Il valore e il ruolo del volontariato

Conferenza internazionale nell’ambito di The European Volunteer Measurement Project
“Il valore e il ruolo del volontariato: Presentazione del Manuale OIL sulla misurazione del lavoro
volontario”
Roma, Parlamentino del CNEL, 19 Aprile 2012
Trascrizione della relazione introduttiva di
Leonardo Becchetti
Professore Ordinario di Economia Politica presso la Facoltà di Economia dell’Università di Roma “Tor Vergata”
Il Prof. Salamon entrerà poi nel merito del progetto a cui accennerò anch’io, ma il mio compito in questo
contesto credo sia quello di dare un po’ di stimoli al ragionamento. Mi batto da molto tempo affinché si superi questa
divisione in compartimenti stagni tra il terzo settore ed il resto dell’economia, dove il resto dell’economia sarebbe
quello produttivo, mentre il terzo settore, in un certo senso, quello della redistribuzione; e siccome oggi il problema è
quello della crescita, non conta parlare del terzo settore. Al contrario, credo che oggi ci sia un problema molto più
grande; oggi Smith riscriverebbe La ricchezza delle nazioni.
Cos’è la ricchezza delle nazioni? Come si crea valore? Queste sono le due grandi domande. Sullo sfondo
abbiamo una sfida titanica: siamo 7 miliardi, stiamo crescendo, dobbiamo creare valore economico in maniera
sostenibile dal punto di vista sociale ed ambientale; con risorse finite. Questo è il vero problema che abbiamo sullo
sfondo, ovviamente con dei grandi divari tra i costi di lavoro nelle diverse aree del mondo. E questo, inoltre, è quello
che sta dietro la crisi della finanza, poiché proprio la finanza è lo sforzo prometeico di creare del valore immateriale,
che ci è poi ricaduto addosso dal momento che quei derivati del credito che avevamo costruito non erano valore, o
almeno non sono più considerati valore. Quindi oggi siamo come un surfista che ha dietro di sé un’onda enorme: non
sappiamo se arriveremo prima noi o prima l’onda che ci travolgerà. Dobbiamo ridefinire cos’è il valore e come si crea
valore. E qui voglio citare una frase di un economista un po’ trascurato, Giuseppe Toniolo, che dice una cosa
importante, che spiega dove stiamo sbagliando. Nel 1873, a Padova, diceva che l’energia del lavoro, la virtù dei
risparmi, e anche l’idea delle grandi imprese che eccedono la durata della vita dell’individuo – vale a dire tutto quello
che il nostro governo sta tentando di costruire in questo momento – dipendono dall’impulso di valori più alti – gli
affetti della famiglia, il desiderio di sollevarla, la socievolezza, i valori ideali - e non già dai calcoli di un gretto interesse
personale. E’ questo il punto che è stato perso. Noi ragioniamo sull’uomo e l’impresa a una dimensione: l’uomo è homo
oeconomicus, che fa di più e crea più valore se guadagna di più; l’impresa è l’organizzazione che massimizza il profitto.
Noi ci siamo schiacciati su questa dimensione e siamo vittime di questo riduzionismo culturale. Purtroppo parliamo
ancora di una ricerca di cinquanta anni fa. Tutta la ricerca di oggi va in una direzione completamente diversa. Come
tutti sapete, gli studi sulla felicità sono sempre più importanti, perché sono una spia di quello che ci siamo persi dietro.
“Il nostro popolo riconosce che il benessere umano non si raggiunge unicamente attraverso il materialismo ed
il lusso, ma grazie all’integrità, all’altruismo, al senso di responsabilità e della giustizia”. Questa frase è stata
pronunciata nel 1933 da Franklin Delano Roosevelt. Il problema è che a quel tempo non si poteva misurare, e qui
ritorna l’importanza della misurazione. Einstein diceva che purtroppo le cose che contano non si contano. E, finché non
si contano, non esistono. Fortunatamente oggi disponiamo di dati sulla felicità.
Noi non dobbiamo massimizzare la felicità, ma i dati sulla felicità sono una spia del fatto che nel PIL c’è
qualcosa che non funziona, perché felicità e PIL non vanno nella stessa direzione. Ricordiamo inoltre il famoso
paradosso di Easterlin, che forse conoscete, che si riferisce al divario tra PIL e felicità negli Stati Uniti nel secondo
dopoguerra. Ci tengo poi a citare un dato che trovo ancora più impressionante: quando sono stato all’OCSE, a Città del
Messico, il relatore che mi ha preceduto è stato il Presidente della Gallup, che ha chiesto il perché dovessimo occuparci
della felicità. La risposta è stata che prima della Primavera araba in Egitto e in Tunisia il PIL stava salendo, ma i
governanti non hanno notato che la soddisfazione di vita stava calando in maniera molto forte. Ecco perché quando la
felicità va in direzione opposta rispetto al PIL, questo è la spia che c’è qualcosa che non va e che dobbiamo allargare il
campo della nostra misurazione.
Leonardo Becchetti, Università Tor Vergata Roma - Introductory Speech - www.evmp.eu
Conferenza internazionale nell’ambito di The European Volunteer Measurement Project
“Il valore e il ruolo del volontariato: Presentazione del Manuale OIL sulla misurazione del lavoro
volontario”
Roma, Parlamentino del CNEL, 19 Aprile 2012
Il primo punto fondamentale è questo: sappiamo che la felicità dipende da numerosi fattori – vedi Roosevelt o
Kennedy nel suo famoso discorso sul PIL – ma atteniamoci per il momento alla dimensione dei riduzionisti, ovvero alla
mera misurazione di beni e servizi che sono importanti. Pur attenendoci a questa dimensione, continuiamo a
schiacciarci contro uno solo dei suoi tre pilastri di costruzione del valore, che è quello dei beni e dei servizi
contabilizzati, che figurano nel PIL e sono venduti sul mercato. Facciamo un esempio: una persona va da sola al
ristorante, mentre un’altra persona invita dieci amici a casa sua, ognuno dei quali porta da mangiare e si mangia
insieme. Chi ha prodotto più beni e servizi? Chi dei due è più ricco, il primo o il secondo? Il problema è contabile: nel
primo caso, la persona sola al ristorante, genera una contabilità precisa, perché è accertabile la cifra spesa, mentre nel
secondo caso il prodotto è senz’altro maggiore, poiché dieci persone hanno cucinato, cosa che però non rientra nella
definizione della contabilità. E’ dunque questo il primo punto fondamentale: quando guardiamo alla ricchezza delle
nazioni, i beni e i servizi non sono solo quelli contabilizzati dal PIL, ma compaiono almeno altri due pilastri. Si tratta dei
beni e dei servizi prodotti nella famiglia e dei beni e dei servizi prodotti dai volontari. Il nostro incontro di oggi serve
proprio a dare questa prima evidenza, questa prima dimostrazione.
Ma voglio andare oltre. Il vero problema è che questo riduzionismo, in realtà, riduce le nostre potenzialità
anche di dare risposte ai problemi che vogliamo risolvere, le nostre potenzialità di sviluppo, di crescita, di benessere e
di ben vivere. Tutta la ricerca economica più recente si è accorta di una cosa: ciò che conta nell’economia sono i
dilemmi sociali, ovvero i giochi di fiducia, i dilemmi del prigioniero. In parole povere, l’economia è fatta di persone che
non si conoscono molto bene, e che non hanno contratti completi per potersi garantire da qualunque abuso delle
controparti. Quindi, per costruire una relazione sociale o d’affari c’è bisogno della fiducia. La fiducia è l’elemento
fondamentale che crea il valore. Se c’è fiducia le relazioni corrono. C’è una bellissima frase di Hume, del 1700, che fa
l’esempio di due proprietari terrieri; se il primo oggi lavorasse per il secondo e domani il secondo lavorasse per il primo,
aiutandosi con il raccolto, le cose andrebbero nel modo migliore per entrambi; ma il secondo non crede che il primo
lavorerà per lui il giorno seguente, e dunque non è disposto a fare lo stesso il giorno prima. Il raccolto resta al suo posto
e marcisce. In questo modo Hume spiegava il dilemma della fiducia. Rispetto a questo, che rappresenta la situazione
base della vita economica (viviamo continuamente dilemmi della fiducia come questo), l’homo oeconomicus è quello
che si comporta nel modo peggiore, perché è quello che per la paralisi della fiducia non concede niente perché ha la
sicurezza di non ricevere niente in cambio. Mentre funziona molto di più l’uomo sociale, l’uomo pro-sociale.
Questa non è semplicemente una elucubrazione filosofica. Non lo è perché ad oggi 328 esperimenti sono stati
realizzati in tutto il mondo per misurare il grado di pro-socialità delle persone, per vedere se prevale l’homo
oeconomicus oppure no. Il risultato è che le persone non sono homo oeconomicus: ci sono state 20.800 osservazioni
per i giochi di fiducia per il dictator game, e 21.000 osservazioni per il trust game. Viene fuori che le persone che si
comportano nel modo in cui la vecchia economia – e noi siamo la nuova economia - raffigura l’uomo, rappresentano il
30% della popolazione. L’aspetto interessante è che la categoria in cui la percentuale di chi agisce in questo è modo è
più alta, è tra gli studenti delle business schools. Questo vuol dire che il modo in cui noi facciamo cultura economica
plasma le persone, crea quello che gli inglesi chiamano dismal outlook (lo sguardo avvilente, che avvilisce). Quindi, se
noi guardiamo le persone in questo modo, le persone diventeranno in quel modo, e saranno meno utili e produttive,
meno sociali, meno felici e anche socialmente dannose.
Quindi l’homo oeconomicus non soltanto non esiste, o è comunque minoritario, ma è anche socialmente
dannoso e le aziende si sono accorte di questo. Nielsen fornisce l’ultimo dato: il 46% dei cittadini è disposto a pagare di
più per un prodotto attento a valori etici e sociali e 1/3 delle aziende oramai ha un dipartimento di CSR (Corporate
Social Responsibility). Vale a dire che per le aziende il cause-related marketing è importantissimo, perché le aziende
hanno capito – come teorizzava Toniolo nell’Ottocento – che le risorse invisibili sono quelle più importanti, che le
motivazioni vere che spingono le persone a fare cose importanti sono quelle intrinseche, molto più potenti delle
motivazioni estrinseche. Il sogno delle aziende è mettere in moto le motivazioni intrinseche, ma non sempre ci
riescono, perché non possono essere attivate strumentalmente.
Come ricorda Freeman nel suo paper Working for Nothing “Il volontario è il sogno di ogni azienda.” - vale a
dire una persona che è talmente intrinsecamente motivata da essere disposta a lavorare per nulla, senza stipendio, che
Leonardo Becchetti, Università Tor Vergata Roma - Introductory Speech - www.evmp.eu
Conferenza internazionale nell’ambito di The European Volunteer Measurement Project
“Il valore e il ruolo del volontariato: Presentazione del Manuale OIL sulla misurazione del lavoro
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Roma, Parlamentino del CNEL, 19 Aprile 2012
rappresenta il top della produttività. Le grandi aziende a movente ideale cominciano a realizzare tutto questo.
Pensiamo al peer-to-peer social lending, pensiamo anche a Banca Etica, con un premio di circa € 10.000.000: la gente è
disposta a regalare 10.000.000 di euro, perché vuole che si faccia qualcosa.
Un altro esempio di impresa sociale che mi ha colpito molto è il SERMIG di Ernesto Olivero a Torino. Pensate ai
servizi sociali che eroga il SERMIG: migliaia di pasti, migliaia di posti letto; e a come raccoglie le sue risorse – 93% delle
risorse provengono dai cittadini – e quanto fa risparmiare allo Stato. Olivero è una persona che ha saputo attivare delle
motivazioni intrinseche, in modo simbolico, trasformando l’arsenale in luogo di pace. Questo per dare un’idea delle
potenzialità enormi che ci sono dietro le motivazioni intrinseche e l’economia del dono. Ma per realizzare tutto questo,
ripeto, è necessario misurare; e quindi misurare il valore del volontariato è un passo fondamentale.
Tutti i discorsi sulla happiness sono passati dall’ozioso – o comunque filosofico – dibattito, a un qualcosa di
concreto nel momento in cui si sono diffusi i questionari che in tutto il mondo, dall’Uzbekistan agli USA, ci hanno
consentito di misurare la felicità delle persone. E poi si sono affinate le tecniche e le determinanti della felicità.
Abbiamo visto, ad esempio, quanto la felicità dipenda dai beni relazionali, quanto dipenda dal valore dell’attività
volontaria che le persone fanno, in che modo felicità e reddito sono collegate. E questo è un passo davvero importante,
e da qui nasce il mio piacere nel partecipare oggi a questa iniziativa, che ha fin qui percorso un lungo cammino. Fino ad
oggi l’ILO ha pubblicato il suo Manuale, che è poi stato tradotto in molte lingue, francese, spagnolo, italiano,
montenegrino e portoghese, e c’è stata tutta una serie di incontri internazionali in vari Paesi (Ungheria, Estonia, Belgio,
Polonia e Germania).
Non voglio negare che, ovviamente, quando si misura qualcosa c’è sempre un’imperfezione, un’imprecisione.
Io lo so per primo essendo uno studioso di happiness in prima persona, con tutti i problemi di eterogeneità delle scale
di misura, di comparabilità; in questo caso sappiamo quali sono i problemi. In primo luogo è importante misurare le ore
di lavoro volontario, e su questo siamo tutti d’accordo, poiché le ore di lavoro volontario sono le ore del giacimento di
capitale sociale di cui dispone un Paese. Pensate inoltre quanto è importante sapere come è composto questo
giacimento di gratuità, e quindi per cosa (per quali specifiche attività) la gente è disposta a concedere il proprio tempo.
Pensate a quanto è importante misurare il capitale sociale in un Paese come l’Italia dove, come sappiamo storicamente
da Banfield, da Putnam in avanti, uno dei problemi principali è l’eterogeneità del capitale sociale; abbiamo regioni
ricchissime di capitale sociale e regioni molto povere.
Il problema sorge quando entriamo nella misurazione del valore, quando tentiamo di trasformare queste ore
in valore che, ripeto, è uno sforzo che dobbiamo fare per poter aprire un dibattito, per riuscire a dire quello che è stato
detto prima dal Presidente Marzano, ovvero che ciò che producono i volontari è equivalente al prodotto di interi settori
produttivi dell’economia. Sappiamo che esistono due modi: il costo-opportunità e il costo di sostituzione. Il costoopportunità è un modo ancora non soddisfacente, perché un’ora di volontariato di un manager vale più di un’ora di
volontariato di un’infermiera o di una persona che guadagna meno del manager. Ci sono delle difficoltà, ma è
importante avere delle basi, perché partendo da una prima misura si comincia a scrivere, a fare ricerche, a fare stime,
parte il dibattito ed i metodi si affinano.
Nella happiness siamo arrivati adesso a costruire delle vignette molto sofisticate per confrontare e riuscire a
capire se il “molto felice” del danese equivale al “molto felice” dell’italiano. Quindi c’è tutta una serie di tecniche
econometriche molto sofisticate che partono dal mostrare al danese e all’italiano la stessa situazione e far giudicare
quanto quella persona è felice o no, ed in base a quello si accordano le scale di felicità. Quindi il dibattito si fa via via più
affascinante, ma l’importante è partire da una misura.
Concludo il mio intervento tornando al punto di inizio: Einstein diceva un tempo che le cose che contano non
si possono contare; oggi per fortuna tutto questo non è più vero. Ricordo anche la famosa battuta dell’economista sulla
persona che perde la chiave in una strada buia, e c’è solo un piccolo lampione che illumina una piccola zona e lui va a
cercare la chiave lì sotto, e a chi gli chiede perché va a cercare proprio in quel posto, risponde che quello è l’unico
punto dove c’è la luce. Questo vuol dire che se non disponiamo di altre luci, ci perdiamo altre zone dell’economia e
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“Il valore e il ruolo del volontariato: Presentazione del Manuale OIL sulla misurazione del lavoro
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della società dove possiamo andare a studiare, a misurare, a vedere se troviamo quella chiave perduta del benessere,
del vivere. E’ quindi molto importante accendere altre luci. Quindi come studioso, economista, econometrico, sono
molto contento che questo stia iniziando e, ripeto, è un primo passo importante per tutto quello che ho cercato di
spiegarvi. Grazie.
Leonardo Becchetti, Università Tor Vergata Roma - Introductory Speech - www.evmp.eu