CAPITOLO I
INTRODUZIONE
La nostra Costituzione riconosce la proprietà privata e la libertà d’iniziativa
economica (Art. 41 e 42 Cost.) e perciò il nostro paese è tra quelli che hanno scelto
un modello di sviluppo economico basato sull’economia di mercato. Modello che
presuppone la libertà dei privati di dedicarsi alla produzione e distribuzione di quanto
necessario per il soddisfacimento dei bisogni materiali della collettività; la libertà di
competizione economica fra quanti operano sul mercato e la coesistenza di una
pluralità di operatori economici. Nel nostro paese ad economia libera come negli altri
e nell’epoca della civiltà industriale, assume un ruolo centrale l’attività dell’impresa.
Di qui la necessità di una legislazione economica, non solo di diritto pubblico ma
anche di diritto privato. Il diritto commerciale moderno è quella parte di diritto
privato che ha per oggetto e regola l’attività e gli atti d’impresa. È diritto privato
dell’impresa un complesso di norme riferite agli imprenditori, ai soggetti cioè che
esercitano professionalmente attività economica. Esiste questo complesso di regole in
quanto che il nostro paese ha un modello di sviluppo economico basato
sull’economia di mercato.
L’IMPRENDITORE
La disciplina delle attività economiche ruota intorno alla figura dell’imprenditore, del
quale il legislatore dà una definizione nell’Art. 2082 del Codice Civile. La disciplina
non è però identica per tutti gli imprenditori. Non a caso il codice distingue diversi
tipi d’imprese e d’imprenditori, in base a tre criteri: l’OGGETTO, la
DIMENSIONE e la NATURA; l’OGGETTO dell’impresa determina la distinzione
fra imprenditore agricolo (Art. 2135) e quello commerciale (Art. 2195). Riguardo alla
DIMENSIONE s’individua il piccolo imprenditore (Art. 2083) e di riflesso quello
medio grande. La NATURA del soggetto, che esercita l’impresa porta ad una
divisione legislativa fra impresa individuale, quella in forma di società ed impresa
pubblica. Tutti gli imprenditori, agricoli e commerciali, piccoli e grandi, hanno una
disciplina
di
base
comune,
ossia
lo
STATUTO
GENERALE
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DELL’IMPRENDITORE, che comprende parte della disciplina dell’azienda e dei
segni distintivi nonché la disciplina della concorrenza e del mercato. Chi è
imprenditore commerciale non piccolo, è poi soggetto ad un ulteriore specifico
statuto, integrativo a quello generale. Poche e scarsamente significative, sono le
disposizioni del codice civile applicabili esclusivamente all’imprenditore agricolo e al
piccolo imprenditore, in particolare questo ultimo è sottratto all’applicazione della
disciplina dell’imprenditore commerciale (ad esempio non fallisce anche se esercita
attività commerciale).
LA NOZIONE GENERALE DELL’IMPRENDITORE
È imprenditore chi esercita professionalmente un’attività economica organizzata al
fine della produzione e dello scambio di beni o servizi, e si differenzia dal
commerciante, che è una categoria minore d’imprenditore la cui attività consiste nello
scambio di beni. (Due elementi fondamentali caratterizzano l’imprenditore:
l’iniziativa, cioè il potere di organizzare l’impresa, di indirizzarne l’attività
decidendone la politica economica e dirigere la produzione; il rischio cioè la
sopportazione di tutti gli oneri inerenti alla conduzione dell’impresa. Il rischio
economico è che il ricavato del prodotto finito non possa coprire i costi). L’Art. 2082
fissa i requisiti minimi che ci devono essere perché ad un dato soggetto si possono
applicare le norme del codice per l’impresa e l’imprenditore. Dall’Art. si ricava che
l’impresa è attività (serie d’atti) ed è attività caratterizzata da uno specifico scopo
(produzione o scambi di beni) sia da specifiche modalità di svolgimento ossia
professionalità …… Si discute se altri requisiti, vedi l’intento dell’imprenditore di
ricavare un profitto o la destinazione ad un mercato, anche se non citati
espressamente, siano necessari perché si abbia attività d’impresa ed acquisto della
qualità dell’imprenditore.
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L’ATTIVITÀ PRODUTTIVA
L’impresa è attività, serie d’atti finalizzata alla produzione o scambio di beni o
servizi, dunque è attività produttiva di nuova ricchezza. Irrilevante è invece la natura
dei beni prodotti nonché il tipo di bisogno che essi sono destinati a soddisfare; quindi
può costituire attività d’impresa anche la produzione di servizi di natura assistenziale,
culturale (come case di cura, confitti). È altresì irrilevante che l’attività produttiva
costituisce anche godimento di beni preesistenti, di certo non è impresa l’attività di
mero godimento, attività che non dà luogo alla produzione di nuovi beni, classico è
l’esempio del proprietario di immobili che né gode i frutti concedendoli in locazione.
Egli non è imprenditore perché non produce nuove attività economiche, ma si limita a
godere i frutti dei propri beni. Un’ attività può però costituire allo stesso tempo
godimento di beni preesistenti e produzione di nuovi beni, in tal caso in presenza di
altri requisiti, secondo l’Art. 2082, si acquista la qualità d’imprenditore. Così è
attività di godimento e produttiva di servizi l’attività del proprietario di un immobile
che usa lo stesso ad albergo, pensione o residenza. In tal caso le prestazioni locative
sono accompagnate dall’erogazione di servizi collaterali (pulizie locali, cambio
biancheria) che vanno al di là del mero godimento del bene. Ancora è godimento del
proprio patrimonio e attività di produzione, l’impiego del proprio denaro nella
compravendita di azioni o titoli di stato con scopo d’investimenti o di speculazione o
nella concessione di finanziamenti a terzi. Perciò questi atti, quando siano coordinati
in modo da configurare un’attività, possono dar vita ad un impresa se ricorrono i
requisiti dell’organizzazione e professionalità. Così sono imprese commerciali le
società finanziarie, società che erogano credito con mezzi propri o comunque non
raccolti fra il pubblico e che per tale motivo non sono considerate imprese bancarie. È
opinione ormai prevalente che la qualità d’imprenditore deve essere riconosciuta
anche quando l’attività produttiva svolta è lecita, cioè contraria a norme imperative,
all’ordine e al buon costume. Questo sia nei casi meno gravi in cui vengono violate
norme che sono subordinate a condizione per l’esercizio di questa attività, ad esempio
commercio all’ingrosso senza licenza, sia nei casi più gravi quando illecito è lo stesso
oggetto dell’attività, ad esempio commercio di droga. Chi svolge attività d’impresa
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violando la legge non potrà avvalersi delle norme che tutelano l’imprenditore nei
confronti dei terzi e ciò in applicazione di un principio generale dell’ordinamento: da
un comportamento illecito non possono mai derivare effetti favorevoli per il suo
autore. Del resto non si è mai visto uno spacciatore di droga o un contrabbandiere che
si rivolge ad un tribunale per regolare i conti con un concorrente.
L’ORGANIZZAZIONE: IMPRESA E LAVORO AUTONOMO
Non è concepibile attività d’impresa senza programmare e coordinare i fattori
produttivi: capitale e lavoro propri e altrui. È tipico pensare che la funzione
organizzativa dell’imprenditore sia formata da un apparato produttivo stabile e
complesso, formato da persone e beni strumentali (macchinari, locali, materie prime).
È questo il tipico aspetto del fenomeno imprenditoriale sottolineato dal legislatore,
quando qualifica l’impresa come attività organizzata e definisce azienda il complesso
di beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa (Art. 2255). Dopo
aver visto la funzione tipica dell’imprenditore, si analizza vari casi dove non
necessariamente l’organizzazione presuppone prestazioni lavorative altrui. È
imprenditore anche chi opera utilizzando solo il fattore capitale ed il proprio lavoro
senza dar vita ad alcuna organizzazione, ad esempio una gioielleria gestita dal titolare
che opera senza alcun dipendente. Allo stesso modo si è rilevato che il concetto di
organizzazione non necessita della creazione di un apparato strumentale (locali,
macchinari, mobili). È vero che non vi può essere impresa senza impiego ed
organizzazione di mezzi materiali, ma questi possono ridursi al solo impiego di mezzi
finanziari propri, ad esempio ciò si verifica per le attività di finanziamento o di
investimento. Quindi si pone il problema se si possa parlare d’impresa anche quando
il processo produttivo si fonda esclusivamente sul lavoro personale dell’imprenditore,
quando cioè non vengono utilizzati né lavoro altrui né capitali. Infatti, sono
imprenditori sia pure piccoli gli elettricisti, gli idraulici etc. Tuttavia la semplice
organizzazione a fini produttivi del proprio lavoro non può essere considerata
organizzazione di tipo imprenditoriale in mancanza di un coefficiente minimo di
etero – organizzazione. Alcuni autori ribaltano il discorso considerando imprenditore
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anche chi si limita ad organizzare il proprio lavoro senza impiegare né lavoro altrui
né capitali, quindi è imprenditore chi svolge attività organizzata prevalentemente con
il lavoro proprio e dei componenti della famiglia (Art. 2083 Codice Civile “piccolo
imprenditore”). Questa tesi non è condivisibile perché contrasta con la comune
valutazione sociale, in quanto avverte che altro è organizzare il proprio lavoro (cose
che tutti facciamo); altro è organizzare un’attività d’impresa.
ECONOMICITÀ DELL’ATTIVITÀ
L’Art. 2082 dice che è imprenditore chi esercita un attività economica organizzata al
fine della produzione di beni o servizi. Per attività in senso ampio si intende una serie
coordinata di atti per un conseguimento di uno stesso fine. È attività economica,
l’attività astrattamente lucrativa, cioè quella che può ma non deve procurare lucro.
L’attività produttiva può dirsi condotta con metodo economico, quando è svolta con
modalità che consentono nel lungo periodo la copertura dei costi con i ricavi,
altrimenti si ha consumo e non produzione di ricchezza. Non è perciò imprenditore
chi soggetto privato o pubblico che produca beni che vengono erogati gratuitamente o
a prezzo politico, cioè da far escludere la possibilità di coprire i costi con i ricavi. È
imprenditore chi gestisce gli stessi servizi con metodo economico (copertura dei costi
con i ricavi).
LA PROFESSIONALITÀ
Un altro dei requisiti richiesti dall’Art. 2082 per essere imprenditori è la
PROFESSIONALITÀ. Professionalmente vuole indicare che l’attività deve essere
costante e sistematica (non occasionale). Professionalità significa quindi esercizio
abituale e non occasionale di una data attività produttiva. Non è perciò imprenditore
chi compie un’isolata operazione d’acquisto e successiva rivendita di merci, dato che
in tal caso non si può parlare neppure di attività. Non è imprenditore neppure chi
compie una pluralità di atti economici coordinati e circostanze oggettive dimostrano
palesemente il carattere non abituale ed occasionale dell’attività. Ad esempio non è
imprenditore chi organizza un singolo servizio di trasporto. La professionalità non
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implica che l’attività imprenditoriale debba essere necessariamente svolta in modo
continuato e senza interruzione, ad esempio attività stagionali, fabbriche alimentari di
pomodori. La professionalità non implica neppure che quella d’impresa sia l’attività
unica o principale, è imprenditore anche il professore, un impiegato che insieme alla
sua professione, gestisce un negozio. È possibile anche il contemporaneo esercizio di
più attività d’impresa, ad esempio agricola e commerciale da parte dello stesso
soggetto. Impresa si può avere anche quando si opera per il compimento di un unico
affare, quando per la sua rilevanza economica implichi il compimento di operazioni
molteplici e l’utilizzo di un apparato produttivo, idoneo ad escludere il carattere
occasionale, ad esempio il costruttore di un edificio e vendita degli appartamenti
realizzati.
SCOPO DI LUCRO
Resta da vedere, dopo aver esposto i requisiti richiesti dalla legge, se altri c’è ne sono
per qualificare un soggetto come imprenditore. Un primo punto controverso è quello
se costituisce requisito essenziale conseguire un guadagno o profitto: lo scopo di
lucro. Secondo alcuni autori non è necessario che il soggetto percepisca un lucro, ma
occorre che l’attività sia astrattamente lucrativa, cioè capace di procurare un
guadagno, indipendentemente dal fatto che lo produca o meno, ossia quella attività
economica che può ma non deve procurare lucro. Altri autori, la maggioranza
ritengono che lo scopo di lucro non sia un elemento essenziale dell’attività.
L’impresa è esercitata dal fine di ricavare i mezzi necessari di sostentamento per
l’imprenditore; il fine di lucro esula gli scopi dell’impresa. CAMPOBASSO ritiene
più che scopo di lucro quello che è essenziale all’impresa, è l’obiettiva economicità
della sua gestione, cioè la capacità di ricavare dall’attività svolta quando occorre per
coprire con i ricavi i costi di produzione.
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IL PROBLEMA DELL’IMPRESA PER CONTO PROPRIO
Le imprese operano di regola per il mercato, destinano cioè allo scambio i beni o
servizi prodotti. Può essere considerato imprenditore colui che produce beni destinati
ad uso personale? È impresa anche la cosiddetta impresa per conto proprio? La
destinazione al mercato della produzione non è in verità richiesta da alcun dato
legislativo. Anzi l’Art. 2082 è chiaro: è imprenditore chi esercita professionalmente
un’attività economica organizzata al fine della produzione e dello scambio di beni o
servizi, perciò attraverso un’interpretazione letterale si sostiene che è imprenditore
anche quello per conto proprio. Tuttavia è prevalente l’opinione contraria, per il ruolo
significativo della concezione economica dell’imprenditore come soggetto che svolge
una funzione intermediaria fra i proprietari dei fattori produttivi e i consumatori. Si
arriva alla conclusione che l’impresa per conto proprio non è impresa.
IMPRESA E PROFESSIONE INTELLETTUALE
Il libero professionista, gli artisti, gli inventori non sono mai in quanto tali
imprenditori, tanto si desume dall’Art. 2238 del codice civile, il quale stabilisce che
le disposizioni in tema di impresa si applicano alle professioni intellettuali solo se
l’esercizio della professione costituisce elemento di un’attività organizzata di un
impresa. I liberi professionisti, artisti diventano imprenditori solo se la professione
intellettuale è esercitata nell’ambito di un’altra attività qualificabile come impresa. È
il caso del medico che gestisce una clinica privata dove opera, il professore titolare di
una scuola privata dove insegna. In tutti questi casi si è in presenza di due distinte
attività: intellettuale e di impresa. Il professionista intellettuale, che si limita a
svolgere la propria attività, non diventa mai imprenditore. Non lo diventa neanche
nell’ipotesi in cui si avvalga di una schiera di collaboratori, si pensa ai grandi studi di
avvocati o notai. Secondo alcuni autori, i professionisti, artisti non sono imprenditori
per libera scelta del legislatore, secondo altri autori l’esclusione risiede nel fatto che
le prestazioni intellettuali non sono beni o servizi in senso tecnico – giuridico;
secondo altri, ciò che li esclude dalla categoria di imprenditori è il fatto che essi non
assumano nell’esercizio delle proprie attività quel rischio del lavoro caratteristico
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della figura dell’imprenditore. Infatti, l’Art. 2230 che disciplina il contratto d’opera
intellettuale, parla dell’obbligazione di mezzi e non di risultato, cioè il libero
professionista si impegna a prestare la propria opera ed ha diritto al compenso a
prescindere dal risultato ottenuto, il cui rischio grava sull’altra parte.
L’IMPRENDITORE OCCULTO
Sorge il problema del cosiddetto imprenditore occulto; talvolta nella pratica
l’imprenditore non agisce, ma non volendo apparire esercita la propria attività
servendosi di un altro soggetto “Prestanome”. In quest’ipotesi quale dei due soggetti
può considerarsi imprenditore? Alcuni autori affermano che imprenditore è colui nel
cui nome l’attività viene esercitata. Altri studiosi affermano che solo il prestanome
acquista la qualità di imprenditore, responsabili verso i creditori sarebbero però
entrambi, poiché colui che esercita in concreto la direzione di un’impresa deve
assumerne necessariamente anche il rischio e rispondere delle relative obbligazioni.
IMPRENDITORE AGRICOLO E IMPRENDITORE COMMERCIALE
L’imprenditore agricolo ed imprenditore commerciale sono le due categorie
d’imprenditori che il codice distingue in base all’oggetto dell’attività. Chi è
imprenditore agricolo è sottoposto solo alla disciplina prevista per l’imprenditore in
generale, quindi gode di un trattamento di favore rispetto all’altro, trattamento di
favore che è accentuato dalla legislazione speciale attraverso una serie d’incentivi ed
agevolazioni. Ora stabilire se un dato imprenditore è agricolo o commerciale, serve a
definire l’ambito di operatività di tale trattamento di favore. Il testo dell’Art. 2135
prescrive che si possono individuare due categorie d’attività agricole: ATTIVITÀ
AGRICOLE ESSENZIALE e ATTIVITÀ PER CONNESSIONE. Le prime sono
quelle che riguardano la coltivazione del fondo, silvicoltura e allevamento di
bestiame, attività che hanno subito una profonda evoluzione dal ’42 ad oggi a causa
del progresso tecnologico. L’impresa agricola fondata sullo sfruttamento della
produttività della terra ha ceduto il passo all’agricoltura industrializzata che utilizza
prodotti chimici (concimi, diserbanti), per aumentare la produttività. Si pensi alle
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coltivazioni artificiali, vedi quelli degli ortaggi e funghi, attraverso soluzioni
chimiche; agli allevamenti in batteria vedi il pollame, etc. Oggi, in breve, anche
l’attività agricola può dar luogo ad ingenti d’investimenti di capitali. Che
l’imprenditore agricolo sia esonerato dalla disciplina delle imprese commerciali, che
sia sempre sottratta al fallimento, diventa una scelta legislativa che lascia
insoddisfatti molti interpreti. È necessario stabilire fino a che punto l’evoluzione
tecnologica dell’agricoltura sia compatibile con la qualificazione agricola
dell’impresa agli effetti della legge. L’attuale riforma dell’Art. 2135 ribadisce che è
imprenditore agricolo chi esercita una delle seguenti attività: coltivazione del fondo,
selvicoltura, allevamento di animali e attività connesse. Subito specifica, però, per
coltivazione del fondo, selvicoltura e allevamenti di animali s’intendono le attività
dirette alla cura e allo sviluppo di un ciclo biologico di carattere vegetale o animale,
che utilizzano o possono utilizzare il fondo, il bosco o le acque. In base alla nuova
nozione si deve ritenere che la produzione di specie vegetali ed animali è sempre
qualificabile come attività agricola essenziale, anche se realizzata con metodi che
prescindono del tutto dallo sfruttamento della terra e dei suoi prodotti. Quindi ne
consegue che si possono far rientrare oggi come ieri nella nozione di coltivazione di
fondo l’orticoltura, le coltivazione in serra o i vivai. In oltre, in base alla nuova
nozione, danno vita ad impresa agricola anche le coltivazioni fuori terra di ortaggi e
frutta. Per selvicoltura s’intende quella particolare attività agricola diretta alla
produzione del legno, quindi una complessa attività di coltivazione. Non rientra tra i
selvicoltori chi si limita ad accogliere il legname prodotto dal bosco. L’allevamento
di animale è la forma di attività agricola essenziale più ricca, ed è quella che, in
passato, ha raccolto più contrasti. Il criterio del ciclo biologico oggi ha accolto dal
legislatore, riconosce che la zootecnia costituisce attività agricola essenziale svolta
fuori dal fondo (allevamenti in batteria). Inoltre si deve intendere per allevamento di
animali non solo l’allevamento diretto ad ottenere prodotti tipicamente agricoli:
carne, latte ed animali da lavoro, potendosi oggi far rientrare nella nozione di animale
quelli di cavalli da corsa o da pelliccia. Ancora la sostituzione del termine “bestiame”
con quello di “animali” fa rientrare come impresa agricola essenziale non solo
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l’allevamento di animali tradizionalmente allevati, vedi ovini, bovini e suini, ma
anche l’allevamento di animale da cortile come polli, conigli e l’acquacoltura (pesci,
militi). Infine l’imprenditore agricolo è stato equiparato a quello ittico, vale a dire
l’imprenditore che esercita un’attività diretta alla cattura e raccolta di organismi
acquatici.
LE ATTIVITÀ AGRICOLE PER CONNESSIONE
La seconda categoria di attività agricole è costituita dalle attività agricole per
connessione. S’intendono connesse:
 Le attività dirette alla manipolazione, conservazione, trasformazione,
commercializzazione e valorizzazione di prodotti ottenuti da un’attività
agricola essenziale;
 Le attività dirette alla fornitura di beni e servizi mediante l’utilizzo di
attrezzature o risorse impiegate nell’attività agricola essenziale.
È industriale e non agricoltore chi produce olio o formaggi; è commerciante e non
agricoltore chi ha un negozio di frutta e verdura. Due sono le condizioni necessarie a
qualificare un’attività commerciale come agricola per connessione; è necessario che
il soggetto che la esercita sia imprenditore agricolo in quanto svolge in forma di
impresa una delle tre attività agricole tipiche ed inoltre attività coerente con quella
connessa. È imprenditore commerciale chi trasforma prodotti agricoli altrui,
parimenti lo è il viticoltore che produce formaggi. Resta imprenditore agricolo il
viticoltore che produce vino. La connessione soggettiva non è però sufficiente,
necessario che ricorra anche una connessione oggettiva tra le due attività, infatti è
necessario e sufficiente che si tratti solo di attività aventi solo per oggetto prodotti
ottenuti dall’esercizio dell’attività agricola ed essenziale. È sufficiente che le attività
connesse non prevalgano per il rilievo economico sull’attività agricola essenziale.
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IMPRENDITORE COMMERCIALE
È chi esercita una o più delle seguenti categorie di attività elencate dall’Art. 2195.
1. Attività industriale diretta alla produzione di beni o servizi (questo è il vasto
settore dell’impresa industriale – automobilistiche chimiche, tessili – )
2. Attività intermediaria nella circolazione dei beni (questo un altro vasto settore
del commercio, il commerciante acquista beni e li rivende – commercio
all’ingrosso – o ai consumatori – commercio al minuto – )
3. Attività di trasporto per terra, acqua o aria (le imprese di trasporto producono
servizi, servizi specifici che consistono nel trasportare in un luogo persone o
altro, quindi è produzione di servizio )
4. Attività bancarie o assicurative (l’impresa bancaria ha per oggetto tipico la
raccolta di risparmio tra il pubblico e l’esercizio di credito. L’attività bancaria è
in sostanza attività di scambio di particolare bene chiamato DENARO. Anche
le imprese di assicurazioni a sua volta producono specifici servizi e possono
essere attività industriali)
5. Altre attività ausiliarie, rientrano in questa categoria le imprese di agenzia, di
mediazione, di deposito, di pubblicità e quant’altro. Imprese che possono
qualificarsi come produttrici di servizi e che rientrano nella prima categoria.
PICCOLO IMPRENDITORE – IMPRESA FAMILIARE
Un’altra particolare distinzione tra l’impresa è quella che tiene conto delle
dimensioni, a tal fine si distingue tra PICCOLA, MEDIA e GRANDE IMPRESA. Il
piccolo imprenditore è sottoposto allo statuto generale dell’imprenditore con
un’eccezione (Art. 1330) – morte o incapacità dell’imprenditore: la proposta o
l’accettazione, quanto è fatta dall’imprenditore nell’esercizio della sua impresa, non
perde efficacia se l’imprenditore muore o diventa incapace prima della conclusione
del contratto salvo che si tratta di un piccolo imprenditore. Tale norma assicura
continuità nei rapporti di imprese medio – grandi. È invece esonerato anche se
esercita attività commerciale alle tenute delle scritture contabili - non può essere
sottoposto, in caso di insolvenza, alla procedura fallimentare – iscrizione nel registro
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d’impresa. L’Art. 2083 del codice civile precisa che sono piccoli imprenditori i
coltivatori diretti del fondo, gli artigiani, i piccoli commercianti, coloro che
esercitano un’attività professionale organizzata prevalentemente con il lavoro proprio
e dei componenti della famiglia. Per aversi piccole imprese è necessario che
l’imprenditore presti il proprio lavoro nell’impresa, il suo lavoro è quello dei familiari
prevale sia rispetto al lavoro altrui sia al capitale investito nell’impresa. Non è perciò
mai piccolo imprenditore chi investe ingenti capitali nell’impresa ad esempio il
gioielliere, anche se si avvale di collaboratori.
IMPRESA ARTIGIANA
La legge n. 860 del ’56 definiva artigiana l’impresa che risponde ai seguenti requisiti
- Produce beni o servizi di natura artistica;
- Organizzata con il lavoro proprio o con i suoi familiari;
- Gestita a rischio e pericolo del titolare con eventuale personale, purché diretto
dal titolare dell’impresa.
L’impresa artigiana ha trovato nuova regolamentazione nella legge quadro per
l’artigianato n. 443 del ’85, che ha abrogato la precedente normativa. È imprenditore
artigiano chi esercita personalmente, professionalmente e in qualità di titolare
l’impresa artigiana e ne assume la piena responsabilità con tutti gli oneri e i rischi e
svolgendo in misura prevalente il proprio lavoro nel processo produttivo. La legge
prevede che l’impresa possa svolgersi in luogo fisso, presso l’abitazione
dell’imprenditore o di uno dei soci o nei locali appositi o in forma ambulante. In ogni
caso l’imprenditore artigiano può essere titolare di una sola impresa. La legge n. 443
ha ribadito l’aspetto essenziale dell’impresa artigiana cioè la presenza diretta del
lavoro anche manuale dell’artigiano che deve sempre dirigere personalmente
l’impresa. Nel ’97 la legge n. 133 ha adeguato la disciplina delle imprese artigiane a
livello europeo, ed ha ampliato la categoria. È scomparsa ogni riferimento alla natura
artistica o usuale dei beni o servizi prodotti, qualificando artigiane le imprese di
costruzione edili, elevando il numero massimo di dipendenti, consente di conservare
la qualifica artigiana anche raggiungendo le dimensioni di una piccola industria di
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qualità. Inoltre la qualifica d’impresa artigiana è riconosciuta anche alla società a
responsabilità limitata e a quella in accomandita semplice.
IMPRESA FAMILIARE
È impresa familiare l’impresa nella quale collaborano il coniuge, i parenti entro il
terzo grado fino ai nipoti e gli affini entro il secondo grado dell’imprenditore,
cosiddetta FAMIGLIA NUCLEARE. L’impresa familiare non va confusa con la
piccola impresa, è frequente che la piccola impresa sia anche impresa familiare, ma
anche una media grande impresa può essere impresa familiare. Il lavoro familiare,
nell’impresa, era ed è fenomeno diffuso, fenomeno che prima della riforma del diritto
di famiglia poteva dar luogo a grandi abusi, in quanto il lavoro familiare si presumeva
prestato a titolo gratuito. Il legislatore ha realizzato la par conditio dei familiare in
proporzione alla qualità e alla quantità del lavoro prestato, equiparando il lavoro della
donna a quello dell’uomo. La disciplina è nata per tutelare i membri più deboli della
famiglia e per intervenire nei casi di sfruttamento del lavoro. La legge non prescrive
un numero minimo di partecipanti, per cui potrà aversi impresa familiare anche se il
titolare ammetta a partecipare un solo familiare.
IMPRESA SOCIETARIA
Esistono diversi tipi di società e la società semplice è utilizzabile solo per l’esercizio
di attività non commerciabile, mentre gli altri tipi di società possono svolgere sia
attività agricola sia commerciale. Sono esonerate le società commerciali che
gestiscono un’impresa agricola al fallimento e dalle altre procedure concorsuali. Le
società non hanno mai piccoli imprenditori.
IMPRESE PUBBLICHE
Attività d’impresa può essere svolta anche dallo stato e dagli altri enti pubblici. Ci
sono 3 possibili forme d’intervento dei pubblici poteri:
1. lo Stato,
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2. la Pubblica Amministrazione che può dar vita ad enti di diritto pubblico, sono
questi i cosiddetti Enti Pubblici Economici che almeno fino al 1990
costituivano il nucleo centrale delle imprese pubbliche vedi il Banco di Napoli,
l’Enel, l’INA, l’IRI ed altri,
3. le imprese organo, cioè un ente pubblico territoriale (Regione, Provincia e
Comune) che possono svolgere direttamente attività di imprese servendosi di
proprie strutture organizzative; esempi sono le aziende municipalizzate vedi
acqua, gas e trasporti.
Gli Enti Pubblici che svolgono attività commerciale sono sottoposte allo Statuto
generale dell’imprenditore. A partire dagli anni 90 è in atto un processo di
privatizzazione delle imprese pubbliche per ridurre la spesa pubblica e per rendere
una gestione imprenditoriale più efficiente.
ATTIVITÀ COMMERCIALE DELLE ASSOCIAZIONI E FONDAZIONI
Le associazioni riconosciute e non, le fondazioni e gli enti privati con fini altruistici
vedi enti religiosi possono svolgere attività commerciale qualificabile come attività
d’impresa. Infatti, per aversi impresa essenziale è che l’attività produttiva venga
condotta con metodo economico.
CAPITOLO III
ESERCIZIO DIRETTO DELL’ATTIVITÀ D’IMPRESA
Diventa imprenditore colui che esercita personalmente l’attività d’impresa
compiendo in proprio nome gli atti relativi. Non diventa imprenditore il soggetto che
gestisce l’altrui impresa, quando operi spendendo il nome dell’imprenditore per
effetto del potere di rappresentanza conferitogli dall’interessato o riconosciutogli
dalla legge. Perciò, quando gli atti d’impresa sono compiuti tramite rappresentante
(volontario o legale), imprenditore diventa il rappresentato e non il rappresentante.
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LA TEORIA DELL’IMPRENDITORE OCCULTO
L’esercizio d’attività d’impresa può dar luogo ad un fenomeno analogo a quello
determinato dal compimento di singoli atti giuridici attraverso un mandatario senza
rappresentanza. Un fenomeno molto diffuso è quando un soggetto compie, in proprio
nome, i singoli atti d’impresa ma non è il vero imprenditore, il cosiddetto
IMPRENDITORE PALESE o PRESTANOME, ma in realtà non è il Prestanome che
compie i singoli atti d’impresa ma un altro soggetto, non palesandosi come
imprenditore a terzi, il cosiddetto IMPRENDITORE OCCULTO o INDIRETTO.
Questo modo di operare non dà problemi, quando gli affari vanno bene e i creditori
sono pagati regolarmente dall’imprenditore palese. I problemi nascono, quando gli
affari vanno male ed il soggetto utilizzato, come spesso accade, è una persona
nullatenente, una società per azioni con capitale irrisori cioè le cosiddette SOCIETÀ
DI COMODO. Questo è un modo fraudolento di operare e può essere causa di una
serie di dissesti a catena, dato che i creditori sono spesse volte imprenditori. La teoria
dell’imprenditore occulto ha affermato che il dominus (padrone) di un’impresa fallirà
sempre e comunque se fallisce il prestanome, quindi c’è piena parificazione di
responsabilità di chi agisce di fronte a terzi e di chi sta dietro le quinte.
L’INIZIO DELL’IMPRESA
La qualità d’imprenditore si acquista con l’effettivo inizio dell’esercizio dell’attività
d’impresa. Non è sufficiente l’intenzione di dare inizio all’attività, anche se è
manifestata con le autorizzazioni e con le iscrizioni negli albi o nei registri. La stessa
iscrizione nel registro delle imprese non è condizione necessaria né sufficiente per
attribuire la qualità di imprenditore commerciale.
LA FINE DELL’IMPRESA
Anche la fine dell’impresa è dominata dal principio di effettività, la qualità
d’imprenditore si perde solo con l’effettiva cessazione dell’attività e con la chiusura
della liquidazione. Gli avvisi al pubblico, la cancellazione dei registri dell’impresa
non determinano di per sé la perdita della qualità dell’imprenditore. Presenta
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particolare rilievo l’esatta determinazione del giorno di cessazione dell’attività in
quanto che l’Art. 10 della legge fallimentare prevede che lo stesso può essere
dichiarato fallito entro un anno dalla cessazione dell’attività. È da tener presente che
la fine dell’impresa è preceduta da una fase di liquidazione durante la quale
l’imprenditore finisce il ciclo produttivo, vende le giacenze e gli impianti, licenzia i
dipendenti, definisce le pendenze.
INCAPACITÀ E INCOMPATIBILITÀ
La capacità all’esercizio di attività d’impresa si acquista con la piena capacità di agire
e quindi al compiere del 18esimo anno di età, si perde in seguito ad interdizione o
inabilitazione. Il minore o l’incapace che esercita attività d’impresa non acquista la
qualità d’imprenditore, ferma restando gli atti compiuti. Infatti, il minore che ha
nascosto la sua minore età, non diventa imprenditore, anche se i contratti conclusi
non sono annullabili. Le norme che regolano la capacità di agire sono poste a tutela
degli incapaci, l’assolutamente incapace non può in nessun caso iniziare un’attività;
può invece continuare l’esercizio di un’impresa se avuta per successione dietro
autorizzazione del tribunale. Anche l’inabilitato può soltanto continuare l’esercizio
dell’impresa se autorizzato dal tribunale su parere del giudice.
CAPITOLO IV
LO STATUTO DELL’IMPRENDITORE
L’imprenditore commerciale ha una particolare disciplina, in parte comune, agli altri
imprenditori, vedi lo statuto generale dell’imprenditore e in parte propria e
specifica lo statuto speciale dell’imprenditore commerciale. Infatti, il legislatore
ha predisposto un apposito corpo di norme, ossia lo statuto dell’imprenditore
commerciale. La disciplina delle imprese commerciali è contenuta nel V libro del
Codice Civile e comprende al capo III le norme circa l’iscrizione nel registro delle
imprese (che è lo strumento di pubblicità legale disposto all’Art. 2188 attraverso
cui il legislatore ha ritenuto fornire informazioni su dati e fatti importanti
dell’impresa a coloro i quali vengono in contatto con esse); e disposizioni in tema di
16
rappresentanza, scritture contabili e così via. Tutte le persone che operano sul
mercato, avvertono la necessità da sempre di poter disporre con facilità
d’informazione veritiere su fatti e situazioni delle imprese con cui entrano in contatto.
Lo stesso legislatore ha introdotto un sistema di Pubblicità Legale, cioè ha previsto
l’obbligo di rendere pubblica con forme e modalità i fatti relativi alla vita
dell’impresa. Il registro delle imprese è lo strumento di pubblicità legale delle
imprese non piccole e delle società commerciali previste dal codice civile del ’42.
Questo istituto per oltre 50 anni è stato inoperante perché mancante del regolamento
di attuazione. Durante questi anni si è andato avanti con il regime transitorio, basato
sull’iscrizione nei regimi di cancelleria presso i tribunali. Un sistema di pubblicità
legale che sostituiva il registro delle imprese, operava solo per le imprese
commerciali. In attesa del registro delle imprese furono introdotte nuove forme di
pubblicità per le società di capitali e quelle cooperative. Per le prime, nel ’69, fu
prevista la pubblicazione nel Bollettino Ufficiale delle società per azioni e a
responsabilità limitata (BUSARL); per le seconde, nel ’73 fu introdotta la
pubblicazione nel bollettino ufficiale delle società cooperative (BUSC). Quindi da
tempo vi era la necessità di una radicale riforma. Nel 1993 con la 580 si è sbloccata la
situazione, questa legge contiene norme per il riordino delle camere di commercio.
L’Art. 8 di tale legge ha istituito il Registro delle Imprese, che è divenuto operante
pienamente nel ’97 e nello stesso tempo ha cessato di esistere il Registro delle Ditte
e dal 1 Ottobre del 1997 sono state soppressi il BUSARL e il BUSC. Quindi il
Registro delle Imprese oggi è l’unico strumento di Pubblicità Legale, però la nuova
disciplina del registro ha introdotto alcune novità rispetto al sistema previsto dal
codice del ’42. Non a caso il registro delle imprese è diventato non solo lo strumento
di pubblicità legale delle imprese commerciali come previsto dal codice, ma con la
riforma del ’93 anche strumento d’informazione sui dati organizzativi di tutte le altre
imprese. Infatti, l’iscrizione nel registro è stata estesa ad imprenditori agricoli, piccoli
imprenditori e società semplici. La tenuta del registro è affidata alle Camere di
Commercio, in ultimo il registro delle imprese è tenuto con tecniche informatiche ed
è istituito in ogni provincia presso la Camera del Commercio. Il registro presenta una
17
sezione ordinaria ed una speciale. Nella sezione ordinaria sono iscritti gli
imprenditori non agricoli. Sono tenuti all’iscrizione nella sezione ordinaria gli
imprenditori individuali commerciali non piccoli, le società tranne quelle semplici, i
consorzi fra gli imprenditori, i gruppi europei d’interesse economico con sede in
Italia, gli Enti Pubblici, le società estere. Mentre nella sezione speciale quelli che
secondo il Codice Civile ne erano esonerati. Gli articoli 2196-97-98 e 2200
specificano i fatti e gli atti da registrare, vedi i dati anagrafici dell’imprenditore, ditta,
oggetto, sede principale e secondaria, inizio e fine dell’attività. Le iscrizioni devono
essere fatte nel registro delle imprese, della provincia in cui l’impresa ha sede.
L’iscrizione è eseguita su domanda dell’interessato ma può avvenire anche d’ufficio
se l’iscrizione è obbligatoria. L’ufficio del registro prima di procedere all’iscrizione,
è tenuta a controllare che la documentazione è regolare nonché la veridicità dell’atto.
Per essere accessibile a tutti, viene inserita nella memoria di elaboratori elettronici e
ciascuno ufficio rilascia anche per corrispondenza certificati e copie di atti.
L’inosservanza dell’obbligo di registrazione è punita per legge con sanzioni
pecuniarie e indirette, vedi l’esclusione dal beneficio del concordato preventivo. Di
regola l’iscrizione nella sezione ordinaria presenta efficacia dichiarativa cioè i fatti e
gli atti soggetti ad iscrizione sono opponibili a chiunque, intervenuta la legislazione, i
terzi non potranno eccepire l’ignoranza del fatto o dell’atto iscritto. L’omessa
iscrizione impedisce che il fatto possa essere opposto ai terzi, gli imprenditori che
hanno omesso la registrazione può provare che i terzi hanno avuto conoscenza
effettiva del fatto o dell’atto perché comunicato loro ad esempio per lettera.
L’iscrizione può avere efficacia costitutiva vedi l’iscrizione nel registro delle imprese
delle società di capitali e di quelle cooperative. In altri casi l’iscrizione, pur non
avendo efficacia costitutiva ha un’efficacia normativa. L’iscrizione alla sezione
speciale del registro aveva solo funzione di certificazione anagrafica e di pubblicità
notizia, cioè l’iscrizione consente di prendere conoscenza dell’atto ma non lo rende di
per sé opponibile ai terzi, dovendosi a tal fine provare l’effettiva conoscenza da parte
degli stessi. Resta netta la differenza sotto il profilo della pubblicità fra imprese
soggette allo statuto dell’imprenditore commerciale (Sez. Ord.) e altre imprese (Sez.
18
Spec.). Questa disciplina è stata di recente modificata per gli imprenditori agricoli
piccoli e per le società semplici, infatti, l’Art. 2 della Legge 228 del 2001 ha stabilito
che per tali categorie l’iscrizione nella Sezione Speciale ha anche efficacia di
pubblicità legale, quindi è stata cancellata la diversità di disciplina tra l’imprenditore
agricolo e quello commerciale. Inoltre è stata istituita un’apposita Sezione Speciale
relativa alle società tra professionisti nella quale si iscrivono le società tra avvocati.
Oggi perciò è venuta meno la distinzione netta fra Sezione Ordinaria e Speciale
introdotta dalla riforma del ’93.
LE
SCRITTURE
CONTABILI
sono
i
documenti
che
contengono
la
rappresentazione in termini quantitativi e monetari, i singoli atti d’impresa, della
situazione del patrimonio, dell’imprenditore e del risultato economico dell’attività
svolta. Queste rendono razionale ed efficiente la gestione dell’impresa e perciò di
regola sono tenute spontaneamente dall’imprenditore, però l’Art. 2214 rende obbligo
agli imprenditori commerciali tranne i piccoli imprenditori. Tutte le società
commerciali eccetto quella semplice sono obbligate alle scritture contabili pur non
esercitando attività. Infine le scritture contabili sono disciplinate dalla legislazione
tributaria, in questo modo l’obbligo di tenuta delle scritture viene estesa anche ai
soggetti che non sono imprenditori, vedi i liberi professionisti.
Il legislatore ha dovuto fissare quali scritture debbono essere obbligatoriamente
tenute, ora queste scritture necessarie variano a seconda del tipo di attività delle
dimensioni dell’impresa, e ha optato per una soluzione di tipo misto, fissata dall’Art.
2214. La norma pone il principio generale che l’imprenditore deve tenere tutte le
scritture contabili richieste dalla natura e alla dimensione dell’impresa, stabilendo che
in ogni caso devono essere tenuti il LIBRO GIORNALE ed il LIBRO
DELL’INVENTARIO, nonché conservare per ogni affare gli originali della
corrispondenza commerciale (lettere, fatture, telegrammi ricevute e quelle spedite). Il
Libro Giornale è un registro cronologico analitico, dove vanno trascritte le
operazioni giornaliere secondo l’Art. 2216. Il precetto però è flessibile nel senso che
è importante che le operazioni siano registrate nell’ordine in cui sono state compiute
19
e non necessariamente il giorno stesso. Il Libro Giornale può essere anche articolato
in Libri Parziali, riguardo alle articolazioni delle imprese.
Il Libro degli Inventari è un registro periodico sistematico redatto all’inizio
dell’esercizio e in seguito ogni anno, serve alla funzione di fornire il quadro della
situazione patrimoniale dell’imprenditore contenendo l’indicazione e la valutazione
delle attività e delle passività anche estranee all’impresa. L’inventario si chiude con il
bilancio e con il conto dei profitti e delle perdite. Il bilancio è un prospetto contabile
riassuntivo dove viene espressa la situazione comprensiva dello stato patrimoniale
alla fine di ogni anno, nonché gli utili o le perdite nello stesso arco. La redazione del
bilancio è disciplinata in tema di società per azioni Artt. 2423-2435 bis, perciò tutti
gli imprenditori debbano osservare le disposizioni che disciplinano il bilancio della
società per azioni. Vi sono altre scritture contabili richieste dalla natura e dalle
dimensioni delle imprese vedi il LIBRO MASTRO, dove le operazioni sono
registrate non cronologicamente ma sistematicamente; il LIBRO CASSA che
contiene le entrate e le uscite di denaro, il LIBRO MAGAZZINO che registra le
entrate e le uscite di merce. L’imprenditore dovrà avere i libri delle scritture contabili
previste dalla legislazione tributaria, il LIBRO DEI CESPITI ammortizzabili, il
REGISTRO DI MAGAZZINO, nonché i libri necessari per accertamento dell’IVA
e Lavoristica, vedi LIBRO PAGA e LIBRO MATRICOLA.
Per garantire la veridicità delle scritture contabili, nonché impedire che non siano
alterate, è imposta l’osservanza di determinate regole formali e sostanziali nella loro
tenuta. Le regole formali sono state via via ridotte, per agevolare la tenuta della
contabilità con procedure informatiche. Quindi con la disciplina attuale il libro
Giornale e quello degli Inventari devono essere solo progressivamente numerati
prima dell’uso, perché è stata soppressa prima la vidimazione con la 489 del ’94 e di
recente nel 2001 legge 383 l’obbligo della bollatura. Per gli altri libri contabili c'è
l'obbligo di bollatura e di vidimazione per ogni foglio. Le scritture contabili sono un
importante mezzo di prova a favore e contro l’imprenditore, infatti possono essere
utilizzate da terzi contro l’imprenditore e a questi è data facoltà di provare il
contrario; possono essere utilizzata a favore dell’imprenditore solo nei rapporti tra
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imprenditori. Tutte le scritture contabili devono essere tenute secondo le norme di
un’ordinata contabilità, in particolare senza spazi in bianco, senza interlinee,
abrasioni ed in modo che le parole cancellate restino leggibili. L’inosservanza di tali
regole, rende le scritture irregolari e giuridicamente irrilevanti. Queste scritture
contabili e la corrispondenza devono essere conservate per 10 anni, l’imprenditore
che non tiene in regola queste scritture non le può utilizzare a suo favore. Le scritture
contabili possono essere utilizzate dai terzi come mezzo processuale contro
l’imprenditore ed il terzo che vuol trarre vantaggio da ciò non può scinderne il
contenuto, ossia non è possibile avvalersi solo della parte a lui favorevole.
L’imprenditore può utilizzare le proprie scritture contabili come mezzo di prova
contro terzi lo può fare a tre condizioni: anzitutto le scritture devono essere
regolarmente tenute, è necessario che la controparte deve essere l’imprenditore e che
la controversia deve presentare rapporti inerenti all’esercizio dell’impresa.
GLI AUSILIARI DELL’IMPRENDITORE: INSTITORE,
PROCURATORE e COMMESSO.
Nello svolgimento delle attività d’impresa di regola l’imprenditore si serve di
prestazione d’altri soggetti, che possono essere AUSILIARI AUTONOMI o
ESTERNI (mandatari, agenti di commercio), legati all’imprenditore da un rapporto
di prestazione d’opera; AUSILIARI SUBORDINATI o INTERNI (impiegati,
quadri), legati all’imprenditore da un rapporto di lavoro determinato. Tra gli ausiliari
subordinati sono importanti le figure dell’INSTITORE, PROCURATORE e
COMMESSO, a questi per il fatto di esercitare all’interno dell’impresa mansioni, la
legge riconosce uno speciale potere di rappresentanza (Art. 2203 – 2213), senza che
sia necessario informale atto di procura da parte dell’imprenditore. Nel caso in cui
egli intenda modificare la disciplina legislativa occorrerà un atto di preposizione che
dovrà essere notificato a terzi. È INSTITORE colui che è preposto dal titolare
all’esercizio dell’impresa, di una sede secondaria o di un ramo particolare della
stessa, rappresenta l’alter ego, e pur essendo un lavoratore subordinato possiede ampi
poteri decisionali dell’attività gestionale. L’Institore non può alienare o ipotecare beni
21
immobili, è responsabile con l’imprenditore degli obblighi di pubblicità legale e per
la tenuta delle scritture contabili. Riguardo alla rappresentanza processuale, l’Institore
può stare in giudizio sia come attore, sia come convenuto, per le obbligazioni
dipendenti da atti compiuti dell’esercizio dell’impresa a cui è preposto. Il
PROCURATORE è chi in base ad un rapporto continuativo compie atti pur non
essendovi preposto (Art. 2209). Sono degli ausiliari subordinati di grado inferiore
rispetto all’Institore in quanto che non sono posti a capo dell’impresa o di un ramo e
il potere decisionale è limitato ad un determinato settore dell’impresa, ad esempio
sono procuratori il Dirigente del personale, il Direttore del settore acquisti. I
Procuratori in mancanza di specifiche limitazioni iscritte nel Registro delle Imprese
sono investiti ex lege di un potere di rappresentanza generale dell’imprenditore,
rispetto alla specie di operazioni per le quali sono stati investiti di autonomo potere
decisionale. Ad esempio il dirigente del settore acquisti potrà compiere tutti gli atti
che rientrano in tale funzione ma non ha il potere per quanto riguarda altri settori. Il
Procuratore, inoltre, non ha rappresentanza processuale, neppure per gli atti da lui
posti in essere; non è soggetto agli obblighi d’iscrizione nel Registro delle Imprese né
di tenuta delle Scritture Contabili. L’imprenditore, infine, non risponde per gli atti,
pur riguardante l’esercizio delle imprese compiute da un procuratore senza spèndita
del nome dell’imprenditore stesso. I COMMESSI sono ausiliari subordinati a cui
sono affidate mansioni esecutive che li portano a contatto con i terzi. Ad esempio
commesso di un negozio, cameriere di un bar, etc. Per questa loro posizione è
riconosciuta potere di rappresentanza dell’imprenditore anche in mancanza di
specifico atto di conferimento, però questo potere è più limitato rispetto a quelli
dell’Institore e del Procuratore. Il principio base enunciato dall’Art. 2210 è che essi
possono compiere gli atti che di regola comporta la specie di operazioni di cui sono
incaricati. In particolare i commessi non possono esigere il prezzo delle merci delle
quali non facciano la consegna, né concedere dilazioni o sconti; se preposti alla
vendita nei locali dell’impresa non possono esigere il prezzo fuori dei locali.
L’imprenditore può ampliare o limitare tale potere.
22
CAPITOLO V
L’AZIENDA
Secondo l’Art. 2255, l’Azienda è il complesso dei beni organizzati dall’imprenditore
per l’esercizio di un’impresa. In breve essa costituisce sotto il profilo giuridico
l’apparato strumentale che serve all’imprenditore per lo svolgimento della propria
attività (locali, macchinari, materie prime). Per qualificare un dato bene come bene
aziendale rilevante è solo la destinazione datagli dall’imprenditore, irrilevante invece
è il titolo giuridico che legittima l’imprenditore ad utilizzare un dato bene nel
processo produttivo. I beni di proprietà dell’imprenditore non possono essere
considerati beni aziendali che non siano da questi destinati allo svolgimento
dell’attività d’impresa. Viceversa la qualifica di bene aziendale compete anche ai
beni di proprietà di terzi di cui l’imprenditore può disporre in base ad un valido titolo
giuridico. Nella nozione d’azienda il dato va posto sull’organizzazione. L’Azienda è
un insieme di beni eterogenei mobili ed immobili, materiali e non, non
necessariamente
di
proprietà
dell’imprenditore.
Però
resta
un
complesso
caratterizzato da unità funzionali. Organizzazione e destinazione ad un fine
produttivo sono dati che danno ai beni costituiti alla azienda nel suo complesso
specifico e particolare rilievo economico prima ancora che giuridico. I beni
organizzati ad azienda consentono la produzione d’utilità nuove diverse e maggiori di
quelle ricavabili dai singoli beni isolati. Un’azienda è volta alla produzione di nuova
ricchezza ed è proprio tale valore dinamico dell’azienda più che la consistenza
oggettiva del patrimonio dell’imprenditore che acquista rilievo per quanti entrano in
affari concedendogli credito. L’AVVIAMENTO di un’azienda è rappresentato dalla
sua attitudine a consentire la realizzazione del suo profitto e dipende sia da fattori
oggettivi che soggettivi. Si suole distinguere fra AVVIAMENTO OGGETTIVO
quello che si collega a fattori che permangono anche se muta il titolare dell’azienda,
si definisce SOGGETTIVO quello dovuto all’attività operativa dell’imprenditore sul
mercato per avere, conservare e accrescere la clientela. L’unità economica
dell’azienda e gli interessi generali di tale unità trovano disciplina dettata dal codice
civile per il trasferimento dell’azienda (Artt. 2256 – 2562). Il trasferimento a titolo
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definitivo ad esempio vendita o temporanea (affitto o usufrutto) dell’azienda
comporta effetti peculiari, divieto di concorrenza del cedente, successione nei
contratti aziendali ispirati dalla finalità di favorire la conservazione dell’unità
economica del valore e di avviamento dell’azienda per tutelare quanti hanno fatto
specifico affidamento ossia lavoratori, creditori e quanto altro, nonché per tutelare la
disgregazione dell’azienda.
LA CIRCOLAZIONE DELL’AZIENDA, OGGETTO E FORMA.
L’azienda può formare oggetto di atti di disposizioni di diversa natura, può essere
venduta, conferita in società, donata e sulla stessa ci possono essere diritti reali vedi
usufrutto o personali di godimento a favore di terzi. L’imprenditore può ovviamente
compiere atti di disposizione che riguardano uno o più beni aziendali. Importante è
stabilire se un determinato atto di disposizione dell’imprenditore sia da qualificare
come trasferimento di azienda o di singoli beni, dato che solo nel primo caso potrà
trovare applicazione la disciplina dettata per la circolazione di un complesso
aziendale. La distinzione netta, in teoria, non sempre è agevole e pratica, soprattutto
quando l’atto di disposizione comprende solo parte dei beni aziendali. Si verifica,
inoltre, che le parti ricorrano ad espedienti quali il frazionamento del trasferimento
dell’azienda in più atti separati per sottrarsi agli effetti nei confronti ai terzi che ex
lege conseguono al trasferimento di un’azienda. È pacifico che per aversi
trasferimento di azienda non è necessario che si trasferisca l’intero complesso
aziendale perché la disciplina del trasferimento è applicabile anche quando
l’imprenditore trasferisce un ramo particolare della sua azienda, purché sia dotato di
una organicità operativa. Infatti, necessario ma al tempo stesso sufficiente è che sia
trasferito un insieme di beni potenzialmente idonei ad essere utilizzati per una
determinata attività, ma non necessariamente la stessa; svolta dal trasferente. Le
forme da osservare nel trasferimento dell’azienda sono fissate dall’Art. 2556 nel testo
modificato dalla legge 12/08/93 n. 310. Vi è una netta distinzione tra forma
necessaria per la validità del trasferimento e forma richiesta ai fini probatori e per
l’opponibilità ai terzi. Rispetto al primo punto vi è una disciplina identica per ogni
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tipo di azienda agricola o commerciale ed i contratti che hanno per oggetto il
trasferimento della proprietà o la concessione di godimento dell’azienda solo validi
solo se stipulati con l’osservanza delle forme stabilite dalla legge per il trasferimento
dei singoli beni che compongono l’azienda, quindi sarà necessario la forma scritta a
pena di nullità (Art. 1250), nonché dovranno essere rispettate le regole di forma
previste, ad esempio il conferimento dell’azienda di una società di capitali dovrà
sempre avvenire per atto pubblico. Inoltre, per le imprese soggette a registrazione con
effetti di pubblicità legale, quindi non per le piccole imprese è previsto che ogni atto
di disposizione dell’azienda deve essere provato per iscritto (Art. 1556 1° comma).
Infine per tutte le imprese soggette a registrazione è oggi prescritto che i relativi
contratti di trasferimento devono essere iscritti nel registro delle imprese nel termine
di 30 giorni (Art. 2556 2° comma). Solo l’iscrizione nella sezione ordinaria introduce
gli effetti di pubblicità legale.
LA VENDITA DELL’AZIENDA: IL DIVIETO DELL’ALIENANTE
L’azienda può essere alienata dall’imprenditore o data in affitto o in usufrutto, in tutte
queste ipotesi la legge pone a carico dell’imprenditore divieto di concorrenza. L’art.
2557 dispone che l’alienante deve astenersi per un periodo di 5 anni dal trasferimento
dall’iniziare una nuova attività, che per l’oggetto, l’ubicazione o altro, sia idonea a
sviare la clientela dell’azienda ceduta. Il divieto tende a garantire l’acquirente per il
cosiddetto avviamento soggettivo.
LA SUCCESSIONE DEI CONTRATTI AZIENDALI
Effetto naturale del trasferimento dell’azienda è la successione dell’acquirente, nei
contratti stipulati per l’esercizio dell’azienda stessa che non abbiano carattere
personale (Art. 2258 1° comma). Il precetto ha la funzione di tutelare l’interesse del
cessionario del mantenimento dell’unità economica dell’azienda. Ci sono contratti
aziendali (in base ai quali l’imprenditore ha titolo al godimento di beni aziendali di
proprietà di terzi); e contratti d’impresa cioè (i contratti realizzati per l’esercizio
dell’impresa, e riguardano i rapporti tra l’imprenditore ed il fornitore). Sono esclusi i
contratti a carattere personale per i quali il trasferimento all’acquirente opera secondo
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le norme generali del diritto cioè necessità di un esplicita pattuizione dei contraenti e
del consenso del terzo ceduto. Invece i contratti stipulati per l’esercizio dell’impresa
si trasferiscono all’acquirente indipendentemente dal consenso del terzo ceduto,
questo ultimo potrà, se sussiste una causa giusta dalla notizia del trasferimento, di
recedere dal contratto.
CREDITI E DEBITI DELL’AZIENDA
La disciplina della successione dei contratti, disposta dal legislatore, in caso di
trasferimento dell’azienda, trova applicazione in merito ai contratti non ancora
trasferiti da entrambe le parti contrattuali, cioè imprenditore e terzo contraente. Al
momento del trasferimento vi possono essere contratti in corso di definizione, cioè
contratti adempiuti solo dall’imprenditore trasferente e contratti eseguiti solo dal
terzo contraente e ad essi corrispondono posizione di credito o debito del
imprenditore, posizione nelle quali è destinata a subentrare l’acquirente. Al momento
del trasferimento dell’azienda se l’imprenditore ha già adempiuto le obbligazioni
residuerà un credito a suo favore nei confronti di un terzo, ad esempio ha venduto
merci con pagamento differito. Viceversa residuerà un debito dell’imprenditore
qualora il terzo contraente abbia eseguito le proprie prestazioni, ad esempio
l’imprenditore ha acquistato materie prime ma non le ha ancora pagate. Per quanto
riguarda questi casi, in sede di vendita dell’azienda, trova applicazione la disciplina
secondo gli Artt. 2559 – 2560. Per i crediti, alla procedura prevista dall’Art. 1264 del
diritto comune che dispone l’opponibilità ai terzi della cessione del credito, se ne
aggiunge una più semplice, l’opponibilità consegue anche in mancanza di notifica o
accettazione del debitore, all’iscrizione del trasferimento aziendale nel registro
dell’impresa. Tuttavia, se l’imprenditore paga in buona fede all’alienante, è liberato.
Per i debiti, l’alienante è liberato solo se i debitori hanno espresso consenso al
trasferimento dell’azienda. Per l’impresa commerciale è disposto l’accollo dei debiti
da parte dell’acquirente solo se essi risultano dai documenti contabili. Fanno
eccezione i debiti di lavoro di cui è sancita l’obbligo in solido dell’acquirente e
dell’alienante.
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USUFRUTTO E AFFITTO DELL’AZIENDA
Particolari norme, vedi Artt. 2561 e 2562 sono dettate per l’usufrutto e l’affitto
dell’azienda, norme queste che modificano la disciplina generale dei rispettivi istituti.
Queste attribuiscono all’usufruttuario e all’affittuatario una serie di poteri – doveri.
Essi devono conservare l’identità dell’azienda, ne consegue l’obbligo di esercitarla
sotto la ditta che la contraddistingue; ancora dovrà essere mantenuta la destinazione
economica dell’azienda. Il legislatore interviene a tutelare l’interesse del trasferente a
che sia presentata l’integrità funzionale della sua azienda. Però per contro è
riconosciuto all’affittuatario o all’usufruttuario un diritto di gestione. L’usufruttuario
può acquistare ed immettere nell’azienda nuovi beni, beni che diventano di proprietà
del nudo proprietario e sui quali l’usufruttuario avrà diritto di godimento e potere di
disposizione. Al termine dell’usufrutto, l’azienda risulterà composta in tutto o in parte
da beni diversi da quelli originali. Quindi è previsto che venga redatto un inventario
all’inizio e alla fine dell’usufrutto e la differenza venga regolata in denaro sulla base
di valori correnti al termine dell’usufrutto. Per l’affitto vi è un contratto diverso dalla
locazione di un immobile destinato all’esercizio di attività d’impresa. Nel primo caso
oggetto del contratto è un complesso di beni organizzati, comprensivo anche
dell’immobile; nel secondo il contratto ha per oggetto il locale in quanto tale.
CAPITOLO VI
I SEGNI DISTINTIVI
Per un’attività d’impresa ogni imprenditore utilizza uno o più segni distintivi che
consentono di individuarlo sul mercato e distinguerlo dagli altri. La DITTA, le
INSEGNE ed il MARCHIO sono i principali segni distintivi dell’imprenditore. La
DITTA contraddistingue la persona dell’imprenditore nell’esercizio della sua attività,
l’INSEGNA individua i locali in cui l’attività si esercita; infine il MARCHIO
individua e distingue i beni prodotti. Anche se hanno un ruolo specifico questi tre
segni svolgono una funzione comune nell’economia di mercato, cioè favoriscono la
formazione e il mantenimento della clientela, perché consentono ai consumatori di
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distinguere fra i vari operatori e come si suol dire sono dei collettori di clientela.
L’interesse degli imprenditori è quello di non favorire l’uso di segni similari atti a
sviare la propria clientela. Nel nostro ordinamento DITTA, INSEGNA e MARCHIO
sono disciplinati con disposizioni diverse a seconda della diversa rilevanza
economica dei tre segni distintivi. Delle tre discipline è tuttavia possibile ricavare
alcuni principi comuni, applicabili per analogia agli altri simboli d’identificazione sul
mercato usati dall’imprenditore, vedi lo slogan pubblicitario o i nomi di dominio usati
su internet. I principi comuni sono: l’imprenditore gode di ampia libertà di
formazione dei propri segni, però è tenuto ad evitare inganno e confusione sul
mercato, cioè deve rispettare alcune regole: verità, capacità distintiva e novità.
L’imprenditore ha il diritto all’uso esclusivo dei propri segni distintivi, però si tratta
di un diritto non assoluto ma relativo alla realizzazione della funzione rispetto agli
altri. Il titolare di un segno distintivo non può impedire che altri adottano lo stesso
segno, quando non vi è pericolo di confusione o di sviamento della clientela.
L’imprenditore può trasferire ad altri i propri segni distintivi.
La DITTA è il nome commerciale dell’imprenditore, lo individua come soggetto di
diritto nell’esercizio dell’attività, ed è segno distintivo necessario, nel senso che in
mancanza di diversa scelta essa coincide col nome dell’imprenditore. Non è però
necessario che la ditta corrisponde al nome civile, essa può essere liberamente
prescelta dall’imprenditore. La scelta della ditta è libera purché vengano rispettati due
principi, PRINCIPIO DELLA VERITÀ (la ditta deve contenere necessariamente il
nome ed il cognome o la sigla dell’imprenditore), questo è il contenuto minimo
prescritto dalla legge che intende garantire ai consumatori la riconoscibilità giuridica
cui indirizzano la loro domanda. L’altro principio è quello della NOVITÀ, la ditta
non deve essere uguale o simile e cioè non confondibile con quella prescelta da altri
imprenditori. Il PRINCIPIO DELLA VERITÀ della ditta (Art. 2563) ha un
contenuto assai limitato ed è soprattutto diverso a seconda che si tratta di ditta
originaria o ditta derivata. La prima è quella formata dall’imprenditore che la utilizza;
quella derivata è formata da un dato imprenditore e poi trasferita ad un altro insieme
all’azienda. Nessuna disposizione impone a chi utilizzi una ditta derivata di
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integrarla. Ricordiamo che la ditta è trasferibile solo con l’azienda, se il trasferimento
avviene per atto fra vivi, necessita il consenso dell’alienante; regola opposta vale se
l’azienda è acquistata per successione a causa di morte. La ditta si trasmette al
successore salvo diversa disposizione testamentaria.
Il MARCHIO è il segno distintivo dei prodotti o dei servizi dell’impresa, esso è
disciplinato sia dall’ordinamento nazionale, da quello comunitario e internazionale. Il
Marchio Nazionale è regolato dagli Artt. 2569 – 2574 codice civile e dal R.D. 1942
n°929 (LEGGE MARCHI) più volte modificato. Al marchio nazionale si è
affiancato quello COMUNITARIO del ’93, la relativa disciplina, coincidente con
quella della nostra legge, consente di ottenere un marchio che produce gli stessi
effetti in tutta la comunità europea. La tutela internazionale del marchio è disciplinata
da due convenzioni: quella di Parigi del 1883 per la protezione della proprietà
industriale e l’accordo di Madrid del 1891. Queste norme basate sull’istituto della
registrazione del marchio riconoscono al titolare il diritto all’uso esclusivo dello
stesso. Il marchio non è un segno distintivo ed essenziale ma è certamente il più
importante per il ruolo che svolge nell’economia, caratterizzato dall’offerta
concorrente di prodotti similari da parte di più imprenditori. Infatti gli imprenditori
affidano al marchio la funzione di differenziare i propri prodotti da quelli dei
concorrenti. Il pubblico è messo in grado di riconoscere con facilità i prodotti e li può
selezionare fra quelli similari. Il marchio diventa il simbolo di collegamento tra
produttori e consumatori e svolge un ruolo centrale nella formazione e nel
mantenimento della clientela. Per questo ruolo si comprende l’interesse dei titolari di
marchi celebri a contrastare l’uso degli stessi da parte di altri produttori. Vi è una
classificazione secondo diversi criteri dei marchi. Del marchio può servirsi
innanzitutto il fabbricante del prodotto, il marchio può essere a posto anche dal
commerciante o dal venditore finale. Su uno stesso prodotto possono coesistere più
marchi ad esempio di fabbrica e di commercio. Il rivenditore non può sopprimere il
marchio del produttore. Il marchio può essere utilizzato anche da impresa che
producono servizi, vedi imprese di trasporto e di pubblicità e così via. L’imprenditore
può utilizzare un marchio GENERALE ma se vuole differenziare i diversi prodotti
29
della propria impresa può usare marchi SPECIALI ad esempio FIAT – PUNTO.
Nella composizione del marchio l’imprenditore è libero perché questo può essere
formato da parole, MARCHIO DENOMINATIVO, e può coincidere con la stessa
ditta o col nome dell’imprenditore. Però può esser costituito da lettere, cifre e così via
e chiamasi MARCHIO FIGURATIVO. C’è pure un MARCHIO DI FORMA ad
esempio la particolare forma di una bottiglia, c’è un MARCHIO COLLETTIVO
che si distingue dai MARCHI D’IMPRESA in quanto che titolare del marchio
COLLETTIVO è un soggetto, ad esempio un consorzio, che non svolge nessuna
attività d’impresa ma si limita a garantire la qualità, la natura e l’origine delle merci
prodotte, ad esempio PURA LANA VERGINE. Il marchio deve rispondere a
determinati requisiti di validità: LICEITÀ, VERITÀ, ORIGINALITÀ e NOVITÀ.
Per la LICEITÀ, il marchio non deve essere contrario alla legge, al buon costume e
all’ordine pubblico, né ledere l’altrui diritto, senza il consenso. Il principio di
VERITÀ non deve contenere simboli capaci di generare inganno del pubblico dei
consumatori, circa la qualità, la provenienza e la natura dei prodotti. Il marchio deve
essere ORIGINALE, ossia composto in modo da permettere di individuare i prodotti
fra quelli dello stesso genere. A questo proposito si distinguono MARCHI FORTI
particolarmente originali e fantasiosi, dotati di tutela giuridica, e ne sono proibite
tutte le possibili emulazioni, ad esempio il marchio BUONNJ è stato giudicato
contraffazione del marchio BONDÌ e MARCHI DEBOLI formati di regola da
parole di uso convenzionale particolarmente combinate ad esempio Lemon Soda.
Hanno tutela più debole, nel senso che anche piccole modificazioni vengono ad
essere tutelate. In ultimo c’è la NOVITÀ, il marchio non deve essere confondibile
con il marchio, ditta o insegna utilizzati da altri imprenditori, operanti in settori di
mercato identici. Per i MARCHI CELEBRI, ad esempio Coca Cola, Cartier, il
divieto di inconfondibilità si estende all’intero mercato, onde evitare che imprenditori
operanti in settori diversi possano avvantaggiarsi della somiglianza del proprio
marchio con quello rinomato. Il marchio, privo di novità o lesivo di altrui diritto
d’autore, se registrato in buona fede e tollerato senza contestazione per 5 anni, può
essere convalidato. Il titolare di un marchio, che risponde ai requisiti di validità
30
indicati, ha il diritto esclusivo prescelto. Il contenuto del diritto sul marchio e la sua
relativa tutela sono diversi a seconda che il marchio sia stato o meno registrato presso
l’Ufficio Italiano Brevetti e Marchi. Riguardo al MARCHIO REGISTRATO, la
sua registrazione dà al titolare del marchio il diritto all’uso dello stesso su tutto il
territorio nazionale, anche se l’effettiva diffusione dei suoi prodotti è esigua sul
territorio. Un imprenditore che opera solo in Sicilia può impedire che il suo marchio
venga utilizzato da altri imprenditori dello stesso settore che operano solo in
Lombardia. Il diritto di esclusiva sul marchio registrato copre poi non solo i prodotti
identici ma anche gli affini, se vi è il rischio di confusione per il pubblico. La tutela
del marchio registrato non impedisce di regola però che un altro imprenditore registri
o usi lo stesso marchio per prodotti del tutto diversi. Diciamo che la rigorosa
applicazione di questa regola può dar luogo a conseguenze particolarmente gravi,
quando si tratta di marchi celebri ad esempio Coca Cola ecc. L’uso di questi marchi
da parte di altri anche per merci diverse, può determinare equivoci sulla reale fonte di
produzione. Si è avvertito perciò l’esigenza di estendere la tutela dei marchi celebri
impedendo l’uso degli stessi anche per prodotti non affini. Il problema trova oggi la
soluzione legislativa, perché con la riforma del ’92, la tutela dei marchi celebri è stata
svincolata dal criterio dell’affinità merceologica. Oggi il titolare di un marchio
registrato può vietare a terzi l’uso di un marchio identico anche per prodotti non
affini, quando questo può trarre vantaggio da ciò. Il diritto di esclusiva sul marchio
decorre dalla data di presentazione della domanda dell’Ufficio Brevetti. Il titolare è
perciò tutelato ancor prima che inizia ad utilizzarlo. La registrazione nazionale è il
presupposto per poter estendere la tutela del marchio in ambito internazionale con la
registrazione presso OMPI (Organizzazione Mondiale per la Proprietà Industriale di
Ginevra). Per il MARCHIO COMUNITARIO, la registrazione indipendente da
quello NAZIONALE è effettuata presso l’UAMI (Ufficio per Armonizzazione del
Mercato Interno di Alicante – SPAGNA –). La registrazione nazionale dura 10 anni e
non più 20 come prima, ma è rinnovabile per un numero illimitato di volte. La
registrazione assicura, perciò, una tutela pressoché perpetua tranne che non né sia
dichiarata l’annulità del marchio, per uno dei principali requisiti o non sopravvenga
31
una causa di decadenza, vedi il mancato utilizzo del marchio per 5 anni. In particolare
costituisce causa di decadenza il fatto che un marchio è divenuto nel commercio
denominazione generica di un dato prodotto, perdendo così la propria capacità
distintiva. Vedi il caso dei marchi BIRO, NYLON, e così via. L’ordinamento però
tutela anche un marchio senza registrarlo anche se è minore di quello del marchio
registrato. Infatti, l’Art. 2571 dispone che chi ha fatto uso di un marchio non
registrato ha la facoltà di continuarne l’uso nonostante la registrazione ottenuta da
altri. La tutela del diritto sul marchio non registrato si fonda perciò sull’uso di fatto
dello stesso e sull’effettivo grado di notorietà aggiunta. Sarà più o meno ampia a
seconda che il marchio abbia notorietà nazionale o locale. Il titolare di un marchio
con notorietà locale non potrà impedire che altro usi di fatto lo stesso marchio, per gli
stessi prodotti in altre zone, né impedire che un concorrente registri lo stesso marchio,
e in tal caso potrà continuare ad usare il proprio marchio solo in ambito locale. Il
marchio registrato è tutelato civilmente e penalmente, non a caso il titolare del
marchio, il cui diritto di esclusiva, se è stato leso da un concorrente può fare azione di
contraffazione contro questi. Il marchio è trasferibile sia a titolo DEFINITIVO che
TEMPORALE, è consentito al titolare di monetizzare il valore commerciale. La
disciplina della circolazione del marchio è mutata con la riforma del ’92. È stata
abolita, infatti, il precedente collegamento tra circolazione dell’azienda e circolazione
del marchio, per l’esigenza di evitare inganni e confusione per il pubblico; l’attuale
disciplina opta per una più libera circolazione del marchio. Oggi può essere trasferito
separatamente all’azienda, la cessione può essere parziale e riguardare solo una parte
dei beni o servizi che esso contraddistingue. È consentito, inoltre, il trasferimento
temporaneo tramite licenza; il titolare del marchio ne può concedere l’uso
contemporaneo ad uno o più imprenditori purché non derivi inganno sulle
caratteristiche peculiari dei beni contrassegnati dal marchio. L’uso del marchio,
dietro licenza, può essere TOTALE o PARZIALE, a seconda che sia relativa a tutti
o solo ad alcuni dei prodotti per i quali il marchio è stato registrato, nonché riferita
all’intero territorio o parte di esso.
32
L’INSEGNA è il simbolo che contraddistingue i locali dell’impresa (negozio,
fabbrica), la sua creazione deve rispondere a criteri di NOVITÀ, ORIGINALITÀ e
VERITÀ dettata per i segni distintivi in genere. L’Insegna è disciplinata dall’Art.
2568 del codice civile, non può essere uguale o simile a quella già utilizzata da altri
concorrenti. Dovrà essere lecita, non contenere cioè indicazioni idonee a trarre in
inganno il pubblico circa attività o prodotto. Non è quindi tutelato contro l’altrui
imitazione chi adotta come insegna indicazioni generiche, vedi bar, pizzeria, pub etc.
Nulla è disposto circa il trasferimento dell’Insegna, quindi è pacifico che il diritto
sull’insegna può essere trasferito e in materia deve trovare applicazione quella per il
marchio.
CAPITOLO VII
OPERE DELL’INGEGNO
La poesia, il romanzo, le canzoni sono opere dell’ingegno che non vanno confuse con
loro veicolo di trasmissione: il libro, il disco etc., perché la stampa del libro, la
fabbricazione del disco sono rese possibile da altre creazioni dell’intelletto umano nel
campo non più della cultura ma in quello della tecnica. Infatti, una cosa è il metodo
per fabbricare un televisore, altro è il televisore. L’idea creativa è una, le sue
applicazioni materiali infinite. Quindi, le opere dell’ingegno (idee creative nel campo
culturale) e le invenzioni industriali (idee creative nel campo della tecnica) sono due
grandi categorie di creazioni intellettuali regolate dal nostro ordinamento. Le
creazioni intellettuali sono oggetto di una composita disciplina che mira a tutelare il
duplice interesse che ad esse si ricollega: quello dell’autore a rivendicarne il diritto e
allo sfruttamento esclusivo; quello della collettività a disporre d’invenzioni di
particolare utilità sociale. Il sistema normativo è strutturato sul riconoscimento del
diritto d’autore per le opere d’ingegno letterarie ed artistiche (Artt. 2575 – 2583
codice civile e dalla legge n°643 del ’41, però più volte modificata; l'ultima è la n°68
del 2003 per dare attuazione alle direttive comunitarie). Ancora abbiamo il
riconoscimento del diritto di BREVETTO per le invenzioni industriali per i modelli
e i disegni ornamentali (Artt. 2584 – 2594 codice civile e R.D. del ’39 riformato nel
33
‘69). Elemento centrale della vasta disciplina è la tutela del diritto del creatore
all’esclusivo sfruttamento economico della propria opera dell’ingegno. Le opere sono
protette indipendentemente dal loro pregio e utilità pratica, unica condizione richiesta
è che l’opera abbia carattere creativo, cioè presenta un minimo di originalità
preesistenti dello stesso genere. Originalità che può essere anche il modo personale di
esposizione di una raccolta di leggi. Il diritto d’autore è necessario solo con la
creazione dell’opera, non che l’opera sia stata divulgata. È prevista la registrazione
dell’opera nel Registro Pubblico Generale delle opere protette e per quelle
cinematografiche nello speciale registro tenuto a cura della S.I.A.E. (società italiana
autori ed editori). Il diritto d’autore gode di una tutela morale e patrimoniale, quindi
si distingue fra DIRITTO MORALE e DIRITTO PATRIMONIALE di autore.
L’autore ha diritto di rivendicare nei confronti di chiunque la paternità dell’opera,
decidere se pubblicarla o meno, col proprio nome o anonimo, di opporsi a
modificazioni o deformazioni dell’opera e ogni altro atto a danno dell’opera che
arreca pregiudizio al suo onore. In ultimo, ritirare l’opera dal commercio, quando
ricorrono gravi ragioni morali, dietro indennizzo di coloro i quali ha ceduto il diritto
di utilizzazione economica. Questi diritti, in quanto disposti a tutela della personalità
dell’autore, sono irrinunciabili, inalienabili; non si perdono con la cessione dei diritti
patrimoniali e possono essere esercitati anche dai congiunti. Riguardo al contenuto
patrimoniale che si sostanzia nel diritto allo sfruttamento economico esclusivo
dell’opera o di sue singole parti, tale diritto diversamente da quello MORALE ha una
durata limitata, anche se la stessa è stata allungata di recente. Infatti, si estingue in
linea di principio dopo 70 anni dalla morte dell’autore Art. 17 legge 62/96 anziché 50
come era prima. Infine vi sono diritti riconosciuti a determinate categorie di soggetti,
connessi o affini al diritto d’autore, vedi i produttori di dischi, gli esecutori di opere
dell’ingegno quali gli attori e i cantanti, autori di progetti di ingegneria. A tali
soggetti è riconosciuto il diritto ad un equo compenso da parte di chi ne utilizzi la
loro opera creativa. Il diritto di utilizzazione economica è liberamente trasferibile sia
fra i vivi che a causa di morte, il trasferimento per atto fra vivi, deve essere provato
per iscritto e può essere sia a TITOLO DEFINITIVO che a TITOLO
34
TEMPORANEO. I contratti previsti e di norma utilizzati per lo sfruttamento
economico di un’opera sono il CONTRATTO DI EDIZIONE (dove l’autore concede
ad un editore l’esercizio del diritto di pubblicare per la stampa l’opera per conto o a
spese dell’editore, l’editore a sua volta si obbliga a stampare, mettere in commercio
l’opera e ha corrispondere il compenso, compenso costituito da una percentuale sulla
vendita ma per talune opere può essere fissato a forfait. Salvo eccezione la durata del
contratto non supera 20 anni). Col CONTRATTO DI RAPPRESENTANZA e di
ESECUZIONE (l’autore cede di regola non in esclusiva il solo diritto di
rappresentazione di opere destinate allo stesso fine. L’altra parte si obbliga a
provvedervi a proprie spese). Il diritto d’autore è protetto da sanzioni civili e penali e
pecuniarie, a carico di chi pone in essere comportamenti lesivi che vanno
dall’imitazione totale o parziale degli elementi creativi di un’opera altrui. Addirittura
le opere dell’ingegno godono di una tutela internazionale, l’Italia ha aderito alle due
convenzioni internazionali: quella di Berna per le protezioni letterarie ed artistiche
nel testo di Parigi del ’71 e quella universale di Ginevra del diritto d’autore nel testo
di Parigi del ’71, però la prima è del 1896, la seconda del 1952.
LE INVENZIONI INDUSTRIALI
Sono idee creative che appartengono al campo della tecnica. Consistono nella
soluzione originale di un problema tecnico, con applicazioni nel settore della
produzione. Quindi vi è una distinzione netta rispetto alle opere dell’ingegno tutelate
dal diritto d’autore. Le invenzioni industriali si differenziano anche per il diverso
modo d’acquisto del diritto di utilizzazione, ossia la concessione del brevetto da parte
dell’Ufficio Brevetti e Marchi. Ci sono 3 grandi categorie: INVENZIONE DI
PRODOTTO (che hanno per oggetto un nuovo prodotto materiale, vedi una
macchina); INVENZIONE DI PROCEDIMENTO (che possono consistere in un
nuovo processo di lavorazione industriale) e le INVENZIONI DERIVATE (che si
presentano come derivazione di una precedente invenzione). Per scelta legislativa,
ispirata alla finalità di favorire la libera autorizzazione delle idee fondamentali, non
sono considerate invenzioni e quindi tutti ne posso utilizzare le scoperte, le teorie
35
scientifiche, i metodi per attività intellettuale, i programmi per elaboratori e così via.
Perciò non può formare oggetto di brevetto ciò che già esiste e l’uomo si limita a
percepire vedi la scoperta dell’energia nucleare o i software. Non sono considerati
invenzioni industriali i metodi per il trattamento chirurgico e terapeutico del corpo
umano, come pure quelli di diagnosi vedi la TAC. È nuova invenzione ciò che non è
compresa nello stato della tecnica e per STATO DELLA TECNICA si intende tutto
ciò che sia accessibile al pubblico prima della data di deposito della domanda di
brevetto. Manca del requisito della novità, l’invenzione già divulgata. L’invenzione
implica attività inventiva ed infine l’invenzione è considerata atta ad avere
applicazioni industriali se il trovato può essere fabbricato o utilizzato in qualsiasi
genere di industria, restano quindi non brevettabili come invenzioni le conoscenze
non sfruttabili industrialmente.
INVENZIONI BREVETTATE
La tutela giuridica dell’invenzione ha contenuto sia morale che patrimoniale,
l’inventore ha diritto ad essere riconosciuto come autore dell’invenzione, inoltre ha
diritto trasferibile di conseguire il brevetto. Il brevetto, per le invenzioni industriali, è
concesso dall’Ufficio Brevetti, sulla base di domanda correlata a pena di nullità, dalla
descrizione dell’invenzione. Ogni domanda può avere per oggetto una sola
invenzione. Il brevetto per invenzioni industriali dura 20 anni e conferisce al titolare
la facoltà del diritto esclusivo. Il brevetto è trasferibile sia fra vivi che a causa di
morte, al di là del trasferimento dell’azienda. Altresì il titolare può concedere licenza
d’uso del brevetto. Ed è proprio la licenza del brevetto senza esclusiva, il tipico
contratto di cui si serve la grande industria dei paesi a sviluppo tecnologico.
L’invenzione brevettata è tutelata con sanzioni civili e penali contro chi sfrutti
abusivamente le invenzioni. Il rilascio del brevetto, per l’invenzione, attribuisce
l’esclusiva solamente sul territorio nazione; quest’esclusiva può essere conseguita
anche in altri stati mediante alcuni trattati internazionali. Un brevetto autonomo e
unitario è invece un brevetto comunitario, regolato dalla convenzione del
Lussemburgo ratificato con la legge del ’93 n°302, ma non è ancora entrata in vigore
36
in Italia. Il brevetto comunitario, rilasciato dall’Ufficio Europeo di Monaco, ha
carattere sopranazionale, unitario ed autonomo. Può essere, infatti, rilasciato per tutti
i paesi aderenti all’Unione, la concessione di questo brevetto comporta la cessazione
degli effetti degli eventuali brevetti nazionali.
L’INVENZIONE NON BREVETTATA
L’inventore può astenersi dal brevettare il proprio trovato e sfruttarlo in segreto,
correndo il rischio che altri arrivi allo stesso risultato, lo brevetta ed acquista il diritto
di esclusiva, dato che tra due inventori prevale chi per primo ha presentato la
domanda di brevetto. La nuova disciplina dell’invenzione nel ’79 riconosce una sia
pur limitata tutela anche a chi abbia utilizzata un invenzione senza brevettarla. Infatti,
l’Art. 6 dell’invenzione dispone che chiunque, inventore o terzo, ha fatto uso nella
propria azienda, nei dodici mesi anteriori, di una altrui domanda di brevetto, può
continuare a sfruttare l’invenzione nei limiti del preuso. Può altresì trasferire tale
facoltà, ma solo insieme azienda dove l’invenzione è utilizzata.
I MODELLI INDUSTRIALI
Sono creazioni intellettuali, applicati all’industria di minore rilievo rispetto
all’invenzione industriale; si distinguono in MODELLI DI UTILITÀ e DISEGNI
DI MODELLO. I MODELLI DI UTILITÀ sono nuovi trovati destinati a dare
particolare funzionalità a macchine, strumenti ed altro ad esempio una nuova forma
di poltrona che aumenti la comodità. I DISEGNI DI MODELLO sono nuove idee
destinate a migliorare l’aspetto, forma, linea dei prodotti industriali, vedi l’originale
forma di paraulti di una macchina. In sostanza i modelli industriali riguardano la
foggia funzionale (modelli d’utilità) o estetica (disegni) dei prodotti. La tutela dei
modelli d’utilità si fonda sull’istituto della brevettazione e in materia trova
applicazione larga parte della disciplina industriale. Però nel 2001 il D.L. 95,
emanato in attuazione della direttiva CE ha modificato la disciplina previdente. La
tutela, oggi, è estesa anche ai componenti destinati ad essere assemblati in un
prodotto complesso, ad esempio ricambi d’auto, avviene mediante registrazione che è
37
subordinata ai requisiti di NOVITÀ e CARATTERE INDIVIDUALE. Vale a dire
che il disegno modello non deve essere identico ad un disegno modello già divulgato
in precedenza. Per il brevetto vi è la durata di 10 anni, rispetto ai 20 dell’invenzione
industriale. La registrazione, invece, dura 5 anni dalla domanda, ma può essere
prorogata di 5 in 5 ad un massimo di 10 anni. Infine, questa è la novità più
significativa rispetto alla disciplina previdente, le opere dell’INDUSTRIAL
DESIGN, sono state ammesse a godere anche della più lunga tutela offerta dalla
disciplina del diritto d’autore, fino a 70 anni della morte dell’autore quando
presentino di per sé carattere di valore artistico.
DISCIPLINA DELLA CONCORRENZA
Il modello ideale di funzionamento del mercato teorizzato dagli economisti è la
CONCORRENZA PERFETTA, cioè la contemporanea presenza sul mercato di
molte imprese in competizione fra loro, nessuna delle quali sia in grado di
condizionare il prezzo, assenza di ostacoli all’ingresso di nuovi operatori in ogni
settore della produzione e distribuzione. Questo è un modello ideale e perfetto, in
quanto che la concorrenza spinge verso una generale riduzione sia dei costi di
produzione sia dei prezzi di vendita. È modello perfetto in quanto assicura la naturale
eliminazione dal mercato delle imprese meno competitive, stimola il progresso
tecnologico e quanto altro. Tutto è molto bello, ma con un piccolo difetto, la
concorrenza perfetta è solo un modello teorico perché la realtà è diversa. Infatti,
sempre più nei settori strategici, vedi le materie prime, i macchinari, la tendenza va
verso un regime di mercato sempre più lontano dalla concorrenza perfetta. Quindi le
imprese dedite alla produzione industriale diventano sempre più numerose e sempre
più grandi, dando vita così a situazioni di OLIGOPOLIO ossia ad un mercato
caratterizzato dal controllo dell’offerta di poche grandi imprese. Infatti, gli
imprenditori concorrenti, molto spesso preferiscono l’accordo alla competizione
incerta per prevalere gli uni sugli altri. Perciò stipulano patti per limitare la reciproca
concorrenza, intese, si dividono i mercati di sbocco, si predeterminano i prezzi da
praticare, la quota spettante. Il regime concorrenziale di mercato è alterato. Di fronte
38
a tali tendenze della realtà è evidente la necessità d’interventi del legislatore, per
impedire il formarsi e il perpetuarsi di situazioni di monopolio. La ricerca di un punto
d’equilibrio mutevole a settore a settore, fra il modello teorico della piena
concorrenza e la realtà operativa, orientata verso situazioni di oligopolio o
monopolio, è diventata perciò la linea direttiva di fondo che ispira la disciplina della
concorrenza in un’economia libera. Anche il nostro ordinamento si orienta su questa
linea. Una volta fissato il principio guida della liberta di concorrenza (Art. 41 Cost.),
il legislatore italiano consente limitazioni legali della stessa per fini di utilità sociale,
consente limitazioni negoziali della concorrenza, assicura l’ordinato e corretto
svolgimento della concorrenza reprimendo la concorrenza sleale. Nel sistema italiano
non vi era una normativa antimonopolistica, esigenza questa avvertita già negli altri
stati, vedi gli USA presente già dal 1890. A partire dagli anni ’50, nel nostro
ordinamento, fu introdotto la disciplina antitrust con i trattati istitutivi della CEE.
Questo vuoto è stato colmato dopo anni di dibatto nel ’90 con la legge n. 287, che
reca norme per la tutela del mercato e della concorrenza. Il principio cardine della
legge antimonopolistica dell’UE, con gli Artt. 81 e 82 afferma la libertà d’iniziativa
economica e la competizione d’impresa, preservando dai comportamenti che
pregiudicano la struttura concorrenziale del mercato. Questo principio è stato fatto
nostro, ossia dalla legislazione antimonopolistica italiana generale. Questa legge ha
istituito un apposito organo pubblico indipendente, l’autorità garante della
concorrenza e del mercato che vigila sul rispetto della normativa e adotta i
provvedimenti necessari. Però la competenza dell’autorità italiana a carattere
residuale, ossia è circoscritta alle pratiche che hanno rilievo locale e non incidono sul
mercato comunitario, per queste ultime è competente la commissione delle comunità
europee. Tre sono i fenomeni rilevanti per la disciplina antimonopolistica nazionale e
comunitaria: le intese restrittive della concorrenza, l’abuso di posizione dominante e
le concentrazioni. Le intese anticoncorrenziali non sono tutte vietate, lo sono quelle
che hanno per oggetto o per effetto impedire o falsare in maniera consistente il gioco
della concorrenza, sono lecite le imprese minori, cioè quelle che non incidono in
modo irrilevante sull’assetto concorrenziale del mercato. Le intese vietate sono nulle
39
ad ogni effetto. Il secondo fenomeno è l’abuso di posizione dominante da parte di una
o più impresa, vietato non nel fatto in sé di una posizione dominante sul mercato, è lo
sfruttamento abusivo di questa posizione. Ad un’impresa l’imposizione dominante è
vietato di imporre prezzi o condizioni ingiustificatamente gravose; impedire o
limitare la produzione, gli accessi al mercato, adottare prezzi diversi in diversi paesi.
Accertata l’infrazione, l’autorità ne’ordina la cessazione e inoltra le sanzioni. Oggi è
vietato nell’ordinamento nazionale anche l’abuso dello stato d’indipendenza
economica nel quale si trova impresa cliente, fornitrice rispetto ad una o più altre
imprese. Il terzo ed ultimo fenomeno sono le concentrazioni fra imprese. Si ha
concentrazione, quando più imprese si fondano dando luogo ad un'unica impresa, due
o più imprese indipendenti costituiscono un impresa societaria. Due o più imprese,
pur distinte diventano un'unica entità economica. Di per sé non sono vietate, quando
rispondono all’esigenza di aumentare la competitività, lo diventano, quando danno
luogo a gravi alterazioni concorrenziali di mercato. È stabilito che le operazioni di
concentrazione che superano determinate soglie di fatturato a livello nazionale
devono essere comunicate alle autorità italiana o alla comunità CEE, l’autorità può
vietare la concentrazione se ritiene che la stessa comporta il rafforzamento di una
posizione dominante con effetti distorsivi per la concorrenza stabile. Le sanzioni
possono raggiungere il 10% del fatturato delle imprese interessate se la
concentrazione interessata viene eseguita. La libertà d’iniziativa economica privata e
la libertà di concorrenza, sono libertà disposte nell’interesse generale e non possono
svolgersi contro l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà
e alla dignità umana (Art. 41 Cost.). Sia la Costituzione, sia il Codice Civile
consentono che tale libertà possano essere compresse e limitate dai pubblici poteri.
L’interesse generale può legittimare anche la radicale soppressione della libertà di
concorrenza con la costituzione per legge di monopoli pubblici per servizi essenziali.
Anche se va detto che i monopoli pubblici, oggi tendono a ridursi, perché non si
concilia con i concili espiratori dell’UE. In ogni caso la produzione di determinati
beni o servizi, attuata in regime di monopolio legale, sia dallo Stato o da un ente
pubblico, il legislatore tutela gli utenti contro l’arbitrio. Infatti, pone un duplice
40
obbligo a carico di chi opera in regime di monopolio, a) l’obbligo di contrattare
chiunque richieda le prestazioni e di soddisfare le richieste; b) rispettare la parità di
trattamento. La parità di trattamento non implica però le stesse condizioni contrattuali
per tutti perché il monopolista può prevedere modalità, tariffe differenziate. La libertà
individuale di iniziativa economica e di concorrenza è in libertà parzialmente
disponibile, infatti, il patto limita la concorrenza dove sarà provato per iscritto non
può precludere al soggetto che si vincola lo svolgimento di ogni attività
professionale, in quanto è previsto che il patto stesso è valido solo se è limitato ad un
determinato ambito territoriale, o in alternativa ad un determinato tipo di attività,
infine, imposto un limite massimo di 5 anni. La finalità è quella di tutelare i soggetti
che assumono l’obbligo di non concorrenza, un’eccessiva compressione della loro
attività individuale. Costituiscono esempi classici di patti limitativi della concorrenza
i cartelli o i consorzi anticoncorrenziali, ad esempio fabbricanti di tessuti concordano
la quantità globale da produrre, oppure si dividono le zone di distribuzione e abbiamo
i cartelli di zona.
CONCORRENZA SLEALE
La libertà d’iniziativa economica implica la presenza sul mercato di più imprenditori
in competizione tra loro per conquistare il mercato dei consumatori. La competizione
può essere anche rude e pesante, mettendo in atto strategie e tecniche che si ritengono
più idonee. Però si devono osservare alcune regole di comportamento, in modo che la
competizione
si
svolga
corretta
e leale.
Quindi
bisogna
distinguer
fra
CONCORRENZA LEALE e CONCORRENZA SLEALE. I principi base sono
racchiusi in alcun categorie, vedi atti di confusione, di denigratori e di vanteria.
Questi i sono di ONCORRENZA SLEALE vengono repressi e sanzionati anche
senza dolo, cioè anche se non hanno arrecato un danno ai concorrenti. Si tratta di una
disciplina volta a evitare che pratiche scorrete alterino un valore ‘interesse generale.
Infatti, viene tutelato non solo l’interesse dell’imprenditore, ma anche il destinatario
cioè il consumatore. Alla mancanza di norme sulla protezione dei consumatori contro
la pubblicità ingannevole si è cercato di porre riparo con un sistema di autodisciplina,
41
affiancata da una disciplina statale della pubblicità ingannevole e comparativa. Scopo
dichiarato di questa disciplina è quello di tutelare non solo gli imprenditori ma gli
interessi del pubblico nella fruizione nei messaggi pubblicitari. Nel codice civile
all’Art. 2598 sono definiti i comportamenti di Concorrenza Sleale, vedi Atti di
Confusione, che traggono in inganno il pubblico sulla provenienza dei prodotti e
quant’altro. Il legislatore né individua due in modo chiaro: L’USO DI SEGNI O
NOMI DISTINTIVI che generano confusione con nomi e segni usati da altri
imprenditori; LIMITAZIONE SERVILE DI PRODOTTI CONCORRENTI, ossia la
riproduzione esatta di prodotti altrui delle forme esteriori. Ancora tra la concorrenza
sleale c’è la denigrazione e l’appropriazione di pregi altrui, la pubblicità iperbolica è
un atto sleale per denigrazione. Ancora ci sono atti di concorrenza sleale ogni mezzo
che non conforme ai principi della disciplina concorrenziale, è idoneo a danneggiare
l’altrui azienda. In ultimo vi è la PUBBLICITA’ MENZOGNERA cioè falsa
attribuzione ai propri prodotti di qualità e pregi non appartenenti ad alcun
concorrente,
nonché
la
CONCORENZA
PARASSITARIA
che
consiste
nell’imitazione sistematica di iniziative altrui, vedi prodotti, marchi e così via.
CAPITOLO IX
I CONSORZI FRA IMPRENDITORI
Con
il
CONTRATTO
DI
CONSORZIO
più
imprenditori
costituiscono
un’organizzazione comune per lo svolgimento di determinate fasi delle loro imprese,
questa è la nuova nozione di CONSORZI. L’attuale definizione legislativa comporta
che il consorzio è oggi schema associativo tra imprenditori. Ci sono CONSORZI
ANTICONCORRENZIALI,
quelli
costituiti
per
il
contingentamento
della
produzione; vi sono consorzi di COORDINAMENTO per lo svolgimento di
determinate fasi delle rispettive imprese per ridurre i costi di gestione. Vi è nella
disciplina di diritto privato delle regole uniformi per i consorzi anticoncorrenziali
quelli di cooperazione. Altra è la distinzione rilevante sul piano civilistico, ossia la
distinzione tra consorzi con attività interna e quelli con attività esterna. In entrambi si
crea un’organizzazione comune, ma nei consorzi con sola attività interna il compito
42
di tale organizzazione si esaurisce con regolare i rapporti con i consorziati e non vi
sono contatti esterni. Altro è con attività esterna, dove si prevede l’istituzione di un
ufficio comune che svolge attività con i terzi. Il contratto di consorzio può essere solo
stipulato fra imprenditori, per iscritto pena di nullità, ancora deve contenere una serie
d’indicazioni riguardo all’oggetto, gli obblighi assunti e i contributi in denaro. Il
contratto per sua natura è un contratto di durata, e nel silenzio è valido per 10 anni. Il
contratto di consorzio è un contratto aperto, cioè è possibile la partecipazione di
nuovi imprenditori, però le condizioni per l’ammissione di nuovi consorziati devono
essere predeterminate dal contratto. Il contratto di consorzio può sciogliersi
limitatamente ad un consorziato per recesso o per esclusione da parte degli altri
consorziati. Dalle cause di recesso ed esclusione si distinguono le cause di
scioglimento dell’intero contratto di consorzio, queste sono elencate dall’Art. 2611
che consente uno scioglimento con delibera maggioritaria quando vi è una giusta
causa. L’organizzazione consortile è di carattere essenziale; ha il compito di attuare il
contratto assumendo ed eseguendo le decisioni necessarie a tal fine. Vi è un organo
composto da tutti i consorziati: l’ASSEMBLEA è un organo esecutivo. Le delibere
sono prese col voto favorevole della maggioranza, invece per le modifiche del
contratto. Ancora più ampio è lo spazio riservato all’autonomia per quanto riguarda
l’organo direttivo la cui funzione tipica, nei consorzi che non svolgono attività
esterna è quella di controllare l’attività dei consorziati, onde accettare l’esatto
adempimento della obbligazioni assunte.
I CONSORZI CON ATTIVITÀ ESTERNA
Una disciplina specifica è prevista per i consorzi che svolgono attività con i terzi
attraverso un ufficio apposito destinato a regolare i rapporti patrimoniali consorzi
terzi, sia nel carattere tipicamente imprenditoriale dell’attività degli stessi. Per loro è
previsto un regime di pubblicità legale, un estratto di contratto di consorzio che
contiene le indicazioni specificate dall’Art. 2612, deve essere depositato presso
l’ufficio del registro delle imprese entro 30 giorni dalla stipula. Nei consorzi con
attività esterna trovano migliore definizione e funzione dell’organo direttivo. Il
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contratto deve indicare le persone cui è attribuita la presidenza, la direzione e i
relativi poteri. Le persone che hanno la direzione del consorzio, devono redigere
annualmente la situazione patrimoniale, previste ancora un fondo patrimoniale,
formato dai contributi iniziali e successivi. L’Art. 2615 distingue le obbligazioni
gravanti sul fondo consortile che si dividono tra quelle assunte in nome del consorzio
e quelle per conto dei singoli consorziati.
LE SOCIETÀ CONSORTILI
Consorzi e società (Art. 2247) sono istituti diversi e la diversità è netta, quando il
consorzio svolge attività solo interna, manca in questo caso l’esercizio in comune di
un’attività economica da parte dei consorziati che invece costituiscono elemento
basilare delle società. La distinzione diventa più sottile quando il consorzio svolge
anche attività con i terzi. Società e consorzi, con attività esterna, hanno in comune sia
il normale carattere imprenditoriale dell’attività, sia il fine da realizzare attraverso
questa, diverso è lo scopo egoistico tipicamente perseguito. Funzione tipica di un
consorzio con attività esterna è quella di produrre beni e servizi necessari alle imprese
consorziate senza utili da parte del consorzio. Lo scopo tipico perseguito dai singoli
consorziati non è quello di ricavare l’utile dall’attività del consorzio ma solo
conseguire un vantaggio patrimoniale diretto nelle rispettive economie. Quindi lo
scopo è diverso delle società lucrative (società di persone o capitali) la cui finalità è
quella di produrre utili da distribuire fra i soci, perciò svolgono tipicamente attività di
scambio con i terzi. Di regola una S.p.A. acquista merci, li rivende e divide il
guadagno fra soci. Un consorzio, di regola, acquista merci e li rivende ai consorziati
stessi ad un prezzo calcolato in modo da coprire i costi di gestione. Lo scopo
consortile presenta molte affinità con lo scopo perseguito dalle società cooperative,
cioè quello mutualistico. Consorzio e società (lucrative e mutualistiche) sono quindi
forme associative previste dal legislatore per la realizzazione di finalità non
coincidenti. L’Art. 2615 ter. dispone che tutte le società lucrative eccetto la società
semplice, possono assumere come oggetto sociale scopi di un consorzio. È possibile
costituire una società operazione, nel cui atto costitutivo si dichiara l’esclusiva
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finalità consortile perseguibile. Gli imprenditori che danno vita a questa società
possono nell’atto costitutivo, specificare pattuizione volte ad adattare la struttura
societaria alla finalità consortile perseguita.
GRUPPO EUROPEO DI INTERESSE ECONOMICO (GEE)
Funzione identica a quella dei consorzi possono aversi in campo trans-nazionali con
il GEE, questo è un istituto giuridico predisposto dall’UE per favorire la
cooperazione fra impresa di diversi stati rimuovendo gli ostacoli delle diverse
legislazioni nazionali. Il regolamento comunitario dell’85 n. 2137 ha fissato la
disciplina base, l’Italia ha provveduto a riguardo col D.L. del ’91 n. 240. La struttura
del GEE è in parte uguale a quella dei consorzi di cooperazione con attività esterna.
Diversamente dai consorzi non è necessario che si tratti d’imprenditori, ma può
essere costituito anche fra liberi professionisti. Almeno due membri è necessario che
esercitano la loro attività economica in stati diversi della comunità. Al pari dei
consorzi con attività esterna, il GEE è un centro autonomo d’imputazione di rapporti
giuridici distinto dai suoi membri, ma privo di personalità giuridica, ha, infatti, la
capacità a proprio nome di essere titolare di diritto e obbligazioni di qualsiasi natura.
Il contratto costitutivo del GEE deve essere redatto per iscritto, nel contratto vanno
indicate la DENOMINAZIONE, la SEDE, l’OGGETTO e i NOMI DEI MEMBRI e
la DURATA. Il contratto è soggetto a pubblicità legale con iscrizione nel registro
delle imprese e pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale. In seguito di questa
pubblicazione, si deve dare comunicazione nella Gazzetta Ufficiale delle Comunità
Europee. Il gruppo con l’iscrizione nel registro delle imprese acquista la titolarità di
diritto ed obbligazioni. L’organizzazione e le regole di funzionamento sono rimesse
all’autonomia privata, ci sono due organi: L’ASSEMBLEA, e un ORGANO
AMMINISTRATIVO. I membri del gruppo possono prendere qualsiasi decisione
collegialmente per le questioni importanti; per le altre il contratto fissa le
maggioranze richieste. Ricordiamo che ogni membro ha un solo voto. La gestione del
GEE è affidata da uno o più amministratori. In applicazione di principio che il GEE
non ha lo scopo di realizzare profitti per sé, i profitti risultanti dall’attività del gruppo
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sono considerati profitti dei membri e ripartiti da loro, con lo stesso criterio
contribuiscono a coprire le perdite. Non vi è un fondo patrimoniale iniziale né eleva il
fondo patrimoniale, dà contrappeso vi è un regime di responsabilità per le
obbligazioni di qualsiasi natura assunte dal GEE, rispondono solidalmente ed
illimitatamente tutti i soci, oltre a questo col patrimonio. La responsabilità è
sussidiaria rispetto a quella del GEE, i creditori possono agire nei confronti dei
membri dopo aver chiesto al gruppo di pagare qualora il pagamento non sia stato
entro un congruo termine. Ogni membro risponde anche delle obbligazioni anteriori
salvo patto diverso, i membri per recesso o per esclusione possano cessare di far parte
del GEE ma continuano a rispondere delle obbligazioni. In caso d’insolvenza è
esposta al fallimento e gli organi al fallimento potranno chiedere ai membri del GEE
il versamento delle somme.
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