Schema di decreto legislativo recante il Codice del processo

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Schema di decreto legislativo recante il Codice del processo amministrativo
Osservazioni di Confindustria
1. Valutazioni generali.
L’art. 44 della legge n. 69/2009, recante “Disposizioni per lo sviluppo economico, la
semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile”, ha delegato il
Governo a emanare, entro il 4 luglio 2010, uno o più decreti legislativi per il riassetto
della disciplina del processo amministrativo. Tale delega si inserisce nel generale
disegno di riforma della materia processuale, previsto dalla legge n. 69, al fine di
garantire efficienza nell’amministrazione della giustizia.
Confindustria ha espresso apprezzamento riguardo alla delega e ai suoi principi, il cui
obiettivo è di adeguare finalmente la disciplina del processo amministrativo ai
cambiamenti che negli ultimi anni hanno interessato il diritto amministrativo sostanziale
– specie con riferimento agli interventi di semplificazione – e di coordinarla con le
norme del codice di procedura civile, per assicurare ai privati una tutela giurisdizionale
piena ed effettiva.
La riforma del processo amministrativo rappresenta una necessità improrogabile, che
richiede una complessiva rivisitazione del ruolo del giudice amministrativo e degli
strumenti processuali di tutela dei privati.
Lo schema di decreto introduce importanti principi in tema di giustizia e di processo
amministrativo (effettività, giusto processo, dovere di motivazione e sinteticità degli
atti), di giurisdizione amministrativa, di translatio judicii, di svolgimento del processo, di
tutela cautelare ante causam e di autonomia dell’azione di risarcimento del danno
derivante dalla lesione di un interesse legittimo rispetto all’azione di annullamento
dell’atto lesivo. Sono condivisibili, altresì, le norme in materia di impugnazioni. Il Codice
unifica, infatti, i termini processuali per la notifica e il deposito del ricorso per tutte le
tipologie di impugnazione (artt. 92 e 95), disciplina l’impugnazione incidentale
impropria (art. 97), rilevante ai fini della concentrazione dei mezzi di gravame,
regolamenta l’opposizione di terzo (artt. 108 e 109) e la possibilità di proporre motivi
aggiunti (art. 104, co. 3).
Lo schema di Codice presenta però anche alcuni rilevanti profili di criticità, che occorre
correggere per perseguire l’obiettivo di un effettivo ammodernamento del sistema
processuale amministrativo e di una efficace tutela dei privati.
Confindustria considera prioritaria nell’opera di riforma delle disposizioni che regolano i
processi in cui è parte la PA la piena parificazione delle forme di tutela dei diritti
soggettivi e degli interessi legittimi. Solo in questo modo si potrà dare effettiva
implementazione anche in questa materia ai precetti di rilevanza costituzionale sul
giusto processo.
Rappresenta oramai un dato acquisito alla più evoluta riflessione sul rapporto tra
procedimento amministrativo – paradigma del modello di azione della PA – e processo
– momento di controllo del corretto esercizio del potere – che le garanzie e i diritti
apprestati dal primo devono trovare riscontro nelle forme di tutela predisposte dal
secondo. In mancanza di tale simmetria, i moderni principi del diritto amministrativo
sostanziale – che fanno leva sul giusto procedimento – rischiano di essere vanificati da
un sistema di tutele processuali anacronistico.
Il riferimento è anzitutto alla mancata previsione nello schema di Codice delle azioni di
accertamento e di adempimento, ma anche alla conferma del rapporto di dipendenza
dell’azione risarcitoria – diretta al ristoro del privato contro gli illeciti compiuti dalla PA –
rispetto a quella di annullamento, che ha per oggetto la demolizione di un atto, quindi
non ogni comportamento illegittimo dalla PA. A quest’ultimo riguardo, si ravvisano le
medesime criticità e i vuoti di tutela che attualmente determina la cd. pregiudiziale
amministrativa.
La versione di articolato presentata dalla Commissione di esperti contemplava le azioni
di accertamento e di adempimento e prevedeva la completa autonomia tra l’azione
risarcitoria e quella di annullamento, ma a seguito dell’esame preliminare da parte del
Consiglio dei Ministri del 16 aprile tali forme di tutela sono state soppresse per ragioni
di ordine economico.
Si tratta di una scelta che non può essere condivisa e che dovrebbe essere oggetto di
un serio ripensamento, al fine di rendere il Codice del processo amministrativo
conforme ai principi e ai criteri di delega e, soprattutto, di assicurare, da un lato,
l’effettività di tutela per i privati contro la PA e, dall’altro, la celerità dei procedimenti.
L’efficacia di alcuni moderni istituti introdotti nel diritto amministrativo sostanziale è,
infatti, oggi vanificata da un enforcement poco effettivo. La giustizia amministrativa
manca di alcuni importanti strumenti, che la Commissione di esperti aveva
opportunamente proposto, che potrebbero consentire una tutela più efficace ed
efficiente di cittadini e imprese.
Sono poi quanto meno discutibili le dichiarate motivazioni di ordine economico (timore
di un incremento dei costi a carico dello Stato dovuto ad un più agevole esercizio di
alcune azioni contro la PA) che hanno portato alla eliminazione di tali previsioni dal
Codice. Si pensi, per citare soltanto un esempio, alle azioni di adempimento, uno degli
strumenti più rilevanti proposti nel testo della Commissione di esperti, il cui effetto
ultimo non sarebbe un aggravamento di costi per le finanze pubbliche, ma al contrario
una loro compressione. La concentrazione in unico processo di tutti i profili attinenti alla
spettanza di un provvedimento, infatti, oltre a velocizzare la composizione della
controversia, determina un risparmio di risorse pubbliche e deflaziona i contenziosi.
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Infatti, lo svolgimento contestuale delle valutazioni circa l’illegittimità dell’atto o della
condotta tenuta dalla PA e la sussistenza di una pretesa legittima del privato consente
di evitare possibili reiterazioni di procedimenti amministrativi e di processi, che
altrimenti potrebbero essere avviati all’infinito a fronte di situazioni in cui la PA continui
a negare il provvedimento richiesto dal privato e quest’ultimo ritenga illegittima la
determinazione negativa, chiedendo al giudice di pronunciarsi nuovamente sulla
questione.
Un’amministrazione moderna ed efficiente richiede non soltanto una semplificazione di
norme e procedure, ma anche la previsione di rigorosi strumenti di tutela di diritti e
interessi di cittadini e imprese. Preservare la PA da azioni giudiziarie - tendenza che
purtroppo si va sempre più spesso affermando - vuol dire perpetuarne l’inefficienza e
l’assenza di accountability della sua dirigenza. Gli strumenti di enforcement e di tutela
vanno invece rafforzati, collegando ad essi una rigorosa responsabilità dei dirigenti che
con la loro inerzia, negligenza o incompetenza hanno causato un danno.
L’articolato presenta inoltre anche alcune criticità per quanto attiene ai profili
strettamente processuali, i cui possibili correttivi sono segnalati nel paragrafo 3 del
presente documento.
2. Strumenti di tutela. Proposte di correttivi.
2.1. Azioni di cognizione.
Lo schema di Codice disciplina le azioni di cognizione: azione di annullamento, azione
avverso il silenzio e azione di condanna, compresa quella risarcitoria. Tali previsioni
sono condivisibili, tuttavia permangono taluni elementi di criticità che andrebbero
rimossi al fine di rendere effettiva la tutela dei privati contro la PA.
Di seguito i correttivi che andrebbero apportati all’articolato.
Azioni di accertamento e azioni di adempimento. Lo schema di Codice del
processo amministrativo predisposta dalla Commissione di esperti disciplinava in via
generale, accanto all’azione di annullamento, di condanna e avverso il silenzio, anche
le azioni di accertamento e di adempimento, in modo da offrire al privato tutti gli
strumenti necessari a soddisfare le proprie pretese. Tali previsioni sono state però
espunte dal testo approvato in via preliminare dal Governo. La soppressione di tali
strumenti di tutela non appare in linea con i principi di delega, ove si prevedono invece
pronunce costitutive, di accertamento e di condanna idonee ad assicurare la piena
soddisfazione delle pretese della parte vittoriosa. Riguardo alle azioni di accertamento,
l’art. 36 della versione del Codice presentata dalla Commissione prevedeva per il
privato la possibilità di chiedere l’accertamento dell’esistenza o dell’inesistenza di un
rapporto giuridico contestato con la PA e l'
adozione delle consequenziali pronunce
dichiarative, nonché l’accertamento della nullità di un provvedimento amministrativo.
Per assicurare il rispetto del principio di separazione dei poteri e per evitare di rimettere
al giudice scelte riservate alla PA, la norma escludeva che l’azione di accertamento
potesse riguardare poteri ancora non esercitati. Riguardo alle azioni di adempimento,
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l’art. 40 stabiliva la possibilità per il ricorrente di chiedere la condanna
dell'
amministrazione all'
emanazione del provvedimento richiesto o denegato.
Confindustria ritiene fondamentale il reinserimento nel Codice di tali previsioni, in
quanto la modernizzazione della PA e la rilevanza assunta dagli interessi legittimi dei
privati (sostanzialmente parificati ai diritti soggettivi) richiedono una revisione del ruolo
e dei poteri del giudice amministrativo, non più limitati al solo controllo della legittimità
dell’atto, ma estesi anche al rapporto tra PA e privato. Infatti, l’affermarsi del diritto
amministrativo paritario, i fenomeni della liberalizzazione e della privatizzazione hanno
modificato i rapporti tra privato e amministrazione e il ruolo del giudice amministrativo.
Per quanto riguarda le azioni di accertamento, dirette a fornire al privato una tutela in
tutte le ipotesi in cui occorra far dichiarare le violazioni commesse dalla PA o
l’esistenza di un interesse legittimo, si rileva che la loro mancata previsione determina
vuoti di tutela difficilmente colmabili con le sole azioni di annullamento. Queste ultime,
infatti, non sono in grado da sole di realizzare un sistema di giustizia amministrativa in
cui sia riconosciuta al privato la tutela effettiva di tutte le posizioni giuridiche soggettive
che si possono vantare nei confronti della PA. Infatti, l’annullamento dell’atto assicura
principalmente il ripristino dei cd. interessi oppositivi e non anche di quelli pretensivi.
L’annullamento di un provvedimento negativo non è sufficiente di per sé a soddisfare
l’interesse al conseguimento del bene spettante al privato e non sempre coincide con
l’interesse sostanziale del ricorrente (si pensi ai rapporti in materia di DIA, silenzioassenso, diritto di accesso, nullità del provvedimento amministrativo, ecc.). In questi,
casi l’obiettivo dell’azione è di rimuovere gli elementi di incertezza che hanno dato
luogo alla controversia circa la sussistenza o meno di un rapporto giuridico o di un
provvedimento.
Quanto alle azioni di adempimento (o di condanna della PA a provvedere), queste
garantiscono al privato una tutela piena e più celere, poiché evitano l’instaurazione di
un nuovo procedimento amministrativo dopo l’eventuale annullamento dell’atto
illegittimo o l’accertamento del silenzio inadempimento e impediscono alla PA di
negare nuovamente il provvedimento richiesto mediante una diversa valutazione degli
interessi pubblici. Infatti, nell’attuale sistema, quand’anche il privato riesca ad ottenere
l’annullamento di un atto della PA, ovvero la dichiarazione del suo silenzio
inadempimento, l’azione amministrativa successiva da parte della stessa rimane
impregiudicata. Ciò comporta in molti casi la reiterazione di provvedimenti di rigetto
precedentemente annullati dal giudice o dell’inadempimento. In questi casi il privato ha
come unico strumento di tutela il giudizio in sede di ottemperanza, che richiede lo
svolgimento di un nuovo processo, con allungamento dei tempi per la soddisfazione
della propria pretesa. Con l’azione di adempimento, invece, il giudice può ordinare alla
PA di adottare il provvedimento secondo le prescrizioni che egli stesso impartisce.
Tale tipologia di azioni oltre ad assicurare il pieno rispetto dei principi di delega che
prevedono l’effettività delle tutele e la ragionevole durata delle controversie, rende
anche effettive le misure di semplificazione e snellimento dell’attività amministrativa
introdotte in questi anni o di prossima introduzione, contribuendo alla realizzazione in
tempi rapidi delle legittime pretese private.
Azione di condanna. L’art. 30 dello schema prevede che l’azione risarcitoria può
essere proposta contestualmente a un’altra azione oppure in via autonoma, entro il
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termine decadenziale di centoventi giorni dal giorno in cui si è verificato il fatto dannoso
o il provvedimento lesivo è stato conosciuto ovvero entro centoventi giorni dal
passaggio in giudicato della sentenza di annullamento. Tale previsione assume
notevole rilevanza, in quanto risolve la questione giurisprudenziale sorta tra Corte di
Cassazione e Consiglio di Stato sulla cd. pregiudizialità amministrativa. Infatti, sin dalla
sentenza delle SS. UU. della Cassazione n. 500/99, con la quale si era riconosciuta la
risarcibilità degli interessi legittimi, non era chiaro se, ai fini del risarcimento del danno
derivante dalla lesione di un interesse legittimo, fosse necessario il previo
annullamento del provvedimento amministrativo lesivo.
La nuova norma sancisce appunto l’autonomia dell’azione risarcitoria rispetto a quella
di annullamento. Pertanto, il privato può scegliere se tutelare i propri interessi legittimi
con l’azione di annullamento, con quella risarcitoria – senza la previa demolizione del
provvedimento illegittimo - o con entrambe. Tuttavia, la nuova disposizione prevede
che il giudice amministrativo escluda il risarcimento del danno, se questo si sarebbe
potuto evitare usando l’ordinaria diligenza, anche attraverso l’impugnazione dell’atto
amministrativo lesivo entro i termini previsti dalla legge. Tale previsione appare in
contrasto con l’autonomia dell’azione risarcitoria rispetto a quella di annullamento, in
quanto reintroduce una forma di pregiudizialità amministrativa indiretta che subordina
l’accoglimento della domanda risarcitoria alla previa impugnazione del provvedimento
lesivo da parte del privato, intesa come tipica condotta diligente, idonea a evitare la
produzione del danno ingiusto. Inoltre, la norma esclude la rilevanza di altri strumenti
riconosciuti dall’ordinamento per l’eliminazione dell’atto lesivo (si pensi ad esempio al
ricorso gerarchico o al ricorso straordinario al Presidente della Repubblica), che il
privato potrebbe utilizzare per evitare o ridurre il danno. Al riguardo, va considerato che
la prevalente giurisprudenza civile (v. Cassazione, sent. nn. 16530/2004, 11364/2002,
1550/2006, 8231/1999) afferma che l’attivazione del rimedio giurisdizionale - agire in via
giudiziale contro terzi, resistere ad azioni promosse nei suoi confronti ovvero impugnare
atti amministrativi - non rientra tra gli interventi che il danneggiato ha l’onere di porre in
essere al fine di evitare il danno, in quanto il ricorso ai rimedi processuali comporta un
apprezzabile sacrificio in termini di costi, rischi e tempi. La disposizione appare anche
lesiva del diritto di difesa del privato (art. 24 Cost.), perché impone allo stesso di
attivare un determinato strumento di tutela per ottenere la soddisfazione di un altro tipo
di pretesa e riduce indirettamente il termine di decadenza concesso dalla legge (120
giorni) per poter valutare l’opportunità di chiedere il risarcimento per lesione di un
interesse legittimo. Per evitare tali criticità è opportuno eliminare il riferimento
all’impugnazione dell’atto come elemento idoneo a determinare l’esclusione del
risarcimento a favore del privato.
Azione di annullamento. L’art. 29 disciplina l’azione di annullamento del
provvedimento amministrativo viziato da incompetenza, eccesso di potere (ad
esempio, travisamento dei fatti, illogicità o contraddittorietà della motivazione,
contraddittorietà con altri atti, disparità di trattamento) o violazione di legge (es. erronea
interpretazione della legge, vizi di forma, mancanza di motivazione). Tale azione può
essere esercitata entro il termine di decadenza di sessanta giorni. La norma non
specifica il termine di decorrenza per l’impugnazione dell’atto amministrativo. Sarebbe
opportuno indicare che la decorrenza di tale termine richiede la completa e integrale
conoscenza dell’atto, che può essere conseguita attraverso la notifica, la pubblicazione
o la comunicazione dell'
atto impugnato. Inoltre, si ritiene opportuno allineare il termine
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per l’impugnazione a quello per la richiesta risarcitoria (120 giorni), al fine di consentire
agli interessati la possibilità di valutare in maniera più approfondita l’eventualità di
ricorrere al giudice ed evitare una pluralità di termini a seconda della tipologia di azione
processuale, che renderebbe più complesso l’esercizio delle forme di tutela concesse
ai privati e la gestione dei contenziosi da parte dei giudici a fronte di una pluralità di
azioni esperite in momenti diversi. Si segnala, infatti, che spesso l’azione di
annullamento e quella risarcitoria vengono esercitate contestualmente dal privato
nell’atto introduttivo del giudizio.
3. Osservazioni su altri aspetti dello schema di decreto
Di seguito taluni rilievi su specifici aspetti processuali dell’articolato, che attengono alla
disciplina del procedimento cautelare, al regime delle udienze di discussione, alla
razionalizzazione dei riti speciali, allo smaltimento dei processi arretrati e alla disciplina
della giurisdizione.
Tali disposizioni, infatti, presentano alcuni elementi di divergenza rispetto
all’impostazione del Codice, soprattutto per quanto riguardo i profili che attengono alla
velocizzazione dei processi e alla effettività delle tutele.
3.1. Procedimento cautelare
Il Codice detta una disciplina organica del procedimento cautelare (Libro II, Titolo II),
confermando l’atipicità delle misure cautelari, ossia le misure che idonee ad assicurare
interinalmente gli effetti della decisione sul ricorso (ad esempio, la sospensione
dell’efficacia del provvedimento impugnato, l’ordine di pagamento di una somma di
denaro).
I presupposti per la concessione di una misura cautelare sono il fumus boni iuris,
consistente nella valutazione sommaria dei profili che inducono ad una ragionevole
previsione dell’esito del ricorso (art. 55, co. 9) e il periculum in mora, inteso come il
pregiudizio grave e irreparabile che il ricorrente potrebbe subire nel tempo necessario
alla decisione del ricorso (art. 55, co. 1).
Il Codice conferma la natura strumentale della tutela cautelare rispetto a quella resa
dalla sentenza di merito. Infatti è stabilito che la domanda cautelare può essere
proposta con il ricorso di merito o con una successiva istanza ed è improcedibile,
quindi non può essere decisa, se non è richiesta la fissazione dell’udienza per la
discussione del merito.
In attuazione della delega, il Codice generalizza la tutela cautelare ante causam, oggi
prevista solo in materia di appalti pubblici. Infatti, mentre gli artt. 55 e 56 disciplinano
una tutela cautelare che si svolge all’interno di un giudizio instaurato con il ricorso
principale, l’art. 61 prevede una tutela cautelare precedente all’instaurazione del
giudizio, attivabile in caso di eccezionale gravità e urgenza tale da non consentire
neanche la redazione e notificazione di un ricorso.
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L’introduzione della tutela cautelare ante causam rafforza gli strumenti e le modalità di
tutela di cui dispone il privato nei confronti della PA, adeguando il sistema della
giustizia amministrativa al principio del giusto processo. Inoltre, il provvedimento
cautelare ante causam costituisce uno strumento per evitare di instaurare il giudizio
principale, in quanto la PA, ricorrendo ai propri poteri di autotutela, potrebbe
conformarsi alle indicazioni del giudice e soddisfare le pretese del privato.
La natura strumentale della tutela cautelare rispetto a quella di merito riflette i principi
del processo civile. Anche per quest’ultimo è, infatti, previsto che la misura cautelare
pronunciata dal giudice abbia una validità limitata nel tempo, in quanto perde
automaticamente efficacia se la parte non inizia la causa nei termini di legge (art. 669novies c.p.c.).
A differenza del processo civile, però, lo schema di decreto in esame limita la durata
temporale delle misure cautelari anticipatorie alla scadenza di termini – stringenti – che
non coincidono con quelli previsti per l’esercizio delle azioni a disposizione del privato
(si v. art. 61). Al riguardo, si ritiene quindi opportuno allineare la disciplina di tali misure
a quella dettata per il processo civile, stabilendo che tutte le misure cautelari perdono
efficacia se non esercitate nei termini perentori di legge e che i loro effetti perdurano
fino alla sentenza che definisce il merito. In tal modo si evita di onerare il privato a
presentare una pluralità di richieste cautelari che appesantirebbero il processo e ne
allungherebbero la durata. Tale previsione, peraltro, non pregiudicherebbe le posizioni
delle parti, in quanto alle stesse è comunque riconosciuta la possibilità di chiedere la
modifica del provvedimento cautelare nel caso in cui si verifichino mutamenti nelle
circostanze o emergano fatti non conosciuti al momento della concessione della misura
(art. 58).
Ulteriore criticità è rappresentata dalla previsione che se dalla decisione della domanda
cautelare derivino effetti irreversibili, la concessione della misura cautelare può essere
subordinata alla prestazione di una cauzione al momento della domanda di misura
cautelare.
Nel processo civile, invece, si prevede che l’imposizione della cauzione è contestuale
all’adozione del provvedimento cautelare, che decade automaticamente se la cauzione
non viene prestata (art. 669-undecies c.p.c.).
Anche in questo caso, sarebbe opportuno allineare la disciplina della tutela cautelare
con quella prevista dal codice di procedura civile prevedendo la prestazione della
cauzione al momento dell’adozione del provvedimento cautelare, pena la caducazione
automatica del provvedimento se la cauzione non viene versata dal privato.
Tale correttivo è diretto a tutelare il diritto di difesa dei privati, impedendo la creazione
in via normativa di ostacoli – di natura economica – al libero esercizio dei diritti e delle
relative azioni di tutela.
3.2. Fissazione dell’udienza di discussione
Lo schema di decreto mantiene la regola secondo cui la fissazione dell’udienza di
discussione della causa deve essere richiesta da una delle parti con apposita istanza
(art. 71).
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Tale disciplina presenta diversi profili di criticità, rappresentati dalla eccessiva
discrezionalità attribuita all’autorità giudiziaria nella gestione delle udienze, che incide
negativamente sulla ragionevole durata dei processi e sulla certezza dei tempi della
tutela giurisdizionale.
Ciò comporta anche una serie di ulteriori distorsioni processuali, dovute alla
proliferazione di istanze cautelari – spesso presentate in assenza dei presupposti di
legge al solo fine di ottenere una prima pronuncia per la tutela della posizione giuridica
vantata – che allungano i giudizi e aumentano il carico di lavoro per il giudice
amministrativo.
Per superare tali criticità, si ritiene opportuno prevedere il regime delle udienze fisse
come previsto nel processo civile. In questo modo, si consente alle parti di fissare le
udienze con l’atto introduttivo del giudizio, ferma restando la possibilità che il giudice
rinvii ad altra udienza fissata entro termini prestabiliti, evitando le incertezze e le
lungaggini processuali che attualmente caratterizzano i processi amministrativi.
3.3. Razionalizzazione dei riti speciali
Tra i criteri direttivi per l’esercizio della delega, assume rilevanza la revisione e la
razionalizzazione dei riti speciali e delle materie a cui essi si applicano.
In mancanza di un codice processuale, con la previsione di riti speciali il legislatore ha
cercato di adeguare gli strumenti processuali di cui dispone il privato ai cambiamenti
che hanno interessato il diritto amministrativo, dando risposte a istanze di tutela che il
processo d’annullamento non riusciva ad assicurare. Tuttavia, il loro proliferare negli
ultimi anni è stato eccessivo e disorganico, pertanto il legislatore in sede di delega ne
ha disposto la razionalizzazione.
Lo schema di Codice ha eliminato alcuni riti speciali superflui o in disuso e ne ha
mantenuti sei: il rito in materia di diritto d’accesso; il processo avverso il silenzio
inadempimento della PA; il procedimento per decreto ingiuntivo; il rito abbreviato; il rito
in materia di appalti pubblici, anche in vista del recepimento della Direttiva 2007/66/CE
(Direttiva Ricorsi); il rito relativo alle operazioni elettorali per le elezioni nelle Regioni,
Province e Comuni e per l’elezione dei membri del Parlamento Europeo. A questi riti
speciali, il Codice ne ha aggiunti altri due in materia elettorale.
La riduzione dei riti assume notevole rilevanza in quanto garantisce maggior certezza
circa gli strumenti di cui dispone il privato per tutelare le proprie posizioni giuridiche nei
confronti della PA. Il riordino dei riti deve rispondere alle esigenze degli operatori di
disporre di poche procedure, con regole chiare che garantiscano tempi certi per la
conclusione dell’iter. Infatti, è necessario che le nuove norme definiscano un assetto
stabile nel tempo, consentendo un’applicazione che si consolidi secondo principi
uniformi.
Lo schema di Codice non richiama tra i riti speciali quello disciplinato dal recente d. lgs
n. 198/2009, in materia di azione collettiva esperibile nei confronti della PA e dei
concessionari di servizi pubblici. Al riguardo, andrebbe valutata l'
opportunità di
introdurre questo particolare procedimento tra quelli espressamente fatti salvi dal
nuovo Codice, per le stesse esigenze di certezza sopra richiamate, assicurando in
questo modo coerenza sistematica all'
intervento.
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3.4. Misure per lo smaltimento dei processi arretrati
Lo schema di Codice contiene alcune misure per lo smaltimento dei processi pendenti
da più di cinque anni dalla sua entrata in vigore (All. 3).
In particolare, è previsto che per i processi per i quali non sia stata fissata l’udienza di
discussione, entro novanta giorni dall’entrata in vigore del Codice, le parti presentino
una nuova istanza di fissazione dell’udienza di discussione, pena la perenzione del
ricorso, disposta con decreto del Presidente del TAR. Entro novanta giorni dalla
comunicazione di tale decreto, le parti possono opporsi alla perenzione, manifestando
di avere ancora interesse alla trattazione della causa. In tal caso, il decreto del
Presidente viene revocato.
Lo schema di Codice elaborato dalla Commissione prevedeva, tra le norme transitorie,
anche l’istituzione presso i TAR di sezioni per la definizione dei ricorsi pendenti da più
di cinque anni dall’entrata in vigore del Codice, per i quali sia stato manifestato
l’interesse alla trattazione (cd. sezioni stralcio). La norma prevedeva che sarebbero
stati gli stessi giudici amministrativi, in linea con il carico di lavoro, a occuparsi della
risoluzione dei vecchi ricorsi, dietro il pagamento di una speciale indennità.
Il Governo ha eliminato tale previsione, senza prevedere specifiche competenze per i
ricorsi ultraquinquennali per i quali sia stato dichiarato l’interesse alla trattazione.
Si osserva al riguardo che il solo istituto della perenzione non è sufficiente a smaltire i
processi arretrati, in quanto quelli che rimangono pendenti necessitano comunque di
una risoluzione.
Lo strumento delle sezioni stralcio, incentivato dalla speciale indennità corrisposta ai
magistrati, avrebbe rappresentato un possibile rimedio all’ingolfamento delle aule e dei
ruoli dei TAR. Tale misura risulta tanto più necessaria se si considera che le misure
disposte dal Codice per accelerare i procedimenti e rendere effettive le tutele dei privati
rischiano di essere vanificati dalla presenza di un carico giudiziario pendente che non
consente ai giudici di implementare concretamente le nuove disposizioni.
Lo smaltimento dei giudizi arretrati assume rilevanza, in quanto la ragionevole durata
dei nuovi processi e l’effettiva funzionalità delle semplificazioni realizzate dal Codice
risultano compromessi dalla necessità di smaltire i giudizi ancora pendenti. Infatti, in
mancanza di efficaci meccanismi di smaltimento degli arretrati, i nuovi ricorsi andranno
ad accumularsi a quelli già pendenti e il sistema non riuscirà a funzionare in maniera
rapida ed efficiente.
Pertanto, sarebbe opportuno inserire nuovamente nel Codice la disposizione relativa
alle sezioni stralcio.
3.5. Disciplina della giurisdizione e della traslatio iudicii
L’art. 7 dello schema di Codice detta la nozione di giurisdizione amministrativa. La
norma stabilisce che la giurisdizione amministrativa è strettamente connessa
all’esercizio o al mancato esercizio di un potere. Pertanto, in essa rientrano le
controversie concernenti atti, provvedimenti, accordi o comportamenti riconducibili
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anche mediatamente a un potere amministrativo, posti in essere dalle pubbliche
amministrazioni e dai soggetti ad essa equiparati, tenuti al rispetto dei principi del
procedimento amministrativo.
È apprezzabile la scelta del legislatore di delineare i confini della giurisdizione del
giudice amministrativo. Tale norma, infatti, risulta particolarmente attenta a garantire il
principio del giudice naturale precostituito per legge (art. 25 Cost.) e la certezza
dell’organo giurisdizionale da adire.
Lo schema stabilisce che la giurisdizione amministrativa è esercitata dai TAR e dal
Consiglio di Stato e si articola in giurisdizione generale di legittimità, giurisdizione
esclusiva e giurisdizione estesa al merito.
Nel primo caso, il giudice amministrativo è chiamato a fornire ogni tipo di tutela, anche
risarcitoria, agli interessi legittimi (art. 7, co. 4). A tal fine egli può conoscere, senza
efficacia di giudicato e quindi in maniera non vincolante all’esterno del processo, di
tutte le questioni la cui risoluzione sia necessaria per la decisione del ricorso (art. 8).
Nel secondo caso, invece, il giudice amministrativo risolve anche le controversie aventi
ad oggetto diritti soggettivi, comprese quelle relative al risarcimento del danno ingiusto.
Le materie nella quali il giudice amministrativo ha giurisdizione esclusiva sono indicate
dalla legge. L’ art. 136 del Codice elenca alcune delle controversie devolute alla
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo (es. le controversie per il risarcimento
del danno derivante dall’inosservanza dei termini procedimentali, le controversie in
materia di DIA, di diritto d’accesso ai documenti amministrativi, le opposizioni alle
sanzioni amministrative irrogate dalle Autorità Amministrative Indipendenti, le
controversie in materia di appalti pubblici, comprese quelle risarcitorie e quelle relative
alla dichiarazione di inefficacia del contratto a seguito dell’annullamento
dell’aggiudicazione, ecc.).
L’art. 7, co. 6, prevede che il giudice amministrativo esercita giurisdizione con
cognizione estesa al merito nelle controversie indicate dall’art. 137 (controversie per
l’attuazione delle pronunce giurisdizionali esecutive, giudizio di ottemperanza, ecc.) e
dalla legge (es. art. 2, legge n. 241/1990 in materia di silenzio della PA, sia pure entro i
limiti indicati dall’art. 31 dello schema di decreto). Nel caso di giurisdizione di merito, il
sindacato del giudice amministrativo si estende al merito dell’esercizio dell’azione
amministrativa (opportunità e convenienza), pertanto, egli può addirittura sostituirsi
all’amministrazione.
Il Codice disciplina anche la traslatio iudicii, la conservazione degli effetti prodotti dalla
domanda presentata a un giudice privo di giurisdizione, introdotta dall’art. 59 della
legge n. 69/2009. In particolare, l’art. 11 fa salvi gli effetti processuali e sostanziali della
domanda giudiziale rispetto al momento in cui è stata proposta, se le parti riassumono
il processo davanti al giudice indicato nella pronuncia che decina la giurisdizione, entro
tre mesi dal suo passaggio in giudicato.
Tale disposizione rappresenta il superamento del principio dell’incomunicabilità tra
giudici appartenenti a ordini diversi e risulta conforme ai principi di certezza ed
effettività della tutela giurisdizionale. In tal modo, infatti, viene assicurata la possibilità
di concludere la vicenda processuale erroneamente iniziata davanti al giudice sfornito
di giurisdizione.
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Particolarmente positiva è anche la previsione sulla sopravvivenza delle misure
cautelari disposte dal giudice sfornito di giurisdizione (art. 11, co. 6), che consente di
evitare un vuoto di tutela nelle more della riassunzione del processo.
Infatti, è previsto che le misure cautelari concesse dal giudice privo di giurisdizione
rimangano efficaci fino a trenta giorni successivi alla pronuncia declinatoria della
giurisdizione.
Tuttavia, tale ultima previsione andrebbe coordinata con il sistema della traslatio iudicii,
che, come anticipato, ai fini della riassunzione del processo, dà rilevanza non alla
pubblicazione della sentenza che dichiara il difetto di giurisdizione, ma al suo
passaggio in giudicato.
Pertanto, sarebbe opportuno far decorrere da tale momento anche il termine di
sopravvivenza delle misure cautelari ed allineare il periodo di efficacia delle stesse a
quello per la riassunzione della domanda.
In tal modo, si eviterebbe che il privato rimanga sprovvisto della tutela cautelare nelle
more del termine per la riassunzione del nuovo processo davanti al giudice
competente.
Roma, 11 maggio 2010
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