Quaderni Jura Gentium - Feltrinelli
NORBERTO BOBBIO E LE “SUPERBE FOLE”
Anna Maria Campanale
Chiudendo una conferenza sull'etica laica tenuta a Bologna nel 1983,
Bobbio citava da La Ginestra di Leopardi: "e giustizia e pietade altra
radice avranno allor che non superbe fole" (1). La citazione, a commento
del problematico rapporto tra ragione e fede, suonava come un potente
monito, all'uomo di ragione, di riconoscere i limiti della ragione e di
guardare con rispetto alla fede, di non fare della fiducia nella ragione la
fede nella "Dea Ragione" (2), mascherandola così con l'abito di una
nuova fola, forse la più superba delle fole. Bobbio aveva sempre messo in
guardia dall'abuso della ragione, per dirla con Hayek (3), da una ragione che
si fa presuntuosa e arrogante, senza per questo sottoporla alla critica
corrosiva e demolitrice di un Feyerabend di Addio alla ragione (4): una
ragione, la sua, esercitata, per dir così, entro i limiti della sola ragione.
Se è vero, come Zolo dice, che Bobbio ha subito l'influenza diretta del
neopositivismo viennese, è anche vero, come lo stesso Zolo rileva
(nell'intelligente saggio sull'empirismo di Bobbio, che si apre all'analisi di
questioni epistemologiche fondamentali non solo per la scienza politica),
che vi è una tensione interna al suo pensiero che impedisce di appiattirlo
sulla standard view empiristica e che passa innanzitutto attraverso il
riconoscimento della complessità simbolica dell'agire umano (5), questa
quasi del tutto ignorata da quella nel progetto di assimilazione e
riduzione delle scienze sociali alle scienze naturali. La sua concezione
della ragione e della razionalità strideva rispetto a quella che il modello
scientista neopositivistico presupponeva; ad essa, ad una ragione potente
e anche prepotente, Bobbio replicava con un paradigma dai caratteri
molto più misurati o addirittura modesti: "la nostra ragione - scriveva non è un lume: è un lumicino" (6), talvolta incapace di dare risposte, e
capace di giungere soltanto a conclusioni inconcludenti (7). In chiusura
del saggio Il problema della guerra e le vie della pace, in un paragrafo dal titolo
significativo Questioni aperte, Zolo riferisce che "più volte e in diverse
circostanze Bobbio si è autocriticamente rammaricato di aver aperto, nel
corso della sua lunga militanza intellettuale, una grande quantità di
questioni teoriche ma di non esserne mai riuscito a chiuderne alcuna" (8):
quello che a lui poteva apparire motivo di dispiacere, è invece secondo
Zolo, e non si può non condividere, "uno dei meriti filosofici di Bobbio,
la prova del carattere aperto ed esplorativo del suo pensiero" (9).
Si può attribuire a Bobbio quella riflessione, frutto più "della
convinzione della saggezza rassegnata" che di dotte opzioni
epistemologiche, che Kelsen - con il pensiero del quale egli era in
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costante dialogo, dalle questioni di filosofia della scienza a quelle di teoria
generale del diritto a quelle ancora di diritto internazionale, come bene
mostra il libro - offre a proposito dei grandi quesiti rimasti senza
risposta: "che l'uomo non possa trovare mai una risposta definitiva, ma
soltanto cercare di porsi la domanda in modo migliore" (10). Ma la
ricerca non progredisce proprio attraverso il continuo domandare,
attraverso "il pungolo del dubbio" (11), senza mai acquietarsi nel porto
sicuro delle risposte definitive? Per Bobbio, come per Popper, la ricerca
non ha fine (12), e non ha fine anche perché si alimenta di una
concezione della ragione e, con questa, della scienza e della conoscenza,
che può avere non la dogmatica pretesa neopositivistica di un'assoluta
certezza che la irrigidisce e la fissa cristallizzandola, ma la critica esigenza
di una relativa incertezza che la rende duttile e adattabile: "non abbiamo
mai avuto difficoltà ad ammettere che la ragione non è, ma diviene" (13),
scriveva Bobbio in un intervento ad un seminario torinese del 1994. E
quando Zolo, andando oltre Lakatos, sostiene con buoni argomenti che
"al posto di una 'razionalità istantanea' può probabilmente concepirsi una
razionalità pragmatico-evolutiva dell'impresa scientifica nel suo
insieme" (14) non si trova forse a consentire con Bobbio sul paradigma
di una ragione non statica ma dinamica, di una ragione che procede,
diviene e si evolve?
Con questo non si intende affatto affermare che Bobbio sia un
postempirista: non lo era e non poteva esserlo proprio se si accoglie la
prospettiva postempiristica dalla quale Zolo muove: "la scienza è
un'impresa storico-sociale fondata sul consenso organizzato all'interno di
comunità scientifiche: il significato, la portata cognitiva, il carattere
informativo di osservazioni, teorie e controlli non sono separabili dai più
ampi contesti storici e sociologici nei quali operano le comunità
scientifiche" (15). Bobbio ha vissuto fin nelle sue più profonde pieghe
l'ambiente storico e culturale del suo tempo, prendendovi parte con
passione e spirito critico. Il suo dialogo sui temi della teoria del diritto e
del diritto internazionale si apre con una testimonianza di un periodo
della sua vita intellettuale che inizia dagli anni trenta, documentando, più
precisamente, i suoi rapporti con il kelsenismo nel più ampio orizzonte
dei modelli teorici e filosofici allora presenti e operanti. E lo mostra
partecipe e attento al dibattito scientifico e filosofico di allora (16), e
sensibile, come Kelsen, all'esigenza di operare distinzioni,
particolarmente sul piano logico-metodologico, al fine di tentare di
superare quel "dominante sincretismo metodologico" presente nella
"scienza tradizionale" (17). Per uno studioso che aveva fatto dell'ordine e
della chiarezza - se non anche, in alcuni casi, della purezza, come per
Kelsen - il tratto distintivo del suo stile di pensiero, il neopositivismo era
certamente la cornice epistemologica idonea a soddisfare questa
esigenza.
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Si cerca, allora, solo di sottolineare che il pensiero di Bobbio è
certamente espressione del contesto culturale del suo tempo, che lascia
un'impronta durevole dalla quale è difficile liberarsi, ma che,
ciononostante, la sua immagine della ragione è certamente tra i più
significativi di quei segnali di una non passiva accettazione di modelli
epistemologici pur largamente condivisi, e luogo esemplare di quelle
tensioni o forse contraddizioni in cui una riflessione critica può
involgersi. E questa immagine avrebbe potuto, ieri, aprire una strada per
"superare gli aspetti dogmatici dell'empirismo, senza rimuovere per
questo, dogmaticamente, the legacy of logical empiricism" (18), e può, oggi,
aiutare ad orientarsi nell'attuale crescente instabilità, non solo politica, a
livello sia nazionale che internazionale, sebbene Zolo ritenga
"fuorviante" l'appello alla ragione in "tempi di trionfante scientismo
tecnologico" (19). Ma la ragione della quale Zolo diffida è la ragione
strumentale, formalizzata, criticata da Horkheimer (20), mentre la
ragione nella quale Bobbio confida è quella che, insieme all'esperienza,
consente all'uomo di emanciparsi - nel senso kantiano di uscita dallo
stato di minorità inteso come "incapacità di valersi del proprio intelletto
senza la guida di un altro" (21) - e lo orienta "per sapere ciò che deve fare
e soprattutto per farlo effettivamente" e per "giudicare del bene e del
male con le sole proprie forze" (22).
D'altronde, a cos'altro l'uomo può oggi fare appello, in una fase della sua
storia nella quale i processi di trasformazione, in ogni campo
dell'esperienza umana, sono così accelerati da diventare ingestibili e
incontrollabili? E quel diritto all'autonomia cognitiva, di cui Zolo parla,
così fondamentale da essere la radice dei diritti di libertà e dei diritti
politici e non solo, attraverso cos'altro può essere guadagnato se non
attraverso la ragione, la ragione come la pensava Bobbio? Quando Zolo
scrive: "per autonomia cognitiva intendo l'essenza stessa della libertà
individuale (...), la capacità del soggetto di controllare, filtrare e
interpretare razionalmente le comunicazioni che riceve, a cominciare dalle
comunicazioni elettroniche quotidiane" (23), si riferisce esplicitamente
all'esercizio di quella ragione da parte del soggetto come condizione
senza della quale quell'autonomia non può essere raggiunta; e insieme
all'autonomia, la libertà del singolo: ragione e libertà stanno e cadono
insieme, non solo nel pensiero di Bobbio, ma anche in quello di Zolo.
"Nel momento stesso in cui le conoscenze tecniche allargano l'orizzonte
del pensiero e dell'azione degli uomini, diminuiscono invece l'autonomia
dell'uomo come individuo, la sua capacità di difendersi dall'apparato
sempre più potente e complesso della propaganda di massa, la forza della
sua immaginazione, la sua indipendenza di giudizio (...). Così com'è
intesa e messa in pratica nella nostra civiltà, la razionalità progressista
tende a distruggere la sostanza stessa della ragione, in nome della quale si
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difende la causa del progresso" (24), scriveva Horkheimer: le parole di
Zolo non fanno forse eco a queste parole dopo più di sessant'anni (25)?
Nel breve dialogo (breve perché incompiuto) tra Bobbio e Zolo, Prima
che il gallo canti, a proposito della funzione dell'intellettuale e del "nodo
aggrovigliatissimo dei problemi dell'uomo nella società di oggi", Bobbio
dice che "l'arma dell'uomo di cultura" è la ragione, mentre l'arma del
politico è la spada: la prima cerca di sciogliere il nodo, la seconda lo taglia
(26). Ora, quel che è essenziale è che l'intellettuale non ceda alla
tentazione di fare uso della ragione come di una spada, per tagliare,
anziché sciogliere, quel nodo gordiano. Nella sua ultima lezione
all'Università di Torino, Bobbio ricordò le parole di Max Weber: "la
cattedra non è per i profeti e i demagoghi" (27). L'uomo di cultura, se è
uomo di ragione, non può rappresentare ideologie come verità assolute le "superbe fole" - o imporre la propria Weltanschauung, sottraendosi al
dialogo e al confronto. Il suo compito - difficile compito - è, con Benda
(al quale, come Bobbio ricorda, egli si ispirava), quello di "ragionare sulle
cose con freddezza, pacatezza, equilibrio e lungimiranza, in una parola
con realismo" (28). Ragionare con realismo, era quanto Bobbio aveva
sempre chiesto a se stesso come studioso e non solo. Quel realismo si
fletteva talvolta in pessimismo (29)? La sua era, sì, un'antropologia che si
mostrava venata di pessimismo, ma, come la colomba di Trilussa (30),
egli non ne rimaneva invischiato: ciò gli consentiva di non essere un
"pessimista cronico", anche se non gli consentiva di essere un "ottimista
ad oltranza" (31). Quel suo "restare sulla soglia (32)" era propriamente
l'atteggiamento di chi, per un verso, esperiva il senso del limite, per un
altro, si apriva al "senso della complessità delle cose" (33).
Note
1. N. Bobbio, Pro e contro un'etica laica, in Elogio della mitezza e altri scritti
morali, Linea d'ombra edizioni, Milano 1994, p. 185.
2. N. Bobbio, Morale e religione, in ivi, p. 187: "Mi è (...) completamente
estranea la fede nella ragione. Non ho mai avuto la tentazione di
sostituire la Dea Ragione al Dio dei credenti". In Pro e contro un'etica laica
(in ivi, p. 184), egli sollecitava i non credenti, citando il titolo di uno
scritto di Juvalta, a "prendere onestamente atto dei 'limiti del
razionalismo etico'", il quale ultimo - insieme all'universalismo, entrambi
di derivazione kantiana e kelseniana - Zolo dice essergli profondamente
congeniale (L'alito della libertà e i rischi della democrazia, in L'alito della libertà .
Su Bobbio, Feltrinelli, Milano 2008, p. 15).
3. F. A. von Ayek, The Counter-Revolution of Science: Studies on the Abuse of
Reason, The Free Press, USA 1952, L'abuso della ragione, ed. it. a cura di D.
Antiseri, SEAM, Roma, 1997.
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4. P. K. Feyerabend, Farewell to reason, Verso, London-New York 1987,
Addio alla ragione, trad. it. di M. D'Agostino, Armando editore, Roma
2004.
5. D. Zolo, L'empirismo di Norberto Bobbio, in L'alito della libertà, cit., pp.
57-84.
6. N. Bobbio, Morale e religione, cit., in Elogio della mitezza, cit., p. 187.
7. N. Bobbio, La natura del pregiudizio, in ivi, p. 139.
8. D. Zolo, Il problema della guerra e le vie della pace, in L'alito della libertà, cit.,
p. 96.
9. Ibidem.
10. H. Kelsen, Was ist Gerechtigkeit, Franz Deuticke, Wien 1953, Che cos'è la
giustizia? in I fondamenti della democrazia, trad. it. di A. M. Castronuovo, F.
L. Cavazza, G. Melloni, il Mulino, Bologna 1970, p. 392.
11. N. Bobbio, Politica e cultura, Einaudi, Torino 1995, p. 281.
12. Il riferimento è al titolo del notissimo scritto di K. R. Popper,
Unended Quest. An Intellectual Autobiografy, Fontana, London 1976, La
ricerca non ha fine. Autobiografia intellettuale, ed. it. a cura di D. Antiseri,
Armando editore, Roma 1997.
13. N. Bobbio, Gli dei che hanno fallito. Alcune domande sul problema del male,
in Elogio della mitezza, cit., p. 198, intervento ad un seminario del 1994 sul
tema "Il potere del male, la resistenza del bene", in cui si poneva la
domanda sulla presenza del Male nel mondo - "una di quelle domande
alle quali non riusciamo a dare una risposta coi lumi della nostra
ragione" (p. 195). Ancora una domanda senza risposta.
14. D. Zolo, L'empirismo di Norberto Bobbio, cit., in L'alito della libertà, cit.,
pp. 73-74.
15. Ivi, p. 73.
16. D. Zolo, La teoria del diritto e il diritto internazionale. Un dialogo con
Norberto Bobbio, in L'alito della libertà, cit. È indicativa del
condizionamento storico-culturale l'adesione di Kelsen alle principali
istanze neopositivistiche, pur non avendo egli fatto direttamente parte
del Circolo di Vienna, tanto più se si guarda alla sua biografia, oltre che
alle sue opzioni di teoria politico-giuridica. L'aver accettato, tra gli altri, il
criterio della Wertfreiheit nella sua Dottrina pura del diritto (che lo espose
all'accusa di aver legittimato e giustificato qualunque ordinamento
giuridico per la non rilevanza del valore della giustizia) poteva apparire in
contrasto con la sua figura di "pensatore democratico e pacifista", come
Bobbio lo definiva (D. Zolo, ivi, p. 105), che aveva lasciato la sua patria
per difendere la propria libertà intellettuale. Ma il neopositivismo
sembrava offrirgli gli strumenti logico-metodologici adeguati alla
realizzazione del suo progetto teorico di una "scienza del diritto
indipendente". Scrive nella Prefazione alla Teoria generale del diritto e dello
Stato, che portò a termine a Berkeley nel 1944: "Una teoria pura del
diritto può sembrare oggi intempestiva, mentre in grandi ed importanti
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paesi, sotto il regime di una dittatura di un partito, alcuni fra i più
eminenti rappresentanti della giurisprudenza non conoscono compito
migliore che servire - con la loro 'scienza' - il potere politico del
momento. Se, ciò nonostante, l'autore si avventura a pubblicare questa
teoria del diritto e dello Stato, è perché egli ritiene che nel mondo angloamericano, dove la libertà della scienza è ancora rispettata e il potere
politico è più stabile che altrove, le idee siano tenute in maggior conto
del potere; ed anche perché spera che pure nel continente europeo, dopo
la sua liberazione dalla tirannide politica, la nuova generazione sarà
convertita all'ideale di una scienza del diritto indipendente; poiché il
frutto di una tale scienza non potrà mai andare perduto" (H. Kelsen,
General Theory of Law and State, Harvard University Press, Cambridge
(USA) 1945, Teoria generale del diritto, trad. it. di S. Cotta e G. Treves,
ETAS, Milano 1978, pp. XXVII-XVIII. Ma l'indipendenza non è
l'indifferenza, come ha insegnato Bobbio a proposito della funzione
dell'intellettuale: "indipendente (da questa o quella situazione politica) ma
non indifferente" (D. Zolo, Prima che il gallo canti. Un dialogo incompiuto con
Norberto Bobbio, in L'alito della libertà, cit., p.130).
17. H. Kelsen, Reine Rechtslehre, Franz Deuticke Verlag, Wien 1960, La
dottrina pura del diritto, ed. it. a cura di M. G. Losano, Einaudi, Torino,
1990, p. 9; vedi anche Id., Reine Rechtslehere. Einleitung in die
rechtswissenschaftliche Problematik, Franz Deuticke Verlag, Wien 1934,
Lineamenti di Dottrina pura del diritto, ed. it. a cura di R. Treves, Einaudi,
Torino 2000, pp. 47-48.
18. D. Zolo, L'empirismo di Norberto Bobbio, cit., in L'alito della libertà, cit., p.
84.
19. D. Zolo, L'inquietudine della ricerca, in ivi, p. 40.
20. Il riferimento è, come è noto, a M. Horkheimer, Eclips of Reason,
Oxford University Press, New York 1947, Eclisse della ragione. Critica della
ragione strumentale, trad. it. di E. Vaccari Spagnol, Einaudi, Torino 1969.
21. I. Kant, Beantwortung der Frage: Was ist Aufklärung?, in Berlinische
Monatsschrift, Dezember- Heft 1784, Risposta alla domanda: Che cos'è
l'Illuminismo? in Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto di Immanuel
Kant, trad. it. di G. Solari e G. Vidari, ed. post. a cura di N. Bobbio, L.
Firpo e V. Mathieu, UTET, Torino 1965 (2ª ed.), p.141. Ma, prima di
Kant, Spinoza, per il quale la nozione di esse sui juris, in opposizione
polare a quella di esse alterius juris, ha una forte valenza gnoseologica ed
etica prima ancora che giuridico-politica (B. Spinoza, Ethica ordine
geometrico demonstrata, in Opera, a cura di C. Gebhardt, Heidelberg, Winter,
19722, vol. II, pars IV, praef. p. 205; Ethica, premessa di G. Radetti,
prefazione di G. Gentile, trad. it. di G. Durante, note di G. Gentile
rivedute e ampliate da G. Radetti, Firenze, Sansoni, 1984 (testo latino a
fronte); Id., Tractatus politicus, in Opera, cit., vol. III, cap. II, § VI, p. 280;
Trattato politico, trad. it. a cura di A. Droetto, Torino, Ramella, 1958.
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22. N. Bobbio, Pro e contro un'etica laica, cit., in Elogio della mitezza, cit., p.
185: significativo è tuttavia il tono prudente e cauto delle parole che egli
usa per descrivere le capacità "del seguace della sola ragione" di
raggiungere un mondo di autonomia per l'uomo (ibidem).
23. D. Zolo, L'inquietudine della ricerca, cit., in L'alito della libertà, cit., p. 42
(corsivo mio).
24. M. Horkheimer, op. cit., pp. 9-10.
25. E confermano la possibilità di un rischio, sempre latente e mai
superato, di un uso inautentico e unilaterale della ragione, la diagnosi di
una "malattia della ragione (...) non come un male che ha colpito la
ragione in un dato momento storico, ma come qualcosa di inseparabile
dalla natura della ragione nella civiltà" (ivi, p. 151).
26. D. Zolo, Prima che il gallo canti, cit., in L'alito della libertà, cit., pp.
130-131. Le frasi citate sono tratte, nella risposta di Bobbio, come egli
stesso ricorda, da Politica e cultura.
27. M. Weber, Politik als Beruf, Wissenschaft als Beruf, Duncker & Humbolt,
Berlin 1919, Il lavoro intellettuale come professione, trad. it. a cura di A.
Giolitti, nota introduttiva di D. Cantimori, Einaudi, Torino 1980, p. 29.
28. D. Zolo, Prima che il gallo canti, cit., in L'alito della libertà, cit., pp.
131-132.
29. Secondo Zolo, il realismo, che, insieme all'illuminismo, costituisce la
duplice radice del pensiero di Bobbio, vi introduce "elementi di
pessimismo antropologico e, assieme, una forte istanza normativa,
un'inclinazione a concepire i fini della politica alla luce di aspettative di
carattere etico" (L'alito della libertà e i rischi della democrazia, in L'alito della
libertà, cit., p. 15). Bobbio, però, almeno nelle intenzioni, sembra voler
sfuggire a questa lettura: a chi lo invitava ad essere meno pessimista,
rispondeva che, piuttosto, egli considerava se stesso "modestamente
come uno che prima di giudicare cerca di capire e "siccome pessimismo
e ottimismo sono stati d'animo, non c'è argomento razionale o
constatazione empirica, posto che se ne possano fare, che riescano a
scalfirli (Pro e contro un'etica laica, cit., in Elogio della mitezza, cit., p. 167,
corsivo mio). Il che equivale a dire che il pessimismo (e l'ottimismo)
appartiene alla sfera dell'irrazionale o almeno del non-razionale e dunque
l'esercizio della ragione non può avere su di esso alcuna influenza. Ciò
trova per altri versi conferma in quanto Bobbio dice altrove (Morale e
religione, cit., in ivi, p. 189): "anche il pessimismo, come l'ottimismo, è una
visione globale del mondo, e come tale fideistica". Rilevare nel suo
pensiero accenti di pessimismo antropologico potrebbe significare,
allora, velare, dal punto di vista di Bobbio, la sua lucida adesione al
razionalismo.
30. Trilussa (C. A. Salustri) La colomba, in Poesie scelte, Mondadori, Milano
1969, vol. II, p. 215.
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31. N. Bobbio, Pro e contro un'etica laica, cit., in Elogio della mitezza, cit., p.
167. Se, in modo particolare, si leggono le pagine de L'età dei diritti
(Einaudi, Torino 1997), si può cogliere immediatamente e
significativamente questa tensione tra una visione "catastrofica" del
mondo e la ricerca di un signum prognosticum di una kantiana tendenza
verso il meglio da parte dell'umanità (che egli vedeva nella sempre
maggiore attenzione prestata al problema dei diritti umani).
32. N. Bobbio, Gli dei che hanno fallito, cit., in Elogio della mitezza, cit., p.
106.
33. N. Bobbio, Politica e cultura, cit., p. 281.
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