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La Pubblica Amministrazione tra teorie organizzative e apprendimento organizzativo
Il processo di crisi e di attacco (passato e recente) alla Pubblica Amministrazione italiana, già in atto
da alcuni anni, ha profondamente trasformato l’assetto organizzativo del Paese. Queste
trasformazioni stanno interessando settori nevralgici del sistema della Pubblica Amministrazione
che ha nel corso degli anni modificato il ruolo e i poteri alle Regioni ed alle Autonomie Locali, ha
imposto nuovi vincoli ai Ministeri, ha stimolato incertezza nella definizione del ruolo dei dirigenti
pubblici e ha consentito un processo di arresto alla contrattualizzazione del rapporto di lavoro
(D’Antona, 1980). Sicuramente la rapidità del cambiamento impressa dal legislatore al sistema
normativo è dettata dall’esigenza di adeguare il Paese alla crisi economica, che ha avuto una lenta
e sofferta attuazione a causa delle difficoltà incontrate dal “sistema Paese” nella ricerca di nuovi
equilibri.
Questo contesto di profondi cambiamenti, che vengono dal sistema politico sociale, induce
automaticamente la necessità di disporre di “funzionari pubblici” altamente qualificati e di nuove
competenze capaci di supportare un’azione per la realizzazione del difficile compito di rilanciare
quello che era stato lo sforzo innovatore della Pubblica Amministrazione negli anni ’90 (Braga,
2006).
La formazione, per i diversi attori che operano nell’alveo della Pubblica Amministrazione, deve avere
un ruolo altamente strategico perché solo attraverso essa sarà possibile consentire la valorizzazione
del personale dipendente, invertendo il passaggio da una concezione che vedeva la risorsa umana
come un costo da sopportare, ed a volte improduttivo, a una concezione che considera la risorsa
umana come un “asset”, portatore di professionalità e competenza innovativa (Meghnagi, Braga,
Cevoli, 2005).
Grande importanza deve essere attribuita alla formazione degli “attori” del cambiamento, nel
migliorare le loro conoscenze e competenze (non solo tecniche, ma anche culturali e relazionali) in
una stretta connessione con la specifica cultura amministrativa del luogo o dell’istituzione in cui gli
stessi sono inseriti. Tra gli “attori” di questo cambiamento un ruolo importante devono svolgere
anche i sindacati confederali del Pubblico Impiego (Braga, 2015). In ragione di ciò anche per il
sindacato è altrettanto indispensabile garantire un miglioramento delle conoscenze e delle
competenze dei suoi quadri.
A tutti gli attori che operano nel Pubblico Impiego. dunque, la scommessa di saper affrontare le
sfide della competizione economica e culturale nella quale sono ormai inseriti. Per affrontare questa
sfida, la formazione delle risorse umane gioca, naturalmente, un ruolo fondamentale e non meno
importante rispetto a quello esercitato dalla disponibilità di adeguate risorse economiche e
finanziarie (Braga, 2008).
Servono percorsi di apprendimento organizzativo (Quaglino, 1999) in grado di far crescere una
cultura interna alimentata attraverso la pratica sul campo e con l’acquisizione di categorie di analisi
e di interpretazione nuove e aggiuntive a quelle già possedute (Braga, Carrieri, 2007).
Le competenze, sociali e professionali possedute sono l’esito di percorsi differenziati da persona a
persona e connesse a processi di apprendimento che si realizzano in sedi diverse, dall’elaborazione
alla realizzazione, dal confronto alla condivisione, dalla negoziazione alla decisione di atti
amministrativi (Meghnagi, 2012).
Cresce una domanda, differenziata ma inequivocabile, di competenze che, a fronte di nuovi
problemi, mostra la necessità di ridefinire il lavoro pubblico e i saperi necessari a svolgerlo. Da ciò
la necessità anche per l’Università di avviare offerte formative tenendo conto del fatto che le
competenze, in qualsiasi contesto maturate, nascono dall’esperienza e la formazione deve
consolidare le capacità di elaborazione di tale esperienza, arricchendola di significati e di modalità
di decodifica della propria azione e della propria realtà (Susi, 1994).
Più in generale affrontare lo studio delle competenze dei dipendenti del pubblico impiego ha
bisogno di una visione più ampia in grado di riconoscere gli apprendimenti acquisiti anche al di fuori
dei contesti formali di formazione, ma facendo ricorso a meccanismi capaci di classificare e
descrivere le esperienze maturate sul campo che attestano abilità e saperi comunque acquisiti e
coerenti con gli obiettivi di innovazione della Pubblica Amministrazione.
Le identità individuali che si portano dietro come persone e come dipendenti pubblici devono
combinarsi con un tentativo di formazione e strutturazione di competenze professionali. Per
costruire questa convinzione sono centrali le competenze intese come spazi che combinano
razionalizzazione e soggettività (Viteritti, 2005) e sono prese in esame innanzitutto attraverso l'idea
di ruolo professionale.
Per tutto ciò l’azione formativa che l’Università può mettere in campo nel contesto della Pubblica
Amministrazione deve risultare originale e tale da consentire al dipendente pubblico di riconoscersi
in base a un sapere che è sociale, è professionale, è tecnico ed è moralmente connotato (Meghnagi,
2012). In altre parole l’apprendimento che deve caratterizzare le offerte formative universitarie
presuppone una natura sociale specifica (formare persone che nel loro campo d’azione devono
produrre “beni pubblici” [Braga, Carrieri, 2001]) e un processo attraverso il quale i pubblici
dipendenti
devono
inserirsi
gradualmente
nella
cultura
organizzativa
della
Pubblica
Amministrazione (Schein, 1985)1; in questo modo la loro competenza prima è sociale e poi diventa
competenza individuale (Vygotskij ( [1934], 2002). Le capacità d’azione dei pubblici dipendenti
prima devono formarsi nel collettivo, nella forma delle diverse relazioni che le organizzazioni
pubbliche offrono, e successivamente farle divenire abilità individuali.
Il libro si propone, tra l’altro, di chiarire, a partire dalla esperienza realizzata con l’insegnamento nel
Corso di Laurea Magistrale in Scienze delle Amministrazioni della Facoltà di Scienze Politiche
dell’Università di Teramo, cosa sia una formazione per coloro che vogliono occuparsi di Pubblica
Amministrazione, quando e a quali condizioni essa sussista e quando sia uno strumento di
emancipazione culturale. Lo fa tentando di dimostrare la complessità della realtà attuale (ma anche
passata) della Pubblica Amministrazione, dell’evoluzione del rapporto di pubblico impiego come
oggetto di norme regolative e di accordi sindacali, di azioni conseguenti da parte delle istituzioni e
delle parti sociali, di interventi diversi in ragione degli utenti, delle competenze necessarie degli
operatori pubblici dei diversi comparti del pubblico impiego.
Una parte dell’analisi che si propone prende atto delle profonde e spesso contrastanti modifiche
attuate in sede istituzionale, in particolare con il Decreto Legislativo n. 150 del 27 ottobre 2009 (c.d.
Riforma Brunetta), per ciò che attiene a un funzionamento della Pubblica Amministrazione teso a
evitare che i disegni ambiziosi di un reale protagonismo delle strutture pubbliche rimangano tali
senza implicazioni pratiche.
Non si elude l’inquadramento teorico dei problemi, al contrario lo si assume per fissare linee di
indirizzo pratico e stabilire alcuni principi essenziali affinché si possa seriamente parlare di riforma
condivisa della macchina amministrativa pubblica e dei conseguenti rapporti di lavoro.
C’è da considerare che le organizzazioni quando affrontano un cambiamento inaspettato o non
gradito devono attrezzarsi a “governare l’inatteso”, creando condizioni di piena consapevolezza
La cultura organizzativa può essere definita come “insieme coerente di assunti fondamentali che un dato gruppo ha
inventato, scoperto o sviluppato, imparando ad affrontare i suoi problemi di adattamento esterno e integrazione
interna, e che hanno funzionato abbastanza bene da poter essere considerati validi, e perciò tali da essere insegnati ai
nuovi membri, come il modo corretto di percepire, pensare e sentire in relazione a quei problemi” (Schein, 1985, pag.
9, riportato in S. Zan, 1988, pag. 47). Il concetto di socializzazione alla cultura organizzativa appare fortemente legato
al concetto di apprendimento e l’azione degli individui vanno visti fondamentalmente come un processo in cui essi
imparano costantemente a servirsi degli strumenti materiali e culturali di cui dispongono per risolvere a caldo i
problemi che si presentano loro, in funzione dei vincoli e delle opportunità della situazione (Crozier Friedberg, (1977)
[1978] ). La cultura va pertanto considerata come una capacità relazionale, che si ripercuote nelle scelte degli attori sia
per la possibilità di scoprire le opportunità, sia per la capacità di assumere e sostenere i rischi e le difficoltà che ne
conseguono, ponendo dei limiti alle concrete capacità di apprendimento (Daher, 2002).
1
collettiva (mindfulness2) che produce particolari abilità nell’individuare e correggere gli errori prima
che la situazione peggiori ed esploda sotto forma di crisi (Weick, Sutcliffe, 2010). Le strutture
pubbliche in Italia devono consolidare la consapevolezza ad attrezzarsi ad opporsi alle
semplificazioni eccessive contenute nelle diverse proposte di Riforma della Pubblica
Amministrazione. Devono reagire in modo flessibile anziché rigido in una prospettiva orientata alla
ricerca di soluzioni, consentendo di sviluppare casi di buone pratiche orientate alla piena
consapevolezza dei processi di riforma di cui hanno bisogna le Pubbliche Amministrazioni.
Nonostante l’assioma che le maggiori risorse per le strutture pubbliche non possono che essere le
persone che si impegnano e che lavorano è sempre delicato sul piano terminologico poter assumere
il concetto di sviluppo delle risorse umane nella Pubblica Amministrazione. La difficoltà è dettata
dalla natura del lavoro pubblico che trae origine da un impegno che si connota originariamente
come opzione finalizzata ad un ambito sociale (prendersi cura e risolvere i problemi dei cittadini
utenti) e nel tempo si evolve in forme che richiedono necessariamente prestazioni specialistiche
(Braga, Carrieri, 2001). Il dilemma che si propone è se deve prendere piede la dimensione
volontaristica, rappresentata dal terzo settore, o se dare maggiore spazio a forme (inedite) di
sperimentazione di buone esperienze di policy che tengano nel debito conto di tutti gli specialismi
che necessitano per delle buone performance di pubblici dipendenti (Braga a cura di, 1999). La
risposta a questo dilemma deve andare oltre questa ambivalenza e agevolare pratiche organizzative
in sintonia con i profondi cambiamenti che attraversano il mondo pubblico. La politica di gestione
delle risorse umane di tutti coloro che operano nel pubblico deve convivere con il paradosso di
assumere entrambe le dimensioni del dilemma: non può assolutamente fare a meno di quello che
è il modello della cooptazione per la scelta dei volontari che aiutano i servizi pubblici,
contemporaneamente, assecondare forme aggiuntive di selezione che tengano anche conto di
particolari propensioni specialistiche (implicite alle caratteristiche delle persone o indotte con
particolari investimenti).
Per dare una coerenza a questo paradosso organizzativo (Zan, 1994) e farlo convivere insieme ad
altri paradossi organizzativi che caratterizzano le organizzazioni pubbliche è inevitabile far maturare
strategie di politica del personale capaci di disporre e utilizzare correttamente un’articolata tastiera
di strumenti, a partire da investimenti massicci nelle attività formative considerati come una leva
concreta dell’apprendimento organizzativo< anche per evitare di relegarla ad un’attività sporadica,
2 Si tratta di un concetto che affonda le sue radici nella cultura orientale, in particolare nel buddhismo e nello yoga,
e che è orientato all’acquisizione della consapevolezza di sé nel momento presente attraverso le pratiche che
intervengono sul normale flusso di coscienza e favoriscono la prese di contatto con l’esperienza diretta.
ma farla divenire un’attività continua nel tempo, che accompagna la crescita della professionalità
individuale, collettiva e organizzativa, in grado di sviluppare nuove conoscenze e capacità che
producano quelle competenze organizzative che consentano alle organizzazioni non solo di
sopravvivere ma di esercitare azioni idonee per influenzare il proprio contesto di riferimento.
Questa impostazione della formazione tende ad emergere laddove la formazione tradizionale
(basata su corsi e seminari d’aula tradizionali) ha già avuto un buon sviluppo e, rispetto ad essa, si
aggiunge, talvolta includendola e modificandola (Bruscaglioni, 2012). Una funzione della formazione
organizzata, dunque, come supporto al processo di learning organization e con la finalità di colmare
le competenze mancanti (tecniche, gestionali, manageriali) portando know how dall’esterno. Con
questo modello formativo l’ambiente è ”on the job” (in atto) e si interviene sul processo di
apprendimento in atto per ottimizzarlo e accelerarlo, ciò che sarebbe comunque avvenuto anche
senza formazione. Per tale motivo il tempo di formazione deve essere permanente e continuo nella
vita organizzativa e deve tenere conto della personalità del partecipante all’intervento formativo
più che ai ruoli e alle funzioni. Il massimo dell’attenzione deve essere concentrato sull’individuo
nelle sue interrelazioni con l’ambiente di lavoro. Il luogo della formazione come laboratorio in cui
l’attore fondamentale del processo formativo è l’adulto in quanto portatore di teorie implicite o
esplicite, in uso o professate (Alessandrini, 2005), con un’attitudine alla sperimentazione continua,
in quanto l’apprendimento collettivo deve essere supportato su basi di continuità, come stato
permanente delle organizzazioni. L’apprendere in gruppo diviene una caratteristica centrale, in
quanto esso facilita la messa in comune dell’intelligenza e dello scambio tra gli apprendimenti
individuali.
Con tale modalità di learning organization si possono proporre alcune attività formative che
potrebbero essere sperimentate quali: organizzare o potenziare sistemi informativi di
apprendimento; progettare piccole modifiche dei suddetti sistemi e risorse, per migliorarne gli
effetti di apprendimento continuo mentre li si usa nella normale attività lavorativa; assistere gruppi
di lavoro reali (on the job); organizzare periodi speciali di intensificazione dell’azione formativa sul
campo; fare formazione ai diffusori, cioè a piccoli gruppi di persone che per cerchi concentrici
espansivi fanno la formazione sul campo ad altre persone. La “formazione-azione (on the job)” è
una caratteristica peculiare che considera l’apprendimento, individuale e collettivo, come
socializzazione di conoscenze tacite maturate nel divenire dell’attività lavorativa (Nonaka, Takeuchi,
1997).
Con l’apprendimento organizzativo si richiede alle organizzazioni strutture che prevedono la
valorizzazione di gruppi di lavoro partecipativi, con conseguenti scelte organizzative concepite come
laboratori per la produzione di conoscenza e non come meccanismi per controllare.
Per le organizzazioni orientate all’apprendimento l’imperativo categorico è quello di valorizzare
l’esperienza in modo che possano crearsi sistemi capaci di modificarsi proprio sulla scorta di quanto
precedentemente appreso. Con questa impostazione non può essere più valida l’impostazione che
rimandava al meccanismo di coordinamento, tradizionalmente imperniato sul controllo gerarchico,
mentre è implicito un processo innovativo che mette in discussione alcuni assunti e alcuni
comportamenti a favore di una varietà di capacità di apprendimento.
Il concetto di autorità non deve essere più legato alla posizione ma deve coniugarsi con
l’autorevolezza; il potere deve trovare il suo riconoscimento nell’effettivo possesso di conoscenze,
così come le informazioni e le conoscenze se volontariamente distribuite e facilmente accessibili
possono divenire risorse abilitanti la capacità e l’iniziativa (Braga, 2015).
Con il modello di derivazione taylorista si assumeva l’esistenza di una “conoscenza esperta”
posseduta da pochi; mentre in questa fase emerge la necessità di una conoscenza che ritiene
necessario utilizzare quello che gli altri sanno attraverso uno scambio sistematico e collaborativo.
Queste modalità, pur generando innovazione, facilitano creatività e novità, la soluzione istantanea
e seriale dei problemi, attraverso un processo dinamico che agevola una partecipazione più larga
degli attori presenti nell’arena organizzativa. In questo modo si supera la tradizionale linea di
demarcazione tra esperti e “apprenditori” e si permette un clima di condivisione tale da integrare e
valorizzare le differenze dei singoli, agevolando un ambiente fertile alla creazione di conoscenza che
si esprime con la partecipazione alle attività di una comunità sociale (gruppo di lavoro, altro) o
comunità di pratica3 (Wenger, 1998). Lo strumento analitico che ci offre Wenger ci incoraggia ad
interpretare quali debbano o possano essere eventuali nuove forme organizzative che servono alle
strutture pubbliche che vengono accusate di non saper essere protagoniste rispetto alla portata dei
cambiamenti in atto. Il punto di partenza non può che essere un’efficace ri-progettazione di
Wenger usò per la prima volta il termine comunità di pratica riferendosi ad una tendenza osservata ripetutamente in
alcune imprese in cui operatori dotati di status e di professionalità diverse costituivano reti di relazioni informali
attraverso incontri e contatti nei quali condividevano e sperimentavano innovazioni tecnologiche ed organizzative.
L’incontro diventava dunque un momento di scambio di rielaborazione delle conoscenze tacite ed esplicite acquisite da
ciascuno nel corso della propria esperienza, e dal confronto gruppale emergevano soluzioni ai problemi comuni.
L’autore parla di “comunità” perché le persone si incontrano spontaneamente e i rapporti tra i membri della collettività
sono spesso tesi verso l’amicizia e regolati da norme informali, sorretti da un’animata partecipazione al confronto spinti
dalla motivazione a trovare risposte insieme a problemi comuni. Poiché quindi la ragione dell’incontro non è attribuibile
ad interessi e saperi codificati, ma nasce dal sapere maturato nel corso.
3
un’organizzazione orientata a valorizzare le “pratiche”, consolidate nelle comunità sociali
rappresentate dalle diverse strutture pubbliche, e l’identità definita sulla scorta del forte nesso con
la mission di riforma della Pubblica Amministrazione.
La progettazione dell’apprendimento, in questo modo, richiede che la conoscenza da individuale
diventi sociale, in un percorso in cui sono proprio le interazioni fra i diversi componenti a tingerla di
nuovo: dalla conoscenza stabile e fruibile in ogni momento custodita in un magazzino si passa ad
una forma di conoscenza assimilabile all’acqua che scorre.
Le competenze sono sempre più caratterizzate da livelli complessi di capacità di organizzazione del
sapere alla luce delle profonde trasformazioni che costantemente interessano le strutture pubbliche
e le normative che le disciplinano. Dunque, agiscono in contesti d'azione che necessitano di una
contestualizzazione dell'insieme per una maggiore efficacia delle loro azioni (Alessandrini, 2007). La
flessibilità è tanto più elevata quanto maggiori sono i livelli del sapere professionale, sociale, pratico
del mondo esteso dei pubblici dipendenti. Con questi presupposti la competenza non può che essere
un’abilità fondata sulla conoscenza e su un sapere gestito e governabile in più ambiti ed è evidente
che non basta il sapere perché sussista la competenza, che diviene fortemente connotata sul piano
socio culturale e inequivocabilmente contestualizzata, poiché il contesto ne determina l'efficacia,
ne orienta il manifestarsi, ne indirizza l'operatività (Meghnagi, 2005).
Per queste ragioni le strutture pubbliche hanno bisogno di comprendere esattamente quali
conoscenze possono fornire loro un vantaggio potenziarle nelle azioni concrete da mettere in
pratica e successivamente diffonderle nell'organizzazione. Attuare forme di comunità di pratica
rappresenta un modo pratico per gestire le risorse conoscitive con la stessa sistematicità con cui le
organizzazioni gestiscono altre risorse (Wenger, McDermott, Snyder, 2007).
L’interazione, propria dei contesti legati alle più classiche attività di tutela dei cittadini, e che è
costituita da attività di dialogo (ed, eventualmente, dalla contrapposizione), è determinante
nell'acquisizione delle competenze.
Ai fini dell’analisi che si propone quello che diviene fondamentale è avere la certezza di presidiare
gli elementi propri di quello sviluppo potenziale connesso con le forme con cui le esperienze
pregresse sono venute strutturandosi e organizzandosi attraverso le numerose decisioni
amministrative delle strutture pubbliche. In questa prospettiva deve considerarsi modificata la
stessa formazione per i pubblici dipendenti impostata sulla regolarità sequenziale negli
apprendimenti. Un approccio tradizionale della formazione, infatti, considera il processo
sequenziale più strettamente legato all’apprendimento individuale, del quale è possibile individuare
un inizio e una fine in quanto risultato di uno specifico insegnamento che ha luogo separatamente
dalla pratica (Wenger, 2006). Al contrario bisogna tenere nel debito conto degli specifici contesti
d'azione in cui operano i dipendenti del pubblico impiego, delle conseguenti forme di interazione
nell’arena particolare delle relazioni sociali specifiche delle Pubbliche Amministrazioni, degli
elementi di socializzazione presenti nel rapporto con cittadini e, soprattutto, della crescita dovuta
all'attivazione di quella che è stata definita "l’area potenziale di sviluppo” (Vygotskij, [1990] 2007) a
cui è fortemente legata la crescita della competenza stessa. L’acquisizione delle competenze
acquisite nel contesto delle organizzazioni pubbliche, possono essere considerate come una
partecipazione a "comunità di pratiche" nella quale i “partecipanti” hanno un progressivo accesso a
parti differenti dell’attività e procedono nel corso del tempo verso una piena partecipazione ai
compiti centrali (un protagonismo nei processi di riforma della Pubblica Amministrazione), con
un'abbondante interazione orizzontale tra i partecipanti stessi (ovvero un protagonismo di tipo
bottom-up nelle diverse policy che, di volta in volta, si determinano). Tale impostazione rimanda ad
una concezione decentrata dell’apprendimento basato sull’esperienza, in cui l’acquisizione delle
pratiche è parallela a quella dell’identità sociale e alla padronanza delle caratteristiche organizzative
e relazionali della comunità più ampia dei dipendenti pubblici. L’apprendimento si considera
realizzato solo se è il frutto di una partecipazione attiva alle pratiche di più comunità sociali (delle
strutture pubbliche, delle relazioni sindacali del pubblico impiego, del mondo del terzo settore,
dell’associazionismo di ordini professionali, delle forme di partecipazione attiva dell’utenza) di cui
fanno necessariamente parte i dipendenti pubblici (più o meno consapevolmente e a diversi livelli
di coinvolgimento) e del processo di identificazione/appartenenza a tali comunità.
L’interazione con tanti ambienti esterni consente di processare informazioni e conoscenze, che
diventano oggetti di apprendimento secondo diverse traiettorie. Permeabilità e plasticità sono le
caratteristiche che denotano l'interscambio fra organizzazioni e ambiente, quest'ultimo concepito
come sorgente di informazioni. L’interdipendenza fra organizzazione e ambiente è quindi la nozione
di base per comprendere i processi di apprendimento organizzativo nei quali ogni individuo deve
essere visto come «attore cognitivo»: egli elabora in prima persona le conoscenze che entrano nella
memoria organizzativa e nelle relative mappe di rappresentazione, riproducendo su scala sociale
quanto avviene all'interno del proprio sistema, che vive in relazione con l'ambiente secondo un
accoppiamento strutturale. L'apprendimento organizzativo si determina quando i membri
dell'organizzazione agiscono come attori di apprendimento per l'organizzazione stessa, quando cioè
informazioni, esperienze e scoperte di ciascun individuo diventano patrimonio comune, fissandosi
nella memoria dell'organizzazione, codificandosi in norme e valori, metafore e mappe mentali
condivise. Se ciò non avviene, anche a fronte di un avvenuto apprendimento individuale, non può
darsi apprendimento organizzativo (Lazzara, 2001). Ma come fa un'organizzazione a tenersi insieme,
se essa dipende strutturalmente dall'apprendimento dei singoli componenti, e dalla loro relazione
con i rispettivi ambienti? È necessario porre l'accento sul concetto di «cultura organizzativa», ovvero
quel complesso dei valori simbolici costruiti attraverso esperienze in comune, codici condivisi, miti
e storie sulle origini dell'organizzazione, a volte vere e proprie saghe. Si tratta di fattori intangibili,
ma che generano il fenomeno dell'appartenenza, il riconoscimento nella comunità, i rituali
dell'identità collettiva. Per cultura, in questo contesto, si intende l'insieme degli assunti di base, degli
archetipi generali collettivi, dei campi simbolici, delle mappe cognitive comuni. La «cultura
organizzativa» diviene anche un attivatore di significati per l'organizzazione, nel senso che crea un
tessuto simbolico, definendo le basi su cui questo si può strutturare, cioè tracciando i confini di un
ambiente di apprendimento collettivo (Strati, 2000).
L’identità è vista come un progressivo lavoro di condivisione e produzione di senso e come
appartenenza ad una comunità attraverso tre modalità: il coinvolgimento e l’impegno attivo nei
processi di negoziazione dei significati; la costruzione di un’immagine attraverso l’estrapolazione
dell’esperienza; il coordinamento e l’adeguamento reciproco delle prospettive, delle azioni e delle
interpretazioni per il raggiungimento di obiettivi più generali. È vista come un percorso di
apprendimento nel senso che siamo ciò che sappiamo e abbiamo imparato nel tempo. Infine, è vista
come appartenenza o multi appartenenza a diversi contesti sociali ovvero come forma di
partecipazione che determina, fra l'altro, la costruzione di identità professionali e personali (Lave e
Wenger, 1991).
Ogni persona affronta dei problemi e tenta di risolverli ogni qual volta si proponga di raggiungere
un obiettivo e cerchi di individuare le procedure e i mezzi per farlo. In questo quadro, si colloca una
distinzione (Frederiksen, 1984) tra problemi: a) ben definiti; b) ben strutturati; c) mal definiti. Sono
"ben definiti" i problemi chiaramente formulati e formulabili. Si tratta di problemi che hanno una
soluzione univoca, chiaramente delineata sin dalla fase iniziale di esame del problema stesso.
Sono “ben strutturati” quei problemi che richiedono il pensiero produttivo per i quali, la persona
non dispone di un algoritmo, che deve quindi produrre, ma rispetto ai quali esiste un'unica
soluzione, come avviene, per esempio, in alcuni giochi. La distinzione, tra i problemi del primo e del
secondo tipo, non è sempre netta, né facile da assumere. Sono “mal definiti” quei problemi in cui
non tutte le variabili in campo possono essere date in forma univoca, in cui l'informazione
disponibile è incompleta o, comunque, non può essere data su tutti gli aspetti; rispetto ai quali non
è prevedibile una soluzione unica né è possibile definire procedure per la migliore soluzione, né
sono possibili criteri oggettivi per valutare la correttezza della soluzione; su cui non esiste un criterio
unico e preciso di soluzione né, a volte, si può affermare che lo stesso problema sia “risolto”. I
problemi economici, sociali, sanitari, di progettazione o di intervento, hanno, per esempio, questa
costante. La differenza tra problemi diversi non è sempre netta e problemi analoghi possono afferire
a una categoria o a un'altra se si relativizzano considerando le caratteristiche del potenziale
solutore. Le informazioni ricavate dall’ambiente rispetto al compito vengono codificate per essere
interpretate in base alle strutture di conoscenza di cui la persona dispone, per l'attivazione di
conoscenze e strategie. La rappresentazione stessa del problema risulta sempre legata alle
differenze individuali nello stile cognitivo, alle conoscenze possedute, alle esperienze precedenti, di
carattere generale o relative a problemi analoghi a quello da affrontare, allo specifico ambiente del
compito (Meghnagi, 2005).
Le strutture pubbliche rappresentano delle collettività di persone e, come tali, devono essere capaci
di imparare in modo espansivo, guardando oltre l’attualità. È del tutto evidente che obiettivi
ambiziosi non sono raggiungibili attraverso la mera progettazione dell’apprendimento. Sono
necessarie alcune condizioni di fondo per la promozione concreta dell’apprendimento. Le
organizzazioni che mirano allo sviluppo e alla creazione di valore, attraverso la formazione,
dovrebbero prioritariamente favorire l’allineamento tra la struttura formale dell’organizzazione e le
caratteristiche innovative della pratica. Conseguentemente valorizzare le opportunità di
apprendimento offerte dalla pratica piuttosto che quelle offerte dalla formazione formale.
La capacità progettuale, nei processi di apprendimento, deve essere in grado di prevedere azioni
efficaci valide per il futuro, qualora le funzioni pratiche attive nel presente mostrino sintomi di crisi.
Solo in questo modo si può creare un ambiente “creativogenico” (Santucci, 2008) che rende la
relazione tra il contesto di critica, il contesto di scoperta, e il contesto di applicazione pratica sociale
il nuovo oggetto espanso di apprendimento, attraverso la connessione tra il contesto tradizionale
dello studio, il contesto di scoperta e il contesto di applicazione pratica (Engeström & Sannino,
2010). Per queste ragioni lo studio del contesto di lavoro del dipendente pubblico che opera nei
diversi ambienti delle Pubbliche Amministrazioni assume un’importanza strategica, non
trascurando il dato che tale contesto è caratterizzato da situazioni nelle quali le persone sono a
contatto diretto con i propri strumenti professionali e mettono in campo il loro sapere direttamente
in relaziona ad altri, in funzione e con l'uso delle macchine disponibili e necessarie.
Chiarito il contesto nel quale avviene l’apprendimento sono fondamentali alcuni quesiti per rendere
efficace la progettazione: chi sono i soggetti dell’apprendimento? Perché apprendono? Cosa li
spinge ad apprendere? Cosa apprendono? Come apprendono?
Le risposte a questi quesiti rimandano ai concetti di apprendimento verticale ed orizzontale.
L’apprendimento di tipo verticale rimanda a processi verticali, miranti ad elevare le persone verso
l’alto, ai più alti livelli di competenza. Questo percorso di apprendimento da solo non è sufficiente
e richiede di non contrapporre, ma affiancare e rendere complementare un apprendimento di tipo
orizzontale che consideri tutte le parti in causa, che in una prospettiva complementare consideri
anche uno sviluppo orizzontale o obliquo. Un processo di consolidamento dei concetti da
apprendere come un incontro creativo fra concetti quotidiani di crescita verso l’alto e concetti
scientifici di crescita verso il basso (Vygotsky, [1990], 2007).
Sono necessari sistemi di attività (sia organizzative che formative) che, mediante azioni tese a
coinvolgere, coordinare ed organizzare tutti i livelli e i diversi attori, perseguano obiettivi comuni.
Lo studio dei processi suggerisce, inoltre, che sussistono, rispetto all'abilità nell'esecuzione di un
compito, tre limiti, di natura diversa: la capacità limitata, difficilmente modificabile, il non saper
usare la strategia adeguata e la scarsa efficienza delle strategie usate, superabili mediante la
formazione.
Far riflettere sui cambiamenti accelerati della società, rifiutando l’idea che la modernizzazione
economica e tecnica possa essere raggiunta solo al prezzo della penalizzazione dei meno protetti
(Schwartz, [1994] 1995), che esistono delle possibilità, pur di fronte ai problemi enormi presenti
nelle strutture pubbliche, di far convivere le aspettative dei cittadini con i diritti di chi lavora in
ambienti pubblici. Che è possibile evitare l’esclusione dei lavoratori pubblici, che troppo spesso si
accompagna alle esigenze di modernizzazione delle Pubbliche Amministrazioni. Che è necessaria
una riconversione dei lavoratori pubblici verso quei settori che oggi sono in grado di dare maggiori
risposte rispetto all’esigenza di modernizzazione del Paese.
Partendo dal rifiuto di ogni forma di pregiudizio verso i dipendenti pubblici (i c.d. “fannulloni”) si
possono trovare delle soluzioni (in ogni singolo contesto certamente parziali, circoscritte e relative)
indicative del fatto che si può agire, aprire altre prospettive e proporre nuove soluzioni ai problemi
presenti nelle strutture organizzative pubbliche: la capacità di essere produttive, la presenza di
forme di organizzazione del lavoro flessibili e, perfino, la capacità di dare risposte al dramma della
disoccupazione. È evidente che per essere in grado di muoversi sulla praticabilità di queste ipotesi
è necessario assumere un diverso punto di vista rispetto al potenziale umano presente negli enti
pubblici e se la presenza di organici eccessivi non sia dovuta, in parte, ad approcci tecnici che
trascurano le risorse e le ricchezze propriamente umane. È possibile riconciliare la presenza dei
dipendenti pubblici con il sapere che necessita per i cambiamenti, impedendo che si instauri nelle
persone che rischiano di essere escluse dal sistema pubblico una rassegnazione fatalista e che esse
siano private della possibilità di accesso ai processi di cambiamento e, conseguentemente, alla
formazione.
Bisogna partire dal presupposto che un’azione formativa può contribuire utilmente a rispondere a
queste sfide, ma bisogna farlo non proponendo “un corso tradizionale”, evitando un mero
aggiornamento didattico, di per sé insufficiente a modificare un dato intrinseco alla formazione
tipica dell’educazione degli adulti: non utilizzare al meglio le opportunità formative e culturali che
offre il sistema. In poche parole in qualsiasi ambito formativo, chi meno ha ricevuto meno chiede.
Un nuovo bisogno formativo e un desiderio di apprendere non possono sorgere se non a condizione
di una riappropriazione dei fini dell’apprendimento: si impara da adulti se si determinano gli
obiettivi di un progetto, ricercando dopo le conoscenze necessarie per raggiungerli (Meghnagi,
2005).
Il corso di Laurea Magistrale in Scienze delle Amministrazioni vuole creare queste condizioni,
ponendosi in una prospettiva di educazione permanente, con l’intendimento di proporre un
cambiamento positivo del tutto coerente con la portata delle sfide: offrire all’attuale gruppo
dirigente della Pubblica Amministrazione (e a quello futuro) le stesse opportunità (quali che siano
le attività lavorative, i livelli di istruzione, il sesso, ecc.); una formazione aperta ai problemi
dell’attività quotidiana, per poter consentire a tutti lo sviluppo delle proprie potenzialità; rendere
possibile la partecipazione alla progettazione e valutazione delle attività formative a tutti gli attori
sociali del territorio abruzzese e teramano con l’intento di migliorare l’offerta formativa.
Offrire un itinerario di acquisizioni progressive di saperi e di competenze che consenta un
conseguimento effettivo di apprendimento, anche grazie a un contesto in grado di dare concretezza
fattuale ai principi di partecipazione ed eguagliamento delle opportunità (non sempre conciliabile
con le agende degli impegni dei dipendenti pubblici).
Con il percorso che il Corso di Laurea in Scienze delle Amministrazioni vuole realizzare si può tentare,
inoltre, di riconosce l’importanza delle componenti tacite della conoscenza, fatte di sistemi valoriali
difficilmente imitabili e per questo fonti di vantaggio competitivo, generando una tensione continua
fra l’utilizzo di ciò che attraverso l’esperienza si è imparato (implementazione) e l’assimilazione di
nuove conoscenze (esplorazione).
La riflessione sull'apprendimento organizzativo propone la questione della circolarità e ricorsività
del processo di costruzione dei significati e della conoscenza, rimette in campo il concetto di
complessità, con caratteristiche ben più marcate di quelle emerse sul piano individuale.
Per affrontare l'analisi organizzativa in maniera realistica bisogna partire dall'idea che le
organizzazioni rappresentano più cose allo stesso tempo: una specie organizzativa capace di
sopravvivere in un determinato ambiente, un sistema di elaborazione di dati e informazioni, un
sistema in apprendimento, un ambiente culturale, un sistema politico e molto altro. Alla complessità
individuale fa quindi eco quella dell'organizzazione (Morgan,.1986).
Le organizzazioni, in quanto contesti culturali, agiscono connettendo le individualità in esse
emergenti secondo un processo che è del tutto simile a quello che interviene nella costruzione del
sé individuale. Esiste quindi un sé organizzativo che agisce in maniera da assegnare ai singoli ruoli
precisi, ma non secondo trame, disegni e copioni ben definiti, ma piuttosto secondo una trama a
maglie larghe di comportamenti adattivi. E questa la matrice dell'apprendimento organizzativo.
Un’organizzazione in questo senso è in grado di produrre una propria storia cognitiva. Dal momento
che questa storia è costruita sulla base delle narrazioni dei singoli individui, i quali possono agire
seguendo le proprie motivazioni, in maniera anche irrazionale; essa è il frutto di un processo di
mediazione, di una continua transazione. Ma allora come avviene che un gruppo di persone
acquisisce conoscenza, la socializza, la arricchisce, la modifica, la conserva, l'utilizza per l'azione? Nel
definire le modalità di costruzione della conoscenza superindividuale, non si può contare
sull'escamotage dello scomporre, del rendere atomico, o al più molecolare, ciò che invece è
irrimediabilmente sistemico. Ridurre le turbolenze determinate dai sottosistemi delle conoscenze
individuali, che non si sommano e non si annullano all'interno del sistema organizzativo, a semplici
variazioni interne che tendono comunque e in ogni caso all'equilibrio. La matrice cognitiva
dell'apprendimento organizzativo non è una entità superiore né realmente sovraordinata alle
matrici individuali, perché non è in grado si assorbirne del tutto le caratteristiche, mancando
all'organizzazione, per quanti sforzi faccia, la capacità di esplicitare completamente la conoscenza
tacita degli individui. Ecco allora che la costruzione di una conoscenza organizzativa che avviene
attraverso la narrazione, la determinazione di un sé superindividuale, una storia che si tende a
mantenere viva nella memoria dei componenti dell'organizzazione, costruendo complessi rituali che
passano anche per la definizione di luoghi «mitici», di saghe dei fondatori, di un'epica al servizio
della conservazione di ciò che altrimenti sarebbe semplicemente una sovrastruttura cognitiva
(Morgan, 1986). L‘organizzazione ha un bisogno estremo di questa narrazione, di questa costruzione
di artefatti cognitivi; non sopravvivrebbe altrimenti alla turbolenza del proprio ambiente di
riferimento, caratterizzata dall'incertezza delle condizioni di sussistenza, dalla competizione, dalla
naturale tendenza degli individui a non annullarsi nel tutto, ma a distinguere unendo (Schein, 1985).
A queste chiavi di lettura organizzativa è necessario aggiungere quelle riflessioni che prendono in
considerazione sia gli aspetti del funzionamento reale delle organizzazioni che quelli che nel tempo
hanno mostrato accentuazioni e linee di frattura nelle tradizionali culture organizzative.