la posizione civilistico-pervidenziale dei soci

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LA POSIZIONE CIVILISTICO-PREVIDENZIALE DEI SOCI ACCOMANDANTI
di Livio Lodi
Premessa
La figura del socio accomandante delle società in accomandita semplice è stata
recentissimamente rivisitata dalla Corte di Cassazione, la quale, con la sentenza n. 22666 del
5 novembre u. s., ne ha ripuntualizzato la posizione nell’ambito dell’assetto societario,
anche con riferimento alle prerogative dei soci accomandatari.
Di qui l’avvertita opportunità di risintetizzarne la configurazione, sia avuto riguardo
agli aspetti civilistici, sia con riferimento a quelli lavoristico-previdenziali, nonostante il
fatto che (lo vedremo in seguito) la citata sentenza non ha apportato modificazione alcuna
alle preesistenti impostazioni.
Brevissimi cenni sull’ordinamento societario
Le società, nel sistema del diritto positivo del nostro Paese, costituiscono una forma
di esercizio collettivo dell’impresa, laddove, invece, esulano dal concetto di società le
forme di godimento collettivo di un bene (altrimenti denominate “comunioni”), come ad
esempio il condominio negli edifici.
La differenziazione tra i due istituti giuridici pone dunque l’accento sul fatto che
mentre l’oggetto della società è l’esercizio di una attività economica a scopo speculativo in
funzione dei bisogni del mercato (e che è, in ultima analisi, finalizzata alla realizzazione di
un guadagno), la comunione, anche allorchè abbia origine contrattuale, presuppone
unicamente il godimento dei beni secondo la loro destinazione economica (frutto).
La cooperazione economica nell’esercizio dell’impresa si può tuttavia realizzare,
oltre che mediante la costituzione di una società, anche con lo strumento dell’associazione
in partecipazione, ossia mediante un contratto con il quale una parte, l’associante,
attribuisce all’altra, l’associato, una partecipazione agli utili della propria impresa o di uno o
più affari verso il corrispettivo di un determinato apporto.
Diversamente da quanto avviene nel contratto societario, nell’associazione in
partecipazione, alla comunanza dei risultati, non corrisponde una condivisione
dell’organizzazione imprenditoriale, che continua a far capo all’imprenditore, essendo il
tutto limitato al trasferimento di determinate somme e/o beni dall’associato all’associante.
Il modello societario, peraltro, va ben oltre la mera comunione contrattuale delle
risorse apportate: anche se dal contratto trae la sua origine, la società non è mai soltanto un
negozio giuridico, ma si identifica anche come una organizzazione di persone e di beni
rivolta al raggiungimento di un fine produttivo.
Proprio in relazione a ciò le società si distinguono in società organizzate su base
personale (società semplici, società in nome collettivo e società in accomandita semplice) e
in società organizzate su base capitalistica (società per azioni, società a responsabilità
limitata e società in accomandita per azioni): nelle prime i diritti (le prerogative connesse
all’amministrazione) ed i doveri (la responsabilità delle obbligazioni sociali) fanno capo,
con talune eccezioni, alle persone dei soci, laddove invece, nelle seconde, tali caratteristiche
sono limitate, anche in questo caso con delle deroghe, all’apporto nella società.
Una collocazione a parte deve essere effettuata per le società cooperative, le quali
presentano connotati dell’uno e dell’altro modello societario: in particolare, sono simili alle
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società di persone per effetto della rilevanza della figura del socio (per poter assumere la
qualificazione di socio nelle società cooperative devono infatti ricorrere determinati requisiti
soggettivi, e segnatamente essere verificata l’appartenenza alla categoria delle persone
direttamente interessate all’esercizio dell’attività sociale).
Sono vicine alle società di capitali in conseguenza, sia dell’acquisizione della
personalità giuridica, sia del regime di responsabilità che, come nelle società organizzate su
base capitalistica, è limitata al solo apporto di capitale.
Il caso particolare delle società in accomandita semplice: gli aspetti civilistici del
socio accomandante
Il presupposto fondamentale delle società organizzate su base personale è la
sussistenza di una autonomia patrimoniale, con la conseguenza che la posizione della società
risulta ben distinta da quella dei soci.
Non sempre, inoltre, la responsabilità solidale ed illimitata dei soci per le
obbligazioni sociali costituisce una regola necessaria ed ineludibile: le società in
accomandita semplice (s. a. s.) prevedono infatti che nei confronti dei soci accomandanti la
responsabilità di cui si discorre sia limitata al solo conferimento societario, mentre i soci
accomandatari rispondono anche con il proprio patrimonio personale (per capirci quello
detenuto al di fuori della società).
Sotto l’aspetto della responsabilità sociale, insomma, nelle società di persone, come
si qualificano appunto le s. a. s., la figura degli accomandatari è identica a quella della
generalità dei soci delle società in nome collettivo (s. n. c.).
Ma al di là del “nomen iuris” attribuito ai soci, con riferimento al principio su cui è
fondato il regime di responsabilità, si manifesta rilevante l’atteggiamento dei medesimi:
quelli che operano in ambito societario, non solo sono necessariamente responsabili nei
confronti dei terzi, ma ogni diverso patto contrario contenuto nel contratto societario non è
efficace nei confronti di questi ultimi (art. 2267 del codice civile).
Sempre a mente dell’appena citata norma, l’esclusione della responsabilità prevista
dal contratto sociale rispetto ai soci che non operano non è opponibile ai terzi se non quando
sia portata a loro conoscenza con mezzi idonei o comunque nel caso in cui i terzi ne abbiano
in qualche modo cognizione.
Nelle s. a. s., ovviamente, tale connotato è riconosciuto “in re ipsa” (nel senso che il
significato è insito nello stesso modello societario) direttamente dalla legge, atteso che
costituisce caratteristica tipica della s. a. s. la sussistenza di una categoria di soci, gli
accomandanti, appunto, i quali non rispondono personalmente delle obbligazioni sociali (art.
2317, comma 2, del codice civile): tuttavia, il compimento da parte dell’accomandante di
atti di amministrazione e la trattazione e la conclusione di affari in nome della società,
comporteranno, per legge, l’assunzione di responsabilità nei confronti dei terzi per tutte le
obbligazioni (art. 2317, comma 2, e 2320, comma 1, del codice civile), ed ogni patto
contrario eventualmente contenuto nel contratto sociale non è efficace nei confronti di questi
ultimi (art. 2267 del codice civile).
Il caso particolare delle società in accomandita semplice (continua): gli aspetti
lavoristico-previdenziali del socio accomandante
In materia lavoristico-previdenziale, la posizione del socio accomandante assume
rilevanza se ed in quanto svolga una attività lavorativa nell’ambito del processo produttivo
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aziendale, essendo preclusa a detto socio qualsiasi ingerenza nell’amministrazione della
società, prerogativa, quest’ultima, che è invece riservata ai soli soci accomandatari (anche se
non necessariamente a tutti).
Premesso che la partecipazione lavorativa nel contesto aziendale può essere
effettuata con tutte le tipologie di rapporto di lavoro previste dall’ordinamento (subordinato,
autonomo, parasubordinato, libero professionale, ecc.), proprio per la netta distinzione dai
soci accomandatari (ai quali soltanto, come già sottolineato, spetta l’amministrazione della
società ed a cui fanno carico, senza limiti, le responsabilità ed i rischi dell’attività sociale)
può essere riconosciuta la veste di lavoratore subordinato al socio accomandante,
sempre che l’attività medesima non rientri, neanche in parte, nel conferimento previsto
dal contratto societario: essi rischiano infatti nell’attività sociale soltanto la quota di
partecipazione alle uniche condizioni di non contravvenire al divieto di compiere atti di
amministrazione e di non far comparire il loro nome nella ragione sociale, nel qual caso,
dovendo rispondere illimitatamente e solidalmente verso terzi, si troverebbero nella
posizione di incompatibilità con quella dei lavoratori dipendenti, visto anche che non
sarebbero subordinati a nessuno.
Due considerazioni importanti meritano tuttavia citazione: la prima è che non si può
legittimamente instaurare un rapporto di lavoro dipendente qualora l’accomandante risulti
titolare della maggioranza del capitale sociale (c. d. “socio egemone”): mancherebbe, anche
in tal caso, l’essenziale requisito della subordinazione, per cui il rapporto di lavoro
medesimo dovrebbe essere annullato con effetto ex tunc a partire dalla data nella quale si è
verificata tale situazione (al limite anche dalla data dell’originaria costituzione della
società).
La seconda concerne la possibilità che l’accomandante sia un parente od un affine di
uno o più soci accomandatari. Ricorrendo tale eventualità si entrerebbe nella problematica
dell’instaurazione del rapporto di lavoro subordinato tra congiunti, che viene visto con
sospetto dalle autorità deputate alla vigilanza dei rapporto di lavoro (Direzione territoriale
del lavoro, Enti previdenziali, Guardia di finanza, ecc.).
Per stabilire la legittimità dell’instaurazione di un rapporto di lavoro subordinato tra
persone legate da vincoli di parentela ed affinità, secondo lo schema classico delineato
dall’art. 2094 del codice civile, soccorre una copiosa ed ormai consolidata giurisprudenza
della Corte di Cassazione, che tiene sostanzialmente conto dei seguenti parametri:
- la convivenza. In ipotesi di coabitazione, le prestazioni si presumono
gratuite e tale circostanza può essere vinta dalla dimostrazione, che incombe alla parte che
sostiene l’esistenza nel rapporto di lavoro con il requisito della subordinazione, mediante la
produzione di una prova certa e rigorosa: in particolare deve essere argomentato che
l’attività lavorativa non è finalizzata a soddisfare le normali esigenze della vita familiare,
bensì che viene svolta nel più vasto ambito dell’esercizio di una impresa. Qualora i soggetti
non siano conviventi, tale presunzione cede il passo a quello di normale onerosità del
rapporto di lavoro superabile, per converso, con la dimostrata sussistenza di sicuri elementi
contrari;
- la presunzione di gratuità della prestazione, per il superamento della
quale si rende necessario, anche in questo caso, la sussistenza di una prova precisa e
rigorosa nella considerazione che l’attività lavorativa esercitata nell’ambito di una impresa
organizzata e gestita su base prevalentemente familiare non fa venir meno la presunzione di
gratuità. Diversamente, ossia qualora l’impresa sia di notevoli dimensioni ed amministrata
con criteri rigidamente imprenditoriali;
- la forma giuridica assunta nell’esercizio dell’attività. I parametri appena
enunciati (la convivenza e la presunzione di gratuità della prestazione) trovano principale
applicazione nei rapporti instaurati con le imprese individuali, con le società di persone e
con le attività non rientranti nell’ambito delle imprese ex art. 2082 del codice civile (si cita
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ad esempio gli studi professionali). Anche in questo caso, infatti, in particolar modo qualora
i congiunti siano conviventi, il rapporto di lavoro si presume gratuito e perciò esclusi
dall’obbligo assicurativo, se le parti non forniscono prove “rigorose”, vale a dire non solo
formali, ma convincenti nel loro complesso, dell’onerosità del rapporto stesso e della sua
natura subordinata. Minore impiego si rileva invece nei confronti delle società di capitali,
salvo particolari situazioni da verificare caso per caso, dal momento che, essendo queste
ultime dotate di personalità giuridica, la figura del datore di lavoro si identifica con la
società medesima.
Resta fermo il fatto che i criteri di cui si discorre non possono essere applicati alle
imprese familiari, nelle quali non è ravvisabile il requisito della subordinazione.
Nel caso di esercizio dell’attività imprenditoriale in regime di piccola impresa di cui
all’art. 2083 del codice civile, infine, lo sbocco naturale del lavoro dei congiunti è quello
della collaborazione familiare (da non confondere con l’impresa familiare, della quale è
peraltro storicamente antesignana): anche ricorrendo tali due ultime evenienze, non può
tuttavia escludersi, in linea di principio, la sussistenza delle condizioni per la convalida
di un rapporto di lavoro subordinato, da dimostrare caso per caso.
La sentenza n. 22666 del 5 novembre 2015 della Corte di Cassazione
Nel contesto appena descritto è intervenuta la sentenza in epigrafe, con la quale il
Supremo Consesso è stato chiamato a decidere in caso di un socio accomandante di una s. a.
s. che aveva firmato un contratto preliminare di vendita di un immobile.
Il giudice di seconde cure, pur condannando l’accomandante alla restituzione degli
acconti percepiti per conto della società ed al risarcimento dei danni patiti dal promissario
acquirente, nel rigettare la domanda di esecuzione in forma specifica del preliminare di
compra vendita, aveva osservato quanto segue:
- il contratto era stato concluso dagli attori non con il socio accomandatario e legale
rappresentante della società promittente, bensì con il socio accomandante, il quale ultimo
aveva indicato, sia nel
contratto, sia nelle ricevute e sia infine nella fattura del saldo,
la non meglio specificata qualità di socio;
- il richiamo all’art. 2320 del codice civile, formulato dagli appellanti, che avevano
sostenuto il mutamento della società in accomandita semplice in società in nome collettivo
irregolare e la responsabilità in solido con la società del socio accomandante per effetto
dell’ingerenza nella gestione interna ed esterna nella società medesima era fuori luogo,
posto che tale norma non introduce deroghe alla disciplina generale in tema di
rappresentanza della società per il contratto concluso dal falso procuratore salvo ratifica, che
deve rivestire la stessa forma prescritta per il contratto concluso dal falso procuratore e ha
carattere ricettizio;
- in tema di rappresentanza delle persone giuridiche il principio dell’apparenza nel
diritto non può trovare applicazione, dal momento che deve sempre e comunque essere
verificata la titolarità dei poteri rappresentativi;
- era
da considerarsi inammissibile, perché nuova, la questione introdotta con la comparsa
conclusionale depositata dagli appellanti, che avevano dedotto la conferma da parte della
società della validità del preliminare sottoscritto dall’associante, invocando l’atto di
riassunzione di altro giudizio prodotto per la prima volta all’udienza del 30 marzo 2007; in
ogni caso, tale atto non avrebbe dimostrato un tacito accordo o una ratifica preventiva fra
l’associante e la società;
- ad abundantiam, era emersa la esclusione del socio per le iniziative dal medesimo
assunte;
- nella specie, non si versava in ipotesi di obbligazione sociale o riferibile alla
società, per cui si ribadiva l’inapplicabilità dell’art. 2320 del codice civile.
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Confermando sostanzialmente la presa di posizione della Corte di appello di Napoli,
il Giudice di legittimità ha affermato che “L’ingerenza del socio accomandante ovvero
l’attività di gestione interna ed esterna o l’accordo tacito intercorso con il socio
accomandatario sono aspetti irrilevanti sotto il profilo del questione risolutiva della
fattispecie in esame in cui il terzo (gli attori) hanno concluso un contratto preliminare con la
società in accomandita in persona del soggetto - peraltro qualificatosi socio - che essendo
l’accomandante non aveva il potere di agire impegnando la società: si versa quindi
nell’ipotesi equiparabile a quella del negozio concluso dal falsus procurator. Ed invero,
al riguardo, va ricordato che nella società in accomandita semplice, in caso di sopravvenuta
mancanza di tutti i soci accomandatari, l’art. 2323 cod. civ., nel prevedere la sostituzione dei
soci venuti meno e la nomina in via provvisoria di un amministratore per il compimento
degli atti di ordinaria amministrazione, esclude implicitamente la possibilità di riconoscere
al socio accomandante, ancorché unico superstite, la qualità di rappresentante della società
per il solo fatto di aver assunto in concreto la gestione sociale. In tale tipo di società, infatti,
diversamente da quanto accade nella società in accomandita per azioni, non vi è necessaria
coincidenza tra la qualifica di socio accomandatario e quella di amministratore, nel senso
che non tutti gli accomandatari devono essere anche amministratori, con la conseguenza che
l’ingerenza del socio accomandante nell’amministrazione, pur comportando la perdita
della limitazione di responsabilità, ai sensi dell’art. 2320 cod. civ., non si traduce anche
nell’acquisto del potere di rappresentanza della società (Cass. 21803/06).
E, d’altra parte, la sentenza ha correttamente ritenuto che non avrebbe potuto
invocarsi il principio dell’apparenza, ben potendo gli attori verificare i poteri
rappresentativi del P..”
In sostanza, la pronuncia appena parafrasata non ha cambiato alcunché, sotto
l’aspetto civilistico: al socio accomandante non può essere attribuito il potere di
rappresentanza per il solo fatto di aver compiuto atti per conto della s. a. s., ossia per
averne assunto la gestione. L’ingerenza del socio accomandante nella gestione della
società non rileva dunque ai fini della rappresentanza in quanto egli, agendo al pari di un
falso procuratore, per impegnare la società avrebbe necessitato, in ogni caso, della
ratifica del suo operato.
Tale comportamento, sembra il caso di ribadirlo, implica unicamente che nei
suoi confronti venga meno la limitazione della responsabilità, pur potendo beneficiare
dell’escussione preventiva del patrimonio sociale, beneficio, quest’ultimo, che costituisce
una condizione di procedibilità dell’azione esecutiva nei confronti del socio, con l’ulteriore
conseguenza che la prova dell’insufficienza del patrimonio sociale incombe sul creditore
che agisce (art. 2304 del codice civile).
Pur non essendo stato citato esplicitamente nei “Motivi della decisione”, la Corte di
Cassazione ha dato applicazione all’art. 2120, comma 1, primo periodo, del codice civile,
laddove si recita che “I soci accomandanti non possono compiere atti di amministrazione, né
trattare o concludere affari in nome della società, se non in forza di procura speciale per
singoli affari.”
Il che equivale a dire che il terzo contraente avrebbe dovuto preventivamente
verificare la non meglio qualificata posizione del socio e, una volta accertato che si
trattava di un socio accomandante, avrebbe altresì dovuto richiedere la procura
speciale riferita allo specifico atto, circostanze che, ovviamente, non sono state affatto
vagliate.
Lo stesso discorso deve essere fatto per quanto attiene agli aspetti lavoristicoprevidenziali: l’imposizione contributiva rimane tuttora circoscritta alle situazioni descritte
nel paragrafo precedente.
Francavilla al Mare, lì 16 novembre 2015
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