini alla mistica della
sofferenza e del sacrificio. Tanto più che quello dell’eutanasia
è un problema individuale che si richiama ad altri due concetti laici: il diritto all’autodeterminazione responsabile e la tolleranza verso le diverse scelte delle persone quando non offendono diritti altrui.
Siamo frequentemente nell’ambito di quelle correnti di
pensiero, già menzionate, caratterizzate da un prevalente liberalismo, da un forte individualismo, da principi di utilitarismo,
usa ricordare che le società democratiche non possono far ricorso a un’etica condivisa, a un’autorità morale unica18. Di fatti in merito ai problemi concernenti la vita e la morte, le famiglie filosofiche e spirituali che compongono le società pluraliste si mostrano di diverso avviso: ed è radicale l’impossibilità
di stabilire filosoficamente la verità morale particolare. A
fronte di questa diversità di opinioni si promuove il diritto assoluto delle singole comunità morali a operare scelte sulla base dei paradigmi interni che le guidano, senza riferimenti a
una ragione sovracomunitaria e alla sua esigenza di universalità, purché tutto ciò avvenga senza violenza, costrizione fisica e danni rilevanti per altri soggetti. Ne consegue che l’autonomia rimpiazza la libertà nel connotare l’atto di scelta responsabile di una persona, che tiene in conto gli effetti e gli
interessi correlati alla propria azione che possono derivare
verso se stesso e verso i terzi.
Nel caso dell’eutanasia si evidenzia come questa scelta non
possa tradursi in un danno a terzi. Anche a voler tenere conto
di un interesse particolare collettivo della società, pare arduo
sostenere che esso risulti messo a rischio dall’anticipazione
della morte su richiesta di un malato terminale e altrettanto
17
D. Neri, Eutanasia. Valori, scelte morali, dignità delle persone, Bari,
1995.
18 Cfr. precedenti autori.
M3_06_Testamento
62
16-12-2005
8:26
Pagina 62
LORENZO D’AVACK
arduo individuare quale interesse dello Stato sarebbe prevalente rispetto a quello dell’individuo a una morte che lo liberi
da insostenibili sofferenze o da una vita immeritevole di essere continuata. Si aggiunge, altresì, che è problematico sostenere che l’eutanasia si porrebbe con certezza in contraddizione con l’inviolabilità del diritto alla vita, ritenuto un diritto
fondamentale da tutti. Anche chi sostiene la liceità dell’eutanasia non disconosce il principio che uccidere è deontologicamente sbagliato. Pone però la questione se il diritto all’inviolabilità della vita riguardi la vita altrui o anche la propria e se, in
questo caso, comporti anche il dovere di vivere a tutti i costi.
Robert Veatch, un attento studioso di questo problema, precisa che uccidere è la violazione di un principio che rende sempre sbagliate moralmente le azioni che lo contemplano. Tuttavia, vi possono essere situazioni in cui il divieto entra in conflitto con altri principi deontologici, in specie “rispettare l’autonomia” e “trattare gli altri con giustizia”, e in questi casi è
ammissibile che una scelta di fine vita da parte di un paziente
competente che implichi un atto eutanasico sia ritenuta moralmente lecita19.
Dal complesso di queste e di altre argomentazioni i fautori
di una libera scelta di fine vita ricavano la regola che a ogni
cittadino dovrebbe essere consentito di avere le proprie idee
e di compiere le proprie scelte etiche, esprimendole senza timore, con l’unico compito per lo Stato di procurargli condizioni in cui dette scelte possano divenire effettive. È quanto in
realtà avviene nel modello legislativo fatto proprio dall’Olanda, dove non si rintraccia una valutazione degli interessi in
gioco da parte dello Stato, un bilanciamento che comporti un
giudizio di prevalenza di un interesse sull’altro. Si stabiliscono
criteri di accuratezza (esistenza di oggettive condizioni fisiche
del paziente, diagnosi medica, consenso informato, testamento biologico ecc.) i quali garantiscono in maniera neutra la tu-
19
R.M. Veatch, Death, Dying and the Biological Revolution, New Haven,
London, 1989.
M3_06_Testamento
16-12-2005
8:26
Pagina 63
SCELTE DI FINE VITA
63
tela dell’interesse a porre fine alla propria vita, affidando la
soluzione di tale conflitto direttamente ai soggetti coinvolti.
Lo Stato accetta la richiesta consapevole e informata di fine
vita preoccupandosi soltanto che i criteri procedurali siano rispettati20.
Da un punto di vista culturale generale, questa concezione
può essere considerata come un’indiretta conseguenza della
progressiva secolarizzazione delle società occidentali, le quali si stanno allontanando da un modello di pensiero integralista e religioso della vita fatto proprio per lungo tempo. Si pensa che lo Stato debba ritirarsi dal suo antico, tradizionale ruolo di difensore di valori morali, che debba perdere in certo
senso il carattere di Stato etico facendo proprie posizioni di
laica neutralità.
Nella vicenda eutanasica si vuole passare soprattutto da
una situazione in cui il paziente è oggetto della decisione del
medico a una in cui il primo diviene protagonista di questo
processo, della sua malattia, acquistando quella piena soggettività e autonomia morale che trova radice nei diritti fondamentali alla salute, alla libertà, all’uguaglianza e alla dignità.
Tutti diritti che conducono all’autodeterminazione, al suo riconoscimento come diritto umano, piuttosto che non alla sua
regolamentazione da parte dello Stato, perché trattasi di una
prerogativa che attiene alla persona in quanto tale. Riconoscere il diritto di autodeterminazione significa riconoscere all’individuo la possibilità di scegliere tra opzioni diverse per quanto riguarda la propria salute, le proprie malattie, le proprie esigenze. Negarglielo conduce alla tutela assoluta della vita in
qualsiasi momento e in qualsiasi condizione anche contro la
volontà del suo titolare, come un bene che la società e lo Stato hanno il dovere di salvaguardare.
20
Controllo di interruzione di vita su richiesta e assistenza al suicidio, 10 aprile 2001. Su questa normativa e sulle polemiche suscitate, cfr.
AA.VV., Quando morire?, op. cit.
M3_06_Testamento
64
16-12-2005
8:26
Pagina 64
LORENZO D’AVACK
Accanimento terapeutico e cure palliative
Il rifiuto dell’accanimento terapeutico e l’utilizzo ampio delle cure palliative, così spesso ribaditi nei documenti nazionali e internazionali, sono principi richiamati da chi sostiene
che il problema dell’eutanasia, se poteva essere in passato
oggetto di discussione (quando non vi erano rimedi efficaci
contro il dolore e quando ci si doveva difendere dagli eccessi della medicina), sembra ora perdere valenza etica e apparire richiesta meno motivata. Il paziente, libero dal dolore e
alleviato dalle proprie sofferenze, non ha motivo di chiedere
al medico di essere aiutato a morire. Così, scelte fortemente
problematiche quali l’eutanasia e il suicidio assistito, al di là
di una loro eventuale condanna, sono considerate assolutamente inutili.
Ma su quest’ultimo aspetto avanzo qualche riflessione
critica.
Certo, la medicina palliativa ha fatto notevoli passi in
avanti nel controllo del dolore fisico, come accade nella fase terminale di molte malattie oncologiche. Teoricamente
poi la soluzione appare appetibile, non dà luogo a dispute
dottrinarie dato che sull’applicazione delle cure palliative
concordano le principali correnti di pensiero, sia quelle pro
life che quelle pro choice. Tuttavia, come già ricordato, è
poco convincente l’idea della medicina palliativa come vicenda nettamente distinta dall’eutanasia o come soluzione
ad essa sostitutiva. Infatti, la maggior parte delle terapie di
sedazione, in cui è persistente lo stato di incoscienza del paziente e ogni forma di relazione interindividuale e affettiva è
interrotta, costituiscono una vera e propria forma di morte
anticipata. L’equivalenza di fatto della pratica, almeno in diverse situazioni mediche, con l’eutanasia attiva è difficilmente contestabile. Come è stato osservato, se differenza vi
è questa sta nel fatto che la sedazione terminale permette di
raggiungere lo stesso risultato dell’eutanasia attiva senza
impegnare il medico e le famiglie in una decisione forte, e in
molti Paesi giuridicamente illecita, come quella dell’eutana-
M3_06_Testamento
16-12-2005
8:26
Pagina 65
SCELTE DI FINE VITA
65
sia attiva21. Peraltro, la richiesta di un aiuto terminale non avviene sempre a fronte di dolori fisici e in prossimità della morte,
ma anche a seguito di malattie ben più prolungate nel tempo che
generano stati irreversibili, di qualità di vita deprecabile, di incapacità nel fronteggiare situazioni elementari di sopravvivenza.
Oltre a ciò, è da dire che anche le cure palliative non potrebbero essere imposte e dovrebbero presupporre un consenso informato del paziente di modo che al malato terminale
sia lasciata la possibilità di scegliere ed eventualmente di preferire a tali trattamenti la soluzione anticipata. Di contro, è
ben più probabile che la sedazione sia per lo più decisa dal
medico in un’ottica di beneficenza. Così non mancano rischi
di una eutanasia involontaria rimessa come scelta al giudizio tecnico del medico che potrebbe decidere di abbreviare la
vita del paziente in nome delle proprie competenze e del bilancio tra danni e benefici connessi alla prospettiva di cura.
Ho l’impressione che quando si pensa di risolvere il problema dell’eutanasia attraverso il rifiuto dell’accanimento terapeutico e la medicina palliativa si intenda non tanto richiamare l’attenzione sulla necessità di rendere la morte oggetto di autodeterminazione, quanto di distoglierla, escludendo qualsiasi condotta che comporti una decisione da parte del paziente e ricadendo necessariamente nella decisione del medico, in ciò che è
stato indicato come esercizio di onnipotenza, dato che è rimesso a quest’ultimo di stabilire quando la cura non abbia più
significato. È come se il medico potesse sovrapporsi alla natura
quando cura e ritirarsi per lasciare che la natura faccia il proprio corso quando sospende la terapia. Ne consegue che dipende esclusivamente dal medico trattenere il paziente in vita22.
21
J.A. Billings, S.D. Block, “Slow Euthanasia”, J. Palliat Care, 1996, 12,
pp. 21-20; D. Orentlicher, “The Supreme Court and physician-assisted suicide-rejecting assisted suicide but embracing euthanasia”, N Engl J Med,
1997, 337, pp. 1236-9.
22 Cfr. C.A. Viano, “Dall’autodeterminazione al suicidio assistito e all’eutanasia”, Bioetica, supplemento al n. 2, 2001, pp. 53 ss.; Neri, Eutanasia,
op. cit., pp. 43 ss.
M3_06_Testamento
66
16-12-2005
8:26
Pagina 66
LORENZO D’AVACK
Il diritto a morire nel nostro ordinamento giuridico
È opportuno domandarsi se esista nel nostro ordinamento
giuridico un diritto a morire, come prerogativa che trovi garanzia del suo accoglimento.
Si può con certezza sostenere che non trova alcun riconoscimento e tutela la richiesta di fine vita attraverso la collaborazione attiva dell’operatore sanitario o di un terzo, ricadendo
di contro situazioni di tal genere fra i reati di omicidio (art.
575 c.p.) o di omicidio del consenziente (art. 579 c.p.) o di suicidio assistito (art. 580 c.p.)23.
Molto più incerte sono le conclusioni sulla legittimità del
rifiuto delle cure fino al conseguimento della morte (eutanasia passiva). Richiamandomi in modo molto sintetico al
dibattito in corso, ricordo che in discussione sono norme
costituzionali, norme di diritto positivo nonché norme deontologiche.
Parte della dottrina e della giurisprudenza richiamano
gli artt. 2, 3, c. 1, Cost. per sostenere l’illegittimità di procedure, di scelte, di modalità di esercizio dell’autodeterminazione del soggetto in ordine alle cure mediche che, in termini puramente oggettivi, possano risolversi in un pregiudizio o addirittura nel sacrificio del diritto alla salute. La
stessa formula dell’art. 32, c. 2, Cost., che come vedremo
più avanti, è utilizzata da una parte della dottrina per un incondizionato sostegno al principio di autodeterminazione
nel contesto dell’eutanasia, è ritenuta di contro inidonea a
rimuovere le consolidate disposizioni legali poste a tutela
della vita. “La norma costituzionale, in realtà, non si occu-
23
“Nell’ordinamento italiano la non disponibilità giuridica da parte del
cittadino del bene integrità fisica, e dunque del bene vita, non è mai venuta meno; e poiché le norme giuridiche attengono a profili relazionali,
ciò implica che nessuno legalmente può esigere l’altrui coinvolgimento,
o comunque usufruirne, per fini di rinuncia alla tutela di quei beni.” (L.
Eusebi, “L’eutanasia come problema giuridico”, Ragion pratica, n. 19,
Genova, 2002, p. 103).
M3_06_Testamento
16-12-2005
8:26
Pagina 67
SCELTE DI FINE VITA
67
pa minimamente del caso in cui sia in gioco l’alternativa fra
vita e morte nell’ambito della relazione fra medico (o altro
soggetto che abbia obblighi di tutela) e paziente. Essa, piuttosto, attiene agli interventi che invadono la sfera di salvaguardia della salute, sfera che viene riservata per l’appunto
al rapporto del malato col sanitario, salvo contraria disposizione di legge entro i limiti imposti dal rispetto della persona umana”24.
Ancora, si ricorda che il diritto ad autodeterminarsi in ordine alle terapie incontra limitazioni nell’art. 5 c.c. che va letto non solo con riferimento all’aspetto positivo (diritto di disporre del proprio corpo), ma anche a quello negativo (diritto
di rifiutare le cure fino a consentire la morte). Ne consegue,
nel rispetto del dato letterale della norma codicistica invocata, che risulteranno vietati tutti quegli atti di disposizione del
proprio corpo che cagionino una diminuzione permanente
dell’integrità fisica non controbilanciati da effettive necessità
terapeutiche di natura fisica e psichica. Si ribadisce poi che
l’art. 5 c.c. è stato concepito con riferimento al consenso di
cui all’art. 50 c.p., con la finalità di fornire precisi parametri
normativi in ordine ai limiti di disponibilità del diritto all’integrità psico-fisica25.
Un complesso di norme che pongono altresì l’accento sulla dimensione collettivistica del diritto alla salute, di modo
24
L. Eusebi, op. cit. Argomentazioni a favore di questa lettura dell’art.
32, c. 2, in F.D. Busnelli, Bioetica e diritto privato. Frammenti di un
dizionario, Torino 2001, pp. 227 ss. Sul presupposto poi che se è vero
che il medico non ha l’obbligo di evitare uno specifico evento come la
morte è altrettanto vero che ha l’obbligo di evitare che una persona in
stato di necessità non sia assistita, cfr.: A. Fiori, G. Iadecola, “Stato di
necessità medica, consenso del paziente e dei familiari, cosiddetto diritto di morire: criteri per accertamento del nesso causale”, Riv. it. med.
leg., 1996, pp. 1 ss.; P. Avecone, “Aspetti giuridici”, Giust. pen., 1998, II;
P. Ricci, M.O. Venditto, Eutanasia, diritto di morire e diritto di rifiutare le cure, ivi, 1993, I.
25 Cfr. F. Mantovani, I trapianti e la sperimentazione umana nel diritto
italiano e straniero, Milano, 1974, p. 144.
M3_06_Testamento
68
16-12-2005
8:26
Pagina 68
LORENZO D’AVACK
che, se è vero che il nostro legislatore riconosce ex art. 2
Cost. i diritti inviolabili dell’uomo, e quindi anche il diritto alla
salute, è pur vero che nella stessa norma a tale garanzia corrisponde l’adempimento di altri doveri inderogabili quali la solidarietà politica, economica e sociale.
Pertanto, secondo questa dottrina giuridica il valore dell’autonomia individuale è considerato subordinato ai beni della vita e della salute recepiti come interesse collettivo. Si sottolinea soprattutto, facendo un raffronto con il suicidio, come
quest’ultimo riguardi in maniera intima e personalissima il singolo individuo, così da potersi considerare un atto “privato”,
di contro l’eutanasia è un atto eminentemente “sociale”. Essa
coinvolge infatti di necessità almeno un’altra persona e pertanto esce dall’autonomia e rientra nella eteronomia, nel dominio dei rapporti intersoggettivi di cui primariamente si occupa il diritto.
Di contro, altre correnti di pensiero hanno ammonito a
non trarre dal diritto alla salute di cui alla norma costituzionale (art. 32, c. 2) conclusioni negative e affrettate, dato che
la norma fa della salute oggetto di un interesse della collettività, ma al tempo stesso la riconosce come diritto fondamentale della persona, come a dire che la norma contiene, sia pure in maniera indiretta, anche il principio della libertà del
trattamento sanitario e quindi della legittimità del rifiuto della cura. Diritto ad autodeterminarsi in ordine alle cure al quale si può derogare solo in via eccezionale sul presupposto di
una espressa disposizione di legge che obblighi al trattamento medico. Aggiungasi gli artt. 2 (inviolabilità dei diritti dell’uomo anche nei confronti dello Stato), 3, c. 2 (compito dello
Stato di rimuovere gli ostacoli di qualsiasi natura per assicurare il pieno sviluppo della persona umana), 13 Cost. (inviolabilità della libertà personale) che costituiscono un complesso di norme che, garantendo con assoluta priorità i beni fondamentali della persona, sanciscono il cosiddetto principio
personalistico che, contrapponendosi all’opposta concezione utilitaristica dei beni della persona, considera l’uomo un
fine in sé e preclude ogni sua strumentalizzazione per fini col-
M3_06_Testamento
16-12-2005
8:26
Pagina 69
SCELTE DI FINE VITA
69
lettivistici26. Ne consegue che per questa scuola di pensiero
anche il diritto di non curarsi fino a lasciarsi morire, in quanto espressione dei diritti e delle libertà attinenti alla persona
umana, ha carattere inviolabile e trova nell’ordinamento giuridico la garanzia del suo accoglimento e della sua tutela.
Serrata su queste premesse è poi la critica alla lettura dell’art. 5 c.c. come ulteriore limite al riconoscimento del diritto
di anticipare la fine della propria vita rinunciando alle cure di
sostegno. Innanzitutto, l’obiezione pressoché scontata che
ogni norma ordinaria vada interpretata in conformità al dettato costituzionale e che pertanto gli articoli sopra ricordati, in
specie l’art. 32 (nell’interpretazione che ne viene data), non
possano consentire una lettura lesiva del principio personalistico. Si sostiene poi che l’art. 5 c.c. non può essere dilatato fino a farvi rientrare gli atti di autolesione e che il vincolo della
disponibilità della vita e dell’integrità opera solo nei confronti
delle aggressioni manu alius, non anche nelle ipotesi di autoaggressione che si pongono in uno spazio giuridico vuoto e
dunque consentito. Infine, come ricordano diversi giuristi,
proprio sull’art. 5 c.c. si fonda, anche ante Costituzione, il diritto alla libera disponibilità del proprio corpo in ambito sanitario e in particolare il diritto di autodeterminazione terapeutica. Tutto ciò dovrebbe portare alla conclusione che, pur in
assenza di un’espressa formulazione, dalla lettura del nostro
ordinamento giuridico sia possibile desumere l’esistenza del
26
F. Giunta, “Diritto di morire e diritto penale. I termini di una relazione
problematica”, Riv. it. dir. e proc. pen., 1997, pp. 90 ss. Cfr. anche S. Saminara, “Riflessioni in tema di suicidio e di eutanasia”, Riv. it. dir. e proc.
pen., 1995, pp. 693 ss.; F. Viganò, Stato di necessità e conflitto di doveri.
Contributo alla teoria delle cause di giustificazione e delle scusanti,
Milano, 2000, pp. 452 ss.; M.B. Magro, “Eutanasia e diritto penale: pluralismo, tutela dell’autonomia individuale ed esigenze di controllo sociale”,
in AA.VV., Dignità nel morire, Milano, 2003, pp. 57 ss.; M.E. Salvaterra,
“Esiste un diritto a morire? Riconoscimenti, implicazioni e limiti del diritto di non curarsi nell’ordinamento giuridico italiano”, Bioetica, 4, 2002,
pp. 730 ss.
M3_06_Testamento
70
16-12-2005
8:26
Pagina 70
LORENZO D’AVACK
diritto di morire attraverso la richiesta di un comportamento
omissivo da parte di un terzo e l’esercizio del diritto alla libertà di trattamento sanitario27.
Ma in verità non è difficile evidenziare come lo sforzo ermeneutico di questa tendenza dottrinale non consenta di trarre da tali norme tutti i possibili significati del diritto di morire
con dignità. Soprattutto, come già scritto, non è certo quale
sia lo spazio consentito dal nostro ordinamento alla legittimità
dell’eutanasia passiva consensuale e se la tutela, sempre e comunque, della vita come valore in sé debba cedere il passo alla qualità della vita. Un siffatto rischio, una tale incertezza non
potrebbero che essere sanati attraverso un nuovo assetto legislativo che chiarisca ciò che è lecito fare e ciò che invece è illecito in quelle fattispecie di disorientate e disorientanti letture (ad esempio, sopravvivenza del soggetto in forza del funzionamento di una macchina già attivata o di idratazione o di
alimentazione artificiale)28. Anche in considerazione del fatto
27
Cfr. fra i molti: P. Rescigno, “Libertà di trattamento sanitario e diligenza del danneggiato”, in A. Asquini, Studi in onore di, IV, Milano,
1965; F. Modugno, “Trattamenti sanitari ‘non obbligatori’ e Costituzione”, Diritto e società, 1982; A. Santosuosso, “Situazioni giuridiche critiche nel rapporto medico-paziente: una ricostruzione giuridica”, Politica e diritto, 1990.
28 Vi è controversia in ordine alla qualificazione dell’alimentazione e dell’idratazione artificiale come atto terapeutico o come atto di sostentamento sempre dovuto. In ambito internazionale è prevalente la posizione
di coloro che ritengono che alimentazione e idratazione artificiale siano
trattamenti medici e in quanto tali rifiutabili. Non così il Tribunale di Lecco (decreto 1 marzo 1999) e la Corte d’Appello di Milano (decreto 26 novembre 1999) che sulla questione non sono giunti a conclusioni ritenendola problema scientificamente e medicalmente non condiviso e quindi
negando la sospensione del trattamento per timore che si tratti di un atto
di eutanasia. Tuttavia, il decreto della Corte d’Appello di Milano ha costituito un precedente assoluto nel riconoscere al tutore della paziente il diritto di manifestare il consenso informato per l’incapace nell’esercizio
del suo potere/dovere di cura della persona e ciò anche in assenza di precedenti manifestazioni di volontà specifica espressa dal malato quando
era in stato di piena capacità. Non sono mancate decisioni, peraltro non
M3_06_Testamento
16-12-2005
8:26
Pagina 71
SCELTE DI FINE VITA
71
che esistono certamente i diritti dei malati, ma che vi sono anche i diritti dei medici e loro diritto primario è conoscere con
sufficiente certezza se determinati comportamenti costituiscono reato.
Peraltro, allo stato attuale di assoluta incertezza nell’individuare i principi giuridici su cui fare affidamento per mitigare l’imposizione penale si denuncia una discriminazione fra i
malati stessi. Discriminazione in specie tra coloro che sono in
condizione di anticipare la propria morte col suicidio o il rifiuto delle cure e coloro che, per le particolari condizioni di malattia nella quale si trovano, non sono in condizioni di farlo o
di farlo in modo dignitoso e senza una maggiore sofferenza.
Ancora, ulteriore discriminazione è ravvisabile nella decisione necessitata per il paziente, se vuole vedere rispettata la sua
volontà di non intraprendere una cura o di sottrarsi ad essa, di
restare fuori dall’assistenza medica, almeno dalla struttura
ospedaliera, così da non chiamare in causa il medico. Si giunge in tal caso a tradurre il diritto di autonomia privata in un diritto solitario che il paziente può esercitare in isolamento, cir-
sempre conformi, che hanno affrontato con attenta analisi degli interessi
in gioco la questione della rilevanza giuridica del rifiuto delle cure espresso dal paziente maggiorenne e capace e dove la questione centrale è stata quella della responsabilità ipotizzabile a carico del medico che rispetta
questa volontà (Pretore penale di Roma, sent. 3 aprile 1997; Pret. Treviso,
decreto 29 aprile 1999 del Gip Cass. pen. 5639/1992; Cass. pen. 33/1993;
Cass. pen. 9 marzo 2001 e Cass. pen. 29 maggio 2002).
Il CNB nell’approvare i recenti documenti Dichiarazioni anticipate di
trattamento (18 dicembre 2003) e L’alimentazione e l’idratazione di
pazienti in stato vegetativo persistente (30 settembre 2005) non hanno
potuto fornire un’indicazione unitaria in merito alla sospensione dell’alimentazione e dell’idratazione artificiale e alla possibilità per il paziente
di dare disposizioni circa la sua volontà ad accettare o rifiutare questo
genere di trattamenti.
In dottrina v. F. Mantovani, “Eutanasia”, Dig. disc. pen., Torino, 1999;
Giunta, “Diritto di morire”, op. cit., e anche Bioetica, n. 2, 2005, interamente dedicato alle problematiche concernenti lo stato vegetativo permanente.
M3_06_Testamento
72
16-12-2005
8:26
Pagina 72
LORENZO D’AVACK
condato dalla prudente diffidenza di qualsiasi soggetto terzo
(familiari, medico di famiglia, amici, infermieri) preoccupato
di eventuali conseguenze penali.
Di modo che, attraverso il richiamo agli artt. 13 e 32, c. 2,
Cost., parte della dottrina sostiene che le norme del codice penale che puniscono l’omicidio del consenziente e l’aiuto al suicidio sono censurabili di incostituzionalità per violazione dei
principi di uguaglianza e di libertà, almeno per ciò che concerne i malati terminali o inguaribili.
Si evidenzia, altresì, come le norme che sanciscono la illiceità delle scelte di fine vita siano in contrasto con la significativa e sempre più attuale evoluzione del sistema giuridico
verso l’idea che l’ordinamento sia al servizio della libertà e
dell’autonomia individuale nell’ambito non solo degli interessi
patrimoniali, dominati dalla piena disponibilità, ma anche dei
diritti della persona che attengono agli stati, diritti che oggi
alcuni giuristi chiamano esistenziali, che si ricollegano alla
privacy e che toccano tutta la vicenda umana dalla nascita alla morte29.
Queste contestazioni spiegano anche perché vi siano state
molteplici proposte di riforma verso la delineazione di una legittimità dell’eutanasia passiva o deresponsabilità di chi vi
partecipi. Fra le diverse proposte se ne possono ricordare almeno due.
La prima, che cerca di mediare tra il principio di indisponibilità della vita manu alius e il principio solidaristico e individualistico della scelta di vita e che conduce verso il riconoscimento dell’eutanasia consensuale come reato autonomo con una pena contenuta. Questa soluzione legislativa ha
trovato una sua reale considerazione in Spagna in occasione
del nuovo codice penale del 1995, in cui nella fattispecie di
29
Cfr. P. Rescigno, “Esperienza e realtà nel mondo”, Bioetica, supplemento al n. 2, 2001, pp. 79 ss.; “Autodeterminazione e testamento di vita”, in AA.VV., Una norma giuridica per la bioetica, Bologna, 1998, pp.
281 ss.
M3_06_Testamento
16-12-2005
8:26
Pagina 73
SCELTE DI FINE VITA
73
suicidio assistito o di omicidio del consenziente affetto da
gravi sofferenze non sopportabili che lo condurrebbero alla
morte, la soluzione è stata quella dell’attenuazione del trattamento sanzionatorio. La seconda, ben più radicale, orientata,
a similitudine di altre legislazioni europee, verso il riconoscimento della impunità dell’eutanasia passiva. Quest’ultima
ipotesi è generalmente corredata dal riconoscimento dell’obiezione di coscienza per il personale sanitario di cui si chiede il coinvolgimento e da precise condizioni indicate come
criteri di accuratezza30.
Né maggior chiarezza può essere offerta all’interprete andando a verificare quale sia la portata del riconoscimento della libertà e dell’autonomia individuale nelle Convezioni e nelle
Carte europee che rappresentano un richiamo obbligato per il
nostro Paese. Si tratta della Convenzione europea dei diritti
dell’uomo con gli artt. 2, 3, 8 e 1431; la Convenzione europea
sui diritti dell’Uomo e la biomedicina con gli artt. 2, 5, 8 e 9;
30
Riassumibili in via molto generale nei seguenti: a) lo stato di salute del
paziente, caratterizzato da condizioni terminali con dolori insopportabili,
che consistono nell’incurabile stato patologico, per il quale un eventuale
ricorso a terapie di sostenimento vitale condurrebbe all’unico risultato di
ritardare il momento della morte; b) il consenso del paziente (testamento di vita o direttive anticipate), dato attraverso un documento formale
scritto; c) la possibilità per il medico di essere coinvolto nella vicenda
eutanasica solo per i suoi pazienti, dei quali conosce la storia, ed eventualmente di ottenere l’approvazione di un comitato medico o l’autorizzazione del giudice; d) la necessità che l’eutanasia sia praticata in una
“modalità appropriata”.
31 Queste norme furono richiamate per sostenere dinnanzi alla Corte europea dei diritti dell’uomo le ragioni di D. Pretty, affetta da una malattia
neurologica degenerativa e priva di movimento autonomo, che invocava
la possibilità di avvalersi del marito, dichiaratosi disponibile, per essere
aiutata a morire senza che quest’ultimo rischiasse una condanna penale.
Con sentenza del 29 aprile 2002 il ricorso fu rigettato sul presupposto che
non vi era stata violazione della Convenzione e che in specie quel complesso di norme richiamate non consentono un riconoscimento di un diritto a morire (“Pretty vs. The United Kingdom”, Strasbourg 29 aprile
2002, Bioetica, n. 2, 2002, pp. 322 ss.).
M3_06_Testamento
74
16-12-2005
8:26
Pagina 74
LORENZO D’AVACK
la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea con gli
artt. 1, 3, 21 e 35.
Anche verso questi documenti le chiavi di lettura sono infatti diverse e opposte.
Per i fautori della scelta di fine vita e della legittimità al rifiuto delle cure tutte queste Carte garantiscono il diritto alla
vita, ma il diritto alla vita è anche diritto di scelta, relativamente al vivere o morire. Ciò perché non si tutela la vita in sé, bensì il diritto alla vita da intendersi come diritto disponibile da
parte di chi ne è titolare. Così spetterebbe all’individuo scegliere se continuare o smettere di vivere in modo da sfuggire a
una sofferenza e a una mancanza di dignità inevitabile. Da
questa premessa, altri principi, poi, quali la condanna dei trattamenti degradanti, il rispetto della vita privata e familiare, il
divieto dell’accanimento terapeutico, conducono a un diritto
di autodeterminazione. E tale diritto comporterebbe certamente quello di disporre del proprio corpo e di decidere cosa
farne. Implicherebbe il diritto di scegliere quando e come morire, perché niente sarebbe più intimamente legato al modo in
cui un individuo conduce la propria esistenza delle modalità e
del momento del suo passaggio a miglior vita.
Tuttavia, questa lettura è fortemente contestata. La Corte
europea dei diritti dell’uomo, come già ricordato, nel richiamare il dato normativo offerto dall’art. 2 della Convenzione
europea dei diritti dell’uomo ha escluso la sussistenza di un
diritto all’autodeterminazione che darebbe a ogni individuo la
possibilità di scegliere la morte piuttosto che la vita. In modo
altrettanto opposto alle tesi eutanasiche si interpreta il principio che ogni persona ha diritto al rispetto della sua vita privata in modo da non comportare un diritto di morire dato che
quest’ultimo implicherebbe l’estinzione del principio stesso
sul quale si fonda. Ancora, si ribadisce che lo Stato, nei limiti
del proprio potere discrezionale, è legittimato a stabilire la misura in cui gli individui possano consentire di farsi infliggere
lesioni e pertanto a impedire che qualcuno possa essere ucciso, pur con il suo consenso.
Proprio questa interpretazione si integra con l’altro princi-
M3_06_Testamento
16-12-2005
8:26
Pagina 75
SCELTE DI FINE VITA
75
pio che nessuno può essere sottoposto a tortura, a pene e a trattamenti inumani o degradanti. Obblighi negativi di cui è destinatario lo Stato, diversamente da quanto sostiene la dottrina eutanasica che li trasforma in obblighi positivi. Ma, così facendo,
quest’ultima dimentica che, non trattandosi di obblighi assoluti,
per valutarne la portata e l’applicazione è opportuno aver riguardo al margine di discrezionalità legittimamente riconosciuto allo Stato in modo da non imporre alle autorità un onere insostenibile o contrario a scelte del proprio diritto comune.
Un problema ulteriore può essere rappresentato dall’utilizzo frequente nel testo giuridico e nei documenti richiamati del
termine capacità che giuridicamente si identifica nella capacità di agire, di cui i minori e i maggiorenni incapaci di intendere e di volere sono privi. Sappiamo che il rispetto dell’autonomia del proprio corpo e della propria libertà spetta soltanto
alla persona interessata all’atto medico, ma non sempre è facile individuare come applicare questo principio all’infanzia,
come attribuire e riconoscere al minore la pienezza della propria decisionalità32.
In via generale si può osservare come in materia di eutanasia pietosa nei confronti di queste categorie di persone non
sia facile rintracciare quei diritti costituzionali di riferimento
o quelle regole etiche che poggiano prevalentemente sui principi di autonomia e di beneficenza. Questi ultimi non possono essere rivestiti di significato se non da parte del soggetto
medesimo in favore del quale sono invocati. Tuttavia, disconoscerli tout court può creare una situazione di disuguaglianza tra i cittadini sulla base di differenze non sempre oggettivamente valutabili. Minori oppure persone incapaci possono in
ogni caso essere in grado di valutare le proprie situazioni e di
esprimere una volontà consapevole riguardo il proprio corpo,
32 Sulle problematiche concernenti il minore e diritto alla salute, cfr. il dibattito su Bioetica, n. 1, 2003, pp. 67 ss. e in specie l’intervento di A. Bompiani, “Il minore tra autonomia e tutela”, pp. 90 ss.; cfr. dello stesso autore, Bioetica dalla parte dei deboli, Bologna, 1995.
M3_06_Testamento
76
16-12-2005
8:26
Pagina 76
LORENZO D’AVACK
di modo che non sarebbe legittimo che nell’ambito di queste
scelte il potere decisionale fosse rimesso in esclusiva a chi li
rappresenta, secondo i principi ordinari in tema di potestà e
di tutela. Si osserva inoltre che in queste fattispecie non è in
evidenza la capacità legale, bensì quella naturale, non rilevando in argomento soglie formali tipiche dell’atto negoziale quali età, interdizione o inabilitazione. Tanto più che lo status di
incapace, così come quello di minorenne, è stato dagli ordinamenti giuridici pensato allo scopo di tutelare i soggetti prevalentemente in ambito economico.
Emergono allora interrogativi complessi che il legislatore
non può trascurare.
Si può consentire o negare a una persona gravemente malata di porre fine alla propria vita, divenuta insopportabile e
priva di qualsiasi dignità personale, sul presupposto che esistano i requisiti della maggiore età o della piena disponibilità
dei propri diritti? Si può ritenere che la capacità/incapacità legale coincida a tal punto con quella naturale da coinvolgere
tutti gli ambiti della vita di una persona, compreso quello della sua salute e del rispetto della sua persona? È possibile, infine, che a fronte di situazioni di tal genere la decisione sul consenso/dissenso relativamente alle cure mediche ricada unicamente sui genitori e/o tutori nelle loro funzioni di rappresentanti, adottando scelte in ottemperanza al principio di beneficenza, senza tener conto della volontà del malato?
Questi e altri interrogativi, che coinvolgono paziente, genitore, operatore medico, strutture sanitarie e Stato, possono ricevere risposte diverse, a conferma della difficoltà di regolamentare una situazione così complessa e non riconducibile a
valutazioni di tipo oggettivo.
Tanto più poi se si considera che il minore vive uno status
transitorio e che la sua posizione non può prescindere dall’età, in base alla quale nell’ambito dell’ordinamento giuridico
vengono accordati spazi di libertà via via crescenti. Impossibile dunque considerare la categoria dei minori come una categoria uniforme. La cultura giuridica dominante diversifica fasce di età contraddistinte da livelli sempre più ampi di capa-
M3_06_Testamento
16-12-2005
8:26
Pagina 77
SCELTE DI FINE VITA
77
cità di agire, di responsabilità e di maggiore idoneità a valutare i propri interessi e le proprie scelte33. Ne consegue che il
problema del rispetto dell’autodeterminazione del malato si
pone in modo ancor più drammatico nell’ipotesi in cui il paziente sia ricompreso fra coloro che la giurisprudenza chiama
grandi minori: soggetti che della legale capacità sono privi,
ma già dotati di sufficiente maturità.
Dalla Convenzione sui diritti del fanciullo (ONU, 1989),
ratificata e resa esecutiva sia in Italia che in molteplici Paesi
del mondo, emerge chiaro e forte l’obbligo che “le opinioni del
fanciullo vengano prese in considerazione, tenendo conto della sua età e del suo grado di maturità” (art. 12). Un diritto a essere ascoltato che trova conferma nella Convenzione sui diritti dell’uomo e la biomedicina in cui all’art. 6, c. 2 si legge
che “il parere del minore è considerato elemento determinante in funzione dell’età e del suo livello di maturità” e dove all’art. 24 si precisa che i bambini “possono esprimere liberamente la propria opinione; questa viene presa in considerazione sulle questioni che li riguardano in funzione della loro età e
della loro maturità”34.
33
Ricordo che il nostro ordinamento giuridico distingue diverse età prima dei 18 anni sia nell’ambito penalistico per quanto concerne la punibilità, sia nel diritto di famiglia e delle persone (capacità di contrarre matrimonio, affido, adozione ecc.), sia in materie quali l’aborto, la sperimentazione e il trapianto.
34 Questi principi sono stati tenuti in conto anche dalla nostra giurisprudenza che ha ritenuto non valido il consenso espresso da uno dei parenti
quando il paziente è capace di intendere e di volere, ritenendo quest’ultimo l’unico soggetto legittimato a consentire trattamenti che incidano sul
proprio corpo e sulla qualità della propria vita (Trib. Milano 14 maggio
1998, Nuova giur. civ. comm., 2000, p. 405). Le cronache poi ci informano con sempre maggior frequenza di istanze rivolte al giudice minorile
nell’ambito di procedimenti finalizzati a ottenere l’autorizzazione alla
somministrazione di terapie urgenti a soggetti incapaci, contro il diniego
posto dai rappresentanti legali. Come pure di istanze per l’interruzione
dell’alimentazione e idratazione artificiale, o di terapie eseguite su malati
in stato vegetativo permanente.
M3_06_Testamento
78
16-12-2005
8:26
Pagina 78
LORENZO D’AVACK
Anche sulla base dello stesso Codice di deontologia medica (artt. 33 e 34), l’opposizione del rappresentante legale al
“trattamento necessario e indifferibile” non è efficace per il
minore ed è consueto che il medico finisca per informare l’autorità giudiziaria. A tale proposito, la giurisprudenza minorile
ha affermato che il controllo e l’intervento del giudice sull’esercizio della potestà ex art. 330 c.c. deve limitarsi ai profili di
violazione dei doveri o di abuso dei poteri a fronte di scelte
genitoriali che non appaiono fatte nell’interesse del minore. È
evidente comunque come l’interesse del minore sia una di
quelle formule ad ampio contenuto che lascia piena discrezionalità al giudice nella sua scelta, tanto più quando si finisce
per sostenere, come avvenuto in alcuni provvedimenti adottati dal Tribunale per i minori, che in sede giudiziaria non vi è
spazio per valutazioni comparate sulle terapie di contrasto alla malattia35.
A fronte di certe difficoltà, date anche dal già menzionato
presupposto che il bambino è un essere umano in formazione
continua, le organizzazioni internazionali, ma anche i medici,
auspicano sovente che in una futura legislazione sia data l’indicazione di una età limite precisa con riferimento alla quale
si possa o meno parlare di autonomia del minore36. Ma anche
questa soluzione suscita perplessità “perché in realtà l’accrescimento del bambino non solo fisico, ma anche psicologico e
35 Cfr. Trib. min. Brescia 18 maggio 1999 e Trib. min. Brescia 30 settembre 1999.
36 Interessante in tal senso la Carta dei diritti dei bambini in ospedale,
fatta propria da alcuni ospedali pediatrici nel nostro Paese (Bambin Gesù di Roma, Gaslini di Genova, Burlo Garofolo di Trieste e Meyer di Firenze) dove all’art. 8 viene detto: “È difficile pensare ad un assenso/dissenso informato prima dei sette anni. Successivamente, quando il bambino esplora meglio le proprie motivazioni e le confronta con ciò che gli altri dicono e fanno, è concepibile un assenso/dissenso informato insieme
con quello dei genitori. A partire dai dodici anni, si può credere in un assenso/dissenso progressivamente consapevole.”, (documento riportato
in Bioetica, n. 1, 2003, pp. 68 ss.).
M3_06_Testamento
16-12-2005
8:26
Pagina 79
SCELTE DI FINE VITA
79
morale, non ha una velocità di trasformazione, di adattamento, uguale per tutti e univoca, individuabile su base statistica e
circoscrivibile a una precisa età”37. Si può allora solo procedere per verifiche nelle singole fattispecie sulla maturità conseguita per poter riscontrare autonomia e consapevolezza del
minore, considerato che entrambe sono situazioni dinamiche
progressive. Emblematiche in questo senso le scelte operate
dal legislatore olandese in materia di eutanasia con richiami
soprattutto alla valutazione delle capacità dei minori che chiedono il suicidio assistito (limiti di età, ragionevole valutazione
dei propri interessi al riguardo, accordo con la decisione del
minore da parte dei genitori e/o del tutore). Scelte che confermano la non opportunità di stabilire criteri rigidi che fissino
l’acquisizione della piena capacità di agire e come, di contro,
sia necessaria una valutazione caso per caso della capacità di
ogni singolo minore che si trovi in quella specifica situazione.
Certo è che bisogna però credere nel diritto del minore a
un assenso o dissenso consapevole, perché anche di fronte a
situazioni di accanimento terapeutico gli adolescenti riescono a prefigurarsi il futuro e ad assumersi la responsabilità di
fronte al proprio progetto di vita. Pertanto, l’assenso/dissenso informato del minore, insieme con quello dei genitori o del
tutore, è pienamente concepibile e dovrebbe sempre essere
richiesto non soltanto per una esigenza giuridica o etica, ma
soprattutto per far comprendere al minore-paziente la sua
esperienza e creare una necessaria alleanza tra il medico e il
bambino.
Dichiarazioni anticipate di trattamento
È frequente, e le legislazioni sul tema lo dimostrano, che la
scelta di fine vita sia ricollegata alle dichiarazioni anticipate
di trattamento. Denominazione questa che, unitamente ad al-
37
A. Bompiani, Il minore, op. cit., p. 92.
M3_06_Testamento
80
16-12-2005
8:26
Pagina 80
LORENZO D’AVACK
tre analoghe (living will, testamento biologico, direttive anticipate, testamento di vita), fa riferimento “ad un documento
con il quale una persona, dotata di piena capacità, esprime
la sua volontà circa i trattamenti ai quali desidera o non
desidera essere sottoposto nel caso in cui, nel decorso di una
malattia o a causa di traumi improvvisi, non fosse in grado di esprimere il proprio consenso o il proprio dissenso
informato”38.
Tuttavia, è opportuno precisare da subito che è errato ritenere che le dichiarazioni anticipate implichino di per sé l’ammissibilità dell’eutanasia. Le dichiarazioni e l’eutanasia rientrano nella vicenda di fine vita, ma sono due problemi diversi, logicamente indipendenti e vanno trattati separatamente. Le dichiarazioni anticipate servono a dare indicazioni in merito alla
volontà del paziente, utilizzabili quando questi non può far valere di persona le proprie scelte. In questo senso esse sono uno
strumento dell’autonomia dei malati e non hanno nessuna implicazione eutanasica necessaria. Esse possono prevederla, ma
possono anche includere precise clausole di esclusione dell’eutanasia, anche qualora essa fosse legislativamente riconosciuta. Così come potrebbero contenere indicazioni di una prosecuzione delle cure al di là delle cautele suggerite al medico
affinché si eviti l’accanimento terapeutico.
Le dichiarazioni anticipate sono dunque un ulteriore strumento che rafforza l’autonomia individuale e il consenso
informato nelle scelte mediche o terapeutiche, tanto più che,
come già ricordato, grazie alla Carta dei diritti fondamentali
dell’Unione europea (artt. 1 e 3) e alla Convenzione sui diritti dell’uomo e la biomedicina (artt. 5, 6 e 9), questi principi
acquisiscono nuovo e maggior rilievo, non soltanto coinvolgendo i doveri professionali del medico e la legittimazione dell’atto medico, ma dando sostanza al diritto del cittadino europeo all’integrità della persona e al rispetto delle sue decisioni.
38
Definizione data nel documento del CNB, Dichiarazioni anticipate di
trattamento, 18 dicembre 2003.
M3_06_Testamento
16-12-2005
8:26
Pagina 81
SCELTE DI FINE VITA
81
Rilevo tuttavia che molte delle critiche nei confronti delle
direttive sono generate proprio da una diffusa diffidenza nei
confronti dell’autonomia, del principio volontaristico, per cui
si tende a lasciare al paziente spazio limitato a favore di una
invocata utilità e vantaggiosità sociale. Di modo che il trattamento sanitario si autolegittima, ossia si impone di per se stesso, quando esista indicazione terapeutica e sia eseguito secondo le leges artis39.
Certo, i termini ricorrenti in questa materia (testamento,
procura, curatore, fiduciario) evocano istituti di tradizione
antica propri del diritto privato e legati in primo luogo alla disponibilità degli interessi patrimoniali del soggetto. È altresì
certo che i sistemi giuridici continentali sono portati a tenere
ferma una ben precisa differenziazione tra il settore degli interessi patrimoniali, dominati in pieno dalla disponibilità, e quello degli interessi personali, che attengono agli stati e alla capacità della persona e il cui carattere fondamentale è invece
dato dall’indisponibilità. Ma è pur vero che con sempre maggior frequenza, come già ricordato, il legislatore sta facendo
scelte notevoli che riconducono nella sfera dell’autonomia individuale la materia dei diritti attinenti alla persona.
Le obiezioni più diffuse contro le dichiarazioni anticipate
coinvolgono prevalentemente: a) la validità da attribuire a scelte formulate in un momento anteriore a quello in cui devono
attuarsi; b) la maggiore o minore capacità (o meglio presunta
incapacità o incompetenza) della persona che sottoscrive il documento, tanto più che nessuna direttiva potrà essere così precisa da adattarsi alle esatte condizioni in cui il paziente può
trovarsi; c) la circostanza che nell’ambito della struttura ospedaliera il diritto di non curarsi diventa secondario a fronte del
39
G. Iadecola, “La responsabilità penale del medico tra posizione di garanzia e rispetto della volontà del paziente”, Cassazione penale, 1998,
pp. 953-8; A. Fiori, G. Iadecola, “Stato di necessità medica, consenso del
paziente e dei familiari, cosiddetto diritto di morire, criteri di accertamento del nesso di causalità”, Riv. it. med. legale, n. 1, 1996, pp. 311-16.
M3_06_Testamento
82
16-12-2005
8:26
Pagina 82
LORENZO D’AVACK
meccanismo della garanzia di vita per cui il malato riconosce
che le decisioni spettano al medico, rinunciando al proprio diritto di autodeterminazione, ne consegue anche che le dichiarazioni anticipate non possano vincolare l’autonomia professionale e scientifica del medico: potrà al massimo aiutarlo a
operare scelte tra diverse possibilità terapeutiche.
Le obiezioni sub a) e b) negano sia il valore vincolante delle dichiarazioni contenenti una volontà ora per allora, sia il
valore della volontà in termini di competenza espressa dal paziente in ogni momento precedente a quello della decisione.
Se queste critiche trovano attenzione, le conseguenze negative sul valore formale delle dichiarazioni sono evidenti.
La tesi dell’immediatezza implica che la volontà del paziente debba essere rispettata solo nel caso in cui questi, pienamente cosciente, sia in grado di ribadirla fino alla fine senza incertezze. Altrimenti, scatta la presunzione del contrario.
La presunzione cioè fondata sul meccanismo della garanzia
di vita, in linea con quel paternalismo medico di dubbia
conformità rispetto al più attuale indirizzo bioetico e giuridico
che, nell’affermare il principio del rispetto dell’autonomia dell’uomo e della centralità della persona, tiene in debito conto
anche la facoltà del soggetto di determinare e regolare la parte biologica della propria esistenza. Il principio dell’immediatezza di fatto mette in discussione l’esistenza di una continuità di identità tra chi sottoscrive la direttiva anticipata e chi
poi sarà oggetto delle decisioni così manifestate.
Non voglio in questa sede entrare nel dibattito filosoficogiuridico sull’identità in generale e sull’identità personale,
quest’ultima intesa come continuità mnemonica e mentale per
poter parlare di una sola persona lungo un determinato percorso di vita40. Tuttavia mi sembra opportuno ricordare che
40 In questo dibattito, cfr. soprattutto D. Parfit, Ragioni e persone, Milano,
1989; A. Buchanan, “Advance Directives and Personal Identity Problems”,
Philosophy and Public Affairs, 1988, n. 17, pp. 277 ss.; E.T. Olson, L’animale umano. Identità personale senza psicologia, Milano, 1999; D.
M3_06_Testamento
16-12-2005
8:26
Pagina 83
SCELTE DI FINE VITA
83
chi sottoscrive le direttive si preoccupa che vengano tutelati
interessi che, per usare la terminologia di Dworkin41, sono definibili critici, cioè raccolgono in sé valori e ideali fondanti la
propria esistenza e pertanto irrinunciabili e insostituibili. Il loro mutamento interrompe l’unità narrativa che costituisce la
vita di un individuo e determina la sua identificazione individuale. Il testamento biologico trae allora la sua forza dal fatto
che è un’affermazione degli interessi critici di una persona in
particolari e futuri contesti di fine vita.
Ritengo allora pienamente compatibile col sistema che le
dichiarazioni, magari supportate da un potere conferito al fiduciario, sopravvivano alla perdita di coscienza del soggetto.
Il documento che le contiene, redatto in apposite forme, ha
prevalente ragione di essere proprio nel caso di incapacità, altrimenti può apparire perfino superfluo, andando soltanto a
interessare il terreno già coperto dal divieto dell’accanimento
e del consenso informato.
Se si presuppone poi che a fronte di una grave malattia e in
prossimità della morte la volontà della persona cambi radicalmente, allora questo vale anche nel caso in cui la volontà fosse
stata espressa poco tempo prima, anche poche ore prima. In vero il concetto di attualità esprime un requisito logico e non meramente cronologico-temporale. Se così non fosse potrebbe diventare complesso giustificare gran parte degli interventi chirurgici,
in quanto in tali ipotesi il consenso viene espresso dal paziente
prima e non durante tutto il corso dell’intervento. Anche in questi casi le manifestazioni di volontà espresse non risultano essere
in concomitanza temporale con la lesione e l’intervento medico.
Degratia, “Advance Directives, Dementia and ‘The Someone Else’ Problem”, Bioethics, 1999, 13, pp. 384 ss., e recentemente il saggio di M. Galletti, “Identità personale e testamento biologico: il caso della malattia di
Alzheimer”, Bioetica, n. 3, 2004, pp. 400 ss.
41 R. Dworkin, Il dominio della vita, Aborto, eutanasia e libertà individuale, Milano, 1994, pp. 276 ss., dove gli interessi critici si differenziano
dagli interessi d’esperienza o volizionali e i primi prevalgono rispetto ai
secondi in sede normativa.
M3_06_Testamento
84
16-12-2005
8:26
Pagina 84
LORENZO D’AVACK
Voglio ancora ricordare come la legge sui trapianti di organi (legge n. 91/1999) abbia già da tempo aperto la strada a una
vera e propria rivoluzione in tema di validità del living will,
fondandosi sulla volontà espressa, anche mediante il silenzio,
dal soggetto in vita. D’altra parte sembra preferibile far prevalere una volontà espressa dell’interessato, seppure priva del
requisito della contestualità, rispetto a una volontà presunta,
resa da familiari o da medici. Aggiungasi che non si dubita della validità ed efficacia di un testamento che con le sue formule accolga disposizioni non meramente patrimoniali (riconoscimento di un figlio, volontà relative al proprio cadavere, destinazione delle creazioni intellettuali) in previsione di una
morte futura, neanche quando le circostanze possano suggerire che una decisione assunta a breve distanza dall’evento sarebbe stata del tutto differente.
Diverse etiche che pongono al centro il principio di autonomia possono poi offrire sufficienti spunti speculativi per
contestare le obiezioni che provengono da una concezione
troppo paternalistica di competenza necessaria per dare il
consenso informato all’atto medico. Infatti, la competenza che
rileva non è quella di saper individuare e conoscere le complesse connessioni tra malattia e terapie, ma piuttosto quella
di avere ben presenti le conseguenze della malattia, lo scopo e
la natura degli interventi che si intraprendono, le sofferenze e
le menomazioni che seguiranno. In ciò l’aiuto per ottenere una
competenza necessaria potrebbe provenire proprio dal medico una volta che venga abbandonata una comunicazione fatta
di tecnicismi e di miracolose speranze.
Il morente, o chi lo rappresenta, deve essere messo in grado di comprendere se la qualità della vita che resta corrisponda o meno a un concetto di vita, già manifestato o da manifestare, che a quella materiale dell’organismo privilegia quella
personalizzata dell’individuo.
In merito all’obiezione sub c), mi sembra di scorgere nell’ambito delle posizioni che la sorreggono un punto di compromesso tra tesi contrarie o favorevoli alla voluntas aegroti.
La mediazione sta nel proporre le direttive anticipate come
M3_06_Testamento
16-12-2005
8:26
Pagina 85
SCELTE DI FINE VITA
85
eticamente accettabili e giuridicamente plausibili ma soltanto
in quanto atti che abbiano come fine di eliminare l’abbandono
e la solitudine. In pratica, pur riconoscendo ad esse valenza
etica o eventualmente giuridica (nell’interesse del medico), si
nega che possano essere strumenti di autodeterminazione,
pretesa che determina tutti quei problemi insolubili che stanno dietro la ricerca di un corretto accertamento delle ultime
volontà.
Devo tuttavia constatare che in tale prospettiva il diritto di
autodeterminazione perde la sua posizione centrale. Infatti,
proponendo di lasciare esclusivamente al medico la decisione
se seguire o meno la volontà espressa nelle direttive, è vanificato il valore del documento stesso e delle ragioni che lo giustificano. Coloro che muovono in questa direzione implicitamente fanno propria la tesi che sulle problematiche di fine vita è possibile soltanto affidarsi a quanto già presumibile dal
consenso informato, dal divieto dell’accanimento terapeutico
e dal codice deontologico dei medici.
Al contrario, la volontà espressa dal paziente deve risultare vincolante per il medico e va considerata valida fino a una
esplicita e chiara espressione di ripensamento, o a una sua
inattualità in relazione alla situazione clinica reale del paziente e agli eventuali sviluppi della tecnologia medica o della ricerca farmacologica. Proprio in ciò sta l’autonomia del medico e l’importanza della sua valutazione a fronte delle direttive.
Questo è, del resto, conforme all’art. 9 della Convenzione sui
diritti dell’uomo e la biomedicina, che al titolo “Desideri precedentemente espressi” prevede per quanto riguarda un intervento medico su di un paziente incompetente il dover tenere
conto delle scelte espresse in precedenza. Ciò sta a indicare
che non è possibile, di fronte a dichiarazioni espresse in precedenza, fare prevalere sempre e comunque l’idea che i medici o altri si facciano carico, magari attraverso non chiari richiami alla bioetica relazionale, degli interessi e dei bisogni
del diretto interessato. Anzi, è necessario che si motivi e si
renda conto di ogni scostamento da quella volontà già a suo
tempo espressa.
M3_06_Testamento
86
16-12-2005
8:26
Pagina 86
LORENZO D’AVACK
Un principio questo dell’art. 9 che combinato con l’art. 27
della Convenzione stessa assume un carattere vincolante per
i Paesi che l’hanno sottoscritta, tra cui l’Italia, in considerazione del fatto che si prevede che nessuna delle sue disposizioni possa essere interpretata nel senso di limitare o interferire in qualche modo con la facoltà di ciascuna parte firmataria di garantire una tutela più intensa di quella prevista dalla
presente Convenzione. Il che sta a significare che in sede legislativa gli Stati firmatari potranno ampliare diritti e libertà
del paziente nel manifestare un proprio dissenso idoneo a
sciogliere il vincolo di garanzia che lo lega al medico, ma non
operare alcuna interpretazione riduttiva della Convenzione.
A queste indicazioni si è in parte richiamato il CNB nel suo
documento Dichiarazioni anticipate di trattamento, dove
nelle raccomandazioni bioetiche conclusive è detto “Il CNB
ritiene altresì opportuno ... che la legge obblighi il medico a
prendere in considerazione le dichiarazioni anticipate, escludendone espressamente il carattere vincolante ma imponendogli, sia che le attui sia che non le attui, di esplicitare formalmente e adeguatamente in cartella clinica le ragioni della
sua decisione”.
Associare, infine, alle dichiarazioni anticipate un atto di
nomina di un tutore o rappresentante non mi pare si distacchi dalla stessa Convenzione sui diritti dell’uomo e la biomedicina, che all’art. 6, c. 3 prevede che quando un paziente
“non ha la capacità di dare un consenso a un intervento, questo non può essere effettuato senza l’autorizzazione del suo
rappresentante, di una autorità o di una persona o di un organo designato dalla legge”. Ne consegue che chiunque assista
un paziente incompetente: a) dovrà attivare la procedura per
la nomina di un fiduciario, qualora quest’ultimo non sia stato
già indicato dal soggetto malato; b) dovrà considerare il fiduciario referente d’obbligo per l’inizio, la prosecuzione e la
cessazione dei trattamenti, affinché questi interventi siano
giustificati.
L’obiettivo evidente è quello che ci sia sempre un soggetto
capace di interagire con il medico, in modo tale che l’impossi-
M3_06_Testamento
16-12-2005
8:26
Pagina 87
SCELTE DI FINE VITA
87
bilità di esprimersi del paziente, l’incapacità di autodeterminarsi siano un male contenuto42.
Osservazioni conclusive
In merito a una legislazione eutanasica sono state avanzate
preoccupazioni che concernono non tanto l’eticità di detta
normativa, ma quella dei suoi possibili e probabili effetti socio-culturali: indebolimento della percezione sociale del valore della vita; possibilità di tragici abusi celati tra le maglie della permissività della legislazione; disimpegno pubblico nei
confronti dell’assistenza ai morenti; concreta possibilità di
scivolare verso forme di eutanasia non volontaria.
Anche se non deve essere sottovalutato il rischio che nei
confronti del malato terminale si possa determinare l’aspettativa di una scelta di tipo eutanasico ritenuta socialmente o,
peggio, economicamente preferibile, penso che ciò non dipenda necessariamente dalla liceità o meno dell’eutanasia, ma
dall’attuale cultura della morte. Il modo cioè con cui una società tratta i morenti. Nella trasformazione sociale dalla famiglia estesa, patriarcale, a quella più ristretta, nucleare, anche
il trattamento del morente si è profondamente modificato: da
una vicenda intima, caratterizzata da dedizione e solidarietà, a
una anonima, spesso rifiutata non solo per ragioni psicologiche, ma anche per ragioni pratiche e logistiche-organizzative.
Dalle proprie mura domestiche all’ospedalizzazione con i suoi
costi sociali, con il disagio del medico ad affrontare il tema
della morte, vissuto a volte come sconfitta e inadeguatezza.
Tutto ciò può anche spingere verso la tragica decisione del paziente a porre fine alla propria esistenza. È nostro l’obbligo di
42 Così anche il CNB, che ha previsto che “le dichiarazioni anticipate possono eventualmente indicare i nominativi di uno o più soggetti fiduciari,
da coinvolgere obbligatoriamente, da parte dei medici, nei processi decisionali a carico di pazienti divenuti incapaci di intendere e di volere”.
M3_06_Testamento
88
16-12-2005
8:26
Pagina 88
LORENZO D’AVACK
riflettere sull’elaborazione mentale della sofferenza, dell’emarginazione che genera la malattia e prevenirla laddove sia
possibile. Un compito primario anche per il medico che deve
andare al di là del suo impegno professionale-tecnico e collocarsi, come ha ricordato Veronesi, in una situazione di empatia con il paziente tale da trasformare l’obbligo di curare in
quello di prendersi cura del malato, e maggiormente in quell’estremo spazio di esistenza tra la vita e la morte in cui sembra non poter sussistere alcun legame tra la solitudine di chi
non è più cosciente e la solitudine di chi deve ragionevolmente valutare e decidere43.
In questa prospettiva ancor di più è possibile comprendere, da una parte, come la richiesta eutanasica attribuisca al
medico e al personale sanitario un compito valutativo a volte
reso assai complesso dall’impossibilità materiale di interazione con il paziente e, dall’altra, come l’eutanasia non debba in
alcun modo essere una pratica che induca a facilitare logiche
di abbandono terapeutico, neppure in modo indiretto. Infatti,
le richieste e le direttive fornite dal paziente, a più forte ragione quando espresse (come inevitabilmente il più delle volte
avviene) in forma generale e standardizzata, non dovrebbero
mai essere applicate burocraticamente, bensì calate nella
realtà specifica del singolo paziente e della sua effettiva situazione clinica, tenuto anche e soprattutto conto degli eventuali
sviluppi della tecnologia medica o della ricerca farmacologica. Ma è altresì irrinunciabile che ognuno abbia la possibilità
di vedere rispettate le proprie scelte di fine vita, di modo che
il medico, allontanandosi dal modello paternalistico e da considerazioni di tipo beneficialistico, traduca la sua azione, nei
limiti sopra descritti, in un atto di rispetto per la dignità del
paziente.
43
U. Veronesi, “Eutanasia ed etica del medico”, Bioetica, n. 2, 2003, pp.
228 ss.
M3_07_Testamento
16-12-2005
8:27
Pagina 89
Efficacia del testamento biologico
e ruolo del medico
di Luigi Balestra*
Premessa
Il rapporto medico-paziente è significativamente mutato nel
corso degli ultimi decenni, accrescendosi di una serie di contenuti che hanno decretato un riequilibrio tra i protagonisti.
Tradizionalmente, il paziente era concepito come mero soggetto destinatario – e, per tale motivo, in una posizione di vera
e propria “soggezione” – di scelte di stretta competenza del
sanitario; l’asimmetria di posizione esistente tra le parti del
rapporto, dovuta all’assenza di qualsiasi cognizione dell’ars
medica in capo al paziente e all’impatto emozionale che la malattia provoca in ogni individuo, si ripercuoteva sull’esplicazione dell’attività medica determinando una sorta di “arbitrio
comportamentale” del sanitario cui il paziente si fosse rivolto.
L’idea che nel corso degli anni Settanta del secolo scorso
inizia a farsi strada fa perno sull’autodeterminazione del paziente1 – frutto, a sua volta, di un processo più ampio di auto-
*
Straordinario di Diritto Privato all’Università di Bologna.
Cfr. Neri, Il principio di autonomia, nel documento del CNB sulle dichiarazioni anticipate di trattamento, www.fondazionelanza.it/em/
neri.htm, p. 4, secondo cui nell’ambito dell’etica medica, la dottrina del
consenso informato ha avuto lo stesso significato rivoluzionario che
Kant assegnava all’illuminismo: dare inizio al processo volto a consentire
il superamento dello stato di minorità dell’individuo, assegnandogli il di
1
M3_07_Testamento
90
16-12-2005
8:27
Pagina 90
LUIGI BALESTRA
determinazione dell’individuo2 – il quale, ancorché sfornito di
qualsiasi competenza di natura medica, non può non essere
chiamato a esprimere le proprie opinioni e/o preferenze, in ordine alla condotta del sanitario. Così come in un contratto di
appalto – si perdoni l’improprietà del paragone, per lo meno
sotto il profilo della natura e della rilevanza dell’interesse da
realizzare – il committente, quantunque sprovvisto di cognizioni tecniche, propone, manifesta idee ed esprime desideri3, allo
stesso modo il paziente interagisce con il medico, diviene protagonista delle scelte che lo concernono. E non potrebbe essere diversamente poiché l’interesse da realizzare mediante l’esecuzione dell’attività richiesta, in quello come in questo caso,
ritto e la responsabilità di usare il proprio intelletto. Sul consenso informato la letteratura è ormai vastissima: per un primo orientamento, si veda Nannini, Il consenso al trattamento medico, Milano, 1989, pp. 1 ss.
nonché pp. 389 ss.; Zana, Responsabilità medica e tutela del paziente,
Milano, 1993, pp. 39 ss.; Ferrando, “Consenso informato del paziente e
responsabilità del medico, principi, problemi e linee di tendenza”, Riv.
crit. dir. priv., 1998, pp. 37 ss.; Calò, “Anomia e responsabilità nel consenso al trattamento medico”, Resp, civ. prev., 2000, pp. 1220 ss.; Stanzione, Zambrano, Attività sanitaria e responsabilità civile, Milano,
1998, pp. 257 ss.; Zatti, “Il diritto a scegliere la propria salute” (in margine
al caso S. Raffaele), Nuova giur. civ. comm., II, pp. 4 ss., ove la fondamentale domanda circa la traducibilità dei principi etici in principi e norme giuridiche; Giunta, “Il consenso informato all’atto medico tra principi
costituzionali e implicazioni penalistiche”, Riv. it. dir. proc. pen., 2001,
p. 377. Occorre osservare, peraltro, come non sia possibile ridurre la relazione terapeutica al solo rapporto medico-paziente a causa della crescente importanza del ruolo e dell’autonomia di altre figure professionali
(infermieri, psicologi, fisioterapisti): Borsellino, Bioetica tra autonomia
e diritto, Milano, 1999, p. 69.
2 “Il corpo è mio e me lo gestisco io, si grida, con un senso del possesso
così orgoglioso e ricco, e perfino gioioso, da spazzar via interi scaffali di
biblioteche piene delle preoccupate riflessioni dei giuristi intorno all’impoverimento del concetto di persona, che si sarebbe avuto se questa
avesse considerato il corpo come oggetto di proprietà”, Rodotà, Tecnologie e diritti, Bologna, 1995, pp. 144-145.
3 Significativa al riguardo la disciplina sulle variazioni alle modalità convenute dell’opera (art. 1659 ss. c.c.).
M3_07_Testamento
16-12-2005
8:27
Pagina 91
EFFICACIA DEL TESTAMENTO BIOLOGICO E RUOLO DEL MEDICO
91
pertiene al destinatario della prestazione, il quale nell’attività
medica pone in gioco i “beni” più preziosi di cui è titolare: la
salute e la vita4. All’atteggiamento paternalistico che per lungo
tempo ha connotato l’esercizio della professione medica5, si
sostituisce una visione del rapporto medico-paziente di tipo
collaborativo in cui il medico è chiamato a colmare il gap conoscitivo del paziente e, dunque, a illustrare, informare, prospettare, affinché quest’ultimo – vale a dire il titolare dell’interesse che la prestazione medica è volta a salvaguardare – sia in
grado di esprimere consapevolmente il proprio consenso6.
All’anzidetto mutamento ha certamente contribuito il ripensamento delle basi epistemologiche della medicina che,
fondata da sempre sulla relazione necessaria tra eziologia,
malattia e cura, ha progressivamente acquisito coscienza della possibile molteplicità delle cause delle malattie e, per conseguenza, delle difficoltà che in molti casi si prospettano di
selezionare un preciso trattamento terapeutico7. L’acquisita
4
Con riguardo a tali beni, A. Santosuosso, “A proposito del living will e
di advance directives: note per il dibattito”, Pol. dir., 1990, p. 484, afferma che “sulla distinzione tra vita e salute, si fonda l’argomento giuridico
secondo il quale, fuori dal caso del suicidio, vi sono soltanto atti di disposizione delle cure (come espressione del diritto alla salute), atti che possono anche incidere sulla durata della vita, ma che sono legittimi in quanto non diretti specificamente a causare la morte”.
5 Inteso come “usurpazione della decisionalità di una persona, giustificata da
motivi riferibili al benessere, alla felicità, ai bisogni, agli interessi (...) della
persona stessa”, Borsellino, Bioetica tra autonomia e diritto, op. cit., p. 70.
6 Al recupero della qualità di soggetto del paziente si accompagna la rivendicazione di un approccio alla malattia non solo scientifico ma che
sappia prestare attenzione all’esperienza fenomenologia dell’uomo malato: cfr. Aramini, Introduzione alla bioetica, Milano, 2001, p. 121, ove si
osserva che “la considerazione simultanea dei due approcci danno origine all’antropologia medica, che origina una comprensione globale dell’uomo malato, in cui trova posto di diritto anche la riflessione etica e il
suo progetto di riportare i valori dentro la medicina”.
7 Sul punto cfr. Turoldo, Il testamento biologico: la soluzione? Prospettive e questioni aperte, www.fondazionelanza.it/em/turoldo.htm, ove si
pone in luce il carattere di disciplina probabilistica della medicina.
M3_07_Testamento
92
16-12-2005
8:27
Pagina 92
LUIGI BALESTRA
consapevolezza delle incertezze che possono caratterizzare
l’esercizio della professione medica ne ha d’un tratto posto in
luce un’intrinseca debolezza, che ha comportato il necessario
coinvolgimento del paziente nell’assunzione delle scelte.
A ciò aggiungasi la profonda accelerazione tecnologia verificatasi sul finire del passato millennio che ha reso sempre più
mobili le frontiere estreme della vita e, per conseguenza, accresciuto le possibilità di scelta offerte all’individuo in relazione alla molteplicità di interessi che la persona è in grado di
esprimere8.
Sulla base di tali mutamenti, per certi versi epocali, ha trovato adeguato riconoscimento il principio dell’autonomia del
paziente9, sia pure accompagnato dalla consapevolezza ch’es-
8
Si veda al riguardo Rodotà, Tecnologie e diritti, op. cit., pp. 149 ss.; Mori, “Dai principi della bioetica alle direttive anticipate”, Bioetica, 2001, p.
26; v. anche Vitelli, “L’autodeterminazione del paziente. Fino a dove?”,
Bioetica, 2002, p. 15, ove si sottolinea che “gli avanzamenti prodigiosi in
campo tecnologico, farmacologico, chirurgico – quindi ai fini della terapia, ma altresì della diagnosi e della prognosi – hanno per altro sostanzialmente stravolto il quadro delle patologie a più alto rischio con le quali dobbiamo prevalentemente confrontarci e spesso comportano la sopravvivenza di malati dal destino irrimediabile e in condizioni di vita puramente vegetativa quando non ‘meccanica’”.
9 Anche se nell’esperienza pratica non sempre trova adeguata attuazione,
sicché a più riprese è stata denunciata una certa riluttanza della classe
medica nonché il rischio, per certi versi connesso, di una riduzione del
consenso a mero atto burocratico: si sofferma sugli ostacoli frapposti all’affermazione “di una più adeguata etica della autonomia individuale nelle scelte mediche o terapeutiche”, Lecaldano, “Dall’autonomia del paziente alle carte di autodeterminazione: il contributo della riflessione
bioetica”, Bioetica, 2001, pp. 9 ss.; cfr. da ultimo Calderai, “Il problema
del consenso nella bioetica”, Riv. dir. civ., 2005, II, pp. 327-328, che, con
specifico riguardo alla genetica, afferma che “a dispetto della retorica
sparsa a piene mani sull’autonomia del paziente, la relazione terapeutica
non è mai apparsa più sbilanciata, da quando la possibilità di intervenire
sul menoma ha dissolto il confine tra natura e tecnica”. Sulla presa di posizione, risalente nel tempo, della Chiesa cattolica in merito all’autodeterminazione, si sofferma Mori, “Dai principi della bioetica alle direttive
anticipate”, op. cit., pp. 23-24.
M3_07_Testamento
16-12-2005
8:27
Pagina 93
EFFICACIA DEL TESTAMENTO BIOLOGICO E RUOLO DEL MEDICO
93
so non può coincidere con un’autodeterminazione in senso
pieno e incontrollato a cagione della presenza all’interno del
nostro ordinamento di limiti invalicabili. In effetti, ridisegnato su basi nuove e fortemente incentrate sul concetto di autonomia, il rapporto medico-malato ha posto in luce con evidenza il problema dei contenuti ed, eventualmente, dei limiti
che l’autodeterminazione del paziente incontra10; si tratta di
un nodo cruciale e, al tempo stesso, di difficile risoluzione se
solo si pensa che su un tema di tal genere – che evoca la delicata questione della disponibilità/indisponibilità della salute
e, in ultima analisi, della vita – cultura laica e cultura cattolica si collocano su piani diametralmente opposti11. Del resto,
nel nostro ordinamento non sembrano rinvenibili indici che
depongano nel senso di un riconoscimento integrale del principio di autodeterminazione12, se solo si considera che l’art. 5
c.c. pone un divieto piuttosto ampio agli atti di disposizione
del proprio corpo13 e che l’art. 32 Cost. protegge la salute, non
10
Osserva Galasso, “Biotecnologie ed atti di disposizione del corpo”, Familia, 2001, I, p. 921: “(...) ci si accorge che il principio di autodeterminazione pur abitualmente proclamato dai legislatori di mezzo mondo, e dal
legislatore comunitario in particolare, incontra limiti e vincoli spesso
consistenti, in relazione alle diverse concezioni che vengono assunte come dominanti in ciascun ordinamento quali valori morali maturati nella
coscienza collettiva, nel costume, nell’etica comune. Sicché, in definitiva, il principio di autodeterminazione rischia di sbiadire sensibilmente e
comunque non agisce come criterio assoluto di orientamento”.
11 Per un sintetico esame del dibattito filosofico scaturito dalla Carta dell’autodeterminazione elaborata dalla Consulta di Bioetica nel 1992, v. Iapichino, Testamento biologico e direttive anticipate, Milano, 2000, pp. 71 ss.
12 Per una critica all’esaltazione del consenso v. Cendon, “Il testamento
per morire in pace”, Testamento biologico, direttive anticipate di trattamento, atti del Convegno di Trieste, 6 aprile 2005, www.debanfield.it,
p. 39.
13 È indubbio che nella norma convivano una prospettiva liberal-individualistica, tesa a garantire un ampio spazio di disponibilità, e un’opzione,
risalente all’ideologia fascista, volta a salvaguardare l’integrità del singolo nell’interesse della collettività: cfr. Dogliotti, “Le persone fisiche”,
Tratt. dir. priv., diretto da Rescigno, 2, I, 2a ed., Torino, 1999, p. 93, il
M3_07_Testamento
94
16-12-2005
8:27
Pagina 94
LUIGI BALESTRA
solo come diritto fondamentale dell’individuo, ma anche come interesse della collettività, in tal modo contemplando una
dimensione sia individuale sia collettiva della salute stessa14.
Il testamento biologico quale logica conseguenza
dell’affermazione del principio di autodeterminazione
Il processo appena descritto, ridisegnando i ruoli che i protagonisti della relazione sono chiamati a ricoprire, ha di necessità sollevato il problema del paziente che versi in uno stato di
incapacità e sia dunque impossibilitato a partecipare fattivamente alle scelte che lo riguardano. In casi siffatti, proprio per
ovviare alla situazione di profonda incertezza che viene a determinarsi per effetto dell’incapacità in cui versa il paziente, si
è ormai da alcuni lustri, soprattutto nella cultura nord americana, venuta affacciando l’idea che ciascuno in fasi diverse della propria vita – e, quindi, indifferentemente quando gode di
quale al riguardo osserva che “se in vario modo tale scelta politica appare presente (...), essa appare tuttavia nettamente subordinata alla esigenza ‘liberistica’ di assicurare un’ampia disponibilità del proprio corpo
(...)”; cfr. anche Alpa, Ansaldo, “Le persone fisiche”, Il cod. civ., Commentario diretto da Schlesinger, sub art. 5, Milano, 1996, pp. 247 ss.
14 Ferrando, Consenso informato del paziente e responsabilità del medico, principi, problemi e linee di tendenza, op. cit., p. 47, ove si sottolinea come, sotto il profilo pubblicistico, il diritto alla salute sia inteso in
una duplice accezione: diritto alla salute pubblica e diritto all’assistenza
sanitaria. Sul problema della configurabilità di un dovere alla salute, inteso come obbligo di provvedere alla propria conservazione, si soffermano
Perlingieri, Pisacane (sub art. 32, Commentario alla Costituzione italiana, a cura di Perlingieri, Napoli, 1992, p. 207), per i quali “l’accentuazione della doverosità contrasterebbe con gli artt. 23 e 32, c. 2, e con i valori di libertà e dignità dell’uomo; gli atteggiamenti libertari si scontrano
inevitabilmente con il rispetto del valore della persona, in quanto nell’ottica delle scelte compiute dal costituente l’atto di autonomia che riguarda la persona non è di per sé meritevole di tutela, ma deve sempre tendere alla realizzazione della persona ‘nella libertà ma anche nel rispetto del
suo stesso valore’”.
M3_07_Testamento
16-12-2005
8:27
Pagina 95
EFFICACIA DEL TESTAMENTO BIOLOGICO E RUOLO DEL MEDICO
95
piena salute oppure quando è già colpito da una patologia –
possa predeterminare “ora per allora” le prestazioni e gli interventi medici cui sottoporsi; ove “ora” sta a indicare un preciso
contesto temporale in cui un soggetto perfettamente compos
sui assume una o più determinazioni destinate a essere operative “allora”, nel momento cioè in cui il medesimo soggetto,
perduta la capacità di esprimere la propria volontà, venga a
trovarsi in situazioni che richiedano l’effettuazione di scelte in
ordine alle cure, ai trattamenti e agli interventi da realizzare.
Il cosiddetto testamento biologico è volto pertanto a colmare, sia pure, come si avrà modo di osservare, in modo parziale, lo iato che la sopravvenuta incapacità dell’individuo determina nel rapporto con il sanitario e rappresenta, sotto questo profilo, l’approdo logico del processo di progressiva valorizzazione del consenso informato. È ben vero che attualmente nel nostro Paese non vi è una particolare sensibilità sociale
nei confronti degli interessi che attraverso le direttive anticipate si intendono assecondare; pur tuttavia, da ciò non può ricavarsi la legittimità dell’assunzione di un atteggiamento di indifferenza nei confronti del delicato tema15, posto che il compito del legislatore non si esaurisce nella mera ricezione di
istanze socialmente condivise, ma ben può esplicarsi, allorquando a essere in gioco siano interessi reputati meritevoli di
particolare tutela, in un’ottica promozionale.
D’altra parte, sembra fuorviante sostenere che nel dibattito sul testamento biologico la vera posta in gioco sia la legalizzazione dell’eutanasia16. L’eutanasia è certamente e fortemen-
15 In senso contrario Iadecola, “Note critiche in tema di ‘testamento biologico’”, Riv. it. med. leg., 2003, p. 473, il quale, a proposito delle proposte di legge presentate durante questa legislatura, afferma che si è in presenza “di una ulteriore manifestazione di quel criterio di legiferare, tipico
del nostro Paese, per cui si assecondano talora senza adeguata riflessione, istanze culturali non diffuse, sostanzialmente elitarie, peraltro assai
spesso non ‘originarie’ ma derivate da esperienze di altri ordinamenti a
matrici storico-culturali del tutto diverse (...)”.
16 Così, invece, D’Agostino, Il testamento biologico, www.abuondiritto.it.
M3_07_Testamento
96
16-12-2005
8:27
Pagina 96
LUIGI BALESTRA
te presente nel dibattito, ma la vera posta in gioco è più ampia
e si identifica col tentativo di rivestire di nuovi contenuti la relazione medico-paziente attraverso un “processo di adeguamento della nostra concezione dell’atto medico ai principi di
autonomia decisionale del paziente”17. In una tale prospettiva,
l’eutanasia rimane ai margini della discussione sulla meritevolezza di tutela del testamento biologico ex se e si colloca, più
opportunamente, nel contesto dei limiti cui la “volontà di testare” deve soggiacere al cospetto di un ordinamento che concepisce la vita umana come bene indisponibile.
Della necessità di dar vita a significativi cambiamenti nel
modo di concepire il rapporto tra il medico e il paziente, assicurando, in particolar modo, il rispetto della volontà che quest’ultimo abbia espresso in ordine alle cure cui intende sottoporsi,
costituiscono evidente testimonianza alcuni documenti la cui
approvazione è avvenuta sul finire degli anni Novanta. Si intende far riferimento alla Convenzione sui diritti dell’uomo e la
biomedicina firmata a Oviedo il 4 aprile 1997 e ratificata in Italia con legge 28 marzo 2001, n. 145, nonché al Codice di deontologia medica approvato nel 1998. Per quel che concerne in special modo le direttive anticipate, l’art. 9 della Convenzione di
Oviedo statuisce che i desideri precedentemente manifestati
con riguardo a un intervento medico da un paziente che, al momento dell’intervento non sia in grado di esprimere la sua volontà, saranno tenuti in considerazione; l’art. 34 del Codice di
17
In tal senso lo stesso documento del Comitato Nazionale per la Bioetica sulle Dichiarazioni anticipate di trattamento del 18 dicembre 2003,
ove ulteriormente si afferma che “è come se, grazie alle dichiarazioni anticipate, il dialogo tra medico e paziente idealmente continuasse anche
quando il paziente non possa più prendervi consapevolmente parte”. Sottolinea Rescigno (“La fine della vita umana”, Riv. dir. civ., 1982, I, pp.
655-656), come i molteplici temi legati alla morte siano attraversati, o
quanto meno sfiorati, dall’idea della dignità della morte: “La dignità, ad
essere sinceri, non è invocata come sinonimo di nobiltà della morte (...).
I living wills, le direttive dei formulari sono percorsi dalla paura della
degradazione fisica, della sofferenza inutile, della incoscienza senza via
di uscita, della impossibilità di comunicare”.
M3_07_Testamento
16-12-2005
8:27
Pagina 97
EFFICACIA DEL TESTAMENTO BIOLOGICO E RUOLO DEL MEDICO
97
deontologia medica prevede che “il medico, se il paziente non è
in grado di esprimere la propria volontà in caso di grave pericolo di vita, non può non tener conto di quanto precedentemente
manifestato dallo stesso”. In una prospettiva di legislazione interna, che parrebbe prossima, la Commissione Igiene e Sanità
del Senato ha approvato nel mese di luglio del 2005 un disegno
di legge in materia di dichiarazioni anticipate di trattamento
con l’intento di dare concreta attuazione al principio di autodeterminazione nel campo delle cure mediche18.
In via generale, alla luce dei significativi interventi di cui
si è dato conto, può dunque affermarsi che la posizione di garanzia riconosciuta al medico in ordine alla salute del malato,
pur comportando la doverosità dell’intervento, non può porsi
in conflitto con l’autodeterminazione del paziente il quale, nel
rispetto dei limiti imposti dall’ordinamento a salvaguardia di
valori indisponibili, abbia manifestato una determinata volontà, ancorché in epoca precedente rispetto al momento in
cui si impone la scelta di un determinato trattamento19.
Autodeterminazione del paziente e scelte del medico
Riconosciuta la liceità del testamento biologico astrattamente
considerato20, in quanto diretto a consentire la libera esplica-
18
Si tratta del disegno di legge n. 2943 recante Norme in materia di dichiarazioni anticipate di trattamento comunicato alla Presidenza del Senato il 4 maggio 2004. Nel corso degli anni Novanta sono state elaborate alcune proposte di legge: quella scaturita dalla Carta dell’autodeterminazione elaborata dalla Consulta di Bioetica nel 1992 e quella elaborata da Guido Alpa e sottoscritta da numerosi studiosi (per una documentazione v. Iapichino, Testamento biologico e direttive anticipate, op. cit., pp. 74 ss.).
19 Contra Iadecola, “Note critiche in tema di ‘testamento biologico’”, op.
cit., pp. 473 ss., per il quale la posizione di garanzia del medico comporta
una doverosità di intervento che non può subire condizionamenti dalla
contraria volontà del paziente, anche nelle sue proiezioni verso il futuro.
20 La dottrina manifesta in generale favore nei confronti delle direttive anticipate: cfr. Rodotà, Tecnologie e diritti, op. cit., in part. pp. 169 ss., il
M3_07_Testamento
98
16-12-2005
8:27
Pagina 98
LUIGI BALESTRA
zione della personalità dell’individuo in relazione a interessi
di fondamentale rilevanza21, diventa cruciale stabilire: 1) in
quale direzione possa indirizzarsi la volontà determinativa in
vista della futura incapacità e, conseguentemente, se e quali
siano i limiti cui la predetta volontà soggiace22; 2) quale sia il
ruolo del medico al cospetto delle dichiarazioni anticipate di
trattamento.
Con riguardo alla questione di cui al punto 2)23, si pone invero l’esigenza di contemperare due opposti principi che, se
quale esclude l’esistenza di un obbligo di curarsi: “Nel caso di un esplicito
rifiuto delle cure, anche manifestato in una fase precedente, non credo che
si possa dare al dovere di cura una portata tale da travolgere la volontà dell’interessato. Il diritto alla salute, infatti, non sottintende un obbligo di cura: nel quadro di tale diritto devono ritenersi egualmente ammissibili sia la
volontà di consentire che quella di rifiutare la cura”; Barni, “I testamenti
biologici: un dibattito aperto”, Riv. it. med. leg., 1994, p. 842; Milone, “Il testamento biologico (living will)”, Vita nota, 1997, p. 112; Giunta, Il consenso informato all’atto medico tra principi costituzionali e implicazioni penalistiche, op. cit., pp. 380-381; Rescigno, “Esperienze e realtà del
mondo”, Bioetica, 2001 (suppl.), p. 82; Id., “Il testamento biologico”, La
questione dei trapianti tra etica, diritto, economia, atti del Convegno di
Padova, 3-4 novembre 1995, Milano, 1997, p. 67; Cendon, “Il testamento per
morire in pace”, op. cit., pp. 36 ss., il quale tuttavia ravvisa un rischio nel
testamento biologico: “creare un eccesso di attenzione sul dato negoziale,
sul rispetto della volontà, enfatizzare tutto come se si dovesse fare quello
che ha scelto la persona e anche ai limiti del consenso”.
21 Cfr. Maltese, “Considerazioni etico-giuridiche”, in Testamento biologico, direttive anticipate di trattamento, op. cit., p. 12, per il quale dal principio di uguaglianza che “da un lato, nell’imminenza dell’intervento sanitario, il rifiuto attuale della cura, opposto da persona capace e informata,
trova copertura costituzionale nell’art. 32 Cost., II c.; dall’altro, lo stesso
rifiuto opposto da persona capace e informata, a distanza di tempo, prima
– anche prima – dell’intervento sanitario, trova, del pari, copertura costituzionale nell’art. 32, II c. in virtù del canone di uguaglianza dell’art. 3”.
22 È in tale fase che si prospetta in tutta la sua intensità il problema dell’eutanasia. Per un’analisi dei possibili contenuti delle dichiarazioni anticipate di trattamento v. il citato documento del Comitato Nazionale per
la Bioetica del 18 dicembre 2003.
23 L’analisi delle delicate questioni concernenti il contenuto delle direttive anticipate esula dall’oggetto dell’indagine del presente contributo.
M3_07_Testamento
16-12-2005
8:27
Pagina 99
EFFICACIA DEL TESTAMENTO BIOLOGICO E RUOLO DEL MEDICO
99
condotti alle estreme conseguenze, rischiano di rivelarsi inconciliabili; da un lato, l’autodeterminazione del paziente, il
quale può oggigiorno essere a buona ragione considerato effettivo partecipe nella relazione che intesse con il medico e,
dall’altro, l’autonomia professionale del medico24. La tendenza attualmente in atto verso un riconoscimento sempre più incisivo della libertà di scelta del paziente, qualora dovesse concretizzarsi nella vincolatività delle scelte operate con il testamento biologico, rischierebbe di compromettere gravemente
la professionalità del medico, il quale vedrebbe il proprio operato rigidamente predeterminato da scelte magari effettuate
alcuni anni prima in condizioni e al cospetto di situazioni
profondamente diverse; sarebbe del tutto assente quel percorso, contraddistinto da un dialogo costante e aggiornato che
solo può consentire l’assunzione di scelte consapevoli, che ormai si reputa debba connotare indefettibilmente il rapporto
medico-paziente. Proprio la predeterminazione della volontà,
intesa come carenza di attualità rispetto alla situazione patologica in cui si impone la scelta25, rischia infatti di compromettere l’agire del sanitario il quale, non solo si troverebbe
nell’impossibilità di dialogare col paziente in relazione alla situazione così come concretamente manifestatasi, ma sarebbe
addirittura tenuto ad anteporre a ogni valutazione di tipo pro-
24
Il rischio che le direttive anticipate vengano percepite come “un’imposizione esterna, una sorta di limitazione dell’autonomia professionale del
medico”, è segnalato da Neri, “Note sul documento del CNB sulle ‘Dichiarazioni anticipate di trattamento’”, Bioetica, 2004, p. 196.
25 Il dibattito filosofico ha in particolare posto in luce come la persona
che in un dato momento assume una scelta destinata a valere in futuro
non sia la stessa che in un momento successivo risulti priva della capacità di esprimere le proprie opinioni e su cui quella scelta è destinata ad
incidere; la scelta, invero, riguarderebbe non già l’io di colui che l’effettua ma un altro io, con la conseguenza che le direttive anticipate non sarebbero strumenti per la realizzazione dell’autodeterminazione bensì per
soggiogare altri individui: cfr. sul dibattito Galletti, “Identità personale e
testamento biologico, il caso della malattia di Alzheimer”, Bioetica, 3,
2004, pp. 400 ss.
M3_07_Testamento
100
16-12-2005
8:27
Pagina 100
LUIGI BALESTRA
fessionale la volontà manifestata dal paziente in un momento
precedente, come tale priva di aderenza alla situazione concreta e, soprattutto, ai suoi molteplici risvolti.
La relazione medico-paziente, di per sé già caratterizzata
dalla ricerca di un difficile equilibrio, si complica inevitabilmente a fronte delle direttive anticipate di trattamento a causa della sfasatura tra situazione semplicemente paventata in
occasione dell’assunzione della scelta e situazione così come
concretamente manifestatasi26. L’anzidetta sfasatura rappresenta il vero nodo dilemmatico del rapporto medico-paziente
in relazione al testamento biologico: nodo che una significativa letteratura ha sintetizzato, forse un po’ troppo genericamente, nell’alternativa efficacia vincolante o orientativa delle
direttive anticipate. E in effetti i documenti cui si è fatto in
precedenza riferimento rivelano emblematicamente lo sforzo
di coniugare il rispetto dell’autonomia decisionale del paziente con la professionalità del medico mediante l’impiego di formule per certi versi elastiche: espressioni del tipo “i desideri
del paziente saranno tenuti in considerazione” (art. 9 Convenzione di Oviedo)27 o “il medico non può non tenere conto di
quanto precedentemente manifestato dal paziente” (art. 34
Codice di deontologia medica) introducono una sorta di vincolatività attenuata ovvero, specularmente e a seconda della
prospettiva prescelta, di discrezionalità limitata. Le formule
adoperate (“tenere in considerazione”, “tenere conto”), esplicitamente volte a non irrigidire eccessivamente il ruolo del sanitario, appaiono tuttavia inadeguate nella prospettiva di preservare effettivamente la volontà del “testatore”, poiché sembrano collocare la predetta volontà sul medesimo piano di tut-
26
Cfr. A. Santosuosso, “A proposito del living will e di advance directives: note per il dibattito”, op. cit., p. 487.
27 Nel corso dei lavori che hanno condotto alla sottoscrizione della Convenzione è stata abbandonata l’espressione “respecter le souhaits exprimés”, reputata eccessivamente vincolante. Sulla vaghezza della formula del “tener conto”, v. Neri, “Note sul documento del CNB sulle ‘Dichiarazioni anticipate di trattamento’”, op. cit., p. 196.
M3_07_Testamento
16-12-2005
8:27
Pagina 101
EFFICACIA DEL TESTAMENTO BIOLOGICO E RUOLO DEL MEDICO
101
ta un’altra serie di elementi la cui individuazione e valutazione, essendo rimessa alla discrezionalità del medico, potrebbe
condurre a soppiantare le scelte precedentemente effettuate
dal paziente. In altri termini, con lo stabilire semplicemente
che occorre tenere conto dei desideri del paziente, si indica al
medico soltanto uno dei possibili e molteplici elementi da valutare, come tale privo di specifica efficacia condizionante.
Alla luce di tali ultime osservazioni un’interpretazione, come quella proposta dal Comitato Nazionale per la Bioetica, secondo cui qualora il medico maturasse il solido convincimento
che “i desideri del malato fossero non solo legittimi, ma ancora
attuali, onorarli da parte sua diventerebbe non il compimento
dell’alleanza che egli ha stipulato col paziente, ma un suo preciso dovere deontologico”28, si discosta apertamente dal significato proprio delle espressioni utilizzate poiché vincola sostanzialmente il medico al rispetto delle direttive anticipate
salvo l’accertamento che, alla luce dei progressi della scienza
medica e/o della ricerca farmacologia, le anzidette direttive
siano carenti di attualità. Si attribuisce, in buona sostanza, efficacia piena al testamento biologico salva la verifica, secondo
principi ben noti alla tradizione civilistica, che le circostanze
in cui è maturata la volontà del malato non siano successivamente mutate al punto da renderla praticamente ineffettiva.
Pur tuttavia, il tentativo di ricercare un equilibrio (sicuramente delicato) in modo da escludere tanto il carattere rigida-
28 Cfr. il documento, già citato, del Comitato Nazionale per la Bioetica del
18 dicembre 2003, ove ulteriormente si afferma che “sarebbe infatti un
ben strano modo di tenere in considerazione i desideri del paziente quello di fare, non essendo mutate le circostanze, il contrario di ciò che questi ha manifestato di desiderare”; si veda Neri, “Il principio di autonomia
nel documento del CNB sulle ‘Dichiarazioni anticipate di trattamento’”,
op. cit., p. 8, per il quale la formula “tener conto” è “funzionale alla verifica dell’attualità dei desideri e cioè alla possibilità di accertare, da parte
del medico, che i desideri del suo paziente si applichino alla situazione in
atto e restino validi in relazione all’evoluzione della malattia e delle tecnologie mediche”.
M3_07_Testamento
102
16-12-2005
8:27
Pagina 102
LUIGI BALESTRA
mente vincolante delle scelte anticipate – ciò che sostanzialmente priverebbe il medico di qualsiasi potere decisionale –,
quanto quello orientativo – che, all’opposto, finirebbe con l’attribuire al medico piena libertà decisionale svuotando di efficacia le dichiarazioni del paziente –, non sembra riuscito. Invero la necessità di discostarsi dalle scelte del malato ogniqualvolta se ne ravvisi la carenza di attualità, lungi dall’introdurre un qualsiasi profilo di autonomia nell’attività del medico, risponde unicamente all’esigenza di tutelare la stessa volontà del malato, il quale, qualora fosse stato in condizione di
farlo, avrebbe espresso un diverso volere e, comunque, modificato le scelte precedenti (è evidente che si tratta di una valutazione da esprimere in via meramente ipotetica e, pertanto,
fondata su criteri essenzialmente oggettivi, relativamente a
quella che sarebbe la volontà del malato qualora avesse la capacità di esprimere il proprio consenso).
Occorre a mio avviso porsi in una prospettiva diversa da
quella sinora adottata – vincolatività o meno delle scelte anticipate del malato a seconda dell’attualità delle medesime nel
momento in cui deve attuarsi l’intervento sanitario – per stabilire se e in quale misura il medico sia tenuto al rispetto del testamento biologico. A tal fine, occorre a mio avviso soffermare l’attenzione su due profili ben evidenziati da Cendon. In primo luogo, v’è da considerare la sproporzione, in termini di
precisione e previsione, tra ciò che può essere determinato
nel testamento biologico e la molteplicità dei problemi che la
situazione concreta può prospettare29. A prescindere dalla sfasatura, in precedenza evidenziata, che può venirsi a determinare per la diversità del contesto temporale-ambientale in cui
la volontà è manifestata rispetto al momento cui tale volontà
deve trovare attuazione, si pone un problema di contenuti che,
29
Cendon, “Il testamento per morire in pace”, op. cit., pp. 36-37, secondo
cui in relazione alla molteplicità di dilemmi che si possono prospettare
“il ricorso al testamento biologico potrà gestirne utilmente – ben che vada – un miliardesimo”.
M3_07_Testamento
16-12-2005
8:27
Pagina 103
EFFICACIA DEL TESTAMENTO BIOLOGICO E RUOLO DEL MEDICO
103
per quanto astrattamente minuziosi, si riveleranno nella gran
parte dei casi generici, imprecisi, non sempre pertinenti, rispetto alle peculiarità della situazione da affrontare.
In secondo luogo, anche a voler prendere in considerazioni situazioni patologiche di grande invasività, si constata che
l’incapacità assoluta di esprimere una preferenza e/o un’opinione, è limitata ai casi estremi, quasi marginali ancorché di
grande impatto emotivo30. Solo nelle situazioni più gravi, pertanto, si è in presenza di un’incapacità assoluta, di modo che
diviene prioritario operare una graduazione dei molteplici stadi in cui l’individuo, senza esserne totalmente privo, lamenti
un difetto più o meno significativo della capacità. In tali casi
non si può far riferimento esclusivamente al contenuto del testamento biologico, occorrendo continuare a dialogare con il
malato – dando prova di una sensibilità e di una capacità di
ascolto in verità non sempre riscontrabili nell’esercizio della
professione medica – affinché le determinazioni in esso contenute, attraverso conferme, aggiornamenti, modifiche e integrazioni, possano riacquistare quel carattere di attualità eventualmente perduto col passare del tempo e, soprattutto, acquistare quell’aderenza alla situazione concreta di cui le direttive
anticipate sono – per loro stessa natura – prive. Il testamento
biologico nella prospettiva dianzi indicata diviene per il medico il punto di partenza per la ricostruzione della volontà del
malato così come concretamente manifestatasi – sia pure tra
30
Cendon, “Il testamento per morire in pace”, op. cit., p. 37, il quale, nell’esprimere la convinzione che occorra rinunciare alla parola incapacità,
icasticamente sottolinea che, per quanto possa star male, “la persona fragile è quasi sempre in grado di lanciare – a chi voglia ascoltarlo – dei micromessaggi, di dare dei segnali più o meno percettibili di ciò che vuole e
che non vuole” e così sono “le creature umane finché non chiudono gli
occhi per sempre, sinché non si arresta il loro cuore. Perfino nell’ultimo
giorno di vita, in qualche modo, noi parliamo con le smorfie, con rumori,
con occhiate, col corpo, e cerchiamo di comunicare con chi ci vuole
ascoltare”; cfr. anche Borsellino, Bioetica tra autonomia e diritto, op.
cit., p. 86, secondo cui è insostenibile “l’idea che lo stato di incapacità sia
una situazione unica, compatta, non disarticolabile”.
M3_07_Testamento
104
16-12-2005
8:27
Pagina 104
LUIGI BALESTRA
innumerevoli difficoltà a causa del progredire della patologia
– nel corso del tempo.
Al di là di ogni considerazione circa i limiti di liceità cui va
incontro la volontà del malato – la cui valutazione, come già
sottolineato, esula dall’indagine del presente contributo – a
me pare che il testamento biologico, cui certamente va riconosciuto il merito di accrescere di significati il ruolo del malato nella difficile relazione con il sanitario e che, per tali motivi, va certamente incentivato, non possa tuttavia assumere carattere vincolante per il medico col solo limite della verifica
della sussistenza del requisito dell’attualità. Il testamento biologico, lungi dall’imporre un rigido vincolo, deve piuttosto servire a responsabilizzare ulteriormente il medico, sul quale incombe l’obbligo di valorizzare la volontà del paziente nel contesto dei molteplici elementi caratterizzanti la situazione concreta e, nel caso decida di discostarsene, di darne adeguata e
plausibile motivazione alla luce di criteri oggettivamente riscontrabili e apprezzabili. La volontà del malato diviene così
un elemento che concorre alla formazione delle scelte del medico; scelte che, sebbene condizionate, non sono tuttavia rigidamente vincolate dalle direttive anticipate31.
In conclusione, nell’affrontare la delicata questione relativa
all’efficacia del testamento biologico sembra corretto superare
31
Del resto, al di là delle difformi interpretazioni proposte e di cui si è
più sopra dato conto, la Convenzione di Oviedo e il Codice di deontologia medica si muovono chiaramente in questo senso laddove stabiliscono che occorre tener conto delle scelte anticipate manifestate dal paziente. Si è già sottolineato come nel corso dei lavori che hanno condotto alla sottoscrizione della Convenzione di Oviedo è stata abbandonata l’adozione di formule più incisive e, per tale motivo, ritenute eccessivamente
vincolanti.
Nel senso di una maggiore vincolatività si muove, invece, il disegno di
legge recentemente approvato dalla Commissione Igiene e Senato della
Camera dei deputati (cfr. nota 18); si enuncia infatti il carattere impegnativo delle direttive contenute nel testamento di vita, le quali possono essere disattese dal sanitario solo “quando non più corrispondenti a quanto
l’interessato aveva espressamente previsto al momento della redazione
M3_07_Testamento
16-12-2005
8:27
Pagina 105
EFFICACIA DEL TESTAMENTO BIOLOGICO E RUOLO DEL MEDICO
105
la rigida alternativa efficacia vincolante/orientativa, per porre
l’attenzione sul ruolo del medico: costui è chiamato a effettuare
una valutazione ulteriore di tutti gli elementi scaturenti dalla situazione patologica concreta in cui versa il malato – con adeguata considerazione dei messaggi, dei segnali, che il malato
continua ancora a trasmettere32 – in relazione alle direttive manifestate dal medesimo in un’epoca precedente, per poi orientare le scelte alla luce di tale complessiva ponderazione. In tale
ottica, il principio di autodeterminazione del paziente, che ormai rappresenta un punto di riferimento ineliminabile attraverso la cui lente guardare alla relazione medico-paziente, subisce
un contemperamento, giustificato dal fatto che le direttive del
malato – in quanto elaborate antecedentemente – sono prive,
per lo meno in modo integrale, di aderenza alla situazione così
come concretamente profilatasi agli occhi del sanitario.
Invero, non può non sottolinearsi come il rapporto medico-paziente si connoti in termini parzialmente differenti a seconda che il sanitario abbia a che fare con un soggetto pienamente cosciente ovvero con un soggetto privo totalmente (o
quasi totalmente) della capacità di intendere e di volere ma
che tuttavia abbia precedentemente manifestato una determinata volontà in ordine alla scelte sanitarie da intraprendere.
L’impossibilità di interagire col paziente nel momento in cui si
tratta di effettuare la scelta si ripercuote necessariamente sul
concreto atteggiarsi del rapporto e, per conseguenza, sul delicato ruolo del medico.
della dichiarazione anticipata di trattamento, sulla base degli sviluppi
delle conoscenze scientifiche e terapeutiche” (art. 13, c. 6 ove si aggiunge
che in tal caso occorre indicare compiutamente la motivazione della propria decisione nella cartella clinica). Ad avviso di chi scrive era preferibile la vecchia formulazione del comma in questione, laddove prevedeva la
possibilità per il medico di discostarsi dalle direttive contenute nel testamento di vita ogniqualvolta fossero divenute inattuali ovvero inadeguate
dal punto di vista scientifico e terapeutico.
32 Cfr. Cendon, “Il testamento per morire in pace”, op. cit., p. 37, ove si
sottolinea la necessità di procedere “senza vincoli troppo stringenti sul
terreno formale tanto più quanto più il panorama sia complesso”.
M3_07_Testamento
16-12-2005
8:27
Pagina 106
M3_08_Testamento
16-12-2005
8:27
Pagina 107
Il testamento biologico: perché?
di Rossana Cecchi*
Il Comitato Nazionale di Bioetica nella seduta del 18 dicembre
2003 ha concluso il documento “Dichiarazioni anticipate di
trattamento” dando, in questo modo, legittimità a un argomento da sempre temuto in Italia, tanto da renderne difficile anche la sola discussione: il consenso anticipato all’atto medico
dell’avente diritto.
Il documento approvato dal CNB non è, ovviamente, legge,
però, come sempre è avvenuto sinora per molte raccomandazioni del Comitato, certamente costituirà il punto di partenza
di un lungo iter legislativo che porterà a una legge dello Stato
su questo difficile argomento.
E questo sembra già un fatto importante.
Successivamente, il 2 febbraio 2005 il Cardinale Francesco
M. Pompedda, già Prefetto della Signatura apostolica e già Decano della Sacra Rota romana, ha affermato in una trasmissione televisiva che il testamento in vita è “positivo sotto l’aspetto giuridico-logico ed è anche apprezzabile nel contenuto etico-religioso” e “coincide pienamente con il catechismo della
Chiesa cattolica e confacente con la dottrina della Chiesa”, affermando che “ogni individuo deve poter autodeterminarsi
per quanto riguarda il trattamento sanitario da subire”1.
*
1
Professore Associato all’Università La Sapienza, Roma.
Comunicato dell’Agenzia AGI, diramato il 2 febbraio 2005.
M3_08_Testamento
108
16-12-2005
8:27
Pagina 108
ROSSANA CECCHI
E anche questo appare un fatto molto importante.
Sempre più spesso i mass media si confrontano con temi
riguardanti richieste estreme da parte di pazienti gravemente malati o dei loro congiunti, spingendo in tal modo anche i
cittadini a discutere di un argomento forse fino a poco tempo prima lontano dalla mente di molti. È auspicabile, pertanto, che, come è già avvenuto in passato per altri temi di
carattere medico, anche questa volta la discussione dilaghi
coinvolgendo non solo ambienti, per loro costituzione già
inclini a occuparsi di questi temi, come la medicina, la filosofia, la sociologia, la psicologia, l’antropologia, ma anche
aree della società distanti, impegnate in ambiti totalmente
differenti.
Questo scritto si pone come obiettivo quello di favorire
una sistematizzazione del problema del consenso ai trattamenti medici, delineandone l’iter evolutivo nei decenni, che si
è spinto sino alla previsione di una dichiarazione di volontà
anticipata rispetto a un trattamento che si renda necessario in
un tempo successivo, e fornendo gli elementi utili a un dibattito costruttivo sull’argomento.
Basi giuridiche del consenso all’atto medico
Per poter affrontare l’argomento del consenso all’atto medico
in modo organico, appare indispensabile chiarire – senza pretese di essere esaurienti – perché, affinché un atto medico sia
legale, esso debba essere preceduto dal consenso del paziente.
La risposta risiede in primo luogo nell’art. 32 della Costituzione italiana2 che afferma la tutela della salute come fonda-
2 “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti.
Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se
non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i
limiti imposti dal rispetto della persona umana”.
M3_08_Testamento
16-12-2005
8:27
Pagina 109
IL TESTAMENTO BIOLOGICO: PERCHÉ?
109
mentale diritto dell’individuo e stabilisce che nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non
per disposizione di legge. Da ciò deriva la necessità che vi sia
una espressione di libertà dell’individuo nell’accettare un trattamento di natura sanitaria.
Parimenti, l’art. 13 della Costituzione afferma che “la libertà personale è inviolabile”, rafforzando, quindi, il dato di
indipendenza dell’individuo nelle scelte che lo riguardano personalmente. D’altro canto, l’art. 5 del codice civile stabilisce
che “gli atti di disposizione del proprio corpo sono vietati
quando cagionino una diminuzione permanente dell’integrità
fisica”, di conseguenza molti trattamenti medici potrebbero
essere considerati illegali in quanto procurano una lesione
dell’integrità fisica del soggetto. Questo problema è stato giuridicamente risolto proprio grazie al consenso all’atto medico
laddove l’autorizzazione del paziente a una diminuzione della
propria integrità fisica viene data al fine di raggiungere un bene superiore, quello della salute. Basti pensare agli atti chirurgici di menomazione di parti del corpo che portano all’asportazione di organi o parti di essi colpiti da gravi patologie. La
menomazione in questi casi è strettamente legata al conseguimento della cura.
Evoluzione deontologica del consenso all’atto medico
Lo studio dei codici deontologici medici succedutisi negli anni e l’analisi di come i vari argomenti vengono in essi trattati,
permette di conoscere l’evoluzione che i vari temi di interesse
medico hanno subito negli ultimi decenni.
Il codice deontologico, infatti, è la posizione ufficiale assunta dall’Ordine dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri su
come debba orientarsi il comportamento del medico nei vari
ambiti che lo coinvolgono. In esso vengono affrontati i temi a
valenza etica più importanti e per ciascuno vengono indicate
le norme di buon comportamento del medico. Diviene, perciò,
di grande interesse studiare come nel corso degli anni il com-
M3_08_Testamento
110
16-12-2005
8:27
Pagina 110
ROSSANA CECCHI
portamento indicato muti, espressione di un’evoluzione culturale, scientifica e giuridica3.
Sin dal codice deontologico del 1954 – definito Codice Frugoni e mai ufficializzato4 – il tema del consenso era stato affrontato affermando “il consenso può essere validamente prestato solo da chi conosce esattamente l’oggetto e le conseguenze del consenso stesso, la qual cosa può avvenire solo eccezionalmente nei rapporti tra medico e malato”5. Viene così
stabilito che il consenso può essere richiesto solo dal medico.
Più sottile, per le conseguenze che ne derivano e che vedremo
esplicitarsi in ambito giurisprudenziale, è l’affermazione che
segue: “All’atto di stipulazione del contratto di prestazione
d’opera tra medico e malato si ha una manifestazione di volontà che implicitamente comprende il consenso all’impiego
di quei mezzi che il medico ritiene opportuni”. Si afferma,
quindi, che l’atto stesso di rivolgersi a un medico sottintende
da parte del paziente la prestazione di un consenso a qualsiasi
atto medico venga deciso.
Viene ritenuto, invece, necessario – quindi da prestarsi in
modo esplicito – il consenso del malato “soltanto in quei casi nei quali lo scopo desiderato può essere conseguito con
identità di risultato (che può essere certo o incerto) adottando trattamenti diversi, ovvero quando il risultato prevedibile
non giustifichi di per sé il rischio di un dato intervento, che
quand’anche utile, non può essere considerato necessario”.
Il consenso esplicito, pertanto, si rende obbligatorio nei casi
3
La presente trattazione non pretende di essere esaustiva e per maggiori
approfondimenti si consigliano i testi di G.A. Norelli, G. Dell’Osso, Codice
deontologico e deontologia medica, Giuffré, Milano, 1980; V. Fineschi, A.
Marzi, E. Mazzeo, A. Dell’Erba, P. Manna, Il nuovo codice di deontologia
medica commentato articolo per articolo, Giuffré, Milano, 1991; V. Fineschi (a cura di), Il codice deontologico medico, Giuffré, Milano, 1996.
4 M. Barni, Luci e ombre del nuovo codice di deontologia medica, Zacchia, 53, 1978, pp. 237-249.
5 T.G. Formaggio, Deontologia medica e legislazione sanitaria, SEP, Pavia, 1958, p. 639
M3_08_Testamento
16-12-2005
8:27
Pagina 111
IL TESTAMENTO BIOLOGICO: PERCHÉ?
111
in cui vi siano diversi trattamenti che raggiungono lo stesso
scopo e, quindi, spetta al paziente scegliere quale – e quando
vi siano rischi per il paziente non giustificati dalla reale necessità dell’intervento prescelto. Anche se apparentemente
coerenti con gli orientamenti attuali, queste affermazioni
hanno portato a pronunce giurisprudenziali piuttosto criticabili (v. oltre).
Il tema del consenso all’atto medico, nel codice deontologico del 1978, viene affrontato agli artt. 30 e 39. L’art. 39 stabilisce che il consenso del paziente è obbligatorio quando nel trattamento proposto è insito un rischio e il consenso espresso
dev’essere valido. Il codice non stabilisce cosa debba intendersi per valido, e lo si deve dedurre dalle sentenze espresse. Nei
casi in cui il consenso rifiutato sia indispensabile, il medico è
tenuto, inoltre, a farsi rilasciare una dichiarazione liberatoria
dall’interessato o dai suoi familiari. È evidente come la libertà
di scelta dei trattamenti da parte del paziente sino a quel momento non fosse stata ancora recepita dalla cultura medica,
tanto da indurre a ritenere obbligatoria una dichiarazione liberatoria onde evitare qualsiasi risvolto penale.
Il problema della malattia a prognosi infausta viene affrontato nell’art. 30, laddove si precisa che la prognosi può essere
nascosta al paziente, ma dev’essere riferita alla famiglia. Ciò,
oggi, appare anacronistico, e dimostra l’approccio paternalistico dell’epoca, per cui si tendeva a proteggere il paziente
dalla verità, tanto da giungere a nasconderla, dando ai parenti
il diritto di vicariarlo nella decisione.
In ogni modo, veniva anche sancito che la volontà del paziente deve ispirare il comportamento del medico, salvaguardando, laddove esistesse una espressione di volontà del malato, un minimo di influenza da parte di quest’ultimo sulle scelte
che lo riguardavano.
Nel 1978, quindi, si considerava già l’importanza del consenso e della sua validità, ma essenzialmente in presenza di
pericolo nel trattamento, mentre la volontà del paziente era
considerata semplicemente come ispiratrice del comportamento del medico. I familiari, invece, svolgevano un ruolo
M3_08_Testamento
112
16-12-2005
8:27
Pagina 112
ROSSANA CECCHI
centrale, che giungeva sino a sostituirsi al rapporto medicopaziente.
Molti anni trascorrono prima che venga pubblicato, nel
1989, un nuovo codice deontologico. Nel corso di questi anni
il dibattito su alcuni temi medici si fa incalzante, tanto da portare a un cambiamento culturale incisivo e a una consapevolezza da parte della pubblica opinione talmente forte che gli
effetti sono ben palesi nella stesura del codice stesso.
Già l’art. 40 del codice del 1989, infatti, opera una sorta di
rivoluzione, per cui la richiesta del consenso diventa un dovere vero e proprio per il medico, da attuarsi sempre, sia per le
attività terapeutiche che diagnostiche, e, quindi non più solo
quando vi siano rischi, casi, questi ultimi, in cui il consenso
dev’essere dato in modo esplicito, cioè per iscritto.
Finalmente si ha anche una miglior precisazione delle caratteristiche che deve avere il consenso stesso, e per la prima
volta si fa riferimento all’informazione da dare al paziente.
L’art. 39, infatti, è molto chiaro nell’indicare al medico che è
suo dovere dare un’informazione, specificando anche su cosa
egli debba informare: la diagnosi, la prognosi, le prospettive terapeutiche e le loro conseguenze. Viene addirittura indicato il
modo in cui l’informazione dev’essere data (tenendo conto del
livello di cultura e delle capacità di discernimento del paziente) e il medico deve far capire al paziente che le conoscenze
mediche hanno un limite e deve rispettare i diritti del paziente.
Tutto ciò al fine di promuovere la miglior adesione del paziente alle proposte terapeutiche. Il rapporto medico-paziente diventa così un rapporto alla pari, dove il paziente non è più colui che si affida – fidandosi completamente – alle cure del medico (rapporto paternalistico), ma al contrario chiede e pretende dal medico di ottenere tutte le informazioni necessarie affinché lui, e solo lui, possa decidere, con tutti gli elementi a disposizione, a quale trattamento aderire. Tale presa di posizione
verrà recepita anche dalla giurisprudenza con la sentenza n. 13
della Corte di Assise di Firenze del 13.10.1990.
È chiaro che un rapporto così impostato responsabilizza
anche maggiormente lo stesso paziente nel momento in cui
M3_08_Testamento
16-12-2005
8:27
Pagina 113
IL TESTAMENTO BIOLOGICO: PERCHÉ?
113
accetta la terapia. Ed è proprio questo il cammino che ha portato al cosiddetto informed consent, consenso informato, che
se da un lato impegna maggiormente il medico nel rapportarsi
al paziente, dall’altro pone il paziente su un piano di autorità
verso se stesso di cui, di conseguenza, deve rispondere in prima persona.
La possibilità di nascondere una prognosi infausta continua a essere ammessa, ma viene circoscritta “segnatamente
in rapporto con la reattività del paziente”. Si considera anche
la possibilità di attenuare la verità, ma rimane l’obbligo, in
questi casi, di riferirla ai parenti. Allo stesso modo viene ribadita l’asserzione per cui la volontà del paziente deve servire
da ispirazione al comportamento del medico.
Quest’ultima affermazione trova maggior enfasi nell’art.
40, laddove si afferma che in presenza di un esplicito rifiuto
del paziente capace di intendere e di volere, il medico è tenuto alla desistenza da qualsiasi atto diagnostico e curativo; ciò
costituisce una prima importante presa di posizione verso la
libertà decisionale del paziente che ispirerà i futuri testamenti
biologici e trova il proprio fondamento giuridico nell’art. 32
della Costituzione. Viene in questo modo sanata l’incongruenza per cui l’art. 39 del codice del 1978 prevedeva la dichiarazione liberatoria da parte del paziente o dei familiari in caso di
rifiuto di cure.
Si affronta in modo diretto anche il problema dei trattamenti ad alto rischio che devono essere intrapresi solo in caso
di estrema necessità, preceduti da una congrua informazione
e devono essere accompagnati da un’opportuna documentazione del consenso.
Di grande importanza è l’art. 44 che afferma che “ove si accompagni difetto di coscienza” – e questo è il primo passo verso le situazioni per le quali oggi si discute di dichiarazioni anticipate di trattamento – “il medico dovrà agire secondo scienza e coscienza proseguendo nella terapia finché ragionevolmente utile”. Si lascia, quindi, al medico il pesante fardello di
decidere cosa sia ragionevolmente utile per il paziente. È ovvio che questa posizione ha comportato una maggior propen-
M3_08_Testamento
114
16-12-2005
8:27
Pagina 114
ROSSANA CECCHI
sione verso forme di accanimento terapeutico, avvertito dal
medico, lasciato solo a decidere, come la decisione meno impegnativa per la propria coscienza.
Ciononostante, l’art. 44 va considerato un articolo “rivoluzionario” in quanto per la prima volta viene presa in considerazione, quale parametro di comportamento nel caso di malati
terminali, la qualità della vita. Allo stesso tempo si comincia
a introdurre e ad applicare il concetto di accanimento terapeutico (la cui definizione si trova nell’art. 20)6 nel momento
in cui si afferma che, qualora questa sia la volontà del paziente, il medico può limitare la sua opera alla terapia del dolore
con trattamenti appropriati e conservando, appunto, la qualità di una vita che si spegne.
L’art. 44 prosegue affrontando un tema che non interessa
in questa sede, quello della morte cerebrale – all’epoca ancora
non risolto del tutto a livello giurisprudenziale –, dando, però,
delle indicazioni preziose che verranno accolte dal Comitato
Nazionale di Bioetica nel 1991 e, successivamente, dal legislatore stesso nel 1993 con la legge 578 recante le Norme per l’accertamento e la certificazione di morte.
Il codice del 1995, nell’art. 29, affina le indicazioni contenute nell’art. 39/1989 su come debbano essere fornite le informazioni per un valido consenso precisando che il medico, oltre che del livello di cultura del paziente, deve tener conto anche della sua emotività, e che l’informazione data, oltre che la
più serena, deve essere anche la più idonea, con ciò evitando
che la necessità di dover dare un’informazione serena possa
andare a discapito dell’effettiva adesione dell’informazione alla realtà della patologia. Viene precisato che l’informazione
deve riguardare non solo le conseguenze “verosimili” dell’atto
medico da intraprendere, che lascia spazio a una serie di com-
6 “Il medico deve astenersi dal cosiddetto accanimento diagnostico-terapeutico consistente nell’irragionevole ostinazione in trattamenti da cui
non si possa fondatamente attendere un beneficio per il paziente o un
miglioramento della qualità della vita”.
M3_08_Testamento
16-12-2005
8:27
Pagina 115
IL TESTAMENTO BIOLOGICO: PERCHÉ?
115
plicanze non prevedibili, ma sempre possibili, in medicina, ma
ciò che potrebbe conseguire alla mancata adesione alla terapia. Così facendo, il paziente viene responsabilizzato in modo
più concreto sulle proprie decisioni.
Le ulteriori indicazioni contenute nell’art. 29/1995, laddove
ammettono che le informazioni possano “essere circoscritte a
quegli elementi che cultura e condizione psicologica del paziente sono in grado di recepire e accettare, evitando superflue precisazioni di dati inerenti agli aspetti scientifici”, recepiscono pienamente le raccomandazioni promulgate dal CNB
nel documento Informazione e consenso all’atto medico del
1992, che consiglia di fornire le informazioni secondo il modello cosiddetto standard medio, che “impone di dire quanto
una persona ragionevole, pensata come media all’interno di
una comunità, vorrebbe sapere e potrebbe comprendere della
procedura medica che la riguarderà (con vantaggio del livello
divulgativo dell’esposizione, ma con le ambiguità legate alle
nozioni di ragionevole e medio)”, evitando lo standard professionale che implica precisazioni di dati inerenti agli aspetti
scientifici, ma, e questo è molto importante, evitando anche lo
standard soggettivo, in cui si rischia la deformazione paternalistica informando solo su cosa il paziente “qui e ora vuole e
può comprendere”.
La rinuncia allo standard soggettivo impone anche un decisivo cambiamento nell’approccio al paziente con patologie a
prognosi infausta. Al contrario di quanto veniva affermato nell’art. 39/1989 che ammetteva l’informazione solo ai congiunti,
qualora ciò fosse stato ritenuto più opportuno, nell’art.
30/1995 viene, invece, imposto al medico di informare il paziente in prima persona “con circospezione, usando terminologie non traumatizzanti senza escludere mai elementi di speranza” e, l’informazione ai congiunti viene ammessa solo con
il consenso del paziente stesso (art. 31/1995). Ciò in accordo
con il CNB che, nel documento del 1992, suggeriva di parlare
al malato grave di “malattia importante, di serietà della situazione, di necessità di particolari, delicate indagini, di terapie
che possono comportare dei rischi, di lasciare sempre margi-
M3_08_Testamento
116
16-12-2005
8:27
Pagina 116
ROSSANA CECCHI
ni di speranza”. È evidente l’evoluzione culturale in ambito di
capacità decisionale (competence) del singolo sulla propria libertà alla salute.
Una nuova piccola rivoluzione viene apportata con l’art.
31/1995 laddove afferma che il consenso scritto serve solo come integrazione del consenso informato, previsto dall’art. 29,
e non lo sostituisce, svilendo così il ruolo che il consenso
scritto ha sempre avuto, a favore di un’informazione che deve
essere data sempre e comunque per qualsiasi atto medico, con
la stessa chiarezza circa le motivazioni, i rischi, le terapie alternative possibili, ecc., con la sola differenza che, quando “il
procedimento diagnostico o terapeutico possa comportare un
grave rischio per l’incolumità del paziente”, tutti i chiarimenti,
a integrazione, dovranno essere posti per iscritto e controfirmati dal paziente. In tal modo si eviteranno, ad esempio, le situazioni per cui un giudice, chiamato a valutare l’operato del
medico, non prende in considerazione il consenso scritto per
il fatto che esso sia “standardizzato”, cioè privo di elementi
che lo rendono specifico di quel paziente.
Anche nel codice del 1995, con l’art. 31, viene affermato con
forza il dovere del medico di desistere da qualsiasi atto medico in caso di esplicito rifiuto da parte del paziente. L’aver posto
questa indicazione nel contesto di un articolo dedicato alle
procedure diagnostico-terapeutiche particolarmente rischiose
e/o invasive, contribuisce a dare maggior enfasi alla libertà decisionale del paziente, il quale ha pieno diritto anche da un
punto di vista etico/deontologico di rifiutare qualsiasi trattamento considerato eccessivamente invasivo per se stesso.
È evidente come il cammino verso le direttive anticipate
sia ormai inevitabile, anche se persiste, con l’art. 34, il dovere
del medico di prestare l’assistenza e le cure indispensabili,
qualora sussistano condizioni di necessità e urgenza e in casi
implicanti pericolo per la vita di un paziente che non possa
esprimere al momento una volontà contraria. Con ciò viene riconfermata la discrezionalità del medico nelle decisioni da
prendere in caso di impossibilità di espressione diretta della
volontà da parte del paziente, con il limite, comunque, di atte-
M3_08_Testamento
16-12-2005
8:27
Pagina 117
IL TESTAMENTO BIOLOGICO: PERCHÉ?
117
nersi alla sola assistenza e alle cure indispensabili. Permane,
anche in questi casi, il divieto dell’accanimento terapeutico.
Con la pubblicazione dell’ultimo codice deontologico, nel
1998, appare evidente che l’argomento relativo al consenso
sia ormai un fatto acquisito dalla cultura medica. L’art. 30/1998
riferisce in modo chiaro e semplice quali siano i requisiti dell’informazione da fornire ai fini di un consenso al trattamento
(diagnosi, prognosi, prospettive, eventuali alternative terapeutiche, prevedibili conseguenze delle scelte operate). Stabilisce
che l’informazione dev’essere idonea, quindi aderente alla
realtà e data tenendo conto delle capacità di comprensione
del paziente, in modo da favorirne la massima adesione alle
proposte diagnostico-terapeutiche. Non si fa più riferimento a
eccessi paternalistici o professionali probabilmente dando
per acquisito che lo standard dell’informazione debba essere
quello medio, il cui raggiungimento potrebbe essere sintetizzato in ciò che Lecaldano definisce come la “competenza decisionale” del paziente per la quale, non conta riuscire a seguire “complesse connessioni tra malattie e terapie, ma piuttosto
(...) avere chiarezza sui dolori e le sofferenze previste, le menomazioni, la durata e la qualità della vita che resta”7.
Viene confermato che nei casi di prognosi infausta le informazioni debbano essere fornite con prudenza e con termini
non traumatizzanti, direttamente al paziente, a meno che (e
questo è un fatto nuovo) non sia egli stesso a chiedere, per
iscritto, che venga informata in sua vece una terza persona.
È importante questo nuovo passaggio perché introduce
per la prima volta la figura del “delegato”, persona non necessariamente legata al paziente da vincoli di parentela al quale
possono essere fornite le informazioni. L’art. 31, infatti, non
parla più come l’art. 30/1995, di informazione “a congiunti”,
ma di informazione “a terzi” e richiede per la prima volta l’au-
7 E. Lecaldano: “Dall’autonomia del paziente alle carte di autodeterminazione: il contributo della riflessione bioetica”, Bioetica, n. 2, 2001 suppl.;
pp. 9-18.
M3_08_Testamento
118
16-12-2005
8:27
Pagina 118
ROSSANA CECCHI
torizzazione del paziente fornita in modo esplicito, quindi per
iscritto. Il capovolgimento, rispetto ai codici precedenti, è testimoniato dalla raccomandazione contenuta sempre nell’art.
31/1998, di raccogliere, in caso di ricovero ospedaliero, eventuali nominativi delle persone preliminarmente indicate dal
paziente a ricevere la comunicazione dei dati sensibili.
Tale novità, evidentemente resasi necessaria a seguito della legge sulla privacy e dell’importanza che la privacy dei singoli sta assumendo sempre più nel pensiero collettivo, fornisce contemporaneamente argomenti che, come vedremo, saranno decisivi per l’acquisizione culturale anche della necessità di direttive anticipate da parte di pazienti o di potenziali
futuri pazienti.
L’art. 34/1998, laddove stabilisce che “il medico deve attenersi, nel rispetto della dignità, della libertà e dell’indipendenza professionale, alla volontà liberamente espressa della persona” concede al medico di rispettare la volontà espressa dal
paziente sempre però partendo dalla propria libertà professionale. Ciò potrebbe portare a delle interpretazioni ambigue del
consenso del paziente, alterate dalla personalizzazione operata dal medico. È evidente che l’intenzione dell’articolo sia di
tutelare la coscienza del medico nello svolgimento della professione, oltre che il volere del paziente. Ritengo che forse,
nel prossimo codice dovrebbe aggiungersi che, nei casi in cui
il medico non sia d’accordo con quanto richiesto dal paziente,
per correttezza, lo inviti a rivolgersi ad altro curante. Tale
comportamento è, d’altronde, da sempre previsto dal codice
nei casi di disaccordo nel rapporto medico-paziente.
Per quanto attiene l’art. 35/1998, vale quanto già asserito
per l’art. 34/1995.
Un limite a questa libertà di azione del medico viene comunque sempre dall’art. 34/1998 – e ciò dev’essere accolto
con grande plauso dato che mostra l’evidente sforzo operato
dall’Ordine dei Medici – laddove afferma che “il medico, se il
paziente non è in grado di esprimere la propria volontà in caso di grave pericolo di vita, non può non tenere conto di quanto precedentemente manifestato dallo stesso”. È evidente che
M3_08_Testamento
16-12-2005
8:27
Pagina 119
IL TESTAMENTO BIOLOGICO: PERCHÉ?
119
tale affermazione scaturisce dalla consapevolezza da parte
dell’Ordine di un cambiamento socio-culturale ormai avviato
e avanzato in gran parte del mondo occidentale. Certamente
la presa di posizione del Consiglio d’Europa con la Convenzione sui diritti dell’uomo e la biomedicina promulgata il 4
aprile 1997, in cui all’art. 9 viene sancito che “le volontà relative a un trattamento medico, precedentemente espresse dal
paziente il quale, al momento dell’intervento, non è in grado di
esprimere la propria volontà, devono essere tenute in considerazione”8, sia stata fondamentale per tale svolta deontologica. L’art. 34/1998, da canto suo, ha svolto certamente il ruolo
di rassicurare il Parlamento italiano della necessità di ratificare la Convenzione di Oviedo, cosa che lo stesso ha effettuato
con la legge n. 145 del 28 marzo 2001.
Evoluzione giurisprudenziale del consenso all’atto medico
I cambiamenti apportati di volta in volta dai codici deontologici, che si sono susseguiti negli anni, hanno corrisposto a
nuove prese di posizione in ambito giurisprudenziale, o ne sono stati influenzati.
Riteniamo interessante far qualche accenno alle più importanti sentenze pronunciate in Italia dal 1960 a oggi in tema di
responsabilità medica per mancato consenso, al fine di evidenziare l’evoluzione culturale avvenuta nell’ambito della magistratura in tema di consenso all’atto medico9.
La Cassazione Civile, Sezione III, con la sentenza n. 3906
del 6 dicembre 1968, afferma che non ci sono requisiti di forma che vincolino il consenso e che, pertanto, esso può essere
8
“The previously expressed wishes relating to a medical intervention by
a patient who is not, at the time of the intervention, in a state to express
his or her wishes, shall be taken into account”.
9 Le sentenze presentate in questo testo sono state tratte dal volume di A.
Fiori, E. Bottone, E. D’Alessandro, Quarant’anni di Giurisprudenza
della Cassazione nella responsabilità medica, Giuffré, Milano, 2000.
M3_08_Testamento
120
16-12-2005
8:27
Pagina 120
ROSSANA CECCHI
implicito. La volontà consenziente del paziente può consistere anche in un comportamento concludente che riveli in modo inequivocabile il proposito di sottoporsi alla prestazione
sanitaria, come ad esempio l’atto di ricoverarsi e sottoporsi
alle cure del medico. Nel contempo riporta quanto sostenuto
da parte della dottrina per cui l’informazione deve essere rimessa alla valutazione discrezionale del chirurgo che adeguerà il proprio comportamento alla natura e urgenza dell’intervento, alle condizioni psichiche del malato, al suo grado di
cultura e a ogni fattore suggerito dalle circostanze.
Questa sentenza, perfettamente in linea con il Codice Frugoni (v. prima), documenta l’atteggiamento chiaramente paternalistico che vigeva tra medico e paziente negli anni Sessanta, per cui veniva lasciata al medico qualsiasi decisione su
cosa fosse meglio per il paziente, mentre era sufficiente che il
paziente si affidasse alle cure del medico per dichiarare il proprio consenso all’atto medico.
Sempre negli anni Sessanta, si afferma la necessità di far
precedere non solo la terapia ma anche l’accertamento diagnostico, qualora esso costituisca grave pericolo per la vita o
l’incolumità fisica del paziente, da un’informazione onesta sui
rischi, finalizzata a un consenso pienamente consapevole del
paziente (Cass. Civ., Sez. III, 25 luglio 1967, n. 1950). Tale sentenza interpreta quanto contenuto nel Codice Frugoni, successivamente ripreso con l’art. 39 del codice deontologico del
1978, che richiede il consenso valido specificatamente per gli
atti medici che comportino un rischio per il paziente, quindi,
non per qualsiasi atto medico.
Negli anni Settanta iniziano, invece, a delinearsi i requisiti
di forma del consenso. Con la sentenza Cassazione Civile, Sez.
III, 29 marzo 1976, n. 1132, viene stabilito che i temi dell’informazione devono interessare la natura, l’importanza e la delicatezza dell’operazione, nonché i rischi e i pericoli ad essa
connessi, e il risultato, transitorio o permanente, estetico e
funzionale che l’operazione residua. Allo stesso modo viene
affermato che l’intervento arbitrario del medico costituisce
un atto lesivo del diritto all’integrità fisica del paziente, cioè
M3_08_Testamento
16-12-2005
8:27
Pagina 121
IL TESTAMENTO BIOLOGICO: PERCHÉ?
121
integra gli estremi della lesione personale in ambito penale e
del danno biologico in ambito civile.
Ciononostante sarà necessario attendere il codice deontologico del 1989 per trovare una descrizione accurata dei requisiti del consenso (art. 39/1989), mentre quello del 1978 si limita a parlare di consenso valido senza integrarne i contenuti
(art. 39/1978).
L’attenzione verso la capacità di discernimento del paziente, che ritroviamo nell’art. 39/1989, viene documentata anche
dalla giurisprudenza nella sentenza della Cassazione Civile,
Sez. III, 12 giugno 1982, n. 3604, laddove richiede ai fini del
consenso, un confronto, seriamente scientifico, pur sempre in
termini accessibili per il paziente.
Fondamentale per l’affermarsi dell’imprescindibilità di un
consenso all’atto medico è stata la sentenza della Corte di Assise di Firenze (n. 13, 18 ottobre 1990) che ha affermato che
“nel diritto di ciascuno di disporre, lui e lui solo, della propria
salute e integrità personale, pur nei limiti previsti dall’ordinamento, non può che essere ricompreso il diritto di rifiutare le
cure mediche, lasciando che la malattia segua il suo corso anche fino alle estreme conseguenze: il che, a ragione, non può
essere considerato il riconoscimento di un diritto positivo al
suicidio, ma è invece la riaffermazione che la salute non è un
bene che possa essere imposto coattivamente al soggetto interessato dal volere o, peggio, dall’arbitrio altrui, ma deve fondarsi esclusivamente sulla volontà dell’avente diritto, trattandosi di una scelta che (...) riguarda la qualità della vita e che
pertanto lui e lui solo può legittimamente fare”10.
Tale sentenza, da un lato afferma il carattere personale del
consenso, dall’altro sottolinea che il parametro su cui si prendono le decisioni di questa natura è la qualità della vita, che
può essere interpretata solo dal singolo.
L’illegittimità dell’atto medico privo di consenso giunge ai
10
www.bioetica.it – Centro di documentazione sulla bioetica, Proposta
di legge sulle direttive anticipate.
M3_08_Testamento
122
16-12-2005
8:27
Pagina 122
ROSSANA CECCHI
suoi effetti estremi con la nota sentenza della Cassazione Penale, Sez. V, 13 maggio 1992, n. 5639, in cui il chirurgo viene
condannato per omicidio preterintenzionale per aver eseguito
su una paziente un intervento più ampio rispetto a quello stabilito, da cui è derivata la morte della paziente stessa. La consapevolezza da parte del chirurgo della mancata richiesta del
consenso a un atto di maggior invasività rispetto a quello previsto, dal quale è successivamente derivato il decesso, è stata
considerata sufficiente per realizzare l’elemento psichico e
quello materiale del reato.
Le ripercussioni in ambito deontologico di tale pronunciamento sono state di grande portata e hanno certamente contribuito a indurre l’Ordine dei Medici a specificare nell’art.
31/1995 il riferimento alle “possibili conseguenze sulla integrità fisica” e a specificare che in questi casi il consenso manifestato in modo inequivocabile è integrativo e non sostitutivo
di quello previsto all’art 29.
È evidente che il consenso in quegli anni fosse divenuto ormai un punto cruciale della legittimità dell’atto medico tanto
che, nei casi di pazienti che per raggiungere un risultato devono essere trattati da più medici contemporaneamente o in sequenza, la giurisprudenza richiede l’acquisizione del consenso
di volta in volta, in ogni singola fase, da parte del medico che
in prima persona pone in essere l’atto foriero di rischio per l’integrità psicofisica (Cass. Civ., Sez. III, 15 gennaio 1997, n. 364).
La rivoluzione operata dalla Convenzione di Oviedo, testimone del cambiamento in atto a livello internazionale, e che
ha coinciso con gli articoli già discussi in precedenza contenuti nel codice deontologico del 1998, si rende evidente anche in giurisprudenza quando viene affermato che il paziente
è arbitro di se stesso ed esige il rispetto della sua volontà; nel
conflitto diritto-dovere tra medico e paziente, prevale il diritto a essere malato purché il rifiuto delle cure non esponga a
pericolo la salute altrui (Cass. Pen., sez. IV, 27 marzo 2001, n.
36519). Viene, quindi, riaffermata la libertà del paziente di
non curarsi, con le evidenti ripercussioni in ambito di direttive anticipate.
M3_08_Testamento
16-12-2005
8:27
Pagina 123
IL TESTAMENTO BIOLOGICO: PERCHÉ?
123
Concetto di testamento biologico e sua evoluzione culturale
Come abbiamo visto, negli ultimi trent’anni si è assistito a un
ribaltamento del rapporto medico-paziente documentato dall’evoluzione sia in campo etico, con il succedersi dei codici
deontologici, che giurisprudenziale, con la pronuncia di sentenze di merito. Sino agli anni Settanta vigeva una impostazione in senso paternalistico, mentre a partire dagli anni Ottanta
si è andato affermando anche in Italia il concetto anglosassone di informed consent, per cui il paziente viene reso partecipe delle decisioni di ordine medico che lo riguardano, con una
sempre maggior responsabilizzazione del paziente stesso che
è andata di pari passo con la maggior consapevolezza del cittadino verso le questioni mediche.
Il progresso delle possibilità di trattamento ha portato,
inoltre, a una sorta di interventismo medico che viene avvertito spesso dai pazienti come eccessivo, per cui i malati stessi
cominciano a porre un freno alle cure. Da qui la conseguente
nascita del concetto di accanimento terapeutico che è stato
acquisito dal codice deontologico italiano soltanto nel 1989 (v.
prima).
Il bisogno avvertito da molti di voler dare, in ogni caso, un
proprio consenso o dissenso informato alle terapie, associato al
timore di essere vittime di accanimenti terapeutici, ha portato
alla necessità di trovare forme di consenso anche nei casi in cui
non sia possibile darlo personalmente: così nascono le cosiddette direttive anticipate, anche definite testamento biologico.
Negli Stati Uniti questa esigenza è stata avvertita sin dagli
anni Settanta, in particolare nel 1967, quando Luis Kutner coniò per la prima volta il termine living will.
Nel sistema giuridico nordamericano ci si avvale sempre
più frequentemente della “pianificazione anticipata delle cure” (advance care planning) in cui il paziente, insieme ai medici e ai familiari, prende delle decisioni sulle cure future, affinché le sue volontà attuali siano rispettate nel momento in
cui non sarà più competente, documentandole tramite la compilazione delle Direttive Anticipate che sono composte da due
M3_08_Testamento
124
16-12-2005
8:27
Pagina 124
ROSSANA CECCHI
parti complementari: la Direttiva di Istruzione (Living Will) e
la Direttiva di Delega (Proxy Directive).
Tale sistema di programmazione delle cure è riconosciuto
e operante in numerosi Paesi. Quasi tutti gli Stati americani, il
primo fu la California nel 1976, riconoscono legalmente le direttive anticipate che sono contenute in uno specifico tesserino, e, nel 1991, è entrato in vigore il Patient self-determination Act, che impone ai luoghi di cura di informare i paziente
circa il loro diritto ad avere una direttiva anticipata; in Inghilterra non è riconosciuto espressamente dalla legge, ma la giurisprudenza non mette in dubbio la sua validità e l’Ordine dei
Medici ha pubblicato un libro in cui spinge i medici a utilizzare il living will; la Spagna nel 1989 ha proposto il testamento
vital, ma anche qui non vi è riconoscimento legislativo; l’Olanda riconosce esplicitamente la validità di una dichiarazione
scritta del paziente, nell’ambito della legge che definisce le
condizioni per il ricorso all’eutanasia; in Danimarca, ove esiste una specifica legislazione, è stato creato un cervellone
elettronico in cui vengono custodite le direttive anticipate11.
In Italia in campo etico si assiste a un riconoscimento da
parte dell’Ordine dei Medici dei concetti di qualità della vita e
di accanimento terapeutico per la prima volta nel codice deontologico del 1989. Anche la giurisprudenza italiana nel 1990 si
esprime in modo chiaro affermando il concetto di qualità della
vita come fondante il consenso alle terapie con la sentenza della Corte di Assise di Firenze (n. 13, 18 ottobre 1990).
La Consulta di Bioetica, nata nel 1989 per discutere sui temi della vita e della morte, propose già nel 1992 una carta di
autodeterminazione chiamata “Biocard”, prodotto di una fusione del living will con la delega di decisione in materia data
a un fiduciario, con tutte le caratteristiche di una direttiva anticipata, con disposizioni riguardo l’assistenza religiosa e la
destinazione del proprio corpo.
11
www.diritto.it, Diritto & Diritti – rivista giuridica online, Perinu I., “Il
testamento biologico”.
M3_08_Testamento
16-12-2005
8:27
Pagina 125
IL TESTAMENTO BIOLOGICO: PERCHÉ?
125
Nel 1995 il Comitato Nazionale per la Bioetica affronta il
tema ricordando che la desistenza terapeutica, preordinata in
un testamento di vita, potrebbe determinare anche dei rischi
come la lesione personale, l’omicidio e l’omissione terapeutica. Comunque, anche se con toni prudenti, si pronuncia in
modo sostanziale a favore della legittimità del “testamento di
vita”, concludendo che “la legge e i codici di deontologia possono certamente aiutare a definire una prassi accettabile per
le condizioni di incompetenza decisionale, attraverso l’invito
a suscitare una decisione anticipata da parte del malato nei
casi che si prospettano come particolarmente dilemmatici e
che sono da lui adeguatamente conosciuti, nonché a prendere seriamente in considerazione tali decisioni anticipate come elementi moralmente rilevanti per la decisione clinica
concreta”12.
In modo specifico si è anche espressa la Convenzione sui
diritti dell’uomo e la biomedicina, approvata dal Consiglio
d’Europa a Oviedo il 4 aprile 1997, che, all’art. 5, ribadisce come “Nessun intervento in campo sanitario può essere effettuato se non dopo che la persona a cui esso è diretto vi abbia
dato un consenso libero e informato. Questa persona riceve
preventivamente un’informazione adeguata riguardo sia allo
scopo e alla natura dell’intervento, che alle sue conseguenze e
ai suoi rischi. La persona a cui è diretto l’intervento può in
ogni momento ritirare liberamente il proprio consenso”13. All’art. 9, che riguarda i “Desideri espressi in precedenza”, la
Convenzione recita: “Al riguardo di un intervento medico concernente un paziente che al momento dell’intervento non è in
grado di esprimere il proprio volere, devono essere presi in
considerazione i desideri da lui precedentemente espressi”.
La propensione generale è dunque di stimolare le normati-
12
Comitato Nazionale per la Bioetica, Questioni bioetiche relative alla
fine della vita umana, Roma, 14 luglio 1995.
13 Consiglio d’Europa, Convenzione sui diritti umani e la biomedicina,
Oviedo, 4 aprile 1997; ratificata dal Parlamento italiano, 14 marzo 2001.
M3_08_Testamento
126
16-12-2005
8:27
Pagina 126
ROSSANA CECCHI
ve europee all’adozione di questo strumento operativo e, su
questa tendenza, il Codice di deontologia medica italiano nel
1998 all’art. 34, come già visto, afferma che “il medico, se il paziente non è in grado di esprimere la propria volontà in caso
di grave pericolo di vita, non può non tenere conto di quanto
precedentemente manifestato dallo stesso”.
Solo il 14 marzo 2001 il Parlamento italiano ratifica la Convenzione di Oviedo con la legge n. 145 del 28 marzo 2001.
Al fine di stimolare un dibattito sul tema, l’Associazione Libera Uscita, nata con l’impegno di promuovere normative in
tema di eutanasia e trattamento di malati terminali, a fine
2002, ha redatto una proposta di testamento biologico per la
dignità della persona umana, che ha ispirato la proposta di
legge n. 4121 presentata alla Camera dei Deputati il 30 giugno
2003 dall’onorevole Benvenuto (v. oltre), riguardante le Disposizioni in materia di dichiarazione anticipata di volontà sui trattamenti sanitari, assegnata il 23 luglio 2003 alla
Commissione XII in sede referente.
Recentemente la Commissione di Bioetica della Società
Italiana di Anestesia, Analgesia, Rianimazione, Terapie Intensive (SIAARTI) ha redatto le Raccomandazioni per l’ammissione e la dimissione dalla Terapia Intensiva e per la limitazione dei trattamenti in Terapia Intensiva e, all’interno di
questo documento, ribadisce il diritto del paziente di autodeterminarsi in merito alle scelte terapeutiche che lo riguardano, incoraggiando la formulazione di una pianificazione anticipata delle cure “per fare in modo che le sue volontà siano
rispettate anche qualora subentri uno stato di incapacità
mentale per l’aggravarsi delle condizioni cliniche. Al verificarsi dello stato critico l’intensivista deve tener conto di tali
volontà precedentemente espresse”.
Di cruciale importanza per l’argomento in oggetto è la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che costituisce la parte II del Progetto di Trattato che istituisce una Costituzione per l’Europa, e che al Titolo I, “Dignità”, stabilisce che
la dignità umana è inviolabile e che ogni individuo ha diritto
alla vita e alla propria integrità psico-fisica. La Carta ha senti-
M3_08_Testamento
16-12-2005
8:27
Pagina 127
IL TESTAMENTO BIOLOGICO: PERCHÉ?
127
to la necessità di stabilire, inoltre, esplicitamente che in ambito medico “il consenso libero e informato della persona interessata, secondo le modalità definite dalla legge” deve essere
rispettato. Ne deriva, pertanto, che ciò che è inviolabile è la
dignità dell’uomo, mentre la vita e l’integrità psico-fisica sono
un diritto (non un dovere), e ciò che deve essere rispettata è
la volontà dell’individuo interessato circa quanto gli prospetta
la medicina. Tali affermazioni, che essendo inserite in una Costituzione assurgono a diritto assoluto, potranno dare l’avvio
a un dibattito sulle direttive anticipate che parta da basi solide
in cui il concetto di diritto – e non di dovere – alla vita e all’integrità psico-fisica sia un dato certo; ma, e ciò è più importante ai fini del tema in oggetto, che la volontà espressa secondo
le modalità di legge deve essere rispettata. Ne consegue che,
qualora una norma giuridica legittimi le direttive anticipate
come espressione libera e personale dell’individuo, anche
quando egli non è più in grado di esprimerla con la propria voce o con i propri gesti, il medico sarà tenuto non a prenderla
in considerazione – punto a cui si è giunti sino a oggi – ma a rispettarla. In pratica, la Carta recepisce la Convenzione di
Oviedo e va oltre, sempre nell’ipotesi di una legittimazione nazionale attraverso normative specifiche.
Il Comitato Nazionale per la Bioetica ha formulato un parere sulle direttive anticipate, il 18 dicembre 2003, nel documento Dichiarazioni anticipate di trattamento.
Questo è un fatto importante perché, come è già accaduto
in passato, ogniqualvolta il Comitato pubblica una risoluzione
su un dato argomento, entro pochi anni il legislatore emana
una legge che si basa sui contenuti di quanto espresso dal
CNB. Ciò significa che è verosimile che la discussione si avvii
in Parlamento in modo definitivo stimolata da disegni di legge
ispirati alle dichiarazioni (v. oltre).
Il documento, come tutti i documenti del CNB, è molto
equilibrato e affronta i vari punti in modo scientifico e corretto. Di seguito verranno estrapolati e discussi gli aspetti che
maggiormente potranno condizionare una eventuale futura
normativa in materia.
M3_08_Testamento
128
16-12-2005
8:27
Pagina 128
ROSSANA CECCHI
Alcuni dei principi a cui si richiama il CNB sono quelli sanciti dall’art 35 del codice deontologico del 1998 che stabilisce
che il medico, in caso di persona non in grado di esprimere al
momento volontà contrarie, deve contestualizzare le precedenti manifestazioni del paziente prestando “l’assistenza e le
cure indispensabili”, e dall’art. 36 che vieta al medico i trattamenti diretti a provocare la morte. Ora, se la contestualizzazione di eventuali dissensi, espressi dal paziente in precedenza, a trattamenti senza i quali può sopraggiungere la morte,
oppure a cure indispensabili per la vita, deve tramutarsi nella
facoltà del medico di poter decidere di “disobbedire” alle richieste scritte, l’obiettivo delle direttive anticipate si svuota di
significato. È indispensabile, pertanto, che la futura normativa si esprima in modo chiaro a tale riguardo.
Il CNB afferma l’importanza delle direttive ai fini di “rendere ancora possibile un rapporto personale tra il medico e il
paziente proprio in quelle situazioni estreme in cui non sembra poter sussistere alcun legame tra la solitudine di chi non
può esprimersi e la solitudine di chi deve decidere”. Questo
passaggio rappresenta un grande passo avanti nella comprensione della materia in quanto dimostra come sia stata recepita
nella sua complessità la necessità, avvertita dal mondo medico e giuridico ormai da tempo, di trovare un modo per dare
voce al paziente che non l’ha più.
L’accusa fatta da più parti alle direttive anticipate di poter
causare l’abbandono terapeutico viene esorcizzata dal CNB
quando afferma che le direttive “non possono mai essere applicate burocraticamente e ottusamente, ma chiedono di essere calate nella realtà specifica del singolo paziente e della sua
effettiva situazione clinica”. Ciò, se da un lato può essere rassicurante, dall’altro appare pericoloso ai fini di un effettivo rispetto della volontà del paziente. In altre parole, se la realtà
specifica e l’effettiva situazione clinica corrispondono alla
condizione di non ritorno paventata dal sottoscrittore, non
può essere concesso al medico il diritto di appellarsi al pericolo di abbandono terapeutico per giustificare la continuazione delle cure. Valgono anche per questo punto le considera-
M3_08_Testamento
16-12-2005
8:27
Pagina 129
IL TESTAMENTO BIOLOGICO: PERCHÉ?
129
zioni espresse riguardo alla possibilità di contestualizzare la
situazione del paziente (v. prima).
Al punto 4 (astrattezza e ambiguità delle direttive anticipate), il CNB pone “un primo e decisivo argomento contro una
rigida vincolatività delle dichiarazioni anticipate, che, anche
se redatte con estremo scrupolo, potrebbero rivelarsi non calibrate sulla situazione esistenziale reale nella quale il paziente potrebbe venire a trovarsi”. Questa affermazione, così come quelle già discusse e altre che verranno esaminate, pongono dei seri limiti all’applicabilità delle direttive anticipate, per
cui richiedono grande chiarezza giuridica.
Il CNB ritiene fondamentale la figura del fiduciario a cui
viene dato “un pieno e compiuto diritto-dovere a essere punto
di riferimento” del medico nel rapporto con il paziente. La sua
autorevolezza consiste nel dover individuare, nel dialogo con
il medico, il miglior interesse del paziente incapace ed è evidente che il suo ruolo potrà essere svolto appieno soltanto se
verrà recepita e ammessa la lealtà del suo comportamento.
Circa i contenuti delle dichiarazioni anticipate (punto 6), il
CNB sottolinea che quanto richiesto dal paziente nelle direttive deve corrispondere a richieste che qualsiasi paziente in grado di dare un consenso o dissenso valido potrebbe legittimamente fare. Ciò significa che non è possibile richiedere pratiche eutanasiche – comunque illegali – mentre è possibile chiedere “la sospensione o la non attivazione di pratiche terapeutiche nei casi più estremi o tragici di sostegno vitale”. Apparentemente corrette, queste affermazioni però portano il CNB,
in un secondo tempo, a dividersi tra i sostenitori di direttive
valide per qualsiasi trattamento, e sostenitori di direttive che
riguardino solo i trattamenti ritenuti accanimento, perché inutili o addirittura futili. Tale seconda ipotesi sembra un controsenso dal momento che i trattamenti futili, o, comunque, le
forme di accanimento terapeutico sono ormai vietate da almeno dieci anni dai codici deontologici; pertanto, non vi è alcun
motivo perché un paziente debba esprimersi nei loro confronti con un dissenso. Ciononostante, la tendenza a vedere il testamento biologico come un’arma contro l’accanimento tera-
M3_08_Testamento
130
16-12-2005
8:27
Pagina 130
ROSSANA CECCHI
peutico è trasparsa spesso nel dibattito realizzatosi in campo
bioetico14. Ferma restando l’incertezza dei confini dell’accanimento terapeutico, è chiaro che ciò che i testamenti biologici
si prefiggono è di dare voce al paziente riguardo a trattamenti
legittimi, quindi, utili e non futili, che, se fosse stato cosciente,
avrebbe potuto rifiutare.
Al punto 7 il CNB pone in dubbio il carattere di attualità delle direttive, sottolineando che anche da un punto di vista penalistico non garantiscono l’attualità della reale volontà del paziente. Viene a mancare, a parere del CNB, il requisito dell’immediatezza, fondamentale per la validità del consenso. In
realtà, come osserva Neri, più che di attualità della volontà, “si
dovrebbe piuttosto parlare di attualità del consenso o dissenso, che è un requisito logico e non meramente cronologico e
può permanere nel tempo se permangono le condizioni in riferimento alle quali l’espressione della volontà è stata prestata”15.
In realtà, il rischio paventato viene, invece, consapevolmente assunto dal paziente nel momento in cui redige una direttiva
anticipata. In pratica, coloro che sottoscrivono tale documento
accettano quella percentuale di rischio di poter cambiare idea,
d’altronde insita in tutte le decisioni che prendiamo nel corso
della nostra vita. Chi non si sente di correre questo rischio, non
prenderà mai in considerazione un testamento biologico.
A questo proposito il Comitato afferma che il paziente rischia che gli vengano negate, per eccesso di zelo nel seguirne
le indicazioni, cure determinanti per la guarigione della sua
patologia che prima non erano conosciute. Il CNB sembra,
pertanto, riferire il rischio di mancata terapia essenzialmente
alle situazioni che potrebbero essere caratterizzate “dalla sopravvenienza di nuove acquisizioni scientifiche, di nuove tecniche di trattamento, tali da rendere curabile – o comunque
14
M. Mori, “La carta dell’autodeterminazione. Per un chiarimento del dibattito”, Bioetica, n. 4, 2002, pp. 639-648.
15 D. Neri, “Note sul documento del CNB sulle ‘Dichiarazioni anticipate di
trattamento’”, Bioetica, n. 2, 2004, pp. 188-199.
M3_08_Testamento
16-12-2005
8:27
Pagina 131
IL TESTAMENTO BIOLOGICO: PERCHÉ?
131
diversamente curabile rispetto alle previsioni del paziente –
una patologia precedentemente conosciuta come irrimediabile”. Se così fosse, si tratterebbe di un non-problema, in quanto
le direttive sottoscritte si riferiscono sempre a malattie incurabili o curabili a discapito di una sufficiente qualità di vita.
Se, invece, le conoscenze, nel frattempo, hanno portato a un
mutamento tale da rendere la malattia curabile con sufficiente qualità di vita residua, allora non costituirà più la fattispecie contemplata nella direttiva che, di conseguenza, decade.
D’altronde, lo stesso CNB ammette che dubitare della validità attuale delle direttive corrisponderebbe a inserire uno
spazio al paternalismo medico e che, se si pensa alla possibilità di esprimere una volontà anticipata riguardo alla donazione dei propri organi, si vedrà che esiste già una strada giuridica aperta verso “l’accreditamento legale della volontà espressa, anche mediante il silenzio, dal soggetto in vita”.
La possibilità di un cambiamento nella prospettiva terapeutica insorta successivamente alla redazione delle direttive
viene ripresa al punto 8 per affermare che la vincolatività delle dichiarazioni deve lasciare spazio per l’esercizio dell’autonoma valutazione del medico. La questione posta in questi termini appare un non-problema per i motivi dianzi esposti (v.
prima), e non deve, invece, lasciare spazio a un’autonoma interpretazione da parte del medico di qualsiasi situazione venga sottoposta al suo giudizio.
Ricorda il CNB, sempre al punto 8, che in una precedente
stesura della Convezione di Oviedo, i desideri del paziente venivano indicati come determinanti e solo in quella definitiva
sono stati indicati come da tenere in considerazione. Tale passaggio, secondo il CNB, non va inteso come un’eccessiva apertura al paternalismo medico, anche se, in realtà, ciò può accadere. Il problema alla base, in fondo, è sempre quello della
compatibilità tra professionalità medica e autonomia del paziente, la cui “convivenza pacifica” viene da molti auspicata16.
16
M. Mori, ivi, Bioetica, n. 4, 2002.
M3_08_Testamento
132
16-12-2005
8:27
Pagina 132
ROSSANA CECCHI
Estremamente ambigua è l’affermazione nell’ultimo paragrafo del punto 8 che “se il medico, nella sua autonomia, dovesse diversamente convincersi, avrebbe l’obbligo di motivare e giustificare in modo esauriente tale suo diverso convincimento, anche al fine di consentire l’intervento del fiduciario
o curatore degli interessi del paziente”. Tale affermazione, come si vedrà, costituisce una parte importante delle conclusioni a cui giunge il CNB (v. oltre), e, se considerata nel contesto
di quanto prima espresso riguardo le nuove eventuali possibilità di cura, può trovare una giustificazione, ma, in caso contrario, può porre le basi per una eccessiva autonomia del medico nel valutare se “obbedire” o meno al paziente. Viene, inoltre, da domandarsi in questi casi quale sarebbe il ruolo e il potere del fiduciario.
Giustamente il CNB, al punto 9, auspica una corretta divulgazione delle direttive anticipate che abbia l’unico obiettivo di
favorire la loro corretta formulazione e applicazione per coloro che intendano avvalersene.
Infine, dopo aver esaminato i punti a favore e contro, il
CNB auspica un intervento legislativo in tema di consenso e
di dichiarazioni anticipate che risolva tutte le questioni controverse ad esse collegate, rendendole giuridicamente inappuntabili.
Nel redigere le Raccomandazioni bioetiche conclusive, al
punto 10, il CNB si limita ad auspicare al punto b) che “la legge obblighi il medico a prendere in considerazione le dichiarazioni anticipate, imponendogli, sia che le attui sia che non
le attui, di esplicitare formalmente ed esplicitamente in cartella le ragioni della sua decisione”, senza fare riferimento al
fatto che il problema si debba porre essenzialmente riguardo
a nuove cure scoperte dopo la redazione delle direttive, come, invece, precisato al punto 8. Il rischio che si corre è che il
legislatore – soffermandosi principalmente sulle conclusioni
del CNB – formuli una legge che ammetta un comportamento
difforme del medico, giustificato in cartella, ma senza specificare che esso può essere motivato solo da fatti nuovi scientificamente provati.
M3_08_Testamento
16-12-2005
8:27
Pagina 133
IL TESTAMENTO BIOLOGICO: PERCHÉ?
133
Tentativi di legiferazione
Che i tempi siano maturi per una discussione su questo delicato tema è testimoniato da alcuni progetti di legge che si sono
susseguiti, sin dal 2002, e che hanno tentato di inquadrare giuridicamente il problema del consenso ai trattamenti sanitari.
Appare interessante esaminare come l’impostazione degli
articoli sia mutata nel tempo.
Si tratta di quattro disegni di legge presentati nel corso dell’attuale XIV legislatura dal maggio 2002 sino al maggio 2004 e
proposti di iniziativa della senatrice Acciarini17 (n. 1437), dei
senatori Ripamonti e Del Pennino18 (n. 2279), del deputato
Benvenuto19 (n. 4121) e del senatore Tomassini20 (n. 2943).
Tali proposte di legge contengono al loro interno anche un
tentativo di legiferazione in tema di consenso di paziente capace, e, all’art. 1 affermano per legge il diritto del paziente all’informazione circa il proprio stato di salute, salvo espresso
rifiuto dello stesso, ciò in linea con l’art. 30 del codice deontologico del 1998. Le caratteristiche del contenuto dell’informazione e le modalità con cui fornirla sono coerenti con i codici
deontologici del 1995 e 1998 e riguardano la diagnosi, la prognosi, la natura, i benefici, i rischi delle procedure diagnostiche e terapeutiche suggerite dal medico e le possibili alternative alle stesse, nonché le conseguenze di un rifiuto. L’obbligo
di informare permane anche quando le condizioni del paziente sono gravi e, in tal caso, il medico deve adottare cautele nel-
17
Disegno di legge n. 1437 del 23 maggio 2002, Dichiarazioni in materia di consenso informato e di dichiarazioni di volontà anticipate nei
trattamenti sanitari.
18 Disegno di legge n. 2279 del 23 maggio 2003, Disposizioni in materia
di consenso informato e di dichiarazioni di volontà anticipate nei
trattamenti sanitari.
19 Disegno di legge n. 4121 del 30 giugno 2003, Disposizioni in materia
di dichiarazione anticipata di volontà sui trattamenti sanitari.
20 Disegno di legge n. 2943 del 4 maggio 2004, Norme in materia di dichiarazioni anticipate di trattamento.
M3_08_Testamento
134
16-12-2005
8:27
Pagina 134
ROSSANA CECCHI
la comunicazione, salvo che il paziente rifiuti di conoscere il
proprio stato (n. 1437 e n. 2279). Il disegno n. 2279 prevede
che il medico nei casi particolari si consulti con i congiunti
stretti (mal si comprende se per comprendere meglio la psicologia del paziente o, addirittura, per decidere l’opportunità di
informarlo), con ciò andando contro l’impostazione del CD
1998 che raccomanda di informare solo le persone indicate
dal paziente (v. prima). Il disegno n. 4121 raccomanda cautela
nella comunicazione in ogni caso. Queste raccomandazioni
prendono atto di quanto indicato dal CNB nel documento del
1995, di utilizzare uno standard medio di comunicazione.
Gli artt. 2 dei disegni n. 1437 e 2279, affermano il diritto di
ciascuno a esprimere il proprio consenso o dissenso agli atti
medici mentre il disegno n. 4121 fa esplicito riferimento ai
trattamenti medici appropriati. Tale precisazione appare corretta dato che, come già discusso in precedenza, sarebbe insensato chiedere il consenso a trattamenti inappropriati o futili, cioè all’accanimento terapeutico.
L’eventuale rifiuto dev’essere considerato valido anche successivamente a una sopravvenuta perdita della capacità naturale (n. 4121), anche nei casi in cui ne derivi un pericolo per la
vita o la salute del paziente. Questa fattispecie corrisponde ai
casi in cui il dissenso viene dato oralmente o per iscritto contestualmente alle terapie proposte da un paziente valido che, per
aggravamento delle condizioni fisiche, perda la capacità di intendere e di volere, e stabilisce che in questi casi la volontà non
può non essere considerata attuale. Tale affermazione trova un
fondamento, rafforzandolo, nell’art. 9 della Convenzione di
Oviedo, dove si obbliga il medico a tenere in considerazione i
desideri espressi dal paziente e, corrisponde a quanto auspicato dalla SIAARTI nelle sue Raccomandazioni per l’ammissione e la dimissione dalla Terapia Intensiva e per la limitazione dei trattamenti in Terapia Intensiva (v. prima). Meno vincolante è, invece, l’affermazione, contenuta nei Disegni n. 1437
e n. 2279, che la “dichiarazione di volontà può essere formulata e restare valida per il tempo successivo alla perdita della capacità naturale”. Non aver utilizzato l’espressione “dover resta-
M3_08_Testamento
16-12-2005
8:27
Pagina 135
IL TESTAMENTO BIOLOGICO: PERCHÉ?
135
re valida”, indica un’adesione alla posizione della Convenzione
di Oviedo che raccomanda di “tenere in considerazione” le volontà espresse dal paziente, senza affermare con forza la vincolatività per il medico delle stesse.
Viene, altresì, derubricata la fattispecie di lesioni personali
o omicidio prevista per questi casi.
Gli artt. 3 dei disegni di legge trattati affrontano il tema delle direttive anticipate dando a ciascuno la facoltà, non l’obbligo, di redigere una dichiarazione anticipata di volontà la cui
validità permane in caso di “perdita della capacità naturale valutata irreversibile sulla base delle conoscenze attuali”. Anche
in questo caso i disegni n. 1437 e 2279 utilizzano il può, mentre
il n. 4121 il deve.
Tali affermazioni equivalgono a inserire nei casi previsti
tutti quelli riconosciuti dalla medicina come irreversibili, e,
quindi, anche ad esempio lo stato vegetativo permanente
(SVP) che, come noto, è una situazione irreversibile di perdita
di coscienza. Per tali casi le dichiarazioni anticipate forniranno indicazioni su ciò che si desidera venga o non venga fatto.
Soltanto il disegno n. 4121 appare particolareggiato per
quanto riguarda il testamento biologico vero e proprio, specificando che, nel caso di malattie allo stadio terminale o implicanti l’uso permanente di apparecchiature o di altri sistemi artificiali, ovvero nel caso di lesioni cerebrali invalidanti e irreversibili, è diritto del paziente di poter esprimere la propria volontà: a) di rifiutare qualsiasi forma di rianimazione o di continuazione dell’esistenza dipendente da apparecchiature e di
non essere sottoposti ad alcun trattamento terapeutico; b) di
non essere sottoposti all’alimentazione artificiale e all’idratazione artificiale (fattispecie che si pone nei casi di SVP); c) di
poter fruire, in caso di gravi sofferenze, degli opportuni trattamenti analgesici, anche qualora gli stessi possano accelerare
l’esito mortale della patologia in atto (fattispecie già ammessa
come rischio eventuale anche da Papa Pio XII nel 1957).
Tutti i casi considerati prefigurano richieste legittime, che
se il paziente fosse cosciente avrebbe il diritto di chiedere e il
medico di rispettare (trattamenti appropriati).
M3_08_Testamento
136
16-12-2005
8:27
Pagina 136
ROSSANA CECCHI
I disegni prevedono la nomina di una persona che rappresenti le volontà del paziente in caso di incapacità sopravvenuta (fiduciario).
I disegni prevedono che la dichiarazione debba essere formulata per iscritto, con data certa e sottoscrizione autenticata
sottoscritta, e sia sempre modificabile e revocabile. Il n. 4121
prevede la sottoscrizione, oltre che del paziente e dell’eventuale fiduciario, anche di altri due testimoni, e che, in caso di ricovero, debba essere sempre allegata in cartella e debba avere
un valore vincolante per i sanitari; nonché la facoltà delle associazioni depositarie di presentare la dichiarazione, in vece
del fiduciario o del paziente stesso, in caso di impedimento.
In caso di mancata indicazione del fiduciario, i disegni impongono al giudice tutelare di provvedere a tale nomina e, nei
casi controversi, sanciscono che spetta al giudice del luogo
ove ha dimora l’incapace di decidere in conformità alle dichiarazioni stesse.
Il disegno di legge n. 2943 del maggio 2004 viene esaminato
separatamene in quanto è l’unico pubblicato dopo le dichiarazioni del CNB e, quindi, appare interessante verificare l’influenza che tale documento può aver esercitato.
Sin dal primo articolo si osserva una grande differenza rispetto agli altri: viene sentita la necessità di chiarire in anticipo
alcune terminologie che verranno utilizzate nel testo di disegno
di legge, ciò corrisponde a un’adesione al modello anglosassone, come sottolineato dal Pocar nelle note ai disegni di legge
che stiamo esaminando21. In particolare, viene spiegato il termine testamento di vita, che, peraltro, compare per la prima
volta in modo esplicito, e forse non troppo corretto essendo
una traduzione letterale del termine living will, e viene chiarito
che trattasi di un atto scritto con il quale ciascuno dispone in
merito ai trattamenti sanitari e al destino del proprio corpo dopo la morte; il termine mandato in previsione dell’incapacità
come il contratto che attribuisce al mandatario il potere di com-
21
V. Pocar, Consulta di Bioetica Onlus, 39/9/2004.
M3_08_Testamento
16-12-2005
8:27
Pagina 137
IL TESTAMENTO BIOLOGICO: PERCHÉ?
137
piere atti giuridici in vece dell’interessato divenuto incapace;
trattamento sanitario equivalente di ogni atto medico, eseguito con qualsiasi mezzo, con scopi connessi alla salute a fini terapeutici, diagnostici, palliativi ed estetici, nozione, quindi,
estremamente ampia; e di persona priva di capacità decisionale come della persona che, anche solo temporaneamente – e
questo sembra una puntualizzazione importante perché vi fa
rientrare anche incapacità transitorie – non è in grado di comprendere le informazioni sulla sua patologia e le conseguenze
che la propria decisione in proposito può determinare.
Il consenso informato (art. 2 in cui l’informazione presenta
le stesse caratteristiche dei disegni precedenti) dev’essere
prestato in modo esplicito, da persona libera e consapevole, e
rende lecito il trattamento sanitario. Il paziente può rifiutare
in qualsiasi momento, del tutto o in parte, l’informazione. Questa specificazione rende conto della dinamicità del rapporto
medico-paziente e della sua evoluzione nel tempo.
In caso di incapacità, se non è stato indicato un fiduciario,
mandatario, amministratore di sostegno o tutore, si torna agli
orientamenti antichi che prevedono il ricorso ai parenti sino
al quarto grado, ovvero al giudice tutelare, mentre sarebbe più
opportuno, in linea con il CD 1998 far riferimento “a terzi” stabiliti dal paziente stesso (v. prima).
L’art. 5 c. 122 pone problemi di interpretazione facendosi
chiaro riferimento allo stato di necessità, seppur solo parzialmente riportato, in cui la vita è in pericolo o l’integrità fisica è
minacciata. In realtà, così come è stato concepito, questo articolo potrebbe essere utilizzato anche nei casi di rifiuto di trattamenti di fine vita o salva vita, e, inoltre, non si comprende
cosa si intenda per minaccia all’integrità fisica. Una formulazione più compiuta potrebbe essere quella che al posto dell’ovvero riportasse la congiunzione e, perché solo in questo
22
“Non è richiesto il consenso al trattamento sanitario quando la vita della persona incapace sia in pericolo ovvero quando il suo consenso o dissenso non possa essere ottenuto e la sua integrità fisica sia minacciata”.
M3_08_Testamento
138
16-12-2005
8:27
Pagina 138
ROSSANA CECCHI
modo risulterebbe chiaro che si tratta di casi in cui non esiste
un parere espresso in precedenza.
Altrettanto oscura appare l’interpretazione del c. 4 dell’art.
1223 laddove prevede una attività rivolta ad indagare e ricostruire il significato da attribuire alle dichiarazioni dando
in questo modo, a non si sa bene chi, un ampio margine di discrezionalità interpretativa delle volontà espresse.
L’art. 13 prevede un collegio medico che verifichi lo stato
di incapacità del paziente in analogia con la legge n. 578 del
1993 recante le Norme per l’accertamento e la certificazione
di morte e con il disegno di legge n. 2758/A.S. del 17/2/2004
sulle Norme per la depenalizzazione dell’eutanasia, presentato dall’onorevole Battisti. La presenza di tre specialisti rappresenta un elemento rassicurante in più anche se, nel caso
specifico, mal si comprende di quale incapacità si tratti. Il neurologo, infatti, è necessario per valutare i vari gradi di coma,
ma la presenza dello psichiatra fa ritenere che si possano considerare anche stati di incapacità di natura psichiatrica, cosa
che non sembra contemplata nel disegno di legge, a meno che
non rientrino negli stati di incapacità transitoria, e ciò potrebbe avere risvolti pericolosi.
Estremamente rassicurante è il c. 6 dell’art. 13 laddove afferma senza dubbiezza alcuna che il medico può disattendere
le richieste del paziente soltanto qualora “siano divenute
inattuali o inadeguate dal punto di vista scientifico e terapeutico”, aderendo pienamente alle indicazioni del CNB contenute non nelle raccomandazioni finali ma nel contesto del
documento, anche se, come già riferito in precedenza, qualora esistano nuove terapie possibili, il dissenso espresso nel
testamento di vita dal paziente non può essere applicato in
23
“Il fiduciario nell’esecuzione delle disposizioni attua la volontà del disponente quale risultante dalla lettera del testamento di vita e dall’attività rivolta ad indagare e ricostruire il significato da attribuire alle dichiarazioni; in mancanza di istruzioni opera nel migliore interesse dell’incapace ai sensi dell’articolo 4”.
M3_08_Testamento
16-12-2005
8:27
Pagina 139
IL TESTAMENTO BIOLOGICO: PERCHÉ?
139
questi casi perché si riferisce a una fattispecie differente, e,
cioè, in cui la cura è inefficace. Ribadiamo, pertanto, che questo comma è comunque pleonastico. Un’altra interpretazione
è quella riportata dal Pocar secondo la quale questo comma
potrebbe aprire la strada a molti casi di disattenzione della
volontà espressa, ad esempio nei casi dei testimoni di Geova,
dove le cure rifiutate sono appropriate da un punto di vista
scientifico e terapeutico, e potrebbe infine ridursi a essere
applicato solo nei casi di accanimento terapeutico (che al
contrario, dovrebbero essere rifiutati a priori, v. prima). Questo pericolo esiste effettivamente, anche se la dizione “qualora siano divenute” porta a ritenere che si tratti di cure non conosciute dal paziente all’epoca in cui ha redatto il testamento
e non di cure specifiche esplicitamente da lui rifiutate (come
ad esempio la trasfusione di sangue nei testimoni di Geova.
Per quanto riguarda altri aspetti del disegno di legge n.
2943/04 rimandiamo a quanto molto efficacemente già osservato dal Pocar.
Dall’escursus storico, deontologico e giurisprudenziale esaminato, riteniamo di poter affermare che l’iter naturale, che ha
preceduto nei vari Paesi una seria discussione e soluzione del
problema delle direttive anticipate, sia ormai da considerarsi
concluso in Italia, e si possa, da ora in poi, passare a un dibattito serio e ponderato che porti a una soluzione legislativa. In tal
senso, il documento del CNB, la varie iniziative di legiferazione
e, non ultimo, l’affacciarsi nel panorama generale di una possibile approvazione concettuale da parte della Chiesa cattolica,
si inseriscono perfettamente, in questo momento storico, come base di partenza per una soluzione normativa che dia all’autodeterminazione alla fine della vita il valore di diritto
fondamentale della persona che, quindi, “va tutelato indipendentemente dal numero di coloro che effettivamente lo esercitano: anche fosse una persona sola, deve essere garantito”.24
24
M. Mori, “Dai principi della bioetica alle direttive anticipate”, Bioetica,
n. 2, 2001, suppl., pp. 19-29.
M3_08_Testamento
16-12-2005
8:27
Pagina 140
M3_09_Testamento
16-12-2005
8:28
Pagina 141
Stato vegetativo permanente
e sospensione dei trattamenti medici
di Gilda Ferrando*
Il consenso informato del paziente
Quando una persona si trova in stato vegetativo permanente è
lecito chiedere di interrompere l’alimentazione e l’idratazione
forzata? Dato che il malato è in una condizione di perdita irreversibile della coscienza, c’è qualcuno che può fare questa richiesta al posto suo? Queste sono alcuni degli interrogativi
che i casi di Eluana Englaro e di Terry Schiavo pongono all’opinione pubblica.
Per tentare una risposta è bene considerare che in questi
anni il rapporto medico-paziente è profondamente mutato. Si
passa da una situazione in cui era il medico a decidere “secondo scienza e coscienza”, e il paziente non aveva alcuna voce in
capitolo, a una in cui la persona diviene protagonista del processo terapeutico. Il segno di questa trasformazione è la rilevanza assunta dal consenso informato del paziente1.
Il principio del consenso informato ha salde radici nel nostro
ordinamento. Nella disciplina costituzionale vengono in primo
piano la tutela e promozione dei diritti fondamentali della perso*
Ordinario di Diritto Privato alla Facoltà di Economia all’Università di
Genova.
1 Per un approfondimento, rinvio al mio Libertà, responsabilità e procreazione, Padova, 1999, pp. 3 ss. Nella letteratura penalistica, v. E. Palermo, Il consenso al trattamento medico, Padova, 2001.
M3_09_Testamento
142
16-12-2005
8:28
Pagina 142
GILDA FERRANDO
na, della sua dignità e identità (art. 2), della libertà personale
(art. 13), della salute (art. 32). La Corte di Cassazione2 e la Corte
Costituzionale3 hanno messo in luce l’ampiezza di tale principio.
Qualsiasi atto invasivo della sfera fisica, sia di natura terapeutica che non terapeutica, non può avvenire senza o contro il consenso della persona interessata, in quanto la “inviolabilità fisica”
costituisce il “nucleo essenziale” della stessa libertà personale4.
Per contro, l’imposizione di un determinato trattamento sanitario si giustifica soltanto se previsto da una legge che lo prescrive
anche in funzione di tutela di un interesse generale e non soltanto a tutela della salute individuale5 e se è comunque garantito il
rispetto della “dignità” della persona (art. 32 Cost.).
Al riguardo occorre fare almeno due precisazioni. Il principio del consenso non riguarda solo i trattamenti terapeutici, ma
più in generale ogni atto medico che, sia pure per finalità diverse, sia invasivo della sfera fisica della persona. Lo hanno chiarito la Corte Costituzionale e la Corte di Cassazione con riguardo
al prelievo del sangue compiuto “a fini di giustizia”, vale a dire
2
In modo particolare, cfr. Cass. 25 novembre 1994, n. 10014, Nuova giur.
civ. comm., 1995, I, 937, con nota di G. Ferrando; Cass. 15 gennaio 1997,
n. 364, Danno e resp., 1997, 178, con nota di V. Carbone; Corte d’Assise di
Firenze 8 novembre 1990, Il Foro Italiano, 1991, II, 236.
3 Corte cost. 22 ottobre 1990, n. 471, Il Foro Italiano, 1991, I, 14, con nota
di R. Romboli; Corte cost. 2 giugno 1994, n. 218, Foro it., 1995, I, 46; Corte cost. 23 giugno 1994, n. 258, Il Foro Italiano, 1995, I, 1451 e Corte cost.
18 aprile 1996, n. 118, ivi, 1996, I, 2326, con note di R. Romboli e G. Ponzanelli; Corte cost. 26 febbraio 1998, n. 27, Danno e responsabilità, 1998,
429; Corte cost. 9 luglio 1996, n. 238, Famiglia e diritto,1996, 419, con
nota di A. Figone.
4 È per questa ragione che anche il prelievo ematico compiuto per ragioni di giustizia non può avvenire in assenza del consenso se non con stringenti garanzie (Corte cost. 9 luglio 1996, n. 238, op. cit.), o che il prelievo
di sangue necessario nell’ambito di indagini genetiche sulla paternità non
può essere compiuto se manca il consenso dell’interessato (Cass. 24 febbraio 1997, n. 1661, Famiglia e diritto, 1997, 105).
5 Corte cost. 22 giugno 1990, n. 307, op. cit.; Corte cost. 2 giugno 1994, n.
218, op. cit.; Corte cost. 23 giugno 1994, n. 258, op. cit.; Corte cost. 18
aprile 1996, n. 118, op. cit.; Corte cost. 26 febbraio 1998, n. 27, op. cit.
M3_09_Testamento
16-12-2005
8:28
Pagina 143
STATO VEGETATIVO PERMANENTE E SOSPENSIONE DEI TRATTAMENTI
143
per raccogliere elementi di prova nell’ambito di un procedimento6. A livello di principi generali nel nostro ordinamento ha ormai piena cittadinanza il riconoscimento dell’autonomia della
persona, la quale, intesa in senso negativo, comporta che nessun trattamento medico può essere compiuto senza e, a maggior ragione, contro la sua volontà, mentre, intesa in senso positivo, implica “il potere di disporre del proprio corpo”7.
Questo principio trova riconoscimento nella Convenzione
europea sui diritti dell’uomo e la biomedicina (ratificata con
legge 2001, n. 145) e nella Carta di Nizza (art. 3). Tali fonti sovranazionali non hanno ancora (per motivi diversi una dall’altra) pieno valore giuridico nel nostro ordinamento, ma costituiscono per l’interprete una significativa conferma di scelte
di fondo che la nostra Carta costituzionale ha già effettuato. Il
principio del consenso trova chiara enunciazione anche nel
Codice di deontologia medica e in numerose leggi speciali, a
partire da quella istitutiva del servizio sanitario nazionale (art.
33, legge n. 833/1978), per giungere a quella più recente, il dlgs.
24.6.2003, n. 211 in tema di sperimentazione clinica.
In secondo luogo, l’ampiezza del principio si comprende
meglio se lo si mette in relazione con la nuova dimensione che
ha assunto il concetto di salute e, di conseguenza, quello di
“diritto alla salute”8. La salute ormai da tempo si proietta oltre
la mera dimensione fisica della persona per abbracciare a pieno titolo la sfera psichica9. Essa, inoltre, non viene più intesa
6 Corte cost. 9 luglio 1996, n. 238, op. cit.; Cass. 24 febbraio 1997, n. 1661,
Famiglia e diritto, 1997, 105.
7 Corte Cost. 22 ottobre 1990, n. 471, Il Foro Italiano, 1991, I, 14, con nota di R. Romboli.
8 V. A. Santosuosso, “Dalla salute pubblica all’autodeterminazione: il percorso del diritto alla salute”, in M. Barni e A. Santosuosso (a cura di), Medicina e diritto, Milano, 1995, pp. 75 ss.
9 È nella prospettiva della tutela della salute (anche) psichica che si collocano risalenti e noti interventi della Corte Costituzionale in tema, ad
esempio, di aborto (Corte cost. 18 febbraio 1975, n. 27, Giurisprudenza
costituzionale, 1975, I, 117), transessuali (Corte cost. 24 maggio 1985, n.
M3_09_Testamento
144
16-12-2005
8:28
Pagina 144
GILDA FERRANDO
esclusivamente in termini oggettivi, come assenza di malattia,
ma deve essere considerata in relazione alla percezione che il
soggetto ha di sé, del proprio stato fisico e mentale, perché lo
star bene coinvolge gli aspetti interiori della vita come avvertiti e vissuti dal soggetto stesso. Si assiste a un passaggio dell’idea di salute come standard (l’uomo sano) al vissuto. Non
c’è più (soltanto) un metro oggettivo su cui misurare, con gli
strumenti della scienza, la salute, ma occorre tenere conto
dell’esperienza individuale, dell’universo di valori culturali,
religiosi, familiari, con i quali la salute deve armonizzarsi10. In
quanto elemento del più complessivo quadro dei diritti fondamentali della persona, la salute diviene apprezzabile sulla base di una valutazione soggettiva riferita all’intera esperienza
vissuta dal paziente11.
Il rapporto medico-paziente ne esce trasformato: se la salute, il bene del paziente, non può essere determinato solo in
termini oggettivi, ma deve tenere conto di profili dell’esperienza individuale, la scelta terapeutica non può essere fatta solo
dal medico, forte della sua competenza scientifica, ma deve
essere il risultato di un processo dialettico tra medico e paziente. Del consenso informato si può parlare come di un “mito” o, esasperandone i profili formali, lo si può riguardare come momento da cui prende le mosse quel processo di contrattualizzazione del rapporto medico-paziente che ha come epilogo la medicina difensiva. Se, tuttavia, si considera il rapporto medico-paziente nella prospettiva di una “etica della cura”,
il consenso informato può essere riguardato come il processo
161, Il Foro Italiano., 1985, I, 2162) e della Corte di Cassazione a proposito di sterilizzazione (Cass. pen. 18 marzo 1987, Cassazione penale,
1987, 609), chirurgia estetica (Cass. 25 novembre 1994, n. 10014, op. cit.),
danno psichico (ad esempio, Cass. 2 febbraio 2001, n. 1516) e così via.
10 Trib. Milano 14 maggio 1998, Nuova giurisprudenza civile commentata, 2000, I, 92. E v. Cass. n. 411/1990, Orientamenti giuridici del lavoro,
1991, 2387.
11 P. Zatti, “Il diritto a scegliere la propria salute” (in margine al caso S.
Raffaele), Nuova giurisprudenza civile commentata, 2000, II, 1.
M3_09_Testamento
16-12-2005
8:28
Pagina 145
STATO VEGETATIVO PERMANENTE E SOSPENSIONE DEI TRATTAMENTI
145
in cui il medico ascolta e accompagna il paziente in una decisione che spesso coinvolge l’intera dimensione esistenziale, il
senso stesso della vita12.
È per queste ragioni che deve essere rispettata la scelta del
paziente di non intraprendere certe terapie o di sospendere
quelle già iniziate13. Il Codice di deontologia medica prescrive
al medico di desistere dalla terapia quando il paziente consapevolmente la rifiuti (art. 32). La regola deontologica si allinea
al disposto costituzionale, per il quale i trattamenti contro la
volontà del paziente non sono ammessi se non quando la legge li prescriva espressamente, e sempre che non siano lesivi
della dignità della persona (art. 32 Cost.). Sia pur nei limiti della riserva di legge, la giustificazione dei trattamenti coattivi risiede nella salvaguardia dell’interesse generale14, per cui neppure il legislatore potrebbe imporre un trattamento medico al
solo fine di salvare la vita del paziente. Il dovere di curarsi,
che può scaturire da obblighi morali, da responsabilità verso
altre persone, o che può attingere a valori trascendenti, non si
traduce in un obbligo giuridico, essendo prevalente il rispetto
della libertà della persona e della sua dignità15.
Se il paziente non è in grado di esprimersi, la regola deontologica prescrive al medico di proseguire la terapia fino a
quando la ritenga “ragionevolmente utile” (art. 37), tenuto comunque conto delle direttive anticipatamente espresse dal paziente (art. 9).
12
G. Berlinguer, Etica della salute, Milano, 1997, pp. 5 ss.
Emblematico il caso del rifiuto di trasfusioni da parte dei testimoni di
Geova: in senso difforme tra loro, v. App. Trieste 25 ottobre 2003 e App.
Trento 19 dicembre 2003, Nuova giurisprudenza civile commentata,
2005, I, 101; il commento di Santosuosso e Faccon, Il rifiuto di trasfusioni tra libertà e necessità, ivi, II, 44.
14 Corte cost. 2 giugno 1994, n. 218, op. cit.; Corte cost. 23 giugno 1994, n.
258, op. cit.; Corte cost. 18 aprile 1996, n. 118, op. cit.; Corte cost. 26 febbraio 1998, n. 27, op. cit.
15 Per una diversa impostazione, v. L. Eusebi, “Il diritto penale di fronte
alla malattia”, in L. Fioravanti (a cura di), La tutela penale della persona.
Nuove frontiere, difficili equilibri, Milano, 2001, 119.
13
M3_09_Testamento
146
16-12-2005
8:28
Pagina 146
GILDA FERRANDO
La sospensione dell’alimentazione e idratazione artificiale
in pazienti in stato vegetativo permanente
Le decisioni relative a pazienti in stato vegetativo permanente
si collocano in questo quadro di principi al centro del quale
sta il consenso del paziente, espressione della sua libertà, autonomia, dignità.
Per negare ogni valenza di atto medico all’inserimento e al
mantenimento del sondino nasogastrico o della cannula endogastrica, il Comitato Nazionale per la Bioetica nel recente documento su L’alimentazione e l’idratazione di pazienti in
stato vegetativo persistente, del 30 settembre 2005, ne svaluta
il significato considerandolo come un “piccolo intervento iniziale”, in relazione al quale non si porrebbe un problema di
consenso/dissenso. Ma si tratta chiaramente di un artificio retorico: il principio del consenso vale per qualsiasi atto invasivo della sfera fisica, anche per quello così “piccolo” e poco rischioso che è l’inserimento di un ago in vena per il prelievo di
un campione di sangue. Secondo l’insegnamento delle supreme magistrature16, la necessità del consenso deriva non dalla
natura terapeutica dell’atto, o dalla sua “importanza”, ma dal
fatto che si tratta di atti medici comunque invasivi sfera fisica.
È questa invasione di per sé illecita, quando non sia permessa.
Il cuore del problema verte sul modo di intendere l’idratazione, l’alimentazione e le altre cure prestate al paziente in SVP
(stato vegetativo permanente). Si discute se esse vadano riguardate come attività terapeutiche, soggette alla regola del consenso, o come ordinaria cura della persona dovuta a chi non è autosufficiente, che da quella regola possono prescindere.
Il recente documento del CNB le definisce come “forme di
assistenza ordinaria di base e proporzionata”, eticamente
doverose come lo è “fornire acqua e cibo alle persone che non
sono in grado di procurarselo autonomamente (bambini, malati, anziani)”. Si tratta di un paragone inaccettabile. Il bambi-
16
V. note 4, 5, 6, 7.
M3_09_Testamento
16-12-2005
8:28
Pagina 147
STATO VEGETATIVO PERMANENTE E SOSPENSIONE DEI TRATTAMENTI
147
no e l’anziano, per quanto non in grado di procurarsi il cibo da
soli, avvertono la fame e la sete, chiedono l’acqua e il nutrimento (il bambino, fin dalla nascita, in modo prepotente), li
rifiutano quando sono sazi. Anche nelle fasi terminali di attenuazione o perdita della coscienza l’anziano apre la bocca e
deglutisce quando gli viene offerto il cibo, la chiude quando
non ne vuole più. Il suo corpo “sa” quando ha bisogno di cibo
e quando non ne ha. Nulla di tutto ciò avviene nel paziente in
SVP, il quale per questo viene alimentato forzatamente per via
nasogastrica o endogastrica.
Non c’è nulla di “ordinario”, “normale”, “naturale” nella
condizione del paziente in SVP. Lo mette bene in luce Mauro
Barni nella sua “Postilla” al documento del CNB. “L’affermazione che connota il documento del CNB – si legge – secondo
la quale l’idratazione e l’alimentazione del pazienti in SVP è da
considerare come doveroso ‘sostentamento’ di base del paziente e non come trattamento medico in senso stretto, è
espressiva di un inquadramento ideologico del tema, rispettabile ma completamente estraneo alla realtà clinica e alla autonomia tanto dell’assistito (del quale viene disattesa persino
una eventuale direttiva anticipata) quanto del medico, siffattamente deprivato della sua fondamentale potestà professionale, ch’è quella di stabilire con scienza e coscienza il momento in cui una terapia anche di mero sostegno vitale si trasforma in futile e impietoso accanimento”.
Ciò non significa, si badi bene, che la diagnosi di SVP “autorizzi di per sé l’abbandono del paziente e di ogni provvedimento curativo”, significa invece che, raggiunta “l’assoluta certezza
di irrecuperabilità dopo un tempo che non supera un anno”, la
sospensione di ogni trattamento di sostegno vitale diventa
“materia esclusiva di una valutazione clinico-scientifica”.
A ben vedere, la condizione del paziente in stato vegetativo permanente non ha più nulla di naturale. Quando il medico
interviene con trattamenti di rianimazione sulle persone che
hanno subito una lesione cerebrale in conseguenza di un evento traumatico o anossico, lo fa nella speranza di recuperare in
tutto o in parte alcuni dei pazienti che hanno subito il trauma.
M3_09_Testamento
148
16-12-2005
8:28
Pagina 148
GILDA FERRANDO
La rianimazione è praticata per preservare la vita in vista di
possibilità di recupero. Quando il tentativo non ha successo e
il paziente entra in stato vegetativo permanente, lo stesso trattamento di rianimazione, di alimentazione e idratazione forzata perde la sua giustificazione17. Se il recupero non ha successo, resta la condanna al prolungamento della vita biologica fine a se stesso, la condanna a un trattamento che all’origine
non era sostenuto dal consenso del paziente18.
Proprio perché non si tratta di una condizione “normale”,
“ordinaria”, come invece ritiene il CNB, è pienamente giustificata la valutazione della proporzionalità delle cure e dell’assistenza rispetto alle prospettive terapeutiche dei trattamenti. Il
carattere ordinario o straordinario, proporzionato o sproporzionato di un certo trattamento, compresa l’alimentazione e
l’idratazione, non può essere considerato in termini generali e
astratti, ma deve essere valutato in relazione alla condizione
complessiva in cui si trova il paziente. Il rispetto della dignità
della persona può, a ragion veduta, far considerare contrario
al suo interesse prolungare un trattamento che appare inutile,
proprio perché non riesce a recuperare alla vita, ma soltanto a
rinviare la morte.
Non vi è nulla di “ordinario” e “normale” nell’assistenza
che viene prestata al malato in SVP. Quello che viene somministrato non è “cibo”, ma una miscela di nutrienti e sostanze
chimiche appositamente preparata dai medici, come fa giustamente notare, nella nota integrativa al documento, l’opinione
dissenziente sottoscritta da numerosi componenti del CNB. E
17 P. Zatti, “Decisioni legali e valutazioni scientifiche”, in A. Santosuosso
e G. Gennari (a cura di), Le questioni bioetiche davanti alle Corti: le regole sono poste dai giudici?, Notizie di Politeia, 2002, n. 65, pp. 138 ss.,
specie, 147 e v. L. Ferrajoli, La questione dell’embrione tra diritto e morale, ivi, pp. 151 ss.
18 Spiegano molto bene tutto ciò Orsi, “Lo stato vegetativo permanente e
la questione del limite terapeutico”, Bioetica, 2001, pp. 259 ss.; C. A. De
Fanti, “Terry Schiavo, Eluana Englaro e l’impasse della bioetica italiana”,
Bioetica, 2005, n. 2, pp. 15 ss.
M3_09_Testamento
16-12-2005
8:28
Pagina 149
STATO VEGETATIVO PERMANENTE E SOSPENSIONE DEI TRATTAMENTI
149
poi come considerare l’assistenza continua, il fatto di tenere
pulito il malato, farlo muovere, prendersi cura del suo corpo
per evitare le conseguenze dell’immobilità, del decubito? E
come non pensare allo strazio dei familiari che partecipano
impotenti alla condizione del proprio caro per il quale non è
dato intravedere alcuna possibilità di ritorno alla coscienza,
alla vita di relazione?
Ciascuno vive questa terribile esperienza secondo i propri
canoni morali, le proprie convinzioni, la propria sensibilità. Se
va rispettata la decisione di quelle famiglie per le quali è di
conforto prendersi cura del proprio caro, accompagnarlo in
questo doloroso cammino, non per questo si è autorizzati a
bollare come animati dalla “fredda logica utilitaristica del bilanciamento dei costi e dei benefici” coloro che vogliono che
sia rispettato il desiderio del loro caro di morire con dignità,
che gli vogliono risparmiare un’esperienza che viene vissuta
come un ultimo affronto alla sua umanità. Solo la mancanza
di ogni pietà e compassione può far interpretare la loro richiesta di interrompere l’alimentazione e l’idratazione come segno
del loro considerare il malato “un ‘peso’ familiare oltre che sociale”. Diversamente da quel che ritiene il CNB, non vi è in
questa richiesta l’intenzione di “abbandonare” il paziente, ma
quella di lasciarlo morire in pace, garantendogli l’assistenza
che, in considerazione delle sue personali condizioni, è necessaria perché questo avvenga con umanità. Come il paziente
cosciente ha il diritto di rifiutare di essere alimentato con il
sondino, così quello incosciente deve poter essere staccato,
quando questo corrisponda ai suoi desideri e al suo interesse.
I modelli di decisione
Il fatto che il paziente non sia in grado di esprimere alcuna volontà pone, tuttavia, il problema di individuare altri soggetti
che decidano per lui se proseguire le cure, fino a quando, o se
interromperle. Si possono presentare diversi modelli di soluzione, ben rappresentati, d’altra parte, nelle diverse esperien-
M3_09_Testamento
150
16-12-2005
8:28
Pagina 150
GILDA FERRANDO
ze giuridiche. Semplificando al massimo, ricordiamo che nell’esperienza inglese19 è il medico a dover prendere le decisioni
nel best interest del paziente incapace, sia pur con il controllo
delle Corti. Il principio del consenso si arresta di fronte all’impossibilità di prestarlo e allora solo il medico può fare scelte
che tengano conto della necessità terapeutica e del migliore
interesse del paziente. Una soluzione, questa, che trova consensi in chi ritiene che anche da noi sia il medico a dover apprezzare quando una terapia sia utile al paziente e quando, essendo ormai priva di ogni prospettiva terapeutica, si riveli inutile o futile20.
Nell’esperienza americana domina il concetto di privacy,
da intendersi in senso lato, comprensivo dell’autonomia nelle
scelte personali. È il paziente che deve dare o togliere il consenso. Il principio della personalità del consenso appare incompatibile con poteri di rappresentanza dei genitori o di altri
soggetti, ragion per cui, nel caso di incapacità, bisogna andare
alla ricerca delle volontà espresse prima della perdita della
coscienza. Quando vi sia la prova che il paziente non avrebbe
voluto essere sottoposto a trattamenti di sostegno vitale, il
medico ha il dovere di desistere da quelli intrapresi21.
La prima decisione della Corte d’Appello di Milano sul caso Englaro, del novembre 199922, muove dalla premessa se-
19 Il leading case è quello deciso dalla House of Lord, “Airdale NHS Trust
v. Bland” in 1993, AC 789.
20 M. Barni, “Deontologia medica e stato vegetativo permanente”, Bioetica, 2001, 265.
21 Il leading case è quello deciso dalla Corte Suprema degli Stati Uniti
d’America, 25 giugno 1990, “Cruzan v. Director, Missuri Department of
Health”, Il Foro italiano, 1991, IV, c. 66, con note di A. Santosuosso, “Il
paziente non cosciente e le decisioni sulle cure: il criterio della volontà
dopo il caso Cruzan”, e di G. Ponzanelli, “Nancy Cruzan, la Corte Suprema degli Stati Uniti e il ‘right to die’”, ove ulteriori riferimenti all’esperienza americana.
22 App. Milano 31 dicembre 1999, Il Foro italiano, 2000, I, 2022, con note
di G. Ponzanelli, “Eutanasia passiva: sì se c’è accanimento terapeutico”, e
di A. Santosuosso, “Novità e remore sullo stato vegetativo permanente”.
M3_09_Testamento
16-12-2005
8:28
Pagina 151
STATO VEGETATIVO PERMANENTE E SOSPENSIONE DEI TRATTAMENTI
151
condo cui il consenso del paziente può esprimersi anche nel
rifiuto di cure. Essa, tuttavia, segue un percorso diverso dai
precedenti indicati quando ritiene che, nel caso di pazienti incapaci, la decisione possa a buon diritto essere presa dai soggetti (i genitori o il tutore) investiti di poteri di rappresentanza
dell’incapace, i quali sarebbero legittimati anche a chiedere la
sospensione di trattamenti di sostegno vitale. La ragione per
cui non ritiene di autorizzare l’intervento non è dunque di
principio, ma si spiega piuttosto con considerazioni di “merito”, non essendo, a suo dire, sufficientemente evidente, allo
stato dell’arte, se l’idratazione e l’alimentazione forzata costituiscano oppure no trattamenti di natura terapeutica23.
Nonostante la decisione sia negativa, il decreto si apprezza
per importanti affermazioni di principio in esso contenute. “La
vita dell’individuo – si legge in motivazione – va intesa non in
senso biologico come un mero fatto meccanico suscettibile di
prolungamenti artificiali, bensì come possibilità di relazione e
di autorealizzazione, in riferimento alla personalità e alla soggettività dell’uomo, con la conseguenza che la perdita irreversibile della coscienza non può non costituire un limite di ogni
trattamento medico, giacché segna il momento in cui cessa
definitivamente la possibilità di una vita dignitosa”.
Se, poi – continua la sentenza – si potesse definire “la nutrizione e l’idratazione forzata, somministrate con sonda nasogastrica a E.E. come trattamento terapeutico”, ciò “consentirebbe di invocare il principio di divieto di accanimento terapeutico, basato sui principi costituzionali di tutela della dignità della persona, previsto dal cdm (art. 14), dai documenti
internazionali, condiviso anche in una prospettiva morale-religiosa: il dovere giuridico, etico, deontologico del medico si arresta di fronte all’incurabilità dalla malattia, giacché ogni protrazione della terapia, trasformando il paziente da soggetto in
oggetto, viola la sua dignità”.
23
Solo apparentemente, tuttavia, si tratta di una questione di “puro merito”, come osserva A. Santosuosso, “Novità e remore”, op. cit., 2033.
M3_09_Testamento
152
16-12-2005
8:28
Pagina 152
GILDA FERRANDO
In queste proposizioni assume un rilievo decisivo il riferimento alla dignità della persona come limite all’azione del medico volta a prolungarne l’esistenza, quando siano definitivamente
tramontate le speranze di recuperarlo a una vita cosciente.
La commissione Oleari investita, nell’ottobre del 2000, del
problema dal Ministro della Sanità Veronesi, ha concluso che,
a prescindere dal suo carattere strettamente terapeutico, il
trattamento su pazienti in stato vegetativo permanente può,
fuori di ogni ragionevole dubbio, qualificarsi come trattamento di natura medica, che, in quanto tale, trova la sua condizione di legittimità nel consenso del paziente24.
Considerata quella che era la ratio decidendi della sentenza, il pronunciamento della Commissione Oleari avrebbe dovuto avere un peso non irrilevante sulla successiva decisione
dei giudici milanesi. Ma così non è stato.
Il ruolo dei genitori e del tutore
Stabilito che la nutrizione e l’idratazione sono atti medici soggetti alla regola del consenso, il problema è capire chi è legittimato a esprimere il consenso (o il dissenso) nel caso di paziente minore o incapace.
La Corte d’Appello di Milano nel 199925 ha ritenuto che la
decisione spetti al tutore, e più in generale al rappresentante
legale. Nello stesso senso si era espressa in anni lontani la
Corte di cassazione26. In recenti casi il giudice è stato richie-
24 Il rapporto del Gruppo di lavoro su nutrizione e idratazione nei soggetti in stato di irreversibile perdita della coscienza è pubblicato su Bioetica, 2001, 303.
25 App. Milano 31 dicembre 1999, Il Foro italiano, 2000, I, 2022, con note di G. Ponzanelli, “Eutanasia passiva: sì, se c’è accanimento terapeutico”, e di A. Santosuosso, “Novità e remore sullo ‘stato vegetativo persistente’”.
26 Cass. 18 dicembre 1989, n. 5652, Nuova giurisprudenza civile commentata, 1990, I, 512, con nota di C.M. Mazzoni.
M3_09_Testamento
16-12-2005
8:28
Pagina 153
STATO VEGETATIVO PERMANENTE E SOSPENSIONE DEI TRATTAMENTI
153
sto di nominare un tutore a persone affette da diabete che rifiutavano l’amputazione di un arto: e in almeno un caso si è
proceduto alla nomina nell’evidente assunto che il tutore sia
legittimato a dare il consenso all’intervento chirurgico.
La Corte di Cassazione, pronunciandosi sul caso Englaro27,
contesta questa affermazione. Il tutore sarebbe privo di “un
generale potere di rappresentanza con riferimento ai cosiddetti atti personalissimi”.
Questa affermazione, tuttavia, non tiene conto del fatto
che nei casi in cui la legge ha preso in considerazione il problema del consenso al trattamento medico da parte di minori
o incapaci ha attribuito poteri sostitutivi al rappresentante legale. Si segnalano la legge sulla donazione di sangue, cellule
midollari e staminali (legge 4 maggio 1990, n. 107), quella sulla
sperimentazione (dm 18 marzo 1998)28. Particolarmente significativo è il d.lgs.. 24 giugno 2003, n. 211 relativo alla sperimentazione clinica, il quale considera agli artt. 4 e 5 il caso dei pazienti minorenni e incapaci e stabilisce che il consenso debba
essere espresso dai genitori o dal rappresentante legale, precisando che “il consenso deve rappresentare la presunta volontà del soggetto”. Si lascia in tal modo intendere che il rappresentante legale deve fare una scelta rispettosa della personalità e dell’autonomia dell’interessato.
Si tocca in tal modo il problema dei limiti che incontra il
potere decisionale del tutore, il quale ha il dovere di agire nell’interesse dell’interdetto. Si tratta di un limite connaturato alla funzione del tutore, reso esplicito, per il consenso al trattamento medico, dalla Convenzione di Oviedo la quale dice
chiaramente che un intervento su di una persona priva della
capacità di consentire può essere compiuto con il consenso
27
Cass. 20 aprile 2005, n. 8291, Corriere giuridico, 2005, 88, con nota di
E. Calò, “Richiesta di sospensione dell’alimentazione a persona in stato
vegetativo: la Cassazione decide di non decidere”.
28 V. G. Ferrando, “Incapacità e consenso al trattamento medico”, Politica del diritto, 1999, 147.
M3_09_Testamento
154
16-12-2005
8:28
Pagina 154
GILDA FERRANDO
del rappresentante legale solo per suo “diretto beneficio” (art.
6). Sia pur non ancora pienamente in vigore, la Convenzione
non è (diversamente da quanto ritiene la Corte di Cassazione)
un testo che può essere tranquillamente ignorato in quanto
contiene principi che valgono sia come criterio interpretativo
per il giudice, sia come linea guida per il legislatore (il quale
mostra infatti di tenerne conto: v. il d.lgs. n. 211/2003).
Vediamo allora di esaminare il ruolo dei genitori e del tutore. Ad essi competono, oltre che poteri di amministrazione e
di rappresentanza (artt. 320, 357 c.c.), anche doveri di cura
della persona del minore o dell’interdetto, che trovano fondamento, per i primi, nei doveri di natura personale inerenti al
rapporto educativo e, per i secondi, nell’espressa previsione
di legge (art. 357 c.c.).
Questi poteri di cura della persona spettano ora anche alla
persona che sia stata nominata amministratore di sostegno
del disabile (art. 404 ss. c.c. introdotti dalla legge n. 6/2004),
dovendo il giudice indicare gli atti che questa è legittimata a
compiere a tutela degli interessi di natura patrimoniale e personale del beneficiario29.
I doveri di cura della persona si sostanziano non solo in atti materiali con cui si provvede direttamente ai bisogni del figlio o dell’incapace, ma anche in rapporti con altre persone
(insegnanti, medici, infermieri, istruttori sportivi e così via)
che concorrono a perseguire il medesimo fine. Il criterio che
presiede al loro esercizio è quello del prevalente interesse del
minore e dell’incapace30. Per gli atti di cura della persona, co-
29 V.S. Patti (a cura di), “La riforma dell’interdizione e dell’inabilitazione”,
Quaderni di Familia, 1, Milano, 2003; G. Ferrando e G. Visintini (a cura
di), Follia e diritto, Torino, 2003; G. Ferrando (a cura di), L’amministrazione di sostegno. Una nuova forma di protezione dei soggetti deboli,
Milano, 2005.
30 Si tratta di una clausola generale destinata a essere specificata dal giudice con riferimento alle circostanze del caso conrcreto: v. G. Ferrando,
“Diritti e interesse del minore tra principi e clausole generali”, Politica
del diritto, 1998, pp. 167 ss.
M3_09_Testamento
16-12-2005
8:28
Pagina 155
STATO VEGETATIVO PERMANENTE E SOSPENSIONE DEI TRATTAMENTI
155
me sono quelli relativi al trattamento medico, i genitori o il tutore nell’esprimere il consenso esercitano un ruolo di natura
personale che impone loro di tenere conto della personalità
del minore o dell’interdetto, di decidere “con” lui e non “per”
lui31. In altri termini, nell’esprimere il consenso al trattamento
medico per il figlio o per l’interdetto, i genitori e il tutore debbono tener conto dell’opinione che questi è in grado di esprimere, o che ha espresso prima della perdita della coscienza.
La realizzazione del miglior interesse dell’incapace nelle
decisioni sanitarie implica l’attuazione del suo diritto alla salute, e il rispetto della sua dignità e libertà. Le stesse leggi speciali prima richiamate, a partire da quella istitutiva del servizio sanitario nazionale, per giungere alla Convenzione europea di bioetica, o al decreto sulla sperimentazione, espressamente richiedono che anche il minore e l’incapace partecipino alla decisione sanitaria, vengano informati, e, in relazione
alla loro maturità e consapevolezza, esprimano il consenso32.
Stato vegetativo permanente e direttive anticipate
Quando vi sia una perdita irreversibile della coscienza si potrà
tener conto delle direttive anticipatamente espresse, secondo
quanto dispongono la Convenzione europea di bioetica (art.
9) e il Codice di deontologia medica (art. 34). È vero che né
l’uno né l’altro testo attribuiscono un valore vincolante alle direttive anticipate, in quanto si limitano a prescrivere che il medico ne tenga conto, ma questo non significa che esse siano
prive di ogni valore.
31
A proposito del trattamento medico su figli minori, in questo senso, v.
G. Grifasi, “Potestà dei genitori e scelte terapeutiche a tutela della salute
dei figli minori”, Nuova giurisprudenza civile commentata, 2000, I, pp.
211 ss., specie 216 (nota a Trib. min. Brescia 28 dicembre 1998, App. Brescia 13 febbraio 1999).
32 Cfr. Ferrando, “Incapacità e consenso al trattamento medico”, op. cit.,
pp. 147 ss.
M3_09_Testamento
156
16-12-2005
8:28
Pagina 156
GILDA FERRANDO
In mancanza di una legge che, come accade in molti altri
Paesi, attribuisca ad esse valore, anche da noi non possono
essere considerate del tutto prive di efficacia. Il fatto che le
direttive anticipate non esprimano una volontà attuale del malato spiega la cautela con la quale le si circonda e la scelta di
non attribuire loro un’efficacia incondizionata. In quanto formulate dal paziente in piena consapevolezza, esse sono, tuttavia, un indice attendibile della sua volontà e, ancor prima, del
suo modo di intendere la vita, la malattia, la dignità umana.
Esse potranno perciò essere disattese, ma non sulla base di
un apprezzamento discrezionale del medico, bensì quando ci
siano fondate ragioni per supporre che non corrispondano più
alla volontà attuale: ad esempio, quando sopravvengano circostanze che siano chiaro indice di un possibile superamento
di quelle intenzioni (mutamento di convinzioni religiose, progressi della medicina che aprono speranze su patologie che in
precedenza non ne lasciavano alcuna, e così via).
Lo stesso Comitato Nazionale per la Bioetica, nel parere
del 18 dicembre 2003 ha espresso una cauta apertura, chiedendo al legislatore di dare un sostegno giuridico alle dichiarazioni anticipate33. Nel più recente documento sullo SVP il
Comitato Nazionale va invece di contrario avviso. Pur ribadendo formalmente il valore del precedente parere, ritiene
che la richiesta anticipatamente espressa di sospensione dell’idratazione e dell’alimentazione sia ammissibile solo nel caso limite in cui esse costituiscano una forma di assistenza
“straordinaria”, il che si verifica quando “nell’imminenza della
morte l’organismo non sia più in grado di assimilare le sostanze fornite”. Altrimenti il CNB ritiene che la dichiarazione anticipata di sospensione dell’alimentazione e dell’idratazione forzata in paziente in SVP debba essere disattesa. Qui si vede
davvero quali siano le conseguenze inaccettabili che derivano
33
V. al riguardo, D. Neri, “Il problema dello SVP e il recente documento
del CNB sulle Dichiarazioni anticipate di trattamento”, Bioetica, 2005, n.
2, pp. 122 ss.
M3_09_Testamento
16-12-2005
8:28
Pagina 157
STATO VEGETATIVO PERMANENTE E SOSPENSIONE DEI TRATTAMENTI
157
dalla premessa per la quale si tratta non di atto medico ma di
“ordinaria assistenza di base”. Se infatti è tale la natura del
trattamento, “la richiesta di sospensione si configura come richiesta di una vera e propria eutanasia omissiva, omologabile
sia eticamente che giuridicamente a un intervento eutanasico
attivo, illecito sotto ogni profilo”.
Quando invece, al di fuori di ogni esasperazione ideologica, se ne assuma la natura di trattamenti medici, è evidente
che nel decidere la sospensione del trattamento, come per
ogni altra decisione terapeutica, si dovrà tener conto delle direttive anticipatamente espresse dal paziente. I genitori e il tutore, nel decidere insieme al medico se proseguire le cure oppure sospenderle, dovranno tener conto delle intenzioni manifestate dal paziente prima della perdita irreversibile della
coscienza.
La decisione di sospendere l’alimentazione e l’idratazione
nel paziente in stato vegetativo permanente può costituire l’estremo atto di rispetto della sua autonomia e della sua dignità,
un atto per il quale si profila l’opportunità del controllo giudiziale, nell’interesse dell’incapace. Si tratterà di verificare la legittimazione dei soggetti che chiedono la sospensione delle
cure, la condizione di irreversibile perdita di coscienza, l’inutilità delle cure, le intenzioni precedentemente espresse (se intenzioni al riguardo erano state manifestate), tenendo conto,
come ha sottolineato nel 1999 la Corte d’Appello di Milano,
che, nelle condizioni in cui si trova il paziente in stato vegetativo permanente, proseguire le cure, senza alcuna prospettiva
di recupero, appare “lesivo della dignità della persona” e quindi “legittimamente rifiutabile” da parte del tutore.
Il tutore è tuttavia investito del potere di decidere anche
quando non risulti una volontà precedentemente espressa. Si
pensi al caso del paziente oncologico incapace per il quale
tanto il fare quanto il non fare l’intervento chirurgico siano
opzioni che presentano margini di rischio che devono essere
valutati, o al caso in cui vi sia alternativa tra diversi interventi, che presentano diversi margini di rischi e benefici per il
paziente.
M3_09_Testamento
158
16-12-2005
8:28
Pagina 158
GILDA FERRANDO
In tali casi è il tutore, consultandosi con i medici, a dover
prendere una decisione che avrà come parametro di riferimento l’interesse del paziente, la sua dignità di persona. Il problema, a veder bene, non è valutare se è nell’interesse del paziente morire, bensì quello se è nel suo interesse subire un
trattamento che gli prolunga la vita in quelle condizioni. In altri termini, quel che occorre dimostrare non è l’interesse a interrompere le cure, ma l’interesse a proseguirle in circostanze
in cui è venuta meno ogni speranza di recupero della coscienza e della vita di relazione.
Come bene aveva notato nel 1999 la Corte d’Appello di Milano, “il dovere giuridico, etico, deontologico del medico si arresta di fronte all’incurabilità dalla malattia, giacché ogni protrazione della terapia, trasformando il paziente da soggetto in
oggetto, viola la sua dignità”.
Nella sentenza del 1999 la Corte d’Appello di Milano aveva
dunque fatto tutta una serie di importanti ammissioni: doveri
di cura della persona e poteri di rappresentanza del tutore, anche in ordine alla decisione di sospendere il trattamento quando lesivo della dignità della persona.
Tra giudici e legislatore
Nella seconda pronuncia, del 2003, la Corte d’Appello di Milano34 segue una diversa linea di pensiero e, rispetto a questo
precedente, fa decisamente un passo indietro.
Intanto mette fuori gioco i poteri di rappresentanza del tutore argomentando dal fatto che la Convenzione di Oviedo,
per quanto sia stata approvata la legge di ratifica non è ancora
“operativa, mancando il deposito dello strumento di ratifica”,
ma dimenticando che i poteri del tutore sono riconosciuti an-
34 App. Milano 17 ottobre 2003, Familia, 2004, 1167, con nota di G. Ferrando, “Stato vegetativo permanente e trattamenti medici: un problema
irrisolto”.
M3_09_Testamento
16-12-2005
8:28
Pagina 159
STATO VEGETATIVO PERMANENTE E SOSPENSIONE DEI TRATTAMENTI
159
che da leggi interne: ad esempio quelle sull’aborto, sulla donazione di sangue, cellule midollari e staminali sulla sperimentazione, e dimenticando il principio che in precedenza aveva individuato in forza del quale tali poteri in termini generali si
fondano sul dovere di cura della persona riconosciuto al tutore dal codice civile.
Nello stesso tempo liquida rapidamente il pronunciamento
della Commissione Oleari che aveva considerato nutrizione e
idratazione forzata come atti medici soggetti alla regola del consenso. Le conclusioni del gruppo di lavoro, osserva la Corte,
“non integrano la pronuncia determinante che ponga fine ai dibattiti qualificatori, pur costituendo una fonte autorevole per la
comunità scientifica, che potrà ulteriormente approfondire e
chiarire le delicate problematiche che si intrecciano nell’esame
della condizione del paziente in stato vegetativo permanente”.
Nella più recente pronuncia l’attenzione si sposta dai poteri del tutore al valore delle direttive espresse dall’interessato
prima della perdita di coscienza. Il decreto compie un’ampia
disamina della problematica che spazia dai contrastanti orientamenti espressi dalla giurisprudenza tedesca alle raccomandazioni europee, ai pareri del Comitato Nazionale per la Bioetica, alle proposte di legge. Ma questa rassegna di problemi e
di modelli di soluzione non offre alcun contributo ai fini della
decisione. Osserva la Corte che, pur essendo molti “gli spunti
nella cultura etico-giuridica per valorizzare il principio di autodeterminazione”, la Corte è “perplessa” (testualmente “perplessa”) “sull’opportunità/legittimità di un’interpretazione integrativa che sarebbe praeter legem, non già contra legem. È
pure perplessa in ordine al possibile espletamento di attività
sostanzialmente paranormativa, considerati i dilemmi giuridici, medici, filosofici, etici che si avvertono nei dibattiti della
società civile e nelle relazioni dei comitati e delle commissioni investite della tematica. Avverte peraltro che la mancanza
di regole lede diritti e interessi che corrispondono a valori costituzionalmente garantiti (artt. 2, 3, 13, 32 Cost.) ed è di ostacolo anche alla soluzione di problemi pratici”.
A giudizio del collegio solo il legislatore potrebbe stabilire
M3_09_Testamento
160
16-12-2005
8:28
Pagina 160
GILDA FERRANDO
regole in una materia come questa, non il giudice. La decisione, conclusivamente, auspica perciò “che il legislatore ordinario individui e predisponga gli strumenti adeguati per l’efficace protezione della persona e il rispetto del suo diritto di autodeterminazione, prevedendo una verifica rigorosa da parte
dell’autorità giudiziaria della sussistenza di manifestazioni di
direttive anticipate. L’intervento legislativo potrebbe evitare
strumentalizzazioni e sofferenze e contribuirebbe alla responsabilizzazione della collettività”.
L’autentica ratio decidendi del rigetto della domanda di
autorizzazione consiste, dunque, nella constatazione che manca una disposizione di legge, nell’assunto che solo il legislatore potrebbe dettare norme in materia. In tal modo la Corte dimentica che in caso di “lacune” dell’ordinamento l’art. 12 delle preleggi impone al giudice di decidere facendo ricorso vuoi
all’analogia, vuoi ai principi generali dell’ordinamento.
È proprio grazie al ricorso ai principi generali che la Corte di
Cassazione ha deciso l’inammissibilità del disconoscimento di
paternità da parte del marito che aveva dato il consenso all’inseminazione eterologa della moglie. Riscontrata una lacuna, in
quanto, a giudizio della Corte, l’art. 235 c.c. non trova diretta applicazione al di fuori dell’ipotesi di concepimento avvenuto in
seguito a un rapporto fisico della moglie con persona diversa
dal marito, la Corte fa ricorso ai principi generali (principalmente, il divieto di venire contra factum proprium, e il principio di
responsabilità nella procreazione) per prendere la decisione35.
35
Cass. 16 marzo 1999, n. 2315, Corriere giuridico, 1999, 429 e ivi, a p.
401 un commento di P. Schlesinger, “Inseminazione eterologa: la Cassazione esclude il disconoscimento di paternità”; Famiglia e diritto, 1999,
237, con nota di M. Sesta, “Fecondazione assistita. La Cassazione anticipa il legislatore”. Ancor prima, v. Corte cost. 26 settembre 1998, n. 347,
Nuova giurisprudenza civile commentata, 1999, I, 51, con nota di E.
Palmerini. Per un commento della sentenza della Cassazione e di quella
della Corte Costituzionale, v. G. Ferrando, “Inseminazione eterologa e disconoscimento di paternità tra Corte costituzionale e Corte di cassazione”, Nuova giurisprudenza civile commentata, 1999, II, 223.
M3_09_Testamento
16-12-2005
8:28
Pagina 161
STATO VEGETATIVO PERMANENTE E SOSPENSIONE DEI TRATTAMENTI
161
I giudici milanesi, invece, si arrestano davanti alla “lacuna”
dell’ordinamento. Ciò non evita loro di prendere una decisione (infatti non autorizzano), ma fa sì che la decisione di non
autorizzare resti priva di giustificazione dal punto di vista normativo e appaia sostanzialmente non motivata. Si può discutere quale sia il principio su cui fondare la decisione: se quello
della “sacralità della vita” – come ha fatto il tribunale di Lecco, nel decreto di primo grado36 –, o quello del rispetto della
volontà del paziente espressa prima della perdita della coscienza – come fanno i giudici americani – oppure quello del
best interest del paziente – come fanno i giudici inglesi – ma il
giudice non può limitarsi a restare “perplesso”, rifiutando
esprimere un giudizio.
Il problema di come colmare le lacune è comune a ogni ordinamento ed è risolto con varietà di soluzioni37. Ma vi è una
comune indicazione di fondo: il giudice ha gli strumenti per
colmare le lacune e deve usarli. Questi strumenti sono il ricorso all’analogia e ai principi generali38.
Il ricorso ai principi generali, mancando i presupposti per
l’analogia, non è dunque una facoltà del giudice, ma un suo
dovere. Che si tratti di opera di creazione giurisprudenziale
del diritto, piuttosto che di vera e propria interpretazione39,
non dovrebbe spaventare, se è vero che è proprio grazie all’esercizio di questi poteri che il diritto civile si è adeguato alle
trasformazioni economiche e sociali, al mutamento dei valori
ideali sui quali si fonda la convivenza civile.
36
Trib. Lecco, decr. 2 marzo 1999, Bioetica, 2000, 83.
Il riferimento è ai lavori di E. Betti, Interpretazione della legge e degli
atti giuridici, Milano, 1949; G. Gorla, L’interpretazione della legge, Milano, 1941; G. Tarello, “L’interpretazione della legge”, in Trattato di diritto
civile e commerciale diretto da Cicu e Messineo, Milano, 1980.
38 V.G. Alpa, “I principi generali”, in Iudica, Zatti (a cura di), Trattato di
diritto privato, Milano, 1993, specie pp. 164 ss.
39 R. Guastini, “Le fonti del diritto e l’interpretazione”, in Iudica, Zatti (a
cura di), Trattato di diritto privato, Milano, 1993, 422; G. Alpa, “I principi generali”, op. cit., pp. 164 ss.
37
M3_09_Testamento
162
16-12-2005
8:28
Pagina 162
GILDA FERRANDO
I giudici d’appello hanno dunque scelto di non decidere, e
la stessa scelta hanno fatto anche i giudici di Cassazione, che
hanno dichiarato inammissibile il ricorso presentato contro la
sentenza d’appello sulla base di un vizio formale (mancata notifica del ricorso per cassazione a un soggetto, il curatore speciale, che costituisce il necessario contraddittore in giudizio).
La conclusione di questa vicenda è molto triste perché pare davvero che nessuno in Italia (non i giudici, non il legislatore, tanto meno il CNB) sia in grado di assumersi la responsabilità di dare una risposta a una domanda di giustizia che tocca diritti fondamentali della persona umana.
M3_10_Testamento
16-12-2005
8:29
Pagina 163
Quali strumenti per attuare
le direttive anticipate?
di Michele Sesta*
Direttive anticipate e consenso al trattamento medico:
le difficoltà ad ammettere il consenso prestato “ora per allora”
Alla luce di una recente ordinanza della Corte di Cassazione, i
complessi problemi connessi alla vincolatività delle direttive
anticipate – disposizioni che un soggetto può impartire in ordine a scelte concernenti la propria salute per il tempo in cui
si trovasse in stato di incapacità – si sono posti nuovamente
all’attenzione degli interpreti e del legislatore.
Il tema costituisce senza dubbio un fecondo terreno di riflessione etica, coinvolgendo, allo stesso tempo, questioni pratiche di sicura importanza. Un riconoscimento giuridico delle
dichiarazioni anticipate da parte dell’ordinamento contribuirebbe, infatti, a risolvere i gravi problemi che i familiari dei pazienti, il personale sanitario e gli operatori giuridici si trovano
ad affrontare nell’ipotesi in cui un soggetto, in stato vegetativo
permanente, abbia manifestato, in epoca antecedente la perdita di capacità di intendere e di volere, il desiderio di non essere
tenuto in vita artificialmente, ovvero di una persona, in stato di
incoscienza a seguito di un trauma, professante una fede religiosa che gli imponga di rifiutare determinati tipi di cure.
*
Ordinario di Istituzioni di Diritto Privato e Docente di Diritto di Famiglia alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Bologna.
M3_10_Testamento
164
16-12-2005
8:29
Pagina 164
MICHELE SESTA
In siffatte ipotesi, il testamento di vita rappresenterebbe
un adeguato strumento per dare concreta attuazione al principio di autodeterminazione della persona, la cui vigenza è riconosciuta da numerose fonti normative tanto nazionali che di
carattere sovranazionale. Tra queste ultime, sia qui sufficiente
richiamare la Costituzione europea, la quale, all’art. II-63, c. 2,
stabilisce che, nell’ambito della medicina, debba essere rispettato il consenso libero e informato della persona interessata
secondo le modalità definite dalla legge. In essa sono confluite le disposizioni della Convenzione del Consiglio d’Europa
per la protezione dei diritti dell’uomo e della dignità dell’essere umano riguardo all’applicazione della biologia e della medicina (Convenzione, fatta a Oviedo il 4 aprile 1997, ratificata
con legge 28 marzo 2001, n. 145), la quale all’art. 5, c. 1, prevede che un intervento nel campo della salute non possa essere
effettuato se non dopo che la persona interessata abbia dato
consenso libero e informato. Per quanto invece concerne l’ordinamento interno, si deve anzitutto richiamare il dettato della Carta costituzionale, e in modo particolare, oltre all’art. 2, il
disposto dell’art. 131, che sancisce l’inviolabilità della libertà
personale, e dell’art. 32, c. 2, giusta il quale nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non sia
previsto per legge. Senza alcuna pretesa di completezza, tra le
altre disposizioni che ribadiscono la rilevanza del consenso, si
1
In argomento v. Corte cost., 22 ottobre 1990, n. 471, Foro it., 1991, I, 14,
con nota di Romboli, “I limiti alla libertà di disporre del proprio corpo
nel suo aspetto attivo e in quello passivo”, che ha sancito come il potere
della persona di disporre del proprio corpo ex art. 5 c.c. rientri nell’ambito della libertà personale. Nel solco tracciato da tale pronuncia, la successiva giurisprudenza ha intravisto anche nell’art. 13 Cost. il fondamento normativo del consenso alle cure: cfr. Cass. Pen., sez. IV, 11 luglio
2001, n. 1572, Cass. Pen., 2002, 2041, con nota di Iadecola; Cass., 25 novembre 1994, n. 10014, Nuova giur. civ. comm., 1995, i, 937, con nota di
Ferrando, “Chirurgia estetica, consenso informato del paziente e responsabilità del medico”; Cass., 15 gennaio 1997, n. 364, Danno e resp.,
1997, 178, con nota di Carbone, “Il consenso all’operazione vale come
consenso all’anestesia?”.
M3_10_Testamento
16-12-2005
8:29
Pagina 165
QUALI STRUMENTI PER ATTUARE LE DIRETTIVE ANTICIPATE?
165
annoverano l’art. 33, c. 1, legge 23 dicembre 1978, n. 833 (legge istitutiva del servizio sanitario nazionale), in base al quale,
in accordo con il dettato costituzionale, gli accertamenti e i
trattamenti sanitari sono di norma volontari; l’art. 18, legge 22
maggio 1978, n. 194 (Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza), che
prevede la reclusione da quattro a otto anni per chiunque cagioni l’interruzione della gravidanza senza il consenso della
donna, nonché l’art. 6 della legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita),
compendiante un’articolata disciplina del consenso alle tecniche di fecondazione artificiale. Indicative, si rilevano, infine,
le disposizioni dettate dal Codice di deontologia medica (approvato il 3 ottobre 1998 dal Consiglio Nazionale della Federazione italiana degli Ordini dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri), che all’art. 34, c. 1, prevede l’obbligo per il medico di
attenersi, nel rispetto della dignità, della libertà e dell’indipendenza professionale, alla volontà di curarsi, liberamente
espressa dalla persona.
Da quanto sin qui osservato, appare dunque di piana evidenza l’impossibilità di prescindere, in tema di scelte concernenti la salute, dalla volontà dell’interessato, che dovrà essere
rispettata tanto nel caso in cui sia volta a ottenere un trattamento terapeutico, quanto nella differente ipotesi in cui sia finalizzata al rifiuto di cure.
Occorre quindi interrogarsi circa la validità del consenso,
o del rifiuto alle cure, manifestati in previsione di un futuro
stato di incapacità.
Ancorché il nostro ordinamento nulla preveda al riguardo,
non mancano indici normativi, corroborati da precedenti giurisprudenziali e da riflessioni dottrinali dai quali è dato evincere
una significativa apertura nei confronti del testamento di vita.
In primo luogo, è necessario porre in luce come la rilevanza
delle direttive anticipate trovi un riconoscimento di carattere
legislativo nel dettato dell’art. 9 della Convezione di Oviedo,
secondo il quale i desideri precedentemente espressi da parte
di un paziente che, al momento dell’intervento, non sia in gra-
M3_10_Testamento
166
16-12-2005
8:29
Pagina 166
MICHELE SESTA
do di esprimere la sua volontà devono essere tenuti in considerazione. Allo stesso modo si esprime peraltro l’art. 34, c. 2, del
Codice di deontologia medica prevedendo che il medico, ove il
paziente non sia in grado di esprimere la propria volontà in caso di grave pericolo di vita, non possa non tenere conto di
quanto precedentemente manifestato dallo stesso.
Un ulteriore segnale verso il riconoscimento del living
will è giunto dal parere del Comitato Nazionale per la Bioetica sulle dichiarazioni anticipate di trattamento del 18 dicembre 20032, il quale ammette la legittimità delle direttive anticipate purché non contengano disposizioni aventi finalità eutanasiche o, comunque, in contrasto con il diritto positivo, le regole di pratica medica e la deontologia. Sono altresì significative alcune decisioni dei giudici di merito che hanno talvolta
riconosciuto rilevanza a documenti sottoscritti in via anticipata dal paziente3, o alle dichiarazioni di volontà rilasciate ai
propri congiunti4.
Accertata dunque la tendenza a conferire rilievo ai deside-
2
In argomento v. Neri, “Note sul documento del CNB sulle ‘Dichiarazioni
anticipate di trattamento’”, Bioetica, 2004, 188.
3 Trib. Pordenone 11 gennaio 2002, op. cit., che ha condannato al risarcimento del danno esistenziale il personale sanitario che aveva sottoposto
a trasfusione un paziente testimone di Geova, la cui sensibilità religiosa
era conosciuta sia per mezzo di una dichiarazione scritta, sia per quanto
riferito dai familiari; Pret. Roma, 9 aprile 1997, Bioetica, 2000, 132, con
nota di Fucci, “Rilevanza giuridica del rifiuto di cure da parte del paziente”, che ha assolto i medici imputati di omicidio colposo per avere omesso un trattamento trasfusionale a un paziente testimone di Geova, in
quanto si erano attenuti alle volontà del paziente ricavabili dalla dichiarazione di volontà sottoscritta dallo stesso e controfirmata da due testimoni nonché dal documento “niente sangue” trovato indosso al paziente
al momento del ricovero.
4 GIP Messina, 26 luglio 1995, Dir. pen. e proc., 1996, 202, con nota di Santosuosso, “Rifiuto di terapie su paziente non capace: quale il ruolo dei familiari?”, il quale ha ritenuto non responsabile del reato di omicidio volontario il medico che aveva omesso l’intervento in presenza di dissenso
espresso dai familiari e fondato sulla circostanza che la fede professata
dal paziente imponeva di evitare il trattamento medico.
M3_10_Testamento
16-12-2005
8:29
Pagina 167
QUALI STRUMENTI PER ATTUARE LE DIRETTIVE ANTICIPATE?
167
ri precedentemente espressi dall’interessato, non si possono
tuttavia sottacere le molteplici difficoltà che si incontrano ad
ammetterne la piena vincolatività ed efficacia. La questione è
correlata al tema della manifestazione di volontà al trattamento sanitario, dal momento che gli ostacoli ad ammettere il
living will nel nostro ordinamento derivano dall’elaborazione
dottrinale e giurisprudenziale creatasi in materia di requisiti
del consenso (o del dissenso) informato. Questo, infatti, per
essere considerato efficace, deve essere non solo personale –
eccettuati i casi di incapacità dell’interessato, nei quali sarà il
rappresentante legale a prestare il consenso alle cure –, ma
anche consapevole, libero, gratuito, espresso in modo chiaro
e incontrovertibile, e, soprattutto, per quanto qui di interesse,
attuale, specifico e revocabile in ogni tempo5.
Le obiezioni più frequentemente mosse nei confronti dell’efficacia delle direttive anticipate fanno proprio leva sull’impossibilità di ravvisare in esse la sussistenza di tali ultimi requisiti. La prima critica cui si espone il riconoscimento dell’efficacia del consenso manifestato “ora per allora” attiene infatti alla mancanza del requisito dell’attualità, giacché esso risulta del tutto “decontestualizzato” rispetto alla futura e ipotetica situazione nella quale è chiamato a operare. Si sottolinea
come, solo con riguardo a una data e concreta situazione di
fatto e al processo evolutivo di una determinata patologia,
5 Assai copiosa è la produzione scientifica sul tema del consenso al trattamento medico. Tra i numerosi contributi sia sufficiente in questa sede
richiamare Bologna, “Le nuove frontiere della responsabilità medica. La
questione del consenso informato”, Vita notarile, 2005, 401; Bilancetti,
“Il consenso informato: prospettive nuove di responsabilità medica”, in
Vettori (a cura di), Il danno risarcibile, II, Padova, 2004, 1005; Lalanne,
Landi, “Il consenso al trattamento sanitario”, in Ruffolo (a cura di), La
responsabilità medica, Milano, 2004, 223; Ferrando, “Consenso informato del paziente e responsabilità del medico, principi, problemi e linee di
tendenza”, Riv. crit. dir. priv., 1998, 41; Santosuosso, Il consenso informato. Tra giustificazione del medico e diritto del paziente, Milano,
1996; Nannini, Il consenso al trattamento medico, Milano, 1989.
M3_10_Testamento
168
16-12-2005
8:29
Pagina 168
MICHELE SESTA
possano essere forniti all’interessato precisi elementi – quali,
a titolo esemplificativo, una prognosi attendibile, o le alternative terapeutiche a disposizione – realmente in grado di condurre a una scelta ponderata. Si pone altresì in luce come una
siffatta manifestazione di volontà sia destinata a operare in un
momento in cui le condizioni mentali e personali dell’interessato potrebbero rivelarsi assai differenti rispetto a quelle in
cui venne espressa, senza poi tenere conto dei progressi che
la scienza medica potrebbe avere nel frattempo compiuto e
del conseguente miglioramento delle prospettive di vita6.
Un’ulteriore obiezione è stata avanzata con riguardo alla
mancanza di specificità del consenso manifestato in via anticipata, atteso che gli interventi sanitari sono nella maggior
parte dei casi composti da molteplici atti medici – richiedenti
differenziate e specifiche competenze professionali – che devono essere singolarmente accettati dal paziente. In particolar modo, se alcuni interventi collegati a quello principale possono essere implicitamente accettati dall’interessato, lo stesso non si può dire qualora tali trattamenti abbiano natura invasiva e comportino determinati rischi (si pensi, a titolo esemplificativo, alla trasfusione di sangue e all’intervento dell’anestesista), giacché essi devono essere autorizzati in maniera
specifica.
6 Bilancetti, “Il consenso informato: prospettive nuove di responsabilità
medica”, Il danno risarcibile, op. cit., 1082; Barni, “I testamenti biologici: un dibattito aperto”, Riv. it. med. leg., 1994, 837; Tamburrino, “Intervento”, in Reale (a cura di), Il testamento di vita (The Living Will), Roma, 1985, 61. Non ritengono invece che la mancanza di attualità possa
rendere inefficace il consenso prestato ora per allora: Rodotà, Tecnologie e diritti, Roma, 1995, pp. 169 ss.; Milone, Il testamento biologico (living will), op. cit., pp. 86 ss. In merito v. anche Ferrando, “Il principio di
gratuità biotecnologie e atti di disposizione del corpo”, Europa e diritto
privato, 2002, 773, secondo la quale le direttive anticipate possono essere disattese quando sopravvengano circostanze che lascino supporre un
superamento della volontà precedentemente manifestata, quali, ad esempio, la nascita di un figlio o i progressi della scienza medica che consentano la cura di patologie prima ritenute letali.
M3_10_Testamento
16-12-2005
8:29
Pagina 169
QUALI STRUMENTI PER ATTUARE LE DIRETTIVE ANTICIPATE?
169
I rilievi critici appena riportati si fanno meno incisivi allorquando la direttiva anticipata venga formulata da un soggetto
che, ben consapevole di essere in procinto di perdere la capacità a causa del decorso di un’accertata malattia degenerativa
e pressoché certo delle eventuali cure cui si dovrebbe sottoporre, acconsenta, per il tempo in cui non sarà in grado di decidere, che esse vengano praticate con determinate modalità
o non vengano affatto praticate, ovvero, se possibile, scelga
una terapia piuttosto che un’altra. In siffatta ipotesi, infatti, il
consenso ha un minor grado di astrattezza e genericità ed è il
frutto di una scelta compiuta consapevolmente7.
Si è peraltro osservato come le perplessità manifestate con
riguardo alla validità delle direttive anticipate possano essere
superate prevedendo che, nella stessa dichiarazione anticipata, sia contenuta la nomina di un fiduciario tenuto ad attuare la
volontà del disponente e a operare, in mancanza di istruzioni,
nel miglior interesse dello stesso, considerando la volontà in
precedenza espressa dall’incapace e i valori e convinzioni personali da questo condivisi8. La partecipazione attiva del fiduciario e il suo rapporto dialogico con il personale sanitario rappresenterebbero un punto di riferimento per valutare in modo
più sicuro la volontà del paziente, permettendo altresì di ottenere un valido consenso per procedere agli interventi che non
potevano essere presi in considerazione dall’interessato.
Ancora, si è notato come le preoccupazioni sollevate con
riferimento all’astrattezza e alla generalità del living will possano essere mitigate dalla possibilità di modificare o revocare
in qualunque tempo le direttive impartite. Tuttavia, ed è questa non secondaria perplessità suscitata dal testamento biologico, si rileva da altri come il paziente, a causa dello stato di
7 Iapichino, Testamento biologico e direttive anticipate, op. cit., 67; Spoto, “Direttive anticipate, testamento biologico e tutela della vita”, Europa e diritto privato, 2005, I, 183.
8 È questa la via percorsa da alcuni Stati americani tra i quali lo Stato della California, che ha disciplinato la materia con la Health Care Decision
Law (AB – 891 – Chapter 658) entrata in vigore il 1° luglio 2000.
M3_10_Testamento
170
16-12-2005
8:29
Pagina 170
MICHELE SESTA
incapacità, non sia in grado di revocare o modificare le proprie disposizioni proprio nel momento in cui più avvertite e
consapevoli sarebbero le interne motivazioni in grado di indurlo a tornare sui suoi passi. In altri termini, non è affatto
certo che l’interessato, se ancora capace, avrebbe voluto, nell’imminenza di un evento delicato o addirittura fatale, tenere
ferma la volontà precedentemente manifestata9.
A ben vedere, potrebbe essere questo il motivo per cui, affacciandosi al tema della vincolatività delle direttive anticipate, la Convenzione di Oviedo e il Codice di deontologia medica si limitano ad affermare che il medico non può non tenerne
conto, e il Comitato Nazionale per la Bioetica10, la dottrina
maggioritaria, nonché il più avanzato progetto di legge in materia, si esprimono nel senso di non ritenerle pienamente vincolanti per il personale sanitario. Si ritiene, infatti, che il medico possa disattenderle – purché indichi esaustivamente in
cartella clinica i motivi della decisione – nel caso in cui, sulla
base degli sviluppi delle conoscenze scientifiche e terapeutiche, non risultino più corrispondenti a quanto l’interessato
aveva previsto al momento della loro redazione11.
Le direttive assumerebbero, in definitiva, un carattere non
assolutamente vincolante, ma, al contempo, nemmeno meramente orientativo dei desideri espressi dall’interessato, i quali
dovrebbero essere tenuti in conto a condizione che il medico
9 In merito v. tuttavia il documento del Comitato Nazionale per la Bioetica sulle dichiarazioni anticipate di trattamento del 18 dicembre 2003, secondo il quale è “preferibile far prevalere le indicazioni espresse dall’interessato quando era ancora nel possesso delle sue facoltà e quindi, presumibilmente, coerente con la sua concezione della vita piuttosto che disattenderle facendo appello alla possibilità di un presunto (ma mai comprovabile) mutamento della volontà nel tempo successivo alla perdita
della coscienza”.
10 Cfr. il documento approvato dal Comitato Nazionale per la Bioetica in data 18 dicembre 2003, Dichiarazioni anticipate di trattamento.
11 V. art. 13, c. 6, disegno di legge n. 2943, nel testo proposto dalla Commissione permanente Igiene e Sanità.
M3_10_Testamento
16-12-2005
8:29
Pagina 171
QUALI STRUMENTI PER ATTUARE LE DIRETTIVE ANTICIPATE?
171
li ritenga dotati di un sufficiente grado di determinatezza avuto sempre riguardo al miglior interesse del paziente. In merito, si è quindi efficacemente posto in luce come la mediazione
del personale sanitario valga ad “attualizzare” il consenso manifestato in via anticipata12, dal momento che il medico è tenuto a valutare, sulla base delle proprie competenze professionali e dei dettami della deontologia, la volontà del paziente
nella specifica situazione in cui è destinata a operare13.
L’amministrazione di sostegno come strumento attuativo
della volontà precedentemente manifestata
Volendo individuare quali mezzi attuativi della volontà precedentemente manifestata si possano trovare nel nostro ordinamento, è d’uopo richiamare la disciplina dell’amministrazione
di sostegno – introdotta con legge 9 gennaio 2004, n. 614 –, che
12
Bilancetti, “Il consenso informato: prospettive nuove di responsabilità
medica”, op. cit., 1083; in tal senso cfr. anche Perico, “Testamento biologico e malati terminali”, Aggiornamenti sociali, 1992, 683.
13 Con riferimento alla fattispecie in cui la vita della persona sia in pericolo e non sia quindi possibile raccogliere il consenso, si vedano l’art. 8 della Convenzione di Oviedo, nonché l’art. 5 del citato disegno di legge n.
2943. In merito v. anche l’art. 35 del Codice di deontologia medica secondo il quale “allorché sussistano condizioni di urgenza e in caso di pericolo
per la vita di una persona, che non possa esprimere, al momento, volontà
contraria, il medico deve prestare l’assistenza e le cure indispensabili”.
14 Tra i primi commenti, v. Delle Monache, “Prime note sulla figura dell’amministrazione di sostegno: profili di diritto sostanziale”, La nuova
giurisprudenza civile e commentata, 2004, II, 29; Calò, Amministrazione di sostegno, Milano, 2004; Dossetti, Moretti, Moretti, L’amministrazione di sostegno e la nuova disciplina dell’interdizione e dell’inabilitazione, Milano, 2004; Malavasi, “L’amministrazione di sostegno: le linee di
fondo”, Notariato, 2004, 314; Bonilini, Chizzini, L’amministrazione di sostegno, Milano, 2004; Calò, Amministrazione di sostegno, Milano, 2004;
Roma, “L’amministrazione di sostegno: i presupposti applicativi e i difficili rapporti con l’interdizione”, Nuove leggi civili commentate, 2004, 993;
Patti (a cura di), L’amministrazione di sostegno, Milano, 2005.
M3_10_Testamento
172
16-12-2005
8:29
Pagina 172
MICHELE SESTA
viene da più parti indicata come uno strumento attraverso il
quale, nell’attesa di una normativa ad hoc, le direttive anticipate possano trovare cittadinanza nel nostro ordinamento15.
La nuova misura protettiva può infatti essere disposta a favore di chi, a causa di una infermità o di una menomazione fisica o psichica, si trovi nell’impossibilità, anche temporanea,
di provvedere ai propri interessi (art. 404 c.c.). L’amministrazione di sostegno è informata al principio di flessibilità, che si
traduce nel potere del giudice tutelare di determinare, volta
per volta, l’oggetto dell’amministrazione e i poteri dell’amministratore, tenuto conto delle residue capacità e delle specifiche esigenze del beneficiario.
Parte degli interpreti, argomentando dal disposto dell’art.
408, c. 2 c.c., intravede in tale misura di protezione una possibile cornice normativa entro la quale inscrivere il testamento
biologico16. Invero, la disposizione prevede la possibilità di
designare l’amministratore di sostegno in previsione della
propria eventuale futura incapacità, mediante atto pubblico o
scrittura privata autenticata, cosicché la predetta norma – introducendo nell’ordinamento la facoltà di autoregolamentare
la propria futura incapacità17 – richiama la figura del fiduciario per la salute, già presente in alcuni ordinamenti stranieri e
menzionata nel progetto di legge approvato il 13 luglio dalla
Commissione Igiene e Sanità del Senato18.
Tuttavia, la designazione di cui all’art. 408 c.c. presenta significative differenza rispetto a quella del fiduciario per la salute, dal momento che la nomina dell’amministratore è co-
15 Calò, Amministrazione di sostegno, op. cit., 114; id., “L’amministrazione di sostegno al debutto fra istanze nazionali e adeguamenti pratici”, Notariato, 2004, 252; Carapezza Figlia, Profili ricostruttivi delle dichiarazioni anticipate di trattamento, Familia, 2004, 1061; Spoto, “Direttive
anticipate, testamento biologico e tutela della vita”, op. cit., pp. 192 ss.
16 Calò, Amministrazione di sostegno, op. cit., 114.
17 Moretti, in Dossetti, Moretti, Moretti, L’amministrazione di sostegno
e la nuova disciplina dell’interdizione e dell’inabilitazione, op. cit., 69.
18 V. art. 12, c. 3 e 4.
M3_10_Testamento
16-12-2005
8:29
Pagina 173
QUALI STRUMENTI PER ATTUARE LE DIRETTIVE ANTICIPATE?
173
munque lasciata dalla legge alla competenza del giudice tutelare, senza perciò acquistare efficacia in forza della mera volontà dell’interessato, ancorché il giudice tutelare, possa discostarsi da essa solo in presenza di gravi motivi19 (art. 408, c.
3 c.c.).
Un’ulteriore ragione per ritenere che l’amministrazione di
sostegno possa attuare le funzioni di un testamento biologico
si trae dalla circostanza che, secondo parte degli interpreti,
l’atto di designazione può essere accompagnato da alcune direttive dettate dall’interessato e concernenti le modalità di
svolgimento dell’incarico20.
Resta da verificare il possibile contenuto di tali indicazioni, in modo tale da accertare se i poteri conferibili all’amministratore di sostegno possano coincidere con le statuizioni solitamente contenute nelle direttive anticipate. A ben vedere,
sembra deporre in tal senso il combinato disposto degli artt.
404 e 408 c.c., che, facendo generico riferimento alla necessità
di provvedere agli “interessi” del soggetto, consente di ricomprendervi anche quelli di indole non patrimoniale21, tra i quali,
in particolar modo, la cura della persona. Nella stessa direzione si colloca il dettato dell’art. 12, il quale dispone che il giudice possa convocare l’amministratore di sostegno in ogni momento per dare istruzioni inerenti agli interessi anche solo
morali del beneficiario. D’altro canto, anche i giudici sembra-
19
Ad avviso della dottrina, detta formula fa riferimento alla sussistenza
di circostanze di fatto che manifestino l’inettitudine dell’amministratore
di sostegno; v. al riguardo, Bonilini, “L’amministratore di sostegno”, in
Bonilini, Chizzini, L’amministrazione di sostegno, op. cit., 104, secondo
il quale soltanto il giudice può discostarsi dall’indicazione del designante
solo in presenza dell’accertamento della presenza di effettivi, oggettivamente accertabili “gravi motivi”.
20 Bonilini, “L’amministratore di sostegno”, in Bonilini, Chizzini, L’amministrazione di sostegno, op. cit., 96.
21 In tal senso cfr. Delle Monache, “Prime note sulla figura dell’amministrazione di sostegno: profili di diritto sostanziale”, op. cit., 32; Bonilini,
“Compiti dell’amministratore di sostegno”, in Bonilini, Chizzini, L’amministrazione di sostegno, op. cit., 170.
M3_10_Testamento
174
16-12-2005
8:29
Pagina 174
MICHELE SESTA
no orientati ad attribuire rilevanza ai compiti di cura della persona22. Al riguardo occorre tuttavia rilevare come la possibilità che l’amministratore di sostegno presti il consenso al trattamento sanitario in nome e per conto del beneficiario sia al
centro di un vivace dibattito giurisprudenziale. Infatti, secondo un orientamento, per vero minoritario, l’amministratore
non può in alcun modo sostituirsi validamente al beneficiario,
in quanto il principio di autodeterminazione sarebbe suscettibile di deroga solo nei casi di totale incapacità della persona,
ossia di interdizione23. La giurisprudenza maggioritaria, al
contrario, ammette che l’amministratore di sostegno sia legittimato a esprimere o rifiutare il consenso al trattamento sanitario in nome e per conto del beneficiario, qualora egli non sia
in grado di effettuare una scelta responsabile; tale affermazione si giustifica in virtù della funzione di cura della persona che
le norme attribuiscono all’amministratore di sostegno, cosicché egli, al pari del tutore dell’interdetto, può sostituire il soggetto da “curare” e da “proteggere”24.
Alla luce delle argomentazioni addotte, pare corretto aderire a quest’ultima tesi, concludendo nel senso che l’oggetto
dell’amministrazione di sostegno possa comprendere anche
decisioni in ordine ai trattamenti sanitari, all’alloggio, all’alimentazione, all’igiene e simili25 e che conseguentemente possa esservi corrispondenza tra l’oggetto dell’amministrazione
di sostegno e quello del testamento biologico.
Tutto ciò osservato, occorre ancora verificare quale vinco-
22
In merito v. Trib. Genova 1° marzo 2005, www.altalex.it, il quale conferisce all’amministratore di sostegno il potere di decidere circa la permanenza della beneficiaria in una casa di cura.
23 Trib. Torino, 22 maggio 2004, www.studioaquilani.it.
24 V. Trib. Roma, 19 marzo 2004, Notariato, 2004, 249; Trib. Cosenza, 24 ottobre 2004, www.altalex..it; Trib. Roma, 28 gennaio 2005, www.altalex.it.
25 Calò, Amministrazione di sostegno, op. cit., 107. Non è tuttavia chiaro se, qualora nel decreto di nomina non venga esplicitamente richiamata detta funzione, essa possa esser compresa ex lege nell’oggetto dell’amministrazione.
M3_10_Testamento
16-12-2005
8:29
Pagina 175
QUALI STRUMENTI PER ATTUARE LE DIRETTIVE ANTICIPATE?
175
latività abbiano le direttive impartire dall’interessato sia nei
confronti del giudice, che nei confronti dell’amministratore.
Si noti come l’art. 408, c. 3 c.c. vincoli il giudice a nominare,
salvo casi eccezionali, amministratore di sostegno la persona
indicata dall’interessato; la norma, invero, non opera alcun riferimento specifico alle eventuali direttive contenute nell’atto
di designazione, tanto che, nel silenzio del legislatore, è ragionevole concludere che tali disposizioni non siano vincolanti
per il giudice. Egli ha tuttavia la facoltà di recepire nel decreto
le statuizioni del designante in ordine alle modalità di svolgimento dell’attività di amministratore, le quali, per ciò stesso,
non potranno essere disattese.
È tuttavia necessario interrogarsi circa la vincolatività di
quelle direttive che, pur contenute nell’atto di designazione,
non siano poi state recepite nel decreto di nomina; ciò al fine
di verificare se esse assumano rilevanza nell’ambito dell’attività dell’amministratore.
Viene a riguardo in considerazione la previsione contenuta
nell’art. 410 c.c., compendiante il dovere dell’amministratore
di tener conto, nello svolgimento dei suoi compiti, dei bisogni
e delle aspirazioni del beneficiario. Si tratta di una disposizione innovativa, dalla quale emerge inequivocabile l’intento del
legislatore di porre la persona umana al centro della misura di
protezione26. Come è stato correttamente affermato, la norma
in esame acquista una diversa portata precettiva a seconda
della capacità cognitiva e volitiva residua del beneficiario; tanto che, laddove il soggetto si trovasse in una condizione di totale incapacità (stato vegetativo permanente, coma, o altro)
l’amministratore non sarebbe di fatto tenuto a conformare la
propria attività alle aspirazioni del beneficiario27.
26
Dossetti, “Doveri dell’amministratore di sostegno”, in Dossetti, Moretti, Moretti, L’amministrazione di sostegno e la nuova disciplina dell’interdizione e dell’inabilitazione, op. cit., 81.
27 Roma, L’amministrazione di sostegno: i presupposti applicativi e i
difficili rapporti con l’interdizione, op. cit., 1031.
M3_10_Testamento
176
16-12-2005
8:29
Pagina 176
MICHELE SESTA
Qualora poi quest’ultimo, attualmente privo di ogni capacità di comunicare con il mondo esterno e dunque di partecipare alle decisioni che lo riguardano, avesse predisposto nell’atto di designazione indicazioni circa lo svolgimento dell’attività di amministrazione, esse costituirebbero la fonte primaria cui attingere informazioni circa le aspirazioni del soggetto
sottoposto alla misura di protezione. Con specifico riguardo
alla vincolatività, le linee-guida contenute nell’atto di designazione acquisterebbero così la medesima rilevanza delle necessità e aspirazioni manifestate dal beneficiario nel corso dell’amministrazione. Questa tesi è confermata da quanto previsto nel secondo comma della norma citata, la quale prevede
che “ in caso di (...) negligenza nel perseguire l’interesse o nel
soddisfare i bisogni o le richieste del beneficiario, questi, il
pubblico ministero o gli altri soggetti di cui all’art. 406 c.c. possono ricorrere al giudice tutelare, che adotta con decreto motivato gli opportuni provvedimenti”.
Il rimedio previsto dalla norma ben può estendersi anche
al caso in cui la volontà del soggetto sia contenuta in un atto
separato, cosicché la negligenza dell’amministratore nel perseguire le richieste ivi contenute avrebbe come conseguenza
la facoltà per il giudice di intervenire con i provvedimenti che
ritiene più opportuni, eventualmente anche sostituendo l’amministratore in carica.
In definitiva, l’analisi fin qui svolta mette in luce le notevoli sinergie esistenti tra amministrazione di sostegno e direttive
anticipate; non appare quindi azzardato affermare che il recente istituto di protezione costituisca uno strumento idoneo
a incaricare una persona di fiducia dell’attuazione della propria volontà – con particolare riguardo agli aspetti di cura della persona – in previsione di un’eventuale e futura incapacità.
M3_11_Testamento
16-12-2005
8:30
Pagina 177
Il silenzio della legge
e il testamento di vita
di Diana Vincenti Amato*
Alcuni anni fa, ad Aspen, durante un seminario dedicato al
consenso del paziente ai trattamenti sanitari, fu presentato un
video sconvolgente; tanto sconvolgente che gli organizzatori
invitarono ad allontanarsi le persone sofferenti di cuore o
estremamente emotive nel timore che la visione potesse danneggiarle.
Il video presentava una serie di trattamenti cui era stato
sottoposto un giovane uomo ustionato gravemente da non so
quale acido: il corpo nudo, completamente lacerato, veniva
immerso in una vasca, manovrato e trattato come una cosa,
tra sofferenze indicibili. Quell’uomo chiedeva disperatamente di essere lasciato morire. Sulla considerazione che il dolore gli aveva fatto perdere la capacità di decidere, e nell’incertezza della madre a decidere per lui, le cure continuarono. Il
video si spostava poi di alcuni anni, e raccontava come quel
paziente, pur rimasto cieco e paraplegico, fosse riuscito a “rifarsi una vita”, e anzi come l’esperienza subita lo avesse spinto a studiare legge e a divenire avvocato. Ce lo mostrava poi,
ancora sfigurato, e lo faceva intervenire direttamente sul suo
caso. Ebbene, quell’uomo, quell’avvocato, affermava che ciò
che era stato fatto di lui, le cure che aveva dovuto subire contro la sua volontà, erano state un inaccettabile abuso, un’of-
*
Ordinario di Diritto Privato all’Università La Sapienza, Roma.
M3_11_Testamento
178
16-12-2005
8:30
Pagina 178
DIANA VINCENTI AMATO
fesa irreparabile alla sua dignità; che nello strazio del suo corpo c’era una sorta di degradante indecenza; che se anche allora avesse potuto conoscere il suo futuro avrebbe detto “no,
let me alone”.
Perché racconto questa storia a premessa di alcune considerazioni sul testamento di vita? La racconto, come è intuibile, perché coglie alcuni dei nodi più spesso, e assai spesso
confusamente, dibattuti: come accertare la “vera” volontà del
paziente quando, pur non trovandosi in stato di incoscienza, è
tuttavia in condizioni fisiche e psicologiche tali da ritenere
che altra sarebbe la sua volontà in condizioni diverse? Quale
peso dare alla volontà, espressa al suo posto, o in conflitto
con la sua, dai parenti più stretti? Esiste uno standard al quale
fare riferimento per valutare la “ragionevolezza” di certe scelte, sia in ordine al tipo di intervento terapeutico che si è disposti ad affrontare, sia in ordine alla “qualità della vita” che
si è disposti ad accettare?
Inizio da quest’ultima domanda. La persona di cui al caso
riferito non lamentava la qualità della vita cui lo si era riportato, ma piuttosto il prezzo pagato, in sofferenza e dignità, per
esservi riportato; altri, e molti di noi ne hanno purtroppo esperienza da persone vicine, preferiscono lasciare che la malattia
faccia il suo corso per non subire amputazioni o menomazioni
che, a loro giudizio, renderebbero la loro vita non meritevole
di esser vissuta; altri, al contrario, pensano che ogni vita, anche la più limitata e sofferente, debba essere vissuta, e per
conservarla sono disponibili a qualsiasi trattamento. Vi sono
dall’altro lato i parenti, e lascio qui da parte ogni ipotesi di
conflitto, il cui amore si può esprimere sia attraverso un attaccamento al corpo del paziente tale da richiedere che venga
mantenuto in vita, quali che siano le sofferenze che debba patire o nonostante l’irreversibilità dello stato vegetativo in cui
si trova, sia invece attraverso la pietà per quella sofferenza,
per quel corpo bloccato che chiedono venga liberato con la
sospensione delle cure. La riposta alla domanda se vi sia uno
standard è dunque sicuramente no, ed è l’unica risposta che
può salvaguardare il principio del consenso del paziente (ov-
M3_11_Testamento
16-12-2005
8:30
Pagina 179
IL SILENZIO DELLA LEGGE E IL TESTAMENTO DI VITA
179
vero, ma di questo si dirà meglio in seguito, di chi è chiamato
a consentire in suo luogo). È allora alla formazione e all’accertamento del consenso che si deve aver riguardo.
La formazione del consenso, come è indiscusso e indiscutibile, richiede informazione sui dati sanitari del paziente, sulla diagnosi, sulla prognosi, sui vantaggi e sui rischi delle procedure diagnostiche e terapeutiche prospettate, sulle possibili
alternative, sulle conseguenze del rifiuto del trattamento1; richiede altresì informazione sulla possibile evoluzione della
malattia, e sulle svolte che nel corso della terapia possono determinarsi, ponendo dinanzi a scelte ulteriori. Quando si parla
di testamento biologico, testamento di vita, dichiarazioni anticipate di trattamento si ha spesso riguardo agli sviluppi di una
malattia già in atto; lo stesso testamento, però, potrà anche
prefigurare eventi (malattie, incidenti) temuti o semplicemente ipotizzati e in tal caso l’informazione sarà quella generica
che ciascuno di noi può ricavare da letture, notizie, esperienze altrui. Nel primo caso si avrà un testamento “mirato”, nel
secondo un testamento che indica alcuni limiti invalicabili al
trattamento (no alle trasfusioni di sangue, no all’amputazione
di un arto, no a trattamenti chimici o radiologici che comportino la cecità o eliminino la capacità sessuale e riproduttiva,
no all’interruzione della gravidanza per salvare la vita della
madre, no a una sedazione troppo prolungata, no a una sopravvivenza che dipenda esclusivamente dall’essere attaccati
a una macchina).
Consenso anticipato o rifiuto anticipato di cure, sempre reversibili, entrerebbero in gioco, ovviamente, solo quando l’interessato si trovi nell’incapacità di esprimere la sua volontà,
così come solo in questo caso potrebbe essere chiamata a
1
Così nella relazione al disegno di legge n. 2943, presentato nella 14a legislatura dal senatore Tomassini ( fatto proprio con insignificanti modifiche dalla 12a Commissione, Sanità) e nell’art. 2 del medesino, nonché nell’art. 1 del disegno Ripamonti, Del Pennino, n. 2274, e del disegno Acciarini, n. 1437.
M3_11_Testamento
180
16-12-2005
8:30
Pagina 180
DIANA VINCENTI AMATO
esprimersi la persona cui il testatore abbia affidato il compito
di decidere per lui, o uno dei parenti2. Ma cosa significa incapacità di decidere?
Nei disegni di legge ricordati nelle note che precedono si
parla di incapacità di intendere e di volere o di incapacità naturale, ed è chiaro che non si ha presente soltanto il caso del
malato che si trovi in stato di incoscienza irreversibile o non
reversibile nei tempi necessari all’intervento, ma anche quello
di un malato sveglio, ma apparentemente confuso, spaventato, contraddittorio; si prevede infatti che ad accertare quella
incapacità sia un collegio di tre medici (un neurologo, uno psichiatra, e uno specialista della patologia da cui il malato sia
affetto), il che non sembrerebbe necessario quando il paziente sia in coma. La capacità, o meglio la incapacità di intendere
e volere, non è però capacità o incapacità in ordine a una serie ipotetica di atti, ma è capacità o incapacità riguardo alla
specifica decisione che è stata presa o che deve sul momento
essere presa. Nel caso del consenso o del rifiuto del trattamento si tratta dunque di valutare se il paziente comprenda
effettivamente qual è il suo stato attuale di salute, quale la terapia proposta e quali le terapie alternative, la loro invasività,
le sofferenze, i rischi e gli effetti collaterali di ciascuna di quelle, le probabilità di un esito positivo; in altre parole, si tratta di
capire se sia in grado di dare un “consenso informato”. E qui
si impone una prima osservazione: la valutazione chiaramente
va fatta al momento in cui le informazioni vengono fornite e
proprio per questo dovrebbe essere affidata al medico che le
sta fornendo, possibilmente al medico di fiducia, spesso chiamato, del resto, a “tradurre” al paziente le risposte e le proposte, a volte troppo tecniche e oscure, fornite dallo specialista.
Ritengo infatti che presupposto essenziale della libertà del2
I progetti indicati alla nota precedente prevedono infatti che il testatore
possa indicare una persona cui rimettere le decisioni in caso di sua sopravvenuta incapacità, o cui affidare il rispetto delle volontà esplicitate
nel testamento stesso, e che i parenti, nell’ordine indicato, possano subentrare solo in mancanza di ogni indicazione.
M3_11_Testamento
16-12-2005
8:30
Pagina 181
IL SILENZIO DELLA LEGGE E IL TESTAMENTO DI VITA
181
la scelta sia il rapporto di fiducia, l’empatia che si è creata tra
medico e paziente, e che se è vero che sofferenza, paura di
morire e paura di soffrire, stanchezza della vita, paura per una
vita che si prospetta assai diversa e peggiore di quella precedente, preoccupazione per i propri cari, sono tutti elementi
che possono incidere sulle determinazioni del malato, è anche
vero che non sempre, e forse quasi mai, quelle paure si traducono in una incapacità di intendere e di volere (come, a mio
parere erroneamente, si ritenne nel caso raccontato all’inizio).
Solo il medico con cui si è instaurato un simile rapporto – e
non un’equipe di estranei, pur altamente qualificati – sarà in
grado di sciogliere quelle paure o quantomeno il dilemma della capacità o incapacità del paziente.
Il testamento di vita – e ritorno dunque all’occasione di
queste considerazioni – che il paziente stesso abbia rilasciato
prima della malattia o delle sue complicanze potrebbe essere
risolutivo quando vi sia una concordanza tra quanto affermato
allora e quanto indicato al momento critico della scelta. Come
dovrebbe esserlo e a maggior ragione, quando sia certa l’incapacità attuale del soggetto.
Occorre però che siano chiari alcuni punti. Il testamento di
cui si discute, così come i dubbi sulla capacità del paziente al
momento della decisione, vengono in evidenza o assumono
particolare rilievo solo di fronte a quello che in modo onnicomprensivo viene definito “rifiuto di trattamento”, o di fronte alla richiesta, allo stato non esaudibile, della somministrazione di una qualche sostanza che induca a una morte rapida3.
In una società dove si riconosce a tutti il diritto alla salute e
dove domina un’etica, non solo medica, che giustamente privilegia la salvaguardia della vita, quale ne sia la qualità, il pro-
3 Non ritengo opportuno considerare qui la richiesta di un intervento attivo che procuri la morte; anche se a volte il confine tra eutanasia passiva
e eutanasia attiva può sembrare assai incerto, e assai simili invece le ragioni dell’una e dell’altra, resta la sanzione penale dell’omicidio del consenziente, e soprattutto il rispetto, questa volta, della volontà e libertà
del medico.
M3_11_Testamento
182
16-12-2005
8:30
Pagina 182
DIANA VINCENTI AMATO
blema di non intraprendere o di sospendere le cure a un paziente in stato di incoscienza o a un paziente che a quelle cure
consente, ma della cui capacità si dubita, si dovrebbe porre
solo quando altri pretendano di decidere per lui, avanzando
un rifiuto (e si tratterebbe di vedere, e ne accenneremo in seguito, con quale valore).
Parlare di testamento di vita, o come altro lo si voglia chiamare, ha dunque un senso solo sulla premessa di un “diritto”
negativo a non curarsi, che è poi quello cui si devono i numerosi richiami legislativi al “consenso” del paziente. Ora, mentre non vi è dubbio che quel diritto vi sia, ed è anzi un diritto
costituzionalmente protetto, poiché “nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i
limiti imposti dal rispetto della persona umana”(art. 32, c. 2
Cost.), qualche dubbio evidentemente permane sulla validità
di un “dissenso” anticipato, se è vero che, a differenza di altri
Paesi europei (Danimarca, Germania, Olanda, Belgio, alcuni
cantoni svizzeri), l’Italia non ha ancora una legge che riconosca a quel dissenso un qualche valore giuridico. E ciò rimane
vero nonostante nel 2001 sia stata ratificata la Convenzione di
Oviedo del 1996, per la quale “i desideri precedentemente
espressi a proposito di un intervento medico saranno tenuti in
considerazione”, e nonostante il Codice di deontologia medica del 1998, all’art. 34, disponga che “il medico, se il paziente
non è in grado di esprimere la propria volontà, in caso di grave pericolo di vita, non può non tener conto di quanto precedentemente manifestato dallo stesso”.
È giustificato questo silenzio legislativo, quando un riconoscimento esplicito sarebbe di grande aiuto? Perché si dà valore alla volontà manifestata al momento in cui l’esigenza si pone e non lo si riconosce a quella manifestata in precedenza?
Mi sembra che l’unica risposta che si potrebbe dare – considerata la naturale revocabilità delle disposizioni anticipate – è
che al presentarsi di quella esigenza il paziente avrebbe potuto cambiare idea, ma non può farlo perché non più in grado di
decidere. Ma è proprio questa la finalità prima del testamento
M3_11_Testamento
16-12-2005
8:30
Pagina 183
IL SILENZIO DELLA LEGGE E IL TESTAMENTO DI VITA
183
di vita, come del resto del testamento in cui si dispone del proprio patrimonio: decidere quando si è ancora in tempo, evitare che altri (la legge, il medico, i parenti) decidano per noi,
quando non anche impedire che una sopravvenuta grave debolezza fisica e psichica induca a cancellare la coerenza della
propria vita e la razionalità delle proprie scelte. Non riconoscerne la forza vincolante, attribuendo questa forza solo al rifiuto espresso al momento in cui il trattamento andrebbe applicato dal paziente capace, equivarrebbe a ritenere che, perduta quella capacità, la persona non sia più tale e quindi cadano nel nulla le manifestazioni già espresse della sua volontà. A
me sembra che questa rottura nella continuità della vita sia
contraria al rispetto della persona, e ritengo che sia già sufficiente il dettato costituzionale sopra citato a impedire che si
intervenga quando sia chiaramente provata una volontà contraria precedentemente espressa.
Ho parlato di una “comprovata volontà contraria” precedentemente espressa. L’assenza di un riconoscimento legislativo esplicito, pur nella inequivocabilità del dettato costituzionale, rende ancora assai poco frequente, da noi, il ricorso a disposizioni anticipate circa la propria salute. È vero
che in famiglia, tra amici, di fronte a fatti che l’esperienza o
la cronaca ci presentano, capita di esprimersi, e in modo non
superficiale, circa l’atteggiamento che terremmo in circostanze analoghe; ed è vero che chi poi venga posto di fronte
alla propria malattia e alla sua possibile evoluzione cerca
spesso di coinvolgere le persone che gli stanno più vicine, e
lo stesso medico, nei suoi timori per il futuro, fino a chiedere che, giunto il momento, lo si aiuti a morire (sospendendo
le cure, staccando la spina, combattendo il dolore con ogni
mezzo). Certo però è difficile provare queste dichiarazioni,
ed è ancor più difficile che ad esse venga riconosciuto valore
decisivo.
La prassi attuale è che, in caso di incapacità dell’interessato, siano i parenti più prossimi a consentire al trattamento.
Questa prassi però ha senso solo se si fonda sulla presunzione
che essi meglio di ogni altro conoscono e vogliono rispettare
M3_11_Testamento
184
16-12-2005
8:30
Pagina 184
DIANA VINCENTI AMATO
quella che sarebbe stata la sua volontà4. E infatti il loro obbligo di cura5, cui tradizionalmente ci si richiama, non può non
trovare il limite già ricordato del rispetto della persona. Che
poi questo non accada nella pratica, che all’interesse del paziente si sovrapponga un attaccamento egoistico, o al contrario la volontà egoistica di liberarsene (di liberarsi, ad esempio, di quell’angoscia senza fine che procura il protrarsi dello
stato di coma di una persona cara) è un rischio che si corre, e
che sarà evitato quanto più puntuale, attenta e responsabile
sarà l’informazione medica.
Che, in previsione di una sopraggiunta incapacità, sia consentito affidare la scelte relative alla propria salute a una persona di fiducia, come proposto nei già ricordati disegni di legge, sembra dunque una soluzione auspicabile: da un lato infatti rende ben chiaro che si tratta di scelte da fare nell’interesse
e nel rispetto della personalità del paziente; dall’altro riconosce che non sempre e non necessariamente le persone più
adatte a svolgere questa funzione sono il coniuge, i genitori, i
figli, che di fatto possono essersi allontanati nel tempo o possono essere troppo fragili per una decisione sempre molto carica emotivamente. Va da sé che anche nel caso in cui sia un
terzo fiduciario chiamato a decidere, la partecipazione del medico attraverso una informazione chiara e responsabile sarà
essenziale per orientarne le scelte.
Insisto sulla partecipazione e responsabilità del medico
per varie ragioni. La prima è che troppo spesso si ha la sensazione che il consenso di persone diverse dal paziente, in genere dei parenti più stretti, sia richiesto non tanto per tutelare
4
È su questo presupposto, che cioè i genitori si facciano portatori della
volontà della figlia Karen Ann Quinlan in coma irreversibile, che nel 1976
una Corte del New Jersey risolve il conflitto con il medico, che si rifiutava di sospendere le cure di sostegno vitale.
5 Collegato all’obbligo di cura è sicuramente il consenso dei genitori al
trattamento dei figli. Si tratta di un aspetto della potestà genitoria difficile e assai discusso, che qui non affronto perché esula in gran parte dal discorso delle dichiarazioni anticipate di volontà.
M3_11_Testamento
16-12-2005
8:30
Pagina 185
IL SILENZIO DELLA LEGGE E IL TESTAMENTO DI VITA
185
l’interesse di quest’ultimo, quanto per garantire il medico da
azioni penali e di responsabilità civile da costoro promosse in
casi di insuccesso. Se il consenso del paziente che sia vigile è
indispensabile, configurandosi altrimenti il trattamento, anche il meno invasivo e il più riuscito, quale violenza sulla persona, non potrebbe parlarsi di violenza, a mio giudizio, per il
trattamento imposto contro la volontà dei parenti; sempre che
non siano in grado di provare, come ho detto sopra, che il loro
rifiuto è dovuto al rispetto della volontà precedentemente
espressa dal malato. Se così è, allora l’unica misura della legittimità dell’intervento – in assenza, ripeto, di disposizioni anticipate – è lo scopo per cui viene intrapreso (la tutela della salute), la sua idoneità e la correttezza tecnica della sua applicazione; tutti elementi che riguardano esclusivamente il medico
che è intervenuto, non certo i parenti che hanno consentito, i
quali anzi, nonostante il consenso, potrebbero agire per malpractice.
La seconda ragione è che anche nella prospettiva del riconoscimento del valore vincolante delle decisioni prese, in sostituzione del paziente incapace, dalla persona da lui in precedenza designata, è certo che questa potrà assicurarne il rispetto della personalità e delle idee solo sulla base di una
esatta conoscenza dello stato e dello stadio in cui il paziente
si trova e della natura e appropriatezza delle misure suggerite
o intraprese.
La terza e conclusiva ragione è che, se da un lato non si
riconosce alla classe medica quella correttezza ed eticità
che deve orientarne la professione, e se dall’altro i medici
non accettano l’idea che ogni individuo è unico, con una sua
diversa visione della vita e una diversa tolleranza delle sofferenze e delle menomazioni fisiche e psichiche, e se non
accettano l’idea che curare non è solo risolvere la malattia e
allungare la vita, ma anche rendere questa vita accettabile,
lenire il dolore, non protrarre inutilmente il processo del
morire, allora permarrà sempre il dubbio, e la possibilità,
che una manipolazione anche non grande della reale situazione consenta di non attenersi alla volontà precedentemen-
M3_11_Testamento
186
16-12-2005
8:30
Pagina 186
DIANA VINCENTI AMATO
te espressa, o orienti in modo distorto le scelte della persona designata6.
È proprio da un intervento legislativo che esplicitamente
riconosca la natura vincolante del testamento di vita, che ci si
possono attendere trasformazioni non indifferenti nel rapporto medico-paziente. Alla classe medica, o meglio a quella sua
parte che ancora stenta a vedere nel malato un interlocutore
attivo nel processo di cura, e si trincera dietro “protocolli medici”, quasi si trattasse di regole ingegneristiche da applicare a
materiale inerte, insegnerebbe che sempre il paziente va
ascoltato, e non solo per farsi descrivere i sintomi. A noi, potenziali pazienti, toglierebbe quell’atteggiamento di umile sottomissione che spesso ci coglie dinanzi a chi “ne sa più di noi”,
ma non per questo può decidere per noi. Da un rapporto più
equilibrato nascerebbe quella maggiore fiducia che può rendere meno traumatici per il malato anche la diagnosi più infausta e i trattamenti più penosi, e che allontana dal medico lo
spettro, oggi ragionevole, di azioni legali contro di lui.
Perché questi risultati possano essere ottenuti è però necessario, a mio parere, un intervento legislativo “leggero” e
senza paludamenti. Non così è, ad esempio, il testo Tomassini
accolto dalla Commissione Sanità del Senato, quando, per il testamento di vita e per l’indicazione del sostituto richiede l’atto
notarile e la sua annotazione in un registro nazionale istituito
presso il Consiglio Nazionale del Notariato. Una formalizzazione, ritengo, che non solo allontana le persone, specie le più
semplici, dall’idea di poter esser partecipi anche per il futuro,
quando le capacità espressive e intellettive saranno scomparse
o fortemente scemate, delle decisioni che riguardano la propria salute e la propria vita; ma che potrebbe anche finire per
6 Il caso recente di Terry Schiavo, in cui i genitori si opponevano alla sospensione delle cure facendo leva su espressioni della figlia che a loro
giudizio, e contro l’opinione medica, sarebbero state significative di un
pur modesto stato vigile, può fornire un’idea di come una situazione possa essere letta diversamente a seconda dei risultati che si ritiene giusto
perseguire.
M3_11_Testamento
16-12-2005
8:30
Pagina 187
IL SILENZIO DELLA LEGGE E IL TESTAMENTO DI VITA
187
far ritenere irrilevanti scritture o dichiarazioni non formalizzate e ancor più ogni indicazione che possa derivarsi dalla complessiva filosofia della vita del soggetto ora incapace.
Il testamento di vita, quando vi sia, e dovrebbe bastare a
farlo esistere una scrittura privata che ciascuno porta con sé7,
è lo strumento più facile e sicuro per rilevare la volontà del
paziente ora incapace; questa volontà però andrà comunque
ricercata, in assenza di quello, nei suoi comportamenti passati
e nelle testimonianze altrui, quando ci si debba confrontare
con scelte che comportano future gravi menomazioni fisiche
e psichiche, sofferenze strazianti, o la condanna a una vita puramente vegetativa. Solo così si assicura quel rispetto della
persona che non è mai in conflitto, ma è parte integrante del
rispetto della vita umana.
7
La forma della scrittura privata era quella suggerita da G. Alpa in una
sua proposta di regolamentazione delle dichiarazioni anticipate di volontà riguardo i soli trattamenti di sostegno del malato terminale. La proposta, presentata in un convegno di Politeia nel 1990, richiedeva che la
scrittura fosse firmata alla presenza di due testimoni, familiari o amici, e
comunicata per raccomandata al medico di famiglia. Cfr. L. Iapichino,
Testamento biologico e direttive anticipate, Ipsoa, 2000, p. 76.
M3_11_Testamento
16-12-2005
8:30
Pagina 188
M3_12_Testamento
16-12-2005
8:31
Pagina 189
“Testamento per la vita”
e amministrazione di sostegno
di Giovanni Bonilini*
Amministrazione di sostegno e testamento biologico
o per la vita
All’entrata in vigore della legge 9 gennaio 2004, n. 61, che ha
profondamente innovato il sistema di protezione delle persone
prive d’autonomia, affiancando, ai tradizionali istituti dell’in-
*
Ordinario di Diritto Civile alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università
degli Studi di Parma.
1 Fra i contributi, v. almeno: G. Bonilini, A. Chizzini, L’amministrazione di
sostegno, Padova, 2004; M. Dossetti, M. Moretti, C. Moretti, L’amministratore di sostegno e la nuova disciplina dell’interdizione e dell’inabilitazione, s. l. e s. d., ma Milano, 2004; S. Delle Monache, “Prime note sulla figura
dell’amministrazione di sostegno: profili di diritto sostanziale”, Nuova giur.
civ. commentata, 2004, II, pp. 29 ss.; B. Malavasi, “L’amministrazione di sostegno: le linee di fondo”, Notariato, 2004, pp. 319 ss.; U. Morello, “L’amministrazione di sostegno (dalle regole ai principi)”, Notariato, 2004, pp. 225
ss.; R. Pescara, “Amministrazione di sostegno e minore età”, Giustizia minore? La tutela giurisdizionale dei minori e dei “giovani adulti”, suppl.
al fascicolo n. 3 di Nuova giur. civ. commentata, 2004, pp. 137 ss.; F. Ruscello, “‘Amministrazione di sostegno’ e tutela dei ‘disabili’. Impressioni
estemporanee su una recente legge”, Studium iuris, 2004, pp. 149 ss. V.
inoltre: E. Calò, Amministrazione di sostegno. Legge 9 gennaio 2004,
n. 6, Milano, s. d., ma 2004; E. Calò, “La nuova legge sull’amministrazione
di sostegno”, Corriere giur., 2004, pp. 861 ss.; G. Campese, “L’istituzione
dell’amministrazione di sostegno e le modifiche in materia di interdizione e inabilitazione”, in Fam. e dir., 2004, pp. 126 ss.; S. Vocaturo, “L’am-
M3_12_Testamento
190
16-12-2005
8:31
Pagina 190
GIOVANNI BONILINI
terdizione giudiziale e dell’inabilitazione, l’amministrazione di
sostegno, destinata peraltro a “soppiantare”, in definitiva, codesti, tradizionali istituti2, non è mancato chi ha ritenuto di poter ricavare altresì, dalle sue norme, un appoggio al fine di colmare la lacuna relativa al cosiddetto testamento biologico, o
ministratore di sostegno: la dignità dell’uomo al di là dell’handicap”, Riv.
not., 2004, III, pp. 241 ss.; E. Calice, “Commento agli artt. 404 ss. cod.
civ.”, Cod. civ. ipertest., a cura di G. Bonilini, M. Confortini, C. Granelli,
Torino, 2005, II ed.; AA.VV., L’amministrazione di sostegno, a cura di S.
Patti, Milano, s. d., ma 2005; AA.VV., L’amministrazione di sostegno.
Una nuova forma di protezione dei soggetti deboli, a cura di G. Ferrando, Milano, s. d., ma 2005.
Utili, inoltre, sono i contributi relativi alle proposte di legge che, nel tempo, hanno preceduto il testo normativo entrato in vigore; si vedano, soprattutto: S. Patti, “Introduzione”, in La riforma dell’interdizione e dell’inabilitazione, a cura di S. Patti, Milano, s. d., ma 2002, pp. 19 ss.; P.
Cendon, La tutela civilistica dell’infermo di mente, ivi, pp. 29 ss.; C. M.
Bianca, L’autonomia privata: strumenti di esplicazione e limiti, ivi,
pp. 117 ss.; G. Ferrando, Protezione dei soggetti deboli e misure di sostegno, ivi, pp. 125 ss.; L. Milone, Il disegno di legge n. 2189 sull’amministratore di sostegno, ivi, pp. 105 ss.; L. Milone, “L’amministratore di
sostegno”, in S. Patti (a cura di), Il notaio e la famiglia: attualità e prospettive, Milano, s.d., ma 2004, pp. 89 ss.
V. anche: C.M. Bianca, “La protezione giuridica del sofferente psichico”,
Riv. dir. civ., 1985, I, pp. 25 ss.; P. Perlingieri, “Gli istituti di protezione e
di promozione dell’infermo di mente. A proposito dell’handicappato psichico permanente”, Rass. dir. civ., 1985, pp. 46 ss.; P. Cendon, “Infermi di
mente e altri ‘disabili’ in una proposta di riforma del codice civile”, Giur.
it., 1988, IV, c. 117 ss.; E. Amato, “Interdizione, inabilitazione, amministrazione di sostegno. Incertezze legislative, itinerari giurisprudenziali e
proposte della dottrina”, Riv. crit. dir. priv., 1993, pp. 101 ss., spec. pp.
131 ss.; G. Lisella, “Amministrazione di sostegno e funzioni del giudice
tutelare. Note su una attesa innovazione legislativa”, Rass. dir. civ., 1999,
pp. 216 ss.
Possono essere richiamati, infine, i numerosi contributi raccolti in Un altro diritto per il malato di mente. Esperienze e soggetti della trasformazione, a cura di P. Cendon, Napoli, 1988.
2 V., ad esempio, G. Bonilini, “I presupposti dell’amministrazione di sostegno”, in G. Bonilini, A. Chizzini, L’amministrazione di sostegno, op. cit.,
pp. 37 ss., spec. pp. 44 ss.
M3_12_Testamento
16-12-2005
8:31
Pagina 191
“TESTAMENTO PER LA VITA” E AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO 191
per la vita, che invece conosce da tempo, nelle esperienze straniere, una precisa disciplina, sensibile ai valori della persona3.
Si è sostenuto, ad esempio, con riguardo all’impossibilità
temporanea, contemplata all’art. 404 c.c., o alla nomina dell’amministratore di sostegno provvisorio, ex art. 405, IV c. c.c.,
che una persona, alla vigilia di un intervento chirurgico, potrebbe designare un soggetto, affinché assuma decisioni in
ambito medico, nel tempo in cui la stessa, verosimilmente,
non sarà in grado d’intendere e volere; in tal modo, porrebbe
“validamente in essere un testamento biologico, in attesa di
una più perfezionata e apposita previsione legislativa”4.
Non è questa la sede per mettere in luce l’improprietà dell’espressione utilizzata, ché, all’evidenza, è del tutto inadeguato
esprimersi nel senso di “testamento per la vita”5, sebbene non
sfugga l’efficacia dell’ossimoro impiegato. Non può negarsi,
però, l’importanza della confezione di un atto, unilaterale inter
vivos6, al quale una persona, temendo di perdere, per malattia o
intervento chirurgico, la capacità di intendere e volere, affidi,
anzitutto, la designazione del soggetto che dovrà prendere le decisioni, nell’ipotesi in cui il designante non fosse in grado di
esprimerle, e, inoltre, una serie di direttive di vario genere, quali,
ad esempio, quelle concernenti il luogo in cui voglia trascorrere
la fase della malattia, l’alimentazione, l’abbigliamento eccetera7.
Trattasi, dunque, di negozio giuridico unilaterale inter vivos, la cui efficacia è differita a un momento successivo, coincidente con il verificarsi di un dato evento, vale a dire il prodursi
dello stato d’incapacità psichica8, che, in quanto antecedente
3 Cfr., per una prima informazione: E. Calò, Amministrazione di sostegno, pp. 106 ss.; G. Capozzi, Successioni e donazioni, t. I, Milano, s. d.,
ma 2002, II ed., pp. 465 ss.
4 Così E. Calò, Amministrazione di sostegno, op. cit., p. 106.
5 V. anche G. Capozzi, Successioni e donazioni, t. I, op. cit., p. 465 e p. 467.
6 Nello stesso senso, v. G. Capozzi, Successioni e donazioni, t. I, op. cit.,
p. 467.
7 Cfr E. Calò, Amministrazione di sostegno, op. cit., p. 107.
8 Cfr. G. Capozzi, Successioni e donazioni, t. I, op. cit., p. 467.
M3_12_Testamento
192
16-12-2005
8:31
Pagina 192
GIOVANNI BONILINI
alla morte del suo autore, non rende possibile un accostamento, se non di pura assonanza o suggestione, al testamento.
Negozio, dunque, atto a valorizzare appieno la volontà dell’uomo, il quale, in modo consapevole, manifesta, suo tramite,
le decisioni inerenti la propria salute, e i rischi connessi a particolari tecniche terapeutiche, intuitivamente efficace, oggi,
nei limiti in cui non miri alla realizzazione dell’eutanasia9.
Ciò acquisito, si ritiene che le norme sull’amministrazione di
sostegno – si pensi, soprattutto, all’art. 408, I c. c.c., nella parte
relativa alla designabilità dell’amministratore di sostegno10 –,
consentano oggi, in modo ancor più sicuro, la valorizzazione,
quanto meno in attesa di un più organico, necessario intervento
normativo, degli auspici espressi dall’uomo, che, successivamente alla consapevole manifestazione dei medesimi, tema di non essere in grado di autodeterminarsi, indi di attuarli direttamente,
sicché dispone affinché altri si esprima al posto suo, seguendo,
appunto, le direttive, che egli stesso ha dettato al tempo in cui
era pienamente capace11. Del resto, in un ordinamento, qual è il
nostro, che persiste a essere sordo di fronte al problema di dare
piena attuazione, e forza, alla volontà dell’uomo, in un campo
che, salvo alcuni limiti ineludibili, non dovrebbe interessare l’ordinamento giuridico, chiamato soltanto a predisporre i mezzi di
tutela della volontà congruamente manifestata, non resta, all’interprete, che sfruttare ogni piccolo spazio offertogli dalle norme.
Amministrazione di sostegno e trattamenti sanitari.
Si è messo in luce che, nell’ambito dei compiti di cura della
persona, che competono all’amministratore di sostegno, la
quale, per certi versi, costituisce l’aspetto più significativo del
nuovo istituto, che non può essere riguardato soltanto nella
9
Cfr. G. Capozzi, Successioni e donazioni, t. I, op. cit., p. 468.
Al riguardo, v. G. Bonilini, “L’amministratore di sostegno”, in G. Bonilini, A. Chizzini, L’amministrazione di sostegno, op. cit., pp. 78 ss.
11 Nello stesso senso, v. E. Calò, Amministrazione di sostegno, op. cit., p. 114.
10
M3_12_Testamento
16-12-2005
8:31
Pagina 193
“TESTAMENTO PER LA VITA” E AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO 193
prospettiva dell’amministrazione dei beni del beneficiario12,
può farsi rientrare la manifestazione di consensi di varia natura (ad esempio, trattamenti medici, trattamenti dei dati personali e, forse, anche consenso all’uso dell’immagine o di altri attributi della personalità)13. Si reputa, invece, che meritino distinta considerazione, gli atti inerenti il diritto di famiglia14,
sebbene non si manchi di segnalare la necessità di non impedire al disabile di compiere atti inerenti i rapporti di famiglia, in
quanto espressione di diritti fondamentali della personalità15.
A mio avviso, il nuovo sistema di norme avrebbe potuto
meglio considerare gli interrogativi sopra affacciati; nondimeno, mi pare consenta di pervenire a una soluzione, se non pienamente soddisfacente, apprezzabile, sempre che il giudice
tutelare applichi le norme con prudenza e, soprattutto, nel rispetto dei diritti fondamentali16.
Recenti casi, balzati, con prepotenza, agli onori della
stampa e della televisione, rendono sicura l’attualità dell’interrogativo circa la scelta di rifiutare un dato trattamento sanitario e, di conseguenza, per quanto qui interessa, circa i
12
Al riguardo, v. G. Bonilini, “Capacità del beneficiario e compiti dell’amministratore di sostegno”, in G. Bonilini, A. Chizzini, L’amministrazione
di sostegno, op. cit., pp. 172 ss.
13 G. Ferrando, “Protezione dei soggetti deboli e misure di sostegno”, in
S. Patti (a cura di), La riforma dell’interdizione e dell’inabilitazione,
Milano, s. d., ma 2002, (pp. 125 ss.), p. 137.
14 G. Ferrando, Protezione dei soggetti deboli e misure di sostegno, op.
cit., pp. 138 ss., la quale, fra l’altro, rileva come sia discussa la posizione
del disabile riguardo alla separazione e al divorzio, e riprova il progetto
di riforma, che non affronta direttamente il problema, mostrando al riguardo un’evidente lacuna; pertanto, ancora una volta, starà alla sensibilità e all’intelligenza dei giudici, nell’impiego degli ampi poteri discrezionali loro affidati nel definire i compiti dell’amministratore di sostegno,
far sì che il nuovo istituto possa davvero costituire strumento di promozione dei diritti dei soggetti deboli (ivi, p. 140).
15 G. Ferrando, “Protezione dei soggetti deboli e misure di sostegno”, op.
cit., p. 139.
16 V. anche infra, § 3.
M3_12_Testamento
194
16-12-2005
8:31
Pagina 194
GIOVANNI BONILINI
confini, entro i quali può trovare applicazione l’amministrazione di sostegno.
Non si dovrebbe avere incertezza sul fatto che si è qui di
fronte a scelte che non dovrebbero neppure lontanamente far
porre la domanda, se altri possa decidere in luogo del diretto
interessato, e, men che meno, se altri possa sovrapporre la
propria decisione a quella liberamente manifestata dall’interessato, vuoi in prossimità del trattamento, vuoi in previsione
dello stesso, com’è stato, peraltro, in un caso recente17.
All’evidenza, è grossolana l’idea, secondo cui la persona, la
quale non acconsenta a un dato trattamento sanitario, senza il
quale è pressoché certa la sua morte, sia, per ciò stesso, priva
delle facoltà intellettive, nel qual caso è possibile il ricorso all’amministrazione di sostegno o, addirittura, la dichiarazione
d’interdizione.
Il rifiuto del trattamento sanitario, pertanto, non si può
ritenere capace di innestare la procedura d’interdizione o di
amministrazione di sostegno18. In definitiva, è di assoluta
gravità, che si pretenda di sovrapporre la decisione di un’altra persona a quella che ha deciso altrimenti: chi rifiuti l’amputazione di un arto, preferendo lasciarsi morire, non può
vedersi raggirato dall’attivazione di uno strumento che legittimi altri a decidere al posto suo, ottenendosi un consenso al
trattamento da chi sia stato nominato tutore o amministratore di sostegno. Ben si è detto come sia discutibile che il tuto-
17 Si allude al caso, in cui un’anziana signora ha rifiutato l’amputazione di
un arto, prospettatole quale extrema ratio per salvarle la vita; rifiuto,
questo, espresso prima di entrare in stato precomatoso, e che è stato
messo in discussione con la nomina di un amministratore di sostegno, individuato in un parente dell’inferma, legittimandolo a concordare con i
medici l’intervento. Provvedimento, questo, che confligge con il diritto
vigente. Nello stesso senso, v. E. Calò, Amministrazione di sostegno,
op. cit., pp. 10 ss.
18 Nello stesso senso, v. E. Calò, Amministrazione di sostegno, op. cit.,
p. 72, il quale si domanda se, sottostante, non sia rintracciabile una “pulsione statalista”.
M3_12_Testamento
16-12-2005
8:31
Pagina 195
“TESTAMENTO PER LA VITA” E AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO 195
re dell’interdetto giudiziale esprima il consenso in luogo di
quest’ultimo; a maggior ragione, se ne sia affidato il compito
a un amministratore di sostegno19. Del resto, come ben è stato ricordato di recente, escludere la persona dalla possibilità
di scegliere riguardo al dolore equivale a un’espropriazione
totale e, molto spesso, brutale: “Eticamente è oscurantista e
paternalistica, giuridicamente è un insulto al valore della
personalità”20.
La sollecitazione, da più parti espressa, che ciascuno debba vedere rispettate le proprie scelte, circa l’intervento sul
proprio corpo; l’invocazione, quanto meno, che sia sufficiente
la consapevolezza della decisione palesata nel momento in cui
la persona la assume – non già, quindi, la capacità d’agire – e,
a maggior ragione, il rispetto della decisione preventivamente
manifestata, nel tempo in cui quella consapevolezza era pienamente presente, non dovrebbero neppure essere oggetto di
dubbio, tanto attengono all’ineludibilità delle scelte fondamentali della vita.
Si deve rilevare, nondimeno, come, nelle prime applicazioni della normativa sull’amministrazione di sostegno, si sia assistito alla decisione, secondo la quale può essere designato
un amministratore di sostegno a una persona impossibilitata a
manifestare il consenso al trattamento medico, attribuendogli
il potere di esprimere tale consenso in suo nome21.
Al riguardo, ben si può riconoscere che l’amministratore
di sostegno sia stato nominato ad actum22, e la decisione si
ponga in evidente contrasto con norme e principi, in virtù
dei quali i trattamenti sanitari sono volontari, e occorre te-
19
E. Calò, Amministrazione di sostegno, op. cit., p. 70.
P. Zatti, “Spunti in tema di limitata capacità di fatto”, Nuova giur. civ.
commentata, 2003, II, (pp. 315 ss.), p. 320.
21 Trib. Roma, decr., 19 marzo 2004, con nota di E. Calò, L’amministrazione di sostegno al debutto fra istanze nazionali e adeguamenti pratici.
22 U. Morello, “L’amministrazione di sostegno (dalle regole ai principi)”,
Notariato, 2004 (p. 225 ss.), p. 225, nota 7.
20
M3_12_Testamento
196
16-12-2005
8:31
Pagina 196
GIOVANNI BONILINI
ner conto, anche nel caso in cui la persona non sia in grado
di esprimere la propria volontà, di quanto precedentemente,
e informalmente, manifestato dalla stessa, quindi non si giustifichi affatto, con la pretesa di soccorrerla, la sovrapposizione, alla sua volontà, di quella di altro soggetto23. Non si
potrebbe, peraltro, opinare nel senso, che il sistema normativo sull’amministrazione di sostegno mette in luce come le
funzioni, che l’amministratore di sostegno è chiamato ad assolvere, non sono predefinite, ché spetta al giudice individuarle, caso per caso, a ragione delle esigenze del beneficiario dell’amministrazione di sostegno, dato che è proprio
questo stesso sistema a rendere sicuro che non si può erodere, più di quanto non sia necessario, la sfera di autonomia
del beneficiario e, in ogni caso, che il nuovo istituto è stato
concepito al fine di prestare una migliore, doverosa protezione ai diritti dell’uomo, che impone il rispetto delle scelte
personali24.
Mi pare si possa affermare, peraltro, che è, quanto meno,
dubbio che il nuovo sistema mantenga la possibilità di agire
anche contro la volontà del beneficiario stesso, allorché si
tratti di proteggerlo da possibili conseguenze dannose di suoi
comportamenti, altresì in campo sanitario25, specie se si consideri che l’art. 410 c.c. esalta il rispetto delle aspirazioni del
beneficiario dell’amministrazione di sostegno, e tutela il suo
diritto al dissenso26.
23 Nello stesso senso, cfr., anche per i riferimenti, E. Calò, L’amministrazione di sostegno al debutto fra istanze nazionali e adeguamenti pratici, op. cit., pp. 250 ss.
24 Cfr. anche E. Calò, L’amministrazione di sostegno al debutto fra
istanze nazionali e adeguamenti pratici, op. cit., p. 251.
V. inoltre, U. Morello, L’amministratore di sostegno (dalle regole ai
principi), op. cit., p. 225, nota 7, il quale precisa: “in assenza di problemi
psichici tali da limitare l’autonomia del beneficiario”.
25 Così, invece, U. Morello, L’amministratore di sostegno (dalle regole
ai principi), op. cit., p. 225.
26 Al riguardo, v. G. Bonilini, Capacità del beneficiario e compiti dell’amministratore di sostegno, op. cit., pp. 199 ss.
M3_12_Testamento
16-12-2005
8:31
Pagina 197
“TESTAMENTO PER LA VITA” E AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO 197
Impossibilità temporanea, o parziale, e attivazione
dell’amministrazione di sostegno. Conclusioni
Giova nuovamente rammentare che, ai sensi dell’art. 404 c.c.,
il giudice tutelare può procedere alla nomina di un amministratore di sostegno, altresì al fine di assistere chi si trovi nell’impossibilità temporanea, o parziale, di provvedere ai propri
interessi.
Secondo una dottrina, deve essere considerata parziale
l’impossibilità che si risolva “in un’inettitudine non radicale
della persona alla cura dei propri interessi “; temporanea,
invece, è l’inattitudine che costituisca l’effetto di una malattia o menomazione, di cui possa diagnosticarsi la guarigione
o il superamento, e che appaia non avere, perciò, carattere
duraturo27.
Non si è mancato di dare concretezza alla fattispecie, richiamando anche il caso in cui l’interessato sia alla vigilia di
un intervento chirurgico, in ordine al quale si reputa giustificata la nomina di un amministratore di sostegno, che assuma,
altresì, decisioni in ambito medico, nel tempo in cui quel soggetto non sarà in grado intendere e volere28.
A mio avviso, la nomina dell’amministratore di sostegno
non può essere immiserita all’adozione di decisioni in campo
medico, o, ancor peggio, quale penoso escamotage diretto ad
aggirare, in definitiva, la scelta, consapevolmente espressa
dall’interessato, di rifiuto di un dato trattamento medico-chirurgico, confidando, appunto, nel positivo consenso manifestato, in luogo dell’interessato, dall’amministratore di sostegno. La sua attivazione, dunque, reputo si riveli, nell’ipotesi
prospettata, poco aderente ai presupposti di legge. Per meglio dire: può ben essere che si riveli opportuna al fine della
27
S. Delle Monache, “Prime note sulla figura dell’amministrazione di sostegno: profili di diritto sostanziale”, op. cit., p. 41.
28 V., ad esempio, E. Calò, Amministrazione di sostegno, op. cit., pp.
106 ss.
M3_12_Testamento
198
16-12-2005
8:31
Pagina 198
GIOVANNI BONILINI
gestione dei beni dell’infermo, per tutta la durata in cui lo
stesso sarà nell’impossibilità di attendervi; deve escludersi,
nondimeno, la correttezza della soluzione proposta da chi reputa che l’amministratore di sostegno possa altresì manifestare, in sostituzione del diretto interessato, un incondizionato consenso al trattamento sanitario del medesimo, financo
in (assenza o, addirittura, in) contrasto alle scelte dallo stesso palesate nel tempo in cui era in grado di manifestarle consapevolmente.
In definitiva, si può registrare, nella materia in esame, la
permanente insufficienza della normativa vigente circa la corretta soluzione, vale a dire la rispettosa osservanza della volontà della persona, nonostante l’entrata in vigore delle nuove
norme sull’amministrazione di sostegno. Non si può negare,
tuttavia, che le stesse possono prestare qualche soccorso, sebbene, giova ribadirlo, occorra l’esplicita affermazione del principio, che ciascuna persona deve poter confidare nel pieno rispetto delle proprie scelte, altresì riguardo ai trattamenti sanitari più invasivi, là dove non dovesse essere in grado di reiterare personalmente la propria convinzione, fatti salvi, naturalmente, i limiti che il legislatore ritenga di dover fissare, al fine
del rispetto dei valori reputati imperanti nel dato momento
storico.
Quanto all’utilità delle vigenti norme sull’amministrazione
di sostegno, mi pare che la loro utilità possa cogliersi, soprattutto, con riferimento alla possibilità, riconosciuta dall’art.
408 c.c., di designare chi si vuole rivesta l’ufficio di amministratore di sostegno, allorché, appunto, si renda necessaria
l’attivazione di codesto istituto di protezione. Designazione
dell’amministrazione di sostegno, che, se adeguatamente vestita29, vincola il giudice tutelare, il quale, infatti, può disattenderla, solo in presenza di gravi motivi. Formula, questa, sufficiente a garantire la scelta attuata con l’atto di designazione,
29
Al riguardo, v. G. Bonilini, L’amministratore di sostegno, op. cit.,
pp. 99 ss.
M3_12_Testamento
16-12-2005
8:31
Pagina 199
“TESTAMENTO PER LA VITA” E AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO 199
ché si impone al giudice di motivare, alla luce di circostanze
obbiettive, il provvedimento che non dia seguito alla designazione manifestata dal possibile interessato all’amministrazione di sostegno30.
La possibilità di designare il soggetto che si vuole assista, in qualità di amministratore di sostegno, il beneficiario,
quindi la possibilità di confidare sull’assistenza di una persona di propria elezione, costituisce già un primo miglioramento, rispetto alla situazione preesistente alla recente normativa.
Non si dimentichi, inoltre, che, nella misura in cui si ammetta, sebbene con notevoli difficoltà, stante la normativa vigente, la possibilità di arricchire il contenuto dell’atto di designazione, di cui si è detto, pel tramite di “direttive”, che dovranno essere seguite dall’amministrazione di sostegno nello
svolgimento del suo ufficio31, si guadagna un ulteriore spazio
di autonomia. Non si può dimenticare, infatti, che il possibile
interessato all’amministrazione di sostegno potrebbe altresì
ricomprendere, fra codeste “direttive”, il proprio volere sulle
scelte terapeutiche eccetera. Occorre rammentare, però, che
si dubita che le stesse impegnino, giuridicamente, l’amministratore di sostegno, il quale, invero, è soltanto tenuto ad attenersi ai poteri-doveri indicati, anzitutto, nel provvedimento
del giudice tutelare che lo destina all’ufficio, e non è punto sicuro che detto giudice riproduca, nel provvedimento, quanto
voluto dal designante l’amministratore di sostegno32. Ci si avvede, dunque, che occorre confidare nella sensibilità del giudice tutelare e, nuovamente di fatto, in quella dell’amministratore di sostegno. Ci si avvede, in definitiva, che la soluzione
cui si aspira, vale a dire la certezza che le scelte fondamentali
30
V., ampiamente, G. Bonilini, L’amministratore di sostegno, op. cit., pp.
102 ss.
31 Al riguardo, v. G. Bonilini, L’amministratore di sostegno, op. cit., pp.
95 ss.
32 V. per l’argomentazione, G. Bonilini, L’amministratore di sostegno, op.
cit., spec. p. 96.
M3_12_Testamento
200
16-12-2005
8:31
Pagina 200
GIOVANNI BONILINI
di vita della persona siano pienamente attuate, altresì nell’ipotesi in cui la stessa abbia perduto la pienezza della capacità intellettiva e volitiva – nel rispetto, beninteso, dei valori di base
dell’ordinamento giuridico dato, contro i quali la persona nulla può –, non si riesce oggi a raggiungerla, agevolmente, pel
tramite degli spiragli che pur sembra offrire la normativa sull’amministrazione di sostegno.