Pangea artistica E’ perentorio il disprezzo (o l’apprezzamento) per una persona quando gli si da della bestia… Epiteto per un attore scadente: “Sei un cane”, mentre per un essere forzuto va bene il toro o anche il bisonte. Una vacca da sempre connota una femminilità troppo ‘espansiva’ , ma non va trascurata l’ape regina, la mantide religiosa: al maschile c’è il mozartiano ‘farfallone amoroso’ … mentre la lupa è altruista. Ad un individuo viscido è naturale associare il serpente e ancora per esaltare le fattezze armoniose di una fanciulla c’è la puledra oppure la gazzella, per un giudizio negativo c’è lo scorfano… Il gufo poi e la civetta… stigmatizzano lo iettatore, una persona schiva è un orso… poi lo sciacallo, iena, ragno, volpe, farfalla, scimmia, maiale, balena… l’elenco è sterminato come sono sterminate le associazioni. Insomma ognuno di noi ha il suo doppio nell’infinita gamma faunistica, che ci piaccia o no, le similitudini bestiali non mancano sia esteriori che comportamentali. Ovviamente anche gli artisti sono soggetti a somatismo animale: Diego Rivera ha la faccia da rospo - così diceva la sua amata Frida Kahlo - ed il resto del corpo da elefante; Antonio Ligabue si percuoteva violentemente il naso con un sasso, per assomigliare sempre più ad un’aquila; Mario Schifano, artista pop romano, era chiamato il puma. Samuel Beckett spiazza tutti, non solo con il suo Godot, ma anche con occhi e lineamenti da rapace, condividendo quei tratti con Max Ernst. Ci sono poi gli artisti ‘aspiranti bestia’ alla ricerca del magnetismo animale: Joseph Beuys con il coyote e la lepre (lepre che per il nostro Vettor Pisani diventa coniglio) e Mario Merz con i suoi apotropaici coccodrilli; singolare è il caso di Jan Fabre che usa centinaia, migliaia di coleotteri nelle sue opere, per i propri abiti, per se stesso. C’è poi Picasso che fra tori, centauri e minotauri non perde l’occasione per un’esuberante immedesimazione; anche Totò dovette accontentare Pasolini, cimentandosi in molteplici e variegati saltelli per comunicare, parlare con gli uccelli. Interrompo la lista e lo faccio con la danza e la sua lotta con la gravitazione terrestre messa in dubbio dai felini balzi di Nijinsky, Nureyev e ora da Bolle. Al femminile, le meduse fanno scuola suggerendo sorprendenti movenze, flessuosità d’acqua portate in teatro da ballerine con o senza tutù. Per Giovanni Lorusso e per Guido Rigno, i due artisti presenti al Parco S. Felice, queste considerazioni però valgono solo relativamente, in quanto il loro rapporto con la ‘bestia’, a mio parere, arriva ad una sorta di ‘scambio metafisico’ fra artista e modello. Nel laboratorio di pittura succede qualcosa di ipnotico, quasi magico; per loro, infatti, l’accumulo di opere non è una moltiplicazione estetica, ma una preziosa riserva iconica che può, all’occorrenza, togliere torpore e noia alla loro esistenza. Per Giovanni Lorusso i soggetti non sono sottoposti ad una particolare analisi estetica: l’importante è trovare animali ‘da compagnia’, con i quali passare un po’ di tempo senza problemi. Eccolo, allora, accostarsi alla misteriosa e apparente pacatezza dei coleotteri, incuriosito dalle dimensioni forse anche dalla loro rassicurante simmetria; egli ne disegna a decine sistemandoli poi accatastati o accostati in modo da poterli osservare, confrontare insomma accudire. Ora, in occasione della mostra, li ha sdraiati diligentemente sull’erba, allineati in una monotona processione come formiche in transito sul prato di S. Felice. Sono centinaia di piccoli insetti disegnati pazientemente, alterando a piacere qualche colore, modificando alcune proporzioni, forse per migliorarli. Per un giorno queste bestiole escono dagli armadi, dai raccoglitori per prendere un po’ d’aria e noi possiamo approfittarne per osservarli nel loro statico percorso labirintico. Possiamo prenderli in mano, guardare da vicino il cartoncino con l’insetto in posa, residuo grafico di ore di insondabile ‘dialogo con l’autore’. Insomma, Giovanni non rientra nelle categorie indicate all’inizio di questo scritto: l’ho osservato a lungo durante anni di laboratorio di pittura, è un caso a parte: la sua scelta da insettivoro è misteriosa, egli li ritrae su cartoncini sistemandoli come tante carte da gioco e li mischia in modo da ottenere vicinanze casuali. La sua perizia tecnico-esecutiva ricorda l’attività dello scriba medievale, il quale sulla pergamena orna le iniziali maiuscole, miniandole, istoriandole attingendo al vasto bestiario araldico. Giovanni si concentra solo su vari incipit per arcani racconti strettamente personali. Insetti discreti nei colori e complessi nella forma, sostanzialmente misteriosi; un mistero senza sorprese traumatiche, tanto che l’artista, pur disegnando e copiando attentamente le apparenze, coltiva volutamente l’ignoranza funzionale di tutte quelle meravigliose forme di insetti-diademi. Spesso se li osserva a lungo, se li gode e sembra quasi se ne voglia adornare, esibendoli quali diademi, blasoni commemorativi di immaginarie esperienze minidonchisciottesche. Strana entomologia la sua: più che studiare gli insetti, Giovanni ne ritrae l’incredibile ornato dove forma e colore si amalgamano in infinite lievi variazioni, godibili solo da chi possegga l’occhio da orologiaio il quale, al posto degli strati complessi di ingranaggi, osservi l’incredibile alternarsi di zampette, antenne e ali su addomi di variegate forme (del resto di insetti ne esistono circa 800.000 specie conosciute). Sarei quasi tentato di parlare d’interesse feticistico di Giovanni per queste incredibili strutture ingegneristiche, talvolta vere e proprie piccole corazzate viventi; ogni allusione simbolica sarebbe, comunque, una forzatura sbrigativa; lascerei stare la psicologia: l’artista ama disegnare questi animaletti con totale naturalezza e questo amore si protrae inalterato nel tempo. Egli chiede loro solamente di posare per arricchire la sua collezione insettografica, la quale alla fine viene consultata ogni qualvolta egli abbia bisogno di una discreta compagnia oppure, in alternativa, Giovanni prende il suo singolare mazzo di carte e le dispone per il solito solitario alchemico. Tutt’altro è il rapporto con la bestia dell’artista Guido Rigno, pittore dalla pennellata ansiosa di farsi forma e forma ansiosa di diventare animale. Sceglie la bestia in preda a fascinazione, sedotto più dai cromatismi urlanti che dalle sue forme; non si interessa alla patetica somiglianza, al mimetismo che ossessionava lo struggente Ligabue. Guido guarda l’animale prescelto con una certa preoccupazione e urgenza esecutiva; lo guarda come fosse un serpente sputatore e, prima che questi attivi il suo attacco velenoso, egli con veloci pennellate lo spiaccica sul foglio. Così rende la bestia inoffensiva e soprattutto godibile nella sua nuova statica bellezza. Egli d’istinto ne coglie la grazia o l’aggressività, senza badare nel rappresentarla a proporzioni o a somiglianza, sbrigativo, ne elenca i tratti distintivi con risultati di fulminea essenzialità. Egli deve avere incontri ravvicinati e veloci, ma sufficienti per memorizzare il dominio del cromatismo. Gli animali sono colori… giallo, rosso, blu, verde, nero… poi c’è forse, la forma della bestia. Rigno spalanca i suoi occhi più della bocca della tigre e sferra pennellate crude, prive di storia, ma efficaci per domare la belva, senza ammansire l’intricato reticolo di neri e gialli che decretano la riuscita del loro mimetismo… infatti il nostro occhio si perde… non capiamo nulla e, quando capiamo, è troppo tardi: stiamo già per essere sbranati dal quadro. Rigno dipinge con facilità sempre nuovi animali; non gli interessa che siano esotici o domestici, tanto è già lui il vero capobranco - un Ares Togni per le tigri e un Lorenz Konrad per le anatre - l’importante è che gli animali ‘seguano’ il suo pennello per essere trasferiti nella bidimensionalità del supporto, dove inizieranno una nuova vita statica, ma ricca di impulsi emotivi coagulati in pulsanti colori… colori ferini che volano, nuotano, camminano, saltano, strisciano… ai suoi animali egli talvolta fa dei primi piani, veri e propri ritratti, presentandoli quali attori del suo grande film (dove ogni interprete, ovviamente, vince l’Oscar). Per Guido una pennellata-piuma è bella quanto una pennellata-occhio… niente è in secondo piano, tutto si affaccia alla sua/nostra curiosità primigenia. Bestie selvatiche o da cortile, egli non discrimina, in tutte c’è del meraviglioso che le rende degne di entrare nella sua collezione zoopittorica. Giovanni espone sul prato, Guido invece in un corridoio-caverna, perché la troppa luce svelerebbe l’importante mistero bestiale… la penombra si addice all’enigma. Dobbiamo attraversare il corridoio in silenzio cercando di ‘regredire’, per cogliere frammenti di panico che connotano la bestia feroce o frammenti di favola per la bestia innocua - amica. Rischiando la retorica, considero questo evento di poche ore un tentativo, per noi spettatori, di giocoso recupero del ‘selvatico’; uno sguardo schietto ci mostra la nostra porzione rimossa di ’bestia’. Ritratti di animali reali o mitici usciti dalla Pangea artistica, supercontinente espressivo ancora intatto, ma già prossimo allo squasso, alla deriva inevitabile dell’arte. Losanna, agosto 2014 Giorgio Fabbris