CENNI DI STORIA DEL TEATRO A cura di Giuseppe Riccardo Festa 1. Le Origini: La Grecia e Roma Perché esiste il Teatro? Quale bisogno spinge gli esseri umani, non appena la loro crescita culturale raggiunge un certo livello, a rappresentare se stessi su un palcoscenico? C’è qualcosa di profondo, in questa necessità di specchiarsi nelle vicende che un gruppo di bugiardi interpreta là sopra, e nel lasciarsi coinvolgere e compenetrare – attori e spettatori - da una finzione che sembra diventare più vera della realtà. Ho detto, e confermo, che gli attori sono bugiardi. E tanto più sono bugiardi, quanto più riescono a farci dimenticare di esserlo. I greci li chiamavano hypocrites: quelli che fingono. Anche nel caso degli attori, tuttavia, assistiamo ad una strana schizofrenia perché l’attore, che pure ha provato e riprovato la sua parte, e l’ha magari rappresentata diecine di volte, ogni volta finisce – anzi: deve finire - con l’identificarsi con il personaggio che rappresenta, pur sapendo benissimo di non esserlo. L’attore è un bugiardo sincero, se mi passate l’ossimoro. E così lo spettatore si lascia trascinare dalla finzione della realtà, mentre l’attore si lascia compenetrare dalla realtà della finzione. La rappresentazione teatrale nasce in Europa in Grecia, con la tragedia, e trova la sua origine in motivazioni religiose. La stessa parola tragedia, ovviamente greca, trae origine, chi l’avrebbe mai detto, da tragos, un’altra parola greca, che significa montone: il montone che veniva sacrificato a Dioniso. Dioniso è il dio del vino e dell’ebbrezza, che ci spinge a cercare la verità attraverso l’ombra, scendendo nelle tenebre, e scandagliando l’io profondo. A Dioniso, durante le celebrazioni a lui dedicate, in aggiunta al sacrificio del montone, il tragos che dicevamo prima, veniva dedicato un racconto cantato, chiamato ditirambo, un canto corale dal carattere festoso, tipicamente dedicato al culto di Dionisio. Così ne parla Aristotele nell’Ars Poetica: Sorta dunque da un principio di improvvisazione - sia la tragedia che la commedia, l’una da quella che guidavano il ditirambo, l’altra da coloro che guidavano i cortei fallici che ancora oggi rimangono in uso in molte città - a poco a poco crebbe perché i poeti sviluppavano quanto in essa veniva manifestandosi, ed essendo passata per molti mutamenti la tragedia smise di mutare quando ebbe conseguito la propria natura. Insomma il ditirambo andò a mano a mano evolvendosi fino a perdere ogni rapporto con la divinità ed il suo culto ed assumere una sua autonomia, trasformandosi nel 2 racconto dialogato tra un coro e un uomo, nel quale sono espressi i temi universali dell’infrazione della Legge, della caduta, e del riscatto attraverso il dolore e la catarsi. Notate che questi concetti, mutatis mutandis, appartengono anche al cristianesimo, che con le antiche religioni ha molti più punti di contatto di quanto non gli piaccia ammettere: l’idea di catarsi, per esempio, è alla base della nascita del purgatorio, con le sue fiamme, appunto, purificatrici. Con il tempo nel ditirambo si perse il rapporto con Dioniso, ma non il retrogusto religioso, se vogliamo dir così, che questa funzione svolgeva: la tragedia, come rito di consapevolezza e di purificazione collettiva, affidava all’arte della scena, della musica e del canto l’espressione della religiosità e della cittadinanza politica. La funzione profonda dello spettacolo teatrale, nell’antica Grecia, è dunque catartica: assistere alla rappresentazione dei vizi e delle virtù – soprattutto dei vizi – della propria società permette di liberarsi delle angosce e dei sensi di colpa, diventa una sorta di liberatoria confessione collettiva. E anche se nel tempo, come abbiamo appena visto, la rappresentazione teatrale si è svincolata dalle sue radici religiose;, non ha perso quella valenza profonda che è alla base della sua stessa esistenza, conservando, nell’antica Grecia, un profondo significato di comunione civile e sociale. La parola tragedia, quando la associamo all’antica Grecia, evoca automaticamente tre nomi: quelli di Eschilo, Sofocle, ed Euripide, per mezzo dei quali si compie l’evoluzione della tragedia dalla forma più elementare e schematica, ancora legata, appunto, alle sue origini religiose, verso una 3 più compiuta rappresentazione dell’essere umano nelle sue complesse e molteplici sfaccettature psicologiche, a livello sia sociale che individuale. Eschilo nacque ad Eleusi nel 525 a.C. e morì settantenne a Gela, in Sicilia, nel 456. È il più antico autore di tragedie del quale ci siano pervenute opere complete ed è anche l’iniziatore di questo genere nella sua forma matura. Combatté contro i persiani nelle battaglie di Maratona, nel 490 a.C., di Salamina (480 a.C.) e di Platea. A proposito della battaglia navale di Salamina, argomento della tragedia I Persiani, la tradizione vuole che nello stesso giorno, sulla stessa isola, sia nato Euripide; e nello stesso periodo, si dice, il giovane Sofocle intonava i primi peana (il peana è un canto di vittoria). Ci sono momenti come questi, nella storia delle arti, in cui l’umanità dà il meglio di sé: in Europa, ad esempio, è successo col rinascimento italiano, in pittura, architettura e scultura, e nel periodo d’oro che va dal Seicento alla fine dell’Ottocento con la musica. Alcune opere di Eschilo, come I Persiani o Sette contro Tebe, devono molto alle sue esperienze militari. Ma a parte questo, l’attenzione alle vicende sociali e politiche del suo tempo emerge come caratteristica della sua produzione, almeno la poca che ce ne rimane. Eschilo, tra i grandi poeti greci classici, fu il solo testimone dello sviluppo della democrazia ateniese, cui fa cenno in Le Supplici, che contiene il primo riferimento che sia giunto fino ad oggi di una forma di governo definita “potere del popolo”. 4 Un altro esempio: Nelle Eumenidi parla della creazione dell’areopago, un tribunale incaricato di giudicare gli omicidi. L’opera più famosa di Eschilo è l’Orestea, la trilogia dedicata alle vicende di Oreste, figlio di Agamennone, che uccise la madre Clitemestra ed il suo amante Egisto, i quali a loro volta gli avevano ammazzato il padre al ritorno dalla guerra di Troia. Anche qui Eschilo si focalizza sui problemi sociali: Oreste ha fatto bene a vendicare il padre, ma ha fatto anche male ad uccidere la madre, ragion per cui è perseguitato dalle Erinni, dee vendicatrici; ma arrivato in Atene - che implicitamente è indicata come sede della giustizia - grazie all’intervento di Atena e di Apollo trova finalmente pace, e le Erinni si trasformano in Eumenidi, dee benevole protettrici della concordia. Già prima di Eschilo la tragedia aveva assunto, in Atene, un’importanza fondamentale, tanto che ogni anno vi aveva luogo un Agone, la prima forma di concorso teatrale, nel quale si confrontavano i migliori autori, col vincitore che ne riceveva onori e gloria. Eschilo, che agoni ne vinse diversi, è comunque, di fatto, il padre della tragedia antica a causa delle innovazioni che introdusse nella sua struttura. Fu lui a far apparire sul palco anche un secondo attore: in precedenza nell’azione interveniva insieme al coro un solo attore per volta. Fu una vera rivoluzione nello stile espressivo della tragedia. Da questo momento fu infatti possibile non solo esprimere la narrazione tramite dialoghi (aumentando il coinvolgimento emotivo del pubblico e la complessità espressiva), ma anche iniziare un percorso che, col tempo, avrebbe permesso alla 5 tragedia di rappresentare lo svolgimento di azioni anziché limitarsi a raccontare scene statiche. Questa innovazione, ovviamente, ridimensionò l’importanza del coro che in precedenza, dall’orchestra, era costantemente la controparte all’attore e svolgeva la funzione fondamentale di spiegare gli antefatti: vedremo fra poco quanto ciò fosse necessario, in un contesto che imponeva le tre unità di tempo, luogo e azione. Ho accennato all’Orestea, ed al fatto che è una trilogia. In effetti tutta la produzione Eschilea era costituita da trilogie, una forma che egli impose al teatro ateniese, pur se fino a noi una sola di esse, appunto l’Orestea, è giunta integra con le sue tre tragedie: Agamennone, Le Coefore e Le Eumenidi. Sul piano della compiutezza narrativa, questa strutturazione tripartita permetteva di narrare anche vicende complesse, che si svolgevano in momenti e luoghi differenti: in una sola tragedia questo non sarebbe stato possibile. Una regola ferrea del teatro antico, infatti, impone le tre unità che dicevo un momento fa: di tempo, di luogo, e di azione. Tutto deve accadere in un unico luogo, in un’unica sequenza cronologica e secondo uno sviluppo lineare degli eventi. Per noi, oggi, abituati al cinema che ci sballottola fra le galassie e i secoli, e ai flash-back e ai cambi di scena, la regola è incomprensibile, a tal punto che se non siamo adeguatamente preparati ci riesce difficile sopportare l’esecuzione di una tragedia che rispetti le tre unità; ma allora essa era inderogabile. Quando c’era bisogno di raccontare qualcosa che accadeva altrove, allora si utilizzava l’artificio dell’Araldo, che giungeva sulla scena a narrare 6 l’accaduto e giustificava o determinava lo sviluppo della vicenda; il coro, come ho già detto, raccontava gli antefatti. Un altro artificio tipico del teatro antico, risolutivo anche nella stessa Orestea, è quello famoso del deus ex machina, che noi definiamo con questa formula latina, ma in realtà nasce col teatro greco. Il deus ex machina interviene di solito alla fine della vicenda: si tratta di una divinità che, quando la situazione sembra ormai senza sbocchi e priva di vie d’uscita, risolve tutto e porta a compimento la vicenda. Era detto ex machina in quanto sbucava fuori grazie ad un artificio tecnico, di solito emergendo da una botola. La locuzione è poi diventata proverbiale per interventi fortunosi – e soprattutto artificiosi, estranei alla logica della vicenda – grazie ai quali si risolvono, appunto, situazioni apparentemente insolubili. Nel teatro a noi più vicino l’esempio più famoso di deus ex machina – anche se la macchina non c’è - è l’inviato del re che, alla fine del Tartuffe di Molière, risolve la situazione consentendo un lieto fine altrimenti impensabile. Tornando a Eschilo, delle novanta opere, che si dice avesse scritto, fino a noi ne sono giunte solo sette: oltre all’Orestea, I Persiani, che racconta la disperazione dei Persiani, appunto, dopo la sconfitta di Salamina; il Prometeo incatenato, inno all’orgoglio del titano che osa sfidare Zeus con chiari riferimenti al potere ed alla sua legittimità; Le supplici, dedicata alla sacralità delle leggi dell’ospitalità e infine i Sette contro Tebe, storia dell’odio fra Eteocle e Polinice, i figli di Edipo che si contendono il potere sulla città e finiscono per uccidersi tra loro in 7 conseguenza della maledizione scagliata contro di loro dal padre. Tutte queste opere erano parte di trilogie legate, delle quali però non ci sono giunte le parti restanti. E veniamo a Sofocle, che nacque nel 495 o nel 496 a.C. a Colono, nei pressi di Atene. In quanto figlio di un ricco ateniese proprietario di schiavi, ebbe un’ottima educazione, tanto che a 15 anni poté dirigere il coro che dopo la vittoria di Salamina intonò il peana di cui abbiamo già parlato. La sua carriera di autore tragico ebbe presto successo: a 27 anni conquistò il suo primo trionfo in un agone gareggiando con Eschilo. In tutto ottenne 24 vittorie, e fu secondo in tutte le altre occasioni. Fu amico di Pericle e ricoprì importanti cariche politiche e militari, sempre stimatissimo dai concittadini tanto che, quando la statua del dio Asclepio fu trasferita da Epidauro ad Atene, fu designato ad ospitarla nella sua casa finché non fosse stato pronto il santuario destinato al dio. Nelle sue funzioni pubbliche, contribuì all’elaborazione della costituzione dei Quattrocento. Si sposò con Nicostrata, ateniese, che gli diede un figlio, Iofone. Si dice che, poco prima della sua morte, Iofone gli intentò un processo per una questione d’eredità, in pratica accusandolo di essere ormai rimbambito. Ma la semplice lettura dell’ultima ultima opera del padre mise fine al processo: chi aveva scritto versi così non poteva essere fuori di testa, secondo i giudici. Sofocle morì nel 406 a.C. e la sua ultima tragedia, Edipo a Colono, fu rappresentata postuma, lo stesso anno, in segno di grande onore. 8 Proseguendo nell’opera di rinnovamento – di fatto, di invenzione - della tragedia, avviata da Eschilo, ed anche contrastando lo stesso Eschilo, che sconfisse in più di un’occasione negli agoni poetici annuali, Sofocle abolì l’obbligo della “trilogia legata”, introdusse nella tragedia il terzo attore e portò da dodici a quindici il numero dei coreuti, ossia dei componenti del coro. L’introduzione del terzo attore, che superava la rigida contrapposizione di due posizioni antitetiche, avrebbe avuto come conseguenza una maggiore articolazione dei rapporti interpersonali ed una nuova scioltezza dinamica del ritmo teatrale; fu ancora Sofocle, infine, ad introdurre l’uso delle scenografie: fino allora sul palco, oltre al coro ed agli attori, non c’era assolutamente niente. Sofocle scrisse, secondo la tradizione, ben centoventitré tragedie, di cui ci però restano solo Antigone (442 AC), Aiace, Edipo re, Elettra, Filottete (409 AC), Le Trachinie ed Edipo a Colono (406 AC). L’attenzione di Sofocle, più che ai problemi sociali, è rivolta a quelli intimi, i più reconditi e inconfessabili della natura umana; valga, come esempio ampiamente esplicativo, la storia di Edipo, che nello stesso tempo svela l’ineluttabilità del fato e soprattutto, come poi Freud avrebbe messo in evidenza, descrive in forma allegorica il dramma dell’uomo che vorrebbe uccidere il padre e sostituirlo accanto alla madre, e nello stesso tempo si odia per il fatto di provare questo desiderio. Sofocle descrive eroi immersi in un mondo di contraddizioni insanabili, di conflitti con forze inevitabilmente destinate a travolgerli. 9 Il suo contributo originale allo sviluppo della tragedia greca sta quindi nell’accentuazione dell’umanità dei personaggi, che dalla loro vana lotta contro il fato ricevono una piena dimensione umana, portatori di un destino che ne è la dannazione e, contemporaneamente, la gloria. Con una netta divergenza rispetto a quelli di Eschilo, i cori tragici sofoclei si defilano dall’azione, della quale sono semplici spettatori e commentatori. È di Sofocle l’introduzione del monologo come forma chiusa all’interno della tragedia, che permette all’attore di mostrare la sua abilità, e al personaggio di esprimere compiutamente i propri pensieri. La psicologia dei personaggi si approfondisce, emerge una analisi inedita della realtà e dell’uomo. Sofocle, profondamente pessimista, toglie enfasi ai personaggi per accentuarne la drammaticità, in un mondo che vede ingiusto e privo di luce. Esempio tipico del suo pensiero è il coro che nell’Edipo a Colono afferma che «la sorte migliore è non nascere». Gli eventi che schiacciano le esistenze degli eroi non sono in alcun modo spiegabili o giustificabili: in questo possiamo vedere l’inizio di una sofferta riflessione sulla condizione umana, ancora attuale nel mondo contemporaneo. Euripide, infine. Come abbiamo visto, la tradizione vuole che Euripide sia nato a Salamina, lo stesso giorno in cui ebbe luogo la famosa battaglia, da una famiglia ateniese rifugiata sull’isola per sfuggire ai Persiani. Il suo nome verrebbe dall’Euripe, il canale marino dove si svolse la battaglia. Stando al commediografo Aristofane, che lo detestava, diversamente dai suoi 10 due illustri predecessori Euripide avrebbe avuto umili origini; ma a smentire le tesi di Aristofane, sta il fatto che ebbe un’educazione e una cultura raffinata, acquisita presso sofisti come Protagora, che non sarebbe stata possibile senza una condizione agiata; i sofisti si facevano pagare profumatamente, per le loro lezioni. Si dice inoltre che Euripide raccolse una ricca biblioteca, una delle prime di cui si abbia notizia e che partecipò a giochi ginnici, ove fu incoronato almeno una volta. Contemporaneo di Socrate, ne divenne amico. Si propose pubblicamente negli agoni come tragediografo a partire dal 455 a.C. ed ottenne con la sua prima opera, Pleiadi, il terzo premio. Presto fu popolare, a tal punto che secondo Plutarco nel 413 a.C., nel corso della guerra del Peloponneso, dopo il disastro navale di Siracusa, i prigionieri ateniesi in grado di recitare una tirata di Euripide furono rilasciati. Verso il 405 a.C. si ritirò a Magnesia, poi in Macedonia, alla corte di Archelao, dove morì. Solo dopo la sua morte, tanto per cambiare, la Grecia riconobbe la sua grandezza e le sue opere divennero famose. Gli ateniesi gli dedicarono nel 330 a.C. una statua di bronzo nel teatro di Dioniso. Euripide si distingue dai due drammaturghi che lo precedono per la sperimentazione tecnica presente in quasi tutte le sue opere e per la maggiore attenzione nella descrizione dei sentimenti, di cui analizza l’evoluzione col mutare degli eventi narrati. La struttura della tragedia euripidea è molto più variegata e ricca di novità di quella del passato, soprattutto per effetto 11 di nuove soluzioni drammatiche, di un maggiore utilizzo del deus ex machina e della progressiva svalutazione del ruolo drammatico del coro, che in Euripide accentua la funzione di pausa, anziché di sviluppo dell’azione, che già aveva avuto da Sofocle. Anche lo stile risente dello sforzo di rompere con la tradizione, come dimostrano l’inserimento di parti dialettiche che allentino la tensione drammatica, e l’alternanza delle modalità narrative. La novità assoluta del teatro euripideo è comunque rappresentata dal realismo col quale tratteggia le dinamiche psicologiche dei suoi personaggi. L’eroe descritto in queste tragedie non è più il risoluto protagonista dei drammi di Eschilo e Sofocle, l’uomo unidimensionale che poi tornerà, ad esempio nel teatro di Byron, Schiller e Alfieri; al contrario, l’eroe di Euripide è spesso una persona problematica ed insicura, non priva di conflitti interiori, le cui motivazioni inconsce il poeta porta alla luce ed analizza. Proprio lo sgretolamento del tradizionale modello eroico porta alla ribalta, in Euripide, la figura femminile. Le protagoniste dei suoi drammi, come Andromaca, Fedra e Medea, sono le nuove figure tragiche del drammaturgo, il quale ne tratteggia sapientemente la tormentata sensibilità e le pulsioni irrazionali (almeno nell’ottica maschile), che si scontrano con il mondo della ragione. Euripide esprime le contraddizioni di una società in mutamento: nelle sue tragedie spesso le motivazioni personali entrano in profondo contrasto con le esigenze del potere e con i vecchi valori fondanti della città greca. La sua Medea, ad esempio, arriva ad uccidere i propri figli pur di non 12 sottostare al matrimonio di convenienza di Giasone con la figlia del re. Delle 92 tragedie da lui scritte ce ne sono giunte solo 17, che non a caso hanno tutte protagoniste femminili, come ad esempio Le Baccanti, Medea, Le Troiane, Ifigenia in Aulide ed Ifigenia in Tauride. Parliamo un attimo di critica teatrale. Il primo a studiare analiticamente il fenomeno teatro su un piano più strettamente artistico è stato Aristotele, che al riguardo ha parlato di mimèsi, cioè di imitazione: imitazione di gesta alte ed epiche, con la tragedia, e di vicende volgari con la commedia. Perché giustappunto, ora passiamo a parlare di commedia. Quando parla di vicende volgari, nella commedia, Aristotele non pensa al significato negativo del termine, ma a quello etimologico: la commedia imita e rappresenta vicende che non appartengono alla storia o al mito, ma alla gente comune. A questo proposito, smentendo clamorosamente – pensate un po’ - proprio Aristotele, vorrei richiamare la vostra attenzione su un momento dell’Odissea, il famoso poema epico, la cui origine è sicuramente anteriore al X secolo AC. Il momento del quale vorrei parlarvi lo si legge nell’Ottavo Libro dell’Odissea: Ulisse è stato finalmente liberato da Calipso, con una zattera che poi Nettuno ha fatto naufragare è arrivato nell’Isola dei Feaci, e dai Feaci è stato accolto e 13 ospitato; ora, durante un banchetto, il cantore Demodoco sta raccontando una storia. Una storia che riguarda sì gli dèi, ma non ha assolutamente niente di epico. È la storia di Venere, la dea dell’amore, che tradisce il marito zoppo, Vulcano, col dio della guerra Marte. Ma il Sole, che vede tutto perché s’intrufola dappertutto, si accorge della tresca e la va a raccontare al marito cornificato; il quale va su tutte le furie ma invece di fare scenate elabora una vendetta astuta: se ne va nella sua officina e prepara una rete tanto solida quanto invisibile, che poi sistema sul letto di casa sua; dopodiché si allontana, ma di poco, fingendo invece di partire per una terra lontana; e subito Marte va a proporre a Venere, che è sì dea ma notoriamente è anche un po’ mignotta, di approfittare della sua assenza; di nuovo il Sole fa da delatore e avverte Vulcano, il quale fa scattare la sua trappola; e i due amanti restano bloccati senza possibilità di movimento; a questo punto il marito tradito fa un baccano indiavolato, ma non per il suo onore tradito: vuole indietro da Giove i tesori che gli ha dato per comperarsi la moglie, e un sostanzioso risarcimento da Marte. Accorrono tutti gli altri dei – solo i maschi, le dee si vergognano della situazione – i quali si scompisciano dalle risate: uno dice a Marte che non gli è servito a niente essere il più agile e veloce degli dèi, se uno sciancato come Vulcano ha potuto bloccarlo; Apollo chiede a Mercurio se gli piacerebbe trovarsi in quella situazione, e Mercurio risponde che per farsi un giretto con Venere affronterebbe anche situazioni peggiori. 14 Solo Nettuno resta serio, e chiede a Vulcano di liberare Marte, facendosi garante per il pagamento del debito; sulle prime Nettuno resiste, ma alla fine cede, ma solo perché Nettuno promette di pagare di tasca sua qualora Marte, una volta liberato, se la squagliasse. La lettura di questo episodio, evidentemente del tutto estraneo alla storia di Ulisse, dei suoi ritorni e delle sue vendette, mi ha lasciato di stucco: è evidentemente un canovaccio, la trama di una commedia, con personaggi che richiamano irresistibilmente la Commedia dell’Arte, anche se è nato duemila anni prima della Commedia dell’Arte ed è inserito in un poema epico, che dalla Commedia dell’Arte è lontano anni luce. Ma è un fatto che nel sole delatore è facile riconoscere il primo germe della maschera di Brighella; Marte è il futuro Miles Gloriosus, dal quale discenderanno tutti i capitani della Commedia dell’Arte; Venere è una Colombina un po’ sopra le righe, Vulcano è Pantalone, avaro e impotente; Mercurio uno Zanni e Apollo Arlecchino; e il serioso Nettuno può ben essere l’antenato del Dottore. possiamo tranquillamente pensare, insomma, che la commedia, nell’antica Grecia, aveva un suo spazio già molto, molto prima che Aristofane deliziasse gli ateniesi con le sue opere. La commedia si pone di fronte alla tragedia come rovescio della stessa medaglia, portando nel teatro quell’ambivalenza che è propria della natura umana: la tragedia ci mostra l’uomo che indossa la corazza dell’eroe; la commedia ce lo mostra quando si soffia il naso, o scivola sulla buccia di 15 banana e cade sul sedere. È lo stesso uomo, solo che lo vediamo da due angolazioni diverse. Sono dunque vicende, quelle della commedia, nelle quali non troviamo eroi dall’indefettibile purezza ideale, o dominati da rovinose e incontrollabili passioni, né, sull’opposto versante, eroi negativi dominati dalla maledizione delle proprie pulsioni assolute; e non ci sono, nella commedia, dèi implacabili e vendicativi, che segnano il destino dei protagonisti fin dalla loro nascita, o benéfici dèi salvatori, che intervengono al momento giusto per risolvere finalmente la situazione. Nella commedia tutto questo non c’è, ma non per questo la commedia è lontana dalla realtà. E se è vero che il teatro è specchio della verità della condizione umana, allora possiamo dire che mentre la verità della tragedia mostra i vertici della virtù o il più profondo dell’abiezione dell’animo umano, la verità della commedia, più modestamente, si colloca nel mezzo: là dove pulsano passioni meno sublimi, forse, ma non per questo meno umane: l’amore, l’avarizia, il desiderio, l’astuzia, la meschinità; e i desideri della gente comune, che se la deve cavare senza sperare che intervenga un dio a cavarla d’impiccio. Ma la commedia, così vicina alla realtà di tutti i giorni, una realtà che non appartiene all’assoluto un po’ teorico cui tende la tragedia – finisce col rivelarsi pericolosa, per l’ordine costituito, perché di questa quotidianità mette in luce, ammiccando, anche i protagonisti: non personaggi remoti nel tempo e nello spazio, ma persone e situazioni vere, di cui gli spettatori hanno esperienza: così, ne Le nuvole, 16 Aristofane mette apertamente alla berlina le rarefatte – e secondo lui speciose - elucubrazioni intellettuali di Socrate e dei suoi seguaci, e in Gli Acarnesi, scritta nel bel mezzo della Guerra del Peloponneso, attacca senza complimenti la politica di Pericle. Aristofane nacque ad Atene intorno al 450 AC, figlio di un Filippo,che possedeva delle terre nell’isola di Egina, dove il futuro commediografo trascorse la giovinezza. Altri autori suoi contemporanei si dedicarono alla commedia, ma lui è l’unico del quale ci siano pervenute delle opere complete. Gli agoni non si svolgevano solo fra autori di tragedie, ma riguardavano anche le commedie; ed Aristofane vinse il suo primo agone nel 427 AC, con una commedia, I Banchet-tanti, che non ci è pervenuta, nella quale ridicolizzava il nuovo sistema educativo. Una cosa va chiarita subito: Aristofane era un conservatore. Le sue commedie più feroci polemizzano con Euripide, che osava modificare le forme e i contenuti della tragedia, e che tratta con disprezzo da villan rifatto; e soprattutto con Socrate, che considera un ciarlatano. Operò principalmente durante il periodo della Guerra del Peloponneso, tragico per Atene, che da dominatrice della Grecia si ridusse, con la definitiva sconfitta del 404 a.C., a potenza dimezzata, sottoposta al controllo di Sparta, dopo che la peste, raccontata da Tucidide, aveva decimato la sua popolazione. Dopo la sconfitta ridimensionò la passione politica e scrisse commedie d’argomento sociale e di costume. 17 Ma questo avvenne, appunto, dopo la fine della guerra. Durante la guerra scrisse commedie che puntavano il dito contro i corrotti e i potenti, e soprattutto contro la guerra stessa. In un’altra opera giovanile, di cui non abbiamo che frammenti, attacca un demagogo che per potere e denaro era pronto a sfruttare le città alleate, un certo Cleone, il quale a sua volta lo accusò di alto tradimento ma evidentemente senza successo, visto che, nel 425 a.C., Aristofane poté rappresentare la già citata Gli Acarnesi, un’ardente arringa contro la guerra, vincitrice del primo premio alle Lenee, un altro concorso teatrale. È, questa, la sua prima commedia di cui abbiamo il testo integrale. L’anno successivo Aristofane continuò i suoi attacchi contro Cleone, del quale fece il personaggio centrale de I Cavalieri, stigmatizzandolo senza pietà come demagogo. Nelle Nuvole si fa beffe degli ammiratori incondizionati di Socrate, il padre della filosofia moderna, che lui però descrive come mezzo filosofo naturalista e mezzo sofista, cattivo educatore della gioventù, cui insegna il Discorso Ingiusto che permette di vincere in ogni dibattito: il filosofo è descritto come un pericolo da scacciare, bruciandone la scuola (nella commedia il Pensatoio). Questa visione che Aristofane ha di Socrate getta un’ombra sulla sua figura, anche in considerazione della condanna a morte che colpì il filosofo nel 399 a.C. Le Vespe tratta un tema di attualità, in una città così litigiosa come Atene, mostrando come la giustizia spesso non è che un commercio e una manipolazione (le “vespe” sono i giudici popolari). 18 Ne La Pace il protagonista, Trigeo, vola fino a un cielo abbandonato perfino dagli dei, disgustati, per liberare Pace dalle grinfie di Polemos, la guerra, con l’aiuto di tutti i Greci e con gran disperazione dei fabbricanti di armi e degli altri mestatori. La commedia è piena di speranza per l’avvenire: fu scritta nel momento in cui Sparta ed Atene negoziavano la Pace di Nicia, 421 a.C. Ci sono pervenute, poi, anche Gli uccelli, commedia del 414 a.C., che descrive la fuga di due ateniesi dai litigi e dalle beghe in cui è piombata la città. I due, per trovare la pace vanno a vivere tra gli uccelli; le Tesmoforiazuse, ovvero Le donne alla festa di Demetra, ove viene messo alla gogna il tragediografo Euripide, dipinto come misogino, in un’estesa parodia delle sue opere; la Lisistrata, la sua commedia più celebre, incentrata su un vero e proprio sciopero del sesso da parte delle donne della Grecia intera, guidate appunto da Lisistrata (il nome stesso la dice lunga: significa distruttrice di eserciti) per spronare i propri mariti alla pace; Le rane in cui lo stesso dio del teatro, Dioniso, si reca all’Aldilà per scegliere un poeta che con i suoi consigli possa salvare la città di Atene dall’incombente rovina (poeta che sarà non Euripide, recentemente deceduto, bensì il vecchio, più “sano” e non degenerato Eschilo). Infine l’ultimo Aristofane, nell’Atene degli inizi del IV sec. mise in scena Le Ecclesiazuse, ovvero Le Donne all’Assemblea, in cui, con una sorta di colpo di stato comunista, le donne prendono il potere esautorando i deboli mariti e infine, nel 388 a.C., l’ultima commedia pervenutaci, il Pluto, che narra il recupero della vista da parte del dio cieco 19 della ricchezza il quale, da allora in poi, avrebbe premiato solo quanti se lo meritassero. La morte, probabilmente, colse Aristofane di lì a poco. Prima di spostarci in Italia, diamo ora un’occhiata al luogo deputato ad ospitare le rappresentazioni teatrali. Quello dell’edificazione di un teatro è considerato uno dei maggiori esiti dell’architettura, tanto nell’antica quanto nella civiltà moderna. A voler essere proprio scrupolosi, l’inizio dell’architettura teatrale non coincide con le prime manifestazioni teatrali di cui si abbia conoscenza. Se si ritiene che il rapporto tra un evento spettacolare ed il pubblico che vi assiste sia condizione sufficiente per il compimento di un evento teatrale, allora vanno inserite in questa categoria anche manifestazioni che hanno poco a che vedere col teatro nel senso comune del termine, come le parate militari, la retorica a fini propagandistici e le celebrazioni religiose. Già alcuni testi sacri dell’antico Egitto, ad esempio quello che racconta la morte e la risurrezione del dio Osiride, sono scritti in forma dialogica e probabilmente erano pensati per la rappresentazione. Questa eventuale rappresentazione sarebbe tuttavia avvenuta nell’ambito dell’edificio religioso, e non in un luogo progettato appositamente per la messinscena. Ma questo è un discorso che ci porterebbe lontano, perché è facile individuare una finalità spettacolare anche in certe celebrazioni solenni di tutte le religioni, che in ambito cristiano trovano la massima esaltazione nelle funzioni più solenni, specie della Chiesa Ortodossa, con i luoghi di culto 20 che richiamano molto da vicino ambienti teatrali: le navate come parterre, l’abside come palcoscenico, l’altare come scenografia. Torniamo al mondo del teatro propriamente detto. Prima della civiltà greca sono pochi gli edifici teatrali progettati espressamente per questo scopo: potrebbero rientrare in questa categoria alcuni spazi dei palazzi della civiltà minoica, come il cortile delle feste del palazzo di Festo a Creta. Si trattava di uno spiazzo circondato per tre lati da gradinate che potevano ospitare fino a cinquecento persone venute ad assistere alle danze, alle cerimonie o alle tauromachie che vi si svolgevano. Nella Grecia antica il teatro nasce come semplice spiazzo per il pubblico per poi diventare uno spazio delimitato (circolare o a trapezio) attrezzato con panche di legno, e giungere infine, tra il V e il IV secolo AC, ad essere un’opera architettonica vera e propria. Il teatro greco rimane comunque sempre una struttura a cielo aperto. Già nei più antichi teatri si ritrovano le tre parti essenziali: la cavea (koilon), la nostra platea, a pianta circolare o ellittica nella quale sono disposte le gradinate, suddivise in settori, con i sedili di legno; in genere la cavea è addossata ad una collina per sfruttarne il pendio naturale; la scena (skené), costruzione a pianta allungata, disposta perpendicolarmente all’asse della cavea, inizialmente semplice e in legno, quindi sempre più complessa e abbellita da colonne, nicchie e frontoni, situata ad un livello più alto dell’orchestra con la quale comu- 21 nica mediante scale. Nel teatro greco il fondo è sempre aperto, con il panorama naturale che fa da fondale; l’orchestra (orkhestra), circolare, collocata tra il piano inferiore della cavea e la scena, è lo spazio centrale del teatro greco, riservato al coro: noi oggi lo chiamiamo golfo mistico e ci piazziamo, giustappunto, l’orchestra, che a questo spazio deve il suo nome. Fra i teatri greci di cui ci rimangono notevoli testimonianze vi sono il teatro di Dioniso ad Atene, di Segesta, di Siracusa, di Delfi, di Epidauro, di Taormina. Gli antichi Romani utilizzano il modello del teatro greco, apportandovi però alcune modifiche essenziali. Il primo teatro interamente in muratura della città di Roma è quello di Pompeo, del 55 a.C. Le gradinate semicircolari della cavea poggiano ora su archi e volte in muratura, non sul dorso di una collina, e sono collegate alla scena con loggiati laterali. Questo permette all’edificio del teatro, finalmente autonomo, di avere una collocazione più flessibile – non legata, appunto, alla presenza di una collina, come in Grecia - e di dotarsi di una facciata esterna ornata e monumentale. La facciata della scena è innalzata a numerosi piani e decorata, fino a diventare frons scenae, proscenio. L’uso della scena diventa più complesso per l’uso di macchinari teatrali. Compare il sipario, che durante la rappresentazione si abbassa in un apposito incavo, mentre al di sopra del pubblico il velario, di derivazione navale, è utilizzato per riparare gli spettatori dal sole. Il fondo della scena, diversamente da quello greco, è chiuso, anche in conseguenza della collocazione del tutto diver22 sa che il complesso ha nel contesto architettonico complessivo della città. I Romani, quando edificavano una città o ne colonizzavano una già esistente, si preoccupavano subito di marcarla con segni caratteristici: terme, acquedotti, circhi e teatri. Ragion per cui sono numerosissimi i teatri romani sparsi in tutta Europa. Oltre a quello di Pompeo, a Roma, che abbiamo già citato, ricordiamo quello di Pompei (di forme ancora molto vicine a quelle greche), e ancora a Roma quello di Marcello; e quelli di Ostia, di Napoli, di Ercolano, di Pozzuoli e di Fiesole; e numerosi in giro per l’Europa e l’Africa settentrionale. Ed eccoci, dunque, a parlare del teatro a Roma. Creando le loro colonie in Italia i Greci trovarono popolazioni il cui livello di civiltà era bassissimo in rapporto al loro, e comunque si comportarono con la spocchia tipica di chi a torto o a ragione si ritiene superiore: la parola barbaro, non dimentichiamolo, l’avevano inventata loro, riferendosi alle lingue diverse alla loro. Dunque portarono in Italia tutti i loro costumi e tutte le loro abitudini, ivi incluso il teatro: gli Italici, inclusi i Romani, impararono da loro i rudimenti dell’attività teatrale: in questa, come in innumerevoli altre cose, la Grecia, anche dopo che Roma l’ebbe conquistata manu militari, fu poi maestra dei suoi conquistatori: Graecia capta ferum victorem cepit dice Orazio: la Grecia, conquistata, conquistò il suo rozzo conquistatore. A nulla valsero le resistenze e gli anatemi dei vari Catoni: i Romani, venuti in contatto con una cultura raffinata ed evoluta come quella greca, ne furono incantati, 23 soprattutto ovviamente i patrizi, che presero a proteggere e incoraggiare tutte le attività artistiche, ivi incluse quelle teatrali. Ma già prima, gli influssi del teatro greco si erano fatti sentire. Le popolazioni indigene della Campania si appropriarono della farsa in voga nelle colonie della Magna Grecia, il fliace, che elaborarono trasformandolo nell’atellana, ed inventando personaggi che finiranno per diventare modelli di riferimento per tutto il teatro successivo: Maccus, lo sciocco sbeffeggiato; Bucco, il grasso ciarlatano; Pappus, il vecchio babbeo; Dossennus, il saccente astuto e affamato. A Roma l’atellana si fonde con la Satura, o Satira, diventando exodium atellanum: una breve farsa a canovaccio, d’argomento spesso osceno e ammiccante, recitata dopo la fine delle rappresentazioni ufficiali. I Romani non erano democratici. La classe dominante non sopportava critiche, e quindi, ben altrimenti che in Atene, queste commedie erano prive di riferimenti all’attualità politica. Erano concentrate su vicende più vicine alla realtà quotidiana del popolo, o, se si preferisce, della plebe. Grande collettore delle farse atellane, che trasforma in commedie ricche di intrecci, colpi di scena e caratterizzazioni, è Tito Maccio Plauto, il cui stesso nome è uno sberleffo: Maccio, l’abbiamo appena visto, è uno dei personaggi della commedia atellana; e plauto si diceva di chi aveva i piedi piatti. Ai normali ingredienti dell’atellana, Plauto aggiunge la fantasmagoria del gioco di parole e della parodia, più un qualcosa che trasforma le sue commedie in 24 modelli assoluti. E infatti le ventuno sue commedie che ci sono pervenute sono servite, per secoli, come fonte d’ispirazione per i teatranti di tutta Europa, inclusi un certo William Shakespeare e un tale Francesco Facciolli. Nelle commedie di Plauto ricorre uno schema fisso: c’è prima di tutto un giovane (adulescens) che si innamora di una ragazza. Il suo sogno d’amore incontra sempre dei problemi a realizzarsi, diversi a seconda della donna di cui si innamora: se è una cortigiana deve trovare i soldi per sposarla, se invece è onesta l’ostacolo è di tipo familiare. Ad aiutarlo a superare le varie difficoltà sono il servus callidus (servo scaltro) o il parassita (squattrinato che lo aiuta in cambio di cibo) che con vari inganni e trabocchetti riescono a superare le varie difficoltà ed a far sposare i due. Nell’ambito del teatro drammatico Roma non ha lasciato un’eredità altrettanto importante quanto quella legata alla commedia. L’unico autore del quale ci sono rimaste opere non frammentarie è Seneca, che si rifà a modelli greci,rielaborati però in un’ottica fortemente condizionata dalla sua struttura mentale, fondamentalmente orientata alla morale della filosofia stoica, secondo la quale tutto nel mondo è male e la saggezza sta nell’isolarsene e nel vivere lontano dalle passioni. Quasi a dimostrare la malvagità del mondo, le tragedie di Seneca traboccano di sangue, stupri, incesti e consimili piacevolezze; non è per giunta nemmeno certo che le sue opere fossero destinate alla rappresentazione. L’avvento del cristianesimo e la caduta dell’impero romano vedono decadere l’importanza del teatro – e a maggior 25 ragione della commedia – come momento di aggregazione sociale e di confronto emotivo. La nuova morale non vede di buon occhio che l’uomo individui nei propri comportamenti – ciò che appunto la commedia rappresenta - la causa e la conseguenza delle sue vicende, che, al contrario, deve interpretare come manifestazione di un più alto disegno, di un piano divino. A partire dal quinto secolo, ogni attività teatrale viene quindi bandita, e i teatri scompaiono. L’attività teatrale, tuttavia, sopravvive: compagnie di saltimbanchi si aggirano per le fiere, recitando su palchi di fortuna e mescolando alla recitazione giochi di prestigio e acrobazie. Vivono una vita precaria, col rischio di essere arrestati e giustiziati senza tanti complimenti; e quando muoiono, non è loro concessa la sepoltura in terra consacrata. Un destino, questo, che alle ossa degli attori sarà perpetuato fino al diciottesimo secolo. Tuttavia la Chiesa, che scaccia il teatro dal suo portone, lo fa rientrare dalla sacrestia. Durante tutto il medio evo è invalso l’uso di narrare in forma prima dialogica, poi scenica, gli eventi della vita e della morte del Cristo, in specie durante la settimana santa. L’uso nasce in Italia, con le sacre rappresentazioni, e si diffonde in tutta Europa: in Francia le sacre rappresentazioni sono chiamate mystères (dal latino ministerium, servizio), in Spagna autos sacramentales, in Inghilterra miracle plays. E la storia si ripete: così come era accaduto ai riti dionisiaci, poco a poco queste rappresentazioni diventano sempre più autonome rispetto alla liturgia nella quale erano ori26 ginariamente inserite, più elaborate e, soprattutto, si svincolano dall’originaria lingua latina, per essere eseguite nelle lingue dei paesi ove erano rappresentate. Nasce così il teatro nazionale, differenziato e caratterizzato secondo i luoghi, ma ovunque fortemente imbevuto di valori etici e morali cristiani; da una costola delle sacre rappresentazioni, inoltre, sarebbe nato anche il teatro d’opera. 27