il mobbing e il calcio professionistico

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Anno IV
Pubblicazione numero 3
2008
GiustiziaSportiva.it
Rivista Giuridica
Direzione e Fondatori
Enrico Crocetti Bernardi
Antonino de Silvestri
Enrico Lubrano
Paolo Moro
Jacopo Tognon
Comitato di Redazione
Giuseppe Agostini
Alessia Bellomo
Marco Mazzucato
Emanuele Paolucci
Michela Pigato
Jacopo Tognon
Direttore Responsabile
Mario Liccardo
_____________________________________________________________
Autorizzazione del Tribunale di Padova in data 1 ottobre 2004
al numero 1902 del Registro Stampa
- Periodico quadrimestrale –
- ISSN 1974-5230 1
INDICE DEL FASCICOLO 3°
PARTE PRIMA
DOTTRINA
Gli oneri per l’adeguamento degli
impianti sportivi alle nuove norme in materia di sicurezza
pag. 4
CRISTINA BUBICI, DANIELE COLUCCI, CARMINE LA TORRE, Il Mobbing e il
pag.12
LINA MUSUMARRA , ENRICO
CROCETTI,
calcio professionistico
MASSIMILIANO GIUA, PIETRO ACCARDI,
Anche le ASD e le SSD possono
“delinquere”: alcune riflessioni sul D.Lgs. n.231/2001
pag.44
PARTE SECONDA
NOTE A SENTENZA
ANDREA DEL VECCHIO,
Il caso Mastrangelo: luci e ombre della qualificazione
giuridica dell'atleta "dilettante"
pag.53
GIACINTO PELOSI,
La (non?) assoggettabilità dei componenti dei Collegi
Arbitrali al vincolo di giustizia ex art. 30 dello Statuto della F.I.G.C
pag.66
ERNESTO MESTO,
pag.80
Il caso Camilleri: il difficile rapporto tra il vincolo ex art. 33
NOIF e le fughe all’estero dei giovani calciatori
PARTE TERZA
COMMENTI
MARCO DEL ZOTTO, Il Decalogo dello sciatore fondamento per l’armonizzazione
del diritto della neve
2
pag.96
PARTE PRIMA
DOTTRINA
SOMMARIO:
LINA MUSUMARRA , ENRICO
CROCETTI,
Gli oneri per l’adeguamento degli
impianti sportivi alle nuove norme in materia di sicurezza
CRISTINA BUBICI, DANIELE COLUCCI, CARMINE LA TORRE, Il Mobbing e il
pag. 4
pag.12
calcio professionistico
MASSIMILIANO GIUA, PIETRO ACCARDI,
Anche le ASD e le SSD possono
“delinquere”: alcune riflessioni sul D.Lgs. n.231/2001
3
pag.44
Gli oneri per l’adeguamento……
GLI ONERI PER L’ADEGUAMENTO DEGLI IMPIANTI
SPORTIVI ALLE NUOVE NORME IN MATERIA DI SICUREZZA
di Lina Musumarra e Enrico Crocetti Bernardi (*)
SOMMARIO:
1. Premessa
2. Gli oneri di manutenzione straordinaria dell’impianto sportivo.
3. L’adeguamento degli stadi alle misure di sicurezza
1 . Premessa
Come è noto, in Italia gli impianti sportivi sono, salvo poche eccezioni, di proprietà degli enti
locali o comunque di un ente pubblico (è il caso del CONI).
Sulla natura del bene, la giurisprudenza, nell’escludere che l’impianto sportivo possa essere
qualificato come un bene demaniale (ex art. 824 cod. civ.) - non essendo compreso tra quelli
tassativamente elencati nell’art. 822 cod. civ. – lo ha ricondotto nell’ambito della categoria dei beni
patrimoniali indisponibili, la cui elencazione, contenuta nell’art. 826 cod. civ., non è altrettanto
tassativa, poichè tale norma, dopo aver indicato alcuni beni indisponibili dello Stato, stabilisce,
nell’ultimo comma, che fanno parte del patrimonio indisponibile dello Stato o, rispettivamente,
delle province e dei comuni, secondo la loro appartenenza, gli edifici destinati a sede di pubblici
uffici, con i loro arredi e gli altri beni destinati a un pubblico servizio. Pertanto, gli impianti
sportivi, quali un campo di calcio, sono senza dubbio destinati al servizio pubblico, “in quanto
l’amministrazione, costruendoli e adoperandoli per l’attività sportiva, intende soddisfare l’interesse
proprio e dell’intera collettività alle discipline sportive” (cfr. Cass. civ., sez. un., 2 marzo 1989, n.
1161; Cass. civ., 16 gennaio 1986, n. 208).
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DOTTRINA
Gli oneri per l’adeguamento……
Alla stregua di tali considerazioni, data la comune destinazione dei predetti beni alla diretta
realizzazione di pubblici interessi, gli stessi, secondo l’orientamento conforme della giurisprudenza,
“possono essere trasferiti nella disponibilità dei privati perché ne facciano alcuni determinati usi,
solo mediante concessioni amministrative, le quali si configurano come atti complessi, definiti
concessione contratto, costituite da un atto deliberativo della p.a. e da una convenzione attuativa,
che può assumere le vesti di un contratto o di un capitolato o anche di un disciplinare che instaura il
rapporto pattizio con obblighi e diritti per entrambe le parti" (cfr., Cass. civ., sez. un., 13 novembre
1997, n. 11219, soc. Parma calcio/Del Frate; in senso conforme, TAR Friuli Venezia Giulia 5
giugno 2007, n. 384; TAR Lombardia 20 dicembre 2005, n. 5633; TAR Marche 4 febbraio 2005, n.
113; Consiglio di Stato 4 novembre 1994, n. 1257).
2. Gli oneri di manutenzione straordinaria dell’impianto sportivo
La realizzazione, la manutenzione ed il miglioramento degli impianti sportivi, ricadendo nella
più generale funzione riguardante i lavori pubblici, spetta, per lo più, alle amministrazioni locali: i
contenuti dell’art. 118 della Costituzione, nel nuovo testo introdotto dalla L. cost. n. 3/2001, sono in
linea con quanto già previsto dall’art. 60 del DPR n. 616/1977, tuttora vigente, secondo il quale
vengono “attribuite ai Comuni, ai sensi dell’art. 118, I comma della Costituzione, le funzioni
amministrative in materia di promozione di attività ricreative e sportive, nonché di gestione di
impianti e servizi complementari” (cfr., E. Gizzi, Regione e Sport, in Riv. dir. sport, 1988, p. 50; L.
Musumarra, La corresponsione di contributi alle società sportive da parte delle regioni e degli enti
locali, in Riv. dir. sport, 1997, pp. 799 ss.).
Sotto tale profilo, la giurisprudenza ha spesso affermato come la realizzazione di impianti
sportivi di interesse generale rientri nel concetto di opera pubblica o di pubblica utilità, facendo
pertanto capo ai Comuni tutte le relative competenze (cfr., ex plurimis, TAR Campania 16 febbraio
2000 n. 125; TAR Lazio 27 novembre 1985 n. 1376).
Del resto, la qualificazione degli impianti sportivi come opere di interesse collettivo o sociale
risale all’art. 1 del r.d.l. n. 302 del 1939 – ora abrogato per effetto dell’art. 58 del D.lgs. n. 325/2001
– che equiparava l’approvazione del progetto per la costruzione dei campi sportivi alla
dichiarazione di pubblica utilità agli effetti del procedimento espropriativo.
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DOTTRINA
Gli oneri per l’adeguamento……
In seguito all’approvazione del primo piano quinquennale 1966-1970 per lo sviluppo
economico dell’Italia – che in un apposito capitolo considerava lo sport come un importante settore
delle attività sociali – si evidenziava l’istanza della programmazione in materia di edilizia sportiva.
Infatti, con la legge n. 865/1971 (meglio nota come “legge sulla casa”), il legislatore accoglieva
“alcune delle inderogabili esigenze connesse agli spazi verdi e agli impianti sportivi”, attribuendo,
pertanto, agli enti locali le competenze e le spese inerenti l’impiantistica sportiva, anche in forza di
ulteriori disposizioni che ammettevano il ricorso al credito speciale ed agevolato dell’Istituto per il
credito sportivo (cfr., F.C. Rampulla, La Corte “si esercita” sullo sport, in Le Regioni, 1988, p. 433).
Ma anche a voler prescindere dall’analisi della disciplina pubblicistica, non vi è dubbio che la
normativa contenuta nel codice civile in tema di rapporti tra proprietario-locatore/locatarioconduttore è univoca nello stabilire in capo al primo, in assenza di diversa ed espressa previsione
pattizia, oltre al dovere generale di mantenere il bene oggetto di locazione secondo l’uso convenuto,
gli obblighi inerenti l’esecuzione di interventi caratterizzati dall’urgenza, ovvero dalla
straordinarietà (cfr., artt. 1005, 1576, 1621 cod. civ.).
Se si procede all’esame del contenuto delle concessioni-contratto nel settore dell’impiantistica
sportiva, di norma l’uso convenuto tra le parti per la gestione di uno stadio comunale riguarda “lo
svolgimento dell’attività calcistica di campionato, di Coppa e per tutte le altre manifestazioni che la
FIGC dovesse stabilire nel suddetto stadio”.
A tale specifico uso occorre, in primo luogo, fare riferimento nella valutazione dell’obbligo
incombente, in via generale, ex art. 1575, co. 1, n. 2), cod. civ., sull’ente proprietario dell’impianto
sportivo.
In particolare, per quanto concerne gli oneri relativi alla manutenzione dell’impianto sportivo,
non vi è dubbio che gli interventi finalizzati ad “assicurare la stabilità delle strutture portanti”
nonché le “modifiche sostanziali delle strutture e delle attrezzature esistenti e il loro rifacimento”
rientrino nell’ambito della cd. manutenzione straordinaria, la cui definizione si rinviene non solo nel
codice civile (in particolare, gli artt. 1005 e 1576, già richiamati), ma anche nella legislazione
speciale in tema di urbanistica: ci si riferisce alla legge 5 agosto 1978 n. 457 (“Norme per l’edilizia
residenziale”), come richiamata, tra l’altro, per quanto concerne il settore dell’impiantistica
sportiva, dall’art. 1 del DM 18 marzo 1996 (“Norme di sicurezza per la costruzione e l’esercizio
degli impianti sportivi”), modificato e integrato dal successivo DM 6 giugno 2005 (cd. Decreto
Pisanu) e dalla legge 4 aprile 2007 n. 41, di conversione del D.L. n. 8 dell’8 febbraio 2007 (recante
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DOTTRINA
Gli oneri per l’adeguamento……
“Misure urgenti per la prevenzione e la repressione di fenomeni di violenza connessi a competizioni
calcistiche”).
L’art. 31, lett. b) della L. n. 457/1978 riconduce, infatti, nella nozione di manutenzione
straordinaria “le opere e le modifiche necessarie per rinnovare e sostituire parti anche strutturali
degli edifici, nonché per realizzare ed integrare i servizi igienico-sanitari e tecnologici, sempre che
non alterino i volumi e le superfici delle singole unità immobiliari e non comportino modifiche
delle destinazioni d’uso”.
Pertanto, in generale, la manutenzione straordinaria si riferisce ad interventi, anche di
carattere innovativo, di natura edilizia ed impiantistica finalizzati a mantenere in efficienza ed
adeguare all’uso corrente l’impianto sportivo, senza alterazione della situazione planimetrica e
tipologica preesistente, e con il rispetto della superficie, della volumetria e della destinazione d’uso.
La categoria di intervento corrisponde quindi al criterio dell’innovazione nel rispetto dell’immobile
esistente.
Sul punto, secondo la giurisprudenza consolidata in materia, si prevede, in via generale, che
per il proprietario-locatore sussiste solo un obbligo di manutenzione straordinaria di tipo
conservativo, e non invece modificativo della situazione esistente al momento della stipula del
contratto di locazione (cfr., tra le altre, Cass. civ., 25 febbraio 1981, n. 1142).
Tuttavia, sempre in forza di tali decisioni giurisprudenziali, è possibile prevedere nel contratto
che gli obblighi di manutenzione straordinaria di tipo modificativo/trasformativo siano posti a
carico del proprietario/locatore, come di norma accade proprio nell’ambito dei rapporti tra il
Comune, proprietario dello stadio e la società sportiva, utilizzatrice dello stesso sulla base della
concessione-contratto. Se è vero, infatti, che l’art. 1576 cod. civ. fissa il contenuto minimo degli
obblighi del locatore, è comunque consentito all’autonomia negoziale stabilire contenuti maggiori
(cfr., Cass. civ., 8 maggio 1998, n. 4676).
3. L’adeguamento degli stadi alle misure di sicurezza
Come è noto, a seguito di una nuova escalation dei fenomeni della violenza negli stadi,
ascrivibile, in larga parte, anche alle carenze strutturali degli impianti sportivi, il legislatore è
intervenuto con una produzione normativa d’urgenza (cfr. legge 24 aprile 2003 n. 88, di
conversione del D.L. n. 28/2003, come successivamente modificata dalla legge 4 aprile 2007 n. 41,
di conversione del D.L. n. 8/2007, nonché la cd. ‘legge Pisanu’, ovvero, il DM 6 giugno 2005, che
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DOTTRINA
Gli oneri per l’adeguamento……
apporta numerose integrazioni e modifiche al precedente DM 18 marzo 1996, sopra richiamati) con
la quale viene introdotto, per la prima volta, nell’ordinamento giuridico statale – con rilevanti
conseguenze nell’ordinamento sportivo - il concetto di responsabilità “dell’organizzatore
dell’evento”, in relazione agli oneri da assumere circa la messa in sicurezza degli impianti, senza
però statuire alcunché in ordine alla ripartizione delle spese tra gli enti locali e le società di calcio,
utilizzatrici dell’impianto stesso, in forza di una concessione-contratto.
In particolare, l’art. 1-quater della L. n. 88/2003, introdotto in sede di conversione del D.l. n.
28/2003, dispone che le nuove opere per garantire la sicurezza nell’impianto sportivo di capienza
superiore alle 10.000 unità (rectius 7.500, con decorrenza dall’inizio della stagione calcistica 20072008, ex L. n. 41/2007), come individuate nei precedenti commi, “sono attuate dalle società
utilizzatrici” degli impianti medesimi, “in accordo con i proprietari degli stessi”, ovvero i Comuni.
Tali opere di adeguamento strutturale sono senza dubbio riconducibili alla nozione di manutenzione
straordinaria di tipo modificativo, i cui costi ed oneri, secondo una prima interpretazione
giurisprudenziale (cfr., Tribunale di Ascoli Piceno, sent. 28 luglio 2006, Ascoli Calcio 1898
spa/Comune di Ascoli Piceno), sono posti ad esclusivo carico delle società sportive, e ciò per
effetto, secondo il Tribunale, di un “fenomeno di inserzione automatica di clausole a norma del
combinato disposto degli artt. 1339 e 1419, comma 2, cod. civ., in quanto una normativa cogente
dettata da motivi di ordine pubblico ha imposto l’adozione di misure antiviolenza a carico di società
utilizzatrici di impianti (…), richiedendo al proprietario (…) solo di accordarsi con dette società”.
“Detta imposizione legale inderogabile prescinde dall’esistenza di eventuali clausole contrattuali
che abbiano determinato pattiziamente una diversa ripartizione degli obblighi e dei costi
dell’adeguamento e conseguentemente si sostituisce (e ciò è confermato dal tenore letterale
imperativo delle norme ‘PISANU’) alle clausole contrattuali difformi dal dettato normativo,
stabilendo, addirittura, in caso di inadempimento da parte delle società utilizzatrici, la revoca delle
concessioni relative all’uso degli impianti sportivi”.
Per il Tribunale di Ascoli Piceno “la legge mira ad avere, quanto a garanzia della sicurezza e
di tutela contro i fenomeni di violenza ‘sportiva’, un unico interlocutore – responsabile e questo non
può essere che la società utilizzatrice dell’impianto.
In secondo luogo, il legislatore ha chiaramente tenuto presente che, nella grande maggioranza
dei casi, la proprietà degli impianti sportivi è dei Comuni o di enti pubblici ed ha ritenuto, in un
periodo di rigidi e drastici tagli alla finanza locale (…) di non dover gravare gli enti in questione
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DOTTRINA
Gli oneri per l’adeguamento……
con costi per lavori la cui utilità ricade essenzialmente, se non esclusivamente, a vantaggio delle
società sportive utilizzatrici degli impianti”.
Tale interpretazione giurisprudenziale – nonostante il successivo intervento operato in materia
dalla L. n. 41/2007, che ha aggiunto un ulteriore comma al citato art. 1-quater, confermando che
“all’adeguamento degli impianti (…) possono provvedere, senza nuovi o maggiori oneri a carico
della finanza pubblica, le società utilizzatrici degli impianti medesimi” – non può essere condivisa,
atteso che, come correttamente rilevato, in un caso simile, dal TAR Friuli Venezia Giulia (cfr., sent.
n. 384 del 5 giugno 2007, Udinese Calcio/Comune di Udine, cit.), “né l’art. 1 quater comma 5, d.l.
n. 28 del 2003 né il successivo comma 5 bis, aggiunto dal d.l. n. 8 del 2007 possono essere intesi
nel senso di porre a carico delle società sportive, che gestiscono gli stadi, le spese necessarie a
garantire la sicurezza degli impianti e, in ogni caso, nessun onere può essere preteso in presenza di
una preesistente concessione contratto, che li pone a carico del comune”.
Infatti, “l’art. 1 quater del decreto c.d. antiviolenza del 2003, come aggiunto dalla L. n. 41 del
2007, è norma che mira a garantire esclusivamente la sicurezza negli stadi, con la conseguenza che
l’unica ragione, per la quale i soggetti tenuti a porre in essere i necessari lavori di adeguamento
vengono individuati essenzialmente nelle società sportive, sta nel fatto che su queste, e soltanto su
queste, ricadono le conseguenze del mancato adeguamento degli stadi, posto che, a tacer d’altro, i
prefetti debbono negare l’accesso del pubblico negli stadi”.
Secondo il giudice amministrativo, pertanto, il sopravvenuto comma 5-bis, aggiunto al citato
art. 1-quater ad opera della L. n. 41/2007, non ha sul punto “introdotto modifiche di rilievo”,
avendo tale disposizione confermato che “ai lavori di adeguamento degli impianti possono
provvedere le società utilizzatrici”, senza più allusione ad accordi con i proprietari.
Ma ciò viene detto in relazione al “divieto di nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica” inciso aggiunto in sede di conversione del D.L. n. 8/2007 - e che dimostra, a contrario, la validità
degli oneri in precedenza assunti dai Comuni in forza delle concessioni-contratto.
In altre parole, secondo il TAR Friuli Venezia Giulia, “è evidente che al legislatore del 2003,
come a quello del 2007, ben poco importa, in funzione dello scopo perseguito che è quello di
garantire la sicurezza negli stadi, di stabilire a chi spetta addossarsi le spese necessarie, con la
conseguenza che l’individuazione del soggetto passivo della relativa obbligazione (società sportiva
che utilizza lo stadio o ente proprietario) è lasciata alla libera determinazione delle parti interessate
mediante le convenzioni che regolano il rapporto concessorio”, nelle quali la stessa pattuizione di
un canone d’uso realizza il cd. nesso di reciprocità o sinallagma funzionale, anche con riferimento
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DOTTRINA
Gli oneri per l’adeguamento……
alla sopravvenienza di una normativa statale non prevista o prevedibile dalle parti all’epoca della
stipula della concessione d’uso.
Occorre, in ogni caso, sul punto rilevare che, contrariamente a quanto affermato dal Tribunale
di Ascoli Piceno, gli interventi richiesti dal legislatore del 2003, del 2005 e del 2007, oltre al fine
primario di intervenire con una più efficace normativa di contrasto e prevenzione del grave
fenomeno della violenza nelle manifestazioni sportive, hanno posto, in realtà, in evidenza, come già
anticipato, le gravi carenze strutturali che già caratterizzavano gli stadi italiani, in violazione del
DM 18 marzo 1996, e quindi l’ineludibile esigenza della messa a norma degli impianti stessi, come
confermato, altresì, dalle numerose circolari emanate dal Ministero dell’Interno negli anni 20042006, aventi ad oggetto la “Modulazione degli interventi per l’adeguamento strutturale degli
impianti” (cfr., tra le altre, Circ. n. 555/O.P./2061/2006/2 del 5 agosto 2006, nonché la Circ. n.
555/O.P./2192/2004/C.N.I.M.S. del 10 settembre 2004, a mente della quale si ribadisce,
preliminarmente, “il ruolo fondamentale di un’accurata pianificazione degli eventi sportivi, che
vede le Autorità di Pubblica Sicurezza interagire con tutti i soggetti interessati, ciascuno dei quali è
chiamato a mettere in campo proprie risorse al fine di conseguire l’obiettivo comune del buon
andamento della manifestazione sportiva”.
A tal fine, prosegue la Circolare, “l’esperienza maturata nell’attività di governo delle
manifestazioni calcistiche ha confermato che la sicurezza strutturale degli impianti risulta
determinante per il regolare svolgimento degli eventi sportivi”; e ancora, la Circ. n.
555/O.P./1095/2005/C.N.I.M.S./Calcio del 14 aprile 2005, avente ad oggetto l’“Impiego improprio
delle FF.P. per sopperire a carenze strutturali degli impianti”; consultabili in R. Massucci,
Legislazione per la sicurezza delle manifestazioni sportive, www.osservatoriosport.interno.it, 2007).
Anche sotto questo profilo il Tribunale di Ascoli Piceno ha errato nel ritenere che “in ordine
all’emanazione della normativa ‘PISANU’ antiviolenza il Comune (…) non ha avuto alcun ruolo
causale”.
Appare dimostrato, infatti, l’ineludibile esigenza del rispetto delle norme in tema di sicurezza
degli impianti sportivi, attesa la cronica carenza strutturale degli stessi, per la quale il Comune, nella
sua qualità di proprietario di tale bene pubblico destinato a tutti gli effetti ad un pubblico servizio, si
è assunto determinati oneri di manutenzione straordinaria tramite l’istituto della concessione
amministrativa, ben potendo, come già detto, a tal fine utilizzare anche i proventi che gli derivano
dal canone (TAR Marche sent. n. 113 del 4 febbraio 2005).
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DOTTRINA
Gli oneri per l’adeguamento……
A ciò si aggiunga che la previsione, nel caso di specie, della rinnovazione tacita della
concessione-contratto stipulata tra le parti, salvo disdetta da inviarsi entro un termine prestabilito,
“consente agli organi della pubblica amministrazione, deputati alla valutazione degli impegni di
spesa e dei vincoli di bilancio correlati all’eventuale rinnovazione, di considerare l’opportunità o
meno di disdire nel termine contrattuale il contratto stesso” (Cass. civ., sent. n. 12323/2005).
(*) Avvocato in Roma . Docente di Diritto dello Sport, Università Luiss Guido Carli, Roma
(*) Avvocato in Ravenna. Autore di numeros e pubblicazioni in Diritto dello Sport
11
DOTTRINA
Il mobbing e il calcio……
IL MOBBING E IL CALCIO PROFESSIONISTICO
di Cristina Bubici (*) , Daniele Colucci (**), Carmine La Torre (***)
SOMMARIO:
1. Introduzione
2. Il mobbing nella psicologia
3. Il mobbing nel diritto del lavoro
4. Il mobbing nel calcio professionistico
1. Introduzione
L'irruzione del c.d. mobbing nel mondo del calcio professionistico ha sollevato una serie di
nodi problematici, legati all’esigenza di una razionale collocazione all’interno delle norme sportive
e dei “rimedi” riconosciuti a presidio della integrità fisica e della dignità morale dello sportivo
professionista inteso come lavoratore.
Lungi dall’affrontare, e tanto meno dal risolvere, tali questioni, questa breve riflessione altro
non vuol essere se non il tentativo di individuare, attraverso l’analisi dell’esperienza maturata nel
corso degli anni, i connotati peculiari che il comportamento mobbizzante assume quando viene
esercitato nei confronti di uno sportivo professionista in caso di non rinnovo contrattuale.
Da questa breve premessa nasce il lavoro trattato dagli autori che si caratterizza proprio, in
particolare, per un semplice approccio per così dire multidisciplinare.
12
DOTTRINA
Il mobbing e il calcio……
2. Il mobbing nella psicologia1
Il mobbing è un fenomeno allarmante, di cui si parla tanto ma che, oggi, rappresenta ancora
per molti un pianeta inesplorato.
È una forma di “terrorismo psicologico”, di prevaricazione sul singolo, che viene esercitata
sul posto di lavoro e il cui scopo è quello di eliminare una persona che è o è divenuta in qualche
modo “scomoda” distruggendola psicologicamente e socialmente in modo da provocarne il
licenziamento o da indurla alle dimissioni.
Tale termine deriva dal verbo inglese “to mob” che letteralmente significa “attaccare in
branco, assalire, accerchiare”, infatti, con questo termine ci si riferisce a tutte le forme di terrore
psicologico sul posto di lavoro, ad attacchi sistematici e reiterati, abusi, oltraggi, soprusi esercitati
da colleghi o da un superiore su un lavoratore indesiderato per diverse ragioni.
Il mobbing è una Sindrome Psico-Sociale Multidimensionale:
È una sindrome perché si presenta come un complesso di sintomi specifici ed aspecifici, fisici
e psichici non riducibili ad una configurazione tipica e facilmente diagnosticabile.
È psico-sociale perché colpisce l’individuo, il gruppo di lavoro e l’organizzazione,
producendo disfunzioni a livello psicologico sia individuale che collettivo e sociale.
È multidimensionale e multifattoriale perché si origina e si sviluppa per diversi fattori
eziologici coinvolgendo tutti i livelli gerarchici dell’organizzazione.
Si tratta di un fenomeno esistente da sempre ma conosciuto e analizzato da una ventina di
anni e che pian piano sta consentendo alla psicologia forense di entrare nel diritto del lavoro
attraverso contenziosi inerenti alla valutazione dei danni da esso provocati.
Il concetto è stato mutuato dall’etologia – la scienza che studia il comportamento degli
animali – ed in particolare dal padre dell’etologia moderna, lo zoologo e psicologo austriaco
Konrad Lorenz, il quale ha coniato il termine nel 1964 per descrivere il comportamento di alcuni
uccelli.
Egli ha osservato che gli uccelli spesso, quando c’è un esemplare di specie diversa che
temono e vogliono respingere o un loro simile più forte e dotato, si coalizzano contro di lui allo
scopo di escluderlo dalla comunità.
Intorno agli anni settanta, Heinemann, psicologo svedese, interessato al comportamento dei
bambini ed alla loro interazione durante l’orario scolastico, prese in prestito il termine elaborato da
1
A cura di Cristina Bubici, psicologa in Foggia.
13
DOTTRINA
Il mobbing e il calcio……
Konrad Lorenz per descrivere il comportamento distruttivo di un gruppo di scolari contro un
singolo compagno.
Il suddetto fenomeno oggi prende il nome di “bullismo”, ma si deve ad Heinemann il merito
di aver utilizzato il temine mobbing, per la prima volta, per descrivere l’interazione tra persone.
Nei primi anni ottanta fu Heinz Leymann a riprendere tale termine e ad applicarlo al campo
dei comportamenti adulti nel mondo del lavoro.
Durante le sue ricerche riguardanti le vessazioni ed i maltrattamenti ma anche l’assenteismo
negli ambienti lavorativi, commissionategli dal Ministero Nazionale per la Salute e Sicurezza sul
lavoro svedese, egli scelse di usare la parola mobbing e non la parola bullyng per definire l’oggetto
dei suoi studi.
Le prime ricerche e teorizzazioni di Heinz Leymann, universalmente riconosciuto come
“padre del mobbing”, risalgono alla metà degli anni Ottanta, mentre il suo primo libro uscì in
Svezia solo agli inizi degli anni Novanta ed in particolare nel 1993 in Germania.
Leymann2 era tedesco di origine, ma visse per molto tempo in Svezia e non è un caso che
proprio queste due patrie, quella germanica e quella scandinava, divennero gli epicentri natali del
mobbing.
Tuttavia l’anno di boom fu il 1996 quando uscì il famoso numero della rivista europea di
psicologia del lavoro EAWOP (European Journal of Work and Organizational Psychology)
interamente dedicata al mobbing. In quello stesso anno, iniziava ufficialmente la ricerca anche in
Italia con l’uscita del primo libro in lingua italiana, ad opera di Herald Ege 3 psicologo tedesco,
discepolo del Prof. Leymann, attualmente considerato uno dei più autorevoli studiosi italiani.
I due autori, vicini per la concettualizzazione del fenomeno si differenziano per la diversità
dei contesti lavorativi che analizzano: Leymann sviluppa la sua teoria tenendo presente il sistema
produttivo del Nord Europa mentre Ege si sofferma ad analizzare esclusivamente il contesto
italiano.
2
Cfr. Leymann H., The Content and Development of Mobbing at Work, in Mobbing and Victimization at Work, European Journal of
Work and Organizational Psychology, V, 1996, 165, tale definizione è stata estratta da Meucci M., Considerazioni sul Mobbing,
Lavoro e Previdenza Oggi, 1999, 1954.
3
Psicologo del lavoro e specialista in relazioni industriali ha cominciato lo studio del mobbing nei paesi del Nord Europa ma da oltre
un decennio svolge la propria attività in Italia. É il fondatore della associazione italiana contro il mobbing e lo stress psicosociale, cfr.
Ege H., Mobbing. Che cosa è il terrore psicologico sul posto di lavoro, Pitagora editrice, Bologna, 1996.
14
DOTTRINA
Il mobbing e il calcio……
Leymann delinea il mobbing come un fenomeno dinamico e progressivo, articolato in quattro
fasi:
Fase del conflitto quotidiano in cui vi sono i primi segnali premonitori, ad esempio un brusco
cambiamento in negativo delle relazioni interpersonali precedentemente neutre o positive, conflitti
all’interno dell’azienda; la vittima cerca di ignorare le offese e gli attacchi e presenta i primi sintomi
di stress.
Fase conclamata dell’inizio del mobbing e del terrore psicologico in cui la vittima subisce
attacchi continui da parte del superiore e/o dei colleghi e inizia a presentare sintomi di insonnia,
affaticamento, emicrania e diminuzione del livello di autostima.
Fase degli errori ed abusi anche non legali dell’Amministrazione del personale, in cui il caso
viene ufficializzato con l’apertura di una inchiesta interna che spesso però conduce ad un ulteriore
aggravamento della posizione della vittima che diventa oggetto di sanzioni disciplinari da parte
dell’ufficio del personale, in cui vi sono un’errata valutazione della situazione, violazioni dei diritti
da parte dell’ufficio del personale; la vittima ormai presenta incapacità di lavorare e disturbi alla
salute psico-fisica.
Fase Terminale con l’esclusione dal mondo del lavoro della vittima, dimissioni o
licenziamento della vittima che presenta abbattimento, sfiducia, depressione, abuso di farmaci o
alcolici e/o spesso rischio di suicidio.
Nella definizione fornita da Leymann il mobbing consiste in: “una forma di terrorismo
psicologico che implica un atteggiamento ostile e non etico posto in essere in forma sistematica – e
non occasionale ed episodica – da una o più persone eminentemente nei confronti di un solo
individuo il quale, a causa del mobbing, viene a trovarsi in una condizione indifesa e fatto oggetto
di una serie di iniziative vessatorie e persecutorie. Queste iniziative devono ricorrere con una
determinata frequenza (statisticamente almeno una volta a settimana) e nell’arco di un lungo
periodo di tempo (statisticamente per almeno sei mesi di durata). A causa dell’alta frequenza e
della lunga durata del comportamento ostile, questa forma di maltrattamento determina
considerevoli sofferenze mentali, psicosomatiche e sociali”.
Il modello di mobbing a quattro fasi di Leymann è stato rivisitato e adattato alla situazione
italiana da Ege il quale ha proposto un modello a sei fasi del mobbing più una sorta di pre-fase detta
condizione zero, che ancora non è mobbing ma ne costituisce l’indispensabile presupposto.
15
DOTTRINA
Il mobbing e il calcio……
Ege definisce nei suoi molteplici studi il mobbing come “un azione (o una serie di azioni) che
si ripete per un lungo periodo di tempo, compiuta da uno o più mobbers (datore di lavoro o
colleghi) per danneggiare qualcuno di solito in modo sistematico e con uno scopo preciso. Il
mobbizzato viene accerchiato e aggredito intenzionalmente dai mobbers che mettono in atto
strategie comportamentali volte alla sua distruzione psicologica, sociale e professionale”4.
Il mobbing secondo Ege è suddiviso nelle seguenti fasi:
La condizione zero: è riscontrabile solo nel sistema italiano e si caratterizza per la presenza
di un conflitto fisiologico, supposto sempre vivo ed accettato, nella tipica impresa italiana. Non si fa
riferimento ad un clima ostile e minaccioso, ma alla voglia di ciascun individuo di eccellere ed
essere superiore agli altri.
La fase uno è la fase del conflitto mirato e si caratterizza per l’individuazione della vittima,
ossia del soggetto su cui verranno riversate le ostilità dell’ambiente di lavoro, colui che svolgerà la
funzione di “capro espiatorio” per ogni problema aziendale e/o dei singoli lavoratori.
In questa fase il fenomeno mobbing non è ancora emerso con chiarezza e non è ancora
possibile capire se mai si realizzerà.
La fase due segna l’inizio del mobbing vero e proprio nella quale il fenomeno mobbing
prende piede e si afferma la cosciente volontà di alcuni di colpire la vittima che, tra l’altro, pur
percependo l’inasprimento delle relazioni con i colleghi, ancora non presenta sintomi o malattie di
tipo psicosomatico.
La fase tre in cui c’è la comparsa dei primi disturbi psicosomatici della vittima. In questa fase
la vittima comincia ad avvertire i primi sintomi che si manifestano con un senso di insicurezza,
ansia, insonnia, disturbi digestivi.
La fase quattro si caratterizza per l’oggettività e la pubblicità del fenomeno mobbing che
diviene di dominio pubblico ed oggetto di valutazione da parte dell’ufficio personale. In questa fase
emergono una serie di errori ed abusi anche non legali dell’amministrazione del personale.
La fase cinque registra un serio aggravamento delle condizioni di salute della vittima che
comincia a soffrire di forme depressive più o meno gravi e a far uso di psicofarmaci e terapie con
scarso risultato.
In questa fase, inoltre, la maggior parte delle volte, l’azienda adotta azioni disciplinari che
aggravano ulteriormente le condizioni della vittima.
4
Cfr. Ege H., La valutazione peritale del danno da Mobbing, Giuffrè, Milano, 2002, 38.
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DOTTRINA
Il mobbing e il calcio……
La fase sei che vede concretizzarsi l’esclusione della vittima dal mondo del lavoro tramite
dimissioni volontarie, licenziamento, prepensionamento o addirittura con gli atti estremi
dell’omicidio o del suicidio.
Entrambe le definizioni consentono, in prima approssimazione, di notare come gli elementi
qualificanti del fenomeno risultino essere proprio la intenzionalità della condotta mobbizzante, la
frequenza e la ripetitività nel tempo dei comportamenti perturbanti.
Sono questi i requisiti preliminari che consentono di considerare il mobbing una conditio a se
stante, infatti “la definizione esclude dal suo campo i conflitti temporanei e focalizza l’attenzione
sul momento in cui la durata e l’intensità del comportamento vessatorio determina condizioni
patologiche dal punto di vista psichiatrico o psicosomatico. In altre parole (...) la distinzione tra
conflitto sul lavoro e mobbing non consiste su ciò che viene inflitto alla vittima e sul come viene
inflitto ma piuttosto sulla frequenza e durata di qualsivoglia trattamento vessatorio venga inflitto” 5
.
Ege riscontra in Italia il “doppio mobbing” ovvero una situazione familiare in cui la vittima di
mobbing sul posto di lavoro viene anche privata, a poco a poco, della comprensione e dell’aiuto
della famiglia che, dopo aver protetto e compreso il familiare vittima, inizia a proteggersi dalla
forza distruttiva del mobbing e inconsciamente dal familiare.
Limitatamente alle tipologie di mobbing6 è possibile ritenere che questo può essere strategico
o emozionale.
Il primo è una forma di terrore psicologico che viene esercitato sul posto di lavoro attraverso
attacchi ripetuti da parte di colleghi o dei datori di lavoro per eliminare una persona che è o è
diventata scomoda, distruggendola psicologicamente e socialmente in modo da provocarne il
licenziamento o da indurla alle dimissioni senza che ci sia un caso sindacale. Esistono vere e
proprie strategie aziendali aggressive atte a eliminare personaggi scomodi.
Il secondo invece consiste nell’esasperazione di sentimenti come l’invidia o la rabbia allo
scopo di logorare psicologicamente una persona (ciò si verifica prevalentemente fra colleghi di
lavoro). Altre manifestazioni del fenomeno possono essere la semplice emarginazione, la diffusione
di maldicenze, le continue critiche, la sistematica persecuzione, l’assegnazione di compiti
dequalificanti, la compromissione dell’immagine sociale nei confronti dei clienti e superiori e nei
casi più gravi si può arrivare anche al sabotaggio del lavoro ed azioni illegali.
5
6
Cfr. Meucci M., Considerazioni sul Mobbing, Lavoro e Previdenza Oggi, 1999, 1953.
Cfr. Antonelli A., “Mobbing: un profilo teorico”, www.opsonline.it, 2006.
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DOTTRINA
Il mobbing e il calcio……
Relativamente alla direzionalità degli attacchi, ovvero la direzione verso cui l’azione è rivolta,
il mobbing può essere:
•
orizzontale o verticale: se i colleghi di lavoro sono di pari livello oppure superiori;
•
discendente o ascendente: se operato dal superiore nei confronti del sottoposto o, ancor di più,
se praticato da un gruppo nei confronti del superiore.
Protagonisti del mobbing pertanto sono:
Il mobber: colui che perpetra gli attacchi e le azioni mobbizzanti; non mostra sensi di colpa e
tende a colpevolizzare gli altri. Preferisce i comportamenti aggressivi alla tolleranza, crea e provoca
i conflitti e il loro intensificarsi.
Il mobbizzato: chi subisce gli attacchi del mobber, è la vittima che subisce le conseguenze più
corpose. Il tratto tipico del mobbizzato è l’isolamento, ovvero la persona si trova emarginata e con
le spalle al muro senza saperne le motivazioni.
I comobber: i complici del mobber (side-mobber) o spettatori, ovvero coloro che assistono al
mobbing senza prendere posizioni. Il mobber non agisce mai da solo ma si avvale del supporto di
un gruppo (spesso inconsapevole) che manipola e plagia egli stesso per raggiungere il suo scopo.
Provando a tracciare un potenziale profilo dei protagonisti del mobbing è possibile ritenere
che:
a) Il mobbizzato è la vittima prescelta che, di fronte ai ripetuti attacchi, prova un senso di
isolamento, si sente continuamente svalutata, frustrata, umiliata, derisa, non utilizzata per le sue
reali capacità.
Tale condizione di disagio diventa fonte di turbamento per la salute del mobbizzato che entra
in un circolo vizioso, bersaglio di una sottile e diabolica aggressione da parte di un carnefice e dei
suoi complici.
Gli attacchi non sono sempre eclatanti e la vittima non è in grado di identificare subito ciò che
gli sta accadendo; cattiverie e pettegolezzi sono ritenute regole del gioco, sdrammatizzate da parenti
e amici, e così l’individuo comincia a provare un senso di inadeguatezza e di colpa finendo per
attribuire a se stesso la responsabilità delle sue difficoltà di adattamento all’ambiente lavorativo.
La vittima dunque diventa il bersaglio delle frustrazioni e delle vessazioni dell’intero
comparto e dell’azienda; una persona da evitare, da attaccare, da isolare in modo sistematico,
continuo e mirato.
Il mobbizzato diviene il fulcro dei nervosismi e degli sfoghi aziendali; di conseguenza, si
sente una persona negata che riceve solo dei rifiuti, espliciti o impliciti, dai suoi colleghi e/o dai
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DOTTRINA
Il mobbing e il calcio……
suoi superiori, a cui non si lascia spazio per costruire e gestire normali rapporti interpersonali e
professionali.
Divenire bersaglio del mobbing può portare conseguenze non sempre superabili con facilità;
essere vittima vuol dire trovarsi in una condizione di totale sudditanza e impotenza, dalla quale
spesso non si sa uscire poiché non esiste ancora una cultura (giuridica e non) in grado di tutelare chi
ne è soggetto.
Le principali vittime potrebbero essere i diversi rispetto al gruppo per motivi politici,
religiosi, razziali, di lingua e di sesso; i disabili in quanto tali; i neoassunti estranei al gruppo
precostituito; gli anziani in senso lavorativo perché costano di più all’azienda; i creativi poiché
innovatori, anticonformisti rispetto al gruppo; gli onesti che non accettano comportamenti scorretti
e disonesti; coloro che hanno successo per la maggior professionalità ed attivismo che emergono
rispetto alla media del gruppo; gli esuberi perché superflui ai fini aziendali.
b) Il mobber è il persecutore, il carnefice, colui che vessa i propri colleghi per vari scopi e che
spesso è mosso da motivazioni sadiche e patologiche.
Il mobber può essere un caso di disturbo narcisistico di personalità, impermeabile
all’esistenza degli altri, in preda a fantasie di successo, potere, fascino e bellezza illimitati.
Secondo questa diagnosi e i criteri del DSM IV il mobber può avere una personalità disturbata
evidenziata dalla presenza di almeno cinque su nove delle seguenti caratteristiche:
 Senso grandioso di importanza;
 Fantasie illimitate di successo, potere, fascino e bellezza;
 Richiede eccessiva ammirazione;
 Crede di essere speciale e unico;
 Ha la sensazione che tutto gli sia dovuto;
 Sfruttamento interpersonale, approfitta degli altri per i propri scopi;
 Manca di empatia, è incapace di riconoscere i sentimenti e la necessità degli altri;
 È spesso invidioso degli altri o convinto di essere invidiato;
 Mostra comportamenti arroganti e presuntuosi.
Possono far parte della categoria del mobber: il frustrato, che scarica i suoi problemi privati
sugli altri; l’istigatore, alla ricerca di nuove cattiverie; il megalomane, con una propria visione
distorta delle cose; il narcisista perverso, che trova il suo equilibrio scaricando su altri il dolore che
non è capace di provare personalmente e i conflitti interni che rifiuta di prendere in considerazione.
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DOTTRINA
Il mobbing e il calcio……
La figura del mobber è impersonata, all’interno delle aziende e dei luoghi di lavoro, da un
capo, un collega o da un altro personaggio i quali, in modo subdolo e nascosto, agiscono, senza una
ragione apparente, all’interno della comunità dei lavoratori, per sottoporre a continue persecuzioni
un lavoratore ignaro delle manovre compiute ai suoi danni.
Una caratteristica comune ai mobber è il provare un intenso piacere rispetto alle maldicenze,
al gusto di creare situazioni paradossali tra i compagni di lavoro, annientando la personalità di
alcuni di essi.
I mobber agiscono in modo subdolo utilizzando il “terrorismo psicologico”, l’umiliazione, la
svalutazione, la denigrazione della vittima; assegnano compiti dequalificanti o troppo elevati e
pericolosi, fanno violenza psicologica e verbale, a volte anche fisica.
Il mobber investe tempo ed energie nel pianificare le dannose azioni mobbizzanti, il suo
atteggiamento è premeditato e implacabile e si può avvalere di piccoli gesti quotidiani che
conducono irrimediabilmente verso l’isolamento della vittima.
Lo scopo che viene perseguito dai mobber è devitalizzare il mobbizzato, emarginarlo fino alla
resa, inducendo il lavoratore alle dimissioni, a richiedere il prepensionamento o creare le condizioni
favorevoli al licenziamento, senza che si crei un caso sindacale.
3) Nel mobbing il binomio “vittima-carnefice” si arricchisce di nuove figure, i comobber,
poiché nessuna situazione di mobbing può restare inavvertita dai cosiddetti spettatori o complici
(side-mobber).
Il side-mobber non è un semplice testimone ma un vero e proprio complice silenzioso in
quanto spettatore di questo tragico fenomeno, infatti sono spettatori tutte quelle persone, colleghi,
superiori, addetti alla gestione del personale, che non sono coinvolti direttamente nel mobbing ma
che in qualche modo vi partecipano, lo percepiscono, lo vivono di riflesso e lo favoriscono.
Il comobber ha un’importante funzione nel fenomeno mobbing poiché il suo atteggiamento
inerte fa si che egli si trasformi in un altro temibile aggressore, poiché, non denunciandolo o non
cercando di interromperlo in alcun modo, favorisce il mobbing con la sua indifferenza e la sua non
disponibilità ad intervenire.
Alla luce di quanto sin qui evidenziato ci si chiede quali sono le possibili cause ed i fattori
precursori del fenomeno mobbing?
Alla base dell’esordio del mobbing esiste di solito un conflitto di lavoro proiettato verso la
sfera relazionale; Leymann7 individua sei possibili cause che possono concorrere allo scatenamento
7
Cfr. Leymmann H., Mobbing, Psychoterror am Arbeitsplatz und wie man sich dagegen wehren kann, Reinbek Rowohlt.
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DOTTRINA
Il mobbing e il calcio……
di un conflitto sul posto di lavoro e dice che ci possono essere fattori esterni come l’organizzazione
del lavoro, le mansioni lavorative, la direzione del lavoro e fattori interni come la dinamica sociale
del gruppo di lavoro, la personalità, gli errori causati dall’inopportuno additamento delle vittime
come persone caratterialmente predisposte a giocare questo ruolo.
Perché il mobbing si verifichi Leymann afferma che è necessario che vi siano delle
precondizioni su 4 livelli:

Individuale (personalità, caratteristiche tipiche, stili di coping…);
Micro-sociale (particolari caratteristiche del gruppo lavorativo come identità, appartenenza,
microconflittualità, individuazione di un capro-espiatorio…);
Organizzativo (condizioni di lavoro, stress, cambiamenti in atto, ristrutturazioni, passaggi di
ruolo, carichi di lavoro…);
Socio-economico e culturale (globalizzazione, economia incerta, concorrenza spietata,
licenziamenti e precariato lavorativo…).
Leymann inoltre asserisce che laddove l’ambiente di lavoro sia caratterizzato da conflitti,
basso livello di cooperazione ed alto livello di competizione interna, uno stile di leadership laissezfaire è facile che sorgano comportamenti di mobbing orizzontale data la riluttanza dei superiori a
intervenire negli episodi di mobbing, mentre una leadership autocratica e uno stile autoritario di
gestione dei conflitti sono caratteristiche associate al verificarsi del mobbing soprattutto di tipo
verticale, creando un clima oppressivo, senza spazio per le critiche e le lamentele.
Ne consegue che le principali azioni mobbizzanti, ovvero gli attacchi cui è sottoposto il
mobbizzato, si possono suddividere in:

Attacchi alla persona: sono diffusissimi i comportamenti volti ad istigare contro la vittima
l’ambiente circostante, le provocazioni volte a fargli perdere il controllo, l’isolamento fisico,
la creazione del silenzio intorno al soggetto, l’esclusione dalle attività ricreative e sociali, il
rifiuto di collaborazione da parte dei colleghi;

Attacchi alla possibilità di comunicare: il capo e/o i collaboratori limitano la possibilità di
esprimersi della vittima, gli si rifiuta il contatto con gesti, sguardi scostanti, la vittima viene
sempre interrotta quando parla;

Attacchi alle relazioni sociali: la vittima viene costantemente isolata, si evita di rivolgerle la
parola;

Attacchi alla situazione lavorativa: si esplicitano in attacchi a livello delle capacità e
dell’immagine professionale (critiche continue, mancata considerazione delle proposte, basse
21
DOTTRINA
Il mobbing e il calcio……
valutazioni, attribuzioni di colpe) e in attacchi penalizzanti in eccesso (assegnazione di
carichi di lavoro e scadenze impossibili) o in difetto (demansionamento, mancata
assegnazione del lavoro);

Attacchi punitivi: il più diffuso è il rifiuto dei permessi, ferie e trasferimenti;

Attacchi all’immagine sociale: la vittima è ridicolizzata e costretta a lavori umilianti;

Attacchi alla qualità delle condizioni e delle mansioni lavorative: alla vittima vengono
affidati compiti lavorativi al di sotto della sua qualifica o al di sopra della sua preparazione
per indurlo in errore e viene continuamente trasferita da un posto all’altro.
I metodi maggiormente utilizzati per misurare il mobbing sono finalizzati alla valutazione
soggettiva, cioè alla percezione del mobbing, perlopiù attraverso diverse tipologie di questionari.
1) Leymann Inventory of Psychological Terrorism (LIPT), un questionario creato da Leymann,
si somministra alle “vittime” ed è costituito da una lista di 45 azioni ostili suddivise in 5
categorie: A) attacchi ai contatti umani e alla possibilità di comunicare; B) isolamento
sistematico; C) cambiamenti delle mansioni lavorative; D) attacchi alla reputazione; E)
violenze e minacce di violenze;
2) LIPT “Ege”, una versione italiana del Lipt, messa a punto da Ege, che consta di 30 domande
suddivise in tre sezioni, la prima riguarda i dati personali e dell’azienda, la seconda riguarda
le azioni subite, la terza è relativa alle conseguenze varie che il soggetto accusa.
Sulla base dei risultati del test bisogna tener conto della presenza di 7 parametri per stabilire
se la vicenda è riconducibile o meno al mobbing e questi parametri sono: l’ambiente di lavoro, la
frequenza, la durata, il tipo di azioni, il dislivello tra gli antagonisti, l’ andamento secondo fasi
successive, l’ intento persecutorio.
I test e strumenti diagnostici devono poi essere supportati e integrati con colloqui clinici.
Secondo l’opinione di vari studiosi la “sindrome da mobbing”, secondo il DSM-IV, è stata
inserita nell’ambito del Disturbo di adattamento, Disturbo acuto da stress, Disturbo post-traumatico
da stress e S Presenta infatti:
1) Disturbo dell’adattamento: i disturbi dell’adattamento si distinguono principalmente in
base alla durata: il disturbo è acuto se dura da meno di 6 mesi, è cronico invece se ha una durata
maggiore ai 6 mesi. Un elemento fondamentale nei disturbi dell’adattamento è la presenza di un
agente stressante o traumatico avvenuto nei tre mesi precedenti.
I sintomi psicologici inoltre tendono poi a scomparire dopo 6 mesi dall’assenza del fattore
stressante.
22
DOTTRINA
Il mobbing e il calcio……
Secondo la classificazione dei disturbi dell’adattamento possiamo avere un disturbo
dell’adattamento (dda) con umore depresso; dda con umore ansioso; dda con umore ansioso e
depresso; dda con disturbo della condotta; dda con turbe emotive e disturbo della condotta; dda non
specificato.
2) Disturbo post traumatico da stress e disturbo acuto da stress: questa sindrome nella
maggior parte dei casi si manifesta in seguito al coinvolgimento in un evento traumatico,
terrificante e devastante.
Spesso c’è un periodo di latenza e dopo 4-6 settimane la persona inizia a provare un senso di
vulnerabilità psicologica e sia i suoi sentimenti che i suoi pensieri iniziano a ruotare attorno
all’evento traumatico[Herman,1992].
Il soggetto rivive l’evento tramite ricordi angosciosi, incubi, flashback dissociativi. Il disturbo
post-traumatico da stress secondo il DSM IV può essere acuto (con sintomi che durano meno di tre
mesi), cronico (con una durata superiore ai tre mesi), oppure può essere ad esordio ritardato( se i
sintomi si manifestano almeno 6 mesi dopo l’evento stressante). Spesso il disturbo post-traumatico
da stress è la conseguenza diretta di un disturbo da stress acuto non curato. Il disturbo da stress
acuto insorge per un evento traumatico ed è caratterizzato da una sensazione di stordimento,
derealizzazione, depersonalizzazione e amnesia dissociativa.
Per quanto riguarda la diagnosi di mobbing verrebbe da chiedersi come mai un mobbizzato
presenti dei sintomi simili ad una persona che è sopravvissuta ad un evento traumatico, quale una
catastrofe ad esempio. La risposta sta nel fatto che un evento traumatico è molto intenso e doloroso,
ma di breve durata, mentre nel mobbing invece abbiamo una sommatoria continua di microtraumi
che può portare ad una patologia di funzioni psichiche.
È possibile applicare il modello psichiatrico del PTSD, Disturbo post-traumatico da stress,
secondo la classificazione del DSM IV al caso concreto del paziente con una patologia da stress
riconducibile all’ambito lavorativo.
Lo stressor determina una modificazione dei rapporti interpersonali e gruppali. Il mobbizzato
viene sottoposto alla maldicenza, alla calunnia e all’esposizione al ridicolo. Il disturbo consiste
schematicamente nel rivivere l’effetto stressante e nell’evitare situazioni che portino alla memoria
l’evento o che possano in qualche modo esporre ad un nuovo rischio similare.
3) Sindrome ansiosa con sintomi comportamentali (agitazione, irritabilità), sintomi somatici
(modificazioni fisiologiche che accompagnano le emozioni), sintomi cognitivi (distorsioni
percettive del tempo e dello spazio, del comportamento delle persone e del significato degli eventi).
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DOTTRINA
Il mobbing e il calcio……
4) Sindrome depressiva con calo dell’umore, pensieri di tipo suicidario, insonnia/ipersonnia,
sensi di colpa, riduzione degli interessi, agitazione o inibizione psicomotoria, ansia, diminuzione
della libido, cefalea, ipofagia/iperfagia.
Per una perizia medico-legale di un caso di mobbing secondo Chieregatti e d’Orsi [2000],
collaboratori di Ege, occorrono una anamnesi fisiologica, una anamnesi lavorativa ed un esame
psichico.
Per quanto riguarda l’anamnesi fisiologica, che comprende anche la storia del paziente, è
necessario valutare se la persona abbia avuto disturbi psichici antecedenti oppure se esista
comorbidità familiare riguardo a disturbi depressivi o di ansia, per valutare se esista una
predisposizione ereditaria alla vulnerabilità psicologica. Attualmente è stata esclusa la correlazione
tra i tratti di personalità del mobbizzato e l’insorgenza di mobbing. Tuttavia è pacifico ritenere che
esistano delle differenze individuali e che alcune persone possano possedere degli anticorpi
psicologici più resistenti alle vessazioni.
I danni causati da una situazione di mobbing sono generalmente intesi come riduzione della
capacità lavorativa della persona mobbizzata poiché le difficoltà psico-sociali vissute provocano il
suo immiserimento personale e professionale, con conseguenze negative su tutto il suo avvenire
lavorativo.
Di conseguenza il danno da mobbing può essere patrimoniale, esistenziale e psico-biologico.
Nella maggioranza dei casi le conseguenze del mobbing escono dal ristretto ambito lavorativo
per andare a ledere la sfera personale e sociale dell’individuo. Si tratta di ripercussioni di natura
esistenziale e riguardano ad esempio la diminuzione di interesse nella vita privata e nel tempo
libero, il calo o la scomparsa del desiderio sessuale, il minor tempo dedicato ai figli, la perdita di
fiducia in se stessi e nelle proprie capacità, etc.
Infine il mobbing può incidere direttamente sullo stato di salute della vittima poiché un alto
livello di stress agisce sul sistema immunitario indebolendolo, rendendola più vulnerabile ai fattori
di malattia fisica e psichica (danno psico-biologico). Una condizione di mobbing che si protrae nel
tempo può avere nella vittima delle ripercussioni più o meno gravi sulla sua salute.
Le alterazioni dello stato di salute possono riguardare l’equilibrio socio-emotivo, psicofisiologico e disturbi nel comportamento.
Clinicamente tali alterazioni si manifestano con ansia, depressione, stato di preallarme,
ossessioni, attacchi di panico, isolamento, anestesia reattiva, depersonalizzazione, cefalea, vertigini,
24
DOTTRINA
Il mobbing e il calcio……
tachicardia, disturbi gastrointestinali, senso di apprensione toracica, manifestazioni dermatologiche,
disturbi del sonno, disturbi della sessualità (alterazione dell’equilibrio psico-fisiologico); disturbi
alimentari, totale passività, demotivazione, reazioni autoaggressive o eteroaggressive, abuso di
alcool, di fumo, di farmaci (disturbi del comportamento).
In conclusione è possibile sostenere che il mobbing non è una patologia bensì una situazione
di disagio, un fenomeno che si sviluppa in modo tipico ed esclusivo nell’ambiente di lavoro.
Il mobbing non è depressione, ansia, insonnia, gastrite, stress occupazionale, ma è la causa di
questi disturbi che danno voce al profondo malessere.
Il mobbing è, infatti, una situazione conflittuale prolungata che come tale può originare nella
vittima alterazioni psichiche o patologie, di solito di tipo psicosomatico ed anche aggravamento di
disturbi fisici preesistenti.
Il mobbing è un comportamento illecito, lesivo dei diritti della persona e del lavoratore e
causa di danno alla persona a vari livelli per cui il ricorso alle vie giuridiche è un ottimo strumento
di autodifesa.
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DOTTRINA
Il mobbing e il calcio……
2. Il mobbing nel diritto del lavoro8
Sul piano giuridico-definitorio non esiste nel nostro ordinamento alcuna norma nazionale di
rango primario che disciplini il significato ed i presupposti del mobbing. La Corte Costituzionale9
ha dato atto di un tale vuoto normativo e ha parlato di "complesso fenomeno consistente in una serie
di atti o comportamenti vessatori, protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di un lavoratore
da parte dei componenti del gruppo di lavoro in cui è inserito o dal suo capo, caratterizzati da un
intento di persecuzione ed emarginazione finalizzato all’obiettivo primario di escludere la vittima
dal gruppo". Non sono, tuttavia, mancati alcuni tentativi di regolamentazione positiva.
Vi è una prima Risoluzione Parlamento Europeo, la n. 2339 del 2001, che prende posizione e
raccomanda agli Stati dell’Unione l’individuazione di procedure atte a risolvere il problema che
crea conseguenze dannose non solo per le vittime dirette, e per le loro famiglie, ma anche
conseguenze nefaste per i datori di lavoro per quanto riguarda la produttività e l’efficienza
economica dell’impresa a causa dell’assenteismo che esso provoca, della riduzione della
produttività dei lavoratori per confusione mentale, mancanza di concentrazione. Richiama
l’attenzione sul fatto che false accuse di mobbing possono trasformarsi a loro volta in un temibile
strumento di mobbing. Ricorda i risultati del sondaggio effettuato dalla Fondazione di Dublino, per
il quale nel corso dei 12 mesi precedenti l’8% dei lavoratori dell’U.E., quasi 12 milioni di persone,
in prevalenza donne, sono state vittime di mobbing.
Altra Risoluzione del Parlamento Europeo è quella del 4 settembre 2003 sui diritti
fondamentali nell’Unione Europea e quindi anche nel mondo del lavoro.
In Italia sono stati presentati vari progetti di legge nei due rami del Parlamento e il Comitato
ristretto della Commissione Lavoro del Senato del 2 febbraio 2005 aveva predisposto un testo
normativo che raccoglieva le diverse proposte di legge in materia di mobbing.
La Regione Lazio, poi, con la la l.r. 11 luglio 2002 n. 16, recante “disposizioni per prevenire
e contrastare il fenomeno del mobbing nei luoghi di lavoro”, ha offerto una definizione di mobbing
(art. 2) come “atti e comportamenti discriminatori o vessatori protratti nel tempo, posti in essere nei
confronti di lavoratori dipendenti, pubblici o privati, da parte del datore di lavoro o da soggetti posti
in posizione sovraordinata ovvero da altri colleghi, e che si caratterizzano come una vera e propria
forma di persecuzione psicologica o di violenza morale” ed ha poi individuato una lunga serie di
8
A cura di Daniele Colucci, magistrato del lavoro presso il Tribunale di Foggia.
9
Cfr. Corte Cost., 19 dicembre 2003, n. 359, in Guida al Lavoro n. 9/2004, 32 e in Mass. Giur. Lav., 2004, 297, con nota di Lanotte,
Il mobbing e le competenze della legislazione regionale, sentenza che costituisce il primo intervento della Consulta in tema di
mobbing ).
26
DOTTRINA
Il mobbing e il calcio……
comportamenti che rientrano in tale definizione. Tuttavia, la Corte Costituzionale, con la sentenza n.
359 del 19 dicembre 2003 ha dichiarato l’illegittimità di tale normativa, per violazione dell’art. 177,
commi 2 e 3, per aver ritenuto uno sconfinamento della Regione in ambito di potestà normativa
concorrente.
Migliore fortuna ha avuto la legge regionale dell’Abruzzo 11 agosto 2004, n. 2610 ( Intervento
della Regione Abruzzo per contrastare e prevenire il fenomeno mobbing e lo stress psico-sociale sui
luoghi di lavoro ) per la quale: "La Regione Abruzzo, nel rispetto dell’art. 32 della Costituzione
italiana, ed in armonia con i principi dello Statuto, con la presente legge si propone di contrastare e
prevenire i fenomeni afferenti lo stress psico-sociale ed il mobbing nei luoghi di lavoro".
Anche la circolare n. 71 del 17.12.2003 dell’Inail ha tentato di dare formale rilevanza al
fenomeno mobbing, regolamentando in tema di “disturbi psichici da costrittività organizzativa sul
lavoro (mobbing), il relativo rischio e la diagnosi di malattia professionale, nonché le modalità di
trattamento delle relative pratiche” individuando un complesso di determinati e specifici fattori di
nocività già di per sé soli atti ad indurre malattie psichiche o psicosomatiche e formulando altresì un
elenco di queste ultime che costituiscono possibili derivazioni da quelle condizioni. In tal modo, in
pratica, l’ente introduceva per le patologie c.d. da mobbing la struttura logica propria delle malattie
tabellate, con il risultato di esonerare il lavoratore dalla dimostrazione del nesso di causalità tra le
accertate condizioni e la patologia. Tale circolare è stata tuttavia annullata dal Tar del Lazio con la
sentenza n. 5454 de 11.7.2005, su ricorso della Confindustria, per violazione dell’art. 10 comma 1
del D.lgs. n. 38/2000, che detta le modalità mediante le quali è possibile integrare l’elenco delle
malattie professionali tabellate.
Di particolare interesse risulta il contenuto dell’ormai risalente disegno di legge n. 4265 del
13.10.1999, che definisce il fenomeno nei seguenti termini: "ai fini della presente legge vengono
considerate violenze morali e persecuzioni psicologiche nell’ambito dell’attività lavorativa quelle
azioni che mirano esplicitamente a danneggiare una lavoratrice o un lavoratore. Tali azioni devono
essere svolte con carattere sistematico, duraturo ed intenso. Gli atti vessatori, persecutori, le critiche
e i maltrattamenti verbali esasperati, l’offesa alla dignità, la delegittimazione di immagine, anche di
fronte a soggetti esterni all’impresa, ente o amministratore -clienti, fornitori, consulenti- comunque
attuati da superiori, pari-grado, inferiori e datori di lavoro, per avere il carattere della violenza
morale o delle persecuzioni psicologiche devono mirare a discriminare, screditare, o comunque
10
Con la sentenza 27 gennaio 2006, n. 22, la Corte ha respinto il ricorso del Presidente del Consiglio dei Ministri, dichiarando
costituzionale la legge della Regione Abruzzo n. 26/2004.
27
DOTTRINA
Il mobbing e il calcio……
danneggiare il lavoratore nella propria carriera, status, potere formale o informale, grado di
influenza sugli altri. Alla stessa stregua vanno considerate la rimozione da incarichi, l’esclusione o
immotivata marginalizzazione dalla normale comunicazione aziendale, la sottostima sistematica dei
risultati, l’attribuzione di compiti molto al di sopra delle possibilità professionali o della condizione
fisica e di salute".
Secondo l’interpretazione dottrinale11 il mobbing , può essere analizzato sotto diversi aspetti.
Dal punto di vista del ruolo del soggetto attivo (c.d. mobber), può essere suddiviso in tre
sottospecie:
a) mobbing verticale discendente (detto anche bossing): consistente in comportamenti ostili,
vessatori e di persecuzione psicologica esercitato dal datore di lavoro o dai superiori gerarchici nei
confronti di un dipendente "vittima";
b) mobbing verticale ascendente, di vessazione del subordinato al suo superiore gerarchico
(celebre l’esempio che fa riferimento al caso del Ministro delle finanze della Repubblica di Weimar,
Hilferding; i documenti venivano manovrati dai suoi collaboratori, impiegati, in modo da lasciare la
scrivania sempre sgombra, vuota, facendolo cadere in uno stato di prostrazione ed esaurimento
nervoso. Ciò si protrasse finché il Ministro non rassicurò la sua burocrazia che non avrebbe attuato
alcun mutamento radicale nell’organizzazione del personale, cosa che temevano gli impiegati del
ministero.
b) mobbing orizzontale, quest’ultimo attuato più per gelosia, rancori personali, dai colleghi
pari ordinati o comunque non sovraordinati della vittima
Per quanto riguarda, invece, i comportamenti che solitamente vengono qualificati all’interno
della categoria mobbing la casistica giurisprudenziale12, pur non sempre ricorrendo a tale
espressione, ha da tempo individuato atteggiamenti vessatori e ritorsivi.
Si pensi ad esempio al disconoscimento sistematico dei meriti del dipendente, alla reiterata e
funzionale irrogazione, in un’ottica di mortificazione più che di reintegrazione del diritto violato, di
provvedimenti disciplinari, alla progressiva e completa inattività coatta, all’invio di ripetute visite
domiciliari di controllo della malattia che assuma finalità vessatorie, allo storno continuo di
corrispondenza, all’affidamento di incarichi dequalificanti o comunque al graduale svuotamento
11
Cfr. P. Tosi, Il mobbing: una fattispecie in cerca di autore, Arg. Dir. Lav. , 2003, 653; Miscione, mobbing norma giurisprudenziale
(la responsabilità da persecuzione nei luoghi di lavoro) , Lav. Giur., 2001, 305; Bona, mobbing e categorie di danno, Lav. Giur.,
2003, 310.
12
Cfr. Trib. Pinerolo, 2 aprile 2004, in Resp. Civ. e Prev. , 2005, con nota di Bertoncini, mobbing e responsabilità contrattuale del
datore di lavoro; Trib. Forlì, 15 marzo 2001, in Res. Civ. e Prev., 2001, 1028, con nota di P. Ziviz, mobbing e risarcimento del danno;
Trib. Pisa, 3 ottobre 2001, in Lav. Giur., 2002, 456; Trib. Como, 22 febbraio 2003, in Mass. Giur. Lav. , 2003, 328.
28
DOTTRINA
Il mobbing e il calcio……
delle mansioni, allo svolgimento della prestazione lavorativa in locali angusti e in condizioni di
isolamento.
Un profilo essenziale che si pone è quello della natura dell’azione risarcitoria per
comportamenti mobbizzanti, contrattuale o aquiliana.
Sul punto, conformemente al costanze insegnamento della S.C.13 va considerata in concreto la
natura giuridica dell’azione di responsabilità proposta. Al fine di tale accertamento, si deve ritenere
proposta l’azione di responsabilità contrattuale quando la domanda di risarcimento sia
espressamente fondata sull’inosservanza, da parte del datore di lavoro, degli obblighi inerenti al
rapporto di lavoro, per una violazione che presenti caratteri tali da escluderne qualsiasi incidenza
nella sfera giuridica di soggetti estranei al rapporto di lavoro e, quindi, l’ingiustizia del danno non è
altrimenti configurabile che come conseguenza delle violazioni di taluna delle situazioni giuridiche
in cui il rapporto si articola e si svolge, mentre andrà residualmente ritenuta l’azione per
responsabilità aquiliana tutte le volte in cui l’incidenza lesiva della condotta prescinde dalla
violazione di un obbligo contrattuale e, quindi, il rapporto di lavoro costituisca la mera occasione di
una conflittualità che però esorbita dalle dinamiche di esso (e, così, nel mobbing orizzontale
l’azione non potrà che assumere natura extracontrattuale).
Non mancano, tuttavia, pronunce che sostanzialmente rimettono alla scelta della parte, con
attenuata valenza del petitum sostanziale, la natura contrattuale o extracontrattuale dell’azione
proposta, così ritenendo invocata la tutela aquiliana tutte le volte che non emerga una precisa scelta
del danneggiato in favore dell’azione contrattuale, e quindi allorché, per esempio, il danneggiato
pretenda genericamente il risarcimento del danno senza dedurre una specifica obbligazione
contrattuale14.
La distinzione, e la conseguente inquadrabilità dell’azione, è, in ogni caso, di non poco conto,
almeno sotto due distinti profili.
Infatti, in primo luogo va puntualizzato, con riferimento ad azioni di mobbing nell’ambito del
c.d. “pubblico impiego privatizzato”, che l’azione contrattuale (allorché la controversia abbia per
oggetto una questione relativa ad un periodo del rapporto di lavoro antecedente al 30 giugno 1998)
rientrerà nella cognizione della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo (con l’ormai
consumata preclusione all’azione, ex art.69, comma 7, del d.l.vo 30.3.2001 n. 165); se si tratta
invece di azione extracontrattuale, la giurisdizione apparterà, in ogni caso, al giudice ordinario.
13
Cfr. Cass., 4.5.2004 n. 8438.
14
Cfr. Cass. Sez. Un. 4 novembre 1996 n. 9522, edita in Studium Juris 1997, 185; Giust. civ. Mass. 1996, 1455; Danno e
responsabilità 1997, 15 con nota di V. CARBONE; così, più di recente, tra le altre, Cass., Sez. Un., 23.1.2004 n. 1248.
29
DOTTRINA
Il mobbing e il calcio……
Sotto altro profilo, invece, non può non considerarsi non solo il diverso termine prescrizionale
(quinquennale per l’azione di responsabilità extracontrattuale, decennale in quella di responsabilità
contrattuale), ma la strutturale diversità del regime della prova e della stessa possibile misura del
danno risarcibile.
Infatti, nella dinamica contrattuale occorrerà dimostrare, secondo lo schema fondamentale
dell’art. 1218 c.c., solamente l’inadempimento, cioè la violazione di un dovere negoziale, essendo
poi onere del debitore dimostrare l’impossibilità di una condotta diversa, e contrattualmente lecita, a
lui imputabile, laddove nell’azione per responsabilità aquiliana sarà chi agisce, pretendendosi
danneggiato, a dover provare anche la sussistenza dell’elemento psicologico del dolo o della colpa.
Si inserisce, a tal punto, anche la tematica della rilevanza dell’elemento intenzionale
per la
definizione del fenomeno mobbing
Vi è, infatti, un primo orientamento per il quale le controversie dirette ad accertare fattispecie
di mobbing comportano per loro stessa natura una penetrazione psicologica dei comportamenti, al di
là di atti che possono presentarsi anche come legittimi e inoffensivi, in modo da indagarne il
carattere eventualmente vessatorio, ossia dolosamente diretto a svilire, nuocere o ledere la dignità
personale e professionale di un dipendente. In tale contesto, la coscienza e volontà del mobber si
pone rispetto al fatto non solo come elemento essenziale e costitutivo dell’illecito, ma come
elemento idoneo persino a darvi significato; in altri termini, senza il dolo specifico del mobber gli
atti potrebbero apparire, in linea di massima, legittimi e leciti15.
Un secondo orientamento, invece, ritiene che in tema di risarcimento del danno occorre
verificare la pluralità di comportamenti e di azioni a carattere oggettivamente persecutorio,
prolungatamente dirette contro il dipendente e l’evento dannoso, il nesso di causalità tra la condotta
e il danno e la prova dell’elemento soggettivo secondo l’ordinario schema della responsabilità
contrattuale, per cui l’onere dell’allegazione e della prova ricade sul ricorrente, alla stregua degli
ordinari principi processuali, mentre spetta al datore di lavoro dimostrare di aver posto in essere
tutte le misure necessarie per tutelare l’integrità psico-fisica del dipendente.16
Quest’ultima interpretazione appare più coerente specialmente con l’illecito di tipo
contrattuale e, d’altronde, va sottolineato che l’intenzionalità rende difficoltosa la prova della
sussistenza del mobbing, soprattutto in quelle ipotesi di mobbing posto in essere da più soggetti,
15
Cfr. Tribunale Trieste, Sez. Lav., 10.12.2004, edita in Il lavoro nella giurisprudenza, 2005, 12, 1183 con nota di Nunin; Cfr, anche
Tribunale Roma, 28.3.2003, nel senso che il mobbing aziendale si caratterizzi necessariamente con il dolo specifico di nuocere, o
infastidire, o svilire il lavoratore, anche ai fini dell'allontanamento del mobbizzato dall'impresa. Cfr. Tribunale Como, 22.5.2001 edita
in Il lavoro nella giurisprudenza, 2002, 1, 73 con commento di EGE.
16
Cfr. T.A.R., I, CALABRIA Reggio Calabria, 20.7.2006 n. 1259.
30
DOTTRINA
Il mobbing e il calcio……
(mobbing orizzontale). Per altro verso, anche l’art. 2043 c.c. in materia di responsabilità
extracontrattuale, richiede solamente la colpa o il dolo generico, ossia la rappresentazione della
idoneità lesiva della condotta posta in essere.
D’altra parte potrebbe ritenersi, sulla base di tale premessa, che sia sufficiente riscontrare
negli atti posti in essere l’obiettiva idoneità lesiva rispetto ai beni protetti della salute, del decoro e
dell’immagine professionale, del comportamento tenuto in modo consapevole e volontario dal
mobber, purché vi sia una logica concatenazione degli atti. Non può non richiamarsi, in tale ambito,
la costruzione di Cass., Sez, Un., 12.6.1997 n. 5295, in relazione alla fattispecie dell’illecito ex art.
28 dello Statuto dei lavoratori, fattispecie tipica pur apparentemente costruita in una pregante
prospettiva psicologica, laddove la massima espressione della S.C., travolgendo anche tesi
intermedie (sussistenza dolo specifico almeno nelle condotte formalmente lecite) ha ritenuto
l’intento lesivo né necessario né sufficiente per l’integrazione della condotta antisindacale, e ciò
proprio in una prospettiva di rafforzamento del bene-interesse tutelato dalla norma.
Infine, la distinzione tra responsabilità contrattuale e responsabilità extracontrattuale si riflette
anche nella determinazione del danno risarcibile, atteso che solo nella logica della responsabilità
contrattuale il danno non prevedibile, in assenza di dolo del debitore, non è risarcibile (art. 1225
c.c., non richiamato dal successivo art. 2056).
La giurisprudenza, comunque, normalmente riconduce le fattispecie concrete di mobbing alla
violazione degli artt. 2103 e 2087 c.c., norma quest’ultima che impone al datore di lavoro di
“adottare nell’esercizio dell’impresa tutte le misure che, secondo la particolarità del lavoro,
l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del
lavoratore”.
Tale, d’altronde, è l’impostazione che si rinviene nella fondamentale
Cass., Sez. Un.,
24.3.2006 n. 6572, che specificamente affronta il problema del risarcimento del danno alla persona
del lavoratore. L’art. 2087, in tale ottica, supera il problema della risarcibilità dei danni non
patrimoniali alla persona, poiché l’integrità fisica e la personalità morale del lavoratore sono
direttamente e specificamente protette dalla norma nell’ambito del contratto, pur restando
probabilmente escluso il danno morale soggettivo (pretium doloris), al quale la sentenza fa un
cenno solo per distinguerlo dal danno esistenziale. La disposizione normativa, comunque, presenta
elevate potenzialità, definendo l’illecito sotto il profilo del bene-interesse protetto (integrità fisica e
personalità morale). Ne discende, allora, la possibilità per il giudice di qualificare come
inadempimento contrattuale qualsiasi condotta, attiva od omissiva, del datore di lavoro che emerga
31
DOTTRINA
Il mobbing e il calcio……
in oggettivo contrasto con l’obbligo di protezione della persona del lavoratore. E’ una costruzione
che consente il controllo giudiziale sull’esercizio di tutti i poteri liberi del datore di lavoro, dopo che
in precedenza le medesime Sezioni Unite avevano tentato di adottare altri moduli per giungere alla
stessa conclusione, quali un presunto obbligo di pari trattamento nel diritto privato17 e lo scorretto
utilizzo delle clausole di correttezza e buona fede in funzione creativa di obblighi18.
Dunque, l’art. 2087 c.c. diventa il fulcro del sistema di tutela, tanto con riferimento
all’integrità fisica quanto in relazione alla personalità morale del lavoratore. Le Sezioni Unite così
puntualizzano che nella responsabilità contrattuale il creditore non è onerato della prova della
imputabilità dell’inadempimento, spettando al debitore dimostrare l’impossibilità della prestazione
per causa a lui non imputabile, secondo il canone generale di cui all’art. art. 1218 c.c. Il
risarcimento, in ogni caso, viene presentato sempre in funzione riparatoria di un pregiudizio
effettivo e non punitiva dell’inadempimento, per cui la violazione dell’obbligo rimane distinta dalla
produzione, solo eventuale, del pregiudizio. Il danno, in altri termini, non è mai in re ipsa e non è,
quindi, sufficiente dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale, così ricadendo sul
creditore l’onere di provare il danno subito quale "conseguenza immediata e diretta"
dell’inadempimento e l’allegazione dei fatti costitutivi dell’illecito deve essere "specifica" e fornire
"tutti gli elementi, le modalità e le peculiarità della situazione di fatto", in mancanza dei quali la
domanda risarcitoria va immediatamente rigettata per le note preclusioni del rito, stante la
possibilità per il giudice di sopperire alla carenza di prova, ma "non alla carente di allegazione dei
fatti19.
È sempre la S.C., poi, con la sentenza in discorso, che ci dà la summa dei danni risarcibili,
enucleando per ciascuno di essi le necessarie concrete allegazioni.
Così, per il danno professionale vanno necessariamente dedotti i fatti integranti
l’impoverimento della capacità professionale acquisita oppure la mancata acquisizione di una
maggiore capacità oppure la perdita di una effettiva chance di carriera o di ulteriore guadagno.
Per il danno biologico, invece, occorre dedurre una specifica lesione dell’integrità psico-fisica
medicalmente accertabile.
Nel danno c.d. esistenziale le Sezioni Unite opportunamente
accorpano, per evitare
duplicazioni o moltiplicazioni risacitorie, quello all’identità professionale, all’immagine, alla vita di
17
Cfr. Cass., Sez. Un., 29.5.1993 n. 6030, in Foro it., 1993, I, 1794.
18
Cfr. Cass. Sez. Un. 17.5.1996 n. 4570, in Foro it., 1996, I, 1989.
19
Cfr. A. VALLEBONA, Allegazioni e prove nel processo del lavoro, Padova 2006, ed ivi i necessari richiami anche della
giurisprudenza delle Sezioni Unite.
32
DOTTRINA
Il mobbing e il calcio……
relazione, alla libera esplicazione della personalità nel luogo di lavoro. E definiscono danno
esistenziale "ogni pregiudizio che l’illecito datoriale provoca sul fare areddituale del soggetto,
alterando le sue abitudini di vita e gli assetti relazionali che gli erano propri" e determinando "scelte
di vita diverse da quelle che si sarebbero adottate se non si fosse verificato l’evento dannoso".
Sicché, trattandosi di situazione oggettiva e "non meramente emotiva ed interiore" come quella
propria del danno morale soggettivo, il lavoratore deve allegare precise circostanze attestanti
"l’alterazione delle sue abitudini di vita" oppure, occorre aggiungere, la lesione della propria
immagine.
Da rilevare, tuttavia, che l’eterna questione dell’effettiva autonomia del danno esistenziale è
stata nuovamente rimessa dal Primo Presidente della Cassazione alle Sezioni Unite, per cui siamo in
attesa di una possibile nuova elaborazione di tale danno.
Può affermarsi, comunque, l’ineludibilità della risarcibilità di un danno non patrimoniale,
considerando che il diritto alla salute e la dignità del lavoratore sono beni la cui tutela, sia come
interesse soggettivo che della collettività, assumono rilievo anche costituzionale (artt. 32 e 41) ed in
tali ipotesi la Corte Costituzionale nella sentenza n. 233 del 2003 e la Corte di Cassazione, a partire
dalla sentenza 31.5.2003 n. 882720 ed in molte successive ne consentono il ristoro anche a
prescindere dalla sussistenza di un’ipotesi di reato.
Dunque, fermo il dovere di esaustiva allegazione, si pone il problema della prova dei fatti
posti a fondamento della pretesa.
La pronuncia delle Sezioni Unite pone, al riguardo, opportune distinzioni.
In primo luogo le Sezioni Unite correttamente avallano la liquidazione equitativa del danno ex
art. 1226 c.c., alla condizione che il danno sia concretamente allegato e, evidentemente, dimostrato,
in quanto l’equità del giudice sopperisce solo alla impossibilità di determinazione del quantum
risarcibile, non anche dell’an del danno.
Inoltre, mentre "il danno biologico non può prescindere dall’accertamento medico legale", per
il danno esistenziale possono essere utilizzate prove testimoniali, documentali e presunzioni.
Di queste ultime riconosce il "precipuo rilievo", trattandosi del pregiudizio di un bene
immateriale, e ricorda che il convincimento del giudice può anche fondarsi in via esclusiva su
20
Edita in Corriere Giur. 2003, 1017, con nota di Massimo FRANZONI; Giust. civ. Mass. 2003, 5; Foro amm. CDS 2003, 1542;
Danno e resp. 2003, 819 con nota di PROCIDA MIRABELLI LAURO; Danno e resp. 2003, 819 con nota di BUSNELLI; Danno e
resp. 2003, 819 con nota di PONZANELLI; Foro it. 2003, I, 2273 con nota di NAVARRETTA; Giur. it. 2004, 1129 con nota di
BONA; Riv. it. medicina legale 2004, 195 con nota di FRATI E ALTRI; Giur. it. 2004, 29 con nota di SUPPA; Riv. corte conti 2003,
6, 221; Nuova giur. civ. commentata, 2004, 2, 231 con nota di SCARPELLO Aldo.
33
DOTTRINA
Il mobbing e il calcio……
presunzioni, purché sia allegata e comprovata "una serie concatenata" di fatti indizianti rispondenti,
nel loro complesso, alla previsione codicistica (gravità, precisione, concordanza).
La tematica della rilevanza delle presunzioni21 ci ricollega anche ad una tutela non limitata
all’ambito risarcitorio, ma estesa ad una dimensione più propriamente inibitoria, attuabile sul piano
cautelare (in linea di massima incompatibile per la pretesa risarcitoria) e anche su quello sommario
non cautelare. Va fatto riferimento, al riguardo, allo speciale procedimento del d.l.vo 9.7.2003 n.
216, in attuazione della direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e
di condizioni di lavoro, testo normativo che offre una nozione di discriminazione del lavoratore,
diretta, indiretta o come espressione di molestie, per ragioni di religione, di convinzione personale,
di handicap, di età o di orientamento sessuale. L’istituto, con il quale il giudice all’esito “ordina la
cessazione del comportamento, della condotta o dell’atto discriminatorio, ove ancora sussistente, e
la rimozione degli effetti” ha avuto scarsa fortuna nella pratica del contenzioso, ma appare come un
utile strumento per inibire (non solo, ma anche) condotte datoriali mobbizzanti, quindi in atto,
permanenti e ripetute nel tempo. Interessante, al riguardo, è la previsione dell’art. 4, comma 4, del
decreto, per il quale “il ricorrente, al fine di dimostrare la sussistenza di un comportamento
discriminatorio a proprio danno, può dedurre in giudizio, anche sulla base di dati statistici, elementi
di fatto, in termini gravi, precisi e concordanti, che il giudice valuta ai sensi dell’articolo 2729,
primo comma, del codice civile”.
Comunque, vi è una tendenza, sia normativa che giurisprudenziale, a ridimensionare la
pregnanza dell’onere probatorio del soggetto che agisce pretendendosi mobbizzato, in quanto il
ricorso alla presunzione, pur non determinando un esonero dall’onere ex art. 2697 c.c., costituisce
pur sempre uno strumento di agevolazione probatoria, consentendo di porre un fatto certo, di più
immediata evidenza, per risalire all’effettività della condotta persecutoria.
Il tutto, peraltro, non potrà che far quantomeno ridiscutere la rigidità del principio
dell’insussistenza di un dovere di parità di trattamento nella gestione del rapporto di lavoro, come
affermato nelle ormai risalenti Sezioni Unite del 199622.
21
La rilevanza della presunzione ai fini della formazione della prova quantomeno dell’an del danno è ricorrente nella giurisprudenza
degli ultimi anni (cfr., ad es., Cass., Sez. lav., 8.11.2003 n.16722, in materia di danno per demansionamento, costituisca o meno esso
espressione di un mobbing).
22
Cfr. Cass., Sez. Un., 17.5.1996 n. 4570 edita in Orient. giuris. lav. 1996, I, 521 con nota di CASTELVETRI Laura; Giur. it. 1997,
I,1, 760 con nota di FANTINI; Giust. civ. Mass. 1996, 740; Giust. civ. 1996, I, 1899 con nota di DEL PUNTA; Rass. giur. Enel 1996,
920; Riv. it. dir. lav. 1996, II, 765 con nota di CHIECO; Dir. lav. 1996, II, 197 con nota di PALLINI; Mass. giur. lav. 1996, 316;
Notiziario giur. lav. 1996, 188; Orient. giur. lav. 1996, 293; Riv. giur. lav. 1996, II, 161; Foro it. 1996, I, 1989 con nota di
AMOROSO; Giornale dir. amministrativo 1996, 11, 1035 con nota di BATTINI Stefano; Il lavoro nella giurisprudenza 1996, 722 con
nota di D'AVOSSA Edoardo; Corriere giur. 1996, 888 con nota di PERA Giuseppe.
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DOTTRINA
Il mobbing e il calcio……
Un ultimo aspetto interessante da accennare è quello costituito dalla misura della prova
liberatoria, correlato al profilo del limite relativo obbligo di prevenzione del datore di lavoro23.
Infatti, in virtù della norma di chiusura dell’art. 2087 c.c. il datore di lavoro è tenuto non solo
all’adozione delle misure imposte specificamente dalla legge, dall’esperienza e dalle conoscenze
tecniche, ma anche all’obbligo più generale di attuare ogni determinazione di prudenza e diligenza
funzionalizzata all’integrità psicofisica del lavoratore, senza però indicarne la soglia.
Sul punto sono ipotizzabili due impostazioni: quella
della “massima diligenza
tecnologicamente possibile” con conseguente obbligo del datore di lavoro di adottare ogni misura
possibile, di sicurezza, di utilizzazione di materie prime e di assetti organizzativi, idonea, secondo le
più avanzate scoperte scientifiche e la migliore tecnologia, ad eliminare o ridurre i rischi per la
salute e la dignità del lavoratore; in sostanza il datore di lavoro sarebbe tenuto ad un obbligo di
continuo adeguamento dei sistemi di sicurezza al progredire della scienza e della tecnica.
Altra costruzione, invece, impone al datore di lavoro di adottare quelle alle misure che, nei
diversi settori delle differenti lavorazioni, corrispondono ad applicazioni tecnologiche generalmente
praticate e ad accorgimenti organizzativi e procedurali altrettanto generalmente acquisiti, così
delineandosi una nozione di “sicurezza generalmente praticata” in luogo di quella “massima
tecnologicamente possibile”, secondo standard di sicurezza generalmente applicati si ritrova anche
nelle più recenti sentenze in tema di 2087 c.c. della Corte di Cassazione24.
Sulla questione è intervenuta, al altri fini, anche la Corte Costituzionale25 che ha dichiarato
non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 41, comma 1, del d.l.vo 15.8.1991, n.
277 (ora superato dal d.l.vo 10.4.2006 n. 195), che imponeva al datore di lavoro di ridurre "al
minimo, in relazione alle conoscenze acquisite in base al progresso tecnico, i rischi derivanti da
esposizione al rumore mediante misure tecniche, organizzative e procedurali, concretamente
attuabili, privilegiando gli interventi alla fonte".
La questione di costituzionalità era stata sollevata in quanto si veniva a porre a carico del
datore di lavoro un obbligo del tutto generico e indeterminato, facente riferimento, oltre che alle
23
Cfr. V. Carinci, M.T. (2005) Il mobbing: alla ricerca della fattispecie, in Mobbing, organizzazione, malattia professionale
(Quaderni di diritto del lavoro e delle relazioni industriali), Utet, Torino.
24
Cfr. Cass., III 20.2.2006 n. 3650.
25
Cfr. Corte cost. 25.7.1996 n. 312 edita in Dir. lav. 1997, II, pag. 362 con nota di DELLA ROCCA; Orient. giur. lav. 1996, pag.
842; Riv. it. dir. lav. 1997, II, pag. 15 con nota di MARINO; D.L. Riv. critica dir. lav. 1997, pag. 187; Riv. trim. dir. pen. economia
1997, pag. 521; Notiziario giur. lav. 1996, pag. 527; Giur. cost. 1996, pag. 2575; Dir. penale e processo 1996, pag. 1194; Foro it.
1996, I, pag. 2957; Mass. giur. lav. 1996, pag. 503 con nota di CAMERINI POLLIO; Cons. Stato 1996, II, pag. 1295; Giur. cost.
1996, pag. 2575; Dir. e pratica lav. 1996, 44, pag. 3140 con nota di SERVELLO Gianfranco.
35
DOTTRINA
Il mobbing e il calcio……
prescrizioni ed acquisizioni tecniche, anche ad altre non meglio specificate misure organizzative e
procedurali, senza contestualmente fissare un valore limite di tollerabilità del rumore.
Il Giudice delle leggi, nel rigettare la questione sollevata, ha osservato che la disposizione
impugnata era suscettibile di una interpretazione adeguatrice, tale da restringere considerevolmente
la discrezionalità dell’interprete, ritenendo che, là dove parlava di misure "concretamente attuabili",
il legislatore si riferisse alle misure che, nei diversi settori e nelle differenti lavorazioni,
corrispondevano ad applicazioni tecnologiche generalmente praticate e ad accorgimenti
organizzativi e procedurali altrettanto generalmente acquisiti.
La pronuncia del Giudice delle leggi è intervenuta su una norma penale, in relazione alla
diversa esigenza di tipizzazione della fattispecie, in riferimento agli artt. 25 e 70 della Cost., ma da
essa emerge una impostazione ragionevole anche sul piano civilistico per contemperare il diritto
alla dignità e alla sicurezza del lavoratore con la liberà di iniziativa economica, che costituisce
l’altro pilastro costituzionale coinvolto e parimenti meritevole di tutela nell’eterna dialettica tra
esigenze del capitale e tutela del lavoro.
4. Il mobbing nel calcio professionistico26
È ormai noto come il fenomeno del mobbing risulti essere, accanto ai c.d. rischi tradizionali
(quali chimici, fisici e biologici), una delle principali cause di alterazione della salute del lavoratore.
Tale patologia frequente nel mondo del lavoro ordinario, come dimostrano le numerose
decisioni adottate dalla Giurisprudenza, negli ultimi anni sembrerebbe aver colpito anche il mondo
dello sport professionistico ed in particolare quello del calcio27.
Solitamente tale fattoide28 si riscontra nelle ipotesi di rinnovo contrattuale tra tesserato ed
affiliato; di conseguenza, ci si chiede come questo possa trovare collocazione nel mondo del calcio
professionistico, tenendo presente che, di per sé, è già di difficile valutazione nel mondo del lavoro
di diritto del lavoro comune29.
26
A cura di Carmine F. La Torre, praticante avvocato presso il Foro di Foggia.
Cfr. Amato P., Il mobbing nel mondo del calcio professionisico, Edus Law International, R.D.E.S., III, 2005, 40. Anche la vicenda
Luis Antonio Jimenez Garces – Ternana Cacio S.p.A. portata all’attenzione del Tribunale di Terni, sezione lavoro, e conclusa con una
conciliazione.
28
Cfr. G. Gulotta, Il vero e il falso mobbing, Giuffrè, Milano, 2007, 3.
29
Cfr. Leymann H., The Content and Development of Mobbing at Work, in Mobbing and Victimization at Work, European Journal of
Work and Organizational Psychology, V, 1996, 165, tale definizione è stata estratta da Meucci M., Considerazioni sul Mobbing,
Lavoro e Previdenza Oggi, 1999, 1954; Ege H., La valutazione peritale del danno da Mobbing, Giuffrè, Milano, 2002, 38.
27
36
DOTTRINA
Il mobbing e il calcio……
In Italia la materia del lavoro sportivo trae le proprie origini dalla legge 23 marzo 1981 n. 91
che ha riconosciuto alle federazioni sportive nazionali il potere di emanare norme idonee a
disciplinare il rapporto endoassociativo tra tesserati ed affiliati.
In conformità a quanto detto la F.I.G.C.30 ha emanato le carte federali31 che unitamente agli
accordi collettivi32 ed alle norme F.I.F.A.33 costituiscono il complesso di regole da osservare nel
mondo del calcio professionistico. Limitatamente al rapporto endoassociativo è appena il caso di
evidenziare che, così come avviene nel mondo del lavoro di diritto del lavoro comune34, anche nel
30
Federazione Italiana Giuoco Calcio.
Le carte federali possono essere consultate sul sito www.figc.it oppure www.globalsportslaw.com. Cfr. AA.VV., Il calcio e le sue
regole – raccolta di leggi e giurisprudenza nazionale ed internazionale, Edus Law International, I e II, 2006.
32
Le parti sociali che intervengono per la stipulazione degli accordi collettivi di categoria sono Lega Nazionale Professionisti
(L.N.P.) – Lega Professionisti serie C (L.P. serie C) – Associazione Italiana Calciatori (A.I.C.) – Associazione Italiana Allenatori di
Calcio (A.I.A.C.) – Associazione Italiana Direttori Sportive e Segretari (A.DI.SE.).
33
Fédération Internationale de Football Association.
34
Nel diritto comune la prestazione di lavoro ha una struttura complessa e questa è dimostrata dalla presenza di situazioni attive e
passive, di diritti e doveri cui devono uniformarsi tanto il prestatore di lavoro quanto il datore di lavoro.
Per quanto riguarda la posizione del lavoratore questi è tenuto al rispetto degli obblighi integrativi che, nel loro insieme,
concorrono a definire il proprium (lo specifico) della prestazione e il quomodo (il modo di essere) della stessa:
- la diligenza (art. 2104, comma 1, c.c.) “Il prestatore di lavoro deve usare la diligenza richiesta dalla natura della
prestazione dovuta, dall'interesse dell’impresa e da quello superiore della produzione nazionale”. L’inosservanza del dovere di
diligenza comporta per il prestatore l’obbligo a risarcire, a titolo di responsabilità contrattuale, il danno che dalla sua condotta
negligente o imprudente sia derivato al datore nonché l’eventuale sottoposizione a sanzioni disciplinari;
- l’obbedienza (art. 2104, comma 2, c.c.) consiste nell’obbligo di osservare le disposizioni per l’esecuzione e la disciplina
del lavoro, impartite dall’imprenditore e dai collaboratori di questo dai quali gerarchicamente dipende. Come la giurisprudenza ha
ripetutamente precisato, la soggezione del prestatore al datore ed ai suoi collaboratori non può superare i limiti imposti dalle norme di
legge – in particolare, da quelle dello Statuto dei Lavoratori – e dalle norme contrattuali, potendo, in caso contrario, il lavoratore,
esercitare il c.d. jus resistentiae, cioè rifiutarsi di osservare le disposizioni impartite. L’inosservanza dell’obbligo di obbedienza può
costituire, nei casi più gravi, giustificato motivo (soggettivo) di licenziamento;
- la fedeltà (art. 2105 c.c.) che pone a carico del prestatore un obbligo volto a tutelare l’interesse dell’imprenditore alla
capacità di concorrenza e di competitività dell’impresa. Tale disposizione prevede espressamente tre divieti, e cioè: il divieto di
concorrenza, che consiste nell’obbligo di astenersi dal trattare affari, per conto proprio o di terzi, in concorrenza con l’imprenditore
(tale divieto va tenuto distinto dal divieto di concorrenza sleale, ex art. 2598, c.c., e dal patto di non concorrenza, ex art. 2125 c.c.);
l’obbligo di riservatezza, che consiste nel divieto di divulgare o utilizzare a vantaggio proprio o altrui, notizie attinenti
all’organizzazione ed ai metodi di produzione dell’impresa (c.d. segreti aziendali) in modo da arrecare ad essa pregiudizio; la tutela
civilistica attribuita all’impresa è poi integrata da quella penale (artt. 621, 622 e 623, c.p.) che proteggono il divieto di uso dei c.d.
segreti professionali-aziendali. La violazione dell’art. 2105, c.c., dà luogo sia alla responsabilità disciplinare sia al risarcimento del
danno eventualmente causato al datore.
I diritti del lavoratore costituiscono le situazioni giuridiche attive, riferibili alla prestazione, che si esprimono nella facoltà,
libertà e prerogative riconosciute al lavoratore:
- i diritti patrimoniali, cui fanno parte: il diritto alla retribuzione; il diritto al trattamento di fine rapporto; il diritto alle
indennità speciali;
- i diritti personali: riguardano il diritto all’integrità fisica ed alla salute nei luoghi di lavoro (art. 2087, c.c. e art. 9 St.
Lav.), nel quale rientra anche il diritto al riposo giornaliero e settimanale, il diritto alle ferie; la libertà di opinione e protezione della
riservatezza (artt. 1 e 8 St. Lav.), nonché la dignità del lavoratore (artt. 3, 4 e 6, St. Lav.); il diritto allo studio per i lavoratori studenti
(art.10 St. Lav.); la tutela dell’interesse dei lavoratori ad adempiere funzioni pubbliche (artt. 31 e 31 St. Lav.); la tutela delle attività
culturali, ricreative ed assistenziali (art. 11 St. Lav.);
- i diritti sindacali: sono diritti che costituiscono espressioni tipiche dell’attività sindacale e si dividono in: generali,
inerenti i fenomeni della libertà di organizzazione ed attività sindacale e del diritto di sciopero (artt. 39 e 40 Cost. e artt. 14 – 17 Stat.
Lav.); speciali, concernenti alcune forme di attuazione della libertà sindacale, disciplinati dallo statuto dei lavoratori (artt. 19 – 31
Stat. Lav.).
Per quanto concerne la posizione giuridica del datore di lavoro questi ha il diritto di esercitare i propri poteri in modo
discrezionale al fine di tutelare l’interesse proprio o dell’impresa. La forma di manifestazione di tali poteri è del tutto libera potendo
essere sia orale che scritta. Naturalmente tali poteri incontrano dei limiti legislativi, primo fra tutti il divieto di discriminazione
previsto dall’art. 15 St. Lav.
31
37
DOTTRINA
Il mobbing e il calcio……
calcio professionistico35 la posizione giuridica delle società è costituita, oltre che da diritti, anche da
una serie di doveri cui corrispondono altrettanti diritti per i tesserati.
Cosicché le società sono tenute ad “assicurare a ciascun tesserato lo svolgimento dell’attività
sportiva con l’osservanza dei limiti e dei criteri previsti dalle norme federali per la categoria di
appartenenza in conformità al tipo di rapporto instaurato col contratto o col tesseramento”36; altresì
sarà tenuta, al fine di curare la migliore efficienza sportiva, a fornire delle attrezzature idonee alla
preparazione atletica mettendo a disposizione un ambiente consono alla dignità professionale del
calciatore37.
Il potere direttivo: si configura come quelle istruzioni che il datore di lavoro e i suoi collaboratori impartiscono
perl’esecuzione e la disciplina del lavoro. Tale potere si estrinseca in: potere gerarchico, che designa la posizione di supremazia del
datore di lavoro quale capo dell’impresa dal quale dipendono gerarchicamente i suoi collaboratori; potere conformativo, consistente
nella concreta determinazione della modalità per l’esecuzione del lavoro preordinando le singole prestazioni lavorative, qualifica per
qualifica, reparto per reparto; potere direttivo in senso stretto, consiste nell’emanazione delle disposizioni concernenti
l’organizzazione del lavoro, stabilendo una determinata disciplina tecnica del lavoro (es. orari, turni ecc.).
Il potere di vigilanza e di controllo: è diretto a verificare che l’esecuzione dell’attività lavorativa venga effettuata secondo
le modalità stabilite dal datore di lavoro. Tale potere incontra alcuni limiti: il divieto di avvalersi di guardie giurate (art. 2 Stat. Lav.);
l’obbligo di comunicare ai lavoratori i nominativi e le specifiche mansioni del personale di vigilanza sul lavoro (art. 3 Stat. Lav.); il
divieto di avvalersi di impianti audiovisivi (salvo esigenze di sicurezza previo accordo con le rappresentanze sindacali) (art. 4 Stat.
Lav.); il divieto di accertamenti da parte del datore sulla idoneità fisica e sulla infermità per malattia o infortunio del lavoratore (art. 5
Stat. Lav.); il divieto delle visite personali di controllo (perquisizioni) (art. 6 Stat. Lav.).
Il potere disciplinare: consiste nella facoltà del datore di lavoro nell’irrogare sanzioni disciplinari al lavoratore che viene
meno agli obblighi di diligenza, obbedienza e fedeltà.
Per quanto concerne gli obblighi del datore di lavoro si evidenzia che questi incontrano i diritti del lavoratore, e questi
sono: l’obbligo di corrispondere la retribuzione nei modi e nei termini stabiliti nel contratto (art. 2099 c.c.); l’obbligo di tutela delle
condizioni di lavoro o di sicurezza (art. 2087 c.c. e art. 9 Stat. Lav.); l’obbligo di tutela assicurativa o previdenziale del lavoratore
(artt. 2114 – 2115 c.c.); l’obbligo di assicurare i dipendenti (art. 5, L. 13 maggio 1985 n. 190); l’obbligo di procedere a determinati
accertamenti sanitari; l’obbligo di informazione.
35
Cfr. N.O.I.F. Titolo VII art. 91 – doveri delle società – stabilisce: “Le società, in relazione alla Serie di appartenenza, sono tenute
ad assicurare a ciascun tesserato lo svolgimento dell’attività sportiva con l’osservanza dei limiti e dei criteri previsti dalle norme
federali per la categoria di appartenenza in conformità al tipo di rapporto instaurato col contratto o col tesseramento.
L’inosservanza da parte della società nei confronti dei tesserati degli obblighi derivanti dalle norme regolamentari e da
quelle contenute negli accordi collettivi e nei contratti tipo, comporta il deferimento agli organi della giustizia sportiva per i relativi
procedimenti disciplinari”. L’art. 92 – doveri dei tesserati – stabilisce “I tesserati sono tenuti all’osservanza delle disposizioni
emanate dalla F.I.G.C. e dalle rispettive Leghe nonché delle prescrizioni dettate dalla società di appartenenza. I calciatori
“professionisti” e gli allenatori sono tenuti altresì all’ottemperanza degli accordi collettivi e di ogni legittima pattuizione contenuta
nei contratti individuali. Nei casi di inadempienza si applicano le sanzioni previste in tali contratti.
I “giovani di serie” devono partecipare, salvo impedimenti per motivo di studio, di lavoro o di salute alle attività
addestrative ed agonistiche predisposte dalle società per il loro perfezionamento tecnico, astenendosi dallo svolgere attività
incompatibili anche di natura sportiva. Le sanzioni a carico dei “giovani di serie” vengono irrogate dalla Commissione Disciplinare
su proposta della società di appartenenza secondo le modalità previste dagli accordi collettivi. Le sanzioni non possono essere di
natura economica.
Per i tesserati delle società non contemplati nei precedenti commi le proposte di provvedimento sono inoltrate dalle società
al Collegio di Disciplina e di Conciliazione.
Le sanzioni a carico dei calciatori “giovani dilettanti” e “non professionisti”, indipendentemente dai provvedimenti
adottati d’ufficio dagli organi di giustizia sportiva, sono irrogati dalla Commissione Disciplinare competente su proposta della
società”.
36
Cfr. N.O.I.F. Titolo VII art. 91.
37
Cfr. art. 7 dell’Accordo Collettivo tra F.I.G.C. – L.N.P. – A.I.C. – Preparazione precampionato ed allenamenti. Partecipazione alle
gare. Trasferte –“La Società fornisce al calciatore attrezzature idonee alla preparazione e mette a sua disposizione un ambiente
consono alla sua dignità professionale. In ogni caso il calciatore ha diritto di partecipare agli allenamenti e alla preparazione
precampionato con la prima squadra, salvo il disposto di cui infra sub art. 11.
Salvo I casi di malattia od infortunio accertati, il calciatore deve partecipare a tutti gli allenamenti nelle ore e nei luoghi
fissati dalla Società, nonché a tutte legare ufficiali o amichevoli chela Società stessa intenda disputare tanto in Italia quanto
all’estero.
38
DOTTRINA
Il mobbing e il calcio……
I tesserati, bensì, “sono tenuti all’osservanza delle disposizioni emanate dalla F.I.G.C. e dalle
rispettive Leghe nonché alle prescrizioni dettate dalla società di appartenenza. I calciatori
professionisti e gli allenatori sono tenuti altresì all’ottemperanza degli accordi collettivi e di ogni
legittima pattuizione contenuta nei contratti individuali”38.
Da ciò consegue che il calciatore sarà tenuto a partecipare a tutti gli allenamenti, alla
preparazione precampionato, a tutte le gare ufficiali ed amichevoli, secondo le disposizioni
impartite dalla società di appartenenza39 “con l’osservanza delle istruzioni tecniche e delle
prescrizioni impartite per il conseguimento degli scopi agonistici”40. Come già evidenziato sono
questi gli obblighi integrativi della diligenza (art. 2104 comma 1 c.c.), obbedienza (art. 2104
comma 2 c.c.) e fedeltà (art. 2105 c.c.) cui è sottoposto il lavoratore di diritto comune.
Ad ogni modo, in caso di inosservanza di tali obblighi, la società sarà legittimata ad applicare
la sanzioni disciplinare che più riterrà opportuna al fine di ristabilire, con immediatezza ed
effettività, l’ordinato svolgimento dell’attività lavorativa. Tale disposizione, quindi, racchiude in se
gli obblighi del potere direttivo, di vigilanza e controllo e disciplinare cui il datore di lavoro di
diritto comune è tenuto ad applicare per raggiungere il risultato aziendale.
La società, perciò, in relazione alla gravità dell’infrazione commessa dal calciatore potrà
applicare41: una ammonizione scritta; una multa; una riduzione dei compensi; l’esclusione
temporanea dagli allenamenti o dalla preparazione precampionato con la prima squadra; la
risoluzione del contratto.
Alla luce di quanto sin qui asserito occorre in particolare soffermarsi sul caso in cui il
calciatore giunto a scadenza di contratto si rifiuta di rinnovarlo.
Partendo dal presupposto che lo sport professionistico fonda il proprio principio sulla libertà
contrattuale, ne consegue che a scadenza di contratto lo sportivo sarà libero di decidere se
rinnovarlo nuovamente oppure scegliere di vincolarsi presso altro sodalizio; di talché, ci si chiede se
In occasione di trasferte o ritiri il calciatore deve usufruire di adeguati mezzi di trasporto – di volta in volta stabiliti dalla
Società – a cura e spese della stessa, la quale è tenuta altresì a fornire al calciatore alloggio e vitto”.
L’art. 10 dell’Accorto Collettivo tra F.I.G.C. – L.N.P. – L.P. serie C – A.I.C. – Preparazione precampionato ed allenamenti –
“La Società si impegna a curare la migliore efficienza sportiva del calciatore, fornendo attrezzature idonee alla preparazione
atletica e mettendo a disposizione un ambiente consono alla sua dignità professionale.
In ogni caso il calciatore ha diritto a partecipare agli allenamenti e alla preparazione precampionato con la prima
squadra, salvo il disposto di cui all’art. 15 del presente accordo”.
38
Cfr. N.O.I.F. Titolo VII art. 91.
39
Cfr. art. 7.2 Accordo Collettivo tra F.I.G.C. – L.N.P. – A.I.C.; art. 13 Accorto Collettivo tra F.I.G.C. – L.N.P. – L.P. serie C – A.I.C.
40
Cfr. art. 10.1 Accordo Collettivo tra F.I.G.C. – L.N.P. – A.I.C.; art. 12 Accorto Collettivo tra F.I.G.C. – L.N.P. – L.P. serie C –
A.I.C.
41
Cfr. art. 11.1 Accordo Collettivo tra F.I.G.C. – L.N.P. – A.I.C.; art. 15 Accorto Collettivo tra F.I.G.C. – L.N.P. – L.P. serie C –
A.I.C.
39
DOTTRINA
Il mobbing e il calcio……
sia giusto escludere un calciatore dagli allenamenti per il solo fatto che questi non trovi un accordo
economico con la società.
Vero è che gli interessi economici in gioco sono molteplici.
Basti pensare al caso del calciatore il cui contratto di ingaggio annuo netto è pari ad €
400.000,00, tesserato per una società militante nel campionato di “serie B” e richiesto da numerose
società blasonate militanti nel campionato di “serie A” disposte ad ingaggiarlo a parametro zero 42
con un contratto annuo netto pari ad € 1.000.000,00.
Sicuramente questa operazione risulterebbe alquanto conveniente per il calciatore, ma meno
vantaggiosa per la società.
Le società, quindi, al fine di non perdere il calciatore a parametro zero sono ricorse a delle
vere e proprie forme di violenze psicologiche – manifestate anche con esclusioni dalle rose della
prima squadra – nei confronti di quei calciatori definiti dissenzienti con l’intento di costringerli a
rinnovare i contratti.
Ci si chiede, allora, se in tal caso sia possibile parlare di mobbing o di inadempienza
contrattuale.
A tal proposito, è appena il caso di evidenziare che il mobbing è comunemente definito come
una forma di molestia o violenza psicologica esercitata quasi sempre con intenzionalità lesiva,
ripetuta in modo iterativo che si manifesta con modalità polimorfe; l’azione persecutoria deve
essere intrapresa per un periodo determinato (stabilito in almeno sei mesi sulla base dei primi rilievi
svedesi), ma con ampia variabilità dipendente dalle modalità di attuazione e dai tratti della
personalità dei soggetti, con la finalità o la conseguenza dell’estromissione del soggetto da quel
posto di lavoro.
Ne consegue, pertanto, che per potersi ipotizzare casi di mobbing anche nel mondo del calcio
professionistico sembra necessario che:
a) la ripetizione e/o reiterazione delle azioni ostili, che le rende sistematiche, debba avere un
andamento progressivo valutabile in un arco di tempo di almeno sei mesi43;
b) la vessazione psicologica sia compiuta attraverso atti di contenuto tipico inerenti la gestione
del rapporto di lavoro, quali, il rinnovo del contratto o il trasferimento del calciatore presso
42
Acquisto a parametro zero è un termine utilizzato per definire l’acquisto di un calciatore senza pagare alcun indennizzo alla società
cui il calciatore risulta essere tesserato. Tale operazione, ovviamente, comporta minori costi per la società che non dovrà pagare alcun
il costo per il trasferimento alla società titolare delle prestazioni del calciatore.
43
Cfr. Leymann H., The Content and Development of Mobbing at Work, in Mobbing and Victimization at Work, European Journal of
Work and Organizational Psychology, V, 1996, 165, tale definizione è stata estratta da Meucci M., Considerazioni sul Mobbing,
Lavoro e Previdenza Oggi, 1999, 1954; Ege H., La valutazione peritale del danno da Mobbing, Giuffrè, Milano, 2002, 38.
40
DOTTRINA
Il mobbing e il calcio……
altro sodalizio sportivo44, le discriminazioni economiche45, i controlli esasperati, le sanzioni
disciplinari, i comportamenti di aggressione verbale consumati davanti a terzi o a dipendenti
della società, i comportamenti che si sostanziano in un vero e proprio allontanamento della
vittima dal gruppo con il suo conseguente isolamento;
c) si presenti come verticale discendente, frutto cioè di una strategia societaria (possono
prendere parte anche il direttore sportivo, l’allenatore ed il preparatore atletico; i
magazzinieri potrebbero intervenire per supportare le azioni vessatorie della società con
forme di mobbing ascendente). Inoltre, se il mobber46è la società (mobbing verticale
discendente) a supporto possono intervenire come co-mobber47(mobbing orizzontale) gli altri
calciatori48.
Fondamentale, inoltre, sarà non confondere quelle condotte che, pur potendo essere
manifestazione di mobbing, hanno comunque una loro rilevanza autonoma e appaiono già
riconducibili ad altre forme di tutela specifica. È questo il caso tipico dell’esclusione ingiustificata
del calciatore dagli allentamenti o dalla preparazione precampionato con la prima squadra, che trova
tutela nell’azione di reintegrazione così come prevista dagli accordi collettivi49.
Il vero valore aggiunto del mobbing, è dato comunque da quelle condotte che, di per sé, sono
considerate legittime, ma che valutate complessivamente e contestualizzate nell’ambito di un
intento persecutorio disegnano invece una situazione antigiuridica50.
Altro aspetto particolare, ai fini dell’eventuale accertamento del mobbing, sarà quello relativo
alla distinzione tra una reale situazione di mobbing ed il mero conflitto interpersonale51.
Il primo è riconducibile alla finalità soggettiva del mobber che è in ottica che è in un’ottica di
attacco, tesa ad emarginare e danneggiare, fino ad annientare psicologicamente – ed eventualmente
ad espellere – il mobbizzato, approfittando di una posizione di forza che può derivare dalla
gerarchia o da una mera supremazia psicologica acquisita di fatto per ragioni caratteriali. Il secondo
44
È il caso del calciatore Luis Antonio Jimenez Garces tesserato con la Ternana Calcio S.p.A. che non voleva rinnovare l’accordo
contrattuale.
45
È il caso del calciatore Diego Zanin tesserato con l’A.S. Montichiari S.r.l. che non voleva ridursi il proprio ingaggio, a giudizio
della società troppo elevato, a seguito della retrocessione della squadra dal campionato di serie C1 a quello di C2. Sul caso Zanin cfr.
P. Amato, Il mobbing nel mondo del calcio professionistico, Edus Law International, R.D.E.S., III, 2005, 60.
46
Per mobber s’intende colui che vessa i colleghi.
47
Per co-mobber s’intendono coloro che partecipano alle vessazioni come spettatori o complici (side-mobber).
Cfr. P. Amato, Il mobbing nel mondo del calcio professionistico, Edus Law International, R.D.E.S., III, 2005, 60 sul caso Zanin.
49
Cfr. art. 12.2 Accordo Collettivo tra F.I.G.C. – L.N.P. – A.I.C.; art. 16, comma 1, Accorto Collettivo tra F.I.G.C. – L.N.P. – L.P.
serie C – A.I.C.
50
Cfr. Buonvino L., Danno da demansionamento, mobbing e danno esistenziale, in Corso di aggiornamento professionale su “La
disciplina del rapporto di lavoro tra prassi e giurisprudenza” organizzato dall’U.D.A.I. di Bari, 2007.
51
Cfr. Trib. Cassino, 28 dicembre 2002.
48
41
DOTTRINA
Il mobbing e il calcio……
si concreta, invece, nella reciprocità degli attacchi che conducono solitamente ad una dinamica di
tipo azione-reazione nel quale, di regola, la vittima subisce delle vessazioni senza poter più di tanto
reagire o difendersi. Ne consegue, pertanto, che ai fini dell’eventuale accertamento sarà opportuno
valutare comparativamente la sistematicità dei comportamenti vessatori, il reiterarsi nel tempo,
l’unitaria e intenzionale finalizzazione di tali comportamenti tesi allo svilimento della
professionalità del calciatore e alla mortificazione della sua dignità52.
Da ultimo, sarà opportuno che la diagnosi sia fatta da una équipe multidisciplinare di
specialisti che operano in parallelo e si coordinano tra loro53. Le figure professionali coinvolte
saranno:
•
il Medico del Lavoro (con particolare riferimento all’anamnesi lavorativa e all’analisi
dell’organizzazione del lavoro);
•
lo Psicologo del Lavoro, per l’analisi e la valutazione dei fattori di rischio, cosiddetti
trasversali, in particolare quelli d’ordine sociale e psicologico;
•
il Medico Psichiatra, per la determinazione della tipologia della reazione ad evento
determinatasi e cioè la diagnosi psichiatrica (DDA, DAS e DPTS);
•
lo Psicologo Clinico, per l’analisi e la valutazione delle manifestazioni psicopatologiche
attuali e/o pregresse, attraverso la somministrazione di batterie di test mirati;
•
il Medico Legale, per la valutazione analitica della sussistenza di un nesso di causalità con il
comportamento del mobber e per la individuazione di un eventuale danno biologico.
Una volta accertati i requisiti di sostanza e di forma del mobbing, l’accordo collettivo54
riconosce al calciatore il diritto ad una duplice tutela, il risarcimento del danno e/o la risoluzione
contrattuale.
52
Cfr. Trib. Milano, 4 gennaio 2006; Trib. Torino, 25 ottobre 2004; Trib. Cassino, 18 dicembre 2002.
Cfr. AA.VV., Un nuovo rischio all’attenzione della medicina del lavoro: le molestie morali (mobbing), in La Medicina del Lavoro,
XCII, 1, 2001, Mattioli, Fidenza.
54
Cfr. art. 12 Accordo Collettivo tra F.I.G.C. – L.N.P. – A.I.C.; art. 16 Accorto Collettivo tra F.I.G.C. – L.N.P. – L.P. serie C – A.I.C.
53
42
DOTTRINA
Il mobbing e il calcio……
Per quanto attiene alle voci di danno55, i rimedi possibili si ricollegano alle usuali categorie di
quello patrimoniale56, biologico57, morale58 ed esistenziale59.
Sulla scorta delle osservazioni sin qui svolte, deve perciò concludersi che il mobbing non va
confuso con quelle situazioni limitrofe che si manifestano ordinariamente. Bisogna quindi
distinguere un fatto da un fattoide, ovvero, un avvenimento che non è un fatto da quello che ne ha
solo l’apparenza60.
Ove ciò non dovesse accadere, occorre considerare che le “false accuse di mobbing possono
trasformarsi a loro volta in un temibile strumento di mobbing”61 e, cioè, il mobbizzato diventa la
società sportiva e non più lo sportivo.
(*) psicologa in Foggia
(**) magistrato del lavoro presso il Tribunale di Foggia
(***) praticante avvocato presso il Foro di Foggia
55
Cfr. L. Buonvino, Danno da demansionamento, mobbing e danno esistenziale, in Corso di aggiornamento professionale su “La
disciplina del rapporto di lavoro tra prassi e giurisprudenza” organizzato dall’U.D.A.I. di Bari, 2007.
56
Il danno patrimoniale, nelle due componenti del danno emergente e lucro cessante, è quello che incide direttamente sulla capacità
di guadagno e di lavoro del mobbizzato. Sono contemplate, dunque, le spese sostenute per le cure mediche e riabilitative e le altre
spese conseguenza diretta dell’evento dannoso; il danno futuro determinato dal minor reddito quale conseguenza della ridotta
capacità di guadagno (Cfr. Cass. Civ., 27 luglio 2001, n. 10289). Inoltre, vi è il danno alla professionalità ove sia stato impedito il
completo svolgimento delle mansioni e si sia determinata una mortificazione delle capacità e aspettative professionali.
57
Il danno biologico, che consiste nella menomazione dell’integrità psicofisica in quanto tale; esso va al di là della lesione
all’attitudine a produrre ricchezza, ma comprende tutti i riflessi pregiudizievoli rispetto a tutte le attività e rapporti attraverso cui il
soggetto realizza la sua vita e la sua personalità.
58
Il danno morale è quello che, tradizionalmente, si ricollega ai patimenti e alle sofferenze subite in conseguenza di un reato.
Tuttavia, a seguito della pronunce della Corte di Cassazione del 2003 (cfr. Cass. Civ., 31 maggio 2003, n. 8827; Cass. Civ., 18 giugno
2002, n. 8828) e della Corte Costituzionale (cfr. Corte Cost., 11 luglio 2003, n. 233) lo spettro di operatività di tale voce di danno è
stato ampliato; sicché può parlarsi di danno morale soggettivo (il pretium doloris) inteso come sofferenza interiore di carattere
temporaneo e transeunte che risulta risarcibile a prescindere dall’integrazione di una fattispecie di reato ex art. 185 c.p.
59
Il danno esistenziale, va inteso come ogni pregiudizio – di natura non genericamente emotiva ma oggettivamente accertabile –
provocato sul fare areddittuale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali, inducendolo a scelte di vita diverse e i
cui indici sintomatici sono la durata della condotta illecita, la gravità, la conoscibilità all'interno ed all’esterno del luogo di lavoro
dell’operata dequalificazione, la frustrazione di precisate e ragionevoli aspettative di progressione professionale, ricadute negative
nelle abitudini di vita del lavoratore (Cfr. Cass. Civ., S.U., 24 marzo 2006, n. 6572). Esso si distingue dal danno patrimoniale perché
prescinde dal danno reddituale; dal danno biologico perché può esistere anche a prescindere dalla sussistenza di una lesione al bene
salute; dal danno morale perché non si identifica con il patimento immediato e temporaneo, determinato dall’evento subito.
60
Cfr. G. Gulotta, Il vero e il falso mobbing, Giuffrè, Milano, 2007, 3.
61
Cfr. punto 5 della Risoluzione del Parlamento Europeo A5-0283/2001-2001/2239 (INI) – del 20 settembre 2001.
43
DOTTRINA
Anche le ASD e le SSD……
ANCHE LE ASD
E LE
SSD
ALCUNE RIFLESSIONI SUL
POSSONO
“DELINQUERE”:
D.LGS. N.231/2001.
di Massimiliano Giua (*) e Pietro Accardi (**)
Nel 2001 il Decreto Legislativo 231 ha introdotto la c.d. responsabilità amministrativa di enti
e società per reati commessi da propri dirigenti e/o dipendenti nell’esclusivo interesse ed a
vantaggio della società/ente in cui operano. Tra i soggetti destinatari sono ricomprese, di fatto,
anche ASD e SSD.
La norma, però, presenta – ad un più attento esame – alcune criticità assolutamente
significative.
SOMMARIO:
1. Premessa;
2. Principi generali;
3. Autori del reato-presupposto;
4. Autonomia delle responsabilità dell’associazione;
5. Autore non identificato/non imputabile;
6. Estinzione del reato;
7. Casi di improcedibilità
44
DOTTRINA
Anche le ASD e le SSD……
1. Premessa
Dalla sua entrata in vigore, tanto si è scritto sul decreto legislativo 8 giugno 2001, n.231 e
sulla nuova figura di responsabilità amministrativa di cui rispondono le società, gli enti1 ed anche le
associazioni anche prive di personalità giuridica per illeciti derivanti da reato.
In questa sede gli Autori vogliono analizzare la tematica non nella sua completezza ma
limitatamente ad alcuni aspetti, fornendo, più che altro, alcuni spunti di riflessione.
2. Principi generali
Prima di entrare nel vivo delle considerazioni – e per meglio inquadrarle – si ritiene utile una
breve introduzione su quelli che sono i principi generali ed i presupposti oggettivi e soggettivi della
responsabilità amministrativa di enti e società.
Il Decreto legislativo n.231/01 ha introdotto, infatti, la responsabilità degli enti per gli illeciti
amministrativi dipendenti da reato, enti nel cui ambito – lo ricordiamo – rientrano tutti i soggetti
forniti di personalità giuridica, le società e le associazioni anche prive di personalità giuridica2.
Rimangono, di conseguenza, esclusi – per espressa volontà del legislatore – lo Stato, gli enti
pubblici territoriali, gli altri enti pubblici non economici e gli altri enti che svolgono funzioni di
rilevanza costituzionale.
Anche nel caso della responsabilità amministrativa in esame si applica il principio di legalità,
nel senso che l’associazione non può essere ritenuta responsabile per un fatto costituente reato, se la
connessa responsabilità amministrativa e le conseguenti sanzioni non sono espressamente previste
da una legge entrata in vigore prima della commissione del reato-presupposto3, inteso come
presupposto oggettivo della responsabilità amministrativa stessa.
Con riguardo, poi, alla successione di leggi nel tempo, l’ente non può essere ritenuto
responsabile per un fatto che secondo una legge posteriore non costituisce più reato o in relazione al
quale non è più prevista la responsabilità amministrativa dell’associazione e – se vi è condanna – ne
cessano sia l’esecuzione che gli effetti giuridici4.
1
Forniti di personalità giuridica
Per brevità, nel presente studio si farà riferimento alle sole associazioni, intese però in senso omnicomprensivo.
3
come ben chiarisce la relazione ministeriale sul D.Lgs. n.231/01, il principio di legalità viene qui espresso nelle sue accezioni di
tassatività (“non sono espressamente previste”), riserva di legge (“da una legge”) ed irretroattività (“entrata in vigore prima della
commissione del fatto”).
4
Ancora, se la legge del tempo in cui è stato commesso l’illecito e le successive sono diverse, si applica quella le cui disposizioni
sono più favorevoli, salvo che sia intervenuta pronuncia irrevocabile.
2
45
DOTTRINA
Anche le ASD e le SSD……
3. Autori del reato-presupposto
La ASD/SSD è amministrativamente responsabile per i reati-presupposto5 commessi “nel
suo interesse6 o a suo vantaggio7” da:
persone che rivestono funzioni di rappresentanza, amministrazione o direzione della
ASD/SSD o di sua unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale;
persone che esercitano, anche di fatto, la gestione ed il controllo del soggetto sportivo
dilettantistico o di sua unità organizzativa autonoma (è il cd. amministratore di fatto);
persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza di uno dei soggetti di cui ai punti
precedenti8.
Peraltro, viene – correttamente a parere di chi scrive – esclusa la responsabilità del soggetto
sportivo dilettantistico nel caso in cui le persone (che ricoprono incarichi “apicali” ovvero soggette
“all’altrui direzione”) hanno agito nell’ “interesse esclusivo proprio o di terzi”.
Per quanto riguarda i reati commessi dai soggetti appena indicati, e la conseguente
responsabilità amministrativa dell’associazione, si individua, nella lettura della norma, una duplice
situazione:
inversione dell’onere della prova: nel caso di reati commessi dai soggetti in posizione apicale
(la cd. dirigenza) è l’associazione a dover dimostrare di non essere responsabile e di essersi attenuta
agli obblighi sanciti dalla norma in esame. Tale inversione dell’onere della prova è giustificato dal
fatto che, per il cosiddetto principio di immedesimazione organica, il legislatore presume che i
soggetti “apicali” meglio conoscano la strategia associativa/societaria9;
onere della prova a carico dell’A.G: nel caso di reati commessi da soggetti dipendenti è
l’accusa a dover dimostrare la cd. “colpa di organizzazione”, cioè l’inosservanza degli obblighi di
5
6
7
8
9
Per brevità si ricorda che i cd. reati-presupposto sono quelli previsti dal D.Lgs.n.231/01, come modificato ed integrato negli ultimi
anni da numerosi interventi legislativi
l’interesse dell’associazione, come si legge nella relazione ministeriale al D.Lgs. n.231, caratterizza in senso marcatamente
soggettivo la condotta delittuosa della persona fisica e richiede, ai fini del suo verificarsi, una verifica ex ante
il vantaggio può essere tratto dall’associazione anche qualora la persona fisica non abbia agito nell’interesse dell’ente medesimo.
Tale aspetto necessita di una verifica a posteriori
come evidenziato da B.ASSUMMA, Enti responsabili se c’è la <<colpa>>, in Il Sole24ore del 21 maggio 2004, in tale novero di
persone non possono rientrare i collaboratori esterni; secondo l’Autore, infatti, “”l’autonomia giuridica dei collaboratori esterni,
che possono essere persone fisiche o società di capitali, non consente di estendere i modelli organizzativi della società mandante
anche a loro ovvero di effettuare attività di controllo nei loro riguardi. Al più si potranno prevedere clausole contrattuali che
impongono il rispetto delle regole etiche accolte dalla mandante”.
Per tutti, si veda U.NANNUCCI, Responsabilità delle società – D.Lgs. 8 giugno 2001, n.231, in Il fisco n.9/2003, secondo cui
“”quando l’autore del reato è persona legittimata secondo la struttura statutaria a rappresentare la volontà dell’ente sembra evidente
che per effetto del rapporto di immedesimazione organica tra persona fisica e persona giuridica la volontà dolosa dell’individuo è al
tempo stesso volontà dell’ente, e non si vede come possa distinguersi volontà diversa da quella di chi lo impersonifica””.
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Anche le ASD e le SSD……
direzione o vigilanza che ha reso possibile la commissione del reato ovvero l’inefficacia del
modello di organizzazione, gestione e controllo.
4. Autonomia delle responsabilità dell’associazione
Principio generale fondamentale, e qui iniziamo ad affrontare una delle problematiche
oggetto del presente studio, è quello dell’autonomia della responsabilità del soggetto sportivo
dilettantistico10.
Dispone, infatti, il legislatore che la responsabilità amministrativa sussiste in capo
all’ASD/SSD anche nel caso in cui:
l’autore del reato non è stato identificato o non è imputabile;
il reato si estingue per una causa diversa dall’amnistia11.
E’, quindi, di chiara evidenza che in capo all’ASD/SSD gravi un titolo autonomo di
responsabilità, ancorché necessitante di un reato-presupposto. Sul punto, la relazione ministeriale
così si esprime:””se infatti il meccanismo punitivo è stato congegnato in modo tale da rendere le
vicende (processuali) delle persone fisiche e quelle dell’ente tra loro strettamente correlate (il
simultaneus processus risponde non soltanto ad esigenze di economia, ma anche alla necessità di
far fronte alla complessità dell’accertamento), ciò non toglie che in talune limitate ipotesi,
l’inscindibilità tra le due possa venir meno””.
5. Autore non identificato/non imputabile
Come abbiamo appena evidenziato, una delle cause di scindibilità tra procedimento penale
relativo al reato-presupposto e procedimento per responsabilità amministrativa (e relativa
autonomia di quest’ultimo) è rappresentata proprio dalla mancata identificazione o non imputabilità
dell’autore materiale del reato.
10
11
Art.8 D.Lgs. n.231/01
Con riguardo all’amnistia, ricorda l’art.8, comma 2 del D.Lgs.231 che, salvo che la legge non disponga altrimenti, non si può
procedere nei confronti dell’associazione nel caso in cui sia concessa amnistia per un reato-presupposto e l’imputato abbia
rinunciato alla sua applicazione.
47
DOTTRINA
Anche le ASD e le SSD……
Sul punto si ricorda, peraltro, che – secondo la regola generale - la competenza a conoscere
gli illeciti amministrativi dell’ente associativo appartiene al giudice penale competente per i reatipresupposto12 e che, nell’ambito del procedimento di accertamento dell’illecito amministrativo in
esame si osservano le disposizioni processuali collegate ai reati-presupposto13. Ancora, il
procedimento per l’illecito amministrativo dell’ente sportivo è riunito al procedimento penale
instaurato nei confronti dell’autore del reato-presupposto14.
In deroga a tali principi generali, l’art.8 del D.Lgs n.231/01 sancisce l’autonomia del
procedimento per responsabilità amministrativa anche nel caso di autore del reato non identificato o
non imputabile.
Sul punto, nella relazione ministeriale si legge che nel caso di reato commesso da autore non
identificato “”ci si trova di fronte ad un reato completo di tutti i suoi elementi e giudizialmente
accertato, sebbene il reo … non risulti punibile””. Ancora, secondo la medesima relazione, in tale
circostanza non vi sarebbe stata alcuna ragione di escludere la responsabilità dell’ente in quanto
quello della mancata identificazione della persona fisica che ha commesso il reato è un fenomeno
tipico nell’ambito della responsabilità d’impresa, anzi “”esso rientra proprio nel novero delle
ipotesi in relazione alle quali più forte si avvertiva l’esigenza di sancire la responsabilità”” in
esame.
Di conseguenza, in tutte quelle ipotesi in cui, causa la complessità dell’assetto organizzativo
interno, non sia possibile ricondurre la responsabilità penale in capo ad uno specifico soggetto, e
venga comunque accertata la commissione di un delitto, l’ ASD/SSD ne dovrà rispondere sul piano
amministrativo, “”a condizione che sia ad esso imputabile una colpa organizzativa consistente
nella mancata adozione ovvero nel carente funzionamento del modello”” di organizzazione,
gestione e controllo.
Pur se sul piano strettamente nozionistico tale assunto ha una sua ragione, gli Autori non
possono condividerlo, per i motivi di seguito riportati.
Come ricordato in diversi passaggi della relazione ministeriale, anche nel caso di
responsabilità amministrativa disciplinata dalla norma in esame si applica l’art.27 Cost. secondo cui
“”la responsabilità penale è personale””15.
12
Art.36, comma 1 D.Lgs. n.231/2001
Art.36, comma 2 D.Lgs. n.231/2001
14
art.37 D.Lgs. n.231/2001
15
il punto 3.2 della relazione così recita: “”ribadito ancora una volta che anche la materia dell’illecito penale-amministrativo è
assoggettata al dettato costituzionale dell’art.27””.
13
48
DOTTRINA
Anche le ASD e le SSD……
Inoltre, ai fini della responsabilità oggetto del presente studio, il reato dovrà essere – oltre che
espressione della policy associativa ovvero derivante da colpa organizzativa – collegabile all’ente
sul piano oggettivo, nei già ricordati termini di interesse e/o vantaggio. E certamente, come peraltro
evidenziato da autorevole dottrina16, se già non risulta agevole dimostrare l’intenzione dell’agente di
operare nell’interesse o a vantaggio dell’ente associativo, ancor meno agevole risulterà poter
dimostrare questa voluntas nel caso in cui l’agente sia sconosciuto.
Peraltro si deve anche ricordare che la responsabilità dell’associazione è esclusa qualora gli
autori abbiano “”agito nell’interesse esclusivo proprio o di terzi””.
Ma come si potrebbe dimostrare questo interesse esclusivo se l’autore non viene identificato?
Si ricordi, infatti, che l’interesse – riguardante la volontà/proposito dell’autore materiale del reato –
deve essere valutato ex ante.
Tale problema che qui abbiamo sollevato mostra le proprie ripercussioni anche nelle ipotesi di
riduzione della sanzione pecuniaria: la sanzione pecuniaria è ridotta qualora l’autore del reato abbia
commesso il fatto nel prevalente interesse proprio o di terzi e l’ente non ne ha ricavato alcun
vantaggio o – quantomeno – un vantaggio minimo. In questa ipotesi sono necessarie due condizioni
contestuali, la seconda delle quali (il vantaggio minimo o nullo), peraltro, facilmente dimostrabile,
in quanto abbisogna di una mera valutazione ex post per quantificare in concreto il risultato della
condotta.
Ma come si dimostra il “”prevalente interesse”” dell’autore o di terzi se l’autore resta ignoto?
Ad adiuvandum, altro aspetto da evidenziare in questa sede è rappresentato dall’art.5 del
D.Lgs. n.231, il quale individua chiaramente i soggetti attivi dei reati da cui possa scaturire la
responsabilità amministrativa degli enti, assimilando tale responsabilità alla figura dei cd. “reati
propri”17. Non si riesce a comprendere – di conseguenza – come possa ravvisarsi responsabilità in
capo all’ente in caso di mancata identificazione dell’autore materiale del reato che costituisce – lo
ricordiamo – “antecedente necessario per l’insorgenza”” della suddetta responsabilità
amministrativa18.
16
U. NANNUCCI, cit.
i reati propri sono quelli che possono essere commessi solo da “soggetti qualificati”. In questo caso, i soggetti in posizione apicale
o quelli “soggetti all’altrui direzione”.
18
di parere concorde si dimostra, F. CHIRICO, Le indagini finalizzate all’accertamento della responsabilità amministrativa delle
società e degli enti, in Fiscooggi.it giornale telematico dell’Agenzia delle Entrate. Secondo l’Autore, infatti, l’art.8, lettera a)
stride con la struttura della nuova forma di responsabilità de qua la quale “”presuppone la sussistenza di un legame funzionale
che riconduca l’autore materiale del reato alla struttura organizzativa dell’ente di appartenenza””. Ancora, l’Autore non
comprende come “”possa prescindersi dall’individuazione dell’autore materiale del reato laddove l’art.5 del provvedimento
richiede una valutazione ex ante dell’interesse che ha mosso l’autore (necessaria per la configurabilità di responsabilità in capo
all’ente) e l’art.12 individua tra le cause che determinano la riduzione della sanzione pecuniaria il fatto che l’autore abbia
commesso il fatto nel prevalente interesse proprio o di terzi””.
17
49
DOTTRINA
Anche le ASD e le SSD……
In conclusione, la mancata individuazione dell’autore del reato comporterebbe la mancanza
dei presupposti necessari per la sussistenza della responsabilità dell’ ASD/SSD e per la
qualificazione della sanzione19.
Sul punto, si avverte la necessità di un intervento chiarificatore del legislatore.
6. Estinzione del reato
Altra ipotesi di responsabilità autonoma dell’ASD/SSD prevista dall’art.8 (lettera b) del
decreto si verifica nel caso di estinzione del reato, in capo all’autore, per cause diverse
dall’amnistia20.
Di contro, l’art.60 stabilisce che non può procedersi ad alcuna contestazione nel caso in cui il
reato-presupposto sia estinto per prescrizione.
Come si raccordano queste due norme, in apparenza contraddittorie? Secondo parte della
dottrina, l’art.60 “”vieta la contestazione a prescrizione avvenuta, mentre il procedimento per
l’illecito si mantiene in vita se, dopo la contestazione, si estingue il reato per causa diversa
dall’amnistia””21. Chi scrive avverte, comunque, la necessità di un intervento da parte del
legislatore a chiarimento di tale problematica, di non poco conto.
7. Casi di improcedibilità
Ultimo spunto di riflessione è rappresentato dall’art.37, che disciplina i casi di
improcedibilità. Secondo quanto stabilito dal legislatore, non si procede all’accertamento
dell’illecito amministrativo qualora l’azione penale nei confronti dell’autore del reato non possa
essere iniziata o proseguita per la mancanza di una condizione di procedibilità.
Come si ricorda, le condizioni di procedibilità sono disciplinate dal libro V, titolo III del
codice di procedura penale, in ottemperanza al dettato dell’art.34 secondo cui “”per il procedimento
relativo agli illeciti amministrativi dipendenti da reato, si osservano le norme …in quanto
compatibili, del codice di procedura penale””.
19
Si veda anche F. CHIRICO, Le indagini finalizzate all’accertamento della responsabilità amministrativa delle società e degli enti,
cit.
20
art.150 e seguenti del cod.pen.
21
U. NANNUCCI, cit
50
DOTTRINA
Anche le ASD e le SSD……
Tra le condizioni di improcedibilità viene individuata anche la remissione di querela, previsto
dall’art.340 c.p.p.. Tale istituto, però, viene disciplinato anche dall’art.152 cod.pen.22, secondo cui
“”estingue il reato””.
Ma il D.Lgs. 231/01 non stabilisce l’autonoma responsabilità dell’ente associativo nel caso di
estinzione del reato per causa diversa dall’amnistia? In caso di risposta positiva, come si conciliano
queste due disposizioni (artt.5 e 37), tra loro contraddittorie?
Anche in questo caso sarebbe opportuno un ulteriore intervento chiarificatore del legislatore.
(*) Esperto fiscale e pubblicista in Torino. Cultore di “Diritto Commerciale” all’Università di Torino
(**) Esperto fiscale in Torino
22
inquadrato nel Libro I, Titolo VI, capo I “della estinzione del reato”
51
DOTTRINA
PARTE SECONDA
NOTE A SENTENZA
SOMMARIO:
ANDREA DEL VECCHIO,
Il caso Mastrangelo: luci e ombre della qualificazione
giuridica dell'atleta "dilettante"
pag.53
GIACINTO PELOSI,
La (non?) assoggettabilità dei componenti dei Collegi
Arbitrali al vincolo di giustizia ex art. 30 dello Statuto della F.I.G.C
pag.66
ERNESTO MESTO,
pag.80
Il caso Camilleri: il difficile rapporto tra il vincolo ex art. 33
NOIF e le fughe all’estero dei giovani calciatori
52
Il caso Mastrangelo...
Il Giudice del lavoro, dott.ssa O.P., sciogliendo la riserva presa all'udienza del 9 ottobre 2008,
ha pronunziato la seguente
ORDINANZA
Nel procedimento ex art. 700 c.p.c. iscritto sub RG ………/2008 promosso da:
Mastrangelo Luigi (avv.ti L.F. e F.F., elettivamente domiciliato…..)
contro: M.Roma Volley spa- società sportiva dilettantistica- in persona del suo legale
rappresentante pro tempore sig.M. M. (avv. E.C.B. e avv.ti P.S. e L.N. ed elettivamente
domiciliata….)
nonché contro: FIPAV - Federazione Italiana Pallavolo- in persona del legale rappresentante
in carica, il Presidente C. M. (avv.G. G. ed elettivamente domiciliata ………..)
Il giudice osserva quanto segue.
Con ricorso d'urgenza depositato il 20 settembre 2008 Luigi Mastrangelo, premesso di avere
sottoscritto un contratto a tempo determinato di prestazione sportiva in qualità di atleta con la
società sportiva dilettantistica M.Roma Volley con durata fino al termine della stagione sportiva
2009/2010, esponeva:
che sin dal primo campionato svolto egli aveva ottenuto importanti riconoscimenti per le sue
eccellenti prestazioni atletiche meritandosi il premio di "miglior centrale" della stagione cd aveva
continuato sempre ai massimi livelli sia nell'ambito del campionato nazionale sia di quello
internazionali, tant'è che la squadra si era classificata al quarto posto nel campionato "Al” e che il
24 marzo 2008 aveva conquistato il primo trofeo internazionale della sua storia, aggiudicandosi la
Coppa CEV; che pertanto aveva ottenuto importanti risultati sportivi, di squadra ed individuali, in
Italia ed all' estero, essendo entrato a far parte stabilmente del team della Nazionale e perché
convocato per le Olimpiadi di Pechino dell'anno in corso.
53
NOTE A SENTENZA
Il caso Mastrangelo...
Ciò premesso, lamentava che la società aveva cominciato s in dal giugno di quest'anno a
dimostrare un atteggiamento ostativo alla prosecuzione del rapporto ed alla sua crescita
professionale in quanto, dapprima egli veniva informato dal suo procuratore che era stata offerta la
sua cessione a d altre società e poi, dopo che la convenuta aveva deciso di non presentare la
richiesta di iscrizione al Campionato di serie Al, circostanza che la faceva retrocedere
automaticamente in A2, quest'ultima gli aveva prospettato l'interruzione del rapporto a fronte di un
'inadeguata contropartita economica e dell'impegno della società M.Roma Volley di non ostacolarlo
nel collocamento presso altra squadra.
Esponeva ancora che la convenuta in data 20.6.2008 inviava una disdetta del contratto di
locazione al proprietario dell'alloggio messogli a disposizione quale beneficio aggiuntivo rispetto al
compenso pattuito.
Lamentava quindi, che dopo ulteriori "scambi" con la società che manifestava l'impossibilità
di proseguire il rapporto per l'eccessiva onerosità del contratto, e che avevano avuto anche una certa
risonanza mediatica (docc.3 e 4), in data 20 agosto 2008 gli veniva recapitata la lettera di
licenziamento per l'asserita giusta causa.
Deducendo in via preliminare l'inapplicabilità al caso concreto dell'art.20 comma 2 dello
Statuto FIPAV, che rinvia all'art.2 del D.L. 19 agosto 2003 convertito nella legge 17 ottobre 2003
n.280, quanto alla riserva in via esclusiva alla giustizia sportiva della competenza in relazione alle
questioni di natura tecnica e di natura disciplinare degli sportivi dilettanti, precisando che la propria
domanda aveva natura economica ed esponendo altresì la sussistenza del fumus boni juris in merito
all'applicabilità delle norme ordinarie in caso di recesso ante tempus del contratto e del periculum in
mora poiché l'inattività forzata per un periodo anche brevissimo lo pregiudicava nella possibilità
futura di recuperare la forma fisica per continuare a giocare ai massimi livelli anche per una squadra
diversa, concludeva chiedendo la riammissione/reintegrazione nel rapporto nonché la condanna
della convenuta al pagamento delle retribuzioni maturate e non corrisposte e l'accertamento del
diritto di rimanere nell'alloggio in cui vive con la propria famiglia composta dalla moglie e due figli
molto piccoli.
In via subordinata, di mancato accoglimento della domanda principale, chiedeva ordinarsi alla
FIPAV di disapplicare, in riferimento al suo caso peculiare, la disciplina di cui alle "Norme Generali
per l'Affiliazione e il Tesseramento - Norme per il tesseramento degli atleti" paragrafo
"Trasferimenti" nonché la disciplina di cui alla lett.E "Norme sulla durata e sulle modalità di
scioglimento del vincolo per gli atleti di Serie Al e A2 Maschile per la stagione 2008/2009
54
NOTE A SENTENZA
Il caso Mastrangelo...
"consentendo la variazione di tesseramento senza limitazioni temporali e senza oneri economici a
carico del nuovo datore di lavoro, nonché ordinare alla Federazione stessa di disapplicare ogni
ulteriore norma, formalità o prassi che possa limitare o condizionare la prosecuzione dell 'attività
lavorativa del ricorrente, quale pallavolista, per qualunque club disposto ad assumerlo, all'Italia o
all'Estero ".
Instauratosi il contraddittorio si costituiva la società M.Roma Volley che contestava il ricorso
chiedendone il rigetto.
In via preliminare la società eccepiva il difetto dell'AGO adita per essere competente
l'ordinamento sportivo ai sensi della legge 17.10.2003 n.280, l'insussistenza dei presupposti del
fumus boni juris e del periculum in mora, tenuto conto, quanto al primo requisito, che alla luce
degli elementi di prova allegati al ricorso doveva ritenersi inapplicabile la disciplina codicistica sul
lavoro subordinato, per essere applicata quella di cui agli artt.2222 c.c. e seguenti in ordine ai
rapporti di collaborazione, e quanto al secondo requisito che non era stato indicato ancora una volta
nessun elemento di prova utile ad individuare o soltanto paventare la possibilità di un danno alla
salute o l'imminenza di un preciso e reale danno alla carriera desumibile dallo stato degli atti.
Concludeva per il rigetto del ricorso, vinte le spese.
Si costituiva la Federazione Italiana Pallavolo che eccepiva preliminarmente il difetto di
giurisdizione del Tribunale ordinario adito in favore del Giudice amministrativo in applicazione
delle nonne speciali che ne caratterizzano il rapporto, nonché l'insussistenza dei presupposti per
l'emanazione di un provvedimento d'urgenza tenuto conto, quanto al periculum in mora che la
domanda svolta nei confronti della federazione era soltanto "eventuale e subordinata" e che
rappresenta il pericolo non attuale che la federazione adotti un provvedimento ne i confronti
de1l'atleta; quanto al fumus boni juris che essa rimaneva estranea e terza rispetto a qualsiasi
rapporto di natura patrimoniale intercorso tra l'atleta e la società e per questo non poteva essere
invocato un suo intervento su questo aspetto.
Concludeva chiedendo che fosse dichiarati il difetto di giurisdizione del Giudice adito ed in
subordine l'inammissibilità delle domande svolte per genericità e carenza di interesse ad agire. Vinte
le spese.
All'udienza del 9 ottobre 2008, il Giudice, dopo la discussione delle parti, SI riservava di
decidere.
La principale domanda cautelare non può essere accolta difettando del requisito del fumus
boni juris.
55
NOTE A SENTENZA
Il caso Mastrangelo...
La lettera di recesso intimata al ricorrente in data 20 agosto 2008 ha ad oggetto la violazione
del codice di comportamento CONI, la violazione dei principi di correttezza, professionalità e
probità di cui agi artt. 17.3 dello Statuto F IP A V, 19.2 Lett.a e b R.A.T. nonché dell' art. 4 del
contratto associativo sportivo e reca quali motivazioni:
1) inadempimento all'obbligo ad indossare le calzature fornite dalla società sportiva;
2) mancata partecipazione agli allenamenti, senza giustificato motivo;
3) mancata collaborazione, educazione e correttezza con lo staff tecnico e con gli altri
giocatori della squadra;
4) autogestione del suo stato fisico a discapito della società sportiva, in contrasto con il
referto medico sportivo;
5) comportamenti incompatibili con l'immagine pubblicitaria recata dagli sponsor principali
della società, nonché dichiarazioni offensive nei confronti dei dirigenti e giocatori s.s.;
6) rifiuto a partecipare alla fase finale della Coppa Italia 2008 e alla Coppa CEV 200R;
7) violazione dei principi di lealtà, correttezza e probità;
La parte ricorrente deduce che l'impugnazione del superiore atto di recesso sia avvenuta per
motivi puramente economici, in quanto egli domanda di potere essere riassunto per continuare a
giocare c on la propria squadra, prescindendo da ogni ragione di carattere disciplinare o tecnico che
determinerebbero l'applicazione delle norme speciali in materia di competenza delle controversie
sportive.
Il ricorrente invoca altresì le norme che disciplinano il rapporto di lavoro subordinato, il cui
accertamento, secondo la sua prospettazione, risulta presupposto logico-giuridico all'accertamento
dei motivi di recesso Per la consequenziale applicazione delle norme civilistiche in materia.
L'assunto appare infondato.
E' stato ampiamente affrontato negli atti processuali ed è largamente noto, che il [avor nel
confronti del lavoratore che caratterizza la legislazione giuslavoristica italiana, si manifesta, con
riferimento alla disciplina della cessazione del rapporto di lavoro, in una serie di limitazioni poste
alla libera recedibilità da parte del datore di lavoro, nonché dell' apprestamento di idonei strumenti
di tutela a favore del lavoratore illegittimamente licenziato.
Tale complessa ed articolata tutela apprestata dal legislatore italiano contro i licenziamenti
illegittimi di cui alle norme della legge n.300/70, della legge n.604/1966 e n.l08/1990 che ha
modificato in parte l'art.18 Statuto dei Lavoratori, non si applica, tuttavia al lavoro sportivo.
56
NOTE A SENTENZA
Il caso Mastrangelo...
E' appena il caso di evidenziare, che nell'ambito' del lavoro sportivo deve distinguersi il
lavoro dello sportivo professionista da quello dilettantistico secondo la suddivisione che si ricava
dalla legge n. 91/1981 che all'art.2 demanda alle federazioni di ciascuno sport la definizione nell'un
modo o nell'altro.
Nel caso che ci interessa, la FIPAV ha optato per la scelta dilettantistica e quindi tutte le
società ad essa affiliate sono qualificate come società sportive dilettantistiche, anche nel caso come
il presente, in cui giocano ai massimi livelli.
Si esclude quindi, nel caso che ci occupa, l'applicazione delle norme di disciplina della legge
91/81 cito proprio in virtù della disposizione invocata (cfr.da ultimo Cass.sez.lav.11.4.2008 n.9551)
che peraltro all'art.3 contempla la possibilità di qualificare gli sportivi professionisti come lavoratori
subordinati. Ne consegue che il rapporto di lavoro degli sportivi "dilettanti" deve essere qualificato
di volta in volta, tenendo conto dei noti indici rivelatori di elaborazione giurisprudenziale e che
consentono di ritenere subordinato il rapporto anche a prescindere dalla qualificazione formale
contenuta nel contratto di ingaggio dello sportivo.
Orbene, alla luce della prospettazione invocata dalla parte, con i limiti della sommarietà del
presente giudizio, anche ove volessero ravvisarsi nel rapporto gli elementi tali da condurre alla
qualificazione invocata difformemente allo schema contrattuale che all'art.3 definisce espressamente
il lavoro in parola come autonomo (esercizio del potere disciplinare da parte della Roma Volley, del
potere di controllo nonché dovere dell'atleta di rispettare gli obblighi assunti in contratto pena il
recesso) è indubbio che allo stesso deve applicarsi l' art.20 comma II dello Statuto FIP A V.
E' proprio la definizione della giusta causa di recesso, contenuta nell'atto impugnato, ma ancor
prima le allegazioni contenute in ricorso (cfr. pagg.24 e seguenti) a provare che ci si trova di fronte
ad un provvedimento di natura disciplinare per il quale vige la riserva di competenza degli organi
della giustizia sportiva.
Né può in tale sede legittimamente invocarsi la disapplicazione dell' intero regolamento
statutario in vigore, tenuto conto che l'adesione alle norme in esso contenute attraverso il
tesseramento effettuato dallo sportivo impone a questo Tribunale di tenere conto di tutti i vincoli e
delle prerogative che esso prevede per questa speciale categoria di lavoratori.
Egli infatti ritiene oggi di dover superare una normativa ben conosciuta al momento della
stipula del contratto, la cui necessaria adesione gli ha consentito di offrire la sua prestazione di
atleta in tutti gli anni che ha lavorato.
57
NOTE A SENTENZA
Il caso Mastrangelo...
Ne consegue che in applicazione dell'art.20 comme II dello Statuto Federale è competente a
conoscere della presente controversia disciplinare la Camera Arbitrale costituita presso il CONI
avverso la quale, in caso di eventuale esito negativo, la stessa parte ha poi l'ulteriore possibilità di
adire il Giudice Amministrativo del Lazio.
Il ricorso va consequenzialmente respinto essendo superfluo esaminare la sussistenza
dell'ulteriore requisito del periculum in mora.
Anche la domanda dispiegata nei confronti della FIPAV in via subordinata non può essere
accolta, in accoglimento dell'eccezione di difetto di competenza contenuta anche nella memoria
della stessa Federazione e tenuto conto della natura meramente futura ed eventuale della domanda
proposta nei confronti di questa.
In considerazione della natura della controversia affrontata e tenuto conto della difficoltà delle
numerose disposizioni esistenti compensa le spese nei confronti della società sportiva Roma Volley
spa e condanna al pagamento delle spese nei confronti della FIPAV che liquida in complessivi
€.2.650,00 di cui €.1500,00 per onorari ed €.1.579 per diritti.
P.Q.M.
Respinge il ricorso.
Compensa le spese del giudizio nei confronti della società sportiva Roma Volley spa e
condanna al pagamento delle spese nei confronti della FIPAV che liquida in complessivi €.2.650,00
di cui €.1500,00 per onorari ed €.1.579 per diritti.
Roma, lì 11 ottobre 2008
58
Il Giudice
NOTE A SENTENZA
Il caso Mastrangelo...
IL CASO MASTRANGELO: LUCI E OMBRE DELLA QUALIFICAZIONE
GIURIDICA DELL'ATLETA "DILETTANTE"
di Andrea Del Vecchio (*)
1. PREMESSA
2. LE TESI CONTRAPPOSTE
3. LA DECISIONE
4. RILIEVI CRITICI
1. PREMESSA
Il Tribunale di Roma con l’ordinanza emessa in data 11.10.2008 ha nuovamente affrontato
l’annoso tema della qualificazione giuridica del rapporto di lavoro del giocatore non professionista
affrontando i problemi rappresentati dalla legge 91/81, dal Dlgs 242/99 e dalla legge 280/2003.
L’ordinanza trae origine dal ricorso presentato ai sensi dell’art.700 c.p.c. dal giocatore Luigi
Mastrangelo avverso la propria società sportiva di pallavolo di appartenenza e la Federazione
Italiana Pallavolo.
La M.Roma Volley s.p.a., militante nel campionato italiano di serie A1, intendeva recedere
anticipatamente dal contratto di prestazione sportiva a tempo determinato che sarebbe scaduto nella
stagione sportiva 2009/2010 e con la lettera di data 20.08.2008 manifestava pertanto all’atleta
l’impossibilità di proseguire il rapporto con l’atleta asserendo il ripetersi di comportamenti che
violavano i principi di lealtà, professionalità e correttezza di cui agli artt.17.3 Statuto FIPAV e 19.2
lett. a) R.A.T. nonché dell’art.4 del contratto associativo sportivo.
Il Mastrangelo nell’impugnare tale recesso afferma da un lato che il suo comportamento
all’interno della società è stato più che corretto e professionale, fatto provato dai successi raggiunti
durante l’anno sia dalla squadra, sia personali e dall’altro contesta le motivazioni addotte in quanto
59
NOTE A SENTENZA
Il caso Mastrangelo...
non corrispondenti alla realtà dei fatti. Il recesso anticipato è secondo il ricorrente da imputare
esclusivamente a questioni economiche e più specificatamente alla presunta eccessiva onerosità del
contratto attesi il mancato raggiungimento di una sua cessione ad altre squadre e la retrocessione
dalla A1 alla A2 della squadra a seguito della mancata richiesta di iscrizione della società nella
massima serie per il prossimo campionato.
Il giocatore richiedeva quindi in via principale l’applicazione della normativa che disciplina il
rapporto di lavoro subordinato con conseguente riassunzione presso la società M.Roma Volley oltre
alle retribuzioni maturate e non corrisposte ed in via subordinata la disapplicazione al suo caso da
parte della FIPAV della disciplina di cui alle “Norme per il tesseramento degli atleti” e la lettera E
della “Norme sulla durata e sulle modalità di scioglimento del vincolo per Atleti della serie A1 e A2
maschile per la stagione 2008/2009” in modo da permettere la variazione di tesseramento senza
limiti temporali e geografici nonché senza oneri economici a carico del nuovo datore di lavoro.
2. LE TESI CONTRAPPOSTE
La tesi del Mastrangelo muove dal rilievo che la questione, pur apparentemente derivante da
questioni disciplinari, ha natura
strettamente economica con inapplicabilità al caso specifico
dell’art.20 co.2 dello statuto FIPAV1 e quindi anche dell’art.2 della legge 280/20032.
Trattandosi poi di rapporti patrimoniali tra società e atleta, il ricorrente era quindi libero di
adire direttamente l’autorità giudiziaria ordinaria nella veste del giudice del lavoro ai sensi dell’art.3
della legge 280/20033 al fine di fare valere la natura subordinata del rapporto di lavoro.
1
Art. 20 Vincolo di giustizia
1. I provvedimenti adottati dagli organi della FIPAV, nel rispetto della sfera di propria competenza, hanno piena e definitiva
efficacia, nell’ambito dell’ordinamento sportivo, nei confronti di tutti gli affiliati e i tesserati della Federazione.
2. Gli affiliati e i tesserati sono tenuti ad adire gli organi di giustizia dell’ordinamento sportivo nelle materie di cui all’articolo 2 del
D.L. 19 agosto 2003 convertito dalla Legge 17 ottobre 2003 n.280.
2
Art.2 - Autonomia dell'ordinamento sportivo
1. In applicazione dei principi di cui all'articolo 1, e' riservata all'ordinamento sportivo la disciplina delle questioni aventi ad
oggetto:
a) l'osservanza e l'applicazione delle norme regolamentari, organizzative e statutarie dell'ordinamento sportivo nazionale e delle
sue articolazioni al fine di garantire il corretto svolgimento delle attivita' sportive;
b) i comportamenti rilevanti sul piano disciplinare e l'irrogazione ed applicazione delle relative sanzioni disciplinari sportive;
c) (lettera soppressa);
d) (lettera soppressa).
2. Nelle materie di cui al comma 1, le societa', le associazioni, gli affiliati ed i tesserati hanno l'onere di adire, secondo le previsioni
degli statuti e regolamenti del Comitato olimpico nazionale italiano e delle Federazioni sportive di cui agli articoli 15 e 16 del
decreto legislativo 23 luglio 1999, n. 242, gli organi di giustizia dell'ordinamento sportivo.
3
Art. 3.Norme sulla giurisdizione e disciplina transitoria
1. Esauriti i gradi della giustizia sportiva e ferma restando la giurisdizione del giudice ordinario sui rapporti patrimoniali tra
societa', associazioni e atleti, ogni altra controversia avente ad oggetto atti del Comitato olimpico nazionale italiano o delle
Federazioni sportive non riservata agli organi di giustizia dell'ordinamento sportivo ai sensi dell'articolo 2, e' devoluta alla
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. In ogni caso e' fatto salvo quanto eventualmente stabilito dalle clausole
60
NOTE A SENTENZA
Il caso Mastrangelo...
Sotto l’aspetto del fumus boni juris, il ricorrente sosteneva poi l’applicabilità delle norme sul
lavoro subordinato in caso di recesso ante tempus del contratto mentre il requisito del periculum in
mora sarebbe consistito nel pregiudizio derivante dalla forzata inattività fisica che, seppur breve,
impediva il recupero del livello di preparazione atletica necessaria e sufficiente a consentire di
trovare una diversa società di vertice in cui giocare.
Tanto la M.Roma Volley quanto la FIPAV nel costituirsi respingevano le tesi del Mastrangelo
sostenendo preliminarmente il difetto di giurisdizione della A.G.O. con applicazione della legge
280/2003 trattandosi di materia disciplinare. In merito ai due requisiti del ricorso d’urgenza le
posizioni erano invece diverse.
Sul fumus boni juris la M.Roma Volley ne respingeva la sussistenza indicando la applicabilità
al caso della sola disciplina di cui all’art.2222 c.c. e non di quella sul lavoro subordinato mentre la
FIPAV rilevava la propria estraneità rispetto ai rapporti patrimoniali intercorrenti tra società sportiva
ed atleta.
In merito al periculum in mora invece se da un lato la società eccepiva la mancanza di prova
di qualsivoglia possibile danno alla salute o alla carriera, dall’altro lato la Federazione osservava
addirittura che il presupposto era assolutamente insussistente dato che la domanda svolta nei suoi
confronti era solo “eventuale e subordinata”.
3. LA DECISIONE
Il Giudice del lavoro ha deciso di respingere la domanda del Mastrangelo aderendo alle tesi
delle parti convenute. Nella motivazione si legge infatti che avendo la FIPAV optato per la scelta
dilettantistica, tutte le società ad essa affiliate devono essere qualificate come società sportive
dilettantistiche e quindi nel caso de quo non può essere applicata la legge 91/81 destinata a
disciplinare solo l’ambito sportivo professionistico. “Ne consegue che il rapporto di lavoro degli
sportivi dilettanti deve essere qualificato di volta in volta, tenendo conto dei noti indici rivelatori di
elaborazione giurisprudenziale” che “consentono di ritenere subordinato il rapporto anche a
prescindere dalla qualificazione formale contenuta nel contratto di ingaggio”.
Ciò premesso, nei limiti imposti dalla sommarietà del rito e sulla base delle allegazioni
contenute nel ricorso, il Giudice ha ritenuto che “anche ove volessero ravvisarsi nel rapporto gli
compromissorie previste dagli statuti e dai regolamenti del Comitato olimpico nazionale italiano e delle Federazioni sportive di cui
all'articolo 2, comma 2, nonche' quelle inserite nei contratti di cui all'articolo 4 della legge 23 marzo 1981, n. 91.
61
NOTE A SENTENZA
Il caso Mastrangelo...
elementi tali da condurre alla qualificazione invocata difformemente allo schema contrattuale che
all’art.3 definisce espressamente il lavoro in parola come autonomo” nel caso specifico “ci si trova
di fronte ad un provvedimento di natura disciplinare per il quale vige la riserva di competenza degli
organi di giustizia sportiva”.
Nel rigettare la domanda di parte ricorrente il Giudice ha pertanto sottolineato che dovrà
applicarsi al caso sottoposto alla sua attenzione l’art.20 co. 2 dello Statuto FIPAV e quindi la
competenza a conoscere della controversia spetta agli organi di giustizia sportiva ed in ultima
ipotesi al TAR del Lazio.
4. RILIEVI CRITICI
La mancanza di una conoscenza più approfondita delle carte processuali e la sinteticità della
motivazione dell’ordinanza non permettono di comprendere appieno i margini della questione.
Appaiono tuttavia non collimanti perfettamente alcune asserzioni dell’estensore del
provvedimento. Se è vero infatti che, come affermato nell’ordinanza, mediante i “noti indici
rivelatori di elaborazione giurisprudenziale” è possibile prescindere “dalla qualificazione formale
contenuta nel contratto di ingaggio” non si comprende appieno la motivazioni che hanno spinto il
giudice ad escludere tout court la possibile natura di lavoro subordinato del rapporto tra la società e
l’atleta nonché in base a quali dati il giudice sia sicuro di trovarsi di fronte ad “un provvedimento di
natura disciplinare per il quale vige la riserva di competenza degli organi di giustizia sportiva”.
Partiamo dalla questione della natura disciplinare del provvedimento. Per controversia
disciplinare si intende solitamente quella questione incentrata sull’applicazione da parte di una
federazione sportiva di una sanzione che, pur adottata in ambito sportivo e derivante da dati o fatti
tecnici, non si esaurisce nel mero rispetto di una regola tecnica federale ma è atta a modificare in
modo sostanziale, ancorché non totalmente irreversibile, lo status dell’atleta come soggetto
dell’ordinamento sportivo ovvero la sua attività in seno alla federazione.4
Da tale definizione deriva che la sanzione disciplinare, così come intesa anche dalla legge
280/2003, attiene ai rapporti tra tesserato o affiliato e federazione e non ad eventuali rilievi
disciplinari che possano essere fatti dalla società sportiva nei confronti dell’atleta.
4
Cfr. Tar Lazio, sez. III, 01.04.2003, n.2904
62
NOTE A SENTENZA
Il caso Mastrangelo...
Anche le normative richiamate5 dalla M.Roma s.p.a. nella lettera di recesso dal rapporto si
riferiscono espressamente al rispetto dei regolamento federali e dei principi del CONI e non
ineriscono in alcun modo ai rapporti tra la società ed il giocatore.
A cavallo tra il provvedimento disciplinare e l’inquadramento lavorativo troviamo poi i fatti
contestati al Mastrangelo6 nella lettera di recesso.
Tali addebiti non appaiono direttamente lesivi del regolamento della FIPAV (o di altro
regolamento o codice federale) ma piuttosto sembrano simili ad una reazioni a inadempimenti di
obbligazioni dedotte contrattualmente e quindi passibili di sanzione disciplinare nel senso
giuslavoristico del termine.
Se a tale rilievo si aggiunge che, come i professionisti, il Mastrangelo esercita una attività a
titolo oneroso, con carattere di professionalità e continuità, nell’ambito di una disciplina sportiva
regolamentata dal CONI, con sottoposizione a direttive societarie e per l’appunto, soggezione a
possibili sanzioni disciplinari, ci sentiamo di dire che non sembra potersi escludere a priori che si
tratti di lavoro subordinato.
Se è vero poi che è possibile prescindere “dalla qualificazione formale contenuta nel contratto
di ingaggio” e che l’inquadramento lavoristico viene effettuato sulla base dei canoni ermeneutici del
codice civile e altrettanto vero che il giudice non ha potuto o voluto soffermarsi a riflettere su tali
aspetti, limitandosi a rilevare la impossibilità di applicare le normative in tema di professionismo
perché la FIPAV “ha optato per la scelta dilettantistica” e quindi, sempre per il giudice, il rapporto è
estraneo all’ambito professionale e non è applicabile la legge 91/81 ovvero l’art.2094 e ss. Cod.
Civ.
5
Statuto FIPAV - Art. 17 Diritti e doveri degli associati e dei tesserati
1. …omissis….
2. …omissis…
3. Gli associati ed i tesserati hanno il dovere di comportarsi con lealtà e probità, rispettando il Codice di Comportamento Sportivo
del CONI. Gli associati ed i tesserati hanno il dovere di osservare, e gli associati sono tenuti a far osservare ai propri soci, lo
Statuto ed i regolamenti della FIPAV nonché le deliberazioni e le decisioni dei suoi organi, adottate nel rispetto delle singole
competenze, e ad adempiere agli obblighi di carattere economico secondo le norme di legge e le deliberazioni federali.
R.A.T. - Art. 19 - Tesseramento: effetti
1….omissis…
2. I tesserati hanno il dovere:
a) di mantenere condotta conforme ai principi di lealtà e probità sportiva rispettando il Codice di Comportamento Sportivo del
CONI;
b) di osservare lo Statuto e i Regolamenti della FIPAV,le deliberazioni e le decisioni dei suoi Organi adottate nel rispetto delle
singole competenze nonché i principi e le consuetudini sportive e di adempiere agli obblighi di carattere economico secondo le
norme di legge e le deliberazioni federali.
6
“1) inadempimento all’obbligo ad indossare le calzature fornite dalla società sportiva, 2) mancata partecipazione agli allenamenti;
3) mancata collaborazione, educazione e correttezza con lo staff tecnico e con gli altri giocatori della squadra; etc..”
63
NOTE A SENTENZA
Il caso Mastrangelo...
Si noti altresì che, anche nel caso in cui si voglia rimanere al dato secondo cui trattasi di
lavoro autonomo, così come indicato contrattualmente e precisato anche dal giudice, si rileva che le
presunte mancanze del Mastrangelo, rappresentate dalla M.Roma Volley nella lettera di recesso,
integrano un mero inadempimento contrattuale.
Una eventuale causa di merito su tali fatti rientrerebbe pertanto nei rapporti patrimoniali tra
società e atleta che, per espressa previsione dell’art.3 co 1 della Legge 280/2003, rimangono sotto la
giurisdizione del giudice ordinario. In conclusione si sottolinea che, anche se già il foro romano si
era espresso in tal senso7, “i noti indici rivelatori di elaborazione giurisprudenziale” non portano
necessariamente alla soluzione prescelta nell’odierna ordinanza.
Sulla base infatti delle suggestioni della Corte di Giustizia europea diverse pronunce di merito
si sono espresse in maniera diametralmente opposta affermando, fra le altre cose, che “la distinzione
tra professionismo e dilettantismo nella prestazione sportiva si mostra priva di ogni rilievo, non
comprendendosi per quale via potrebbe mai legittimarsi una discriminazione del dilettante”8 e che “i
praticanti di una disciplina dilettantistica pur essendo esclusi dalla tutela prevista dalla legge sul
professionismo possono svolgere tuttavia la propria attività percependo compensi più o meno
elevati in forza di contratti stipulati con le società sportive” e pertanto in sede cautelare è tutelabile
l’interesse dell’atleta dilettante a scongiurare “la perdita del corrispettivo alla prestazione sportiva
che sarebbe assicurato dal contratto stipulato con dalla società”9.
Ci si accorge quindi che la qualificazione associativa data dalle parti non è un elemento
decisivo, se risulta che il rapporto si è sviluppato nel senso della subordinazione o del lavoro
autonomo.
In altre parole, il giocatore dilettante, sulla base della giurisprudenza citata, attenta ai profili
giuslavoristici nascenti dai rapporti intercorrenti tra società o associazioni sportive e atleta non
professionista, può provare la sussistenza di un rapporto di lavoro di fatto sulla base di presunzioni
che lo qualificherebbero in tal senso.
7
Tribunale di Roma, ord. 10.07.2002, citata da E.C. Bernardi, La discriminazione nei confronti degli atleti stranieri, in Vincolo
sportivo e diritti fondamentali, Euro 92, 2002 pag.81
8
Tribunale di Pescara, ord. 18.10.2001 in Foro It.2002, c.897
9
Tribunale di Reggio Calabria, ord. del 12.05.2002 citata da Domenico Zinnari, Atleti dilettanti, sportivi non professinonisti, in
GiustiziaSportiva.it n. 1/2007
64
NOTE A SENTENZA
Il caso Mastrangelo...
E vero che la giurisprudenza10 ha solitamente configurato come lavoro autonomo quello degli
atleti non professionisti nell’ambito di quelle discipline che, per scelta delle stesse Federazioni, non
hanno voluto ottenere la qualifica di discipline aventi un settore professionisti, come la pallavolo,
ma è altrettanto vero che la configurazione del rapporto di lavoro è spesso inquadrabile in quello di
tipo subordinato
L’equiparazione dello sportivo dilettante a un lavoratore è avallata poi anche dal fatto che i
compensi dell’atleta sono assoggettati allo stesso regime fiscale, per le associazioni, dei dipendenti
con contratto di collaborazione, così che il vincolo sportivo è destinato ad assumere la caratteristica
di una “convenzione contrattuale”, come modalità accettata da entrambe le parti di un contratto di
lavoro, regolato conformemente ai regolamenti federali.
In estrema sintesi e conclusione si ritiene che la questione relativa alla definizione della
disciplina applicabile ai rapporti di lavoro non rientranti nell’ambito della legge 91/81 è lungi
dall’essere definita in assenza di autorevoli pronunce giurisprudenziali o soprattutto di un intervento
legisltaivo. Questa ordinanza rappresenta in un certo qual modo another brick in the wall, un altro
picchetto di quel recinto diventato ormai riserva indiana in cui una moltitudine di soggetti (non solo
gli atleti) vive senza avere una reale certezza dei propri rapporti lavorativi e dove, a parità di doveri,
i diritti sono fortemente limitati.
(*) Avvocato
10
Cass. civ. sez. Lav., n. 1236/1990, in Giust. Civ. Mass. 1990, Cass. civ., sez., lav., n.354/1996, in Giust. Civ. Mass. 1996, 73,
Tribunale di Roma 7 febbraio 1995, in RDS 1955, 633
65
NOTE A SENTENZA
La (non) assoggettabilità dei componenti...
IL COLLEGIO ARBITRALE
Prof. avv. Ferruccio Auletta
Presidente
Prof. avv. Angelo Piazza
Arbitro
Avv. Dario Buzzelli
Arbitro
nominato in data 6 agosto 2008 ai sensi del Regolamento della Camera di Conciliazione e
Arbitrato per lo Sport (“Regolamento”), riunito in conferenza personale in data 15 settembre 2008
presso la sede dell’arbitrato,
ha deliberato all’unanimità il seguente
LODO
nel procedimento di arbitrato (prot. n. 1387 del 21.7.2008) promosso da:
TERNANA Calcio s.p.a., in persona dell’amm.re unico Stefano De Dominicis, con sede in
Terni (05100), via Alerai n. 10, rappresentata e difesa dall’avv. Fabio Giotti presso il cui studio è
elettivamente domiciliato in Colle Val d’Elsa (SI), via Mazzini n.4
ricorrente
contro
Federazione Italiana Giuoco Calcio, in persona del Presidente dr Giancarlo Abete, con sede in
Roma (00198), via Allegri n. 14, rappresentata e difesa unitamente e disgiuntamente dagli avv.ti
Luigi Medugno e Mario Gallavotti, ed elettivamente domiciliata presso lo studio di quest’ultimo in
Roma, Via Po n.9
resistente
66
NOTE A SENTENZA
La (non) assoggettabilità dei componenti...
FATTO E SVOLGIMENTO DEL PROCEDIMENTO
La Ternana calcio s.p.a., in conseguenza di asseriti danni patrimoniali determinati dalla
dichiarata nullità del lodo arbitrale reso in data 20 ottobre 2006 dal collegio arbitrale costituito
presso la Lega Professionisti Serie C nel procedimento promosso nei confronti della stessa Società
dal calciatore Kharja Houssine, ha richiesto in data 21 marzo 2008 alla Federazione Italiana Giuoco
calcio di poter adire l’A.G. per domandare il relativo risarcimento nei confronti dei componenti il
suddetto collegio di arbitri. Invero, ai sensi dell’art. 30 dello Statuto della F.I.G.C., “il Consiglio
federale, per gravi ragioni di opportunità, può autorizzare il ricorso alla giurisdizione statale in
deroga al vincolo di giustizia”; autorizzazione senza della quale l’azione in giudizio “comporta
l’irrogazione delle sanzioni disciplinari stabilite dalle norme federali”.
In data 15 maggio 2008, la F.I.G.C. ha comunicato all’istante che “non è stata concessa
l’autorizzazione ad adire le vie legali” e, in particolare, che “non [erano] state ravvisate le gravi
ragioni di opportunità per la concessione dell’autorizzazione ai sensi dell’art. 30, comma 4 dello
Statuto Federale”.
La Ternana calcio s.p.a. nella “istanza di arbitrato” ha precisato che “la richiesta di
risarcimento danni sarebbe stata formulata in conformità a quanto previsto dall’art. 813 ter c.p.c.
che disciplina la responsabilità degli arbitri”; perciò si duole dell’assenza di una “adeguata
motivazione” nel provvedimento di diniego dell’autorizzazione ad agire, di cui domanda
l’annullamento “per difetto di motivazione e/o per tutti gli altri motivi che venissero accertati”.
La F.I.G.C. ha eccepito “l’inammissibilità dell’istanza di arbitrato proposta dalla società
Ternana per l’assenza di un accordo compromissorio tra le parti che attribuisca alla Camera il potere
di conoscere della domanda avversaria”, in particolare sostenendo che “il diniego di esonero dal
vincolo di giustizia non può dare luogo all’instaurazione di una controversia con la Federazione
secondo la comune accezione del termine” siccome “l’istante non può vantare una posizione
giuridica che assurga a dignità di pretesa azionabile in sede arbitrale e/o giudiziaria”, tanto più
considerando l’inattitudine lesiva del provvedimento “impugnato”. Invero, l’azione in giudizio non
sarebbe comunque preclusa nonostante il “rischio di un’azione disciplinare”. In ogni caso, conclude
la difesa della F.I.G.C., questo Collegio non potrebbe “accordare l’autorizzazione richiesta” per
difetto di ogni potere “sostitutivo”.
La F.I.G.C. ritiene, inoltre, che la “valutazione di inopportunità” di cui si discuta sia
incensurabile di per sé, e comunque si sottrae in concreto al vizio denunciato.
67
NOTE A SENTENZA
La (non) assoggettabilità dei componenti...
Alla udienza del 3.9.2008 le parti hanno svolto le proprie difese oralmente e il Collegio
arbitrale, ritenuta la causa matura per la decisione senza altre acquisizioni istruttorie, si riservava di
deliberare il lodo, ciò che avveniva in conferenza personale tenuta dagli arbitri in data 15 settembre
2008.
MOTIVI
1. La controversia “non [ha] per oggetto dritti indisponibili” (art. 806 c.p.c.); essa concerne, in
particolare, “diritti […] degli associati” (art. 16 c.c.) così riuscendo prospettata dalla parte attrice
anche la pretesa di accertamento della violazione, da parte della F.I.G.C., dell’obbligo (almeno) di
motivazione del provvedimento reiettivo dell’ istanza di autorizzazione ad agire presso l’A.G.. Né è
revocabile in dubbio che la parte attrice abbia interesse concreto e attuale alla presente domanda
giudiziale, atta com’è a rimuovere preventivamente il paventato “rischio di un’azione disciplinare”
(secondo le espressioni impiegate dalla difesa della stessa F.I.G.C.).
Dunque, non sussistono ragioni impedienti all’esame di merito della suddetta pretesa, la quale
è sostanzialmente intesa ad accertare la non conformità alle norme statutarie applicabili della
condotta tenuta dalla F.I.G.C., in occasione dell’adozione dell’atto “illegittimo” (anche “per tutti gli
altri motivi che venissero accertati”, con formula additiva del petitum che -se non vale a escludere
di per sé la fondatezza della sollevata eccezione sulla limitazione del titolo della domandanaturalmente non osta all’estensione dell’esame anche officioso verso le questioni che
rappresentano un antecedente logico necessario del petitum principale, qual è la questione
dell’esistenza stessa del potere rispetto alle modalità del cui esercizio si tratta).
2. La norma che contiene il c.d. “vincolo di giustizia” - art. 30 Statuto F.I.G.C.- determina per
i “tesserati, le società affiliate e tutti i soggetti, organismi e loro componenti, che svolgono attività
di carattere agonistico, tecnico, organizzativo, decisionale o comunque rilevanti per l’ordinamento
federale” l’obbligo di “accetta[zione del]la piena e definitiva efficacia di qualsiasi provvedimento
adottato dalla F.I.G.C., dai suoi organi o soggetti delegati, nelle materie comunque riconducibili allo
svolgimento dell’attività federale nonché delle relative vertenze di carattere giuridico, disciplinare
ed economico”.
68
NOTE A SENTENZA
La (non) assoggettabilità dei componenti...
Nella fattispecie, non ricorrono gli elementi costitutivi del c.d. “vincolo di giustizia” (e
dunque fa assoluto difetto l’attribuzione di ogni eventuale potere derogatorio in capo alla F.I.G.C.)
poiché i componenti del collegio arbitrale (in ipotesi destinatari dell’azione giudiziaria
promuovibile dalla Ternana calcio s.p.a.) non integrano “organi o soggetti delegati”, in quanto tali
“appartenen[ti] all’ordinamento settoriale sportivo” (art. 30 Statuto, cit.).
Gli arbitri in questione originano, infatti, dalla previsione, che -nelle controversie arbitrabili di
cui all’art. 409 c.p.c.- non può che essere necessariamente eteronoma rispetto all’ autonomia
federale (artt. 806, 2° comma, e già 808, 2° comma, c.p.c.), recante la “Disciplina del lavoro
subordinato sportivo”, segnatamente contenuta nell’art. 4 della legge 23 marzo 1981, n. 91: “Il
rapporto di prestazione sportiva a titolo oneroso si costituisce mediante assunzione diretta e con la
stipulazione di un contratto in forma scritta, a pena di nullità, tra lo sportivo e la società destinataria
delle prestazioni sportive, secondo il contratto tipo predisposto, conformemente all'accordo
stipulato, ogni tre anni dalla federazione sportiva nazionale e dai rappresentanti delle categorie
interessate. (omissis).
Nello stesso contratto potrà essere prevista una clausola compromissoria con la quale le
controversie concernenti l'attuazione del contratto e insorte fra la società sportiva e lo sportivo sono
deferite ad un collegio arbitrale.
La stessa clausola dovrà contenere la nomina degli arbitri oppure stabilire il numero degli
arbitri e il modo di nominarli”.
I collegi arbitrali (incluso quello de quo) vengono, quindi, costituiti giusta le ulteriori
previsioni dell’Accordo collettivo tra le associazioni rappresentative delle parti (ai sensi degli artt.
806, 2° comma, e già 808, 2° comma, c.p.c.), senza che la precaria investitura di singoli arbitri per
l’una o l’altra controversia tra Società e Calciatore possa di volta in volta determinare in capo agli
stessi arbitri una stabile “appartenenza all’ordinamento settoriale” ovvero la “costituzione di [alc]un
rapporto associativo”, elementi altrimenti necessari per l’ immedesimazione organica o l’esercizio
(foss’anche soltanto) delegato di funzioni “rilevanti per l’ordinamento federale” in via immediata.
Del resto, senza così voler trarre argomenti dirimenti da previsioni aliene rispetto a quelle di
più diretto interesse, lo svolgimento di mandati arbitrali rimane normalmente (v. art. 19, comma 5,
Reg. Camera conc. arb. C.O.N.I.) imputabile (come le connesse responsabilità) esclusivamente ai
soggetti che direttamente ne risultano affidatari per elezione delle parti in conflitto, rimanendo il
diverso rapporto di amministrazione dell’ arbitrato, eventualmente corrente con organi o soggetti
comunque appartenenti all’ ordinamento federale (quali “Le Leghe”, nella specie per cui è causa),
69
NOTE A SENTENZA
La (non) assoggettabilità dei componenti...
distinto rispetto al mandato arbitrale vero e proprio, il quale sempre connette in via speciale quanto
episodica le parti, congiuntamente tra loro, con gli arbitri chiamati a dirimerne le liti.
In definitiva, difettano nelle circostanze per le quali l’azione giudiziaria è stata prospettata
dalla Ternana calcio s.p.a. contro gli autori del lodo dichiarato nullo gli elementi essenziali alla
riconoscibilità del c.d. “vincolo di giustizia”, talchè, ove concretamente esperita, l’azione medesima
non potrebbe comunque sostanziare alcun comportamento “volto a eludere il vincolo di giustizia”.
Dal superiore accertamento di non conformità alle norme statutarie applicabili della condotta
tenuta dalla F.I.G.C., in occasione della determinazione “impugnat[a]”, deriva che quest’ultima -ad
instar di provvedimento viziato per “difetto assoluto di attribuzione” (arg. ex art. 21-septies l. 7
agosto 1990, n. 241)- deve ritenersi incapace di alcuna efficacia nei confronti della Ternana calcio
s.p.a.
3. Poichè la genesi della controversia non appare, dal punto di vista causale, totalmente
estranea alla stessa condotta della parte attrice, benché all’esito vittoriosa nel conseguimento
dell’utilità sostanziale ricercata con la domanda di arbitrato, sussistono giusti motivi per l’integrale
compensazione tra le parti delle spese del procedimento e per assistenza difensiva.
P.Q.M.
Il Collegio, definitivamente pronunciando nella controversia promossa da Ternana calcio
s.p.a. contro la Federazione Italiana Giuoco Calcio, ogni altra istanza ed eccezione disattesa, così
provvede:
• dichiara inefficace nei confronti della Ternana calcio s.p.a. la determinazione della F.I.G.C.,
comunicata in data 15 maggio 2008 (prot. n. 5.432), di “non […] concessione dell’autorizzazione ai
sensi dell’art. 30, comma 4 dello Statuto Federale”;
• dichiara interamente compensate tra le parti le spese del procedimento e per assistenza
difensiva;
• dichiara le parti tenute in egual misura, con vincolo di solidarietà, al pagamento dei diritti
degli arbitri, come separatamente liquidati, nonché dei diritti della Camera di Conciliazione e
Arbitrato per lo Sport.
Così deliberato all’unanimità dei voti in conferenza personale degli arbitri riuniti presso la
sede della Camera di conciliazione e arbitrato per lo sport, in Roma, il 15 settembre 2008, e
sottoscritto in numero di tre originali nei luoghi e nelle date di seguito indicati.
70
NOTE A SENTENZA
La (non) assoggettabilità dei componenti...
LA (NON?)
ARBITRALI
ASSOGGETTABILITÀ DEI COMPONENTI DEI
AL VINCOLO DI GIUSTIZIA EX ART.
DELLA
COLLEGI
30 DELLO STATUTO
F.I.G.C.
di Giacinto Pelosi (*)
1. Com’è noto, il c.d. “vincolo di giustizia”, previsto dagli Statuti di alcu-ne Federazioni
sportive, è rinvenibile in quelle disposizioni federali che impongono a determinati soggetti di
risolvere attraverso la giurisdizione domestica, e quindi degli organi di giustizia endoordinamentali,
le contro-versie che li coinvolgono
Lo scopo che si vuole perseguire è evidentemente quello di garantire, come lo sport e la
pratica sportiva richiedono, la rapida ed efficace risolu-zione delle controversie non solo
strettamente sportive che riguardano, all’interno di ciascuna Federazione, i rapporti tra i soggetti
che a vario tito-lo ne fanno parte.
Nello Statuto della F.I.G.C. esso si concretizza all’art. 30 che impone ai soggetti indicati
nel suo primo comma (“i tesserati, le società affiliate e tutti i soggetti, organismi e loro componenti,
che svolgono attività di carat-tere agonistico, tecnico, organizzativo, decisionale o comunque
rilevanti per l’ordinamento federale”) l’obbligo di osservare tutte le norme federali e di accettare la
piena e definitiva efficacia di qualsiasi provvedimento adot-tato dalla Federazione e dai suoi organi
o soggetti delegati, nelle materie comunque riconducibili allo svolgimento dell’attività federale
nonché nelle relative vertenze di carattere tecnico, disciplinare ed economico.
E lo stesso art. 30 sembra voler imporre a quei soggetti di devolvere al-la cognizione della
Camera di Conciliazione e Arbitrato per lo Sport ogni controversia, quale che ne sia la natura o
l’oggetto, tra essi o tra gli stessi e la F.I.G.C., con la sola eccezione di quelle controversie per le
quali negli accordi collettivi o di categoria siano previste specifiche clausole compro-missorie.
71
NOTE A SENTENZA
La (non) assoggettabilità dei componenti...
Peraltro, è previsto che tali soggetti possano ottenere l’autorizzazione ad adire gli organi
giurisdizionali dello Stato se ricorrono “gravi ragioni di opportunità”: per la Federcalcio la deroga al
vincolo di giustizia e, quindi, anche la valutazione della sussistenza o meno di quei gravi motivi, è
ri-messa alla competenza del Consiglio Federale che è il suo massimo or-gano normativo, di
indirizzo generale e di amministrazione.
La mancata osservanza di tali obblighi e, specificatamente, ogni com-portamento
comunque volto ad eludere il “vincolo di giustizia” comportano l’irrogazione di sanzioni
disciplinari, fatto salvo il diritto ad agire innanzi al-la a.g.o. per la nullità dei lodi arbitrali relativi a
controversie decise in ap-plicazione delle clausole compromissorie previste dagli accordi collettivi
o di categoria o da regolamenti federali, controversie per le quali è ovvia-mente ed espressamente
esclusa la possibilità di devolverle alla cognizio-ne arbitrale della Camera di Conciliazione e
Arbitrato per lo Sport.
Sia in giurisprudenza che in dottrina è pacificamente ritenuto che ci si trova in presenza di
una clausola compromissoria realizzante una forma di arbitrato irrituale e che ora il vincolo
sportivo, “già operante in forza di clausole inserite negli statuti federali, cui l’affiliazione delle
società e degli sportivi alle diverse federazioni comportava volontaria adesione, viene a ripetere la
propria legittimità da una fonte legislativa”, il D.L. n. 220 del 2003” (Cass. Civ. 28-9-2005 n.
18919), oltre che dall’art. 4 della legge 23 marzo 1981 n. 291.
2 . Con decisione del 15 settembre 2008, la detta Camera di Concilia-zione e Arbitrato per lo
Sport ha affermato il principio che ai componenti dei Collegi Arbitrali chiamati a pronunziarsi sulle
controversie insorte tra Società affiliate alla F.I.G.C. e calciatori o allenatori o direttori sportivi, ecc.
non si applicano le norme statutarie e regolamentari di tale Federazione e, in particolare, l’art. 30
dello Statuto che appunto contiene il c.d. “vincolo di giustizia” e obbliga i su ricordati soggetti
indicati nel suo primo comma ad osservare lo Statuto stesso e ogni altra norma federale.
In particolare, la vicenda di cui si è occupata quella Camera riguardava la mancata
concessione, da parte della F.I.G.C., dell’autorizzazione ad a-dire le vie legali chiesta da una Società
per convenire innanzi all’a.g.o. i componenti di un Collegio Arbitrale al fine di ottenere il
risarcimento dei danni che le sarebbero derivati dalla nullità di un loro lodo successivamen-te
dichiarata dal Tribunale, giudice del lavoro, innanzi al quale il tesserato lo aveva impugnato.
72
NOTE A SENTENZA
La (non) assoggettabilità dei componenti...
La Società, ritenendo operante il “vincolo di giustizia” anche nei con-fronti dei componenti
di tali Collegi Arbitrali, aveva infatti chiesto quell’autorizzazione, ma la Federazione non la aveva
concessa poiché “non erano state ravvisate gravi ragioni di opportunità per autorizzare il ri-corso
alla giurisdizione statale”, con l’implicito riconoscimento che anche tali soggetti sono ricompresi tra
quelli indicati dall’art. 30 del suo Statuto.
3. In proposito è opportuno ricordare che l’orientamento della F.I.G.C. era già diretto a
considerare che l’esclusività della giurisdizione domestica è un’essenziale espressione di quella
autonomia associativa che tutti i tes-serati non solo devono rispettare ma dovrebbero anche
difendere.
Infatti, la Corte Federale della Federcalcio (ora l’attuale art. 34 dello Statuto assegna alla
Corte di Giustizia Federale la funzione di interpretare le norme statutarie e le altre norme federali),
investita dalla Procura Fede-rale circa il problema dell’applicabilità della clausola compromissoria
di cui all’allora art. 27 (ora art. 30) dello Statuto, con decisione pubblicata il 16 aprile 2004 aveva
espresso l’avviso che l’impugnazione dei lodi arbitrali davanti al giudice ordinario integri una
violazione di quella clausola com-promissoria.
Successivamente, anche gli organi della giustizia sportiva chiamati a pronunciarsi in sede
disciplinare sui deferimenti di tesserati che avevano impugnato davanti all’a.g.o. i lodi arbitrali di
cui parliamo non hanno mai mancato di rimarcare, a partire dal maggio 2004, che
quell’impugnazione senza la preventiva autorizzazione integra la violazione della clausola
compromissoria di cui all’art. 30 (o, prima, art. 27) dello Statuto.
Purtuttavia, erano evidenti le perplessità delle (allora) Commissioni Di-sciplinari e Corte
di Appello Federale laddove non irrogavano alcuna san-zione ai soggetti deferiti, essendo il loro
comportamento ritenuto un errore di fatto scusabile ed esente da censura sotto il profilo del dolo o
della ne-gligenza, poiché la violazione della norma statutaria, “da costoro formal-mente
commessa”, poteva attribuirsi ad un’erronea interpretazione della normativa vigente tanto che
quella stessa incertezza interpretativa aveva indotto la Procura Federale a sollecitare l’intervento
della Corte Federale.
4. Per tornare alla decisione della Camera di Conciliazione e Arbitrato per lo Sport del 15
settembre 2008 e al “fatto” sul quale si è pronunciata, la Società aveva chiesto l’annullamento del
detto provvedimento di diniego “in quanto illegittimo per difetto di motivazione”, ma la Camera di
Concilia-zione e Arbitrato per lo Sport ha affermato che, al di là o prima ancora del lamentato
difetto di motivazione, il provvedimento deve ritenersi incapace di alcuna efficacia poiché
73
NOTE A SENTENZA
La (non) assoggettabilità dei componenti...
<<nella fattispecie, non ricorrono gli elementi co-stitutivi del c.d. vincolo di giustizia (e
dunque fa assoluto difetto l’attribuzione di ogni eventuale potere derogatorio in capo alla FIGC)
poi-ché i componenti del collegio Arbitrale (in ipotesi destinatari dell’azione giudiziaria) non
integrano organi o soggetti delegati, in quanto tali “appar-tenenti all’ordinamento settoriale
sportivo” (art. 30 Statuto cit.)>>.
Infatti, per la Camera <<i collegi arbitrali (incluso quello de quo) vengono costituiti giusta
le ulteriori previsioni dell’Accordo collettivo tra le associa-zioni rappresentative delle parti (ai sensi
degli artt. 806, 2° comma, e già 808, 2° comma, c.p.c.), senza che la precaria investitura dei singoli
arbitri per l’una o l’altra controversia tra Società e Calciatore possa di volta in volta determinare in
capo agli stessi arbitri una stabile “appartenenza all’ordinamento settoriale” ovvero la “costituzione
di [alc]un rapporto asso-ciativo”, elementi altrimenti necessari per l’immedesimazione organica o
l’esercizio (foss’anche soltanto) delegato di funzioni “rilevanti per l’ordi-namento federale” in via
immediata>>.
5. La Camera di Conciliazione e Arbitrato, quindi, ha ritenuto che i componenti di quei
Collegi Arbitrali non siano individuabili tra i soggetti di cui al primo comma dell’art. 30 dello
Statuto della F.I.G.C. e la decisione merita alcune riflessioni anche per le conseguenze che potrà
provocare, potendo di fatto minare il sistema della soluzione arbitrale delle controver-sie tra Società
e tesserati.
E’ appena il caso di ricordare che gli arbitri, comunque, non possono mai sottrarsi alle
proprie responsabilità nell’esercizio della specifica fun-zione cui sono di volta in volta chiamati e
che, quindi, rispondono dei dan-ni cagionati alle parti secondo quanto previsto dall’art. 813-ter
c.p.c.
Tuttavia è facile ipotizzare che il principio stabilito dalla Camera può in-durre molti o
alcuni di essi, la cui funzione viene nella quasi totalità dei ca-si svolta gratuitamente, a non accettare
la designazione, o a farsi esclude-re dagli appositi elenchi, per non trovarsi esposti ad eventuali
azioni di ri-sarcimento danni da parte di chi, a torto o a ragione, è rimasto scontento del loro
operato.
In altre parole, si può ritenere che, escludendoli dai soggetti indicati nel ripetuto primo
comma dell’art. 30, si privino gli arbitri della preventiva valu-tazione di “gravi ragioni di
opportunità” rimessa dall’art. 30 dello Statuto al Consiglio Federale di un ente che ben può
considerarsi terzo e super par-tes (la F.I.G.C. è la Federazione cui, direttamente o indirettamente,
appar-tengono tutti quei soggetti, senza posizioni privilegiate di alcuni rispetto ad altri), privandoli
74
NOTE A SENTENZA
La (non) assoggettabilità dei componenti...
anche di una “copertura” che, sotto pena delle pesanti sanzioni disciplinari specificate dall’art. 15
del Codice di Giustizia Sportiva, dovrebbe indurre ad un’approfondita riflessione coloro che li
vogliono tra-scinare innanzi al giudice ordinario per tentare di ottenere comunque qualcosa da chi,
per evitare il rischio di rimetterci di più (come si suol dire, le cause sono cause e di nessuna si può
prevedere con certezza l’esito), si induca in qualche modo a cedere alla pretesa risarcitoria, magari
ten-tando una transazione.
6.
E’ opportuno, quindi, verificare se le considerazioni esposte nella motivazione di quella
decisione della Camera possono essere scalfite dal-la prospettazione di altri elementi che conducano
(o riconducano) gli arbitri dei Collegi Arbitrali in parola nell’alveo delineato dal primo comma
dell’art. 30 dello Statuto della F.I.G.C.
La Camera lo ha escluso in quanto i componenti dei collegi arbitrali cui sono deferite le
controversie tra le società sportive e lo sportivo (rectius: il tesserato) non appartengono
all’ordinamento settoriale sportivo e non possono esser ritenuti “organi o soggetti delegati”, e ciò
perché ricevono di volta in volta una precaria investitura che non può determinare in capo ad essi
una stabile appartenenza a tale ordinamento ovvero la costituzione di alcun rapporto associativo,
“elementi altrimenti necessari per l’immedesimazione organica o l’esercizio (foss’anche soltanto)
delegato di funzioni rilevanti per l’ordinamento federale in via immediata”.
Su questa categorica affermazione può sorgere più di un dubbio.
Invero, l’individuazione dei soggetti di cui al primo comma dell’art. 30 dello Statuto della
F.I.G.C. (“tutti i soggetti, organismi e loro componenti, che svolgono attività di carattere agonistico,
tecnico, organizzativo, deci-sionale o comunque rilevanti per l’ordinamento federale”) è generica e
su-scettibile di notevole rigonfiamento laddove vuole qualificare, con una sfil-za di aggettivi la cui
elasticità è evidente, il carattere dell’attività svolta.
Ed anche se non menzionati tra gli organi della giustizia sportiva, quei collegi arbitrali non
sono affatto “estranei” all’ordinamento federale che ne determina le competenze proprio nel Codice
di Giustizia Sportiva, il cui art. 52 afferma solennemente che la F.I.G.C. “riconosce pieno effetto
alle de-cisioni pronunciate dai Collegi arbitrali sulla base degli accordi collettivi … per la
risoluzione delle controversie fra sportivi professionisti e società di appartenenza e può emanare
ogni idoneo provvedimento per garantire esecutività alle stesse anche in caso di retrocessione e di
conseguente i-scrizione ai campionati della L.N.D.”.
75
NOTE A SENTENZA
La (non) assoggettabilità dei componenti...
Ma v’è anche di più, perché per lo stesso art. 52 sono devolute a quei Collegi arbitrali “anche
le controversie tra società e tesserati non soggetti ad accordi collettivi” e quelle relative alle “pretese
risarcitorie di tesserati nei confronti di società diverse da quelle di appartenenza nei casi in cui la
responsabilità delle stesse sia stata riconosciuta in sede disciplinare”.
Non è questa la sede in cui evidenziare l’incompatibilità dell’ultima par-te dell’art. 52: a)
con quanto dispone il secondo comma dell’art. 806 c.p.c. (“le controversie di cui all’art. 409
possono essere decise da arbitri solo se previsto dalla legge o nei contratti o accordi collettivi di
lavoro”) nel caso in cui si tratti di una controversia individuale di lavoro; b) con l’impossibilità di
imporre l’arbitrato anche se i litiganti non hanno stipulato una clausola compromissoria.
C’è tuttavia da considerare che:
gli elenchi degli Arbitri, quanto meno quelli designabili dalle Società, sono formulati dalle
Leghe e gli elenchi dei Presidenti dei Collegi sono formulati congiuntamente dalle parti firmatarie
degli accordi collettivi;
gli elenchi degli Arbitri designabili sono depositati presso la F.I.G.C., che è sempre firmataria
anch’essa, con le Leghe, degli accordi collettivi;
nei regolamenti che disciplinano il loro funzionamento è sempre previsto che i Collegi
arbitrali, qualora rilevino violazioni di disposizioni federali, ne riferiscano alla competente
Commissione disciplinare deferendo, per le sanzioni del caso, le Società ed i tesserati che ne
appaiono responsabili;
che l’art. 46 del Codice di Giustizia Sportiva prevede che i procedimenti innanzi alla
Commissione Tesseramenti sono instaurati anche su iniziativa dei Collegi Arbitrali “che ritengono
preliminare alla questione loro deferita la definizione delle posizioni di tesseramento, trasferimento
o svincolo”, così vincolando le decisioni di quei Collegi alle determinazioni di un orga-no
specializzato della giustizia sportiva;
la identità di funzione che svolgono quando sono chiamati a comporre quei Collegi arbitrali,
deve far ritenere del tutto equiparati agli Arbitri desi-gnati dalle Leghe quelli designati dalle altre
parti firmatarie degli accordi collettivi.
Tutto ciò fa sorgere non poche perplessità sulla categorica conclusione cui è pervenuta la
Camera di Conciliazione e Arbitrato per lo Sport, perché non si può non pensare che l’attività svolta
dai componenti di quei Collegi Arbitrali ha una sua rilevanza per l’ordinamento federale, che di essi
si av-vale anche per rafforzare gli argini della propria giustizia domestica e, principalmente, per
76
NOTE A SENTENZA
La (non) assoggettabilità dei componenti...
garantire una rapida ed efficace risoluzione delle con-troversie non solo strettamente sportive che
coinvolgono Società e tesse-rati.
E’ intuitivo il fatto che per il regolare svolgimento dell’attività sportiva non si può
pretendere di attendere le fisiologiche e, purtroppo, insuperabili lungaggini dell’intervento statale.
Ad esempio, la pronuncia su una richiesta di risoluzione del contratto di prestazione
sportiva così come una qualsiasi altra controversia che attiene alla regolamentazione dei rapporti
patrimoniali tra Società e tesserati ri-chiedono decisioni quanto più rapide è possibile, perché da
esse può di-pendere, nel corso della stagione sportiva, l’utilizzazione delle prestazioni del tesserato
o la sua possibilità di renderle ad altra Società senza soste che possono danneggiarne l’immagine
professionale oltre che il rendimen-to oppure può alterare quell’equilibrio economico-finanziario
cui sono tenu-te le Società secondo predeterminati parametri e che è sempre tenuto presente dalla
F.I.G.C. per garantire il regolare svolgimento dell’attività agonistica durante tutto l’arco della stessa
stagione sportiva.
Può ben ritenersi, allora, che i componenti dei Collegi arbitrali previsti dagli accordi
collettivi o di categoria svolgono attività di carattere decisio-nale comunque rilevante per
l’ordinamento federale e sono da considerar-si tra i soggetti indicati nel primo comma dell’art. 30
dello Statuto federale.
7. Come s’è detto, a sostegno della propria decisione che qui ci occu-pa, la Camera di
Conciliazione e Arbitrato dello Sport ha posto in evidenza che:
i collegi arbitrali de quibus vengono costituiti senza che la precaria inve-stitura dei singoli
arbitri per l’una o l’altra controversia possa di volta in vol-ta determinare in capo agli stessi arbitri
una stabile “appartenenza all’ordinamento settoriale” ovvero la “costituzione di un rapporto
associati-vo”, considerati elementi necessari per l’immedesimazione organica o l’esercizio delegato
di funzioni “rilevanti per l’ordinamento federale” in via immediata;
lo svolgimento dei mandati arbitrali rimane normalmente imputabile, con le connesse
responsabilità, esclusivamente ai soggetti che direttamente ne risultano affidatari per elezione delle
parti in conflitto, rimanendo il di-verso rapporto di amministrazione dell’arbitrato, che
l’ordinamento federa-le riserva a soggetti ad esso appartenenti (normalmente, le Leghe), distin-to
rispetto al mandato arbitrale vero e proprio “il quale sempre connette in via speciale quanto
episodica le parti, congiuntamente tra loro, con gli ar-bitri chiamati a dirimerne le liti”.
77
NOTE A SENTENZA
La (non) assoggettabilità dei componenti...
Ebbene, tra i soggetti indicati dall’art. 30 dello Statuto della F.I.G.C. non vi sono soltanto i
tesserati (la cui elencazione è contenuta nell’art. 36 delle Norme Organizzative Interne della
Federazione) e le società affiliate ma anche altri soggetti ai quali è imposto l’obbligo di osservare la
normati-va federale.
Per questi altri soggetti, così come per alcune categorie di tesserati (ad. esempio, i
collaboratori nella gestione sportiva delle Società), non è ri-chiesta neppure implicitamente una
stabile appartenenza all’ordinamento settoriale ovvero la costituzione di un rapporto associativo.
Si può, infatti, ben ipotizzare che lo svolgimento delle attività (“di carat-tere agonistico,
tecnico, organizzativo, decisionale o comunque rilevanti per l’ordinamento federale”) da essi svolte
si esaurisca in un breve arco di tempo senza che l’espletamento degli incarichi o funzioni
specificatamente loro affidati determini una stabile appartenenza all’ordinamento settoriale o la
costituzione di un rapporto associativo.
Di certo, invece, non può categoricamente escludersi che a quei sogget-ti, durante il tempo
di svolgimento o per effetto e conseguenza della speci-fica attività loro affidata, si deve applicare
quanto previsto dall’art. 30 dello Statuto, tanto più se si considera che il primo comma di tale norma
non sembra richiedere necessariamente in chi svolge quelle attività un’imme-desimazione organica
rapportata ad altri soggetti dell’ordinamento federa-le per determinarne l’appartenenza, essendo
invece sufficiente che le attività svolte siano comunque rilevanti per l’ordinamento federale.
Né, conseguentemente, è risolutivo il fatto che il mandato arbitrale comporta per i singoli
Arbitri e per le funzioni cui sono di volta in volta chiamati una precaria, perché episodica,
investitura il cui esaurimento li ri-porta sicuramente al di fuori delle previsioni dell’art. 30.
Quel che dovrebbe contare è il momento di svolgimento dell’attività, in-dipendentemente
dalla sua durata e dalla possibilità di reiterazione dell’ affidamento di quelle specifiche funzioni,
mentre conserva tutto il suo con-creto rilievo il fatto che l’attività svolta dagli Arbitri, come più
sopra detto, sia di natura decisionale comunque rilevante per l’ordinamento federale.
E’ vero che può accadere che alcuni degli Arbitri compresi negli appo-siti elenchi non
vengano mai designati e che, quindi, di fatto non siano mai chiamati a svolgere quella specifica
funzione.
Ciò non di meno, dovrebbe essere il sol fatto dell’inserimento del loro nominativo in
quegli elenchi a farli considerare investiti del possibile svol-gimento della specifica attività
(decisionale e) rilevante per l’ordinamento federale indipendentemente dall’effettivo espletamento
78
NOTE A SENTENZA
La (non) assoggettabilità dei componenti...
della funzione e dal fatto che si possa ritenerli non tesserati dalla F.I.G.C. anche se per es-si,
ovviamente, nessun problema può sorgere non essendo chiamati a svolgere quella funzione.
8.
Non a caso nelle su richiamate decisioni della Commissione Disci-plinare e della Corte di
Appello Federale - nel motivare con la mancanza di dolo e con l’errore scusabile la non irrogazione
di sanzioni a carico dei tesserati che avevano impugnato i lodi arbitrali innanzi all’a.g.o. - venivano
ricordate le varie problematiche correlate alla vexata quaestio della collo-cazione sistematica dei
Collegi Arbitrali nel novero degli “organi” della giu-stizia sportiva e l’altrettanto controversa
valenza dell’esplicito richiamo nel-la normativa relativa all’operatività di quei Collegi Arbitrali di
quell’art. 5 della legge 11-8-1973 n. 533 che prevede inderogabilmente la facoltà del-le parti di
adire l’a.g.o. o, ancora, l’incerta individuazione dei rimedi esperi-bili innanzi alla giustizia sportiva
avverso un lodo arbitrale.
In conclusione, perciò, se è vero che i componenti dei Collegi Arbitrali non sono “organi o
soggetti delegati” dalla F.I.G.C. ad emanare provvedi-menti alla cui osservanza sono obbligati i
soggetti indicati dal primo com-ma dello art. 30 del suo Statuto (ma la Federazione è vincolata, per
l’art. 52 delle sue N.O.I.F., a riconoscere pieno effetto alle loro decisioni e a ga-rantirne
l’esecutività), non è meno vero che essi svolgono un’attività co-munque rilevante per l’ordinamento
federale e sono anch’essi tenuti ad accettare la piena e definitiva efficacia di qualsiasi
provvedimento adottato dalla F.I.G.C. o dagli organi o soggetti da essa delegati, tant’è che ne devono tener conto nell’espletamento del mandato ricevuto dalle parti e non possono sindacare nel
merito quei provvedimenti o disapplicarli.
Ne deriva che, appartenendo così anch’essi all’ordinamento settoriale sportivo, il “vincolo
di giustizia” li dovrebbe riguardare direttamente con la conseguenza che – da chiunque promossa –
qualsiasi controversia tra lo-ro e gli altri soggetti indicati dal ripetuto primo comma o la
Federazione dovrebbe essere devoluta alla cognizione arbitrale della Camera di Conci-liazione e
Arbitrato per lo Sport, salvo che il Consiglio Federale autorizzi “per gravi ragioni di opportunità” il
ricorso alla giurisdizione statale in dero-ga al vincolo di giustizia, ferme restando tutte le peculiari
caratteristica e-videnziate dalla Camera di Conciliazione e Arbitrato per i Collegi Arbitrali e per
coloro che sono chiamati a comporli.
(*) Avvocato , componente del Collegio Abitrale della Lega Calcio Serie A-B
79
NOTE A SENTENZA
Il caso Camilleri...
FEDERAZIONE ITALIANA GIUOCO CALCIO
00198 ROMA – VIA GREGORIO ALLEGRI, 14 CASELLA POSTALE 2450
COMUNICATO UFFICIALE N. 25/CDN (2008/2009)
La Commissione disciplinare nazionale, costituita dall’avv. Sergio Artico, Presidente,
dall’avv. Luca Giraldi, dall’avv. Valentina Ramella, Componenti, e con l’assistenza alla Segreteria
del sig. Claudio Cresta, si è riunita i giorni 11 settembre e 9 ottobre 2008 e ha assunto le seguenti
decisioni:
(16) – DEFERIMENTO DEL PROCURATORE FEDERALE A CARICO DEL
CALCIATORE VINCENZO CAMILLERI (nota n. 276/841 pf07-08/SP/blp del 16.7.2008)
Il procedimento
Con provvedimento del 16.7.2008 il Procuratore Federale ha deferito a questa Commissione il
signor Vincenzo Camilleri, calciatore “giovane di serie” tesserato con la Reggina Calcio S.p.A., per
rispondere della violazione dell’art. 1, comma 1 C.G.S., per essersi sottratto al vincolo di cui all’art.
33, comma 2, N.O.I.F. nei confronti della società di appartenenza, allontanandosi dal relativo
Centro sportivo e disertando l’attività di addestramento e agonistica a seguito dell’ingaggio da parte
del Chelsea F.C. ovvero comunque della frequenza della Accademy di tale ultimo club.
Con memoria del 5.9.2008 la Soc. Reggina ha formulato richiesta di partecipare al
dibattimento “per ulteriormente argomentare”, rimettendosi al giudizio della Commissione quanto
all’accertamento della violazione contestata al deferito.
Con memoria in data 6.8.2008, il signor Angelo Camilleri, genitore del calciatore, ha eccepito
il difetto di giurisdizione di questa Commissione per insussistenza della qualità di “tesserato” in
capo al figlio, contestando comunque gli addebiti formulati nell’atto di deferimento.
Alla riunione del giorno 11.9.2008, in accoglimento dell’istanza proposta dalla difesa del
calciatore e previo rigetto della richiesta di partecipazione al dibattimento della Soc. Reggina (cfr.
C.U. in pari data), la Commissione disponeva rinvio della trattazione del procedimento al 9 ottobre
2008, onde consentire al Camilleri di formulare le proprie difese.
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NOTE A SENTENZA
Il caso Camilleri...
Successivamente, in data 4.10.2008 è pervenuta memoria difensiva del signor Vincenzo
Camilleri con la quale, preliminarmente, eccepisce il difetto di giurisdizione di questa Commissione
sul rilievo che il calciatore non sarebbe stato tesserato con la società Reggina al momento del
deferimento.
In via gradata, l’incolpato rileva l’assenza di condotte sussumibili nella fattispecie contestata,
trattandosi al contrario, ad avviso del Camilleri, di questione attinente a mere problematiche
contrattuali ed economiche con il precedente club di appartenenza. Conclude nel merito il deferito
per il proscioglimento dagli addebiti.
Da ultimo, in data 8.10.2008 è pervenuta memoria della soc. Reggina ad ulteriore
illustrazione di quanto già in precedenza dedotto. Alla riunione odierna è comparso il rappresentante
della Procura Federale, il quale ha chiesto l’acquisizione agli atti della decisione emessa dal Giudice
Unico FIFA in data 19.9.2008 in ordine al tesseramento provvisorio del Camilleri con la società
Chelsea Football Club, concludendo per l’affermazione della responsabilità del deferito e
l’irrogazione della sanzione di mesi tre di squalifica. Sono altresì comparsi i difensori dell’incolpato
i quali hanno ulteriormente illustrato le deduzioni di cui alla memoria in atti, eccependo – altresì –
l’improcedibilità dell’azione disciplinare per violazione del termine di cui all’art. 32, comma 11,
C.G.S. e concludendo, in ogni caso, per il proscioglimento del deferito.
I motivi della decisione
La Commissione, esaminati gli atti e sentite le parti osserva. Va preliminarmente rilevata
l’inammissibilità della memoria difensiva del 6.10.2008 a firma del signor Angelo Camilleri,
nonché della memoria datata 7.10.2008 della soc.
Reggina. Quanto al primo atto, rileva la Commissione che se certamente Vincenzo Camilleri
non ha compiuto gli anni diciotto e risulta - pertanto - minorenne, tuttavia, come rilevato
correttamente dal genitore del deferito, la qualità di “giovane di serie” e il relativo status di tesserato
comportano il riconoscimento in capo al medesimo del diritto di difendersi ed essere sentito
personalmente dinanzi agli organi di giustizia sportiva.
Il che, peraltro, si è verificato nel caso di specie, avendo il deferito formulato le proprie
difese, riprendendo peraltro anche le eccezioni procedurali sollevate dal padre.
Rileva inoltre la commissione che il signor Angelo Camilleri, pur sottoscrivendo la memoria
in qualità di “genitore di Vincenzo Camilleri” e rubricando equivocamente l’atto come “memoria
difensiva”, ha ivi espressamente affermato di non voler in alcun modo “impegnare” il figlio con le
proprie considerazioni.
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NOTE A SENTENZA
Il caso Camilleri...
Alla luce delle premesse sopra illustrate, ritiene la Commissione che la “memoria” - per
esplicita volontà dello stesso autore - deve intendersi come “dichiarazione” unilaterale del genitore
del calciatore, come tale inammissibile in questa sede.
Quanto alla memoria 7.10.2008 della Soc. Reggina, la Commissione richiamata l’ordinanza
resa in data 11.9.2008, ritualmente comunicata alle parti, con la quale è stata respinta la richiesta di
partecipare al dibattimento.
Di qui l’inammissibilità dell’ulteriore atto difensivo, in quanto proveniente da soggetto
estraneo al presente procedimento. Ancora in via preliminare va affermata la giurisdizione di questa
Commissione in ordine ai fatti per cui si procede, dovendosi sul punto avere riguardo alla qualifica
rivestita dall’incolpato al momento dei fatti oggetto di contestazione.
Orbene, risulta dagli atti che a far tempo dal 14.9.2006 Vincenzo Camilleri fosse tesserato
quale “giovane di serie” con la Società Reggina e che tale qualità permanesse in capo al deferito
all’epoca dei fatti di cui al deferimento (cfr. “variazione di tesseramento per calciatori giovani di
serie” in atti).
Tale condizione, peraltro, risulta permanere anche alla data del deferimento, per come si
evince dalla decisione del Giudice Unico FIFA prodotta dalla Procura Federale alla riunione
odierna, atteso che solo in data 19.9.2008 tale Autorità ha autorizzato il Chelsea Football club a
tesserare, in via provvisoria, il calciatore. Nessun elemento a contrario risulta, del resto, offerto
ovvero indicato da parte del deferito.
Pertanto, trattandosi di soggetto “tesserato” al momento dei fatti, nonché alla data del
deferimento, sussiste la giurisdizione dell’organo disciplinare. Va ancora esaminata l’eccezione di
improcedibilità sollevata in udienza dai difensori del Camilleri. Ritiene invero la difesa
dell’incolpato che l’azione disciplinare nei confronti giovane calciatore non sia improcedibile
poiché non sarebbe stato osservato il termine di cui all’art. 32, comma 11, C.G.S., quantomeno con
riferimento all’atto di deferimento.
L’eccezione è infondata. Orbene, dispone l’art. 32, comma 11, C.G.S. che “le indagini relative
a fatti denunciati nel corso di una stagione sportiva devono concludersi prima dell’inizio della
stagione sportiva successiva, salvo proroghe eccezionali concesse dalla sezione consultiva della
Corte di giustizia federale”.
Nell’indicare il termine “dell’inizio della stagione sportiva successiva”, la norma fa dunque
esplicito e inequivocabile riferimento agli atti di indagine e cioè a quegli atti volti ad accertare i fatti
e le condotte oggetto del procedimento.
82
NOTE A SENTENZA
Il caso Camilleri...
Tale non è, ad avviso della Commissione, l’atto di deferimento che assume invece
nell’ordinamento sportivo la funzione di vocatio in iudicium e che è l’atto con cui la Procura
Federale rende edotto l’incolpato delle contestazioni elevate a seguito delle indagini.
Nel caso di specie, non risultano atti di indagine compiuti oltre il termine previsto, essendo
l’ultimo atto (l’acquisizione della pagina web dell’Accademy del Chelsea Football Club) compiuto
in data 19.6.2008. A nulla rileva, sul punto, l’omessa comunicazione all’interessato della
conclusione delle indagini ex art. 33, comma 11, C.G.S., adombrato quale ulteriore profilo di
improcedibilità dalla difesa del deferito, atteso che a tale omissione l’ordinamento sportivo non
correla alcuna sanzione processuale.
Anche sotto quest’ultimo profilo, dunque, l’eccezione difensiva non merita accoglimento.
Nel merito, la Commissione ritiene fondato il deferimento.
Risulta pacifico in atti che in data 15.2.2008, dopo aver ottenuto dal presidente Foti
l’autorizzazione a non partecipare alla gara Reggina-Lecce per motivi personali e senza dare alcuna
ulteriore comunicazione alla società di appartenenza, Vincenzo Camilleri si sia recato a Londra
accompagnato dalla madre, accettando l’invito del Chelsea F.C. “per sentire la proposta economica
e il programma sportivo che il Chelsea aveva intenzione di effettuare sul ragazzo” (cfr.
dichiarazioni Angelo Camilleri in data 13.3.2008). Altrettanto pacifico è poi che a far tempo dal
14.2.2008 e almeno sino al 13.3.2008 (data dell’audizione del padre), il giovane non abbia più fatto
ritorno al centro sportivo della società Reggina e non abbia più partecipato agli allenamenti e agli
impegni agonistici derivanti dal tesseramento allora in essere (cfr. dichiarazioni Angelo Camilleri,
cit.).
Il comportamento tenuto dal deferito risulta in contrasto con quanto disposto dall’art. 33
NOIF che prescrive invero un particolare vincolo per i c.d. “giovani di serie” finalizzato a
permettere alla società di addestrare e formare il calciatore per il futuro impiego nei campionati
dalla stessa disputati. Vincolo che, nel caso di specie, è risultato frustrato dal comportamento del
calciatore che non si è più presentato presso la “propria” società ed ha – di fatto – rifiutato di
allenarsi e di disputare le gare del campionato in corso.
Tutto ciò, si rileva, è accaduto quando ancora il calciatore non aveva compiuto gli anni 16 ed
in costanza del tesseramento con la società Reggina risalente al 14.9.2006 quale “giovane di serie”.
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NOTE A SENTENZA
Il caso Camilleri...
Per tale motivo, ad avviso della Commissione, risulta irrilevante la circostanza –evidenziata
nel deferimento- dell’intervenuto “ingaggio” del calciatore da parte del clublondinese ovvero la
possibilità di considerare il diritto contemplato dall’art. 33 NOIF quale diritto potestativo ad
ottenere il primo contratto da professionista da parte del giovane di serie che abbia compiuto gli
anni sedici.
La violazione del particolare vincolo assunto con il tesseramento, come sopra
evidenziato,costituisce condotta rilevante ai sensi all’art. 1, comma 1 CGS perché contraria ai
principi di lealtà, correttezza e probità che devono improntare la condotta di tutti i
soggettidell’ordinamento sportivo.
Va dunque affermata la responsabilità dell’incolpato in relazione alla violazione ascritta.
Sotto il profilo sanzionatorio, la Commissione, avuto riguardo all’obiettiva gravità dei
fatti,tenuto conto dell’età del deferito, ritiene equo contenere la sanzione nella misura indicatain
dispositivo.
Il dispositivo
Per tali motivi, la Commissione delibera di infliggere a Camilleri Vincenzo la sanzione della
squalifica per mesi due.
Il Presidente della CDN Avv. Sergio Artico
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NOTE A SENTENZA
Il caso Camilleri...
IL CASO CAMILLERI :
ART.
33 NOIF
IL DIFFICILE RAPPORTO TRA IL VINCOLO EX
E LE FUGHE ALL’ ESTERO DEI GIOVANI CALCIATORI
di Ernesto Mesto (*)
Con decisione del 09.10.2008, la Commissione Disciplinare Nazionale FIGC squalificava per
due mesi Vincenzo Camilleri, promettente calciatore siciliano cresciuto nel vivaio della Reggina ed
integrato, da febbraio 2008, tra le fila del club inglese Chelsea FC.
Nello specifico, il collegio giudicante ribadiva il principio di diritto secondo cui allontanarsi
dalla propria società e non partecipare più agli allenamenti ed agli impegni agonistici derivanti dal
tesseramento come “giovane di serie”, integrasse un comportamento in contrasto con l’art. 33 delle
Norme Organizzative Interne F.I.G.C. (di seguito, NOIF) nonché una condotta rilevante ai sensi
dell’art. 1 del Codice di Giustizia Sportiva (di seguito, CGS) in quanto contraria ai principi di lealtà,
correttezza e probità1.
Il fatto.
Vincenzo Camilleri, calciatore nato il 06.03.1992 e tesserato come “giovane di serie” presso
la Reggina Calcio, a febbraio 2008 decideva unilateralmente di recarsi in Inghilterra dove
l’attendeva un’importante proposta d’ingaggio da parte del Chelsea. Da allora, il ragazzo non
faceva più ritorno presso la società italiana titolare del rapporto di addestramento, anzi, qualche
mese dopo, il Giudice Unico FIFA autorizzava il Chelsea a tesserare il calciatore.
In virtù di ciò, lo scorso luglio il Procuratore Federale deferiva Camilleri alla Commissione
Disciplinare affinché rispondesse della violazione dell’art. 1 CGS “per essersi sottratto al vincolo
di cui all’art. 33/2 NOIF nei confronti della società di appartenenza, allontanandosi dal relativo
centro sportivo e disertando l’attività di addestramento e agonistica a seguito dell’ingaggio da
parte del Chelsea F.C.”.
1
Cfr. Commissione Disciplinare FIGC, 09.10.2008, Camilleri; in Comunicato Ufficiale FIGC n. 25/CDN del 13.10.2008.
85
NOTE A SENTENZA
Il caso Camilleri...
Come già evidenziato, i giudici, condividendo l’impostazione della Procura Federale,
concludevano sostenendo che l’abbandono della società con la quale si è tesserati, astenendosi
dall’effettuare gli allenamenti e le gare, dia luogo ad un comportamento pregiudicante il particolare
vincolo prescritto dall’art 33 NOIF per i c.d. “giovani di serie”, volto a permettere alla stessa società
di addestrare e formare il calciatore per il futuro impiego nei campionati a disputarsi.
Da ciò, la conseguente ritenuta violazione dei canoni di condotta imposti ai soggetti
dell’ordinamento sportivo dall’art. 1 CGS e la squalifica del giovane atleta per due mesi, valida,
giova precisarlo, solo per le gare da disputarsi sul territorio italiano.
Le NOIF sui giovani di serie.
Ai sensi dell’art. 33 NOIF, il giovane calciatore che abbia già compiuto i 14 anni e venga
tesserato da una società appartenente ad una delle leghe professionistiche (Lega Nazionale
Professionisti e la c.d. “Lega Pro”), assume la qualifica di “giovane di serie”.
Nasce in questo modo un particolare vincolo, di durata quinquennale, tra giovane calciatore e
società titolare del tesseramento. Con tale iniziativa, infatti, la società lega a sé l’atleta per varie
stagioni durante le quali essa ha il diritto esclusivo di addestrarlo. Tutto ciò fino al termine della
stagione sportiva in cui il calciatore compie il 19° anno di età.
In tale ultima stagione, il giovane matura il diritto a ricevere un primo compenso dalla società
che si avvale delle sue prestazioni, la c.d. indennità di “addestramento tecnico”, comunemente
definita anche “pre-contratto”. In sostanza, il calciatore riceve una somma determinata annualmente
dalla Lega di appartenenza della società e che, ad esempio, per la stagione 2008/2009 è pari a
10.400 euro annui per i giovani di società della Serie A.
A bilanciamento di tale diritto, l’art. 33/2 NOIF riserva alla società, una volta concluso il
periodo di addestramento del giovane di serie, il diritto di stipulare con lo stesso il primo contratto
da calciatore professionista, limitando, però, la durata massima del vincolo a tre anni, in modo da
non incidere significativamente sulla situazione di soggezione in cui viene a trovarsi l’atleta.
L’interpretazione di quest’ultima disposizione merita una breve digressione, specie sulla base
di quanto già illustrato in materia da altri autori2.
2
Cfr. Lucia Bianco – Giuseppe Febbo, Vincoli ai contratti con i calciatori professionisti giovani di serie, in “Filodiritto”
(http://www.filodiritto.com).
86
NOTE A SENTENZA
Il caso Camilleri...
Sulla base della norma in esame, la società può imporre al proprio atleta la stipulazione del
primo contratto professionistico mediante una procedura che genera non pochi dubbi. Al tesserato,
infatti, viene sottoposta una proposta di contratto, mediante fax o raccomandata, che,
differentemente dai principi generalmente validi in materia negoziale, il giovane non può non
accettare, non essendo tra l’altro richiesta la sua sottoscrizione3. L’invio, nelle forme indicate, della
predetta proposta è sufficiente per il perfezionamento del vincolo contrattuale: si concretizza, così,
l’imposizione unilaterale del legame negoziale da parte della società che ha formato l’atleta.
Ebbene, con diverse recenti decisioni, il Giudice Unico FIFA ha statuito che, in assenza di
un’espressa manifestazione di volontà da parte del giovane di serie, il vincolo triennale al quale lo
stesso può essere sottoposto ex art. 33/2 NOIF deve ritenersi illegittimo non essendo il frutto di una
reale negoziazione tra le parti: in effetti, il giovane calciatore che riceve la raccomandata prende
semplicemente atto che la controparte ha deciso di stipulare con lui un contratto, determinando
unilateralmente sia la durata che il corrispettivo da riconoscere all’atleta per le prestazioni sportive
da eseguire.
Gli squilibri che potrebbero derivare dalla generale applicazione di tale interpretazione sono
evidenti: il giovane addestrato per cinque anni da una società che ha investito sulla sua formazione,
al termine di tale periodo sarebbe teoricamente libero di non accettare la proposta contrattuale
formulatagli e di accordarsi con un’altra compagine che gli offra condizioni migliori.
Tuttavia, occorre d’altro canto raccordare la disciplina sportiva con i fondamentali principi in
materia contrattuale poiché è giuridicamente inaccettabile che la posizione del giovane calciatore
venga compressa fino al punto prima indicato. In sostanza, sottoscrivendo il tesseramento come
giovane di serie al 14 ° anno di età, l’atleta ed i suoi genitori finiscono con il riconoscere al
sodalizio sportivo un atipico diritto a concludere unilateralmente un contratto (è evidente la
contraddizione in termini) in merito al quale non potranno neanche negoziare durata e compenso.
È evidente, pertanto, che la giurisprudenza finisca con il riconoscere, a queste condizioni, il
diritto di una parte a poter non accettare tale schema negoziale nonché la conseguente libertà di
accordarsi con un soggetto diverso.
Urge, quindi, in proposito una ridefinizione del rapporto da parte dei competenti organi
federali in modo da non frustrare le esigenze e gli interessi delle società che investono nella
formazione giovanile.
3
Ai sensi dell’art. 1326 c.c., “ il contratto è concluso nel momento in cui chi ha fatto la proposta ha conoscenza dell’accettazione
dell’altra parte”.
87
NOTE A SENTENZA
Il caso Camilleri...
Inoltre, l’art. 33 NOIF, al successivo terzo comma, prevede per il giovane di serie anche un
diritto a stipulare il suo primo contratto professionistico ben prima del termine del quinquennio di
addestramento. I calciatori tesserati come giovani di serie, infatti, “al compimento anagrafico del
16° anno di età possono stipulare contratto professionistico”, con una durata massima triennale
trattandosi di calciatore minorenne.
In merito, è doveroso rilevare come anche in relazione a tale norma vi siano discordanti
interpretazioni.
La stessa autorevole difesa del giovane Camilleri, nel corso del procedimento dinanzi alla
Commissione Disciplinare, ha prospettato la tesi per cui la facoltà di cui all’art. 33/3 NOIF
costituirebbe un diritto potestativo del giovane di serie ultrasedicenne ad ottenere il primo contratto
da professionista.
Corollario di tale interpretazione è la libertà del calciatore, nel silenzio della disposizione
normativa, di poter stipulare il primo contratto anche con società diversa da quella con cui è in
corso il tesseramento giovanile prescritto dalle norme federali.
La Commissione, nel caso de quo, ha ritenuto tale aspetto comunque irrilevante ai fini della
decisione, ritenendo sanzionabile la condotta di Camilleri per il sol fatto di non aver più preso parte
all’attività agonistica svolta dalla Reggina.
Un’analisi più approfondita della questione è stata invece svolta dalla medesima
Commissione nel caso Vargiu4, nell’ambito del quale il collegio giudicante ha ritenuto,
diversamente dall’interpretazione sopra prospettata, che la ratio della norma circoscrivesse
l’esercizio della facoltà del calciatore ultrasedicenne a stipulare un contratto professionistico ai soli
rapporti con la società d’appartenenza.
A parere dell’organo federale, infatti, la facoltà ex art. 33/3 NOIF va necessariamente
coordinata con il vincolo ex art. 33/2 che assoggetta il calciatore alla società con cui è tesserato fino
al termine della stagione sportiva in cui compie il 19° anno di età. Orbene, tale vincolo, come già
illustrato, attribuisce alla società il diritto di stipulare il primo contratto professionistico. Ne deriva
che la compatibilità di tale ultima previsione normativa con quella che riconosce al giovane di serie
ultrasedicenne la facoltà di stipulare un contratto professionistico può essere garantita, a detta dei
giudici sportivi, solo adottando una soluzione ermeneutica per la quale il diritto al contratto del
calciatore ultrasedicenne può essere fatto valere esclusivamente nei confronti della società già
titolare del tesseramento.
4
Commissione Disciplinare FIGC, 29.06.2001, Vargiu; in Comunicato Ufficiale FIGC n. 510 del 29.06.2001.
88
NOTE A SENTENZA
Il caso Camilleri...
L’analisi della normativa interna può concludersi rilevando che, la condotta dei giovani di
serie che si allontanano senza autorizzazione ed unilateralmente dalla propria società, potrebbe
risultare in violazione anche dei doveri ex art. 92/2 NOIF: benché tale aspetto non sia stato
espressamente affrontato nel caso Camilleri, occorre infatti ricordare che, ai sensi della disposizione
appena menzionata, “i giovani di serie devono partecipare, salvo impedimenti per motivo di studio,
di lavoro o di salute, alle attività addestrative ed agonistiche predisposte dalle società per il loro
perfezionamento tecnico, astenendosi dallo svolgere attività incompatibili anche di natura
sportiva”. Allontanarsi dalla società presso la quale si è tesserati per allenarsi, senza autorizzazione,
presso altra compagine sportiva rappresenta, dunque, un comportamento incompatibile con lo
svolgimento del rapporto di addestramento in essere nonché una chiara inosservanza dei doveri
appena esposti, configurando, in particolare, un’ipotesi di violazione speciale rispetto a quella
contemplata dall’art. 1 CGS5.
La normativa FIFA.
Uno dei pilastri del Regolamento FIFA in materia di Status e Trasferimento dei Calciatori è
rappresentato dalla protezione dei minori.
In primis, giova rilevare che anche le norme internazionali limitano la durata massima del
contratto stipulato dal calciatore minorenne prevedendo, analogamente alle norme nazionali, che il
vincolo non possa superare i tre anni6, in modo da salvaguardare gli interessi del minore ed evitare
un legame che potrebbe rivelarsi eccessivamente oneroso nel futuro. Qualora, in violazione della
norma predetta, venisse siglato un contratto di durata maggiore a quella prescritta, questo sarà
ritenuto valido ed efficace per i primi tre anni; successivamente, il calciatore sarà libero di
accordarsi con un altro club sempre che, espressamente ovvero per facta concludentia, non decida
di proseguire il rapporto professionale con lo stesso sodalizio.
In secondo luogo, il Regolamento FIFA pone come regola generale il divieto di trasferimenti
internazionali per i calciatori minorenni.
In deroga a tale regola, l’art. 19 riconosce tre eccezioni: a) il caso in cui i genitori del
minorenne si trasferiscano nel Paese della nuova società per motivi indipendenti dal calcio; b) il
caso in cui il calciatore viva in una regione di frontiera nei pressi del confine con il Paese della
5
6
Cfr. Commissione Disciplinare FIGC, 20 febbraio 1998, Bedin; in Comunicato Ufficiale FIGC n. 266 del 20 febbraio 1998.
Cfr. art. 18 Regolamento FIFA in materia di status e trasferimento dei calciatori.
89
NOTE A SENTENZA
Il caso Camilleri...
nuova società; c) il caso in cui si tratti di trasferimento all’interno dell’Unione Europea ed il
giocatore abbia già compiuto i 16 anni, a condizione che venga assicurata allo stesso un’adeguata
formazione sia nell’ambito dell’istruzione scolastica che nell’ambito sportivo.
Quest’ultima situazione è quella più ricorrente nelle c.d. “fughe all’estero” dei nostri giovani
talenti che spesso, in costanza di tesseramento come “giovani di serie” con una società italiana,
vengono tesserati da società britanniche che li inseriscono nei loro programmi di formazione
sportiva.
Ciò è possibile perché, secondo la giurisprudenza internazionale, un semplice tesseramento
sportivo, quale quello come “giovane di serie”, non impedisce che il calciatore possa stipulare un
contratto di lavoro con un’altra società assumendo quindi lo status di calciatore professionista.
Una lettura, dunque, del diritto previsto dall’art. 33/3 NOIF e già analizzato nel presente
articolo, diversa dall’interpretazione fornita, in diversi casi, dalla Commissione Disciplinare FIGC.
Mentre quest’ultima, come già visto, ha ritenuto che l’ultrasedicenne possa stipulare il primo
contratto solo con la società d’appartenenza, i giudici europei riconoscono un’estensione più ampia
di tale diritto, permettendo che il giovane ponga fine al suo vincolo di addestramento in modo
unilaterale siglando un contratto da professionista con un altro club.
Ad ogni buon conto, occorre specificare che, alla luce del Regolamento FIFA, giammai al
calciatore potrebbe essere offerto il contratto summenzionato prima del compimento del 16° anno di
età. Nel caso Camilleri, ad esempio, la Reggina lamentava che il giocatore fosse stato contattato dal
Chelsea ben prima di tale data (Camilleri ha compiuto i 16 anni il 06.03.2008) e dagli stessi atti del
procedimento disciplinare sembra emergere come pacifica la circostanza per cui il giocatore, già da
febbraio 2008, avrebbe eluso la partecipazione all’attività sportiva della società calabrese per
trasferirsi in Inghilterra.
È chiaro che, quand’anche le allegazioni di parte fossero vere, il punto focale per la normativa
internazionale è rappresentato dal momento in cui il giovane sottoscrive l’accordo. Il Chelsea,
attendendo qualche settimana, ha in ogni caso potuto sottoporre a Camilleri il contratto proprio
dopo il suo sedicesimo compleanno7.
Occorrerebbe semmai, de iure condendo, fermarsi un attimo a riflettere ed a verificare se non
sia il caso di implementare la normativa FIFA in materia prevedendo, anche per il trasferimento dei
giovani di serie, una norma simile a quella stabilita per i professionisti dall’art. 18/3 del
7
Nella realtà, come già evidenziato, il Giudice Unico FIFA ha autorizzato il Chelsea a tesserare in via provvisoria il calciatore in data
19.09.2008.
90
NOTE A SENTENZA
Il caso Camilleri...
Regolamento che sanziona le società che negoziano la conclusione di un contratto con il giocatore
tesserato con altra società senza aver preventivamente informato quest’ultima. Ciò al fine di evitare
quella fictio iuris per cui, nella pratica, vengono contattati e reclutati, con correlativo trasferimento
all’estero, giocatori quindicenni già tesserati presso altre società ed ai quali il contratto, già definito
nei minimi dettagli, verrà, appunto, formalmente sottoposto, come da regolamento, dopo il
compimento dei 16 anni: tale condotta potrebbe, infatti, violare quei canoni generali di lealtà e
correttezza tra i vari clubs, al cui rispetto è ispirata la norma FIFA appena citata.
I talenti italiani nei clubs inglesi: lo scholarship agreement.
Come già accennato, la decisione unilaterale del giovane di serie di trasferirsi, in costanza di
tesseramento, presso altro club è legittima poiché, compiuti i 16 anni, egli ha il diritto, secondo la
giurisprudenza europea, di stipulare il primo contratto professionistico anche con una diversa
società.
Nei casi di trasferimento di giovani calciatori italiani presso i clubs d’Oltremanica, nella
maggior parte dei casi l’atleta non sottoscrive inizialmente un vero e proprio contratto da
professionista. Il sistema utilizzato, infatti, prevede che il ragazzo venga dapprima inserito in un
programma di formazione con la sottoscrizione di uno scholarship agreement: una sorta di contratto
di apprendistato o di borsa di studio che, sempre più spesso, oltre a garantire l’istruzione e
l’alloggio, comprende anche un riconoscimento economico più o meno consistente, assimilabile per
molti versi al contratto da professionista8.
La durata massima prevista per la scholarship è di tre anni, al termine dei quali l’unico modo
per vincolare ulteriormente il giovane è offrirgli il contratto da professionista.
Nella pratica, poi, vi è spesso una commistione delle due figure, per cui al giovane viene
sottoposto un contratto che per i primi tempi è di scholarship, ma contestualmente viene anche
concordato il momento in cui, invece, lo status del giovane calciatore si tramuterà in quello di
professionista.
Il gentleman’s agreement tra le societá italiane.
8
Cfr. FIGC – I Quaderni del Settore Tecnico – n. 13
91
NOTE A SENTENZA
Il caso Camilleri...
L’esperienza di questi ultimi anni dimostra che, a livello italiano, le interruzioni unilaterali del
vincolo come “giovane di serie” per poi stipulare il contratto da professionista con altra società,
hanno riguardato ragazzi che hanno lasciato il club di appartenenza per passare, poi, a società
britanniche che hanno loro offerto l’inserimento nei propri programmi di formazione sportiva,
dapprima nelle academies e poi nella squadra riserve e/o in prima squadra.
Ciò non avviene a livello nazionale perché tra i vari clubs italiani, visti appunto i pericoli
correlati alle interpretazioni innanzi prospettate, esiste un c.d. “gentleman’s agreement” in base al
quale gli stessi si sono auto - imposti di non farsi concorrenza reciproca e di non contattare, dunque,
“giovani di serie” già tesserati con altra società italiana. Difficilmente, inoltre, i clubs italiani
potrebbero indurre giovani tesserati con società degli altri Paesi europei più importanti a livello
calcistico a lasciare le stesse per passare tra le proprie fila. La normativa italiana, infatti, come già
illustrato, non prevede, allo stato, lo strumento intermedio delle scholarhips: il giovane calciatore
straniero, pertanto, potrà essere tesserato come giovane di serie, ovviamente senza alcun compenso,
ovvero allo stesso dovrà essere offerto il vero e proprio contratto da professionista.
Occorre, inoltre, rilevare come, a volte, la tenuta di questo agreement tra le società italiane
sollevi qualche perplessità, specie quando il giocatore, anziché al Chelsea o all’Arsenal, si
trasferisca in clubs e/o in Paesi che non hanno una grande tradizione calcistica, e non offrono
nemmeno grandi somme, per poi ritornare in Italia, magari dopo solo un anno, stipulando il
contratto con un club diverso da quello lasciato a suo tempo: il dubbio, non troppo celato, è che una
società possa aggirare la regola non scritta vigente tra i clubs italiani utilizzando qualche società
“satellite”, o particolarmente amica, all’estero.
Vi è, infine, da aggiungere che la società che “perde” il giovane di serie, trasferitosi all’estero,
ha tuttavia diritto a percepire dalla nuova società che stipula il primo contratto da professionista la
c.d. “training compensation”9, un’indennità parametrata al periodo di formazione svolto dalla
società originaria, alla categoria FIFA in cui sono inserite le rispettive Federazioni Nazionali, ecc.
Attualmente, ad esempio, qualora un giovane italiano si trasferisca ad una società inglese e lì venga
tesserato per la prima volta come professionista, la società italiana che ha formato il giocatore potrà
ottenere, in base ai parametri pubblicati dalla FIFA, un’indennità di circa 300/400 mila euro.
Un importo consistente (e che, a dir la verità, pochi clubs italiani sarebbero disposti ad
investire per assicurarsi le prestazioni di giovani talenti e potenziali campioni) ma indubbiamente
9
Art. 20 e Allegato 4 - Regolamento FIFA in materia di status e trasferimento dei calciatori.
92
NOTE A SENTENZA
Il caso Camilleri...
lontano da quello che la stessa società potrebbe realizzare cedendo lo stesso giocatore dopo aver
completato il processo di formazione ed averlo fatto giocare in prima squadra.
Possibili soluzioni?
È evidente che, tutto sommato, se davvero la società titolare del rapporto di addestramento
fosse convinta delle potenzialità del proprio atleta, ben potrebbe, così come fanno le società inglesi,
“scommettere” sulla carriera dello stesso e dunque fare un investimento offrendogli il contratto da
professionista. Diversi talenti sedicenni hanno lasciato l’Italia proprio perché le loro società si erano
mostrate piuttosto restìe alla stipulazione del primo contratto.
Tuttavia, è necessario sottolineare che, anche un’offerta tempestiva, ossia contestuale al
compimento dei 16 anni, potrebbe non rivelarsi sufficiente, nell’odierno quadro giuridico –
economico, per trattenere il giocatore.
Le società italiane, infatti, nei rari casi in cui decidono di stipulare il contratto con calciatori
appena sedicenni, offrono loro un contratto ai c.d. “minimi federali”, pari ad un importo netto annuo
di circa 20.000 euro, una cifra assolutamente non concorrenziale con quelle offerte, e spesso solo
promesse10…, dalle società inglesi. A ciò si aggiunga che il giovane, in quanto minorenne, potrebbe
essere messo sotto contratto solo per tre anni e dunque a 19 anni sarebbe nuovamente libero di
decidere autonomamente una nuova ed eventuale destinazione. Infine, come ha evidenziato proprio
il caso Camilleri, la stessa tempistica delle norme e degli usi praticati dai nostri clubs non sono
spesso un deterrente efficace per impedire queste fughe: il contratto, infatti, può essere concluso
solo quando il giocatore abbia compiuto i 16 anni ma è evidente che giocare d’anticipo è, nello
scenario attuale, quanto mai decisivo.
Camilleri è stato contattato informalmente dai responsabili del Chelsea prima che compisse i
16 anni ed è quindi necessario, per una società che volesse in futuro evitare simili episodi, illustrare
per tempo il progetto sportivo riguardante l’atleta e formulare, se lo ritiene, un’offerta competitiva e
tempestiva, fermo restando che l’efficacia del contratto non potrebbe che decorrere dal giorno in cui
il ragazzo compia 16 anni.
10
Tanti ragazzi partono per l’avventura calcistica in Gran Bretagna forse troppo prematuramente. Cfr. la storia di due giovani del
vivaio della Lazio, Giordano Pellegrino ed Alessandro Cosimi, trasferitisi in Scozia, al Livingston, e di qui rientrati in Italia, in un
articolo di Fabio Massimo Splendore – Corriere dello Sport Stadio – aprile 2003.
93
NOTE A SENTENZA
Il caso Camilleri...
Un’altra possibile soluzione, già prospettata, è rappresentata dall’introduzione di un contratto
di formazione che andrebbe a vincolare gli ultrasedicenni in modo non dissimile dal sistema dello
scholarship agreement inglese.
Tale strumento negoziale avrebbe senz’altro il pregio di arginare i trasferimenti all’estero:
non vi sarebbe più, infatti, un semplice tesseramento come giovane di serie che la giurisprudenza
tende a sacrificare di fronte alla stipulazione di un contratto di lavoro sportivo; il giovane sarebbe,
quindi, a tutti gli effetti, sotto contratto con la società che cura la sua formazione con una maggiore
tutela anche per gli investimenti di quest’ultima.
Infine, nell’attesa che Federazione e Leghe interessate individuino lo strumento normativo
ritenuto più idoneo ad assicurare la crescita in Italia di tanti nostri talenti, una soluzione provvisoria
potrebbe anche essere quella di estendere la regola non scritta di non farsi concorrenza reciproca,
esistente tra le società italiane, a tutte le società di Federazioni UEFA, atteso anche l’orientamento
più volte in proposito manifestato dal Presidente della Confederazione Europea, Michel Platini.
Si tratterebbe, con tutta evidenza, di uno strumento giuridicamente molto debole ed affidato
alle buone intenzioni dei diversi protagonisti, nell’attesa, magari, che anche a livello internazionale
si introduca una normativa che miri a salvaguardare i giovani, assicurando la loro crescita sportiva e
psicofisica nell’ambiente d’origine per evitare che, sfruttando le norme giuridiche e le maglie che
tra queste si aprono, dai sogni ci si risvegli troppo bruscamente.
(*) Avvocato. Laureato in Diritto Sportivo presso la LUISS Guido Carli – Roma
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NOTE A SENTENZA
PARTE TERZA
COMMENTI
SOMMARIO:
MARCO DEL ZOTTO, Il Decalogo dello sciatore fondamento per l’armonizzazione
del diritto della neve
95
pag.96
Il decalogo dello sciatore...
Il Decalogo dello sciatore
REGOLA 0
Lo sci è uno sport e come tutti gli sport comporta certi rischi e certe responsabilità di carattere
civile e penale.Le regole F.I.S. debbono essere considerate come la sintesi del modello ideale di
comportamento dello sciatore coscienzioso, prudente e diligente. Esse enunciano le principali
modalità di comportamento, proprie della pratica dello sci, la cui osservanza è essenziale per la
circolazione degli sciatori.
Tutti gli sciatori sono tenuti a conoscere le regole della circolazione con gli sci e ad
osservarle.La loro inosservanza pone lo sciatore in una condizione di difetto dalla quale può
derivare responsabilità in caso di incidente.
REGOLA 1
Rispetto per gli altri. Ogni sciatore deve comportarsi in modo da non mettere in pericolo la
persona altrui o provocare danno.
Le regole F.I.S. riguardano tutti gli sciatori.
Anche i partecipanti alle gare, soggetti ai regolamenti nazionali ed internazionali delle gare di
sci, debbono osservarle. L’integrità della persona resta al disopra o al di là di ogni risultato sportivo.
Le regole F.I.S. riguardano anche gli allievi delle Scuole di Sci. I Maestri di sci debbono
osservarle. Insegnarle e farle osservare dai loro allievi.
REGOLA 2
Padronanza della velocità del comportamento.
Ogni sciatore deve tenere una velocità e un comportamento adeguati alla propria capacità
nonchè alle condizioni generali e del tempo.
Gli sciatori debbono conformare il comportamento e la velocità al tipo della pista. E’ normale
che uno sciatore proceda veloce su una pista ripida (generalmente frequentata da buoni sciatori).
E’ normale che uno sciatore proceda lentamente su una pista facile (abitualmente frequentata
da principianti).
Il dovere di prudenza e l’ osservanza delle regole di condotta divengono tanto più categorici
per lo sciatore che reca intralcio alla circolazione procedendo lento su una pista veloce o veloce su
96
COMMENTI
Il decalogo dello sciatore...
una pista lenta. Tutti gli sciatori sia provetti che principianti, debbono procedere lentamente nelle
zone affollate e specialmente al termine delle piste e in prossimità della partenza degli impianti di
risalita. Lo sciatore deve potersi fermare, girare o compiere evoluzioni nei limiti della visibilità.
REGOLA 3
Scelta della direzione.
Lo sciatore a monte il quale, per la posizione dominante, ha la possibilità di scelta del
percorso, deve tenere una direzione che eviti il pericolo di collisione con lo sciatore a valle.
a) La PRIORITA’ dello sciatore a valle va intesa anche a favore dello sciatore che precede,
relativamente alle evoluzioni normalmente prevedibili.
b) Il compiere evoluzioni è tipico dello sport dello sci e pertanto ciascuno di può procedere a
proprio piacimento, ma sempre nel rispetto delle regole della circolazione, tenendo conto delle sue
capacità personali e della situazione ambientale (tipo di pista, qualità della neve, visibilità,
affollamento ecc.).
c) La F.I.S. è, per principio, contraria ad una regolamentazione impositiva delle manovre
dirette ad evitare impatti o ad eseguire il sorpasso (a destra, a sinistra, a monte, a valle). Ciascuno
deve decidere da sè quale la manovra da compiere in relazione alla situazione del momento.
d) Lo sciatore di media prudenza e diligenza è tenuto a a prestare attenzione a ciò che entra
normalmente nel campo della sua visibilità, in rapporto alle proprie evoluzioni, avanti, ai lati ed in
basso.
e) L’ evoluzione normalmente prevedibile è quella definita nella presente regola ed in
particolare nel paragrafo b).
REGOLA 4
Sorpasso.
Il sorpasso può essere effettuato tanto a monte quanto a valle, sulla destra o sulla sinistra, ma
sempre a una distanza tale da consentire le evoluzioni dello sciatore sorpassato.
Il comportamento cui è tenuto lo sciatore che sorpassa deve essere mantenuto fino a sorpasso
completamente ultimato e deve essere tale che lo sciatore sorpassato non debba trovarsi in difficoltà
a causa dello sciatore che lo sorpassa.
La regola relativa al sorpasso si applica anche al sorpasso dello sciatore fermo.
97
COMMENTI
Il decalogo dello sciatore...
REGOLA 5
Attraversamento e incrocio.
Lo sciatore che si immette su una pista o attraversa un un terreno di esercitazione, deve
assicurarsi, mediante controllo visivo a monte e a valle, di poterlo fare senza pericolo per sè e per
gli altri. Lo stesso comportamento deve essere tenuto dopo ogni sosta. Qualsiasi manovra
divergente dal normale andamento della circolazione sulla pista può essere pericolosa e richiede
particolare prudenza.
Specialmente:
- L’immissione in pista.
- L’ attraversamento della pista di un campo scuola.
- La partenza dopo l’arresto.
- Manovre inconsuete, acrobazie ed esibizionismi particolari, ecc.
REGOLA 6
Sosta. Lo sciatore deve evitare di fermarsi, se non in caso di assoluta necessità, sulle piste ed
in specie nei passaggi obbligatori o senza visibilità. In caso di caduta lo sciatore deve sgombrare la
pista al più presto possibile. I trattenersi in sosta su una pista di discesa crea una situazione di
intralcio alla circolazione.
La sosta deve essere effettuata ai bordi della pista.
Essa deve essere considerata, sul piano giuridico, come fatto imprevedibile se effettuata in
luoghi pericolosi:(passaggi stretti, passaggi con visuale coperta) laddove le stesse manovre dello
sciatore che discendono divengono per sè fonte di rischio e di pericolo.
REGOLE 7
Salita. Lo sciatore che risale la pista deve procedere soltanto ai bordi di essa ed è tenuto a
discostarsene in casi di cattiva visibilità. Lo stesso comportamento deve tenere lo sciatore che a
piedi discende la pista.
La salita è una manovra che causa intralcio su una pista di discesa. Essa deve effettuarsi ai
bordi della pista, a meno che colui che sale si assicuri continuamente che la sua manovra è senza
pericolo per coloro che discendono.
REGOLA 8
Rispetto della segnaletica. Tutti gli sciatori debbono rispettare la segnaletica delle piste.
98
COMMENTI
Il decalogo dello sciatore...
I segnali di apertura, di chiusura e dei pericoli delle piste sono obbligatori e debbono essere
rispettati.
I segnali di palinatura delle piste in nero, rosso, blu, verde, sono solamente indicativi delle
difficoltà che lo sciatore troverà discendendo. Spetta a ciascun sciatore la scelta della sua pista.
Lo sciatore lento che affronta una pista veloce deve raddoppiare le proprie cautele per essere
sempre in grado di rispettare integralmente le regole di condotta.
Altrettanto deve fare chi procede veloce su una pista lenta (manovra quest’ ultima ritenuta di
intralcio).
REGOLA 9
In caso di incidente. Chiunque deve prestarsi per il soccorso in caso di incidente.
La F.I.S. auspica che la fuga negli incidenti di sci sia penalmente perseguita anche in tutti i
Paesi che che non prevedono ancora tale reato, analogamente al reato di fuga sanzionato dal codice
della strada.
REGOLA 10
Identificazione. Chiunque sia coinvolto in un incidente o ne sia testimone è tenuto a dare le
proprie generalità. La relazione del testimone è di grande importanza per l’ approntamento della
documentazione relativa ad incidenti.
E’ questo un dovere morale di persona cosciente dei propri doveri, dovere che ciascuno deve
adempiere.
I rapporti degli enti di soccorso, dei sanitari e dell’ Autorità di polizia offrono un rilevante
apporto alla Giustizia per l’ accertamento di eventuali responsabilità.
99
COMMENTI
Il decalogo dello sciatore...
IL DECALOGO
DELLO SCIATORE FONDAMENTO PER L’ARMONIZZAZIONE
DEL DIRITTO DELLA NEVE
di Marco Del Zotto (*)
Dagli anni ’50 in avanti la pratica dello sci ha avuto uno sviluppo straordinario in tutto l’arco
alpino. Lo sci era diventato uno sport di massa e con la sua diffusione era anche aumentato in
proporzione considerevole il numero degli incidenti.
All’epoca, la mancanza di una normativa specifica, l’ incertezza e la contraddittorietà delle
pronunce giurisprudenziali indussero giuristi e tecnici consci dell’esigenza di dare una
regolamentazione all’attività sciistica a tentare di proporre un primo approccio normativo.
In questo contesto il complesso di regole che finì per imporsi, anche a livello internazionale,
sia per il prestigio dell’ organizzazione dalla quale proveniva, sia per la grande diffusione che ebbe ,
dovuta alla sua chiarezza e sinteticità, fu il noto Decalogo definito ufficialmente : “Regole di
condotta dello sciatore”.
Questi principi vennero elaborati dal Comitato giuridico della Federazione Internazionale
dello Sci (F.I.S.) composto da giuristi di tutti i Paesi in cui l’ attività dello sci veniva praticata. Il
testo definitivo (riprodotto sopra integralmente) venne approvato a Beirut nel maggio del 19671.
Le regole F.I.S. appena promulgate e portate a conoscenza della grande massa degli sciatori e
degli operatori del settore, sia attraverso convegni giuridici, sia attraverso i mass-media,
incontrarono – e incontrano ancora oggi – unanime consenso ed approvazione, in particolare da
parte della dottrina specialistica.2
Le regole della Federazione Internazionale accolte anche dalla Federazione italiana non sono
altro che una raccolta di regole di esperienza, di buona tecnica e di buona educazione.
“La realtà storica di tutti i tempi ci dice che le norme giuridiche dello Stato non sono le sole
esistenti perché accanto ad esse, nello stesso tempo e nello stesso spazio, ben possono esistere
norme di condotta di altre associazioni ed ordinamenti giuridici, che gli appartenenti ad essi
riconoscono come tali e dalle quali si sentano vincolati”
1
Le “regole di condotta dello sciatore” riportate nel testo sono comprensive di commento da parte della Federazione Italiana Sport
Invernali (F.I.S.I.).
2
Vedi Primo Skilex, 19-21 gennaio 1973, relazione SARGENTI, LEER, PRADI e successivi e Primo Forum Giuridico Europeo della
Neve, Bormio 2-4 dicembre 2005 e successivi ;
DOUVIGNEAU, Den Rechtscharakterder Verhaltungregeln fur die Skifahren nach deutschem Recht;
RABINOVITCH, op. cit., p. 140;
FRATTAROLO, La responsabilità civile per l’attività sportiva, Milano, 1984, p.84;
BONDONI, Il diritto sugli sci, Libreria Giuridica Editrice, 1977, p.50.
100
COMMENTI
Il decalogo dello sciatore...
Il preambolo del Decalogo dello sciatore(Regola 0) rimanda alle norme del diritto positivo.
Le Regole F.I.S. non sono quindi dirette a ricomporre contrasti di interesse, ma costituiscono
solo un punto di riferimento per la formazione di una buona educazione collettiva.
Acquisiscono rilevanza giuridica, come altre regole di condotta extra giuridiche, al fine dell’
accertamento della colpa sia nel giudizio penale, per l’ applicazione delle sanzioni previste dall’
ordinamento, sia in quello civile per il risarcimento del danno.
Il delitto è colposo ai sensi dell’ art. 43 del codice penale, “quando l’ evento, anche se
preveduto, non è voluto dall’ agente, e si verifica a causa di negligenza o imprudenza o imperizia
ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline”.
Sul terreno del reato causalmente orientato con evento naturalistico, che rappresenta il più
importante modello di responsabilità colposa, il contenuto della regola si specifica in rapporto all’
evento da evitare.
L’ azione tipica da considerare sarà quindi quella che, nel complesso degli atti compiuti da un
soggetto e causalmente collegati all’ evento, per prima dia luogo ad una situazione di contrarietà
con la regola di condotta a contenuto preventivo3.
Dottrina e giurisprudenza sono concordi nel non ritenere equiparabili le regole di condotta
dello sciatore all’articolo 43, III comma del codice penale, in quanto non possono essere
contemplate nè come regolamento, nè tanto meno come ordine o disciplina4.
Ciò è confermato dal fatto che gli stessi autori del Decalogo dello sciatore si trovarono di
fronte a una scelta da compiere al momento di stilare le regole. Al fine di dare una disciplina alla
circolazione sulle piste di sci potevano attivarsi per investire i singoli Parlamenti nazionali, organi
costituzionalmente preposti all’ emanazione delle norme, affinchè emettessero leggi al riguardo
ovvero seguire la via dell’ autopoiesi di norme, cercando di dare alle stesse la maggiore diffusione
possibile e di ottenere un generale consenso ed una generale osservanza da parte di tutti gli sciatori.
Gli estensori di quelle regole si resero conto che chiamare in causa i singoli Parlamenti
sarebbe stata sicuramente la strada più lunga e difficile e per di più non avrebbe assicurato quella
uniformità normativa che si voleva ottenere a livello internazionale5.
3
GALLO M., voce Colpa penale,in Enc. Dir., VII, Milano, 1960, p.634.
Su tutti vedi BONDONI, Il diritto sugli sci, 1977.
Per la giurisprudenza vedi: Pretura di Bolzano, 22 dicembre 1983; Pretura Penale di Langhirano 16 aprile 1985;
5
Cfr. relazione del Dott. Leer al Comitato giuridico F.I.S. e commento di G. Lazzarini, in Atti del Convegno di Chamonix, 9
novembre 1969.
Contra per la soluzione legislativa, vedi Deliberazione del Centro Internazionale di Studi Giuridici, Cortina d’ Ampezzo, 910 aprile 1976, in Problemi di infortunistica sciatoria, AA. VV., Milano 1976.
4
101
COMMENTI
Il decalogo dello sciatore...
Così scelsero di elaborare alcuni precetti che servissero agli sciatori per uniformare la propria
condotta sciistica delle regole che non avessero il limite territoriale dei confini della Nazione che le
aveva emanate e con un iter formativo sicuramente più veloce perchè privo dei lunghi tempi di
elaborazione e di promulgazione delle norme aventi valore di legge.
In conclusione le Regole F.I.S. non sono altro che norme create liberamente dalla stessa
società civile, attraverso i suoi giuristi più esperti in materia, nate al fine di regolamentare un settore
ancora privo di qualsiasi disciplina.
Sono norme che nascono dall’ osservazione della realtà, valutata alla luce dell’ esperienza
tecnica e del buon senso e sono dirette da un lato alla coscienza degli stessi componenti della
società, affinchè nell’ interesse comune ne osservino i precetti, dall’ altro agli operatori del diritto,
affinchè si possano servire di tali regole per risolvere in concreto situazioni che fino ad allora non
avevano mai avuto una disciplina che regolasse la materia.
Così come abbiamo detto, il testo definitivo delle Regole di condotta dello sciatore fu
approvato a Beirut nel maggio del 1967, ma la sua elaborazione iniziò già nel 19646.
Tale era l’ importanza del lavoro della Commissione giuridica della Federazione
Internazionale dello Sci e la forza normativa di queste regole, che già l’ anno precedente alla
loro definitiva consacrazione, nell’ ambito dei primi tentativi di regolamentazione della materia, una
sentenza della Cassazione7 statuì che tali regole avevano valore di norme di comune prudenza.
Il contenuto di questa importante sentenza della Corte di Cassazione si può suddividere in vari
punti:
1) Un comportamento è penalmente illecito quando determini lesioni per colpa;
2) La violazione di norme di comune prudenza e perizia configura la colpa;
3) Le norme di comune prudenza e perizia, nel campo della attività sciatoria, sono quelle
stabilite dal Decalogo dello sciatore;
4) Il comportamento dello sciatore è penalmente illecito, quando causa lesioni a terzi per
inosservanza delle Regole di condotta della F.I.S.;
5) Posto “che nessun praticante lo sci può ignorare nè trascurare” dette norme, esse
appartengono alla normativa penale per incorporazione determinandone il contenuto del comando o
del divieto e sono da considerarsi vere e proprie norme penali.
6
7
Vedi sentenza Pretura Penale di Langhirano n.13, 16 aprile 1985, in Riv. Diritto Sportivo 1986, p.59.
Sentenza della Cassazione, sez. VI penale, 23 febbraio 1966, ric. Floreanini.
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COMMENTI
Il decalogo dello sciatore...
La loro ignoranza non può quindi essere invocata come causa di esclusione della punibilità, ai
sensi dell’ art. 5 del Codice Penale.
La giurisprudenza può considerarsi univoca8 nel non ritenere riconducibili le “Regole di
condotta dello sciatore” all’ art. 43 3° comma del Codice Penale e contestualmente nel dare alle
stesse “valore di norme di comune prudenza che non possono essere ignorate nè trascurate da tutti
coloro che praticano lo sci”9.
L’ attribuzione alle Regole di condotta dello sciatore del valore di norme di comune
prudenza10 è avvalorato dal loro richiamo da parte di numerosi giudici sui concetti di controllo della
velocità e piena padronanza nell’utilizzo di mezzi come gli sci, che per l’ ordinamento giuridico non
avevano una collocazione ancora definita11.
Ancora oggi, le regole di condotta approvate a Beirut nel lontano 1967 sono pacificamente il
riferimento normativo di dottrina e giurisprudenza internazionali, seppure recentemente, a livello
legislativo, alcuni Stati, tra cui l’Italia, abbiano adottato normative specifiche volte a disciplinare la
condotta degli sciatori12.
Un tanto ha determinato una frammentazione di regole,
in contrasto con l’obiettivo di
armonizzare le legislazioni degli Stati membri dell’Unione Europea perseguito ormai da anni anche
8
L’ unica sentenza che esclude il riferimento alle regole del Decalogo dello sciatore è della Pretura di Pistoia, 8 maggio 1968, imp.
Seracini. “Rileva questo Giudice che sono da escludere per la decisione del caso di specie le c.d. norme costituenti il “Decalogo dello
sciatore”, siccome non formanti un gruppo di norme codificate dal legislatore e, pertanto cogenti ed inderogabili... Esse servono
unicamente allo sciatore per uniformare, se vuole, la propria condotta sciistica, senza però che in caso di inosservanza, egli possa
ritenersi colpevole di qualche infrazione e senza che la stessa possa costituire un elemento colposo integrante la fattispecie
penalmente prevista”.
9
Pretura Penale di Bolzano, 22 dicembre 1983 - Est. Pellegrini - Imp. Eisath.
Le regole di condotta dello sciatore emanate dalla F.I.S. non sono riconducibili alle discipline richiamate dall’ Art. 43 III
comma del c.p., ma hanno tuttavia valore di norme di comune prudenza, che non possono essere ignorate nè trascurate da tutti coloro
che praticano lo sci.
E’ responsabile del reato di lesioni colpose lo sciatore, che non tenendo una velocità adeguata ai propri mezzi, abbia ad
investire altro sciatore causandogli danno.
E’ responsabile della collisione lo sciatore che provenendo da monte non tenga una direzione atta ad evitare la collisione
con lo sciatore a valle, che lo precede.
10
Vedi oltre alla cit. sentenza della Pretura di Bolozano, 22 dicembre 1983: Pretore di Bolzano, 17 gennaio 1981, est. Pellegrini;
Pretura Penale di Langhirano cit..
Inoltre numerose altre sentenze si attengono ai principi enunciati nel Decalogo dello sciatore pur senza espressamente
menzionarli come fonte della decisione: Tribunale di Parma, 10 maggio 1977, in Resp. civile e previdenza, 1977, p. 5-6, con
commento di G. Bondoni; Tribunale di Trento, 28 marzo 1975, ibidem, 1976, p.303 con commento di G. Bondoni;Tribunale di
Milano, 16 luglio 1981, ibidem, 1981, 593; Tribunale di Bolzano, 22 marzo 1985, Dehberger- Kramer; Tribunale di Trento, 10
gennaio 1980, Fischbach- Kopplinger; Pretore di Monguelfo, 1 marzo 1984 n.23.
11
Tra le tante si vedano già: Corte d’ Appello di Genova, 11 febbraio 1981, in Riv. diritto del Lavoro,1982, 186. “Nella pratica dello
sci devono essere osservate le regole di condotta emanate dalla Federazione Internazionale dello Sci”
Tribunale di Bolzano, 19 ottobre 1984, est. Martinolli. “Nella vita sociale si verificano spesso situazioni nelle quali da una
attività diretta ad uno scopo possono derivare conseguenze dannose per i terzi. L’ esperienza comune o tecnica, propria di tutti gli
uomini o di una categoria esplicante una determinata attività, insegna che in questi casi bisogna usare particolari attenzioni. Sorgono
per tal modo delle regole di condotta... le regole di condotta, previste dal Decalogo della F.I.S. sono assunte ormai a dignità di norme
di comune prudenza”.
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COMMENTI
Il decalogo dello sciatore...
nel mondo dello sci, considerata inoltre la sempre maggiore rilevanza del fenomeno della mobilità
degli sciatori comunitari e non stimolati a conoscere piste e stazioni invernali diverse.
La completezza, la chiarezza e l’attualità dei precetti contenuti nel Decalogo, hanno indotto i
giuristi esperti di diritto degli sport invernali – quarant’anni dopo l’approvazione del Decalogo dello
Sciatore – a ritenere nuovamente indispensabile e assolutamente prioritaria l’adozione di misure
rivolte a fissare regole uniformi di comportamento degli sciatori sollecitando il formale recepimento
da parte dei singoli Stati, nei quali si praticano gli Sport invernali, di quelle Regole di condotta
emanate dalla Federazione Internazionale dello Sci (F.I.S.), che pur pienamente accettate per
l’autorevolezza e prestigio dell’organizzazione da cui promanano e concretamente applicate dalla
giurisprudenza più autorevole dei vari Paesi europei, non sono ancora entrate a far parte a
sufficienza della coscienza collettiva dei praticanti13.
Dare a queste sperimentate regole formale veste giuridica, contribuirebbe a rafforzarne valore
precettivo, imperatività e certezza, contribuendo a realizzare quella maggiore sicurezza che è
auspicata da tutti coloro che praticano lo sci14.
Anche da questo spunto normativo, benché settoriale e specialistico, emerge la grande forza
persuasiva di regole chiaramente leggibili, ispirate dall’esperienza e caratterizzate da semplicità e
ragionevolezza.
(*) Avvocato. Maestro di Sci
Tribunale penale di Bolzano, 3 dicembre 1984, est. Martin. “Nell’ individuazione dei criteri da adottare nel comportamento
sciistico, si è posto l’ accento sulle regole generali di prudenza, che stanno alla base della valutazione della colpa penale. A tale
proposito pare opportuno ricordare il Decalogo dello sciatore della F.I.S., con il quale si è ritenuto dettare regole generali per tutti gli
sciatori... Il Decalogo anche se non vincolante, detta delle sue enunciazioni di principio, delle regole nella pratica sportiva, tese ad
evitare comportamenti oggettivamente o soggettivamente colposi”.
Pretura di Langhirano sentenza cit.: “(Omissis)... E’ responsabile del reato di lesioni colpose lo sciatore che non tenendo
una velocità adeguata alla situazione e non osservando nel sorpasso una distanza di sicurezza abbia investito un altro sciatore
provocandogli danni”.
12
In Italia è vigente la legge n.363 del 24/12/2003 la quale al capo II (artt.8 e seguenti) ha recepito – peraltro con differenze talvolta
significative - il Decalogo dello Sciatore.
13
Si veda la Risoluzione del Comitato scientifico del Forum Giuridico Europeo della Neve di Bormio, 2 dicembre 2006.
14
La dottrina internazionale auspica che l’Unione Europea, considerata l’importanza del fenomeno della circolazione degli sciatori,
che per la sua crescente “mobilità” all’interno dell’Unione presenta larghe affinità con la circolazione stradale, valuti l’opportunità di
emanare una direttiva che indirizzi gli Stati membri verso il recepimento formale delle “regole di condotta degli sciatori” emanate
dalla F.I.S., da attuarsi da ciascuno Stato nella forma ritenuta più opportuna.
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