Giurisprudenza di legittimità in materia penale militare

Giurisprudenza di legittimità
in materia penale militare
- Anno 2014 -
Sono state raccolte in un unico documento le indicazioni ritenute più significative tra quelle
risultanti dalle sentenze pronunciate dalla Corte di Cassazione nei processi penali militari trattati
nell’anno 2014.
Poiché lo scopo dell’iniziativa, che ripete quanto effettuato per gli anni 2012 e 2013, è
soltanto quello di fornire uno strumento ricognitivo, specificamente attinente all’attività della
giustizia militare, che permetta di individuare con speditezza l’esistenza di eventuali, recenti
interventi del giudice di legittimità sull’argomento di volta in volta di interesse, è parso opportuno
riportare i brani delle sentenze nella loro formulazione letterale, al di là di irrinunciabili raccordi
lessicali, ma senza commento (adesivo o contrario) sul contenuto delle decisioni; per facilitare
l’inquadramento delle affermazioni tratte dalle sentenze, si è provveduto, talvolta, a fornire
qualche sintetico elemento sulla concreta vicenda processuale.
Per l’eventualità che sia necessario reperire l’intero testo del provvedimento, sono stati
indicati in calce a ciascun brano, al fine di rendere più agevole la ricerca su Italgiure o su altro sito
informatico, sia il numero del Registro Generale delle Sentenze che quello del Registro Raccolta
Generale delle Sentenze; va poi tenuto presente che, essendo la raccolta impostata sul criterio
delle sentenze emesse nelle udienze tenutesi nel corso dell’anno 2014, la data riportata non è
quella del deposito del provvedimento ma quella dell’udienza.
L’uso in qualche caso di sottotitoli generici (per esempio, nel diritto procedurale si sono
fatte convergere nell’unica voce Elementi probatori (indagini preliminari e dibattimento) tutte le
indicazioni attinenti al procedimento formativo e valutativo della prova) è parso opportuno per
evitare un’eccessiva parcellizzazione del materiale che avrebbe potuto rendere meno immediata
la ricerca di quanto di interesse.
I provvedimenti devono intendersi adottati dalla 1° Sezione della Corte di Cassazione, se
non diversamente specificato.
Luigi Maria FLAMINI
Sostituto Procuratore Generale Militare
1
Diritto sostantivo
1) Reato impossibile
In una vicenda in cui era contestato il reato di truffa in danno dell’amministrazione militare, la Corte ha
precisato che “Ai fini della configurabilità del reato impossibile ex art. 49 c.p., comma 2, la inidoneità
dell'azione deve essere assoluta, nel senso che la condotta dell'agente, per inefficienza strutturale o
strumentale del mezzo usato, ed indipendentemente da cause estranee o estrinseche, sia priva in modo
assoluto di determinazione causale nella produzione dell'evento. Non può quindi invocarsi la norma indicata
nei casi in cui la condotta abbia prodotto gli effetti previsti dalla Legge incriminatrice, anche se con un
profitto alquanto limitato, e con un danno per la parte offesa di lieve entità (tra le molte, Sez. II n. 34046 del
20.5.2009)” (sent. 1101 del 15.10.2014; Racc. Gen. Corte Cass. n. 45870/14).
2) Circostanze del reato
A proposito della provocazione, la Corte ha affermato che la concessione di tale attenuante “presuppone il
rigoroso accertamento di un fatto ingiusto altrui” e, sulla base di tale principio, l’ha ritenuta motivatamente
esclusa in un caso in cui i giudici di appello avevano evidenziato che la frase pronunciata dalla persona
offesa “e ritenuta dall'imputato di evidente contenuto derisorio - non ti ho chiesto di trattenerlo (il biglietto
di contestazione) come un quadro - non poteva, intanto, ritenersi effettivamente integrare un
comportamento sconveniente del superiore e costituiva, comunque, una replica e una precisazione ad una
frase del tutto inopportuna utilizzata dall'inferiore, che nel contestare l'infrazione aveva dichiarato di aver
strappato l'avviso, sicché nella specie difettava in definitiva la sussistenza di un pur necessario nesso tra
fatto ingiusto e condotta offensiva dell'autore del reato” (sent. 637 del 9.05.2014; Racc. Gen. Corte Cass. n.
37214/14).
Quanto all’attenuante prevista dall’art. 62, n. 6 c.p., è stato affermato che “la riparazione del danno, perché
possa condurre all'applicazione della relativa attenuante, deve essere effettiva, integrale e volontaria.
Quanto al primo requisito va verificato se effettivamente, e non solo nominalisticamente, vi sia stato il
soddisfacimento della obbligazione sorta dal reato, indipendentemente dalla dichiarazione (esplicitamente
o implicitamente rinunciataria) della parte lesa. Va, poi, accertato se la somma corrisponda effettivamente
all'entità del pregiudizio arrecato mediante valutazione oggettiva ed autonoma, anche sotto questo profilo
pretermettendo le dichiarazioni del creditore, il quale, per l'esiguità del danno, o per spirito di liberalità, o
per qualsivoglia altra ragione, potrebbe dichiararsi soddisfatto di un versamento parziale. Infine, la
riparazione deve essere volontaria, in quanto il risarcimento va considerato non tanto dal punto di vista del
soddisfacimento degli interessi civili, quanto in funzione della condotta del colpevole successiva alla
commissione del reato, quale sintomo di sua resipiscenza e di attenuata capacità a delinquere (V. Sez. 4
sentenza n.7147 del 18.4.1989, Rv.181336)”(sent. 227 del 19.02.2014; Racc. Gen. Corte Cass. n. 37569/14).
In relazione alle attenuanti generiche è stato ribadito che “nel motivare il diniego della concessione delle
attenuanti generiche, non è necessario che il giudice prenda in considerazione tutti gli elementi favorevoli o
sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, ma è sufficiente che egli faccia riferimento a quelli
ritenuti decisivi o comunque rilevanti, rimanendo disattesi o superati tutti gli altri da tale valutazione (in
termini, Sez. 6, n. 34364 del 16/06/2010 - dep. 23/09/2010, Giovane e altri, Rv.248244)” (sent. 569 del
24.04.2014; Racc. Gen. Corte Cass. n. 39542/14).
2
Sui rapporti tra l’attenuante di cui all’art. 48, u.p. c.p.m.p. e le attenuanti generiche, la Corte ha affermato:
“L'art.48 cod.pen.mil.pace prevede, quale circostanza attenuante comune, applicabile ai reati militari, il
fatto che il colpevole sia militare di ottima condotta ovvero di provato valore. Come sottolineato dalla
giurisprudenza di legittimità, ai fini della configurabilità della attenuante di cui all'art. 48 del cod. pen.
mil.pace, non è sufficiente che il militare abbia semplicemente adempiuto ai propri doveri ponendo in essere
comportamenti che rientrano nell'ambito della buona condotta, ma è necessario che l'imputato abbia
tenuto una condotta militare esemplare che supera notevolmente i requisiti richiesti per una condotta
militare semplicemente positiva (Sez. U, n. 7523 del 21/05/1983, Andreis, Rv. 160242; Sez. 1, n. 2066
del01/03/1989 - dep. 15/02/1990, Prevosto, Rv. 183333).
Invece la natura atipica delle circostanze attenuanti generiche previste dall'art.62 bis cod.pen. consente al
giudice la valutazione di qualunque elemento oggettivo o soggettivo ritenuto particolarmente significativo,
legittimandolo a prendere in considerazione anche circostanze più generali rispetto al ristretto parametro
della condotta militare esemplare o del provato valore militare, le quali siano afferenti al carattere anche
solo positivo della condotta di servizio prestata ed alla assenza di rilievi negativi, in conformità al criterio di
valutazione riferito alla "condotta e alla vita del reo antecedente al reato" previsto dall'art.133 cod.pen., i
cui parametri di valutazione sono ugualmente utilizzabili ai fini dell' applicazione delle circostanze
attenuanti previste dall'art. 62 bis cod.pen. (Sez. 1, n. 707 del 13/11/1997 - dep.1/02/1998, Ingardia, Rv.
209443Sez. 1, n. 33506 del 07/07/2010, P.G. in proc. Biancofiore, Rv. 247959).
Ne consegue che l'insussistenza dei requisiti richiesti per il riconoscimento della circostanza attenuante
tipica della "condotta militare di ottimo valore" prevista dall'art.48 cod.pen.mil.pace non esclude
l'applicabilità della circostanze attenuanti generiche previste dall'art.62 bis cod.pen. in riferimento alla
valutazione positiva della condotta di servizio ed in genere alla condotta di vita del militare antecedente al
reato” (sent. 1094. del 15.10.2014; Racc. Gen. Corte Cass. n. 45865/14).
In argomento, in vicenda relativa ad applicazione della pena ai sensi dell’art. 444 c.p.p., è stato affermato:
“II Tribunale militare ha ritenuto di riconoscere le circostanze attenuanti generiche in ragione della corretta
condotta processuale e dei buoni precedenti di servizio dell'imputato.
La motivazione è giuridicamente corretta, non è suscettibile in questa sede di un diverso sindacato di merito
e non è incompatibile con la previsione della attenuante riconosciuta dall'art.48 cod.pen.mil.pace in
presenza di una condotta militare connotata da esemplarità” (Sez. VII, ord. 1718 del 16.10.2014; Racc. Gen.
Corte Cass. n. 51519/14).
Nello stesso senso, sempre in sede di ricorso avverso sentenza di applicazione della pena, la Corte ha
precisato “In ordine poi all'applicazione delle predette attenuanti, il G.U.P. ne ha sancito la concedibilità,
non già in base al mero data formale dell'incensuratezza dell'imputato, cosa che avrebbe comportato la
violazione del disposto dell'art. 62-bis cod. pen., comma terzo, ma in base alla considerazione della condotta
di servizio [dell’imputato] e del suo comportamento processuale, ritenuto corretto per aver consentito la più
rapida definizione del giudizio. Se dunque le argomentazioni utilizzate dal giudice di merito non indicano la
considerazione di una condotta di servizio qualificabile come "ottima", ossia notevolmente superiore al
normale nell'adempimento dei doveri dell'ufficio, assolti con il massimo impegno e con la puntuale
osservanza, secondo quanto richiesto dal secondo comma dell'art. 48 c.p.m.p. per attenuare la pena
prevista per i reati militari (Cass. sez. Unite, n. 7523 del 21/05/1983, Andreis, rv.160242), ciò nonostante la
sua regolarità e l'assenza di gravi rilievi sono stati ritenuti sufficienti a giustificare la concessione delle
attenuanti comuni ai sensi dell'art. 62-bis cod. pen., norma generale e da ritenersi applicabile anche ai
responsabili di reati militari, senza che in ciò sia ravvisabile alcun profilo di violazione di Iegge” (Sez. VII, ord.
4252 del 6.3.2014; Racc. Gen. Corte Cass. n. 24198/14).
In relazione all’ipotesi circostanziale prevista dall’art. 47, n. 4 c.p.m.p., la Corte ha precisato che “Il pubblico
scandalo, in tale disposizione normativa, è considerato nella forma del pericolo, rapportato alle circostanze
di luogo in cui si è verificato il fatto. Non vi è dubbio, sul punto, che l'aver provocato l'alterco in una zona
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condominiale, frequentata da più persone, tra cui dei minori, integra la previsione di legge” (sent. 81 del
22.01.2014; Racc. Gen. Corte Cass. n. 7576/14).
3) Pena pecuniaria
Nel precisare i poteri del giudice ai fini della determinazione dell’entità della pena pecuniaria, con
particolare riferimento all’applicabilità dell’art. 113 bis c.p., la Corte ha affermato quanto segue: “l'art. 53,
comma 2, menziona espressamente che per determinare l'ammontare della pena pecuniaria il giudice tiene
conto della condizione economica complessiva dell'imputato e del suo nucleo familiare e, nella parte finale,
richiama espressamente il solo art. 133 ter del codice penale. Ora, è pur vero che le condizioni economiche
del reo sono previste dall'art. 133 bis, non richiamato espressamente dalla norma, tuttavia, come affermato
da Sez. 3, con la sentenza n. 39495 del 2008, che il Collegio condivide e fa propria, va osservato:
1) la previsione dell'art. 133 bis cod. pen. è di portata generale e attiene esplicitamente alla facoltà del
Giudice di aumentare o diminuire la pena della multa e dell'ammenda allorquando, avuto riguardo alle
condizioni economiche del soggetto, ritenga che la misura massima sia inefficace ovvero che la misura
minima sia eccessivamente gravosa. L'articolo, pertanto, come pure il successive art. 133 ter (pagamento
rateale della multa o dell'ammenda) attengono non al momento per così dire genetico del potere
discrezionale del Giudice nell'applicazione della pena, ma ad un momento successivo, in cui il Giudice stesso,
valutati tutti i criteri direttivi di cui all'art. 133 cod. pen., debba determinarla in concreto; 2) l'art. 133 cod.
pen. non menziona espressamente le condizioni economiche del reo, ma al comma 2, n. 4) prevede che il
Giudice debba tener conto, nell'esercizio del suo potere discrezionale, "delle condizioni di vita individuale e
familiare" del soggetto, che suggeriscono una valutazione onnicomprensiva delle status del prevenuto, non
esclusa, dunque, quella di carattere economico; 3) significativamente, l'art. 53 comma 2, nell'imporre al
giudice di "tenere conto della condizione economica complessiva dell'imputato e del suo nucleo familiare”,
impone lo stesso percorso valutativo dell’art. 133 bis cod.pen. la cui rubrica è titolata “condizioni
economiche del reo; valutazione agli effetti della pena pecuniaria". Correttamente quindi la Corte di appello
nella determinazione della pena ha applicato l'art. 113 bis cod. pen.” (sent. 1363 del 2.12.2014; Racc. Gen.
Corte Cass. n. 10598/15).
4) Prescrizione
E’ stato ribadito il principio secondo cui “in tema di prescrizione, grava sull'imputato, che voglia giovarsi di
tale causa estintiva del reato, l’onere di allegare gli elementi in suo possesso dai quali desumere la data di
inizio del decorso del termine, diversa da quella risultante dagli atti (in termini, Sez. 3, n. 19082 del
24/03/2009 - dep.7/05/2009, Cusati, Rv. 243765)” (sent. 569 del 24.04.2014; Racc. Gen. Corte Cass. n.
39542/14).
5) Omessa esecuzione di un incarico
La Corte ha precisato che: “L'art. 117 c.p.m.p. sanziona la condotta del comandante di una forza militare
che, senza giustificato motivo, non esegue l'incarico affidatogli.
L'interpretazione logico-sistematica della disposizione in esame, che correla la rilevanza dell'omesso
assolvimento dell'incarico alla specifica qualità soggettiva dell'agente (<<il comandante di una forza
militare>>) rende evidente che il reato di cui all'art. 117 c.p.m.p. è integrato solo in presenza dei seguenti
requisiti che devono tutti coesistere; a) la particolare qualificazione soggettiva di colui che conferisce
l'incarico, da identificare in un soggetto gerarchicamente sovraordinato o, comunque, in un soggetto cui
l'ordinamento militare attribuisce tale potere; b) la qualità del soggetto destinatario dell'incarico
(<<comandante di una forza militare>>); c) il contesto funzionale cui inerisce il conferimento dell'incarico
che deve riguardare l'impiego di uomini e mezzi militari in vista dell'assolvimento di compiti e del
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perseguimento di fini di natura militare; d) la natura individuale e formale dell'incarico conferito al
comandante dalla competente autorità militare; e) la stretta correlazione eziologica tra fonte dell'incarico,
suo contenuto e inadempimento.
Ne consegue che la fonte dell'incarico non può essere individuata al di fuori del contesto ordinamentale
militare e delle sue peculiari connotazioni organizzative e funzionali” (sent. 1459 del 9.5.2014; Racc. Gen.
Corte Cass. n. 33800/14).
6) Violata consegna
La Corte ha ribadito il principio secondo cui “per "consegna", ai sensi della specifica normativa, debbano
intendersi anche le prescrizioni impartite verbalmente per il corretto espletamento di un determinate
servizio” (sent. 95 del 22.01.2014; Racc. Gen. Corte Cass. n. 7581/14).
In altra vicenda sono stati riaffermati gli ulteriori, seguenti principi: “Secondo la giurisprudenza di
legittimità, la nozione di consegna ai fini della configurabilità del reato di cui all'art. 120 cod. pen. mil. di
pace, comprende l'intero complesso di prescrizioni tassative, generali o particolari, permanenti o
temporanee, scritte o verbali, impartite per l'adempimento di un determinato servizio al fine di regolarne le
modalità di esecuzione e dalle quali non è consentito discostarsi: pertanto, è legittima la contestazione del
reato di cui all'art. 120 cod. pen. mil. di pace contenente l'indicazione di molteplici prescrizioni diverse, per
fonte ed oggetto, e riconducibili alla stessa ed onnicomprensiva "consegna avuta" in relazione allo stesso
servizio (V. Sez. 1 sentenza n.30693 dell’11.7.2007, Rv.237351).
Si è anche precisato nella giurisprudenza di questa Corte che per la configurabilità del reato di violata
consegna previsto dall'art. 120 cod. pen. mil. pace è sufficiente la violazione delle prescrizioni della
consegna, la cui tassatività ne esige l'osservanza incondizionata, senza che sia necessario il verificarsi di un
ulteriore evento come conseguenza di tale violazione, trattandosi di reato di pericolo presunto (V. Sez. 1
sentenza n.19760 del 1.4.2008, Rv.240281)” (sent. 559 del 24.04.2014; Racc. Gen. Corte Cass. n. 42048/14).
In un caso in cui ad un maresciallo aiutante CC il reato di violata consegna era stato contestato per le
modalità con le quali era stato espletato un servizio di ordine pubblico in occasione di un concerto
musicale, la Corte, nell’annullare senza rinvio, perché il fatto non sussiste, la sentenza di condanna ha
precisato quanto segue in merito alla ripartizione delle competenze tra funzionari di pubblica sicurezza e
carabinieri in caso di riunioni o manifestazioni pubbliche: “secondo quanto previsto dall'art. 216 del
regolamento generale dell'Arma dei Carabinieri, ultimo comma, che ribadisce la ripartizione delle
attribuzioni tra funzionari di pubblica sicurezza ed appartenenti all’Arma, qualora i primi non abbiano
diramato specifiche indicazioni su organizzazione e modalità attuative dei servizi, spetta agli ufficiali o
sottufficiali dei Carabinieri, comandanti territoriali, provvedervi secondo il grado e le previsioni delle leggi di
pubblica sicurezza, mentre l'art. 217 dello stesso regolamento stabilisce che in caso di riunioni o
manifestazioni pubbliche, dirette da ufficiali o sottufficiali, comandanti territoriali, spetti a costoro formare
drappelli, posti al comando di sottufficiali o graduati, per impiegarli nel modo ritenuto più idoneo in
relazione alle finalità del servizio secondo compiti assegnati a ciascun militare mediante "precise
consegne”” (sent. 567 del 24.04.2014; Racc. Gen. Corte Cass. n. 34033/14).
7) Ubriachezza in servizio
Quanto all’elemento materiale del reato, la Corte ha precisato che “non è richiesta una soglia minima di
ubriachezza, da accertare necessariamente mediante rilievi tecnici, essendo sufficiente che il militare sia
colto nello svolgimento del servizio in condizioni di ebbrezza volontaria o colposa, tale comunque da
pregiudicare la sua capacità di svolgerlo (Cass. sez. 1, n. 3343 del 13/12/2011, Pretagostini, rv. 251840)”
(sent. 228 del 19.02.2014; Racc. Gen. Corte Cass. n. 13394/14).
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Sotto il profilo probatorio, si è richiamato il principio secondo cui “nei casi in cui la fattispecie incriminata
richieda quale elemento costitutivo della condotta lo stato di ebbrezza del soggetto agente, come nel caso
previsto dalla norma di cui all'art. 186 cod. strada, tale condizione può essere accertata con qualsiasi mezzo,
anche su base sintomatica. A tal fine il giudizio di responsabilità potrà essere basato su dati di fatto, quali, a
titolo esemplificativo, il comportamento tenuto, l'alterazione delle facoltà cognitive, le difficoltà di
deambulazione e di stazione eretta, l'insicurezza nei movimenti, i ritardati riflessi e ciò indipendentemente
dagli esiti dall'accertamento strumentale, che non costituisce prova legale e quindi vincolante, ma è
sottoposto sempre al libero convincimento del giudicante (Cass. sez. 4, n. 48297 del 27/11/2008,
Campregher, rv. 242392; sez. 4, n. 30231 del 04/06/2013, Do Nascimento, rv. 255870; sez. 4, n. 48251 del
29/11/2012, Zanzonico, rv. 254078; sez. 1, n. 3343 del 13/12/2011, Pretagostini, rv. 251840)” (sent. 228 del
19.02.2014; Racc. Gen. Corte Cass. n. 13394/14).
In argomento si è altresì precisato: “La tesi che pretende come obbligatoria la presenza del difensore
all'espletamento dell'indagini sullo stato di ebbrezza non tiene conto di quanto affermato da parte della
giurisprudenza di questa Corte in riferimento al reato di guida in stato di ebbrezza, il cui principio di diritto è
egualmente riferibile alla diversa fattispecie in esame, ossia che l'accertamento del tasso alcolemico rientra
nel novero degli accertamenti urgenti di cui all'art. 354 cod. proc. pen., ai quali il difensore della persona
indagata ha facoltà di assistere, ma senza avere diritto di essere preventivamente avvertito; pertanto,
l'omesso avviso, prescritto dall'art. 114 disp. att. cod. proc. pen., all'indagato della facoltà di farsi assistere
da un legale, dà luogo ad una nullità di ordine generale a regime intermedio, sanata dalla mancata
formulazione della relativa eccezione o prima del compimento dell'atto, oppure subito dopo, trattandosi di
facoltà non richiedente un intervento tecnico professionale, proprio del difensore (Cass. sez. 4, n. 38003 del
19/09/2012, Avventuroso, rv. 254374; sez. 4, n. 36009 del 04/06/2013, Pg ed altro, rv. 255989)” (sent. 228
del 19.02.2014; Racc. Gen. Corte Cass. n. 13394/14).
Ancora sulle modalità degli accertamenti di p.g., si è affermato: “Quanto all'omessa redazione del verbale
contenente la descrizione delle operazioni compiute e della prestazione del consenso da parte
[dell’imputato], va detto che, per quanto si tratti di accertamento di natura urgente, la relativa attività non
è stata compiuta dal personale di polizia giudiziaria, limitatosi ad accompagnare l'imputato al pronto
soccorso ed a richiedere la sua sottoposizione ad analisi ematica, attestata da relazione di servizio agli atti,
ma da quello sanitario, che ne ha documentato l'effettuazione mediante apposita certificazione. Non si
verte dunque in un caso richiedente l'espletamento degli adempimenti di verbalizzazione prescritti dall'art.
357 cod. proc. pen., per le attività direttamente poste in essere dalla polizia giudiziaria” (sent. 228 del
19.02.2014; Racc. Gen. Corte Cass. n. 13394/14).
8) Reati di assenza dal servizio
Nell’annullare senza rinvio perché il fatto non sussiste una sentenza di condanna per diserzione (nel
contempo rigettando il ricorso in relazione al reato di truffa pure ritenuto dal giudice di merito) la Corte ha
così motivato sul punto: “Secondo il costante indirizzo di questa Corte di legittimità, "il reato militare di
diserzione (art. 148 c.p.m.p., n. 1) non si configura nei casi in cui l'assenza dal servizio militare trovi titolo in
un'autorizzazione dell'autorità militare, pur se carpita con dolo" Cass., Sez. 1,14 luglio 2006, n. 29105,
Musa, n. Rv. 235272 Sez. 1, 2 maggio 2006, n. 18450, Di Felice, n. 234465; cui adde: Sez. 1, 6 marzo 2001, n.
15566, Ambrosio, n.218915), come appunto, nel caso in termini, espressamente scrutinato, della licenza di
convalescenza, ottenuta "attraverso l'espediente della simulazione di infermità".
La soluzione deve essere condivisa, in quanto trova base giustificativa nella struttura del reato di diserzione.
Invero, premesso che all'imputato è stato contestato il fatto di aver omesso senza giusto motivo di fare
rientro al reparto, rimanendo assente per cinque giorni consecutivi, deve sottolinearsi che egli aveva
ottenuto la licenza di convalescenza, sia pure attraverso l'espediente della presentazione di certificati medici
ritenuti falsi (capo b), onde è da escludere che nel caso di specie sussistano gli estremi costitutivi del reato di
diserzione, non potendo l'interprete ampliare la portata della norma incriminatrice rispetto all'ambito
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rigorosamente determinato dalla previsione normativa della condotta punita con sanzione penale” (sent.
1369 del 2.12.2014; R.G. 10600/15).
Quanto all’elemento psicologico del reato di diserzione, in altra vicenda in cui oggetto del ricorso era una
sentenza di condanna, la Corte ha valutato corretta la motivazione del giudice di merito che “premessa
l'applicabilità dell'art.39 cod. pen. mil. pace secondo cui il militare non può invocare a propria scusa
l'ignoranza dei doveri inerenti il suo stato di militare, salva l'ignoranza inescusabile, ha ritenuto che l'errore
in cui era incorso [l’imputato], supponendo che a decorrere dal 7.1.2010 egli non dovesse più presentarsi al
Comando di appartenenza, fosse quantomeno un errore connotato da colpa (e quindi non inescusabile),
considerato che il ricorrente cessò di proseguire il servizio pur in assenza di una autorizzazione, anche
soltanto verbale, del proprio Comando” (sent. 87 del 22.01.2014; Racc. Gen. Corte Cass. n. 15732/14).
Sugli ambiti di valutazione del giudice relativamente alle giustificazioni addotte dall’imputato, è stato
affermato: “la circostanza che il militare accusato di diserzione impropria alleghi a discarico una infermità,
non può implicare, come sembra invece ritenere il ricorrente, che l'esame del giudice vada limitato alla sola
certificazione di malattia rilasciata da un medico privato - quantunque reputato attendibile e non indotto in
errore dal paziente o peggio, rivelatosi compiacente - ben potendo esso essere esteso, oltre che
all'autonomo apprezzamento della effettiva gravità della malattia accertata dal sanitario, anche alle
eventuali circostanze che, smentendo la certificazione, potrebbero condurre all'affermazione di colpevolezza
dell’imputato.
Nell'impianto motivazionale della sentenza impugnata, infatti, l'esclusione dell'esistenza di un giusto motivo
si ricollega, non solo, ad una motivata svalutazione della gravità della patologia riscontrata [all’imputato],
argomento questo già di per sé sufficiente a fondare una pronuncia di condanna, ma anche all'ulteriore
dato fattuale, relativo alla partecipazione [del medesimo], nel periodo di asserita indisposizione, ad una
manifestazione equestre” (sent. 562 del 24.04.2014; Racc. Gen. Corte Cass. n. 39540/14).
9) Simulazione d’infermità
Sui rapporti tra le norme incriminatrici di simulazione d’infermità di cui agli artt. 159 e 161 c.p.m.p. la Corte
ha precisato quanto segue: “In particolare con sentenza Sez. 1, n. 458 del 26/10/1993 - dep.19/01/1994,
P.M. in proc. Forte, Rv. 196315, e stato affermato che in tema di reati contro il servizio militare, nell'art. 159
cod. pen. mil. - che punisce la simulazione di infermità - sono delineate due figure delittuose: per quanto
concerne la prima parte di detto articolo, la simulazione d'infermità è diretta all'esenzione totale dal servizio
militare, sicché trattasi di reato a dolo specifico per il quale l'azione del reo deve intenzionalmente dirigersi
a tale fine e non ad una temporanea sottrazione ai doveri connessi alle mansioni svolte dal militare.
Mentre, per quanto riguarda la seconda parte del medesimo articolo, la simulazione è funzionale alla
sottrazione a particolare servizio di corpo, arma o specialità, di guisa che il dolo specifico dell'agente è
diretto alla temporanea sottrazione all'obbligo del servizio militare per evitare i rischi o gli inconvenienti
connessi all'espletamento di mansioni particolari d'arma o di specialità di corpo (servizio sui sommergibili,
conduzione di autovetture e non d'autocarri, servizio in speciali reparti dell'aeronautica, incursori
aviotrasportati e non autotrasportati "et similia"). In entrambe le ipotesi, peraltro, si tratta di simulazione
diretta a sottrarsi a servizi, temporaneamente o definitivamente, inerenti allo "status" ricoperto all'interno
dell'organizzazione militare. Intendendosi per servizi le funzioni oggettive svolte da detta organizzazione a
mezzo dei singoli militari.
Allorquando invece l'agente è mosso dall'intenzione di sottrarsi, mediante simulazione di infermità,
all'adempimento di alcuno dei doveri inerenti al proprio "status" di militare, trattasi di condotta costitutiva
della diversa fattispecie criminosa di cui all'art. 161 cod. pen. mil..
Tale lezione interpretativa, per altro, ha trovato sostanziale conferma, al di Ià dell'esito conclusivo delle
specifiche vicende processuali, anche nella successiva giurisprudenza di questa Corte in argomento (Sez. 1,
n. 5272 del 25/09/2000- dep. 29/11/2000, Sisto, Rv. 217292).
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Dunque l'incedere argomentativo sviluppato nella decisione impugnata deve ritenersi corretto, perché frutto
di adeguato recepimento dei dati di fatto, avendo in particolare i giudici di appello ritenuto, con plausibile e
logica valutazione, che "l'intento di non prestare il servizio nella giornata di domenica fosse alla base della
condotta simulatoria contestata, della quale costituiva la motivazione essenziale ed esclusiva".
La Corte militare escludeva in particolare, che la mera indicazione di una prognosi di (soli) tre giorni sarebbe
sufficiente a "ricondurre la condotta alla massima estensione dell'intento di sottrazione al servizio sui quale
si impernia la previsione di cui all'art. 159 c.p.m.p. e non a quella, più limitata, considerata dall'art. 161
stesso codice" (sent. 633 del 9.05.2014; Racc. Gen. Corte Cass. n. 37213/14).
10) Distruzione, alienazione, acquisto o ritenzione di effetti militari
Nel rigettare il ricorso avverso sentenza di condanna per il reato di cui al combinato disposto degli artt. 164
e 166 c.p.m.p., la Corte ha così motivato sull’ambito di applicazione di tali norme incriminatrici:
“L'accertamento peritale ha ben posto in evidenza che trattasi di munizionamento utilizzato tutt'oggi
dall'esercito militare a nulla potendo rilevare che possa essere impiegato anche in armi civili. Il
munizionamento rimane da guerra perché è utilizzato dalle forze armate e messo a disposizione dei militari,
per il loro servizio, dalla relativa amministrazione. Il criterio adottato dal legislatore per stabilire se
determinate cartucce siano da considerarsi munizioni da guerra o da arma comune da sparo è quello infatti
indicato dal complesso delle disposizioni della L. 18 aprile 1975, n. 110, art. 1, comma 3, secondo cui sono
munizioni da guerra le cartucce destinate al caricamento delle armi da guerra (Cass., Sez. 1^, 9 dicembre
1999, n. 14617, rv. 216108, Genovese).
È ben vero che la disposizione di cui all'art. 2, comma 4, stessa legge, stabilisce che "le munizioni a palla
destinate alle armi comuni non possono comunque essere costituite con pallottole a nucleo perforante,
traccianti, incendiarie, a carica esplosiva, autopropellenti...", ma ciò non significa che le munizioni che non
abbiano tali specifiche tecniche, pur costituendo munizionamento militare, non siano da considerarsi
guerra, posto che tale connotazione conservano trattandosi di munizionamento che, ai senso della citata L.
18 aprile 1975, n. 110, art. 1, comma 3, è comunque destinato all'armamento bellico.
Per quanto concerne poi le munizioni "a salve" occorre qui richiamare una precedente decisione di questa
stessa Corte di legittimità che ha avuto modo di ritenere che integra il reato di ritenzione di cose militari,
previsto dall'art. 166 c.p. mil. pace, e non quello di furto militare ex art. 230 stesso codice, il fatto del
militare che trattenga parte delle cartucce a salve consegnategli per l'addestramento (Cass., Sez. 1^, 16
marzo 2000, n. 5982, rv. 216017, Lupi). A maggior ragione il reato contestato deve quindi valere per le
cartucce a salve "da lancio" idonee a lanciare lacrimogeni o cilindri di esplosivo.
Peraltro è appena il caso di osservare che, sempre secondo la giurisprudenza di questa Corte, il reato di
ritenzione di effetti militari, previsto dall'art. 166 del c.p.m.p., non richiede ai fini della sua sussistenza, che
gli oggetti di armamento militare siano in uso esclusivo alle forze armate italiane (Sez. 1^, 13 dicembre
2011, n. 3364, rv. 251681, Pmt in proc. Puoti) sicché integra comunque l'illecito contestato [all’imputato] la
ritenzione di munizionamento non specificatamente da guerra purché si tratti di indebita detenzione da
parte del militare di oggetti di armamento militare. Il bene giuridico tutelato dall'art. 166 c.p.m.p. deve
essere identificato, per vero, non nel patrimonio, bensì nell'interesse generale al regolare svolgimento del
servizio militare, inteso come complesso di attività preordinate all'assolvimento del compito fondamentale
della difesa del territorio nazionale (Sez. 1^, 3 aprile 1995, n. 5208;Sez. 1^, 16 marzo 2000, n. 5982) tant'è
che, ai fini della configurabilità del reato, è sufficiente il dolo generico, ossia la consapevolezza, da parte del
militare, che il munizionamento non abbia legittimamente cessato di appartenere al servizio militare non
essendo il medesimo munito del marchio di rifiuto e/o palesemente dismesso” (sent. 230 del 19.02.2014;
Racc. Gen. Corte Cass. n. 13605/14).
Quanto all’elemento materiale, è stata condivisa la valutazione del giudice di merito secondo cui “la
custodia di oggetti all'interno dell'armadietto assegnato al militare in dotazione costituisce manifestazione
di signoria e disponibilità autonoma sulla cosa, posto che costituisce estrinsecazione esterna dell'intenzione
del detentore, con il confinamento e la separazione di oggetti all'interno di quello stesso spazio personale, di
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voler esercitare sui beni medesimi un proprio potere di fatto indipendente, senza in altri termini il concorso
di analogo potere di fatto da parte dell'amministrazione consistente nella vigilanza sulla cosa stessa” (sent.
230 del 19.02.2014; Racc. Gen. Corte Cass. n. 13605/14).
11) Disobbedienza
La Corte ha affermato che “è configurabile il reato di disobbedienza previsto dall'art.173 cod. pen. mil. pace
nel caso di rifiuto, da parte del militare, di sottoscrivere per presa visione - come previsto dall'art.19 del
D.P.R.15 giugno 1965 n.1431 - le note caratteristiche redatte dai superiori gerarchici, trattandosi di
adempimento attinente al servizio (in quanto finalizzato a rendere incontestabile l'avvenuta comunicazione
di dette note) e nulla rilevando in contrario (atteso che per la sussistenza del reato, sotto il profilo
psicologico, è richiesto solo il dolo generico) il fatto che il rifiuto sia stato motivato unicamente dall’intento
di contestare il contenuto del documento in questione (V. Sez. 1 sentenza n.11725 del 21.9.1999, Rv.214288,
e sentenza n.19423 del 5.5.2008, Rv.240285)” (sent. 568 del 24.04.2014; Racc. Gen. Corte Cass. n.
42049/14).
Nello stesso senso, si è ribadito: “Esattamente al contrario di quanto assume (del tutto apoditticamente) il
ricorrente, la giurisprudenza è univoca nel riconoscere che l'ordine di sottoscrivere l'avvenuta presa visione
della scheda di valutazione e delle note caratteristiche si riferisce ad adempimento attinente al servizio.
Basterà al proposito ricordare, tra molte: Sez. 1, n. 19423 del 05/05/2008, Pastore, Rv.240285, già citata
dalla Corte militare di appello, e le precedenti sentenze conformi n. 3007 del 1988 Rv. 177825; n. 8716 del
1993 Rv. 195073; n. 735 del 1998 Rv. 209447; n. 11725 del 1999 Rv. 214288.
E' di palmare evidenza, per altro, che in difetto di attestazione circa l'effettiva piena conoscenza del
contenuto integrale del documento oggetto di comunicazione in via breve, al fine della decorrenza dei
termini per eventuali impugnative occorrerebbe procedere alla notificazione formale dell'atto, con evidente
aggravio per il servizio” (sent. 1361 del 2.12.2014; Racc. Gen. Corte Cass. n. 52957/14).
In argomento, nel respingere la tesi difensiva secondo cui, da un lato, l’art. 692 D.P.R. 90/2010 non
imporrebbe più un obbligo di sottoscrizione delle note per presa conoscenza e, dall’altro, la circolare del
Ministero della Difesa in data 23.12.2008 farebbe dipendere l'eventuale disobbedienza solo da una seconda
convocazione del militare, la Corte ha affermato che “non rilevano le modifiche legislative e regolamentari
segnalate nel ricorso, in quanto, anche a seguito di detti interventi legislativi e regolamentari, l'ordine di
firmare era pienamente legittimo e l'imputato non ha fornito alcuna valida motivazione al rifiuto di firmare
per presa visione le note sopra indicate” (sent. 568 del 24.04.2014; Racc. Gen. Corte Cass. n. 42049/14).
Quanto all’elemento psicologico del reato, si è affermato: “se e vero che il reato di cui all'art. 173 c.p.m.p., è
connotato da dolo generico consistente nella consapevole volontà di rifiutarsi di obbedire ad un ordine,
attinente al servizio, impartito dal superiore (Sez. 1, n.735 del 02.12.1997, Sartori rv. 209447), è pur vero che
deve apparire oggettivamente che si tratti di ordine attinente al servizio, in relazione a tutti gli elementi
circostanziali, di tal che siffatta coscienza e volontà diretta al rifiuto si appalesi essersi formata nella piena
consapevolezza della ribellione funzionale che - per costituire reato - deve caratterizzare il rifiuto. Se,
dunque, rimane fermo il principio secondo cui il motivo individuale della singola disobbedienza è, in
generale, irrilevante nel reato in esame, è però ineludibile che sussista la ragionevole percezione in capo al
soggetto agente dell'ordine impartito dal superiore con attinenza al servizio” (sent. 798 del 13.06.2014;
Racc. Gen. Corte Cass. n. 28232/14).
In un caso in cui ad un militare era contestato il reato di disobbedienza per essersi rifiutato di eseguire
l'ordine di sottoscrivere per presa visione la scheda valutativa, la Corte ha escluso che all’imputato potesse
giovare una precedente assoluzione sull’elemento psicologico in vicenda analoga, relativa a scheda
valutativa di diversa annualità, in quanto una valutazione di incertezza sull'elemento soggettivo “se
giustificabile in casi come quello preso in esame dalla Corte militare di appello nella precedente sentenza,
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non poteva essere ripetuta per analoghi comportamenti realizzati successivamente, perché proprio le
ragioni poste a fondamento dell'assoluzione sull'elemento soggettivo rendevano palese la oggettiva
illegittimità del comportamento: sicché !'errore in cui poteva ritenersi caduto il soggetto, ritenuto inevitabile
nella precedente sentenza, non poteva nuovamente, ora, ammettersi, atteso che anche con un minimo di
diligenza l'imputato avrebbe potuto rendersi conto che la precedente assoluzione non aveva affatto escluso
la sussistenza sotto il profilo materiale del comportamento realizzato”(sent. 1361. del 2.12.2014; Racc. Gen.
Corte Cass. n. 52957/14).
12) Adunanza di militari
Nell’escludere la sussistenza del reato di cui all'art.184, c. 2 c.p.m.p. ipotizzato dalla difesa a fronte del
contestato e ritenuto reato di insubordinazione con ingiuria, la Corte ha evidenziato che la fattispecie di cui
all’art. 184 punisce il militare che, per trattare cose attinenti al servizio militare o alla disciplina,
arbitrariamente promuove un'adunanza di militari o vi partecipa e che nel caso di specie “non era in corso
un'adunanza, arbitrariamente convocata, ma i militari si trovavano riuniti a seguito di un preciso e regolare
ordine di servizio per lo svolgimento di compiti di ordine pubblico” (sent. 558 del 24.04.2014; Racc. Gen.
Corte Cass. n. 42047/14).
13) Abuso di autorità e insubordinazione
La natura plurioffensiva del reato di insubordinazione con ingiuria è stata affermata sulla base delle
seguenti considerazioni: “Occorre peraltro sottolineare che il reato ritenuto nella sentenza gravata integra
la lesione della personalità morale del superiore ma non rileva, in via di principalità, quale delitto contro
l'onore bensì come elemento costitutivo di un reato complesso in cui l'elemento lesivo dell'onore della
persona viene assorbito e traslato in una ben diversa e più grave obiettività giuridica consistente nella tutela
del rapporto gerarchico militare; è altresì appena il caso di osservare che tale fattispecie non coincide con
l'ingiuria prevista dall'art. 594 cod. pen., menzionata dal ricorrente, in quanto comprende l'offesa anche al
prestigio e alla reputazione del superiore, esprimendo cosi una lesione all'ascendente morale del medesimo”
(sent. 793 del 13.06.2014; Racc. Gen. Corte Cass. n. 28131/14).
In altra vicenda è stata richiamata la necessità, in tema di tutela dell’onore, di una “valutazione specifica e
accurata” facendo riferimento “a un criterio di media convenzionale in rapporto alla personalità dell'offeso
e dell'offensore ed al contesto nel quale la frase ingiuriosa sia stata pronunciata (Sez. 5, 14 febbraio 2008, n.
11632, rv. 239479, Tessarolo)” (sent. 566 del 19.2.2014; Racc. Gen. Corte Cass. n. 13430/14).
Quanto al requisito della presenza dell’offeso, è stato precisato che “Ciò che rileva - ai fini della
qualificazione - è che la frase sia stata destinata, quantomeno con dolo eventuale, anche verso la persona
destinataria dell'offesa, che si trovava in condizioni tali da ascoltarla, il che risulta concordemente
affermato dai testi” (sent. 1099 del 15.10.2014; Racc. Gen. Corte Cass. n. 45868/14).
Nel respingere il ricorso del P.M. avverso sentenza di non luogo a procedere è stato precisato: “Come
rilevato dal G.U.P., ciò che ha rilievo, per stabilire se la violenza contro l'inferiore si possa considerare lesiva
dell'interesse tutelato dalla norma, non è la circostanza che sia stata commessa in un luogo, la mensa, dove
si svolge una delle operazioni giornaliere di Reparto, ma l'esistenza di una correlazione col servizio della
situazione in cui si è trovato ad agire l'autore del fatto; correlazione che nel capo di imputazione era stata
indicata nel servizio di istruttore dell'imputato. Nell'escludere che [l’imputato] dovesse espletare un incarico
all'interno della mensa, il G.U.P. ha inferito logicamente che ricorresse la causa di esclusione prevista
dall'art. 199 c.p.m.p..
Inesattamente, nel ricorso è stato pasto l'accento sulla circostanza della "presenza di più militari riuniti per
servizio", sia perché la consumazione del pasto nella mensa è una facoltà del singolo militare, sia perché
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comunque questa circostanza non era stata oggetto di contestazione” (sent. 1367 del 2.12.2014; Racc. Gen.
Corte Cass. n. 10599/15).
In altra vicenda la Corte ha specificato che, ai fini della sussistenza dell’elemento costitutivo del reato
rappresentato dalla differenza del grado, nessuna rilevanza può assumere l'erronea attribuzione
all'imputato, all'atto del suo momentaneo richiamo in servizio. di un grado diverso da quello dovuto in
quanto “II riconoscimento postumo, da parte dell'Amministrazione di appartenenza, dell'errore commesso
in sede d'incorporazione del militare, oltre a non privare [l’imputato] della legittimazione ad agire e a
svolgere le funzioni affidategli, non rileva ai fini della qualità in concreto svolta, tenuto conto che l'atto di
investitura è suscettibile di annullamento, in presenza dei relativi presupposti, solo in sede amministrativa o
di giurisdizione amministrativa. In mancanza, il soggetto esercita legittimamente le sue funzioni e non può
essere definito quale "funzionario di fatto", attagliandosi tale definizione giuridica esclusivamente alle
ipotesi di intervenuta declaratoria di invalidità dell'atto di investitura che non rende, in ogni caso, invalidi gli
atti compiti nell'esercizio di tale funzione” (sent. 634 del 9.05.2014; Racc. Gen. Corte Cass. n. 33783/14).
Quanto agli elementi costitutivi della fattispecie di insubordinazione con ingiuria la Corte, ribadita la natura
plurioffensiva del reato “perché tutela la dignità e l'onore del “superiore”, ma anche l'integrità e l'effettività
del rapporto gerarchico, che è funzionale al mantenimento della compattezza e dell'efficienza delle forze
armate, necessarie per il raggiungimento dei compiti loro affidati dall'ordinamento”, ha affermato: “il
particolare rigore cui sono improntati i rapporti nel contesto militare, conduce a considerare offesa all'onore
ed al prestigio ogni atto o parola di disprezzo verso il superiore, così come il ricorso ad espressioni dal tono
arrogante, perché contrari alle esigenze della disciplina militare, la quale impone come indispensabili norme
penali di protezione dell'effettività della gerarchia e richiede che il superiore sia tutelato non solo
nell'espressione della sua personalità umana, ma anche nell'ascendente morale che deve accompagnare
l'esercizio dell'autorità corrispondente al grado e la funzione di comando (Cass. sez. 1, n. 3971 del
28/11/2013, De Chiara, rv. 259013; sez. 1, n.7957 del 20/12/2006, Frantuma, rv. 236355; sez. 1, n. 1172 del
12/07/1989, Pesola, rv. 183159)” (sent. 1100 del 15.10.2014; Racc. Gen. Corte Cass. n. 45869/14).
Nella stessa ottica, la Corte ha così motivato l’annullamento di una sentenza di non luogo a procedere per
un reato di insubordinazione con ingiuria: “La sentenza, laddove ritiene che le condotte non siano
riconducibili alla fattispecie astratta dell'insubordinazione con ingiuria, prospetta un'interpretazione non
corretta e riduttiva del parametro normativo di riferimento; non considera, infatti, che anche nel primo
episodio, per quanto le espressioni non fossero in sé volgari, presentavano un contenuto denigratorio delle
modalità di organizzazione del servizio e della persona del superiore, cui si ascriveva l'incapacità di gestire "
le cose nel reparto", proponendone con una correzione vistosa e visibile a tutti i militari una modalità
alternativa e più consona. Qui non si verte nell'esercizio del diritto di critica, quanto nella plastica
esteriorizzazione di un modello diverso di condotta dirigenziale, che offende il prestigio e la dignità del
comandante. Altrettanto dicasi quanto all'affermazione che la sua azione di comando era addebitabile
all'alterazione alcolica, insinuazione che offende e destituisce di autorità e credibilità il superiore.
Ritiene questa Corte che la decisione impugnata non tenga adeguatamente conto della configurazione
astratta della fattispecie di insubordinazione con ingiuria, prevista dall'art. 189 c.p.m.p., comma 2 quale
reato plurioffensivo, che tutela la dignità e l'onore del superiore, ma anche l'integrità e l'effettività del
rapporto gerarchico, che è funzionale al mantenimento della compattezza e dell'efficienza delle forze
armate, necessarie per il raggiungimento dei compiti loro affidati dall'ordinamento. Inoltre, il particolare
rigore cui sono improntati i rapporti nel contesto militare, conduce a considerare offesa all'onore ed al
prestigio ogni atto o parola di disprezzo verso il superiore, così come il ricorso ad espressioni dal tono
arrogante, perché contrari alle esigenze della disciplina militare, la quale impone come indispensabili norme
penali di protezione dell'effettività della gerarchia” (sent. 2945 del 15.10.2014; Racc. Gen. Corte Cass. n.
45946/14).
La Corte ha altresì precisato che il mancato uso della terza persona singolare può assumere anch’esso
significato ai fini della sussistenza del reato osservando: “La Corte militare ha poi rilevato che il mancato
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uso della terza persona singolare nel rapportarsi al superiore poteva integrare gli estremi dell'illecito
disciplinare, ma ha valutato tale emergenza in modo del tutto svincolato dal contegno complessivo
dell'imputato, ignorando che anche tale scelta espressiva sembra rivelare il disprezzo per il superiore e
l'intenzione di rapportarsi ad esso in condizioni di parità, negandone l'autorità ed il grado. Del pari, ha
inspiegabilmente omesso, mancando qualsiasi analisi sui punto, di prendere in considerazione la frase sui
rifiuto di accettare ordini dal [superiore] ed il gesto del puntare il dito nella sua direzione in tono di sfida e di
velata minaccia per poi abbandonare il luogo, atteggiamento complessivo anch'esso coerente con la tesi
accusatoria, che vuole l'imputato insubordinato per avere aggredito verbalmente il superiore ed averne
respinto l'autorità, la potestà di impartirgli ordini e la catena di comando espressa dal rapporto gerarchico
mediante un comportamento di aperta ribellione” (sent. 1100. del 15.10.2014; Racc. Gen. Corte Cass. n.
45869/14).
In un processo per abuso di autorità la Corte ha affrontato la questione dei confini tra lecita attività di
rimprovero da parte del superiore e condotta penalmente rilevante in termini di ingiuria ad inferiore
affermando: “la posizione di supremazia gerarchica dell'autore rispetto alla persona offesa non consente di
considerare prive di contenuto lesivo espressioni volgari, pur oramai prive - nel linguaggio comune e tra pari
- di effettive connotazioni offensive, e solo indicative di impoverimento del linguaggio e dell'educazione, in
quanto esse, se rivolte a un sottoposto, in violazione delle regole di disciplina e dei principi che devono
ispirarle in forza dell'art. 53 comma 3 Cost., riacquistano appieno il loro specifico significate spregiativo,
penalmente rilevante. Si è precisato inoltre (sez.1 23.10.1997, rv 209439) che lì dove un superiore gerarchico
voglia esprimere una critica ad un comportamento del sottoposto, senza sconfinare nell'insulto, occorre che
le espressioni usate individuino gli aspetti censurabili del comportamento stesso, chiariscano i connotati
dell'errore, sottolineino l'eventuale trasgressione realizzata. Se invece le frasi adoperate si limitino a recare
offesa non può sostenersi l'assenza di potenzialità ingiuriosa, pur se in ipotesi le stesse siano ricollegabili ad
un comportamento scorretto” (sent. 80 del 22.01.2014; Racc. Gen. Corte Cass. n. 7575/14).
Sullo stesso tema, in relazione ad una vicenda accaduta nel particolare contesto di una missione militare
all’estero e per la quale l’imputato - capitano che aveva redarguito nel corso di una riunione un
caporalmaggiore (XXXX) che aveva assunto un atteggiamento critico nei confronti di una terza persona
(YYYY), tenente e suo diretto superiore - era stato accusato di ingiuria ad inferiore nei confronti del
caporalmaggiore ed assolto nel giudizio di merito perché il fatto non sussiste, la Corte ha respinto il ricorso
della parte civile osservando: “L'intervento dell'imputato, diretto a redarguire, anche in modo brusco e in
termini perentori, l'atteggiamento dichiaratamente critico assunto dallo XXXX, alla presenza degli altri
militari partecipanti, nei confronti del YYYY, suo superiore gerarchico, era infatti di per sé legittimo - senza
necessità di evocare l'operatività di alcuna scriminante - in quanto conforme ai compiti (e ai doveri)
dell'ufficiale di grado superiore del reparto, quale era [l’imputato], tenuto ad assicurare l'osservanza della
disciplina e della gerarchia militare nei rapporti tra tenente e caporalmaggiore, entrambi suoi subordinati,
compromesso dal comportamento dello XXXX, che esigeva il richiamo immediato dello stesso all'ordine e al
rispetto dovuto al superiore in grado.
La sentenza impugnata ha correttamente valorizzato lo specifico contesto ambientale al fine di ritenere la
cogenza assoluta del dovere di assicurare, mediante la reprimenda rivolta dall'imputato al sottoposto, la
tutela della figura del YYYY, compromessa nella sua autorità di ufficiale superiore in grado, di fronte agli
altri militari presenti soggetti al suo comando, in quanto funzionale al mantenimento del rapporto di dovuto
rispetto, disciplina e obbedienza - connesso alla scala gerarchica - assolutamente necessario, in costanza di
una missione militare in zone di guerra, a tutelare la sicurezza e l'incolumità stessa dei militari affidati al
comando del YYYY: ed è proprio in relazione a tale contesto, e alle suddette esigenze inderogabili di tutela di
beni primari della persona, che i giudici di merito hanno ritenuto, con motivazione insindacabile ed esente
da censure, che la crudezza del linguaggio utilizzato dall'imputato non esorbitasse dall'oggettività di una
legittima - per quanto aspra - reprimenda, contenuta nell'ambito della sua funzione di esercizio del potere
gerarchico ed esauritasi nello stesso, così da non trasmodare in alcuna lesione oggettiva dell'onore e del
decoro personale dell'inferiore gerarchico, necessaria a integrare il reato di ingiuria” (sent. 1091. del
15.10.2014; Racc. Gen. Corte Cass. n. 52166/14).
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In un processo nel quale era stato contestato il reato di ingiuria ad inferiore, la Corte, nel respingere il
ricorso della parte civile avverso sentenza assolutoria di merito, ha fornito i seguenti chiarimenti sul
concetto di lesione all’onore penalmente rilevante: “è vero che l'onore racchiude in sé una duplice nozione:
in senso soggettivo si identifica col sentimento che ciascuno ha della propria dignità, e designa quella
somma di valori che l'individuo attribuisce a se stesso; in senso oggettivo, è la stima o l'opinione che gli altri
hanno di noi, rappresenta cioè il patrimonio morale che deriva dall'altrui considerazione.
Tuttavia, nel sistema costituzionale la tutela dell'onore, comprensivo del decoro e della reputazione, ha
fondamento nella dignità sociale, che è valore riconosciuto a ciascuno (art. 2 Cost.), con pari forza (art. 3
Cost.). Tradizionalmente, l'onore è perciò il complesso delle condizioni da cui dipende il valore della persona,
fatto di doti morali, intellettuali, fisiche, o di quant'altro concorre a determinarne la dignità e il pregio come
singolo e nell'ambito delle formazioni sociali in cui svolge la sua personalità, secondo appunto l’art.2 Cost.
Per entrambi gli aspetti, soggettivo ed oggettivo dell'onore, l'offesa suscettibile di sanzione penale deve
perciò essere apprezzabile secondo «valutazioni sociali medie», non essendo tutelabile la particolare
suscettibilità dell'offeso, perché, come rilevava la dottrina fin dall'entrata in vigore della Costituzione,
evocando (sovente implicitamente) i principi di tassatività e determinatezza e di offensività, sarebbe
altrimenti «incerto e variabile l'oggetto della tutela» e verrebbe meno «il collegamento tra l'interesse
individuale e l'interesse sociale che solo può legittimare l'intervento di una sanzione penale».
Proprio alla luce della Carta costituzionale, trovano composizione, d'altronde, la teoria "fattuale" dell'onore,
che richiamava la somma dei valori che la persona s'attribuisce o che le vengono riconosciuti, e la teoria
normativa, che indica nell'onore il complesso di quelle qualità che rendono la persona umana nella sua
multiforme esplicazione meritevole di estimazione e che ne costituiscono la «integrità morale», apprezzabile
non tanto secondo il sentimento soggettivo (del singolo o del determinato ristretto ambito di persone in cui
si muove) ma in quanto riconoscibile «legibus ac moribus»: ovvero in quanto, l'onore, ha nel concetto di
dignità delineato dall'art. 2 Cost. ragione di tutela, e limite.
Quel che è certo, in conclusione, è che non può mai bastare a integrare una lesione penalmente rilevante
all'onore, al decoro e alla dignità, il soggettivo sentimento d'essere stato offeso, o ingiustamente
rimproverato, occorrendo che l'offesa risulti obiettivamente e socialmente apprezzabile e che non
costituisca esercizio di una legittima facoltà di critica o di censura” (sent. 1368 del 2.12.2014; Racc. Gen.
Corte Cass. n. 52959/14).
Quanto all’elemento soggettivo, richiamata ancora una volta la natura plurioffensiva del reato di ingiuria ad
inferiore, “che ripete dal reato comune di ingiuria le sue caratteristiche di delitto a dolo generico, che si
realizza allorché l'agente rivolga al destinatario, in questo caso un militare di grado inferiore, una frase
lesiva del decoro e dell'onore dello stesso, senza che sia necessaria la volontà di offendere o umiliare,
trattandosi di delitto plurioffensivo, volto a tutelare, sia il patrimonio morale della persona, sia il bene
indisponibile della disciplina militare (Cass. sez. 1, n. 12997 del 10/02/2009, Ottaviano e altro, rv. 243545;
sez. 1, n. 42367 del 16/11/2006, P.G. in proc. Toraldo, rv. 235569; sez. 1, n. 58 del 16/11/2006, Rizzi, rv.
235335)”, la Corte ha affermato che “ad integrare la fattispecie contestata è sufficiente la cosciente volontà
di pronunciare espressioni di univoco significato offensivo, perché dispregiative, mortificanti ed avvilenti,
senza che assumano rilievo eventuali moventi e finalità individuali di volta in volta perseguite” (sent. 563 del
24.04.2014; Racc. Gen. Corte Cass. n. 33781/14; negli stessi termini, sent. 1100. del 15.10.2014; Racc. Gen.
Corte Cass. n. 45869/14).
Nello stesso senso, si è precisato: “Ai fini della sussistenza dell’elemento psicologico del reato militare di
insubordinazione con ingiuria, è sufficiente il dolo generico, e cioè la consapevolezza dell'uso di espressioni
ingiuriose, non richiedendosi anche l'animus iniurandi (Sez. 1, 5 novembre 2001, n. 314, rv. 220433, Stien).
Nel reato di insubordinazione con ingiuria, il dolo consiste nella cosciente volontà di pronunciare parole o
compiere gesti di univoco significato offensivo. Moventi e finalità particolari sono irrilevanti poiché il
particolare rigore cui sono improntati i rapporti della disciplina militare, conduce a considerare offesa
all'onore ed al prestigio ogni atto o parola di disprezzo verso il superiore ed anche il tono arrogante (che nel
diritto penale comune non viene preso in considerazione), perché contrari alle esigenze della disciplina
militare per la quale il superiore deve essere tutelato, fra l'altro, non solo nell'espressione della sua
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personalità umana, bensì anche nell'ascendente morale di cui ha bisogno per potere esercitare degnamente
l'autorità del grado e le funzioni di comando (Cass., Sez. 1, 12 luglio 1989, n. 1172, rv. 183159, Pesola)”
(sent. 566 del 19.2.2014; Racc. Gen. Corte Cass. n. 13430/14).
In altra vicenda la Corte ha annullato senza rinvio la sentenza di condanna ed assolto l’imputato perché il
fatto non costituisce reato avendo escluso il dolo sulla base della seguente motivazione: “Ne discende che
anche nella percezione della presunta persona offesa, oltre che nella sua oggettiva materialità, il fatto si
pose come uno scherzo e non come una lesione del prestigio, dell'onore o della dignità del destinatario di
esso.
L'esito raggiunto non è smentito dalle particolari esigenze e finalità del diritto penale militare che, nell'art.
196, secondo comma, cod. pen. mil. pace, contestato nel presente processo, tutela non solo l'onore ola
dignità del militare inferiore, ma anche il bene indisponibile della disciplina militare, funzionale al
mantenimento della compattezza delle forze armate e del ruolo ad esse assegnato dalla Costituzione.
Un fatto che si ponga dichiaratamente come uno scherzo, attuato in modo non offensivo con la creazione di
una situazione di apparente pericolo in cui chiunque si sarebbe spaventato, e accompagnato da espressioni
canzonatorie nei confronti dell'ignaro destinatario della messinscena, pronunciate in stretta connessione
logica e temporale al contesto ludico dell'azione, non diventa penalmente rilevante solo perché commesso
in ambito militare, salvi eventuali profili disciplinari diversamente sanzionati” (sent. 1370 del 2.12.2014;
Racc. Gen. Corte Cass. n. 10601/15).
Quanto alle condizioni dalle quali, ai sensi dell’art. 199 c.p.m.p., dipende l’applicabilità dei reati di abuso di
autorità e di insubordinazione, la Corte, in una fattispecie in cui all’imputato era contestata una condotta di
insubordinazione causalmente collegata al rimprovero subito il giorno precedente ad opera del superiore,
ha affermato che “nella fattispecie in esame deve riconoscersi da un lato la diretta riconducibilità della
condotta dell'imputato ad una causa di servizio e disciplina (sia che la si voglia collegare al rimprovero del
giorno precedente, sia che trovi causa più immediata nel rifiuto del superiore di avere un colloquio con il
subordinato), dall'altro la piena sussistenza di un contesto militare (oggettivo, soggettivo, ambientale e
causale), a nulla a questi fini rilevando che l'episodio si sia collocato in un momento in cui i soggetti coinvolti
non erano in servizio (peraltro solo per limiti di orario, non di funzione). E' comunque altrettanto evidente
che la condotta incriminata non possa, secondo parametri oggettivi e di comune percezione, essere
qualificata estranea all'area degli interessi connessi alla tutela della disciplina, come del tutto
correttamente motivato dalla Corte di secondo grado” (sent. 79 del 22.01.2014; Racc. Gen. Corte Cass. n.
7574/14).
Sullo stesso argomento è stato osservato:
“Ai fini della configurabilità della causa di esclusione del reato di minaccia ad inferiore prevista dall'art. 199
cod. pen. mil. pace, consistente nell'aver commesso il fatto per cause estranee al servizio e alla disciplina
militare, non rileva l'assenza di rapporti gerarchici diretti tra autore e vittima dell'illecito, ma la
riconducibilità del fatto a un contesto militare. (Sez. 1, n. 40811 del 27/10/2010 , Mecoli, Rv. 248441;
conforme Sez.1, n. 19970 del 30/01/2013, Sorce, Rv. 256179)” (sent. 88 del 22.01.2014; Racc. Gen. Corte
Cass. n. 15733/14).
E nello stesso senso, in un caso in cui l'imputato comandava I'Aliquota Radiomobile del Nucleo operativo e
radiomobile di una Compagnia CC mentre le parti lese prestavano servizio al Nucleo Radiomobile, la Corte
ha evidenziato che “sussisteva comunque la differenza gerarchica tra i militari, elemento che rende
applicabile il reato ascritto” (sent. 232 del 19.02.2014; Racc. Gen. Corte Cass. n. 16722/14).
In altra vicenda, la sussistenza delle condizioni per l’applicabilità delle fattispecie in questione è stata
ritenuta rilevando che “le frasi ingiuriose vennero pronunziate [dall’imputato] quando egli e XXXX erano
rientrati dopo una cena in ufficio e nel contesto di una discussione concernente una questione di servizio,
quale la redazione di una relazione di sintesi sulle attività svolte, rientrante nella competenza
[dell’imputato]” (sent. 634 del 9.05.2014; Racc. Gen. Corte Cass. n. 33783/14).
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In un caso in cui, secondo la ricostruzione del giudice di merito, il superiore aveva usato violenza
all’inferiore colpendolo con pugni all'interno delle camerate, per motivi conseguenti a un diverbio avvenuto
nel corso dell'addestramento mattutino, la Corte ha affermato: “Il collegamento con la ragione di servizio è
nella fattispecie stretto, cosi come evidente l'interesse che la norma violata tende a tutelare che, appunto,
consiste nel fatto che il servizio militare sia svolto correttamente e in modo disciplinato. Inoltre sia il
soggetto attivo che quello passivo rivestono la qualità di militari e il dormitorio è pur sempre un luogo ove
vige la disciplina militare (Sez.1, 15 aprile 2009, n. 21670, Esposito, rv. 243797) per tutti i servizi correlativi
che in esso vengono svolti”(sent. 794 del 13.06.2014; Racc. Gen. Corte Cass. n. 28132/14).
In altra vicenda la Corte ha ritenuto configurabile il contestato reato continuato ed aggravato di
insubordinazione con minaccia e ingiuria osservando: “nella fattispecie in esame deve riconoscersi da un
lato la diretta riconducibilità della condotta dell'imputato ad una causa di servizio e disciplina (l'indebito
intervento per perorare la causa dell'amico, postosi alla guida di un’auto in stato di ebrezza), dall'altro la
piena sussistenza di un contesto militare (oggettivo, soggettivo, ambientale e causale), a nulla a questi fini
rilevando che l'episodio si sia collocato in un momento in cui l'imputato, a differenza delle persone offese,
non era in servizio. E' comunque altrettanto evidente che la condotta incriminata non possa, secondo
parametri oggettivi e di comune percezione, essere qualificata estranea all'area degli interessi connessi alla
tutela della disciplina, come del tutto correttamente motivato dalla Corte di secondo grado” (sent. 565 del
24.04.2014; Racc. Gen. Corte Cass. n. 39541/14).
14) Istigazione a commettere reati militari
Nell’escludere che possa considerarsi persona offesa dal reato di istigazione a commettere reati militari la
persona che sarebbe stata eventualmente vittima del reato cui era finalizzata l’istigazione, la Corte ha
evidenziato che l’art. 212 c.p.m.p. “costituisce una fattispecie di pericolo che pacificamente tutela,
analogamente al simile delitto previsto dall'art. 414 cod. pen., l'ordine pubblico in sé considerato, o, se si
vuole essere più precisi, l'ordine pubblico militare (cfr., Sez. 1, Sentenza n. 4993 del 22/11/1974, Bindi, Rv.
130000, e, in relazione a fattispecie di cui all'art. 266 cod. pen., in certo modo analoga, l'osservazione di Sez.
1, n. 6869 del 14.4.1986, Rv. 173297, che anche i militari istigati, pur costituendo l'oggettività del reato, non
sono i soggetti passivi di esso).
La possibilità che l'istigazione concerna reati che, a loro volta, offendano interessi soggettivi particolari, è,
per la fattispecie astratta in base alla quale va individuata l'offensività in termini di oggettività giuridica,
solo eventuale. La lesione di tali interessi, con conseguente assunzione della veste di persona offesa del
soggetto leso, potrebbe dunque venire in rilievo esclusivamente nell'ipotesi di istigazione accolta e di
commissione dei reati che li offendono” (sent. 1910 del 13.6.2014; Racc. Gen. Corte Cass. n. 34056/14).
15) Peculato militare
E’ stato precisato, in relazione alla configurabilità del peculato, che “ciò che rileva, a fini penalistici, è
l'esercizio in concreto di poteri amministrativi, anche se delegati (ad ulteriore conforto di tale assunto, Sez.1
n. 8088 del 12.6.2000, ric. Longone, che rimanda alla nozione di cui agli artt. 357 e 358 cod.pen.) .
Di particolare rilievo era, pertanto, la funzione in concreto svolta [dall’imputato], tale peraltro da indurre in
errore - circa i presupposti di fatto della erogazione delle somme - i soggetti esterni alla struttura, con cui si
rapportava ed in particolare gli addetti all'Ufficio Cassa della Legione.
Non può trasferirsi - pertanto - neanche a livello di ipotesi alternativa, la responsabilità [dell’imputato] su
altri soggetti (il delegante, da un lato, i responsabili dell'Ufficio Cassa dall'altro) posto che costoro hanno
esclusivamente riposto il consueto affidamento sulla «regolarità» dell'operato altrui, non essendo a
conoscenza delle avvenute falsificazioni dei fogli di viaggio {operate, per quanto risulta dalle decisioni di
merito, all'insaputa dei militari indicati, di volta in volta, come soggetti in missione)” (sent. 1095 del
15.10.2014; Racc. Gen. Corte Cass. n. 45866/14).
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16) Art. 3 L. 9 dicembre 1941, n. 1385
In termini generali, in relazione all’elemento materiale del reato, si è affermato che “la portata derogatoria
della fattispecie di collusione del finanziere non si esaurisce nella attribuzione di rilevanza penale al semplice
accordo tra il finanziere e l'estraneo diretto alla commissione di un reato di frode fiscale; di più, la
disposizione in oggetto prevede la punibilità dell'intesa collusiva anche quando essa è mirata alla attuazione
della frode fiscale mediante la commissione di illeciti finanziari non aventi rilevanza penale, ovvero
mediante comportamenti diretti ad eludere o sviare l'attività di accertamento e controllo della polizia
tributaria” (sent. 1090 del 15.10.2014; Racc. Gen. Corte Cass. n. 45864/14).
Più specificamente, la Corte ha ritenuto configurabile il reato nella condotta del militare della Guardia di
finanza che, durante un servizio di controllo, aveva rinvenuto all'interno di un'auto una minima quantità di
hashish che aveva preso e che aveva poi gettato in un tombino, mandando via la persona che la deteneva a
bordo dell'auto; al riguardo la Corte ha rilevato che “la sostanza avrebbe dovuto essere comunque
sequestrata, rimanendo nella disponibilità dell'Amministrazione fino al momento in cui, effettuati gli
accertamenti chimici, ne sarebbe poi stata disposta la distruzione. L'intervenuta apprensione da parte
dell’operatore di polizia giudiziaria della sostanza in questione determinò l'entrata nella sfera di esclusiva
disponibilità dell'Amministrazione, senza che la mancata formalizzazione dell'atto di sequestro potesse
rivestire alcuna rilevanza; la apprensione della sostanza determinò "con immediata sovrapposizione" il
possesso in capo all'Amministrazione (quindi l'appropriazione), possesso a cui doveva seguire la corretta
gestione del bene secondo le norme processuali vigenti. E' evidente che la dispersione non può avere effetti
in termini di esclusione del reato, atteso che per contro trattasi di un segmento dell'azione dimostrativo
dell'intervenuta disponibilità uti dominus del bene, che il p.u. indebitamente conseguì, configurando così
nettamente l'ipotesi di reato in contestazione. Non ha pregio la tesi secondo cui non poteva ritenersi lo
stupefacente sequestrato quale bene di interesse per la pubblica finanza ed economia, dovendosi reputare
rilevanti per il peculato militare della guardia di finanza (quale era il XXXX) solo i valori ed i generi collegati
ai caratteristici compiti istituzionali del corpo. Va infatti obiettato che il prevenuto era capo pattuglia con
compiti di ordine pubblico, per cui rivestiva a tutti gli effetti il ruolo di pubblico ufficiale con funzioni di
ordine pubblico, cui competeva la facoltà di sequestro dei beni ancorché non rientranti specificatamente in
quelli legati ai compiti istituzionali più specifici della Guardia di finanza” (sent. 560 del 24.04.2014; Racc.
Gen. Corte Cass. n. 20322/14).
In altra vicenda, nella quale è stato ritenuto integrato il contestato reato di collusione con estraneo in frode
alla finanza per l'accordo, intervenuto tra l’imputato, finanziere in servizio, e l'amministrazione della società
datrice di lavoro, col quale era stato instaurato e poi si era svolto un rapporto lavorativo senza che le parti
contraenti avessero ottemperato agli obblighi contributivi e fiscali, la Corte ha precisato che trattasi di “un
illecito di pericolo, che si perfeziona con il solo scambio del consenso tra le parti coinvolte, avente ad
oggetto la frode alla finanza, senza che tale risultato debba necessariamente realizzarsi, essendo soltanto
richiesta l'indicazione o l'adozione di qualsiasi espediente, o altro mezzo fraudolento, in grado di ledere
l’'interesse dello Stato alla percezione dell'entrata tributaria, per cui tale interesse viene esposto a pericolo,
tanto da condotte collusive finalizzate sia all’evasione di imposta, quanto da quelle finalizzate ad impedirne
l'accertamento (Cass. sez.1, n.15019 del 15/12/2005, Moscuzza, rv. 230410; sez. 1, n. 25819 del
06/06/2007, Vitale, rv..236894; sez. 1, n. 44514 del 28/09/2012, Nacca e altro, rv. 253826)” (sent. 570 del
24.04.2014; Racc. Gen. Corte Cass. n. 20455/14).
Nello stesso senso, si è ribadito che “II reato di collusione del militare della Guardia di Finanza con
l'estraneo previsto dall'art.3 della Iegge 9.12.1941 n.1383 configura un delitto a consumazione anticipata
nel quale, in ragione della rilevanza attribuita al bene giuridico protetto costituito dalla regolare riscossione
dei tributi, l'applicazione della sanzione penale è anticipata al momento dell'accordo collusivo; poiché il fine
di "frodare la finanza" connota l'elemento soggettivo, qualificandolo quale dolo specifico, e non è elemento
costitutivo del reato, la fattispecie assume la fisionomia del reato di mero pericolo per la cui integrazione
non è necessario il raggiungimento dello scopo fraudolento, essendo sufficiente che la condotta infedele del
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finanziere sia idonea a determinare l'insorgenza del pericolo di compromissione dell'interesse erariale (in
senso analogo Sez. 1, n. 25819 del 06/06/2007, Vitale, Rv. 236894; Sez. 1, n. 44514del 28/09/2012, Nacca e
altro, Rv. 253826)” (sent. 1090 del 15.10.2014; Racc. Gen. Corte Cass. n. 45864/14).
17) Lesioni personali
Quanto alla determinazione della durata della malattia agli effetti della perseguibilità o meno d’ufficio del
reato, si è affermato che ove essa risulti incerta ed assurga ad elemento determinante per la qualificazione
del fatto in termini di lesioni lievi “la regola iuris che deve essere applicata è quella "in dubio pro reo",
cosicché deve ritenersi raggiunta la prova solo per una malattia di durata inferiore a dieci giorni”(sent. 1360
del 2.12.2014; Racc. Gen. Corte Cass. n. 1590/15).
Sul piano probatorio è stato affermato il seguente principio: “Può pertanto, in conclusione, affermarsi che
correttamente viene ritenuta - in sede di merito - la riconducibilità di lesioni riscontrate, nella immediatezza,
su una persona coinvolta in una colluttazione, alla azione aggressiva dell'antagonista in lite, lì dove le
lesioni, per le loro caratteristiche ontologiche, risultino compatibili con le modalità ordinarie di uno scontro
fisico, non essendo necessaria la percezione da parte dei testimoni della dinamica di produzione di ogni
singolo, specifico, evento lesivo singolarmente considerato” (sent. 81 del 22.01.2014; Racc. Gen. Corte Cass.
n. 7576/14).
Quanto alla circostanza aggravante del fatto commesso con armi, la Corte ha stabilito che “Per arma
impropria deve intendersi qualsiasi oggetto, anche di uso comune e privo di apparente idoneità all'offesa,
che sia in concreto utilizzato per procurare lesioni personali, giacché il porto dell'oggetto cessa di essere
giustificato nel momento in cui viene meno il collegamento immediato con la sua funzione per essere
utilizzato come arma (cfr. ex plurimis Sez. 5, n. 49517 del 21 novembre 2013; Sez. 5, n. 47504 del 24
settembre 2012 Sez. 5, n. 28207 del 21 maggio 2008). La sentenza impugnata ha fatto corretta applicazione
di questi principi, laddove ha osservato che l’utilizzo della chiave a croce per colpire YYYY integra gli estremi
dell'aggravante contestata che rende il reato perseguibile d'ufficio” (sent. 639 del 9.05.2014; Racc. Gen.
Corte Cass. n. 31738/14).
18) Diffamazione
Quanto all’elemento psicologico si è affermato: “il reato di diffamazione non richiede il dolo specifico,
essendo sufficiente ai fini della sussistenza dell'elemento soggettivo della fattispecie la consapevolezza di
pronunciare una frase lesiva dell'altrui reputazione e la volontà che la frase venga a conoscenza di più
persone, anche soltanto due. Ed ai fini di detta valutazione non può non tenersi conto dell'utilizzazione del
social network - come, del resto la stessa Corte di appello ha evidenziato - a nulla rilevando che non si tratti
di strumento finalizzato a contatti istituzionali […], né la circostanza che in concreto la frase sia stata letta
soltanto da una persona” (sent. 82 del 22.01.2014; Racc. Gen. Corte Cass. n. 16712/14).
Quanto all’exceptio veritatis, si è precisato: “l'esimente speciale in parola, invero, deve essere
specificamente attivata da chi ne ha interesse, e non può essere meramente invocata, né - come pare
presupporre il ricorrente - essere rimessa alla valutazione ex officio del giudice” (sent. 92 del 22.01.2014;
Racc. Gen. Corte Cass. n. 13604/14).
In relazione alla circostanza aggravante del “fatto determinato” prevista dall'art. 227, c. 2 c.p.m.p., la Corte
ha precisato che “detta aggravante dovrebbe essere contestata espressamente dal titolare del potere di
esercizio dell'azione penale e non può essere "ritenuta" dal giudice dell'udienza preliminare, non trattandosi
di semplice riqualificazione del fatto” e, pur dando atto dell’esistenza di diversi orientamenti interpretativi
circa l'esatta interpretazione della locuzione "fatto determinato", ha ritenuto “preferibile quello teso a
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richiedere, al fine di ritenere integrata la previsione di legge, un contenuto specifico della comunicazione,
comprensivo di circostanze di tempo e luogo o comunque tali da consentire la individuazione concreta
dell'azione disonorevole che si attribuisce ad un determinato soggetto (in tal senso già Cass. 18.12.1978, rv
142316, nonché 25.3.1992, rv 190102)” (sent. 84 del 22.01.2014; Racc. Gen. Corte Cass. n. 7578/14).
Nel rigettare il ricorso del P.M. avverso la sentenza di merito che aveva dichiarato non doversi procedere
per mancanza della richiesta di procedimento del comandante di corpo, la Corte ha affermato il principio
secondo cui, nel caso di due comunicazioni diffamatorie succedutesi nel tempo, la propalazione del fatto
determinato deve accompagnare entrambe le comunicazioni perché possa ritenersi integrata l’aggravante
e “Correttamente, dunque, non è stata ravvisata la circostanza aggravante dell'attribuzione di un fatto
determinato per la genericità della seconda comunicazione, con la conseguente perseguibilità del ritenuto
reato di cui all'art. 227 c.p.m.p., comma 1, su richiesta di procedimento del comandante del corpo” (sent.
1362 del 2.12.2014; Racc. Gen. Corte Cass. n. 10597/15).
Quanto ai contenuti e ai limiti del diritto di critica la Corte ha così diffusamente motivato: “In primo luogo
[la sentenza impugnata] ha male interpretato la giurisprudenza di questa Corte che, richiamandosi alla
giurisprudenza costituzionale ed europea, considera in ogni caso non consentito dal diritto di critica reso
legittimo dalla funzione pubblica esercitata dal soggetto criticato e dall'interesse pubblico della notizia,
l'attacco "alla persona": da intendersi però quale offesa rivolta, senza ragione, alla sfera privata, non
coinvolta dall'ambito di pubblica rilevanza della notizia, mediante l'utilizzo di non pertinenti argumenta ad
hominem (tra moltissime: Sez. 5, n. 3477 del 8/02/2000, Rv. 215577; Sez. 5 n. 38448 del 26/10/2001, Rv.
219998; Sez. 5, sent. n. 10135 del 12/03/2002, Rv. 221684; Sez. 5, n.13264 del 2005; Sez. 5, n. 4938 del
28/10/2010, Rv. 249239). Nel caso in esame, invece, nessuno degli epiteti o delle frasi ritenute offensive si
rivolge alle persone offese in quanto uomini, e cioè al loro privato, tutte concernendo la funzione svolta e il
criticato loro modo d'intendere la disciplina militare e la potestà di comando (in senso analogo, v. Sez. 5, n.
29433 del 16/05/2007, Mancuso, Rv. 236839). In secondo luogo ha sostanzialmente ridotto la facoltà di
critica alla esposizione dei fatti e alla loro puntuale, esatta illustrazione e definizione. A differenza della
cronaca, del resoconto, della mera denunzia, la critica si concretizza nella manifestazione di un'opinione (di
un giudizio valutativo). E' vero che essa presuppone in ogni caso un fatto che è assunto ad oggetto o a
spunto del discorso critico, ma il giudizio valutativo, in quanto tale, è diverso dal fatto da cui trae spunto e a
differenza di questo non può pretendersi che sia "obiettivo" e neppure, in linea astratta, "vero" o "falso". La
critica postula, insomma, fatti che la giustifichino e cioè, normalmente, un contenuto di veridicità limitato
alla oggettiva esistenza dei dati assunti a base delle opinioni e delle valutazioni espresse (Sez. 5, n. 13264
del 16/03/2005, non massimata; Sez. 5, n. 20474 del 14/02/2002, Rv. 221904; Sez. 5, n. 7499 del
14/02/2000, Rv. 216534), ma non può pretendersi che si esaurisca in essi. In altri termini, come rimarca la
giurisprudenza CEDU la libertà di esprimere giudizi critici, cioè "giudizi di valore", trova il solo, ma
invalicabile, limite nella esistenza di un "sufficiente riscontro fattuale" (Corte EdU, sent. del 27.10.2005 caso
Wirtshafts-Trend Zeitschriften-Verlags Gmbh c. Austria ric. n° 58547/00, nonché sent. del 29.11.2005, caso
Rodrigues c. Portogallo, ric. n° 75088/01), ma al fine di valutare la giustificazione di una dichiarazione
contestata, è sempre necessario distinguere tra dichiarazioni di fatto e giudizi di valore, perché, se la
materialità dei fatti può essere provata, l'esattezza dei secondi non sempre si presta ad essere dimostrata
(Corte EdU, sent. del 1°.7.1997 caso Oberschlick c/Austria par. 33). […] La continenza sostanziale, o
"materiale", attiene alla natura e alla latitudine dei fatti riferiti e delle opinioni espresse, in relazione
all'interesse pubblico alla comunicazione o al diritto-dovere di denunzia. La continenza sostanziale ha
dunque riguardo alla quantità e alla selezione dell'informazione in funzione del tipo di resoconto e
dell'utilità/bisogno sociale ad esso. […] La continenza formale attiene invece al modo con cui il racconto sul
fatto è reso o il giudizio critico esternato, e cioè alla qualità della manifestazione. E per lo più riguarda,
come nel caso in esame, proprio il giudizio critico, poco spazi di "originalità" descrittiva consentendo di
regola i fatti. Essa postula dunque una forma espositiva proporzionata, "corretta" in quanto non
ingiustificatamente sovrabbondante al fine del concetto da esprimere.[…] Dalla mancanza di certezza in
ordine alla falsità (non verità) della notizia (anche ove dovesse risolversi nel mero dubbio del giudicante), va
tenuto infatti distinto il problema della acquisita opposta certezza dell'agente: anche ove fosse appurato
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che la notizia non può ritenersi vera (è falsa), se risulta però che l'agente l'ha diffusa nella ragionevole e
giustificabile convinzione che lo fosse, il fatto (anche a stare alla radicata elaborazione giurisprudenziale
secondo cui, per quanto promani dal diritto alla libertà di manifestazione del "proprio pensiero", è
connaturale al diritto di cronaca evocabile per il tramite dell'art. 51 c.p. la necessità di "obiettiva" verità
della notizia) non è punibile, perché nulla consente di escludere che la regola dettata dal quarto comma
dell'art. 59 cod. pen. trovi interamente applicazione con riferimento all'esercizio del diritto in esame (tra
molte, Sez. 5, n. 15643 del 11/03/2005, Scalfari, Rv. 232134)” (sent. 799 del 13.06.2014; Racc. Gen. Corte
Cass. n. 36045/14).
In un caso in cui ad un militare era contestato il reato di diffamazione per aver attribuito ad un superiore
fatti determinati e non rispondenti al vero, la Corte ha ritenuto carente la ricostruzione del dolo operata dal
giudice di merito rilevando che l’imputato “non si era limitato ad un esposto anonimo, ma aveva
sottoscritto il documento inoltrato, aveva espresso il convincimento della necessità di una formale iniziativa
di accertamento sulle vicende riferite, si era in tal modo esposto al rischio di una smentita ed alle inevitabili
conseguenze pregiudizievoli personali. Tale comportamento non è logicamente compatibile con la
consapevolezza di riferire notizie false” (sent. 1097 del 15.10.2014; Racc. Gen. Corte Cass. n. 53167/14).
19) Furto militare
Sul piano probatorio è stato ribadito che, secondo la costante giurisprudenza della Corte, “per il
riconoscimento della refurtiva da parte del derubato non devono essere necessariamente osservate le
formalità stabilite per la ricognizione di cose; in questo caso, infatti, il derubato, avendo avuto il possesso
delle cose rubate, è in grado di identificarle direttamente, come chiunque altro ne avesse avuto per ragioni
analoghe personale conoscenza, e, quindi, la relativa operazione, costituendo un mero accertamento di
fatto e non un atto processuale formale, può essere liberamente utilizzato dal giudice nella formazione del
suo convincimento (V. Sez.1 sentenza n. 5926 del 15.4.1998, Rv. 210618)” (sent. 229 del 19.02.2014; Racc.
Gen. Corte Cass. n. 37570/14).
20) Furto d’uso
La Corte ha precisato che “la fattispecie del furto d'uso presuppone comunque la sottrazione e si
caratterizza esclusivamente per la restituzione del bene sottratto” (sent. 86 del 22.01.2014; Racc. Gen.
Corte Cass. n. 16713/14).
21) Truffa
A proposito dell’idoneità degli atti la Corte ha precisato: “l'idoneità degli artifici e raggiri in danno di un ente
pubblico non può dirsi esclusa dalla esistenza, all'interno del procedimento amministrativo di liquidazione
della somma, di atti di controllo della legittimità della spesa (Sez. 2, n. 20975 del06/05/2008, Orsini e altro,
Rv. 240412; Sez. 1, n. 44053 del 11/11/2008, Fusco, Rv. 241829” (sent. 89 del 22.01.2014; Racc. Gen. Corte
Cass. n. 15734/14).
Nello stesso senso, si è affermato: “una volta accertato - come i giudici di merito hanno fatto con ampiezza
- che le forniture e le prestazioni di opere pagate dall'Amministrazione non erano state effettuate e
verificato che le false attestazioni apposte [dall’imputato] non erano conseguenza di errori di percezione o
esecuzione di ordini di superiori, la prova della responsabilità dell'imputato è raggiunta, pur
nell'impossibilità di acquisire un quadro completo di quelle di altri soggetti: le attestazioni, infatti,
costituivano un passaggio essenziale per la conclusione del procedimento amministrativo e il conseguente
19
pagamento, in quanto - se non vi fosse stata attestazione della ricezione di merce o dell'esecuzione della
riparazione - I'iter si sarebbe bloccato” (sent. 632 del 9.05.2014; Racc. Gen. Corte Cass. n. 34034/14).
Premesso che per "profitto ingiusto" deve intendersi il profitto conseguito senza titolo, la Corte ha
ravvisato il dolo nell'imputato che sia stato “perfettamente consapevole che il comportamento posto in
essere tendeva a conseguire un profitto che non gli spettava” (sent. 89 del 22.01.2014; Racc. Gen. Corte
Cass. n. 15734/14).
La Corte ha escluso che, al di là di eventuali illeciti amministrativi o disciplinari, sussista l’ingiusto profitto
penalmente rilevante in termini di truffa in un caso in cui l’imputato “non ha ottenuto alcun surplus in
termini di vantaggio patrimoniale (o comunque economico di natura) personale visto che, in un caso, ha
operato una compensazione di fatto tra un debito e un credito e, nell'altro, ha costituito la retribuzione di un
confidente per finalità di indagine” (sent. 791 del 13.06.2014; Racc. Gen. Corte Cass. n. 28129/14).
Sulla sindacabilità delle giustificazioni addotte dall’imputato e sulla configurabilità dell’ingiusto profitto
connesso alla percezione di retribuzione non spettante, la Corte ha così motivato in altra vicenda: ”I giudici
di merito hanno ritenuto, con motivazione logica ed adeguata, che le patologie riportate nei certificati
medici, per cui [l’imputato] si trovava in convalescenza, erano incompatibili con la partecipazione ad
incontri di rugby.
Questa considerazione, diversamente da quanto ritiene il ricorrente, non dà corpo ad un utilizzo di scienza
privata del giudice, ma è l'espressione di una valutazione di buon senso, rientrante nel patrimonio comune
di conoscenze, secondo cui un soggetto affetto da lombosciatalgia non può partecipare ad un gioco rude e
violento come il rugby, in cui il contatto fisico è predominante.
Conseguenzialmente, in relazione alle date in cui gli incontri erano stati disputati, e tenendo presente anche
la deposizione del medico curante, la Corte di secondo grado è giunta alla conclusione logica che, come
contestato, la patologia non era realmente sofferta. In questa constatazione si trova anche la risposta alla
doglianza relativa all'elemento soggettivo del reato cui la stessa Corte ha data sintetica, ma precisa
risposta, integrando la motivazione del prima giudice con il richiamo all’“evidente coscienza e volontà degli
anzidetti comportamenti posti in essere dal Suo assistito e della malizia con cui il medesimo perseguì
l'ingiusto profitto consistito nell'avere corrispondentemente ottenuto il mantenimento della retribuzione
spettante come militare dell'Arma dei carabinieri anche nella stesso periodo in cui se ne rendeva, con piena
consapevolezza e pervicace determinazione, assente senza giusto motivo così da poter disputare con la
squadra di rugby di appartenenza le anzidette più volte già richiamate quattro distinte gare persino a livello
nazionale di tale specifica disciplina sportiva" (sent. 1369 del 2.12.2014; R.G. 10600/15).
Sull’elemento del danno si è stabilito: “Nel delitto di truffa, mentre il requisito dell'ingiusto vantaggio
dell'agente o di terzi può includere in sé qualsiasi utilità o incremento patrimoniale, anche a carattere non
strettamente pecuniario, l'elemento del danno deve avere necessariamente contenuto patrimoniale ed
economico, consistendo in una lesione concreta e non soltanto potenziale che abbia l'effetto di produrre mediante la "cooperazione artificiosa della vittima" che, indotta in errore dall'inganno ordito dall'autore del
reato, compie l'atto di disposizione - la perdita definitiva del bene da parte della stessa (Cass. sez. 2, n.
18762 del 15/01/2013, P.G. in proc. Meloni, rv. 255194; sez. 2, n.18859 del 24/01/2012, Volpi, rv. 252821).
Perché sia perfezionata la fattispecie occorre dunque un effettivo depauperamento economico del soggetto
passivo, nella forma del danno emergente o del lucro cessante (Cass. sez. 2, n. 10085 del 21/02/2008, Minci,
rv. 239507)” (sent. 796 del 13.06.2014; Racc. Gen. Corte Cass. n. 39544/14).
Sul requisito del danno per l’amministrazione militare nelle vicende relative a missioni in regime forfettario
la Corte ha stabilito: “La liquidazione dell'indennità di missione secondo il regime forfettario sopra descritto,
dunque, ha costituito il risultato di una scelta del ricorrente, che lo ha evidentemente ritenuto più
conveniente del regime ordinario (esonerandolo dalla dimostrazione e documentazione delle spese di vitto e
alloggio effettivamente sostenute, per conseguirne il rimborso), e che era perciò tenuto all'adempimento
scrupoloso dei corrispondenti doveri dichiarativi e che non può invocare come scriminante della propria
20
condotta fraudolenta una pretesa assenza di pregiudizio economico per l'amministrazione militare rispetto
al costo rappresentato dall'erogazione del trattamento ordinario di missione, qualora l'imputato avesse
optato per tale alternativa, che costituisce frutto di una prospettazione del tutto congetturale basata su
presupposti di fatto indimostrati e impossibili da verificare (come quello per cui [l’imputato] avrebbe scelto
in tal caso di pernottare presso la sede del servizio comandato, anziché fare quotidiano rientro nella propria
residenza come avvenuto nella realtà)” (sent. 1089 del 15.10.2014; Racc. Gen. Corte Cass. n. 4444/15).
In altra vicenda ha però affermato, in argomento, che, se l’imputato ha optato per l’indennità forfettaria, al
fine di riscontrare la sussistenza di un effettivo pregiudizio patrimoniale per il Ministero della Difesa occorre
“un raffronto sull’ammontare degli emolumenti spettanti [al militare in missione] qualora egli, com’era suo
diritto, avesse optato per l’indennità ordinaria con liquidazione su base oraria e rimborso delle spese vive di
vitto ed alloggio a partire dal giorno antecedente l’attività svolta e secondo quanto indicato nel foglio di
viaggio per l’inizio della missione, al fine di riscontrare o meno la minore economicità per l’Amministrazione
della soluzione prescelta dall’imputato” (sent. 796 del 13.06.2014; Racc. Gen. Corte Cass. n. 39544/14).
Quanto alla determinazione della durata delle missioni al fine di calcolarne la relativa indennità, la Corte, in
una vicenda riguardante un appartenente all’Arma dei Carabinieri cui era contestata la percezione
dell’indennità di missione in misura superiore a quanto spettantegli, ha affermato: “le circolari del
16/10/2002 e del 19/5/2006 del Comando Generale dell'Arma dei Carabinieri impongono al dipendente di
compilare il quadro "C" con indicazione analitica degli estremi temporali di durata della missione in
riferimento al momento di intrapresa del viaggio di andata e di ritorno proprio al fine di poterne desumere
la reale protrazione oraria dell'impegno effettivo richiesto al militare, che non potrebbe essere ricavato ne'
dal momento di inizio della missione, che non garantisce la reale immediata partenza verso la sede del
servizio temporaneo, ne' dal visto di arrivo e di partenza apposto dall'ufficio militare presso il quale si è
compiuta la missione stessa per individuare il momento di effettiva presenza e di cessata presenza del
dipendente in quel luogo: in entrambi i casi i predetti visti non possono tenere conto del lasso temporale
necessario per il trasferimento dalla e sino alla sede di servizio ordinaria o alla dimora. Pertanto, risulta
conforme ai testi normativi e alle istruzioni impartite con le predette circolari l'opzione esegetica […] che
assegna rilevanza alle dichiarazioni del militare contenute nel quadro "C" del foglio di viaggio per stabilire la
protrazione temporale della missione quale presupposto per l'attività di liquidazione del trattamento
economico spettante” (sent. 796 del 13.06.2014; Racc. Gen. Corte Cass. n. 39544/14).
In argomento, sui doveri del militare in missione, la Corte ha precisato: “la condotta alla quale l'imputato
era tenuto a uniformarsi nella compilazione del quadro a lui riservato dei fogli di viaggio, da cui scaturiva il
diritto a conseguire una prestazione economica, si risolveva nel dovere di rendere una dichiarazione fedele e
veritiera in ordine alle date e agli orari effettivi della sua partenza per raggiungere il luogo della missione e
per fare successivo rientro in sede, e riguardava dunque situazioni di fatto da lui personalmente e
direttamente conosciute e apprezzate nei loro termini reali, sulle quali non è ipotizzabile alcun errore
incolpevole ma solo una consapevole e deliberata alterazione della rappresentazione della realtà, mediante
l'indicazione di estremi temporali non rispondenti al vero: l'obbligo di non rendere dichiarazioni false
all'amministrazione di appartenenza, a maggior ragione in un atto munito di valenza certificativa agli effetti
dell'insorgenza di un diritto di natura patrimoniale, integra una condotta certamente esigibile in via
generale, ancor prima di trovare specifico fondamento nello status di militare [dell’imputato] e nei doveri
allo stesso inerenti di cui non può essere invocata l'ignoranza ex art. 39 cod.pen.mil.pace” (sent. 1092 del
15.10.2014; Racc. Gen. Corte Cass. n. 7637/15).
Il principio è stato esteso anche alle missioni in regime forfettario perché “il disinteresse
dell'amministrazione per la documentazione dei costi sopportati durante la missione dal militare interessato
(che possono essere in concreto inferiori all'importo dell'indennità liquidata, e al limite non essere stati
addirittura sostenuti), discendente dal regime forfettario dell'indennità, non può essere confuso con
!'interesse, invece, a una puntuale e veritiera indicazione della durata effettiva della missione stessa, dalla
quale dipende la commisurazione -rapportata al tempo - dell'indennità e della correlativa prestazione
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economica gravante sull'amministrazione, e che può essere verificata soltanto a posteriori mediante le
attestazioni certificate dall'interessato nel quadro C” (sent. 1092 del 15.10.2014; Racc. Gen. Corte Cass. n.
7637/15).
E’ stato peraltro precisato che dalla premessa concernente gli obblighi del militare di redigere
correttamente la documentazione “non può però ricavarsi automaticamente la prova della sussistenza di
tutti i presupposti, necessari per poter configurare la fattispecie illecita contestata: invero, il Procuratore
ricorrente assegna rilievo alla oggettiva falsità delle attestazioni riportate nei documenti compilati
dall'imputato, ma trascura che egli non è stato chiamato a rispondere di falso ideologico, ossia della
mendace e volontaria rappresentazione di circostanze di fatto di sua conoscenza, ma di truffa in danno del
Ministero della Difesa, indotto ad erogare emolumenti non spettanti nell'importo liquidato” (sent. 797 del
13.06.2014; Racc. Gen. Corte Cass. n. 39545/14).
Quanto alla natura ed alle condizioni di esigibilità del rimborso per spese di viaggio del militare in missione,
la Corte, richiamata la legislazione in materia, ha rilevato: “II chiaro disposto normativo indica l'attribuzione
del rimborso soltanto a fronte dell'impiego di un mezzo aereo o privato, comunque diverso da quello
dell'amministrazione, e la finalità dell'istituto, consistente nel ristorare il militare che, in ragione della
missione espletata, abbia dovuto affrontare delle spese per i trasferimenti, utilizzando appunto un mezzo di
locomozione diverso da quello previsto come ordinario, ossia da quello ferroviario, seppur non previamente
autorizzato, induce a. confermare la correttezza dell'interpretazione offerta all'istituto dai giudici di appello,
ossia l'estraneità del rimborso all'istituto giuridico dell'indennità di missione, la sua subordinazione
all'adempimento all'onere di documentazione e soggezione al potere di verifica dell'amministrazione. Non
può, invece, avallarsi la tesi difensiva, che gli assegna la natura indennitaria, commisurata ad un dato
oggettivo pari al prezzo del biglietto ferroviario e spettante al dipendente in ogni caso per il solo fatto di
avere intrapreso la trasferta, a prescindere dalla sopportazione effettiva di una spesa; al contrario deve
ritenersi che nei casi di effettiva fruizione, come avvenuto da parte del ricorrente, del trasporto erogato
gratuitamente da parte del vettore ferroviario, poiché alcun esborso è stato effettuato, correlativamente
nessuna spesa possa essere richiesta e debba essere rimborsata” (sent. 796 del 13.06.2014; Racc. Gen.
Corte Cass. n. 39544/14).
La Corte ha esteso il principio anche al caso di missione in regime forfettario osservando: “Il carattere
forfettario, invero, attiene alla misura del rimborso, liquidato dall'amministrazione in un importo
predeterminato (rapportato al costo del biglietto ferroviario di prima classe della tratta corrispondente), che
può essere in concreto anche superiore o inferiore alla spesa effettivamente sostenuta dal militare
comandato in missione per percorrere il tragitto con un mezzo di trasporto diverso da quello ordinariamente
autorizzato (e cioè il treno), ma non connota il relativo diritto, che non spetta sempre e comunque
all'interessato, ma sorge esclusivamente in presenza del presupposto rappresentato dal potenziale
sostenimento di una spesa per raggiungere la (o rientrare dalla) sede della missione, e la cui ricorrenza è
esclusa allorché il militare si sia servito del treno, e dunque di un mezzo per il quale non e previsto il diritto al
rimborso forfettario e sul quale [l’imputato] era legittimato a viaggiare gratuitamente” (sent. 1092 del
15.10.2014; Racc. Gen. Corte Cass. n. 7637/15).
In una vicenda relativa alla percezione di straordinari da parte di carabiniere che svolgeva servizio di
vigilanza presso la Banca d’Italia, la Corte ha escluso la sussistenza del requisito del danno
all’amministrazione militare ed ha conseguentemente escluso la giurisdizione dell’Autorità giudiziaria
militare sulla base delle seguenti considerazioni: “La particolare condizione dell'imputato, in rapporto alla
specifica condotta oggetto di valutazione nel giudizio di Appello (in verità ritagliata su una fattispecie più
ampia oggetto del giudizio di primo grado, con giudicato assolutorio su una ulteriore ipotesi in fatto) è
normativamente regolata, in rapporto al servizio prestato dall'art. 3 della legge 26 gennaio 1982 n.21,
attualmente riprodotto nell'attuale art. 830 comma 3 del D.Lgs. n. 66 del 15.3.2010.
22
La norma è dal tenore inequivoco: “gli assegni, le competenze accessorie e le indennità comunque spettanti
al personate…nonché ogni altro elemento di onere connesso al servizio di vigilanza e scorta valori, sono a
carico della Banca d'Italia”.
Non vi è dubbio che in riferimento a tale previsione di legge il soggetto passivo del reato, nei cui confronti si
e dispiegata la condotta e che avrebbe subito la correlata diminuzione patrimoniale è la Banca d'Italia, ente
nel cui interesse viene prestato il servizio e che è tenuto in via definitiva e in forza di lex specialis a
provvedere in tema di assegni, competenze accessorie, e indennità del relativo personate. Dunque il
pagamento delle ore di 'straordinario' - oggetto della contestata condotta illecita - rientra del tutto in detti
oneri ed e sopportato non già dall'amministrazione militare ma da un ente pubblico del tutto diverso ed
estraneo all'apparato militare” (sent. 85 del 22.01.2014; Racc. Gen. Corte Cass. n. 7579/14).
Nel ritenere che l’omessa comunicazione all’amministrazione militare di una causa di decadenza
dall’impiego possa integrare l’artificio ed il raggiro costituenti elemento oggettivo del reato, la Corte ha così
motivato: “La Corte militare ha correttamente spiegato come in capo all'imputato correva obbligo di dare
comunicazione all'amministrazione di appartenenza di informazioni che avrebbero comportato la sua
decadenza dall'impiego e quindi alla interruzione della sua retribuzione. E' stato infatti documentalmente
provato che nel periodo dall'aprile 2006 al novembre 2007 il ricorrente, conseguita la laurea in medicina,
stipulò un contratto di lavoro continuativo presso la casa di cura XXXX, dapprima con un impegno di
quaranta ore settimanali e poi di trentotto ore settimanali, con una retribuzione annua pari a 45.000 euro
prima e ad 84 mila euro nel 2007. E' stato quindi corretto ritenere [l’imputato] operante in modo
continuativo presso la clinica menzionata, ancorché ancora dipendente dell'amministrazione pubblica, così
incorrendo nella palese incompatibilità di ruoli, come previsto dal TU 10.1.1957, n. 3 operante per tutti i
dipendenti pubblici. E' quindi stato corretto individuare proprio nella mancata comunicazione dell'attività
svolta (peraltro ampiamente ammessa dell'imputato, in ragione della necessità di non abbandonare il certo
per l'incerto) all'amministrazione di appartenenza l'artificio ed il aggiro di tacere non il fatto di avere
conseguito la laurea e l'abitazione alla professione medica, ma il rapporto di lavoro a tempo pieno
instaurato con una casa di cura. A tale silenzio maliziosamente serbato seguì il fatto, economicamente
apprezzabile, che l'amministrazione oltre che mantenergli il posto di lavoro lo retribuì regolarmente. Non
poteva portare ad opinare diversamente l'argomento sviluppato dalla difesa, secondo cui [l’imputato]
avrebbe avuto comunque diritto alla retribuzione perché in condizioni fisiche precarie, atteso che il profilo
delle certificazioni mediche false è stato ampiamente superato e corretto con la nuova contestazione,
facente leva sui fatto di aver nascosto il rapporto di lavoro continuativo all'Amministrazione di
appartenenza che, se solo ne avesse avuto contezza, avrebbe immediatamente interrotto il rapporto e
quindi il corso della retribuzione. La truffa è stata correttamente ravvisata nell’aver taciuto l'imputato la sua
nuova realtà lavorativa, incompatibile con la protrazione del rapporto di lavoro con la P.A.” (sent. 566 del
24.04.2014; Racc. Gen. Corte Cass. n. 20323/14).
Sempre sul concetto di artificio è stato affermato:”Ia dichiarazione mendace inserita nella domanda di
partecipazione al concorso costituisce l'artificio ed il raggiro, mediante il quale si è tratto in errore
l'amministrazione sul possesso dei necessari requisiti personali del concorrente e si è conseguito l'ingiusto
profitto, rappresentato dalla nomina ad allievo aviere e dall'ammissione al corso di formazione; in altri
termini, diversamente da quanto rappresentato col ricorso, la condotta non si è esaurita nella
prospettazione mendace di circostanze di fatto a conoscenza del dichiarante, ma è connotata da ulteriori
elementi tipici, ossia l'inganno attuato dell'amministrazione, che, se a conoscenza della condanna
[dell’imputato] non lo avrebbe ammesso al concorso, ed il conseguente pregiudizio patrimoniale con pari
vantaggio ingiusto per l'agente. Non giova alla difesa sostenere che l'unico soggetto ad essere caduto in
errore sarebbe stato lo stesso imputato, il cui patrimonio di conoscenze ed esperienze personali, per quanto
ricostruito nelle due sentenze di merito, gli aveva consentito l'esatta rappresentazione della propria
condizione di soggetto condannato e della necessita di tenere celata tale situazione onde poter accedere ad
un beneficia cui non aveva diritto” (sent. 1096 del 15.10.2014; Racc. Gen. Corte Cass. n. 5680/15).
23
Nel rigettare un ricorso del P.M. contro sentenza di non luogo a procedere perché il fatto non costituisce
reato, la Corte ha affermato che la volontà di compensazione “esclude quella di truffare e di arrecare un
danno effettivo all'amministrazione. In tal senso, del resto, non può rilevare neppure la ammissibilità o
meno della compensazione che, comunque, atterrebbe alla configurabilità dell'elemento oggettivo del reato
contestato e non a quello soggettivo la cui esclusione è stata posta a fondamento della decisione
impugnata” (sent. 640 del 9.05.2014; Racc. Gen. Corte Cass. n. 36042/14).
Sui rapporti tra il reato di truffa e quello di falso è stato puntualizzato quanto segue: “Appare altresì
corretto sotto il profilo giuridico anche il rilievo, secondo il quale può ipotizzarsi il concorso e non
l'assorbimento del delitto comune di falso ideologico, oggetto d'investigazioni nei procedimenti sopra citati,
e quello di truffa militare, dal momento che nella previsione normativa la falsità non costituisce elemento
essenziale per la realizzazione della truffa; al riguardo, è necessario che sia la legge penale a stabilire il falso
quale elemento costitutivo quale artificio o circostanza aggravante della fattispecie di truffa, non essendo
sufficiente in tal senso che nelle modalità pratiche di consumazione della condotta antigiuridica si realizzi
un'occasionale convergenza di più norme e, quindi, un concorso di reati (Cass. sez. 5, n. 21409 del
05/02/2008, Franchi e altro, rv. 240081; sez. 5, n.45965 del 10/10/2013, Muratore, rv. 25794)” (sent. 1096
del 15.10.2014; Racc. Gen. Corte Cass. n. 5680/15).
22) Crimini di guerra
La Corte ha affermato il principio secondo cui “Il fatto che non risultasse alcuna fonte in grado di provare
che [l’imputato] avesse impartito direttive esecutive del programma di morte come rilevato dalla difesa,
non poteva portare ad opinare diversamente, poiché come correttamente rilevato in sentenza, una volta
comprovato che gli ordini erano di superare con disinibizione totale i limiti dello ius in bello, ogni
comandante di piccolo o grande contingente che si uniformasse a quegli ordini, trasmettendoli ai suoi
uomini, partecipava a pieno titolo (e non solo sotto forma di concorso anomalo) alla realizzazione degli
eccidi in violazione alle regole che anche la guerra presidiavano” (sent. 392 del 19.03.2014; Racc. Gen. Corte
Cass. n. 23288/14).
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Diritto processuale
1) Competenza e giurisdizione
A proposito dei termini entro i quali eccepire il difetto di competenza, la Corte ha osservato: “Non giova [..]
alla difesa sostenere che i presupposti per la contestazione sarebbero emersi soltanto al dibattimento,
perché, a voler ritenere che la modifica dell’imputazione, operata dal P.M., avesse introdotto profili di
novità incidenti sulla competenza per territorio in ragione del luogo e del tempo di consumazione del reato,
l'eccezione avrebbe potuto e dovuto essere proposta a quella stessa udienza o a quella successiva, non già
con l'atto introduttivo del grado ulteriore. Se dunque il mutamento parziale dell'accusa poteva autorizzare
una sorta di remissione in termini per dedurre questione d'incompetenza, ormai preclusa per lo sviluppo
raggiunto dal progredire del processo (Cass. sez. 1 nr. 47520 del 12/12/2007, confl. camp in proc. Filippone,
rv.238381; contra Cass. sez. 1, n. 26699 del 23/05/2013, Confl. camp. in proc. Singh Balgit e altri, rv.
256050, che ha rilevato come la preclusione sancita dall'art. 21 cod. proc. pen. in nome dell'efficienza e della
spedita trattazione del processo non ammetta deroghe, nemmeno per effetto di eventuali modifiche
apportate all'imputazione nel corso del giudizio, sede naturale delle acquisizioni istruttorie e di conseguenti
adattamenti dell'accusa), tale facoltà avrebbe comunque dovuto essere esercitata alla prima occasione
processuale utile, cosa non verificatasi, senza che possa censurarsi sul punto la decisione che ne ha preso
atto” (sent. 1096 del 15.10.2014; Racc. Gen. Corte Cass. n. 5680/15).
2) Questioni sul rapporto processuale, sulle parti e sulla loro regolare costituzione
Nel confermare la facoltà di enti pubblici ed associazioni di costituirsi parte civile nei processi per crimini di
guerra, la Corte ha così motivato per quanto riguarda la Presidenza del Consiglio e gli enti pubblici
territoriali: “nella giurisprudenza di legittimità è consolidato il principio della risarcibilità del danno morale a
favore di enti pubblici, nel senso che anche nei confronti di tali soggetti un fatto previsto dalla legge come
reato può costituire titolo per il ristoro dei pregiudizi, patrimoniali e non. Questa Corte di legittimità (Sez. I,
8.11.2007, n. 4060/2008, Rv 239190) ha riaffermato che lo Stato, e per esso la presidenza del consiglio che
lo rappresenta come organo di vertice, ha il potere e la legittimazione ad agire in giudizio per ottenere il
risarcimento del danni cagionatigli da azioni contro le leggi e gli usi di guerra, e che non si vede come possa
porsi in dubbio che il crimine di guerra abbia provocato dolore, sofferenza nella collettività di cui le parti
civili sono enti esponenziali, creando nella memoria collettiva una ferita non rimarginabile, produttiva di
danno non patrimoniale risarcibile che costituisce presupposto della legitimatio ad causam anche degli enti
territoriali, ancorché nati successivamente alla consumazione dei reati, per lo più titolari dell'interesse a
testimoniare frammenti di storia così significativi di cui i territori furono sfortunati protagonisti. La corte de
qua si è uniformata al principio di diritto suindicato, a cui questa corte di legittimità intende dare
continuità” (sent. 392 del 19.03.2014; Racc. Gen. Corte Cass. n. 23288/14).
Sullo stesso argomento, per quanto riguarda l’ANPI, la Corte, dopo aver evidenziato come l'ANPI “ebbe ad
incorporare gruppi e formazioni partigiane preesistenti, subentrando per incorporazione nei diritti di quelle
formazioni che operarono per liberare lo stato italiano dagli invasori tedeschi e restituire un regime di piena
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libertà e democrazia”, ha affermato che “la costituzione di parte civile ove dovesse essere ritenuta non
legittima in base dell'art. 91 c.p.p., avendosi riguardo ad enti o associazioni senza scopo di lucro,
riconosciute anteriormente alla commissione del fatto (ancorché sul punto si registri l'arresto suindicato in
senso contrario, che legittima la costituzione degli enti territoriali ancorché nati successivamente ai fatti di
reato) la legittimazione deriva, come affermato dalla Corte, dall'art. 74 c.p.p., che attribuisce l’azione civile
al soggetto al quale il reato ha arrecato danno ovvero ai suoi successori universali, per via della continuità
per successione tra le associazioni partigiane e I'ANPI nato, come da statuto, per proseguire l'opera dei
gruppi partigiani, incarnandone la storia e la tradizione, del diritto al risarcimento del danno per i crimini in
oggetto, che ebbero ad interessare direttamente le formazioni partigiane” (sent. 392 del 19.03.2014; Racc.
Gen. Corte Cass. n. 23288/14).
Quanto ai criteri di valutazione del giudice di merito sulle istanze difensive di concessione di un termine a
difesa, la Corte ha affermato: “Quanto al primo motivo d'impugnazione, nessun profilo di illegittimità è
ravvisabile nella decisione impugnata con riferimento al mancato accoglimento della richiesta di
concessione di un termine a difesa.
La Corte territorio nel disattendere tale richiesta della difesa si è infatti correttamente uniformata a principi
di diritto ripetutamente affermati da questa Corte (in termini, ex multis, Sez. 4, n. 41663 del 25/10/2005 dep. 21/11/2005,Cannizzo ed altro, Rv. 232423) secondo cui le norme che disciplinano le nuove
contestazioni, la modifica dell'imputazione e la correlazione tra l'imputazione contestata e la sentenza
(articoli 516-522 cod. proc. pen.), avendo lo scopo di assicurare il contraddittorio sui contenuto dell'accusa
e, quindi, il pieno esercizio del diritto di difesa dell'imputato, «vanno interpretate con riferimento alle
finalità alle quali sono dirette, cosicché non possono ritenersi violate da qualsiasi modificazione rispetto
all'accusa originaria, ma soltanto nel caso in cui la modificazione dell'imputazione pregiudichi la possibilità
di difesa dell'imputato», e richiedono altresì, per la loro applicabilità, che la modificazione incida sugli
aspetti fondamentali dell'imputazione; eventualità motivatamente esclusa nel caso di specie in cui la
modificazione si è risolta nell'aggiunta delle parole "riuniti per servizio", alla originaria contestazione "di
aver commesso il fatto alla presenza di numerosi militari". La modifica, in altri termini, non ha riguardato gli
elementi costituitivi del reato e neppure la contestazione di un'ulteriore aggravante ma solo una
precisazione fattuale già presente nell'accusa originaria, rilevante esclusivamente sui piano della
configurabilità di una condizione di procedibilità, per altro comunque integrata dalla circostanza, in fatto,
che la condotta antigiuridica ascritta all'imputato si ricollega a "motivi di servizio", ovvero alla
regolamentazione della sosta delle auto all'interno di un luogo militare” (sent. 637 del 9.05.2014; Racc.
Gen. Corte Cass. n. 37214/14).
Nell’annullare la sentenza di merito perché, nell’udienza conseguente a rinvio su richiesta del difensore
d’ufficio nominato ai sensi dell’art. 97, c. 4 c.p.p., era stato negato il nuovo rinvio chiesto dal difensore di
fiducia, la Corte ha così motivato: “ben avrebbe potuto la Corte di appello, ritenuta effettivamente
ingiustificata l'assenza del difensore di fiducia alla precedente udienza, invitare il difensore d'ufficio a
discutere (eventualmente concedendogli uno spazio di studio con un termine ad horas). Ma scelta la via del
differimento dell'udienza, non poteva per ciò solo disattendere la richiesta di ulteriore rinvio per un legittimo
impedimento, questa volta sussistente, del difensore di fiducia mai revocato o sostituito per abbandono di
difesa” (sent. 1372 del 2.12.2014; Racc. Gen. Corte Cass. n. 52960/14).
3) Atti processuali (abnormità, nullità)
In relazione ad ordinanza pronunciata dal giudice del dibattimento che - previa dichiarazione di nullità della
richiesta di rinvio a giudizio e di ogni altro atto conseguente per ritenuta nullità, ai sensi dell'art. 178 lett. c),
c.p.p. verificatasi nelle indagini preliminari - aveva disposto la restituzione degli atti al PM, la Corte,
richiamati i principi giurisprudenziali sulla nozione di atto abnorme, ha stabilito: “Nel caso in esame il
provvedimento adottato dal Giudice del dibattimento, potrà al più essere illegittimo, ma non è qualificabile
sotto alcun profilo come atto abnorme, poiché il contenuto dell’atto non è avulso dal sistema e gli effetti di
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esso non sono tali da pregiudicare in concreto lo sviluppo successive del processo” (sent. 495 del 14.2.2014;
Racc. Gen. Corte Cass. n. 9823/14).
4) Azione penale (termini, condizioni di procedibilità, formulazione e modifica dell’imputazione)
Sui termini di durata massima delle indagini preliminari, in procedimento instaurato su atti trasmessi
dall’A.G. ordinaria, è stato precisato: “il processo fu radicato innanzi al Tribunale Militare a seguito di
dichiarazione di difetto di giurisdizione del giudice ordinario, così determinando la trasmissione degli atti al
pubblico ministero presso il giudice ritenuto competente (art. 20 cod. proc. pen. che richiama l'art. 22,
comma 1). Ne consegue che la trasmissione del procedimento all'A.G. militare ha comportato una nuova
iscrizione della notizia di reato nell'apposito registro con l'inizio ex novo del termine di durata massima delle
indagini, giacché non vi è dubbio che la nuova iscrizione, per il suo carattere di autonomia rispetto alla
precedente, determini una nuova decorrenza dei detti termini al fine di consentire all'organo giudiziario di
compiere le indagini necessarie per assumere le proprie determinazioni” (sent. 1373. del 2.12.2014; Racc.
Gen. Corte Cass. n. 110602/15).
Con riferimento alla situazione in cui un reato (nella fattispecie, diffamazione p. e p. dall’art. 227 c.p.m.p.)
sia perseguibile a richiesta di procedimento del comandante di corpo nell’ipotesi base e di ufficio qualora
ricorra una circostanza aggravante ad effetto speciale, la Corte ha puntualizzato quanto segue: “Se è vero
che la individuazione della pena edittale stabilita per il reato considerato, ai fini di ritenere necessaria o
meno la richiesta di procedimento da parte del comandante di corpo, va ritenuta quella indicata nella
eventuale aggravante ad effetto speciale (così Sez. I n. 10815 del 16.6.1986, rv 173940) e, pertanto, quella in ipotesi - prevista dall'art. 227 comma 2 (trattandosi pacificamente di circostanza aggravante e non di
titolo autonomo di reato) è pur vero che detta aggravante dovrebbe essere contestata espressamente dal
titolare del potere di esercizio dell'azione penale e non può essere 'ritenuta' dal giudice dell'udienza
preliminare, non trattandosi di semplice riqualificazione del fatto” (sent. 84 del 22.01.2014; Racc. Gen.
Corte Cass. n. 7578/14).
Sempre in relazione al reato di diffamazione, la Corte, nel rigettare il ricorso del P.M. avverso la sentenza di
merito che aveva dichiarato non doversi procedere per mancanza della richiesta di procedimento del
comandante di corpo, ha affermato il principio secondo cui, nel caso di due comunicazioni diffamatorie
succedutesi nel tempo, la propalazione del fatto determinato deve accompagnare entrambe le
comunicazioni perché possa ritenersi integrata l’aggravante e “Correttamente, dunque, non è stata
ravvisata la circostanza aggravante dell'attribuzione di un fatto determinato per la genericità della seconda
comunicazione, con la conseguente perseguibilità del ritenuto reato di cui all'art. 227 c.p.m.p., comma 1, su
richiesta di procedimento del comandante del corpo” (sent. 1362 del 2.12.2014; Racc. Gen. Corte Cass. n.
10597/15).
Quanto, invece, alla perseguibilità del reato di lesioni personali (art. 223 c.p.m.p.), la Corte, nell’annullare
senza rinvio una sentenza per improcedibilità dell’azione penale per mancanza della richiesta di
procedimento del comandante di corpo, ha precisato che, se la durata della malattia assurge ad elemento
determinante per la qualificazione del fatto in termini di lesioni lievi, “in una situazione di obiettiva
incertezza la regola iuris che deve essere applicata è quella "in dubio pro reo", cosicché deve ritenersi
raggiunta la prova solo per una malattia di durata inferiore a dieci giorni” (sent. 1360. del 2.12.2014; Racc.
Gen. Corte Cass. n. 1590/15).
Quanto alle modalità di formulazione dell’accusa, è stato affermato: “E' del tutto pacifico, nella
giurisprudenza di questa Corte, che la contestazione non può consistere nella mera riproduzione del dato
normativo, priva di riferimenti concreti e puntuali alla condotta che l'Accusa assume integratrice della
fattispecie. Ciò posto, non c'è dubbio che la formulazione del formale addebito all'imputato XXXX null'altro
contenga, quanto all'aggravante in questione, che la frase "consistere le offese nell'attribuzione di fatti
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determinati" che nient'altro è che la mera ripetizione del dato normativo, senza alcun riferimento ad
elementi di condotta in qualche modo specifici. L'unico riferimento possibile è alla precedente frase
"solleciti, lagnanze e vessazioni che rasentano il mobbing", frase che del tutto correttamente i giudici del
merito hanno ritenuto priva di riferimenti a fatti determinati. Anche ricollegandosi alla tesi della ricorrente
Accusa, e dunque pur considerando l'addebito allargato al materiale allegato [dall’imputato] alla sua
missiva considerata diffamatoria, non è dato sapere -né ancora il ricorrente P.G. l'ha specificato - quali
siano, tra quelli compresi negli allegati, i fatti assunti come determinati e dunque integratori
dell’aggravante” (sent. 83 del 22.01.2014; Racc. Gen. Corte Cass. n. 7577/14).
Sugli ambiti dell’istituto della modifica dell’imputazione nel corso del dibattimento è stato affermato:
“l'operato dell'organo dell'accusa risulta del tutto legittimo e conforme al dettato dell'art. 516 cod. proc.
pen. nell'interpretazione offertane dalla giurisprudenza di legittimità, secondo la quale il mutamento
dell'imputazione è consentito nel giudizio, non soltanto a fronte dell'effettiva emersione dal corso
dell'istruzione dibattimentale di elementi differenti che qualificano il fatto di reato, ma anche quando non si
sia conseguito alcun "novum" e l'intervento correttivo dipenda da una diversa considerazione del requirente
(Cass., sez. 6 nr. 26284 del 26/3/2013, Tonietti, rv. 256861; sez. 6, nr.44501 del 29/10/2009, Cardella, rv.
245006; sez. 2, nr. 3192 dell'8/1/2009, Caltabiano, rv. 242672) (sent. 1096. del 15.10.2014; Racc. Gen. Corte
Cass. n. 5680/15)” (sent. 1096 del 15.10.2014; Racc. Gen. Corte Cass. n. 5680/15).
5) Decreto di archiviazione
Con riferimento ai criteri di valutazione del GIP sull’ammissibilità dell’opposizione della persona offesa alla
richiesta di archiviazione formulata dal PM, la Corte ha così argomentato: “In adesione all'orientamento
maggioritario indicato al paragrafo 2), il Collegio ritiene che, ai fini della delibazione di ammissibilità, il
giudice può valutare, oltre agli aspetti strettamente formali (tempestività e ritualità dell'opposizione),
soltanto la specificità e la pertinenza della richiesta investigativa, con riferimento sia al tema che alla fonte
di prova, nonché il carattere suppletivo rispetto alle risultanze dell' attività compiuta nel corso delle indagini
preliminari. Non può, invece, valutare - come avvenuto nel caso di specie - anche la rilevanza di tale
richiesta, intesa quale valutazione prognostica sulla capacità dimostrativa del risultato, che va affrontata in
sede di udienza camerale. In tal modo, infatti, si determinerebbe un'inaccettabile forma di anticipazione
della decisione sui merito della regiudicanda, non consentita se adottata senza previa instaurazione del
contraddittorio tra le parti nella camera di consiglio, nell'ambito della quale la persona offesa può
esplicitare il significato probatorio delle investigazioni richieste” (sent. 450 del 11.2.2014; Racc. Gen. Corte
Cass. n. 18181/14).
L’indirizzo è stato confermato in altra decisione motivando come segue: “Questa Corte ha più volte
affermato il principio, che va qui ribadito, secondo cui in tema di opposizione della persona offesa alla
richiesta di archiviazione, il GIP deve limitare il giudizio di ammissibilità dell'opposizione ai soli profili di
pertinenza e di specificità degli atti di indagine richiesti, senza valutarne la capacità probatoria, non
potendo anticipare - in chiave prognostica – valutazioni di merito in ordine alla fondatezza o all'esito delle
indagini suppletive indicate dall'opponente, posto che l'opposizione è preordinata esclusivamente a
sostituire il provvedimento de plano con il rito camerale (Sez. 2 n. 43113 del 19/09/2013,Rv. 257236; Sez. 3
n. 24536 del 20/03/2013, Rv. 255457; Sez. 4 n. 12980 del17/01/2013, Rv. 255500; Sez. 6 n. 35787 del
10/07/2012, Rv. 253349).
La disciplina dettata dall'art. 410 commi 1 e 2 cod.proc.pen. ha introdotto un meccanismo idoneo a
impedire istanze di prosecuzione delle indagini pretestuose o dilatorie, fornendo in tali ipotesi al giudice lo
strumento per adottare immediatamente il decreto di archiviazione; quando, tuttavia, le indagini richieste
siano pertinenti e specifiche il giudice non può impedire l'instaurazione del contraddittorio, in quanto a
seguito dell'opposizione alla richiesta di archiviazione la regola è costituita dall'instaurazione del
contraddittorio e il GIP non è legittimato a effettuare inaudita altera parte una prognosi dell'esito delle
investigazioni suppletive” (sent. 1179 del 11.4.2014; Racc. Gen. Corte Cass. n. 20514/14).
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6) Elementi probatori (indagini preliminari e dibattimento)
In una vicenda in cui era contestato il reato di ubriachezza in servizio (art. 139 c.p.m.p.), la Corte ha
precisato: “La tesi che pretende come obbligatoria la presenza del difensore all'espletamento dell'indagini
sullo stato di ebbrezza non tiene conto di quanto affermato da parte della giurisprudenza di questa Corte in
riferimento al reato di guida in stato di ebbrezza, il cui principio di diritto e egualmente riferibile alla diversa
fattispecie in esame, ossia che l'accertamento del tasso alcolemico rientra nel novero degli accertamenti
urgenti di cui all'art. 354 cod. proc. pen., ai quali il difensore della persona indagata ha facoltà di assistere,
ma senza avere diritto di essere preventivamente avvertito; pertanto, l'omesso avviso, prescritto dall'art.
114 disp. att. cod. proc. pen., all'indagato della facoltà di farsi assistere da un legale, dà luogo ad una nullità
di ordine generale a regime intermedio, sanata dalla mancata formulazione della relativa eccezione o prima
del compimento dell'atto, oppure subito dopo, trattandosi di facoltà non richiedente un intervento tecnico
professionale, proprio del difensore (Cass. sez. 4, n. 38003 del 19/09/2012, Avventuroso, rv. 254374; sez. 4,
n. 36009 del 04/06/2013, Pg ed altro, rv. 255989). Nel caso in esame l'eccezione non risulta essere stata
sollevata nei tempi prescritti, quindi è rimasta sanata […]. Quanto all'omessa redazione del verbale
contenente la descrizione delle operazioni compiute e della prestazione del consenso da parte
[dell’imputato], va detto che, per quanto si tratti di accertamento di natura urgente, la relativa attività non
è stata compiuta dal personale di polizia giudiziaria, limitatosi ad accompagnare l'imputato al pronto
soccorso ed a richiedere la sua sottoposizione ad analisi ematica, attestata da relazione di servizio agli atti,
ma da quello sanitario, che ne ha documentato l'effettuazione mediante apposita certificazione. Non si
verte dunque in un caso richiedente l'espletamento degli adempimenti di verbalizzazione prescritti dall'art.
357 cod. proc. pen., per le attività direttamente poste in essere dalla polizia giudiziaria” (sent. 228 del
19.02.2014; Racc. Gen. Corte Cass. n. 13394/14).
Quanto all’obbligo della P.G., allorché procede al compimento degli atti indicati nell’art. 356 c.p.p., di
avvertire l’indagato della facoltà di farsi assistere dal difensore di fiducia, è stato ribadito che “la violazione
della prescrizione di cui all'art.114 disp. att. cod. proc. pen. dà luogo a nullità a regime intermedio, come
ripetutamente stabilito dall'orientamento maggioritario della Corte di Cassazione (sez. 4, n. 44840 del
11/10/2012, Pg in proc. Tedeschi, rv. 254959; sez. 3, n.14873 del 28/03/2012, Rispo, rv. 252397; sez. 2, n.
13392 del 23/03/2011, Mbaye, rv. 250046; sez. 5, n. 44538 del 09/10/2008, Elefante, Rv. 241904; sez. 4 nr.
42715 del 25/9/2003, Giannandrea, rv. 227303), e , come tale, deve essere eccepita o prima, oppure
immediatamente dopo il compimento dell'atto, ossia subito dopo la nomina del difensore, ovvero entro il
termine di cinque giorni che l'art. 366 cod. proc. pen. concede a quest'ultimo per l'esame degli atti. Tale
onere non risulta rispettato nel caso di specie, dal momento che la questione è stata posta per la prima
volta col ricorso per cassazione, in modo quindi tardivo” (sent. 1098. del 15.10.2014; Racc. Gen. Corte Cass.
n. 45867/14).
In un processo in cui era contestato il reato di furto militare, la Corte ha ritenuto utilizzabile la spontanea
confessione dell’imputato resa al brigadiere persona offesa perché ricevuta dal sottufficiale “in un
momento in cui non era incaricato di svolgere indagini e nella qualità di parte lesa del furto, quindi al di
fuori del contesto procedimentale.
Né può parlarsi di contesto procedimentale per il solo fatto che il brigadiere […] abbia riferito in una
relazione quanto era a sua conoscenza, vertendo il contenuto della relazione non su indagini svolte, ma su
quanto accadutogli quale parte lesa del reato di furto” (sent. 225 del 19.02.2014; Racc. Gen. Corte Cass. n.
37568/14).
Quanto alle modalità di acquisizione ed al valore probatorio del riconoscimento della refurtiva da parte del
derubato, la Corte ha ribadito che, secondo costante giurisprudenza, “per il riconoscimento della refurtiva
da parte del derubato non devono essere necessariamente osservate le formalità stabilite per la
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ricognizione di cose; in questo caso, infatti, il derubato, avendo avuto il possesso delle cose rubate, è in
grado di identificarle direttamente, come chiunque altro ne avesse avuto per ragioni analoghe personale
conoscenza, e, quindi, la relativa operazione, costituendo un mero accertamento di fatto e non un atto
processuale formale, può essere liberamente utilizzato dal giudice nella formazione del suo convincimento
(V. Sez.1 sentenza n. 5926 del 15.4.1998, Rv. 210618)” (sent. 229 del 19.02.2014; Racc. Gen. Corte Cass. n.
37570/14).
Nel cassare la sentenza di merito per aver utilizzato le dichiarazioni rese in violazione dell’art. 63, c. 2 c.p.p.
da un medico esaminato quale testimone, la Corte ha affermato che il giudice di merito “ha omesso di
correlare, in coerenza con i predetti condivisi principi di diritto, la posizione e la qualifica soggettiva del dott.
XXXX, le cui dichiarazioni testimoniali ha valorizzato nel giudizio di responsabilità dell'imputato, con il
precetto dell’art. 63, comma 2, cod. proc. pen., collegato sul piano sistematico con l’art. 210 cod. proc. pen.
(ordinanza n. 280 del 2009 Corte costituzionale), nonostante che l’audizione di detto teste, disposta sul
presupposto di una contestazione di falsità dei certificati medici a carico del medesimo imputato,
beneficiario degli stessi, presupponesse di per sé la sua qualificazione come sostanzialmente indagato, al di
là dei tempi di inoltro della formale denuncia nei suoi confronti e della circostanza (ed epoca) della riferita
sua previa assunzione da parte del P.M. in sede di sommarie informazioni” (sent. 263 del 25.02.2014; Racc.
Gen. Corte Cass. n. 51068/14).
Sui requisiti di utilizzabilità degli esiti di indagini difensive è stato affermato: “In tema di indagini difensive,
per vero, secondo il consolidato orientamento di questa Corte di legittimità, le informazioni assunte e
documentate in un verbale mancante delle generalità della persona che le riceve, della sottoscrizione,
nonché dell'autentica della stessa, sono da considerarsi inutilizzabili, in base a quanto disposto dal comma
sesto dell'art. 391 bis cod. proc. pen. (Sez. 2, 16 gennaio 2013, n. 20460, P.M. in procedimento. Bosco, rv.
255967) cosi come sono parimenti inutilizzabili le predette informazioni che siano state raccolte senza che
siano stati rivolti al dichiarante i prescritti avvisi di legge, incombente che va documentato in modo analitico
nel verbale di raccolta delle dichiarazioni, sicché non è sufficiente che il difensore, nella relazione
predisposta a mente dell'art. 391-ter del codice di rito, dia genericamente atto d'aver rivolto all'interessato
gli avvertimenti indicati al terzo comma dell'art. 391-bis cod. proc. pen. (Sez. F, 25 luglio 2003, n. 34554,
Jovanovic, rv. 228394)” (sent. 792 del 13.06.2014; Racc. Gen. Corte Cass. n. 28130/14).
In relazione al divieto di utilizzazione dei risultati delle intercettazioni in procedimenti diversi da quelli per i
quali sono state disposte (art. 270 c.p.p.), è stato stabilito che “la inutilizzabilità delle intercettazioni in
ambito processuale non ne esclude la funzione di notizia di reato, come tale utilizzabile dalla pubblica
accusa per l'espletamento delle necessarie indagini volte all'acquisizione di elementi di prova sulla cui base
potrà successivamente esercitare l'azione penale (cfr. Corte cost., sent. n. 366 del 1991, che ha valorizzato
sui punta il potere del p.m. e della polizia giudiziaria di acquisire notizie di reato di propria iniziativa ai sensi
dell'art. 330 cod. proc. pen., nonchè l'obbligo di acquisire notizie di reato, anche al di fuori dell'esercizio delle
proprie funzioni, conferito al pubblico ministero dall'art. 70 Ord. Giud.)” (SS.UU., sent. 15 del 26.06.2014;
Racc. Gen. Corte Cass. n. 32697/14).
Circa i poteri del giudice del dibattimento di revocare prove già ammesse, la Corte ha sottolineato come il
giudice del dibattimento eserciti, in quel frangente, “un suo preciso potere/dovere, ben più ampio di quello
riconosciuto dall'art. 190 cod. proc. pen., all'inizio del dibattimento, proprio in forza del maturo grado di
conoscenza raggiunto nel corso del dibattimento” (sent. 637 del 9.05.2014; Racc. Gen. Corte Cass. n.
37214/14).
Quanto alla valutazione degli elementi di prova, in una vicenda in cui era contestato il reato di
insubordinazione con minaccia e ingiuria a carico di un maresciallo capo CC, la Corte ha precisato che “l'alibi
falso è sintomatico, a differenza di quello non provato, del tentativo dell'imputato di sottrarsi
all'accertamento della verità, per cui va considerato come un indizio, inidoneo a fondare da sé il giudizio di
colpevolezza, ma segmento di un complesso quadro dimostrativo concorrente con gli altri elementi acquisiti.
30
Non vale al ricorrente richiamare il diritto a mentire ed a difendersi nel modo ritenuto più opportuno, né
lamentare l'omessa considerazione delle ragioni del mendacio, in quanto nel caso specifico non si è
rappresentata alcuna giustificazione che consenta di non imputare tale comportamento al tentativo di
impedire la verifica del reale accadimento dei fatti, il che è tanto più vero se si considera che l'alibi è stato
fornito nel corso del procedimento da soggetto non privo di cognizioni legali” (sent. 571 del 24.04.2014;
Racc. Gen. Corte Cass. n. 33782/14).
A proposito della testimonianza, è stato affermato: “non è illogico ritenere che la valenza 'particolare' di un
comportamento cui si assiste (una rapina, un omicidio, uno stupro) determina un livello emotivo di
coinvolgimento ed attenzione tale da influire sui meccanismi rievocativi della memoria, dove un evento di
non particolare significato scivola su chi vi assiste senza lasciare particolare traccia” (sent. 1099. del
15.10.2014; Racc. Gen. Corte Cass. n. 45868/14).
Sugli ambiti di valutazione del giudice relativamente alle giustificazioni addotte dall’imputato nei reati di
assenza dal servizio, è stato affermato: “la circostanza che il militare accusato di diserzione impropria
alleghi a discarico una infermità, non può implicare, come sembra invece ritenere il ricorrente, che l'esame
del giudice vada limitato alla sola certificazione di malattia rilasciata da un medico privato - quantunque
reputato attendibile e non indotto in errore dal paziente o peggio, rivelatosi compiacente - ben potendo
esso essere esteso, oltre che all'autonomo apprezzamento della effettiva gravità della malattia accertata
dal sanitario, anche alle eventuali circostanze che, smentendo la certificazione, potrebbero condurre
all'affermazione di colpevolezza dell’imputato.
Nell'impianto motivazionale della sentenza impugnata, infatti, l'esclusione dell'esistenza di un giusto motivo
si ricollega, non solo, ad una motivata svalutazione della gravità della patologia riscontrata [all’imputato],
argomento questo già di per sé sufficiente a fondare una pronuncia di condanna, ma anche all'ulteriore
dato fattuale, relativo alla partecipazione [del medesimo], nel periodo di asserita indisposizione, ad una
manifestazione equestre” (sent. 562 del 24.04.2014; Racc. Gen. Corte Cass. n. 39540/14).
7) Misure cautelari
Quanto ai termini per il ricorso per cassazione la Corte ha precisato: “Il termine stabilito (a pena di
decadenza: art. 585, comma 5, del codice di rito e art. 99 delle relative disposizioni di attuazione) dall'art.
311 comma 1 del codice di rito, entro il quale deve essere proposto il ricorso per cassazione avverso le
ordinanze pronunciate a norma dell'art. 309 dal tribunale del riesame, è quello di dieci giorni decorrenti
dalla comunicazione o dalla notificazione dell'avviso di deposito del provvedimento impugnato,
pacificamente eseguite - per quanto emerge ex actis - in data 25.06.2014 sia al difensore di fiducia
[dell’indagato], che all'indagato nel domicilio eletto presso il medesimo difensore di fiducia”.
La nomina di un nuovo difensore di fiducia, con revoca di quello precedente, da parte dell'indagato […] dopo
la scadenza del termine per l'impugnazione, non comportava alcun onere di rinnovazione della notificazione
dell'avviso di deposito dell'ordinanza soggetta a impugnazione al nuovo difensore (agli effetti di
un'inammissibile rimessione nel termine per impugnare), essendo pacifica e costante l'affermazione, nella
giurisprudenza di questa Corte, che le notificazioni, così come le comunicazioni e gli avvisi, devono essere
indirizzate al difensore della parte che risulti nominato, di fiducia o d'ufficio, al momento in cui esse sono
disposte, senza alcun obbligo di rinnovazione in favore del difensore successivamente nominato (da ultima,
Sez. 3 n. 5096 del 10/10/2013, Rv. 258839; vedi anche Sez. 3 n. 20931 dell' 11/03/2009, Rv. 243864, e Sez.
Un. n. 20300 del 22/04/2010, Rv. 246909, che hanno affermato il principio con riferimento all' avviso per
l'udienza camerale dinanzi alla Corte di cassazione, che non deve essere rinnovato in favore del difensore
successivamente nominato)” (sent. 2949 del 15.10.2014; Racc. Gen. Corte Cass. n. 48302/14).
In un caso in cui il tribunale militare, in sede di appello ai sensi dell’art. 310 c.p.p., aveva rigettato l’istanza
dell’indagato di revoca della misura coercitiva del divieto di dimora ma l’aveva sostituita con quella
interdittiva della sospensione dall’esercizio di un pubblico ufficio o servizio, la Corte, nell’annullare il
31
provvedimento in accoglimento del ricorso del PM, ha così motivato: “L'ordinanza impugnata è affetta da
un'effettiva carenza della motivazione, in conformità al vizio denunciate dal ricorrente, essendosi limitata a
supportare la decisione di sostituire, nei confronti dell'indagato, la misura coercitiva con quella interdittiva
sulla scorta di un'argomentazione di mero stile, che si esaurisce nella generica affermazione secondo cui "la
misura disposta, per come la sua applicazione è andata - in concreto - ad incidere sulle condizioni di vita
[dell’indagato], allo stato, non appare più proporzionata all'entità del fatto, comportando un'eccessiva
compressione della libertà personale del soggetto sottoposto a cautela" (pagina 2 del provvedimento),
frutto di proposizioni stereotipe che possono adattarsi a qualsiasi situazione e che non danno conto, in
termini concreti e specifici, delle reali ragioni che hanno giustificato la sostituzione (e con essa
l'attenuazione) della misura cautelare, così da non consentire il doveroso controllo sulla correttezza logicogiuridica dell'iter decisorio e da risolversi in una motivazione meramente apparente, censurabile in sede di
legittimità anche sotto il profilo della violazione dell'art. 125 comma 3 del codice di rito.
La motivazione del provvedimento impugnato si rivela altresì contraddittoria e manifestamente illogica
laddove ha ritenuto - con argomentazione a sua volta essenzialmente tautologica - l'adeguatezza della
misura interdittiva di cui all'art. 289 del codice di rito a cautelare l'esigenza di evitare che l'indagato possa
commettere altre truffe nei confronti dell'amministrazione militare, omettendo completamente di
confrontarsi col chiaro disposto del 3° comma della norma, che stabilisce che la sospensione cautelare
dall'esercizio di un pubblico ufficio non si applica agli uffici elettivi ricoperti per diretta investitura popolare,
e dunque è strutturalmente inidonea a inibire [all’indagato] l'esercizio delle funzioni di consigliere comunale
concretamente utilizzate - secondo l'ipotesi accusatoria - come schermo di copertura per le attività illecite
poste in essere in danno dell'amministrazione di appartenenza” (sent. 2951 del 15.10.2014; Racc. Gen.
Corte Cass. n. 48303/14).
8) Udienza preliminare
Sui canoni di giudizio del GUP è stato affermato: “l'udienza preliminare nell'economia del processo di prima
grado ha natura soltanto processuale perché non è destinata alla verifica circa l'acquisizione, all'esito delle
indagini preliminari o nel corso del suo svolgimento, di elementi probatori in grado di dimostrare la
fondatezza o meno della "notitia criminis", l'innocenza o la colpevolezza dell'imputato, verdetto esprimibile
mediante esercizio dei poteri cognitivi e valutativi propri del giudizio, ma soltanto a formulare la prognosi
circa i risultati conseguibili con il dibattimento sulla base di quel materiale probatorio e circa Ia concreta
possibilità di sviluppi istruttori che diano luogo alla sua modificazione, in termini di arricchimento o di
chiarimento, conducendo a risultati differenti. II giudice dell'udienza preliminare non deve valutare nel
merito il quadro probatorio, quasi ad anticipare la decisione conclusiva del processo, ma pronunciare
sentenza di non luogo a procedere nei confronti dell'imputato solo in presenza di prove positive di
innocenza, oppure di una palese inconsistenza dimostrativa delle prove di colpevolezza, tali da non essere
suscettibili di modificazioni al dibattimento con l'acquisizione di nuovi elementi conoscitivi, oppure con la
diversa valutazione di quelli raccolti e da rendere superflui il passaggio del procedimento alla fase giudiziale
e l'espletamento della relativa istruttoria”(sent. 1908 del 13.6.2014; Racc. Gen. Corte Cass. n. 28259/14).
Nello stesso senso, si è annullata una sentenza di non luogo a procedere osservando: “il giudizio espresso
dal GUP si profila affetto da una radicale contraddizione interna che lo vulnera alla radice. Infatti, il
giudicante, nell'esprimere la propria valutazione decisionale, anziché esaminare gli elementi indiziari resisi
disponibile in causa, alla luce della loro sufficienza o non contraddittorietà, e proiettarli nell'ottica
prognostica di una loro suscettibilità ad essere ulteriormente arricchiti in sede dibattimentale con altri
elementi probatori, li ha scrutinati lui stesso, soppesandoli e stimandoli criticamente e assegnando loro una
valutazione discrezionale ragionata e argomentata. E questo esorbita i poteri del giudice della cognizione
che decida ex art. 425 cod. proc. pen. a prescindersi dalla valutazione circa la correttezza o meno dello
stesso giudizio sostanziale ivi formulato” (sent. 566 del 19.2.2014; Racc. Gen. Corte Cass. n. 13430/14).
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In altra vicenda è stato ribadito che “Ai fini della corretta applicazione dell'art. 425 cod. proc. pen., non è
l'omesso completamento o la superficialità delle indagini che giustifica la sentenza di non luogo a procedere
secondo un giudizio di tipo retrospettivo, bensì la previsione di impossibile arricchimento istruttorio nella
successiva fase dibattimentale secondo un giudizio che, partendo dal già acquisito, si apra alla valutazione
dell'acquisibile in un'ottica prospetticamente aperta” (sent. 1371. del 2.12.2014; Racc. Gen. Corte Cass. n.
1593/15).
9) Sentenza (correlazione con l’imputazione, motivazione, vizi)
In un caso in cui il giudice di primo grado aveva omesso di applicare la riduzione di pena prevista in favore
dell'imputato che opti per il rito abbreviato, la Corte ha stabilito che “Trattasi di un'omissione che non
determina alcuna nullità, la cui eliminazione non comporta una modificazione essenziale dell'atto, e quindi
la correzione, ai sensi dell'art.130 c.p.p., può essere disposta anche d'ufficio dal giudice competente a
conoscere dell'impugnazione” (sent. 229 del 19.02.2014; Racc. Gen. Corte Cass. n. 37570/14).
Sui criteri di giudizio cui deve informarsi il giudice di cognizione è stato precisato che il dubbio “per
determinare l'ingresso di una reale ipotesi alternativa di ricostruzione dei fatti, tale da determinare una
valutazione di inconsistenza dimostrativa della decisione, è solo quello «ragionevole» e cioè quello che trova
conforto nella buona logica, non certo quello che la logica stessa consente di escludere o di superare (in tal
senso Sez. 1 n.3282 del 2012 del 17.11.2011, nonchè, in termini generali, Sez.1 n. 31546 del 21.5.2008, rv
240763)” (sent. 1095. del 15.10.2014; Racc. Gen. Corte Cass. n. 45866/14).
10) Spese processuali
Sulle spese in favore della parte civile è stato affermato: “In tema di spese relative all'azione civile, poiché
l’art. 153 disp. att. cod. proc. pen. non commina alcuna sanzione di nullità o inammissibilità per
l'inosservanza del dovere della parte civile di produrre l'apposita nota, la mancanza di essa, ove la domanda
di rifusione sia stata tempestivamente proposta, non ne preclude la liquidazione in favore della stessa parte
civile, sulla base della tariffa professionale vigente (Sez. 6, n. 5680 del 03/12/2007 – dep. 05/02/2008,
Garofalo, Rv. 238730)” (sent. 93 del 22.01.2014; Racc. Gen. Corte Cass. n. 15735/14).
11) Impugnazioni
La questione della mancanza di legittimazione della parte civile che non sia persona offesa a ricorrere
avverso la sentenza di non luogo a procedere è stata affrontata in un caso in cui era stato contestato il
reato di istigazione a commettere reati militari (art. 212 c.p.m.p.): “il ricorso risulta proposto da persona
costituita parte civile, ma che - a prescindere dalla ravvisabilità e consistenza dell'eventuale pregiudizio
lamentato e della veste, dunque, di soggetto danneggiato - non può considerarsi persona offesa dal reato di
istigazione a commettere delitti militari di cui all'art. 212 cod. pen. mil. pace.
Questo infatti costituisce una fattispecie di pericolo che pacificamente tutela, analogamente al simile delitto
previsto l'art. 414 cod. pen., l'ordine pubblico in sè considerato, o, se si vuole essere più precisi, l'ordine
pubblico militare (cfr., Sez. 1, Sentenza n. 4993 del 22/11/1974, Bindi, Rv. 130000, e in relazione a
fattispecie di cui all'art. 266 cod. pen., in certo modo analoga, l'osservazione di Sez. 1, n. 6869 del
14.4.1986, Rv. 173297, che anche i militari istigati, pur costituendo l'oggettività del reato, non sono i
soggetti passivi di esso).
La possibilità che l'istigazione concerna reati che, a loro volta, offendano interessi soggettivi particolari, è,
per la fattispecie astratta in base alla quale va individuata l'offensività in termini di oggettività giuridica,
solo eventuale. La lesione (di tali interessi, con conseguente assunzione della veste di persona offesa del
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soggetto leso, potrebbe dunque venire in rilievo esclusivamente nell'ipotesi di istigazione accolta e di
commissione dei reati che li offendono, che non ricorre nel caso in esame.
Tanto posto, è nozione acquisita, specie dopo Sez. U, n. 25695 del 29/05/2008, D'Eramo, Rv. 239701, che a
seguito delle modifiche introdotte dalla legge n. 46 del 2006 all'art. 428 cod. proc. pen., la persona
danneggiata, pur costituita parte civile, che non sia anche persona offesa non è legittimata a proporre
ricorso per cassazione avverso la sentenza di non luogo a procedere, essendo tale impugnazione destinata
alla tutela esclusiva degli interessi, penalistici, della persona offesa (così, da ultimo, Sez. 3, n. 50929 del
14/11/2013, Angellotto, Rv. 258018; Sez. 3, n. 48475 del 07/11/2013, Scaramazza, Rv. 258291)”
(sent. 1910 del 13.6.2014; Racc. Gen. Corte Cass. n. 34056/14).
Sui limiti all’impugnazione della sentenza di applicazione della pena è stato affermato: “Va, innanzitutto,
ribadita la consolidata giurisprudenza di legittimità in tema di applicazione della pena ex art. 444 c.p.p.,
secondo cui l'accordo delle parti non può essere oggetto di recesso, sicché è inammissibile l'impugnazione
del Procuratore Generale distrettuale fondata su censure che si risolvano in un recesso dall'accordo, non
potendosi riconoscere ad altro ufficio del P.M., nonostante la sovraordinazione gerarchica e la titolarità di
un autonomo potere di impugnazione, un potere che non spetta alle parti (tra le più recenti: Sez. 6, n. 28427
del 12/3/2013, P.G. in proc. Ennaciri, Rv. 256455; Sez. 3, n. 41137 del 23/5/2013, P.G. in proc. Bacci, Rv.
256692).
Né è consentito al Procuratore Generale, fatti salvi casi di palese incongruenza, censurare il provvedimento
in punto di qualificazione giuridica del fatto e di ricorrenza delle circostanze, neppure sotto il profilo della
mancanza di motivazione, ricorrendo in proposito un dovere di specifica argomentazione solo per il caso che
l'accordo abbia presupposto una modifica dell'imputazione originaria (fra molte, Sez. 6, n. 32004 del
10/4/2003, Valetta, Rv.228405).
A ciò va aggiunto che l'accordo sulla pena esonera il giudice dall'obbligo di motivazione sui punti non
controversi della decisione, sicché dalla valutazione sintetica del fatto operata in sentenza deve dedursi la
considerazione della sua limitata gravità, in relazione alla quale le parti, compreso il Pubblico Ministero del
grado superiore, non possono censurare il provvedimento adottato riguardo alla determinazione
quantitativa della sanzione (Sez. 2, n. 40519 del 12/10/2005, Scafidi, Rv. 232844).
Infine, va ricordato che il Giudice, ove la richiesta concordata di applicazione della pena sia subordinata come nel caso in esame - alla concessione della sospensione condizionale, è tenuto a pronunziarsi sulla
concedibilità o meno del beneficia, ratificando in caso positivo l'accordo delle parti, oppure rigettando "in
toto" la richiesta di patteggiamento” (Sez. 4, Sentenza n. 9455 del 21/1/2011, Selvaggio, Rv. 249813)” (sent.
1180 dell’11.4.2014; Reg. Gen. Corte Cass. 38706/14).
Sul requisito dell’interesse ad impugnare è stato precisato che “l'interesse ad impugnare, previsto in via
generale dall'art. 568, comma 4, cod. proc. pen., non può essere meramente teorico e formale all'esattezza
della decisione, senza riflessi in punto di utilità concreta, dovendo l'impugnazione essere sempre diretta al
conseguimento di un risultato favorevole, che sia anche indirettamente utile al proponente (Sez. 1, n. 2345
del 18/05/1994, dep. 22/06/1994, Mendola, Rv. 198189; conformi: Sez. 4, n. 7120 del 07/03/1995, dep.
22/06/1995, Carlini, Rv. 202251; Sez. 5, n. 46151 del 15/10/2003, dep. 01/12/2003, Acunzo, Rv. 227860).
Nel caso di specie, il ricorso del Procuratore militare mira ad ottenere il medesimo esito, ossia la
dichiarazione di improcedibilità dell'azione penale per mancanza di richiesta del Ministro della Difesa e non
per difetto di richiesta del Comandante abilitato; esso, pertanto, è privo di interesse immediato, diretto ed
attuale, e, quindi, inammissibile” (Sez. VII, ord. 21764 del 18.12.2014; Racc. Gen. Corte Cass. n. 21809/15).
Quanto all’omessa notificazione dell'appello proposto dal procuratore militare della Repubblica prescritta
dall'art. 584 c.p.p., la Corte ha stabilito che tale inosservanza “non produce né l'inammissibilità
dell'impugnazione, non essendo prevista tra i casi di cui all'art. 591 cod. proc. pen., né la nullità della
sentenza conclusiva del giudizio nel grado successivo, non rientrando tra le nullità di cui all'art. 178 cod.
proc. pen.. L'unico effetto riconducibile a tale omissione consiste nel mancato decorso del termine per
proporre l'impugnazione incidentale della parte privata, ove consentita, evenienza da escludere nel caso in
esame, nel quale l'imputato ha proposto l'appello principale (Cass., sez. 2, n. 16891 del 11/04/2007,
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Paglino, rv. 236657; sez. 3, n.3266 del 10/12/2009, Esposito, rv. 245859; sez. 5, n. 5525 del 25/11/2008, De
Angelis e altro, rv. 243157)” (sent. 572 del 24.04.2014; Racc. Gen. Corte Cass. n. 24920/14).
In una vicenda in cui la parte civile non aveva interposto appello avverso le statuizioni civili della sentenza
di primo grado, che aveva disposto la liquidazione in via equitativa della somma complessiva di duemila
euro, la Corte ha rilevato che tale mancata proposizione dell'impugnazione e la conseguente acquiescenza
prestata alle statuizioni civili in essa contenute “preclude la successiva proposizione del ricorso per
cassazione, atteso che la parte civile non ha sviluppato le sue doglianze contro la decisione di primo grado
mediante un'autonoma impugnazione (Sez. 6, n. 12811 del 09 febbraio 2012; Sez. 5, n.1461 del 10
novembre 2010; Sez. 4, n. 12027 del 24 febbraio /2011; Sez. 6, n.49497 del 13 ottobre 2009; Sez. 5, n. 6911
dell' 8 maggio 1998; Sez. 3, n. 11036 del 21 ottobre 1993; contra, sulla base della sola considerazione del
principio di immanenza della costituzione della parte civile, che è aspetto diverso da quello della continuità
delle impugnazioni, Sez. 5, n. 12018 dell' 1 marzo 1999; Sez. 3, n.10946 del7 dicembre 1996; Sez. 4, n. 11016
del 31 maggio 1994).
Una conclusione del genere è suffragata dal rilievo che dall'effetto estensivo delle impugnazioni (art. 587
c.p.p.) non consegue l'abilitazione dell'imputato non impugnante a reagire contro la sentenza di appello o di
rinvio che non abbia accolto le ragioni del coimputato impugnante, potendo egli solo beneficiare degli
effetti eventualmente favorevoli, a lui estensibili, della decisione assunta sulla base della impugnazione del
coimputato. Nell'ipotesi di mancato accoglimento dei motivi presentati dal coimputato appellante, quello
non appellante non ha un autonomo diritto di ricorso per cassazione, potendo egli ricorrere avverso la
sentenza di secondo grado nella sola ipotesi di mancata pronuncia dell'effetto estensivo nei suoi confronti
(Sez. 5, n. 6810 del 14 maggio 1997)” (sent. 634 del 9.05.2014; Racc. Gen. Corte Cass. n. 33783/14).
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