[working paper, Laboratorio di Politica Comparata e Filosofia Pubblica, Centro Einaudi] Diritti sociali. Analisi teorica di alcuni luoghi comuni G IO R G IO P IN O ∗ È noto che i diritti sociali costituiscono una categoria altamente controversa. Se nel discorso filosofico-politico sono avversati in quanto fautori del debordamento dello Stato dagli angusti confini che gli spetterebbero da buon “guardiano notturno”, e da un punto di vista economico sono esecrati in quanto fonte di sprechi e di distorsioni del mercato, nel discorso propriamente giuridico i diritti sociali non se la passano molto meglio1: vengono di volta in volta qualificati come diritti di seconda (o terza) generazione, diritti “di carta”, diritti che costano; dove tutte queste qualificazioni, seppure da prospettive e per ragioni differenti, intendono veicolare l’idea che i diritti sociali non sono “veri” diritti, ma diritti di seconda classe – e peraltro una categoria eterogenea e confusa –, un artificio retorico da un punto di vista giuridico e un lusso da un punto di vista economico, e comunque recessivi rispetto ai veri diritti (i diritti di libertà). Dichiaro subito le mie opzioni sostanziali: ritengo che il riconoscimento e la garanzia dei diritti sociali sia una conquista importante di civiltà, un valore in sé e anche un importante strumento per l’effettivo godimento di altri diritti (i diritti di libertà, incluse le libertà economiche). Ma non è questa posizione che voglio qui difendere. Piuttosto, intendo saggiare alcuni luoghi comuni del discorso giuridico sui diritti sociali – quali ad esempio quelli che ho menzionato poco sopra – mettendoli alla prova con gli strumenti della teoria generale del diritto, e in particolare della teoria dei diritti soggettivi elaborata nel corso del ‘900 specialmente in ambito anglosassone. In particolare, mi occuperò di due questioni: il problema della definizione della categoria dei diritti sociali (§ 1); il problema dei rapporti tra diritti sociali e altri diritti (§ 2). Ritengo che una analisi più chiara possibile di questi due aspetti possa rappresentare un buon punto di partenza per chi, come me, intende difendere i diritti sociali anche su un piano più sostanziale; ma quest’ultimo profilo, come ho detto, resterà qui decisamente sullo sfondo. 1. Per una definizione dei diritti sociali Un primo luogo comune a proposito dei diritti sociali è rappresentato dal carattere eterogeneo e confuso che contraddistinguerebbe la categoria “diritti sociali”. Questo, a dire il vero, è un luogo comune quasi in senso letterale, in quanto è affermato non solo dai critici ma anche dagli apologeti dei diritti sociali. Che la categoria dei diritti sociali venga costruita in maniera eterogenea, ad includere cose tanto diverse quali il diritto alla salute, il diritto al lavoro, i diritti sindacali, i diritti della famiglia, i diritti associati all’ambiente, e altre cose ancora, è la conseguenza, mi pare, di una scelta definitoria di tipo puramente “ricognitivo”. Intendo dire che, la maggior parte delle volte, la categoria dei diritti sociali viene costruita in maniera da includere quei diritti che sono solitamente considerati “diritti sociali”; in poche parole, un diritto è considerato un diritto sociale non per ∗ Professore associato di Filosofia del diritto, Università di Palermo | [email protected] | www.unipa.it/gpino. Testo dell’intervento presentato al seminario Diritti sociali, veri diritti? Un confronto tra teoria del diritto e scienza politica, Università Milano-Statale, Dipartimento di Scienze Sociali e Politiche, 15 aprile 2014. 1 Per ragioni puramente espositive, sto assumendo che questi livelli di discorso (politico, economico, giuridico) siano distinti e separati. La realtà è, ovviamente, ben diversa – ciascuno di questi livelli di discorso influenza profondamente gli altri, spesso in maniera non trasparente. E questo, probabilmente, è vero soprattutto per il discorso giuridico: sia per la natura strumentale del diritto rispetto a scelte sostanziali di tipo politico ed economico, sia per la capacità del tecnicismo giuridico di rendere poco visibili le opzioni sostanziali sottostanti. [working paper, Laboratorio di Politica Comparata e Filosofia Pubblica, Centro Einaudi] qualche caratteristica relativa al suo contenuto2 o al suo fondamento, ma perché è di solito considerato – nella communis opinio – appartenere alla categoria dei diritti sociali. Queste definizioni ricognitive, o ostensive, per quanto assai diffuse, hanno il difetto di fotografare una categoria effettivamente eterogenea, della quale non si capisce bene quali siano gli elementi unificanti. Probabilmente agisce in sottofondo un vago dato cronologico, del tutto analogo a quello che anima la favoletta delle varie “generazioni” dei diritti: i diritti sociali sono quei diritti che sono stati riconosciuti o rivendicati in un certo momento storico (la seconda, o a seconda dei casi la terza, generazione dei diritti), e così – pur essendo del tutto eterogenei tra loro – restano accomunati da questa comune caratteristica genealogica, e magari da una vaga ispirazione “sociale”3. Che la categoria dei diritti sociali sia costruita in maniera eterogenea e confusa non è necessariamente una ragione per rifiutare l’attuazione dei diritti sociali – anche se talvolta questo argomento è stato più o meno indirettamente utilizzato. Ma resta il fatto che questa strategia definitoria che ho chiamato “ricognitiva” è abbastanza insoddisfacente, sia perché fa perdere una informazione importante (c’è qualcosa che accomuna i vari diritti sociali, oltre la mera etichetta?), sia perché in quella definizione rientrano diritti che hanno anche profili di libertà (il diritto di scegliere le cure, il lavoro o l’istruzione), e perfino diritti che, a dire il vero, sembrerebbero interamente diritti di libertà (le libertà sindacali, la possibilità di istituire scuole private). Nella letteratura giuridica e filosofico-politica circolano invero anche altri tipi di definizione dei diritti sociali, che guardano maggiormente alla dimensione contenutistica. Da questo punto di vista le caratteristiche definitorie utilizzate sono principalmente due: la struttura del diritto, e la sua giustificazione sostanziale. Sulla struttura dei diritti sociali dirò qualcosa tra poco (§ 2), mentre per il momento vale la pena di spendere qualche parola sulla questione della giustificazione o fondamento sostanziale dei diritti sociali. Da questo punto di vista, i candidati naturali sono principalmente due: l’eguaglianza sostanziale (art. 3, co. 2 cost.), e la solidarietà (art. 2 cost.). Questi sono in effetti i principi fondanti dei diritti sociali che vengono più spesso richiamati in dottrina, ed è interessante notare che a tal fine questi due principi vengono utilizzati in maniera disgiuntiva – l’uno in alternativa all’altro. Intendo dire che nelle ricostruzioni correnti i diritti sociali vengono associati o all’eguaglianza sostanziale, o alla solidarietà; ma in entrambi i casi, come è facile vedere, si determina un indebito allargamento della categoria, perché seguendo coerentemente questa linea si dovrebbero far rientrare nel novero dei diritti sociali alcune cose che invero si fa fatica a chiamare così: i diritti dei consumatori e del contraente debole, le quote rosa in materia elettorale e in generale le c.d. azioni positive sono solo alcuni esempi di misure richieste dall’eguaglianza sostanziale, e che però non sembrano avere titolo per essere considerati diritti sociali. Detto altrimenti: il solo riferimento all’eguaglianza sostanziale non sembra sufficiente come fondamento dei diritti sociali. Lo stesso discorso può farsi per la solidarietà, che opera in numerosi contesti (ad esempio il volontariato) che non sembra appropriato descrivere in termini di diritti sociali. Allora, una possibile definizione alternativa è questa: i diritti sociali sono quei diritti che trovano la loro giustificazione contemporaneamente nel principio di solidarietà e nell’eguaglianza sostanziale. Vale a dire che si tratta di diritti a prestazioni pubbliche (solidarietà) finalizzate ad evitare che una qualche circostanza materiale o esistenziale (salute, indigenza, disoccupazione, ecc.) impedisca il pieno sviluppo della persona umana e la sua partecipazione alla vita sociale su un piede di libertà ed eguaglianza (eguaglianza sostanziale). Questo è coerente, peraltro, con l’idea alquanto diffusa che i diritti sociali siano funzionali ad assicurare la libertà attraverso lo Stato (Bobbio, Marshall). 2 Vero è che di solito un elemento comune e caratterizzante dei diritti sociali è considerata la presenza di una prestazione pubblica (elemento su cui tornerò tra poco). Ma già dal sommario elenco di diritti comunemente considerati sociali che ho menzionato nel testo si vede che l’elemento della prestazione pubblica non è sempre presente: come nel caso dei diritti sindacali. 3 Anche se non si capisce bene cosa abbia a che fare il diritto dell’ambiente con questa ispirazione sociale. [working paper, Laboratorio di Politica Comparata e Filosofia Pubblica, Centro Einaudi] In base a questa definizione, dunque, i diritti sociali sono sempre caratterizzati da un aspetto prestazionale in capo a soggetti pubblici, e da una aspirazione egualitaria nel senso della neutralizzazione di particolari diseguaglianze. Di conseguenza, in base a questa definizione saranno diritti sociali il diritto all’istruzione, alla salute, al lavoro (intesi questi come diritti a ricevere prestazioni pubbliche che eliminino possibili diseguaglianze in questi settori), i diritti relativi alla previdenza e all’assistenza; mentre non potranno essere considerati diritti sociali (salvo che il talune loro esplicazioni non siano presenti l’aspetto prestazionale e quello egualitario) il diritto dell’ambiente, i diritti sindacali, i diritti della famiglia4. 2. Rapporti tra diritti sociali e altri diritti Il secondo problema riguarda il rapporto tra i diritti appartenenti alla categoria dei diritti sociali, una volta debitamente circoscritta, e gli “altri” diritti: i diritti di libertà, civili e politici. A questo proposito una prima alternativa è tra le posizioni compatibiliste e quelle conflittualiste. I compatibilisti, come possono essere considerati ad esempio Mazziotti di Celso e Ferrajoli, sostengono che tra questi tipi di diritti non c’è alcun conflitto – anzi, i diritti sociali servono a rendere più effettivi i diritti di libertà. I conflittualisti di contro sostengono che tra questi diritti c’è in realtà una contrapposizione, che al fondo è originata dalla stessa struttura dei diritti sociali come diritti a prestazioni. A questa contrapposizione si aggiunge (spesso tacitamente) una preferenza per i diritti di libertà: questi infatti avrebbero un che di “naturale” (sono associati al mercato) e richiedono una mera astensione dello Stato; i diritti sociali invece sono “artificiali” perché richiedono l’intervento attivo dello Stato. La priorità dei diritti di libertà viene talvolta portata anche più in là, sostenendo che essi sono i veri diritti, mentre i diritti sociali sono diritti spuri, di carta: perché non è chiaro chi e che cosa sia obbligato il soggetto passivo, e perché non si tratta di diritti giustiziabili. Personalmente ritengo la tesi conflittualista corretta nei limiti in cui riconosce che diritti sociali e diritti di libertà possono (molto facilmente) entrare in conflitto. Questo però, a mio giudizio, non deriva dalla diversa struttura dei vari diritti in considerazione, come è dimostrato dal fatto che conflitti possono facilmente verificarsi tra diritti dello stesso tipo (tra vari diritti di libertà), e anche tra differenti istanze di esercizio di uno stesso diritto (la libertà di espressione di A può entrare in conflitto con la libertà di espressione di B). I conflitti tra diritti sociali e diritti di libertà derivano dal fatto che si tratta di diritti dotati di differente fondamento assiologico, e attribuiti (ad esempio nella nostra costituzione) da norme di principio, dotate di contenuto ampio e indeterminato. Inoltre, dalla possibilità del conflitto tra diritti sociali e diritti di libertà non deriva, sempre a mio giudizio, l’automatica priorità dei diritti di libertà. La posizione che afferma che, poiché i diritti sociali non sono veri diritti (perché non collegati ad un obbligo chiaramente definito, perché non giustiziabili, perché costosi, ecc.), allora devono essere considerati automaticamente recessivi rispetto ai diritti di libertà rappresenta il tentativo di istituire una stabile e definitiva gerarchia assiologica tra diritti di libertà e diritti sociali basandosi su asserite differenze strutturali – una sorta di tacita transizione dall’essere (la struttura) al dover essere (la priorità assiologica). Per chiarire quest’ultimo toccherò brevemente tre questioni attinenti alla asserita diversità strutturale tra diritti sociali e diritti di libertà, al fine di dimostrarne l’insostenibilità – e la conseguente insostenibilità della tesi della priorità assiologica dei diritti di libertà sui diritti sociali, se basata solo su questi aspetti. Si tratta del rapporto tra diritto (soggettivo) e obbligo, del ruolo 4 Le precisazioni introdotte tra parentesi in questo capoverso sono finalizzate a sottolineare un aspetto importante: spesso dietro la generica denominazione di un diritto fondamentale (ad esempio il diritto alla salute, o il diritto al lavoro, o il diritto all’istruzione) si trova in realtà un fascio di diritti più specifici. E dunque l’aspetto prestazionale e quello egualitario possono caratterizzare solo alcuni dei diritti più specifici di un (macro-)diritto sociale, ed essere assenti in altri. E viceversa. [working paper, Laboratorio di Politica Comparata e Filosofia Pubblica, Centro Einaudi] della giustizialibilità nella definizione del diritto soggettivo, e del rapporto tra diritti di libertà e diritti a prestazioni. La questione della correlatività tra diritto e obbligo ha radici lontane: è infatti una tesi assai radicata quella secondo cui diritto e dovere sono due facce della stessa medaglia, e che avere un diritto non vuol dir altro che da qualche parte c’è un soggetto che ha un obbligo corrispondente a quel diritto (Kelsen, Bobbio). Ma la tesi della correlatività è oggi in gran parte abbandonata nella teorizzazione sui diritti soggettivi: si è capito infatti che i diritti sono cose più complicate di così, entità molecolari e proteiformi, e che la presenza di un obbligo corrispondente è solo una delle possibili modalità con cui si può presentare un diritto (nei termini della tipologia di W. Hohfeld, l’obbligo è la modalità correlativa solo ai diritti-pretese, mentre non è il correlativo delle libertà, dei poteri e delle immunità). I diritti – e ancor più i diritti fondamentali – sono pacchetti, gruppi, clusters di posizioni soggettive, finalizzate alla protezione di un certo interesse; dunque, ha senso dire che si è in presenza di un diritto anche quando non sono ancora specificamente predisposte o precisamente individuate le posizioni che ne devono assicurare il soddisfacimento; in ipotesi, ha senso parlare di un diritto anche se non è ancora precisamente individuato il soggetto su cui ricadono gli obblighi e le altre posizioni corrispondenti. Anche la questione della giustiziabilità dei diritti (cioè, la possibilità di far valere un diritto in sede giudiziaria) può essere meglio inquadrata in termini hohfeldiani: infatti, se raffiguriamo – come abbiamo visto poco sopra – i diritti come complessi e variabili raggruppamenti di posizioni soggettive, possiamo vedere che la possibilità di ricorrere in giudizio (in termini hohfeldiani, un potere) non può essere considerato un elemento definitorio del diritto soggettivo in sé, ma è un elemento che attiene al perimetro protettivo del diritto: è una delle posizioni soggettive che sono funzionali alla protezione dell’interesse sottostante al diritto. Di conseguenza, tale potere può in ipotesi anche essere assente, senza che questo determini il venir meno del diritto soggettivo. È vero che una caratteristica frequente dei diritti giuridici è la possibilità agire in giudizio per la loro tutela, ma questa (come afferma anche la Corte costituzionale italiana) è una conseguenza dell’inviolabilità dei diritti fondamentali, non un elemento della loro definizione. Inoltre, esistono vari modi in cui i diritti sociali possono anche accedere alla tutela giurisdizionale, come dimostra la giurisprudenza costituzionale in tema di sentenze additive, e come dimostrano le esperienze di altre democrazie costituzionali contemporanee (Brasile, Sudafrica). Infine, in relazione all’elemento della prestazione, che sarebbe presente nei diritti sociali e assente nei diritti di libertà, l’argomento standard è il seguente: il godimento dei diritti di libertà dipende solo dall’esercizio, liberamente rimesso all’iniziativa del titolare del diritto; di contro, il godimento dei diritti sociali richiede un intervento attivo da parte dello Stato. Da ciò, due conseguenze: a) il diritto sociale non esiste, o comunque non può essere goduto, fintantoché lo Stato non predispone – con una propria scelta discrezionale – le misure normative e di bilancio che integrano gli obblighi corrispondenti (questa è la natura programmatica dei diritti sociali); b) il godimento dei diritti sociali, a differenza dei diritti di libertà, richiede un costo a carico della collettività. Ora, quanto ad a), abbiamo già visto che le cose non stanno necessariamente così: un diritto esiste anche se l’obbligo corrispondente (o alcuni degli obblighi corrispondenti) non sono ancora precisamente determinati. Quanto a b), anche i diritti di libertà richiedono un apparato pubblico e costoso sia al fine della loro tutela (tribunali, polizia) e del loro godimento (opere di urbanizzazione, infrastrutture fisiche e giuridiche). E inoltre, l’esercizio di alcuni diritti di libertà, o di prima generazione, richiede molto più che la semplice astensione da parte dello Stato: si pensi al caso del diritto di voto, o del diritto di difesa in giudizio. Inoltre, sostenere che i diritti di libertà non costano mentre i diritti sociali costano significa adottare la prospettiva del mercato e della proprietà privata come una sorta di posizione di default: perché è vero che dal punto di vista del proprietario il prelievo fiscale (funzionale ad approntare le risorse per assicurare anche i diritti sociali) è un costo; ma è anche vero che, dal punto di vista del malato indigente l’assenza di ospedali pubblici è un costo – un costo che ricade su di lui e non sui proprietari. Più in generale, anche la violazione o l’inattuazione di un diritto è un costo, quantomeno dal punto di vista del titolare del diritto. [working paper, Laboratorio di Politica Comparata e Filosofia Pubblica, Centro Einaudi] In conclusione: tutti i diritti hanno aspetti “negativi” (nel senso che richiedono un’astensione da parte dello Stato, o di terzi) e “positivi” (nel senso che richiedono interventi positivi da parte dello Stato, o di terzi). Tutti i diritti richiedono apparati pubblici per la loro protezione: non vogliamo solo che i nostri diritti vengano solennemente proclamati in una costituzione o in una legge: voliamo che siano protetti. Tutti i diritti sono costosi. I diritti sono per alcuni versi intrecciati (molti diritti sociali, oltre ad avere un valore in sé, servono anche a rendere effettivo il godimento delle libertà), e per altri versi confliggenti: il loro assetto complessivo richiede scelte che al fondo sono politiche, che si devono fare allo scoperto, e non celandosi dietro una mossa apparentemente definitoria (diritti “veri” vs. diritti “di carta”), o una concettuologia fuorviante (diritti che costano vs. diritti che non costano).