CAPITOLO I INTRODUZIONE La nostra Costituzione riconosce la proprietà privata e la libertà d’iniziativa economica (Art. 41 e 42 Cost.) e perciò il nostro paese è tra quelli che hanno scelto un modello di sviluppo economico basato sull’economia di mercato. Modello che presuppone la libertà dei privati di dedicarsi alla produzione e distribuzione di quanto necessario per il soddisfacimento dei bisogni materiali della collettività; la libertà di competizione economica fra quanti operano sul mercato e la coesistenza di una pluralità di operatori economici. Nel nostro paese ad economia libera come negli altri e nell’epoca della civiltà industriale, assume un ruolo centrale l’attività dell’impresa. Di qui la necessità di una legislazione economica, non solo di diritto pubblico ma anche di diritto privato. Il diritto commerciale moderno è quella parte di diritto privato che ha per oggetto e regola l’attività e gli atti d’impresa. È diritto privato dell’impresa un complesso di norme riferite agli imprenditori, ai soggetti cioè che esercitano professionalmente attività economica. Esiste questo complesso di regole in quanto che il nostro paese ha un modello di sviluppo economico basato sull’economia di mercato. L’IMPRENDITORE La disciplina delle attività economiche ruota intorno alla figura dell’imprenditore, del quale il legislatore dà una definizione nell’Art. 2082 del Codice Civile. La disciplina non è però identica per tutti gli imprenditori. Non a caso il codice distingue diversi tipi d’imprese e d’imprenditori, in base a tre criteri: l’OGGETTO, la DIMENSIONE e la NATURA; l’OGGETTO dell’impresa determina la distinzione fra imprenditore agricolo (Art. 2135) e quello commerciale (Art. 2195). Riguardo alla DIMENSIONE s’individua il piccolo imprenditore (Art. 2083) e di riflesso quello medio grande. La NATURA del soggetto, che esercita l’impresa porta ad una divisione legislativa fra impresa individuale, quella in forma di società ed impresa pubblica. Tutti gli imprenditori, agricoli e commerciali, piccoli e grandi, hanno una disciplina di base comune, ossia lo STATUTO GENERALE 1 DELL’IMPRENDITORE, che comprende parte della disciplina dell’azienda e dei segni distintivi nonché la disciplina della concorrenza e del mercato. Chi è imprenditore commerciale non piccolo, è poi soggetto ad un ulteriore specifico statuto, integrativo a quello generale. Poche e scarsamente significative, sono le disposizioni del codice civile applicabili esclusivamente all’imprenditore agricolo e al piccolo imprenditore, in particolare questo ultimo è sottratto all’applicazione della disciplina dell’imprenditore commerciale (ad esempio non fallisce anche se esercita attività commerciale). LA NOZIONE GENERALE DELL’IMPRENDITORE È imprenditore chi esercita professionalmente un’attività economica organizzata al fine della produzione e dello scambio di beni o servizi, e si differenzia dal commerciante, che è una categoria minore d’imprenditore la cui attività consiste nello scambio di beni. (Due elementi fondamentali caratterizzano l’imprenditore: l’iniziativa, cioè il potere di organizzare l’impresa, di indirizzarne l’attività decidendone la politica economica e dirigere la produzione; il rischio cioè la sopportazione di tutti gli oneri inerenti alla conduzione dell’impresa. Il rischio economico è che il ricavato del prodotto finito non possa coprire i costi). L’Art. 2082 fissa i requisiti minimi che ci devono essere perché ad un dato soggetto si possono applicare le norme del codice per l’impresa e l’imprenditore. Dall’Art. si ricava che l’impresa è attività (serie d’atti) ed è attività caratterizzata da uno specifico scopo (produzione o scambi di beni) sia da specifiche modalità di svolgimento ossia professionalità …… Si discute se altri requisiti, vedi l’intento dell’imprenditore di ricavare un profitto o la destinazione ad un mercato, anche se non citati espressamente, siano necessari perché si abbia attività d’impresa ed acquisto della qualità dell’imprenditore. 2 L’ATTIVITÀ PRODUTTIVA L’impresa è attività, serie d’atti finalizzata alla produzione o scambio di beni o servizi, dunque è attività produttiva di nuova ricchezza. Irrilevante è invece la natura dei beni prodotti nonché il tipo di bisogno che essi sono destinati a soddisfare; quindi può costituire attività d’impresa anche la produzione di servizi di natura assistenziale, culturale (come case di cura, confitti). È altresì irrilevante che l’attività produttiva costituisce anche godimento di beni preesistenti, di certo non è impresa l’attività di mero godimento, attività che non dà luogo alla produzione di nuovi beni, classico è l’esempio del proprietario di immobili che né gode i frutti concedendoli in locazione. Egli non è imprenditore perché non produce nuove attività economiche, ma si limita a godere i frutti dei propri beni. Un’ attività può però costituire allo stesso tempo godimento di beni preesistenti e produzione di nuovi beni, in tal caso in presenza di altri requisiti, secondo l’Art. 2082, si acquista la qualità d’imprenditore. Così è attività di godimento e produttiva di servizi l’attività del proprietario di un immobile che usa lo stesso ad albergo, pensione o residenza. In tal caso le prestazioni locative sono accompagnate dall’erogazione di servizi collaterali (pulizie locali, cambio biancheria) che vanno al di là del mero godimento del bene. Ancora è godimento del proprio patrimonio e attività di produzione, l’impiego del proprio denaro nella compravendita di azioni o titoli di stato con scopo d’investimenti o di speculazione o nella concessione di finanziamenti a terzi. Perciò questi atti, quando siano coordinati in modo da configurare un’attività, possono dar vita ad un impresa se ricorrono i requisiti dell’organizzazione e professionalità. Così sono imprese commerciali le società finanziarie, società che erogano credito con mezzi propri o comunque non raccolti fra il pubblico e che per tale motivo non sono considerate imprese bancarie. È opinione ormai prevalente che la qualità d’imprenditore deve essere riconosciuta anche quando l’attività produttiva svolta è lecita, cioè contraria a norme imperative, all’ordine e al buon costume. Questo sia nei casi meno gravi in cui vengono violate norme che sono subordinate a condizione per l’esercizio di questa attività, ad esempio commercio all’ingrosso senza licenza, sia nei casi più gravi quando illecito è lo stesso oggetto dell’attività, ad esempio commercio di droga. Chi svolge attività d’impresa 3 violando la legge non potrà avvalersi delle norme che tutelano l’imprenditore nei confronti dei terzi e ciò in applicazione di un principio generale dell’ordinamento: da un comportamento illecito non possono mai derivare effetti favorevoli per il suo autore. Del resto non si è mai visto uno spacciatore di droga o un contrabbandiere che si rivolge ad un tribunale per regolare i conti con un concorrente. L’ORGANIZZAZIONE: IMPRESA E LAVORO AUTONOMO Non è concepibile attività d’impresa senza programmare e coordinare i fattori produttivi: capitale e lavoro propri e altrui. È tipico pensare che la funzione organizzativa dell’imprenditore sia formata da un apparato produttivo stabile e complesso, formato da persone e beni strumentali (macchinari, locali, materie prime). È questo il tipico aspetto del fenomeno imprenditoriale sottolineato dal legislatore, quando qualifica l’impresa come attività organizzata e definisce azienda il complesso di beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa (Art. 2255). Dopo aver visto la funzione tipica dell’imprenditore, si analizza vari casi dove non necessariamente l’organizzazione presuppone prestazioni lavorative altrui. È imprenditore anche chi opera utilizzando solo il fattore capitale ed il proprio lavoro senza dar vita ad alcuna organizzazione, ad esempio una gioielleria gestita dal titolare che opera senza alcun dipendente. Allo stesso modo si è rilevato che il concetto di organizzazione non necessita della creazione di un apparato strumentale (locali, macchinari, mobili). È vero che non vi può essere impresa senza impiego ed organizzazione di mezzi materiali, ma questi possono ridursi al solo impiego di mezzi finanziari propri, ad esempio ciò si verifica per le attività di finanziamento o di investimento. Quindi si pone il problema se si possa parlare d’impresa anche quando il processo produttivo si fonda esclusivamente sul lavoro personale dell’imprenditore, quando cioè non vengono utilizzati né lavoro altrui né capitali. Infatti, sono imprenditori sia pure piccoli gli elettricisti, gli idraulici etc. Tuttavia la semplice organizzazione a fini produttivi del proprio lavoro non può essere considerata organizzazione di tipo imprenditoriale in mancanza di un coefficiente minimo di etero – organizzazione. Alcuni autori ribaltano il discorso considerando imprenditore 4 anche chi si limita ad organizzare il proprio lavoro senza impiegare né lavoro altrui né capitali, quindi è imprenditore chi svolge attività organizzata prevalentemente con il lavoro proprio e dei componenti della famiglia (Art. 2083 Codice Civile “piccolo imprenditore”). Questa tesi non è condivisibile perché contrasta con la comune valutazione sociale, in quanto avverte che altro è organizzare il proprio lavoro (cose che tutti facciamo); altro è organizzare un’attività d’impresa. ECONOMICITÀ DELL’ATTIVITÀ L’Art. 2082 dice che è imprenditore chi esercita un attività economica organizzata al fine della produzione di beni o servizi. Per attività in senso ampio si intende una serie coordinata di atti per un conseguimento di uno stesso fine. È attività economica, l’attività astrattamente lucrativa, cioè quella che può ma non deve procurare lucro. L’attività produttiva può dirsi condotta con metodo economico, quando è svolta con modalità che consentono nel lungo periodo la copertura dei costi con i ricavi, altrimenti si ha consumo e non produzione di ricchezza. Non è perciò imprenditore chi soggetto privato o pubblico che produca beni che vengono erogati gratuitamente o a prezzo politico, cioè da far escludere la possibilità di coprire i costi con i ricavi. È imprenditore chi gestisce gli stessi servizi con metodo economico (copertura dei costi con i ricavi). LA PROFESSIONALITÀ Un altro dei requisiti richiesti dall’Art. 2082 per essere imprenditori è la PROFESSIONALITÀ. Professionalmente vuole indicare che l’attività deve essere costante e sistematica (non occasionale). Professionalità significa quindi esercizio abituale e non occasionale di una data attività produttiva. Non è perciò imprenditore chi compie un’isolata operazione d’acquisto e successiva rivendita di merci, dato che in tal caso non si può parlare neppure di attività. Non è imprenditore neppure chi compie una pluralità di atti economici coordinati e circostanze oggettive dimostrano palesemente il carattere non abituale ed occasionale dell’attività. Ad esempio non è imprenditore chi organizza un singolo servizio di trasporto. La professionalità non 5 implica che l’attività imprenditoriale debba essere necessariamente svolta in modo continuato e senza interruzione, ad esempio attività stagionali, fabbriche alimentari di pomodori. La professionalità non implica neppure che quella d’impresa sia l’attività unica o principale, è imprenditore anche il professore, un impiegato che insieme alla sua professione, gestisce un negozio. È possibile anche il contemporaneo esercizio di più attività d’impresa, ad esempio agricola e commerciale da parte dello stesso soggetto. Impresa si può avere anche quando si opera per il compimento di un unico affare, quando per la sua rilevanza economica implichi il compimento di operazioni molteplici e l’utilizzo di un apparato produttivo, idoneo ad escludere il carattere occasionale, ad esempio il costruttore di un edificio e vendita degli appartamenti realizzati. SCOPO DI LUCRO Resta da vedere, dopo aver esposto i requisiti richiesti dalla legge, se altri c’è ne sono per qualificare un soggetto come imprenditore. Un primo punto controverso è quello se costituisce requisito essenziale conseguire un guadagno o profitto: lo scopo di lucro. Secondo alcuni autori non è necessario che il soggetto percepisca un lucro, ma occorre che l’attività sia astrattamente lucrativa, cioè capace di procurare un guadagno, indipendentemente dal fatto che lo produca o meno, ossia quella attività economica che può ma non deve procurare lucro. Altri autori, la maggioranza ritengono che lo scopo di lucro non sia un elemento essenziale dell’attività. L’impresa è esercitata dal fine di ricavare i mezzi necessari di sostentamento per l’imprenditore; il fine di lucro esula gli scopi dell’impresa. CAMPOBASSO ritiene più che scopo di lucro quello che è essenziale all’impresa, è l’obiettiva economicità della sua gestione, cioè la capacità di ricavare dall’attività svolta quando occorre per coprire con i ricavi i costi di produzione. 6 IL PROBLEMA DELL’IMPRESA PER CONTO PROPRIO Le imprese operano di regola per il mercato, destinano cioè allo scambio i beni o servizi prodotti. Può essere considerato imprenditore colui che produce beni destinati ad uso personale? È impresa anche la cosiddetta impresa per conto proprio? La destinazione al mercato della produzione non è in verità richiesta da alcun dato legislativo. Anzi l’Art. 2082 è chiaro: è imprenditore chi esercita professionalmente un’attività economica organizzata al fine della produzione e dello scambio di beni o servizi, perciò attraverso un’interpretazione letterale si sostiene che è imprenditore anche quello per conto proprio. Tuttavia è prevalente l’opinione contraria, per il ruolo significativo della concezione economica dell’imprenditore come soggetto che svolge una funzione intermediaria fra i proprietari dei fattori produttivi e i consumatori. Si arriva alla conclusione che l’impresa per conto proprio non è impresa. IMPRESA E PROFESSIONE INTELLETTUALE Il libero professionista, gli artisti, gli inventori non sono mai in quanto tali imprenditori, tanto si desume dall’Art. 2238 del codice civile, il quale stabilisce che le disposizioni in tema di impresa si applicano alle professioni intellettuali solo se l’esercizio della professione costituisce elemento di un’attività organizzata di un impresa. I liberi professionisti, artisti diventano imprenditori solo se la professione intellettuale è esercitata nell’ambito di un’altra attività qualificabile come impresa. È il caso del medico che gestisce una clinica privata dove opera, il professore titolare di una scuola privata dove insegna. In tutti questi casi si è in presenza di due distinte attività: intellettuale e di impresa. Il professionista intellettuale, che si limita a svolgere la propria attività, non diventa mai imprenditore. Non lo diventa neanche nell’ipotesi in cui si avvalga di una schiera di collaboratori, si pensa ai grandi studi di avvocati o notai. Secondo alcuni autori, i professionisti, artisti non sono imprenditori per libera scelta del legislatore, secondo altri autori l’esclusione risiede nel fatto che le prestazioni intellettuali non sono beni o servizi in senso tecnico – giuridico; secondo altri, ciò che li esclude dalla categoria di imprenditori è il fatto che essi non assumano nell’esercizio delle proprie attività quel rischio del lavoro caratteristico 7 della figura dell’imprenditore. Infatti, l’Art. 2230 che disciplina il contratto d’opera intellettuale, parla dell’obbligazione di mezzi e non di risultato, cioè il libero professionista si impegna a prestare la propria opera ed ha diritto al compenso a prescindere dal risultato ottenuto, il cui rischio grava sull’altra parte. L’IMPRENDITORE OCCULTO Sorge il problema del cosiddetto imprenditore occulto; talvolta nella pratica l’imprenditore non agisce, ma non volendo apparire esercita la propria attività servendosi di un altro soggetto “Prestanome”. In quest’ipotesi quale dei due soggetti può considerarsi imprenditore? Alcuni autori affermano che imprenditore è colui nel cui nome l’attività viene esercitata. Altri studiosi affermano che solo il prestanome acquista la qualità di imprenditore, responsabili verso i creditori sarebbero però entrambi, poiché colui che esercita in concreto la direzione di un’impresa deve assumerne necessariamente anche il rischio e rispondere delle relative obbligazioni. IMPRENDITORE AGRICOLO E IMPRENDITORE COMMERCIALE L’imprenditore agricolo ed imprenditore commerciale sono le due categorie d’imprenditori che il codice distingue in base all’oggetto dell’attività. Chi è imprenditore agricolo è sottoposto solo alla disciplina prevista per l’imprenditore in generale, quindi gode di un trattamento di favore rispetto all’altro, trattamento di favore che è accentuato dalla legislazione speciale attraverso una serie d’incentivi ed agevolazioni. Ora stabilire se un dato imprenditore è agricolo o commerciale, serve a definire l’ambito di operatività di tale trattamento di favore. Il testo dell’Art. 2135 prescrive che si possono individuare due categorie d’attività agricole: ATTIVITÀ AGRICOLE ESSENZIALE e ATTIVITÀ PER CONNESSIONE. Le prime sono quelle che riguardano la coltivazione del fondo, silvicoltura e allevamento di bestiame, attività che hanno subito una profonda evoluzione dal ’42 ad oggi a causa del progresso tecnologico. L’impresa agricola fondata sullo sfruttamento della produttività della terra ha ceduto il passo all’agricoltura industrializzata che utilizza prodotti chimici (concimi, diserbanti), per aumentare la produttività. Si pensi alle 8 coltivazioni artificiali, vedi quelli degli ortaggi e funghi, attraverso soluzioni chimiche; agli allevamenti in batteria vedi il pollame, etc. Oggi, in breve, anche l’attività agricola può dar luogo ad ingenti d’investimenti di capitali. Che l’imprenditore agricolo sia esonerato dalla disciplina delle imprese commerciali, che sia sempre sottratta al fallimento, diventa una scelta legislativa che lascia insoddisfatti molti interpreti. È necessario stabilire fino a che punto l’evoluzione tecnologica dell’agricoltura sia compatibile con la qualificazione agricola dell’impresa agli effetti della legge. L’attuale riforma dell’Art. 2135 ribadisce che è imprenditore agricolo chi esercita una delle seguenti attività: coltivazione del fondo, selvicoltura, allevamento di animali e attività connesse. Subito specifica, però, per coltivazione del fondo, selvicoltura e allevamenti di animali s’intendono le attività dirette alla cura e allo sviluppo di un ciclo biologico di carattere vegetale o animale, che utilizzano o possono utilizzare il fondo, il bosco o le acque. In base alla nuova nozione si deve ritenere che la produzione di specie vegetali ed animali è sempre qualificabile come attività agricola essenziale, anche se realizzata con metodi che prescindono del tutto dallo sfruttamento della terra e dei suoi prodotti. Quindi ne consegue che si possono far rientrare oggi come ieri nella nozione di coltivazione di fondo l’orticoltura, le coltivazione in serra o i vivai. In oltre, in base alla nuova nozione, danno vita ad impresa agricola anche le coltivazioni fuori terra di ortaggi e frutta. Per selvicoltura s’intende quella particolare attività agricola diretta alla produzione del legno, quindi una complessa attività di coltivazione. Non rientra tra i selvicoltori chi si limita ad accogliere il legname prodotto dal bosco. L’allevamento di animale è la forma di attività agricola essenziale più ricca, ed è quella che, in passato, ha raccolto più contrasti. Il criterio del ciclo biologico oggi ha accolto dal legislatore, riconosce che la zootecnia costituisce attività agricola essenziale svolta fuori dal fondo (allevamenti in batteria). Inoltre si deve intendere per allevamento di animali non solo l’allevamento diretto ad ottenere prodotti tipicamente agricoli: carne, latte ed animali da lavoro, potendosi oggi far rientrare nella nozione di animale quelli di cavalli da corsa o da pelliccia. Ancora la sostituzione del termine “bestiame” con quello di “animali” fa rientrare come impresa agricola essenziale non solo 9 l’allevamento di animali tradizionalmente allevati, vedi ovini, bovini e suini, ma anche l’allevamento di animale da cortile come polli, conigli e l’acquacoltura (pesci, militi). Infine l’imprenditore agricolo è stato equiparato a quello ittico, vale a dire l’imprenditore che esercita un’attività diretta alla cattura e raccolta di organismi acquatici. LE ATTIVITÀ AGRICOLE PER CONNESSIONE La seconda categoria di attività agricole è costituita dalle attività agricole per connessione. S’intendono connesse: Le attività dirette alla manipolazione, conservazione, trasformazione, commercializzazione e valorizzazione di prodotti ottenuti da un’attività agricola essenziale; Le attività dirette alla fornitura di beni e servizi mediante l’utilizzo di attrezzature o risorse impiegate nell’attività agricola essenziale. È industriale e non agricoltore chi produce olio o formaggi; è commerciante e non agricoltore chi ha un negozio di frutta e verdura. Due sono le condizioni necessarie a qualificare un’attività commerciale come agricola per connessione; è necessario che il soggetto che la esercita sia imprenditore agricolo in quanto svolge in forma di impresa una delle tre attività agricole tipiche ed inoltre attività coerente con quella connessa. È imprenditore commerciale chi trasforma prodotti agricoli altrui, parimenti lo è il viticoltore che produce formaggi. Resta imprenditore agricolo il viticoltore che produce vino. La connessione soggettiva non è però sufficiente, necessario che ricorra anche una connessione oggettiva tra le due attività, infatti è necessario e sufficiente che si tratti solo di attività aventi solo per oggetto prodotti ottenuti dall’esercizio dell’attività agricola ed essenziale. È sufficiente che le attività connesse non prevalgano per il rilievo economico sull’attività agricola essenziale. 10 IMPRENDITORE COMMERCIALE È chi esercita una o più delle seguenti categorie di attività elencate dall’Art. 2195. 1. Attività industriale diretta alla produzione di beni o servizi (questo è il vasto settore dell’impresa industriale – automobilistiche chimiche, tessili – ) 2. Attività intermediaria nella circolazione dei beni (questo un altro vasto settore del commercio, il commerciante acquista beni e li rivende – commercio all’ingrosso – o ai consumatori – commercio al minuto – ) 3. Attività di trasporto per terra, acqua o aria (le imprese di trasporto producono servizi, servizi specifici che consistono nel trasportare in un luogo persone o altro, quindi è produzione di servizio ) 4. Attività bancarie o assicurative (l’impresa bancaria ha per oggetto tipico la raccolta di risparmio tra il pubblico e l’esercizio di credito. L’attività bancaria è in sostanza attività di scambio di particolare bene chiamato DENARO. Anche le imprese di assicurazioni a sua volta producono specifici servizi e possono essere attività industriali) 5. Altre attività ausiliarie, rientrano in questa categoria le imprese di agenzia, di mediazione, di deposito, di pubblicità e quant’altro. Imprese che possono qualificarsi come produttrici di servizi e che rientrano nella prima categoria. PICCOLO IMPRENDITORE – IMPRESA FAMILIARE Un’altra particolare distinzione tra l’impresa è quella che tiene conto delle dimensioni, a tal fine si distingue tra PICCOLA, MEDIA e GRANDE IMPRESA. Il piccolo imprenditore è sottoposto allo statuto generale dell’imprenditore con un’eccezione (Art. 1330) – morte o incapacità dell’imprenditore: la proposta o l’accettazione, quanto è fatta dall’imprenditore nell’esercizio della sua impresa, non perde efficacia se l’imprenditore muore o diventa incapace prima della conclusione del contratto salvo che si tratta di un piccolo imprenditore. Tale norma assicura continuità nei rapporti di imprese medio – grandi. È invece esonerato anche se esercita attività commerciale alle tenute delle scritture contabili - non può essere sottoposto, in caso di insolvenza, alla procedura fallimentare – iscrizione nel registro 11 d’impresa. L’Art. 2083 del codice civile precisa che sono piccoli imprenditori i coltivatori diretti del fondo, gli artigiani, i piccoli commercianti, coloro che esercitano un’attività professionale organizzata prevalentemente con il lavoro proprio e dei componenti della famiglia. Per aversi piccole imprese è necessario che l’imprenditore presti il proprio lavoro nell’impresa, il suo lavoro è quello dei familiari prevale sia rispetto al lavoro altrui sia al capitale investito nell’impresa. Non è perciò mai piccolo imprenditore chi investe ingenti capitali nell’impresa ad esempio il gioielliere, anche se si avvale di collaboratori. IMPRESA ARTIGIANA La legge n. 860 del ’56 definiva artigiana l’impresa che risponde ai seguenti requisiti - Produce beni o servizi di natura artistica; - Organizzata con il lavoro proprio o con i suoi familiari; - Gestita a rischio e pericolo del titolare con eventuale personale, purché diretto dal titolare dell’impresa. L’impresa artigiana ha trovato nuova regolamentazione nella legge quadro per l’artigianato n. 443 del ’85, che ha abrogato la precedente normativa. È imprenditore artigiano chi esercita personalmente, professionalmente e in qualità di titolare l’impresa artigiana e ne assume la piena responsabilità con tutti gli oneri e i rischi e svolgendo in misura prevalente il proprio lavoro nel processo produttivo. La legge prevede che l’impresa possa svolgersi in luogo fisso, presso l’abitazione dell’imprenditore o di uno dei soci o nei locali appositi o in forma ambulante. In ogni caso l’imprenditore artigiano può essere titolare di una sola impresa. La legge n. 443 ha ribadito l’aspetto essenziale dell’impresa artigiana cioè la presenza diretta del lavoro anche manuale dell’artigiano che deve sempre dirigere personalmente l’impresa. Nel ’97 la legge n. 133 ha adeguato la disciplina delle imprese artigiane a livello europeo, ed ha ampliato la categoria. È scomparsa ogni riferimento alla natura artistica o usuale dei beni o servizi prodotti, qualificando artigiane le imprese di costruzione edili, elevando il numero massimo di dipendenti, consente di conservare la qualifica artigiana anche raggiungendo le dimensioni di una piccola industria di 12 qualità. Inoltre la qualifica d’impresa artigiana è riconosciuta anche alla società a responsabilità limitata e a quella in accomandita semplice. IMPRESA FAMILIARE È impresa familiare l’impresa nella quale collaborano il coniuge, i parenti entro il terzo grado fino ai nipoti e gli affini entro il secondo grado dell’imprenditore, cosiddetta FAMIGLIA NUCLEARE. L’impresa familiare non va confusa con la piccola impresa, è frequente che la piccola impresa sia anche impresa familiare, ma anche una media grande impresa può essere impresa familiare. Il lavoro familiare, nell’impresa, era ed è fenomeno diffuso, fenomeno che prima della riforma del diritto di famiglia poteva dar luogo a grandi abusi, in quanto il lavoro familiare si presumeva prestato a titolo gratuito. Il legislatore ha realizzato la par conditio dei familiare in proporzione alla qualità e alla quantità del lavoro prestato, equiparando il lavoro della donna a quello dell’uomo. La disciplina è nata per tutelare i membri più deboli della famiglia e per intervenire nei casi di sfruttamento del lavoro. La legge non prescrive un numero minimo di partecipanti, per cui potrà aversi impresa familiare anche se il titolare ammetta a partecipare un solo familiare. IMPRESA SOCIETARIA Esistono diversi tipi di società e la società semplice è utilizzabile solo per l’esercizio di attività non commerciabile, mentre gli altri tipi di società possono svolgere sia attività agricola sia commerciale. Sono esonerate le società commerciali che gestiscono un’impresa agricola al fallimento e dalle altre procedure concorsuali. Le società non hanno mai piccoli imprenditori. IMPRESE PUBBLICHE Attività d’impresa può essere svolta anche dallo stato e dagli altri enti pubblici. Ci sono 3 possibili forme d’intervento dei pubblici poteri: 1. lo Stato, 13 2. la Pubblica Amministrazione che può dar vita ad enti di diritto pubblico, sono questi i cosiddetti Enti Pubblici Economici che almeno fino al 1990 costituivano il nucleo centrale delle imprese pubbliche vedi il Banco di Napoli, l’Enel, l’INA, l’IRI ed altri, 3. le imprese organo, cioè un ente pubblico territoriale (Regione, Provincia e Comune) che possono svolgere direttamente attività di imprese servendosi di proprie strutture organizzative; esempi sono le aziende municipalizzate vedi acqua, gas e trasporti. Gli Enti Pubblici che svolgono attività commerciale sono sottoposte allo Statuto generale dell’imprenditore. A partire dagli anni 90 è in atto un processo di privatizzazione delle imprese pubbliche per ridurre la spesa pubblica e per rendere una gestione imprenditoriale più efficiente. ATTIVITÀ COMMERCIALE DELLE ASSOCIAZIONI E FONDAZIONI Le associazioni riconosciute e non, le fondazioni e gli enti privati con fini altruistici vedi enti religiosi possono svolgere attività commerciale qualificabile come attività d’impresa. Infatti, per aversi impresa essenziale è che l’attività produttiva venga condotta con metodo economico. CAPITOLO III ESERCIZIO DIRETTO DELL’ATTIVITÀ D’IMPRESA Diventa imprenditore colui che esercita personalmente l’attività d’impresa compiendo in proprio nome gli atti relativi. Non diventa imprenditore il soggetto che gestisce l’altrui impresa, quando operi spendendo il nome dell’imprenditore per effetto del potere di rappresentanza conferitogli dall’interessato o riconosciutogli dalla legge. Perciò, quando gli atti d’impresa sono compiuti tramite rappresentante (volontario o legale), imprenditore diventa il rappresentato e non il rappresentante. 14 LA TEORIA DELL’IMPRENDITORE OCCULTO L’esercizio d’attività d’impresa può dar luogo ad un fenomeno analogo a quello determinato dal compimento di singoli atti giuridici attraverso un mandatario senza rappresentanza. Un fenomeno molto diffuso è quando un soggetto compie, in proprio nome, i singoli atti d’impresa ma non è il vero imprenditore, il cosiddetto IMPRENDITORE PALESE o PRESTANOME, ma in realtà non è il Prestanome che compie i singoli atti d’impresa ma un altro soggetto, non palesandosi come imprenditore a terzi, il cosiddetto IMPRENDITORE OCCULTO o INDIRETTO. Questo modo di operare non dà problemi, quando gli affari vanno bene e i creditori sono pagati regolarmente dall’imprenditore palese. I problemi nascono, quando gli affari vanno male ed il soggetto utilizzato, come spesso accade, è una persona nullatenente, una società per azioni con capitale irrisori cioè le cosiddette SOCIETÀ DI COMODO. Questo è un modo fraudolento di operare e può essere causa di una serie di dissesti a catena, dato che i creditori sono spesse volte imprenditori. La teoria dell’imprenditore occulto ha affermato che il dominus (padrone) di un’impresa fallirà sempre e comunque se fallisce il prestanome, quindi c’è piena parificazione di responsabilità di chi agisce di fronte a terzi e di chi sta dietro le quinte. L’INIZIO DELL’IMPRESA La qualità d’imprenditore si acquista con l’effettivo inizio dell’esercizio dell’attività d’impresa. Non è sufficiente l’intenzione di dare inizio all’attività, anche se è manifestata con le autorizzazioni e con le iscrizioni negli albi o nei registri. La stessa iscrizione nel registro delle imprese non è condizione necessaria né sufficiente per attribuire la qualità di imprenditore commerciale. LA FINE DELL’IMPRESA Anche la fine dell’impresa è dominata dal principio di effettività, la qualità d’imprenditore si perde solo con l’effettiva cessazione dell’attività e con la chiusura della liquidazione. Gli avvisi al pubblico, la cancellazione dei registri dell’impresa non determinano di per sé la perdita della qualità dell’imprenditore. Presenta 15 particolare rilievo l’esatta determinazione del giorno di cessazione dell’attività in quanto che l’Art. 10 della legge fallimentare prevede che lo stesso può essere dichiarato fallito entro un anno dalla cessazione dell’attività. È da tener presente che la fine dell’impresa è preceduta da una fase di liquidazione durante la quale l’imprenditore finisce il ciclo produttivo, vende le giacenze e gli impianti, licenzia i dipendenti, definisce le pendenze. INCAPACITÀ E INCOMPATIBILITÀ La capacità all’esercizio di attività d’impresa si acquista con la piena capacità di agire e quindi al compiere del 18esimo anno di età, si perde in seguito ad interdizione o inabilitazione. Il minore o l’incapace che esercita attività d’impresa non acquista la qualità d’imprenditore, ferma restando gli atti compiuti. Infatti, il minore che ha nascosto la sua minore età, non diventa imprenditore, anche se i contratti conclusi non sono annullabili. Le norme che regolano la capacità di agire sono poste a tutela degli incapaci, l’assolutamente incapace non può in nessun caso iniziare un’attività; può invece continuare l’esercizio di un’impresa se avuta per successione dietro autorizzazione del tribunale. Anche l’inabilitato può soltanto continuare l’esercizio dell’impresa se autorizzato dal tribunale su parere del giudice. CAPITOLO IV LO STATUTO DELL’IMPRENDITORE L’imprenditore commerciale ha una particolare disciplina, in parte comune, agli altri imprenditori, vedi lo statuto generale dell’imprenditore e in parte propria e specifica lo statuto speciale dell’imprenditore commerciale. Infatti, il legislatore ha predisposto un apposito corpo di norme, ossia lo statuto dell’imprenditore commerciale. La disciplina delle imprese commerciali è contenuta nel V libro del Codice Civile e comprende al capo III le norme circa l’iscrizione nel registro delle imprese (che è lo strumento di pubblicità legale disposto all’Art. 2188 attraverso cui il legislatore ha ritenuto fornire informazioni su dati e fatti importanti dell’impresa a coloro i quali vengono in contatto con esse); e disposizioni in tema di 16 rappresentanza, scritture contabili e così via. Tutte le persone che operano sul mercato, avvertono la necessità da sempre di poter disporre con facilità d’informazione veritiere su fatti e situazioni delle imprese con cui entrano in contatto. Lo stesso legislatore ha introdotto un sistema di Pubblicità Legale, cioè ha previsto l’obbligo di rendere pubblica con forme e modalità i fatti relativi alla vita dell’impresa. Il registro delle imprese è lo strumento di pubblicità legale delle imprese non piccole e delle società commerciali previste dal codice civile del ’42. Questo istituto per oltre 50 anni è stato inoperante perché mancante del regolamento di attuazione. Durante questi anni si è andato avanti con il regime transitorio, basato sull’iscrizione nei regimi di cancelleria presso i tribunali. Un sistema di pubblicità legale che sostituiva il registro delle imprese, operava solo per le imprese commerciali. In attesa del registro delle imprese furono introdotte nuove forme di pubblicità per le società di capitali e quelle cooperative. Per le prime, nel ’69, fu prevista la pubblicazione nel Bollettino Ufficiale delle società per azioni e a responsabilità limitata (BUSARL); per le seconde, nel ’73 fu introdotta la pubblicazione nel bollettino ufficiale delle società cooperative (BUSC). Quindi da tempo vi era la necessità di una radicale riforma. Nel 1993 con la 580 si è sbloccata la situazione, questa legge contiene norme per il riordino delle camere di commercio. L’Art. 8 di tale legge ha istituito il Registro delle Imprese, che è divenuto operante pienamente nel ’97 e nello stesso tempo ha cessato di esistere il Registro delle Ditte e dal 1 Ottobre del 1997 sono state soppressi il BUSARL e il BUSC. Quindi il Registro delle Imprese oggi è l’unico strumento di Pubblicità Legale, però la nuova disciplina del registro ha introdotto alcune novità rispetto al sistema previsto dal codice del ’42. Non a caso il registro delle imprese è diventato non solo lo strumento di pubblicità legale delle imprese commerciali come previsto dal codice, ma con la riforma del ’93 anche strumento d’informazione sui dati organizzativi di tutte le altre imprese. Infatti, l’iscrizione nel registro è stata estesa ad imprenditori agricoli, piccoli imprenditori e società semplici. La tenuta del registro è affidata alle Camere di Commercio, in ultimo il registro delle imprese è tenuto con tecniche informatiche ed è istituito in ogni provincia presso la Camera del Commercio. Il registro presenta una 17 sezione ordinaria ed una speciale. Nella sezione ordinaria sono iscritti gli imprenditori non agricoli. Sono tenuti all’iscrizione nella sezione ordinaria gli imprenditori individuali commerciali non piccoli, le società tranne quelle semplici, i consorzi fra gli imprenditori, i gruppi europei d’interesse economico con sede in Italia, gli Enti Pubblici, le società estere. Mentre nella sezione speciale quelli che secondo il Codice Civile ne erano esonerati. Gli articoli 2196-97-98 e 2200 specificano i fatti e gli atti da registrare, vedi i dati anagrafici dell’imprenditore, ditta, oggetto, sede principale e secondaria, inizio e fine dell’attività. Le iscrizioni devono essere fatte nel registro delle imprese, della provincia in cui l’impresa ha sede. L’iscrizione è eseguita su domanda dell’interessato ma può avvenire anche d’ufficio se l’iscrizione è obbligatoria. L’ufficio del registro prima di procedere all’iscrizione, è tenuta a controllare che la documentazione è regolare nonché la veridicità dell’atto. Per essere accessibile a tutti, viene inserita nella memoria di elaboratori elettronici e ciascuno ufficio rilascia anche per corrispondenza certificati e copie di atti. L’inosservanza dell’obbligo di registrazione è punita per legge con sanzioni pecuniarie e indirette, vedi l’esclusione dal beneficio del concordato preventivo. Di regola l’iscrizione nella sezione ordinaria presenta efficacia dichiarativa cioè i fatti e gli atti soggetti ad iscrizione sono opponibili a chiunque, intervenuta la legislazione, i terzi non potranno eccepire l’ignoranza del fatto o dell’atto iscritto. L’omessa iscrizione impedisce che il fatto possa essere opposto ai terzi, gli imprenditori che hanno omesso la registrazione può provare che i terzi hanno avuto conoscenza effettiva del fatto o dell’atto perché comunicato loro ad esempio per lettera. L’iscrizione può avere efficacia costitutiva vedi l’iscrizione nel registro delle imprese delle società di capitali e di quelle cooperative. In altri casi l’iscrizione, pur non avendo efficacia costitutiva ha un’efficacia normativa. L’iscrizione alla sezione speciale del registro aveva solo funzione di certificazione anagrafica e di pubblicità notizia, cioè l’iscrizione consente di prendere conoscenza dell’atto ma non lo rende di per sé opponibile ai terzi, dovendosi a tal fine provare l’effettiva conoscenza da parte degli stessi. Resta netta la differenza sotto il profilo della pubblicità fra imprese soggette allo statuto dell’imprenditore commerciale (Sez. Ord.) e altre imprese (Sez. 18 Spec.). Questa disciplina è stata di recente modificata per gli imprenditori agricoli piccoli e per le società semplici, infatti, l’Art. 2 della Legge 228 del 2001 ha stabilito che per tali categorie l’iscrizione nella Sezione Speciale ha anche efficacia di pubblicità legale, quindi è stata cancellata la diversità di disciplina tra l’imprenditore agricolo e quello commerciale. Inoltre è stata istituita un’apposita Sezione Speciale relativa alle società tra professionisti nella quale si iscrivono le società tra avvocati. Oggi perciò è venuta meno la distinzione netta fra Sezione Ordinaria e Speciale introdotta dalla riforma del ’93. LE SCRITTURE CONTABILI sono i documenti che contengono la rappresentazione in termini quantitativi e monetari, i singoli atti d’impresa, della situazione del patrimonio, dell’imprenditore e del risultato economico dell’attività svolta. Queste rendono razionale ed efficiente la gestione dell’impresa e perciò di regola sono tenute spontaneamente dall’imprenditore, però l’Art. 2214 rende obbligo agli imprenditori commerciali tranne i piccoli imprenditori. Tutte le società commerciali eccetto quella semplice sono obbligate alle scritture contabili pur non esercitando attività. Infine le scritture contabili sono disciplinate dalla legislazione tributaria, in questo modo l’obbligo di tenuta delle scritture viene estesa anche ai soggetti che non sono imprenditori, vedi i liberi professionisti. Il legislatore ha dovuto fissare quali scritture debbono essere obbligatoriamente tenute, ora queste scritture necessarie variano a seconda del tipo di attività delle dimensioni dell’impresa, e ha optato per una soluzione di tipo misto, fissata dall’Art. 2214. La norma pone il principio generale che l’imprenditore deve tenere tutte le scritture contabili richieste dalla natura e alla dimensione dell’impresa, stabilendo che in ogni caso devono essere tenuti il LIBRO GIORNALE ed il LIBRO DELL’INVENTARIO, nonché conservare per ogni affare gli originali della corrispondenza commerciale (lettere, fatture, telegrammi ricevute e quelle spedite). Il Libro Giornale è un registro cronologico analitico, dove vanno trascritte le operazioni giornaliere secondo l’Art. 2216. Il precetto però è flessibile nel senso che è importante che le operazioni siano registrate nell’ordine in cui sono state compiute 19 e non necessariamente il giorno stesso. Il Libro Giornale può essere anche articolato in Libri Parziali, riguardo alle articolazioni delle imprese. Il Libro degli Inventari è un registro periodico sistematico redatto all’inizio dell’esercizio e in seguito ogni anno, serve alla funzione di fornire il quadro della situazione patrimoniale dell’imprenditore contenendo l’indicazione e la valutazione delle attività e delle passività anche estranee all’impresa. L’inventario si chiude con il bilancio e con il conto dei profitti e delle perdite. Il bilancio è un prospetto contabile riassuntivo dove viene espressa la situazione comprensiva dello stato patrimoniale alla fine di ogni anno, nonché gli utili o le perdite nello stesso arco. La redazione del bilancio è disciplinata in tema di società per azioni Artt. 2423-2435 bis, perciò tutti gli imprenditori debbano osservare le disposizioni che disciplinano il bilancio della società per azioni. Vi sono altre scritture contabili richieste dalla natura e dalle dimensioni delle imprese vedi il LIBRO MASTRO, dove le operazioni sono registrate non cronologicamente ma sistematicamente; il LIBRO CASSA che contiene le entrate e le uscite di denaro, il LIBRO MAGAZZINO che registra le entrate e le uscite di merce. L’imprenditore dovrà avere i libri delle scritture contabili previste dalla legislazione tributaria, il LIBRO DEI CESPITI ammortizzabili, il REGISTRO DI MAGAZZINO, nonché i libri necessari per accertamento dell’IVA e Lavoristica, vedi LIBRO PAGA e LIBRO MATRICOLA. Per garantire la veridicità delle scritture contabili, nonché impedire che non siano alterate, è imposta l’osservanza di determinate regole formali e sostanziali nella loro tenuta. Le regole formali sono state via via ridotte, per agevolare la tenuta della contabilità con procedure informatiche. Quindi con la disciplina attuale il libro Giornale e quello degli Inventari devono essere solo progressivamente numerati prima dell’uso, perché è stata soppressa prima la vidimazione con la 489 del ’94 e di recente nel 2001 legge 383 l’obbligo della bollatura. Per gli altri libri contabili c'è l'obbligo di bollatura e di vidimazione per ogni foglio. Le scritture contabili sono un importante mezzo di prova a favore e contro l’imprenditore, infatti possono essere utilizzate da terzi contro l’imprenditore e a questi è data facoltà di provare il contrario; possono essere utilizzata a favore dell’imprenditore solo nei rapporti tra 20 imprenditori. Tutte le scritture contabili devono essere tenute secondo le norme di un’ordinata contabilità, in particolare senza spazi in bianco, senza interlinee, abrasioni ed in modo che le parole cancellate restino leggibili. L’inosservanza di tali regole, rende le scritture irregolari e giuridicamente irrilevanti. Queste scritture contabili e la corrispondenza devono essere conservate per 10 anni, l’imprenditore che non tiene in regola queste scritture non le può utilizzare a suo favore. Le scritture contabili possono essere utilizzate dai terzi come mezzo processuale contro l’imprenditore ed il terzo che vuol trarre vantaggio da ciò non può scinderne il contenuto, ossia non è possibile avvalersi solo della parte a lui favorevole. L’imprenditore può utilizzare le proprie scritture contabili come mezzo di prova contro terzi lo può fare a tre condizioni: anzitutto le scritture devono essere regolarmente tenute, è necessario che la controparte deve essere l’imprenditore e che la controversia deve presentare rapporti inerenti all’esercizio dell’impresa. GLI AUSILIARI DELL’IMPRENDITORE: INSTITORE, PROCURATORE e COMMESSO. Nello svolgimento delle attività d’impresa di regola l’imprenditore si serve di prestazione d’altri soggetti, che possono essere AUSILIARI AUTONOMI o ESTERNI (mandatari, agenti di commercio), legati all’imprenditore da un rapporto di prestazione d’opera; AUSILIARI SUBORDINATI o INTERNI (impiegati, quadri), legati all’imprenditore da un rapporto di lavoro determinato. Tra gli ausiliari subordinati sono importanti le figure dell’INSTITORE, PROCURATORE e COMMESSO, a questi per il fatto di esercitare all’interno dell’impresa mansioni, la legge riconosce uno speciale potere di rappresentanza (Art. 2203 – 2213), senza che sia necessario informale atto di procura da parte dell’imprenditore. Nel caso in cui egli intenda modificare la disciplina legislativa occorrerà un atto di preposizione che dovrà essere notificato a terzi. È INSTITORE colui che è preposto dal titolare all’esercizio dell’impresa, di una sede secondaria o di un ramo particolare della stessa, rappresenta l’alter ego, e pur essendo un lavoratore subordinato possiede ampi poteri decisionali dell’attività gestionale. L’Institore non può alienare o ipotecare beni 21 immobili, è responsabile con l’imprenditore degli obblighi di pubblicità legale e per la tenuta delle scritture contabili. Riguardo alla rappresentanza processuale, l’Institore può stare in giudizio sia come attore, sia come convenuto, per le obbligazioni dipendenti da atti compiuti dell’esercizio dell’impresa a cui è preposto. Il PROCURATORE è chi in base ad un rapporto continuativo compie atti pur non essendovi preposto (Art. 2209). Sono degli ausiliari subordinati di grado inferiore rispetto all’Institore in quanto che non sono posti a capo dell’impresa o di un ramo e il potere decisionale è limitato ad un determinato settore dell’impresa, ad esempio sono procuratori il Dirigente del personale, il Direttore del settore acquisti. I Procuratori in mancanza di specifiche limitazioni iscritte nel Registro delle Imprese sono investiti ex lege di un potere di rappresentanza generale dell’imprenditore, rispetto alla specie di operazioni per le quali sono stati investiti di autonomo potere decisionale. Ad esempio il dirigente del settore acquisti potrà compiere tutti gli atti che rientrano in tale funzione ma non ha il potere per quanto riguarda altri settori. Il Procuratore, inoltre, non ha rappresentanza processuale, neppure per gli atti da lui posti in essere; non è soggetto agli obblighi d’iscrizione nel Registro delle Imprese né di tenuta delle Scritture Contabili. L’imprenditore, infine, non risponde per gli atti, pur riguardante l’esercizio delle imprese compiute da un procuratore senza spèndita del nome dell’imprenditore stesso. I COMMESSI sono ausiliari subordinati a cui sono affidate mansioni esecutive che li portano a contatto con i terzi. Ad esempio commesso di un negozio, cameriere di un bar, etc. Per questa loro posizione è riconosciuta potere di rappresentanza dell’imprenditore anche in mancanza di specifico atto di conferimento, però questo potere è più limitato rispetto a quelli dell’Institore e del Procuratore. Il principio base enunciato dall’Art. 2210 è che essi possono compiere gli atti che di regola comporta la specie di operazioni di cui sono incaricati. In particolare i commessi non possono esigere il prezzo delle merci delle quali non facciano la consegna, né concedere dilazioni o sconti; se preposti alla vendita nei locali dell’impresa non possono esigere il prezzo fuori dei locali. L’imprenditore può ampliare o limitare tale potere. 22 CAPITOLO V L’AZIENDA Secondo l’Art. 2255, l’Azienda è il complesso dei beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio di un’impresa. In breve essa costituisce sotto il profilo giuridico l’apparato strumentale che serve all’imprenditore per lo svolgimento della propria attività (locali, macchinari, materie prime). Per qualificare un dato bene come bene aziendale rilevante è solo la destinazione datagli dall’imprenditore, irrilevante invece è il titolo giuridico che legittima l’imprenditore ad utilizzare un dato bene nel processo produttivo. I beni di proprietà dell’imprenditore non possono essere considerati beni aziendali che non siano da questi destinati allo svolgimento dell’attività d’impresa. Viceversa la qualifica di bene aziendale compete anche ai beni di proprietà di terzi di cui l’imprenditore può disporre in base ad un valido titolo giuridico. Nella nozione d’azienda il dato va posto sull’organizzazione. L’Azienda è un insieme di beni eterogenei mobili ed immobili, materiali e non, non necessariamente di proprietà dell’imprenditore. Però resta un complesso caratterizzato da unità funzionali. Organizzazione e destinazione ad un fine produttivo sono dati che danno ai beni costituiti alla azienda nel suo complesso specifico e particolare rilievo economico prima ancora che giuridico. I beni organizzati ad azienda consentono la produzione d’utilità nuove diverse e maggiori di quelle ricavabili dai singoli beni isolati. Un’azienda è volta alla produzione di nuova ricchezza ed è proprio tale valore dinamico dell’azienda più che la consistenza oggettiva del patrimonio dell’imprenditore che acquista rilievo per quanti entrano in affari concedendogli credito. L’AVVIAMENTO di un’azienda è rappresentato dalla sua attitudine a consentire la realizzazione del suo profitto e dipende sia da fattori oggettivi che soggettivi. Si suole distinguere fra AVVIAMENTO OGGETTIVO quello che si collega a fattori che permangono anche se muta il titolare dell’azienda, si definisce SOGGETTIVO quello dovuto all’attività operativa dell’imprenditore sul mercato per avere, conservare e accrescere la clientela. L’unità economica dell’azienda e gli interessi generali di tale unità trovano disciplina dettata dal codice civile per il trasferimento dell’azienda (Artt. 2256 – 2562). Il trasferimento a titolo 23 definitivo ad esempio vendita o temporanea (affitto o usufrutto) dell’azienda comporta effetti peculiari, divieto di concorrenza del cedente, successione nei contratti aziendali ispirati dalla finalità di favorire la conservazione dell’unità economica del valore e di avviamento dell’azienda per tutelare quanti hanno fatto specifico affidamento ossia lavoratori, creditori e quanto altro, nonché per tutelare la disgregazione dell’azienda. LA CIRCOLAZIONE DELL’AZIENDA, OGGETTO E FORMA. L’azienda può formare oggetto di atti di disposizioni di diversa natura, può essere venduta, conferita in società, donata e sulla stessa ci possono essere diritti reali vedi usufrutto o personali di godimento a favore di terzi. L’imprenditore può ovviamente compiere atti di disposizione che riguardano uno o più beni aziendali. Importante è stabilire se un determinato atto di disposizione dell’imprenditore sia da qualificare come trasferimento di azienda o di singoli beni, dato che solo nel primo caso potrà trovare applicazione la disciplina dettata per la circolazione di un complesso aziendale. La distinzione netta, in teoria, non sempre è agevole e pratica, soprattutto quando l’atto di disposizione comprende solo parte dei beni aziendali. Si verifica, inoltre, che le parti ricorrano ad espedienti quali il frazionamento del trasferimento dell’azienda in più atti separati per sottrarsi agli effetti nei confronti ai terzi che ex lege conseguono al trasferimento di un’azienda. È pacifico che per aversi trasferimento di azienda non è necessario che si trasferisca l’intero complesso aziendale perché la disciplina del trasferimento è applicabile anche quando l’imprenditore trasferisce un ramo particolare della sua azienda, purché sia dotato di una organicità operativa. Infatti, necessario ma al tempo stesso sufficiente è che sia trasferito un insieme di beni potenzialmente idonei ad essere utilizzati per una determinata attività, ma non necessariamente la stessa; svolta dal trasferente. Le forme da osservare nel trasferimento dell’azienda sono fissate dall’Art. 2556 nel testo modificato dalla legge 12/08/93 n. 310. Vi è una netta distinzione tra forma necessaria per la validità del trasferimento e forma richiesta ai fini probatori e per l’opponibilità ai terzi. Rispetto al primo punto vi è una disciplina identica per ogni 24 tipo di azienda agricola o commerciale ed i contratti che hanno per oggetto il trasferimento della proprietà o la concessione di godimento dell’azienda solo validi solo se stipulati con l’osservanza delle forme stabilite dalla legge per il trasferimento dei singoli beni che compongono l’azienda, quindi sarà necessario la forma scritta a pena di nullità (Art. 1250), nonché dovranno essere rispettate le regole di forma previste, ad esempio il conferimento dell’azienda di una società di capitali dovrà sempre avvenire per atto pubblico. Inoltre, per le imprese soggette a registrazione con effetti di pubblicità legale, quindi non per le piccole imprese è previsto che ogni atto di disposizione dell’azienda deve essere provato per iscritto (Art. 1556 1° comma). Infine per tutte le imprese soggette a registrazione è oggi prescritto che i relativi contratti di trasferimento devono essere iscritti nel registro delle imprese nel termine di 30 giorni (Art. 2556 2° comma). Solo l’iscrizione nella sezione ordinaria introduce gli effetti di pubblicità legale. LA VENDITA DELL’AZIENDA: IL DIVIETO DELL’ALIENANTE L’azienda può essere alienata dall’imprenditore o data in affitto o in usufrutto, in tutte queste ipotesi la legge pone a carico dell’imprenditore divieto di concorrenza. L’art. 2557 dispone che l’alienante deve astenersi per un periodo di 5 anni dal trasferimento dall’iniziare una nuova attività, che per l’oggetto, l’ubicazione o altro, sia idonea a sviare la clientela dell’azienda ceduta. Il divieto tende a garantire l’acquirente per il cosiddetto avviamento soggettivo. LA SUCCESSIONE DEI CONTRATTI AZIENDALI Effetto naturale del trasferimento dell’azienda è la successione dell’acquirente, nei contratti stipulati per l’esercizio dell’azienda stessa che non abbiano carattere personale (Art. 2258 1° comma). Il precetto ha la funzione di tutelare l’interesse del cessionario del mantenimento dell’unità economica dell’azienda. Ci sono contratti aziendali (in base ai quali l’imprenditore ha titolo al godimento di beni aziendali di proprietà di terzi); e contratti d’impresa cioè (i contratti realizzati per l’esercizio dell’impresa, e riguardano i rapporti tra l’imprenditore ed il fornitore). Sono esclusi i contratti a carattere personale per i quali il trasferimento all’acquirente opera secondo 25 le norme generali del diritto cioè necessità di un esplicita pattuizione dei contraenti e del consenso del terzo ceduto. Invece i contratti stipulati per l’esercizio dell’impresa si trasferiscono all’acquirente indipendentemente dal consenso del terzo ceduto, questo ultimo potrà, se sussiste una causa giusta dalla notizia del trasferimento, di recedere dal contratto. CREDITI E DEBITI DELL’AZIENDA La disciplina della successione dei contratti, disposta dal legislatore, in caso di trasferimento dell’azienda, trova applicazione in merito ai contratti non ancora trasferiti da entrambe le parti contrattuali, cioè imprenditore e terzo contraente. Al momento del trasferimento vi possono essere contratti in corso di definizione, cioè contratti adempiuti solo dall’imprenditore trasferente e contratti eseguiti solo dal terzo contraente e ad essi corrispondono posizione di credito o debito del imprenditore, posizione nelle quali è destinata a subentrare l’acquirente. Al momento del trasferimento dell’azienda se l’imprenditore ha già adempiuto le obbligazioni residuerà un credito a suo favore nei confronti di un terzo, ad esempio ha venduto merci con pagamento differito. Viceversa residuerà un debito dell’imprenditore qualora il terzo contraente abbia eseguito le proprie prestazioni, ad esempio l’imprenditore ha acquistato materie prime ma non le ha ancora pagate. Per quanto riguarda questi casi, in sede di vendita dell’azienda, trova applicazione la disciplina secondo gli Artt. 2559 – 2560. Per i crediti, alla procedura prevista dall’Art. 1264 del diritto comune che dispone l’opponibilità ai terzi della cessione del credito, se ne aggiunge una più semplice, l’opponibilità consegue anche in mancanza di notifica o accettazione del debitore, all’iscrizione del trasferimento aziendale nel registro dell’impresa. Tuttavia, se l’imprenditore paga in buona fede all’alienante, è liberato. Per i debiti, l’alienante è liberato solo se i debitori hanno espresso consenso al trasferimento dell’azienda. Per l’impresa commerciale è disposto l’accollo dei debiti da parte dell’acquirente solo se essi risultano dai documenti contabili. Fanno eccezione i debiti di lavoro di cui è sancita l’obbligo in solido dell’acquirente e dell’alienante. 26 USUFRUTTO E AFFITTO DELL’AZIENDA Particolari norme, vedi Artt. 2561 e 2562 sono dettate per l’usufrutto e l’affitto dell’azienda, norme queste che modificano la disciplina generale dei rispettivi istituti. Queste attribuiscono all’usufruttuario e all’affittuatario una serie di poteri – doveri. Essi devono conservare l’identità dell’azienda, ne consegue l’obbligo di esercitarla sotto la ditta che la contraddistingue; ancora dovrà essere mantenuta la destinazione economica dell’azienda. Il legislatore interviene a tutelare l’interesse del trasferente a che sia presentata l’integrità funzionale della sua azienda. Però per contro è riconosciuto all’affittuatario o all’usufruttuario un diritto di gestione. L’usufruttuario può acquistare ed immettere nell’azienda nuovi beni, beni che diventano di proprietà del nudo proprietario e sui quali l’usufruttuario avrà diritto di godimento e potere di disposizione. Al termine dell’usufrutto, l’azienda risulterà composta in tutto o in parte da beni diversi da quelli originali. Quindi è previsto che venga redatto un inventario all’inizio e alla fine dell’usufrutto e la differenza venga regolata in denaro sulla base di valori correnti al termine dell’usufrutto. Per l’affitto vi è un contratto diverso dalla locazione di un immobile destinato all’esercizio di attività d’impresa. Nel primo caso oggetto del contratto è un complesso di beni organizzati, comprensivo anche dell’immobile; nel secondo il contratto ha per oggetto il locale in quanto tale. CAPITOLO VI I SEGNI DISTINTIVI Per un’attività d’impresa ogni imprenditore utilizza uno o più segni distintivi che consentono di individuarlo sul mercato e distinguerlo dagli altri. La DITTA, le INSEGNE ed il MARCHIO sono i principali segni distintivi dell’imprenditore. La DITTA contraddistingue la persona dell’imprenditore nell’esercizio della sua attività, l’INSEGNA individua i locali in cui l’attività si esercita; infine il MARCHIO individua e distingue i beni prodotti. Anche se hanno un ruolo specifico questi tre segni svolgono una funzione comune nell’economia di mercato, cioè favoriscono la formazione e il mantenimento della clientela, perché consentono ai consumatori di 27 distinguere fra i vari operatori e come si suol dire sono dei collettori di clientela. L’interesse degli imprenditori è quello di non favorire l’uso di segni similari atti a sviare la propria clientela. Nel nostro ordinamento DITTA, INSEGNA e MARCHIO sono disciplinati con disposizioni diverse a seconda della diversa rilevanza economica dei tre segni distintivi. Delle tre discipline è tuttavia possibile ricavare alcuni principi comuni, applicabili per analogia agli altri simboli d’identificazione sul mercato usati dall’imprenditore, vedi lo slogan pubblicitario o i nomi di dominio usati su internet. I principi comuni sono: l’imprenditore gode di ampia libertà di formazione dei propri segni, però è tenuto ad evitare inganno e confusione sul mercato, cioè deve rispettare alcune regole: verità, capacità distintiva e novità. L’imprenditore ha il diritto all’uso esclusivo dei propri segni distintivi, però si tratta di un diritto non assoluto ma relativo alla realizzazione della funzione rispetto agli altri. Il titolare di un segno distintivo non può impedire che altri adottano lo stesso segno, quando non vi è pericolo di confusione o di sviamento della clientela. L’imprenditore può trasferire ad altri i propri segni distintivi. La DITTA è il nome commerciale dell’imprenditore, lo individua come soggetto di diritto nell’esercizio dell’attività, ed è segno distintivo necessario, nel senso che in mancanza di diversa scelta essa coincide col nome dell’imprenditore. Non è però necessario che la ditta corrisponde al nome civile, essa può essere liberamente prescelta dall’imprenditore. La scelta della ditta è libera purché vengano rispettati due principi, PRINCIPIO DELLA VERITÀ (la ditta deve contenere necessariamente il nome ed il cognome o la sigla dell’imprenditore), questo è il contenuto minimo prescritto dalla legge che intende garantire ai consumatori la riconoscibilità giuridica cui indirizzano la loro domanda. L’altro principio è quello della NOVITÀ, la ditta non deve essere uguale o simile e cioè non confondibile con quella prescelta da altri imprenditori. Il PRINCIPIO DELLA VERITÀ della ditta (Art. 2563) ha un contenuto assai limitato ed è soprattutto diverso a seconda che si tratta di ditta originaria o ditta derivata. La prima è quella formata dall’imprenditore che la utilizza; quella derivata è formata da un dato imprenditore e poi trasferita ad un altro insieme all’azienda. Nessuna disposizione impone a chi utilizzi una ditta derivata di 28 integrarla. Ricordiamo che la ditta è trasferibile solo con l’azienda, se il trasferimento avviene per atto fra vivi, necessita il consenso dell’alienante; regola opposta vale se l’azienda è acquistata per successione a causa di morte. La ditta si trasmette al successore salvo diversa disposizione testamentaria. Il MARCHIO è il segno distintivo dei prodotti o dei servizi dell’impresa, esso è disciplinato sia dall’ordinamento nazionale, da quello comunitario e internazionale. Il Marchio Nazionale è regolato dagli Artt. 2569 – 2574 codice civile e dal R.D. 1942 n°929 (LEGGE MARCHI) più volte modificato. Al marchio nazionale si è affiancato quello COMUNITARIO del ’93, la relativa disciplina, coincidente con quella della nostra legge, consente di ottenere un marchio che produce gli stessi effetti in tutta la comunità europea. La tutela internazionale del marchio è disciplinata da due convenzioni: quella di Parigi del 1883 per la protezione della proprietà industriale e l’accordo di Madrid del 1891. Queste norme basate sull’istituto della registrazione del marchio riconoscono al titolare il diritto all’uso esclusivo dello stesso. Il marchio non è un segno distintivo ed essenziale ma è certamente il più importante per il ruolo che svolge nell’economia, caratterizzato dall’offerta concorrente di prodotti similari da parte di più imprenditori. Infatti gli imprenditori affidano al marchio la funzione di differenziare i propri prodotti da quelli dei concorrenti. Il pubblico è messo in grado di riconoscere con facilità i prodotti e li può selezionare fra quelli similari. Il marchio diventa il simbolo di collegamento tra produttori e consumatori e svolge un ruolo centrale nella formazione e nel mantenimento della clientela. Per questo ruolo si comprende l’interesse dei titolari di marchi celebri a contrastare l’uso degli stessi da parte di altri produttori. Vi è una classificazione secondo diversi criteri dei marchi. Del marchio può servirsi innanzitutto il fabbricante del prodotto, il marchio può essere a posto anche dal commerciante o dal venditore finale. Su uno stesso prodotto possono coesistere più marchi ad esempio di fabbrica e di commercio. Il rivenditore non può sopprimere il marchio del produttore. Il marchio può essere utilizzato anche da impresa che producono servizi, vedi imprese di trasporto e di pubblicità e così via. L’imprenditore può utilizzare un marchio GENERALE ma se vuole differenziare i diversi prodotti 29 della propria impresa può usare marchi SPECIALI ad esempio FIAT – PUNTO. Nella composizione del marchio l’imprenditore è libero perché questo può essere formato da parole, MARCHIO DENOMINATIVO, e può coincidere con la stessa ditta o col nome dell’imprenditore. Però può esser costituito da lettere, cifre e così via e chiamasi MARCHIO FIGURATIVO. C’è pure un MARCHIO DI FORMA ad esempio la particolare forma di una bottiglia, c’è un MARCHIO COLLETTIVO che si distingue dai MARCHI D’IMPRESA in quanto che titolare del marchio COLLETTIVO è un soggetto, ad esempio un consorzio, che non svolge nessuna attività d’impresa ma si limita a garantire la qualità, la natura e l’origine delle merci prodotte, ad esempio PURA LANA VERGINE. Il marchio deve rispondere a determinati requisiti di validità: LICEITÀ, VERITÀ, ORIGINALITÀ e NOVITÀ. Per la LICEITÀ, il marchio non deve essere contrario alla legge, al buon costume e all’ordine pubblico, né ledere l’altrui diritto, senza il consenso. Il principio di VERITÀ non deve contenere simboli capaci di generare inganno del pubblico dei consumatori, circa la qualità, la provenienza e la natura dei prodotti. Il marchio deve essere ORIGINALE, ossia composto in modo da permettere di individuare i prodotti fra quelli dello stesso genere. A questo proposito si distinguono MARCHI FORTI particolarmente originali e fantasiosi, dotati di tutela giuridica, e ne sono proibite tutte le possibili emulazioni, ad esempio il marchio BUONNJ è stato giudicato contraffazione del marchio BONDÌ e MARCHI DEBOLI formati di regola da parole di uso convenzionale particolarmente combinate ad esempio Lemon Soda. Hanno tutela più debole, nel senso che anche piccole modificazioni vengono ad essere tutelate. In ultimo c’è la NOVITÀ, il marchio non deve essere confondibile con il marchio, ditta o insegna utilizzati da altri imprenditori, operanti in settori di mercato identici. Per i MARCHI CELEBRI, ad esempio Coca Cola, Cartier, il divieto di inconfondibilità si estende all’intero mercato, onde evitare che imprenditori operanti in settori diversi possano avvantaggiarsi della somiglianza del proprio marchio con quello rinomato. Il marchio, privo di novità o lesivo di altrui diritto d’autore, se registrato in buona fede e tollerato senza contestazione per 5 anni, può essere convalidato. Il titolare di un marchio, che risponde ai requisiti di validità 30 indicati, ha il diritto esclusivo prescelto. Il contenuto del diritto sul marchio e la sua relativa tutela sono diversi a seconda che il marchio sia stato o meno registrato presso l’Ufficio Italiano Brevetti e Marchi. Riguardo al MARCHIO REGISTRATO, la sua registrazione dà al titolare del marchio il diritto all’uso dello stesso su tutto il territorio nazionale, anche se l’effettiva diffusione dei suoi prodotti è esigua sul territorio. Un imprenditore che opera solo in Sicilia può impedire che il suo marchio venga utilizzato da altri imprenditori dello stesso settore che operano solo in Lombardia. Il diritto di esclusiva sul marchio registrato copre poi non solo i prodotti identici ma anche gli affini, se vi è il rischio di confusione per il pubblico. La tutela del marchio registrato non impedisce di regola però che un altro imprenditore registri o usi lo stesso marchio per prodotti del tutto diversi. Diciamo che la rigorosa applicazione di questa regola può dar luogo a conseguenze particolarmente gravi, quando si tratta di marchi celebri ad esempio Coca Cola ecc. L’uso di questi marchi da parte di altri anche per merci diverse, può determinare equivoci sulla reale fonte di produzione. Si è avvertito perciò l’esigenza di estendere la tutela dei marchi celebri impedendo l’uso degli stessi anche per prodotti non affini. Il problema trova oggi la soluzione legislativa, perché con la riforma del ’92, la tutela dei marchi celebri è stata svincolata dal criterio dell’affinità merceologica. Oggi il titolare di un marchio registrato può vietare a terzi l’uso di un marchio identico anche per prodotti non affini, quando questo può trarre vantaggio da ciò. Il diritto di esclusiva sul marchio decorre dalla data di presentazione della domanda dell’Ufficio Brevetti. Il titolare è perciò tutelato ancor prima che inizia ad utilizzarlo. La registrazione nazionale è il presupposto per poter estendere la tutela del marchio in ambito internazionale con la registrazione presso OMPI (Organizzazione Mondiale per la Proprietà Industriale di Ginevra). Per il MARCHIO COMUNITARIO, la registrazione indipendente da quello NAZIONALE è effettuata presso l’UAMI (Ufficio per Armonizzazione del Mercato Interno di Alicante – SPAGNA –). La registrazione nazionale dura 10 anni e non più 20 come prima, ma è rinnovabile per un numero illimitato di volte. La registrazione assicura, perciò, una tutela pressoché perpetua tranne che non né sia dichiarata l’annulità del marchio, per uno dei principali requisiti o non sopravvenga 31 una causa di decadenza, vedi il mancato utilizzo del marchio per 5 anni. In particolare costituisce causa di decadenza il fatto che un marchio è divenuto nel commercio denominazione generica di un dato prodotto, perdendo così la propria capacità distintiva. Vedi il caso dei marchi BIRO, NYLON, e così via. L’ordinamento però tutela anche un marchio senza registrarlo anche se è minore di quello del marchio registrato. Infatti, l’Art. 2571 dispone che chi ha fatto uso di un marchio non registrato ha la facoltà di continuarne l’uso nonostante la registrazione ottenuta da altri. La tutela del diritto sul marchio non registrato si fonda perciò sull’uso di fatto dello stesso e sull’effettivo grado di notorietà aggiunta. Sarà più o meno ampia a seconda che il marchio abbia notorietà nazionale o locale. Il titolare di un marchio con notorietà locale non potrà impedire che altro usi di fatto lo stesso marchio, per gli stessi prodotti in altre zone, né impedire che un concorrente registri lo stesso marchio, e in tal caso potrà continuare ad usare il proprio marchio solo in ambito locale. Il marchio registrato è tutelato civilmente e penalmente, non a caso il titolare del marchio, il cui diritto di esclusiva, se è stato leso da un concorrente può fare azione di contraffazione contro questi. Il marchio è trasferibile sia a titolo DEFINITIVO che TEMPORALE, è consentito al titolare di monetizzare il valore commerciale. La disciplina della circolazione del marchio è mutata con la riforma del ’92. È stata abolita, infatti, il precedente collegamento tra circolazione dell’azienda e circolazione del marchio, per l’esigenza di evitare inganni e confusione per il pubblico; l’attuale disciplina opta per una più libera circolazione del marchio. Oggi può essere trasferito separatamente all’azienda, la cessione può essere parziale e riguardare solo una parte dei beni o servizi che esso contraddistingue. È consentito, inoltre, il trasferimento temporaneo tramite licenza; il titolare del marchio ne può concedere l’uso contemporaneo ad uno o più imprenditori purché non derivi inganno sulle caratteristiche peculiari dei beni contrassegnati dal marchio. L’uso del marchio, dietro licenza, può essere TOTALE o PARZIALE, a seconda che sia relativa a tutti o solo ad alcuni dei prodotti per i quali il marchio è stato registrato, nonché riferita all’intero territorio o parte di esso. 32 L’INSEGNA è il simbolo che contraddistingue i locali dell’impresa (negozio, fabbrica), la sua creazione deve rispondere a criteri di NOVITÀ, ORIGINALITÀ e VERITÀ dettata per i segni distintivi in genere. L’Insegna è disciplinata dall’Art. 2568 del codice civile, non può essere uguale o simile a quella già utilizzata da altri concorrenti. Dovrà essere lecita, non contenere cioè indicazioni idonee a trarre in inganno il pubblico circa attività o prodotto. Non è quindi tutelato contro l’altrui imitazione chi adotta come insegna indicazioni generiche, vedi bar, pizzeria, pub etc. Nulla è disposto circa il trasferimento dell’Insegna, quindi è pacifico che il diritto sull’insegna può essere trasferito e in materia deve trovare applicazione quella per il marchio. CAPITOLO VII OPERE DELL’INGEGNO La poesia, il romanzo, le canzoni sono opere dell’ingegno che non vanno confuse con loro veicolo di trasmissione: il libro, il disco etc., perché la stampa del libro, la fabbricazione del disco sono rese possibile da altre creazioni dell’intelletto umano nel campo non più della cultura ma in quello della tecnica. Infatti, una cosa è il metodo per fabbricare un televisore, altro è il televisore. L’idea creativa è una, le sue applicazioni materiali infinite. Quindi, le opere dell’ingegno (idee creative nel campo culturale) e le invenzioni industriali (idee creative nel campo della tecnica) sono due grandi categorie di creazioni intellettuali regolate dal nostro ordinamento. Le creazioni intellettuali sono oggetto di una composita disciplina che mira a tutelare il duplice interesse che ad esse si ricollega: quello dell’autore a rivendicarne il diritto e allo sfruttamento esclusivo; quello della collettività a disporre d’invenzioni di particolare utilità sociale. Il sistema normativo è strutturato sul riconoscimento del diritto d’autore per le opere d’ingegno letterarie ed artistiche (Artt. 2575 – 2583 codice civile e dalla legge n°643 del ’41, però più volte modificata; l'ultima è la n°68 del 2003 per dare attuazione alle direttive comunitarie). Ancora abbiamo il riconoscimento del diritto di BREVETTO per le invenzioni industriali per i modelli e i disegni ornamentali (Artt. 2584 – 2594 codice civile e R.D. del ’39 riformato nel 33 ‘69). Elemento centrale della vasta disciplina è la tutela del diritto del creatore all’esclusivo sfruttamento economico della propria opera dell’ingegno. Le opere sono protette indipendentemente dal loro pregio e utilità pratica, unica condizione richiesta è che l’opera abbia carattere creativo, cioè presenta un minimo di originalità preesistenti dello stesso genere. Originalità che può essere anche il modo personale di esposizione di una raccolta di leggi. Il diritto d’autore è necessario solo con la creazione dell’opera, non che l’opera sia stata divulgata. È prevista la registrazione dell’opera nel Registro Pubblico Generale delle opere protette e per quelle cinematografiche nello speciale registro tenuto a cura della S.I.A.E. (società italiana autori ed editori). Il diritto d’autore gode di una tutela morale e patrimoniale, quindi si distingue fra DIRITTO MORALE e DIRITTO PATRIMONIALE di autore. L’autore ha diritto di rivendicare nei confronti di chiunque la paternità dell’opera, decidere se pubblicarla o meno, col proprio nome o anonimo, di opporsi a modificazioni o deformazioni dell’opera e ogni altro atto a danno dell’opera che arreca pregiudizio al suo onore. In ultimo, ritirare l’opera dal commercio, quando ricorrono gravi ragioni morali, dietro indennizzo di coloro i quali ha ceduto il diritto di utilizzazione economica. Questi diritti, in quanto disposti a tutela della personalità dell’autore, sono irrinunciabili, inalienabili; non si perdono con la cessione dei diritti patrimoniali e possono essere esercitati anche dai congiunti. Riguardo al contenuto patrimoniale che si sostanzia nel diritto allo sfruttamento economico esclusivo dell’opera o di sue singole parti, tale diritto diversamente da quello MORALE ha una durata limitata, anche se la stessa è stata allungata di recente. Infatti, si estingue in linea di principio dopo 70 anni dalla morte dell’autore Art. 17 legge 62/96 anziché 50 come era prima. Infine vi sono diritti riconosciuti a determinate categorie di soggetti, connessi o affini al diritto d’autore, vedi i produttori di dischi, gli esecutori di opere dell’ingegno quali gli attori e i cantanti, autori di progetti di ingegneria. A tali soggetti è riconosciuto il diritto ad un equo compenso da parte di chi ne utilizzi la loro opera creativa. Il diritto di utilizzazione economica è liberamente trasferibile sia fra i vivi che a causa di morte, il trasferimento per atto fra vivi, deve essere provato per iscritto e può essere sia a TITOLO DEFINITIVO che a TITOLO 34 TEMPORANEO. I contratti previsti e di norma utilizzati per lo sfruttamento economico di un’opera sono il CONTRATTO DI EDIZIONE (dove l’autore concede ad un editore l’esercizio del diritto di pubblicare per la stampa l’opera per conto o a spese dell’editore, l’editore a sua volta si obbliga a stampare, mettere in commercio l’opera e ha corrispondere il compenso, compenso costituito da una percentuale sulla vendita ma per talune opere può essere fissato a forfait. Salvo eccezione la durata del contratto non supera 20 anni). Col CONTRATTO DI RAPPRESENTANZA e di ESECUZIONE (l’autore cede di regola non in esclusiva il solo diritto di rappresentazione di opere destinate allo stesso fine. L’altra parte si obbliga a provvedervi a proprie spese). Il diritto d’autore è protetto da sanzioni civili e penali e pecuniarie, a carico di chi pone in essere comportamenti lesivi che vanno dall’imitazione totale o parziale degli elementi creativi di un’opera altrui. Addirittura le opere dell’ingegno godono di una tutela internazionale, l’Italia ha aderito alle due convenzioni internazionali: quella di Berna per le protezioni letterarie ed artistiche nel testo di Parigi del ’71 e quella universale di Ginevra del diritto d’autore nel testo di Parigi del ’71, però la prima è del 1896, la seconda del 1952. LE INVENZIONI INDUSTRIALI Sono idee creative che appartengono al campo della tecnica. Consistono nella soluzione originale di un problema tecnico, con applicazioni nel settore della produzione. Quindi vi è una distinzione netta rispetto alle opere dell’ingegno tutelate dal diritto d’autore. Le invenzioni industriali si differenziano anche per il diverso modo d’acquisto del diritto di utilizzazione, ossia la concessione del brevetto da parte dell’Ufficio Brevetti e Marchi. Ci sono 3 grandi categorie: INVENZIONE DI PRODOTTO (che hanno per oggetto un nuovo prodotto materiale, vedi una macchina); INVENZIONE DI PROCEDIMENTO (che possono consistere in un nuovo processo di lavorazione industriale) e le INVENZIONI DERIVATE (che si presentano come derivazione di una precedente invenzione). Per scelta legislativa, ispirata alla finalità di favorire la libera autorizzazione delle idee fondamentali, non sono considerate invenzioni e quindi tutti ne posso utilizzare le scoperte, le teorie 35 scientifiche, i metodi per attività intellettuale, i programmi per elaboratori e così via. Perciò non può formare oggetto di brevetto ciò che già esiste e l’uomo si limita a percepire vedi la scoperta dell’energia nucleare o i software. Non sono considerati invenzioni industriali i metodi per il trattamento chirurgico e terapeutico del corpo umano, come pure quelli di diagnosi vedi la TAC. È nuova invenzione ciò che non è compresa nello stato della tecnica e per STATO DELLA TECNICA si intende tutto ciò che sia accessibile al pubblico prima della data di deposito della domanda di brevetto. Manca del requisito della novità, l’invenzione già divulgata. L’invenzione implica attività inventiva ed infine l’invenzione è considerata atta ad avere applicazioni industriali se il trovato può essere fabbricato o utilizzato in qualsiasi genere di industria, restano quindi non brevettabili come invenzioni le conoscenze non sfruttabili industrialmente. INVENZIONI BREVETTATE La tutela giuridica dell’invenzione ha contenuto sia morale che patrimoniale, l’inventore ha diritto ad essere riconosciuto come autore dell’invenzione, inoltre ha diritto trasferibile di conseguire il brevetto. Il brevetto, per le invenzioni industriali, è concesso dall’Ufficio Brevetti, sulla base di domanda correlata a pena di nullità, dalla descrizione dell’invenzione. Ogni domanda può avere per oggetto una sola invenzione. Il brevetto per invenzioni industriali dura 20 anni e conferisce al titolare la facoltà del diritto esclusivo. Il brevetto è trasferibile sia fra vivi che a causa di morte, al di là del trasferimento dell’azienda. Altresì il titolare può concedere licenza d’uso del brevetto. Ed è proprio la licenza del brevetto senza esclusiva, il tipico contratto di cui si serve la grande industria dei paesi a sviluppo tecnologico. L’invenzione brevettata è tutelata con sanzioni civili e penali contro chi sfrutti abusivamente le invenzioni. Il rilascio del brevetto, per l’invenzione, attribuisce l’esclusiva solamente sul territorio nazione; quest’esclusiva può essere conseguita anche in altri stati mediante alcuni trattati internazionali. Un brevetto autonomo e unitario è invece un brevetto comunitario, regolato dalla convenzione del Lussemburgo ratificato con la legge del ’93 n°302, ma non è ancora entrata in vigore 36 in Italia. Il brevetto comunitario, rilasciato dall’Ufficio Europeo di Monaco, ha carattere sopranazionale, unitario ed autonomo. Può essere, infatti, rilasciato per tutti i paesi aderenti all’Unione, la concessione di questo brevetto comporta la cessazione degli effetti degli eventuali brevetti nazionali. L’INVENZIONE NON BREVETTATA L’inventore può astenersi dal brevettare il proprio trovato e sfruttarlo in segreto, correndo il rischio che altri arrivi allo stesso risultato, lo brevetta ed acquista il diritto di esclusiva, dato che tra due inventori prevale chi per primo ha presentato la domanda di brevetto. La nuova disciplina dell’invenzione nel ’79 riconosce una sia pur limitata tutela anche a chi abbia utilizzata un invenzione senza brevettarla. Infatti, l’Art. 6 dell’invenzione dispone che chiunque, inventore o terzo, ha fatto uso nella propria azienda, nei dodici mesi anteriori, di una altrui domanda di brevetto, può continuare a sfruttare l’invenzione nei limiti del preuso. Può altresì trasferire tale facoltà, ma solo insieme azienda dove l’invenzione è utilizzata. I MODELLI INDUSTRIALI Sono creazioni intellettuali, applicati all’industria di minore rilievo rispetto all’invenzione industriale; si distinguono in MODELLI DI UTILITÀ e DISEGNI DI MODELLO. I MODELLI DI UTILITÀ sono nuovi trovati destinati a dare particolare funzionalità a macchine, strumenti ed altro ad esempio una nuova forma di poltrona che aumenti la comodità. I DISEGNI DI MODELLO sono nuove idee destinate a migliorare l’aspetto, forma, linea dei prodotti industriali, vedi l’originale forma di paraulti di una macchina. In sostanza i modelli industriali riguardano la foggia funzionale (modelli d’utilità) o estetica (disegni) dei prodotti. La tutela dei modelli d’utilità si fonda sull’istituto della brevettazione e in materia trova applicazione larga parte della disciplina industriale. Però nel 2001 il D.L. 95, emanato in attuazione della direttiva CE ha modificato la disciplina previdente. La tutela, oggi, è estesa anche ai componenti destinati ad essere assemblati in un prodotto complesso, ad esempio ricambi d’auto, avviene mediante registrazione che è 37 subordinata ai requisiti di NOVITÀ e CARATTERE INDIVIDUALE. Vale a dire che il disegno modello non deve essere identico ad un disegno modello già divulgato in precedenza. Per il brevetto vi è la durata di 10 anni, rispetto ai 20 dell’invenzione industriale. La registrazione, invece, dura 5 anni dalla domanda, ma può essere prorogata di 5 in 5 ad un massimo di 10 anni. Infine, questa è la novità più significativa rispetto alla disciplina previdente, le opere dell’INDUSTRIAL DESIGN, sono state ammesse a godere anche della più lunga tutela offerta dalla disciplina del diritto d’autore, fino a 70 anni della morte dell’autore quando presentino di per sé carattere di valore artistico. DISCIPLINA DELLA CONCORRENZA Il modello ideale di funzionamento del mercato teorizzato dagli economisti è la CONCORRENZA PERFETTA, cioè la contemporanea presenza sul mercato di molte imprese in competizione fra loro, nessuna delle quali sia in grado di condizionare il prezzo, assenza di ostacoli all’ingresso di nuovi operatori in ogni settore della produzione e distribuzione. Questo è un modello ideale e perfetto, in quanto che la concorrenza spinge verso una generale riduzione sia dei costi di produzione sia dei prezzi di vendita. È modello perfetto in quanto assicura la naturale eliminazione dal mercato delle imprese meno competitive, stimola il progresso tecnologico e quanto altro. Tutto è molto bello, ma con un piccolo difetto, la concorrenza perfetta è solo un modello teorico perché la realtà è diversa. Infatti, sempre più nei settori strategici, vedi le materie prime, i macchinari, la tendenza va verso un regime di mercato sempre più lontano dalla concorrenza perfetta. Quindi le imprese dedite alla produzione industriale diventano sempre più numerose e sempre più grandi, dando vita così a situazioni di OLIGOPOLIO ossia ad un mercato caratterizzato dal controllo dell’offerta di poche grandi imprese. Infatti, gli imprenditori concorrenti, molto spesso preferiscono l’accordo alla competizione incerta per prevalere gli uni sugli altri. Perciò stipulano patti per limitare la reciproca concorrenza, intese, si dividono i mercati di sbocco, si predeterminano i prezzi da praticare, la quota spettante. Il regime concorrenziale di mercato è alterato. Di fronte 38 a tali tendenze della realtà è evidente la necessità d’interventi del legislatore, per impedire il formarsi e il perpetuarsi di situazioni di monopolio. La ricerca di un punto d’equilibrio mutevole a settore a settore, fra il modello teorico della piena concorrenza e la realtà operativa, orientata verso situazioni di oligopolio o monopolio, è diventata perciò la linea direttiva di fondo che ispira la disciplina della concorrenza in un’economia libera. Anche il nostro ordinamento si orienta su questa linea. Una volta fissato il principio guida della liberta di concorrenza (Art. 41 Cost.), il legislatore italiano consente limitazioni legali della stessa per fini di utilità sociale, consente limitazioni negoziali della concorrenza, assicura l’ordinato e corretto svolgimento della concorrenza reprimendo la concorrenza sleale. Nel sistema italiano non vi era una normativa antimonopolistica, esigenza questa avvertita già negli altri stati, vedi gli USA presente già dal 1890. A partire dagli anni ’50, nel nostro ordinamento, fu introdotto la disciplina antitrust con i trattati istitutivi della CEE. Questo vuoto è stato colmato dopo anni di dibatto nel ’90 con la legge n. 287, che reca norme per la tutela del mercato e della concorrenza. Il principio cardine della legge antimonopolistica dell’UE, con gli Artt. 81 e 82 afferma la libertà d’iniziativa economica e la competizione d’impresa, preservando dai comportamenti che pregiudicano la struttura concorrenziale del mercato. Questo principio è stato fatto nostro, ossia dalla legislazione antimonopolistica italiana generale. Questa legge ha istituito un apposito organo pubblico indipendente, l’autorità garante della concorrenza e del mercato che vigila sul rispetto della normativa e adotta i provvedimenti necessari. Però la competenza dell’autorità italiana a carattere residuale, ossia è circoscritta alle pratiche che hanno rilievo locale e non incidono sul mercato comunitario, per queste ultime è competente la commissione delle comunità europee. Tre sono i fenomeni rilevanti per la disciplina antimonopolistica nazionale e comunitaria: le intese restrittive della concorrenza, l’abuso di posizione dominante e le concentrazioni. Le intese anticoncorrenziali non sono tutte vietate, lo sono quelle che hanno per oggetto o per effetto impedire o falsare in maniera consistente il gioco della concorrenza, sono lecite le imprese minori, cioè quelle che non incidono in modo irrilevante sull’assetto concorrenziale del mercato. Le intese vietate sono nulle 39 ad ogni effetto. Il secondo fenomeno è l’abuso di posizione dominante da parte di una o più impresa, vietato non nel fatto in sé di una posizione dominante sul mercato, è lo sfruttamento abusivo di questa posizione. Ad un’impresa l’imposizione dominante è vietato di imporre prezzi o condizioni ingiustificatamente gravose; impedire o limitare la produzione, gli accessi al mercato, adottare prezzi diversi in diversi paesi. Accertata l’infrazione, l’autorità ne’ordina la cessazione e inoltra le sanzioni. Oggi è vietato nell’ordinamento nazionale anche l’abuso dello stato d’indipendenza economica nel quale si trova impresa cliente, fornitrice rispetto ad una o più altre imprese. Il terzo ed ultimo fenomeno sono le concentrazioni fra imprese. Si ha concentrazione, quando più imprese si fondano dando luogo ad un'unica impresa, due o più imprese indipendenti costituiscono un impresa societaria. Due o più imprese, pur distinte diventano un'unica entità economica. Di per sé non sono vietate, quando rispondono all’esigenza di aumentare la competitività, lo diventano, quando danno luogo a gravi alterazioni concorrenziali di mercato. È stabilito che le operazioni di concentrazione che superano determinate soglie di fatturato a livello nazionale devono essere comunicate alle autorità italiana o alla comunità CEE, l’autorità può vietare la concentrazione se ritiene che la stessa comporta il rafforzamento di una posizione dominante con effetti distorsivi per la concorrenza stabile. Le sanzioni possono raggiungere il 10% del fatturato delle imprese interessate se la concentrazione interessata viene eseguita. La libertà d’iniziativa economica privata e la libertà di concorrenza, sono libertà disposte nell’interesse generale e non possono svolgersi contro l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana (Art. 41 Cost.). Sia la Costituzione, sia il Codice Civile consentono che tale libertà possano essere compresse e limitate dai pubblici poteri. L’interesse generale può legittimare anche la radicale soppressione della libertà di concorrenza con la costituzione per legge di monopoli pubblici per servizi essenziali. Anche se va detto che i monopoli pubblici, oggi tendono a ridursi, perché non si concilia con i concili espiratori dell’UE. In ogni caso la produzione di determinati beni o servizi, attuata in regime di monopolio legale, sia dallo Stato o da un ente pubblico, il legislatore tutela gli utenti contro l’arbitrio. Infatti, pone un duplice 40 obbligo a carico di chi opera in regime di monopolio, a) l’obbligo di contrattare chiunque richieda le prestazioni e di soddisfare le richieste; b) rispettare la parità di trattamento. La parità di trattamento non implica però le stesse condizioni contrattuali per tutti perché il monopolista può prevedere modalità, tariffe differenziate. La libertà individuale di iniziativa economica e di concorrenza è in libertà parzialmente disponibile, infatti, il patto limita la concorrenza dove sarà provato per iscritto non può precludere al soggetto che si vincola lo svolgimento di ogni attività professionale, in quanto è previsto che il patto stesso è valido solo se è limitato ad un determinato ambito territoriale, o in alternativa ad un determinato tipo di attività, infine, imposto un limite massimo di 5 anni. La finalità è quella di tutelare i soggetti che assumono l’obbligo di non concorrenza, un’eccessiva compressione della loro attività individuale. Costituiscono esempi classici di patti limitativi della concorrenza i cartelli o i consorzi anticoncorrenziali, ad esempio fabbricanti di tessuti concordano la quantità globale da produrre, oppure si dividono le zone di distribuzione e abbiamo i cartelli di zona. CONCORRENZA SLEALE La libertà d’iniziativa economica implica la presenza sul mercato di più imprenditori in competizione tra loro per conquistare il mercato dei consumatori. La competizione può essere anche rude e pesante, mettendo in atto strategie e tecniche che si ritengono più idonee. Però si devono osservare alcune regole di comportamento, in modo che la competizione si svolga corretta e leale. Quindi bisogna distinguer fra CONCORRENZA LEALE e CONCORRENZA SLEALE. I principi base sono racchiusi in alcun categorie, vedi atti di confusione, di denigratori e di vanteria. Questi i sono di ONCORRENZA SLEALE vengono repressi e sanzionati anche senza dolo, cioè anche se non hanno arrecato un danno ai concorrenti. Si tratta di una disciplina volta a evitare che pratiche scorrete alterino un valore ‘interesse generale. Infatti, viene tutelato non solo l’interesse dell’imprenditore, ma anche il destinatario cioè il consumatore. Alla mancanza di norme sulla protezione dei consumatori contro la pubblicità ingannevole si è cercato di porre riparo con un sistema di autodisciplina, 41 affiancata da una disciplina statale della pubblicità ingannevole e comparativa. Scopo dichiarato di questa disciplina è quello di tutelare non solo gli imprenditori ma gli interessi del pubblico nella fruizione nei messaggi pubblicitari. Nel codice civile all’Art. 2598 sono definiti i comportamenti di Concorrenza Sleale, vedi Atti di Confusione, che traggono in inganno il pubblico sulla provenienza dei prodotti e quant’altro. Il legislatore né individua due in modo chiaro: L’USO DI SEGNI O NOMI DISTINTIVI che generano confusione con nomi e segni usati da altri imprenditori; LIMITAZIONE SERVILE DI PRODOTTI CONCORRENTI, ossia la riproduzione esatta di prodotti altrui delle forme esteriori. Ancora tra la concorrenza sleale c’è la denigrazione e l’appropriazione di pregi altrui, la pubblicità iperbolica è un atto sleale per denigrazione. Ancora ci sono atti di concorrenza sleale ogni mezzo che non conforme ai principi della disciplina concorrenziale, è idoneo a danneggiare l’altrui azienda. In ultimo vi è la PUBBLICITA’ MENZOGNERA cioè falsa attribuzione ai propri prodotti di qualità e pregi non appartenenti ad alcun concorrente, nonché la CONCORENZA PARASSITARIA che consiste nell’imitazione sistematica di iniziative altrui, vedi prodotti, marchi e così via. CAPITOLO IX I CONSORZI FRA IMPRENDITORI Con il CONTRATTO DI CONSORZIO più imprenditori costituiscono un’organizzazione comune per lo svolgimento di determinate fasi delle loro imprese, questa è la nuova nozione di CONSORZI. L’attuale definizione legislativa comporta che il consorzio è oggi schema associativo tra imprenditori. Ci sono CONSORZI ANTICONCORRENZIALI, quelli costituiti per il contingentamento della produzione; vi sono consorzi di COORDINAMENTO per lo svolgimento di determinate fasi delle rispettive imprese per ridurre i costi di gestione. Vi è nella disciplina di diritto privato delle regole uniformi per i consorzi anticoncorrenziali quelli di cooperazione. Altra è la distinzione rilevante sul piano civilistico, ossia la distinzione tra consorzi con attività interna e quelli con attività esterna. In entrambi si crea un’organizzazione comune, ma nei consorzi con sola attività interna il compito 42 di tale organizzazione si esaurisce con regolare i rapporti con i consorziati e non vi sono contatti esterni. Altro è con attività esterna, dove si prevede l’istituzione di un ufficio comune che svolge attività con i terzi. Il contratto di consorzio può essere solo stipulato fra imprenditori, per iscritto pena di nullità, ancora deve contenere una serie d’indicazioni riguardo all’oggetto, gli obblighi assunti e i contributi in denaro. Il contratto per sua natura è un contratto di durata, e nel silenzio è valido per 10 anni. Il contratto di consorzio è un contratto aperto, cioè è possibile la partecipazione di nuovi imprenditori, però le condizioni per l’ammissione di nuovi consorziati devono essere predeterminate dal contratto. Il contratto di consorzio può sciogliersi limitatamente ad un consorziato per recesso o per esclusione da parte degli altri consorziati. Dalle cause di recesso ed esclusione si distinguono le cause di scioglimento dell’intero contratto di consorzio, queste sono elencate dall’Art. 2611 che consente uno scioglimento con delibera maggioritaria quando vi è una giusta causa. L’organizzazione consortile è di carattere essenziale; ha il compito di attuare il contratto assumendo ed eseguendo le decisioni necessarie a tal fine. Vi è un organo composto da tutti i consorziati: l’ASSEMBLEA è un organo esecutivo. Le delibere sono prese col voto favorevole della maggioranza, invece per le modifiche del contratto. Ancora più ampio è lo spazio riservato all’autonomia per quanto riguarda l’organo direttivo la cui funzione tipica, nei consorzi che non svolgono attività esterna è quella di controllare l’attività dei consorziati, onde accettare l’esatto adempimento della obbligazioni assunte. I CONSORZI CON ATTIVITÀ ESTERNA Una disciplina specifica è prevista per i consorzi che svolgono attività con i terzi attraverso un ufficio apposito destinato a regolare i rapporti patrimoniali consorzi terzi, sia nel carattere tipicamente imprenditoriale dell’attività degli stessi. Per loro è previsto un regime di pubblicità legale, un estratto di contratto di consorzio che contiene le indicazioni specificate dall’Art. 2612, deve essere depositato presso l’ufficio del registro delle imprese entro 30 giorni dalla stipula. Nei consorzi con attività esterna trovano migliore definizione e funzione dell’organo direttivo. Il 43 contratto deve indicare le persone cui è attribuita la presidenza, la direzione e i relativi poteri. Le persone che hanno la direzione del consorzio, devono redigere annualmente la situazione patrimoniale, previste ancora un fondo patrimoniale, formato dai contributi iniziali e successivi. L’Art. 2615 distingue le obbligazioni gravanti sul fondo consortile che si dividono tra quelle assunte in nome del consorzio e quelle per conto dei singoli consorziati. LE SOCIETÀ CONSORTILI Consorzi e società (Art. 2247) sono istituti diversi e la diversità è netta, quando il consorzio svolge attività solo interna, manca in questo caso l’esercizio in comune di un’attività economica da parte dei consorziati che invece costituiscono elemento basilare delle società. La distinzione diventa più sottile quando il consorzio svolge anche attività con i terzi. Società e consorzi, con attività esterna, hanno in comune sia il normale carattere imprenditoriale dell’attività, sia il fine da realizzare attraverso questa, diverso è lo scopo egoistico tipicamente perseguito. Funzione tipica di un consorzio con attività esterna è quella di produrre beni e servizi necessari alle imprese consorziate senza utili da parte del consorzio. Lo scopo tipico perseguito dai singoli consorziati non è quello di ricavare l’utile dall’attività del consorzio ma solo conseguire un vantaggio patrimoniale diretto nelle rispettive economie. Quindi lo scopo è diverso delle società lucrative (società di persone o capitali) la cui finalità è quella di produrre utili da distribuire fra i soci, perciò svolgono tipicamente attività di scambio con i terzi. Di regola una S.p.A. acquista merci, li rivende e divide il guadagno fra soci. Un consorzio, di regola, acquista merci e li rivende ai consorziati stessi ad un prezzo calcolato in modo da coprire i costi di gestione. Lo scopo consortile presenta molte affinità con lo scopo perseguito dalle società cooperative, cioè quello mutualistico. Consorzio e società (lucrative e mutualistiche) sono quindi forme associative previste dal legislatore per la realizzazione di finalità non coincidenti. L’Art. 2615 ter. dispone che tutte le società lucrative eccetto la società semplice, possono assumere come oggetto sociale scopi di un consorzio. È possibile costituire una società operazione, nel cui atto costitutivo si dichiara l’esclusiva 44 finalità consortile perseguibile. Gli imprenditori che danno vita a questa società possono nell’atto costitutivo, specificare pattuizione volte ad adattare la struttura societaria alla finalità consortile perseguita. GRUPPO EUROPEO DI INTERESSE ECONOMICO (GEE) Funzione identica a quella dei consorzi possono aversi in campo trans-nazionali con il GEE, questo è un istituto giuridico predisposto dall’UE per favorire la cooperazione fra impresa di diversi stati rimuovendo gli ostacoli delle diverse legislazioni nazionali. Il regolamento comunitario dell’85 n. 2137 ha fissato la disciplina base, l’Italia ha provveduto a riguardo col D.L. del ’91 n. 240. La struttura del GEE è in parte uguale a quella dei consorzi di cooperazione con attività esterna. Diversamente dai consorzi non è necessario che si tratti d’imprenditori, ma può essere costituito anche fra liberi professionisti. Almeno due membri è necessario che esercitano la loro attività economica in stati diversi della comunità. Al pari dei consorzi con attività esterna, il GEE è un centro autonomo d’imputazione di rapporti giuridici distinto dai suoi membri, ma privo di personalità giuridica, ha, infatti, la capacità a proprio nome di essere titolare di diritto e obbligazioni di qualsiasi natura. Il contratto costitutivo del GEE deve essere redatto per iscritto, nel contratto vanno indicate la DENOMINAZIONE, la SEDE, l’OGGETTO e i NOMI DEI MEMBRI e la DURATA. Il contratto è soggetto a pubblicità legale con iscrizione nel registro delle imprese e pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale. In seguito di questa pubblicazione, si deve dare comunicazione nella Gazzetta Ufficiale delle Comunità Europee. Il gruppo con l’iscrizione nel registro delle imprese acquista la titolarità di diritto ed obbligazioni. L’organizzazione e le regole di funzionamento sono rimesse all’autonomia privata, ci sono due organi: L’ASSEMBLEA, e un ORGANO AMMINISTRATIVO. I membri del gruppo possono prendere qualsiasi decisione collegialmente per le questioni importanti; per le altre il contratto fissa le maggioranze richieste. Ricordiamo che ogni membro ha un solo voto. La gestione del GEE è affidata da uno o più amministratori. In applicazione di principio che il GEE non ha lo scopo di realizzare profitti per sé, i profitti risultanti dall’attività del gruppo 45 sono considerati profitti dei membri e ripartiti da loro, con lo stesso criterio contribuiscono a coprire le perdite. Non vi è un fondo patrimoniale iniziale né eleva il fondo patrimoniale, dà contrappeso vi è un regime di responsabilità per le obbligazioni di qualsiasi natura assunte dal GEE, rispondono solidalmente ed illimitatamente tutti i soci, oltre a questo col patrimonio. La responsabilità è sussidiaria rispetto a quella del GEE, i creditori possono agire nei confronti dei membri dopo aver chiesto al gruppo di pagare qualora il pagamento non sia stato entro un congruo termine. Ogni membro risponde anche delle obbligazioni anteriori salvo patto diverso, i membri per recesso o per esclusione possano cessare di far parte del GEE ma continuano a rispondere delle obbligazioni. In caso d’insolvenza è esposta al fallimento e gli organi al fallimento potranno chiedere ai membri del GEE il versamento delle somme. 46