VINCERE È VIVERE, PERDERE È MORIRE
Marcello Pedretti
M. Pedretti, Vincere è vivere, perdere è morire, Bergasse 19. Cultura e cura psicoanalitica. Atti del Convegno “Dalla
mente di Edipo al volto di Narciso” (Dicembre 2008), Maggio 2009, Ed. Ananke
Una dimensione essenziale della vita è lo spazio del gioco e della fantasia, della creatività.
Donald W. Winnicott sostiene che ove un paziente non sa giocare il primo compito di un terapeuta è
insegnare al paziente a giocare e che per fare ciò occorre entrare nel ritiro del paziente così da
potere trasformare tale ritiro in una regressione alla dipendenza. Per ritiro si intende qui uno spazio
dove la realtà è falsificata, uno spazio personale costruito dal paziente secondo le proprie capacità
come difesa dalle angosce connesse alla vita. Per regressione alla dipendenza si intende quel
fenomeno per cui, ove l’oggetto riesce a farsi presente nel ritiro del paziente, il paziente non è più
solo e può percepire sia la presenza che l’assenza dell’oggetto.
È nel gioco tra presenza e assenza che si apre uno spazio potenziale, che Winnicott chiama
transizionale, uno spazio in cui il neonato prova l’illusione di aver creato l’oggetto presente quando
lo desidera, uno spazio in cui l’oggetto assente può essere ricreato illusoriamente sulla base delle
percezioni pregresse.
Il gioco tra presenza e assenza dà origine a un campo che si allarga sempre più, da spazio tra il
neonato e la madre ambiente, a spazio tra il bambino persona e la madre persona, a spazio tra la
persona e la Realtà nella sua complessità, uno spazio in cui l’essere vivi si manifesta come
creatività artistica e culturale, come apertura al trascendente.
La traumaticità insita nella vita, una mancanza di equilibrio tra spinte pulsionali e capacità di
contenimento dell’ambiente, deficit della relazione, rendono spesso tale gioco insostenibile e allora
non resta che il ritiro. Dove prima la fantasia e l’illusione erano a sostegno della relazione, la
fantasia e l’illusione vengono poste a difesa dalla realtà attraverso la creazione di neorealtà private a
protezione dal dolore psichico, dalla disorganizzazione della mente.
Più avanti cercherò di mostrare come “Vincere è vivere, perdere è morire”, il titolo che ha prestato
un mio paziente a questo lavoro, assume significati diversi in una dimensione pre-edipica, edipica e
post-edipica e in relazione ai percorsi dello sviluppo del Sé.
Riprendendo il titolo volutamente provocatorio del Convegno “Dalla mente di Edipo al volto di
Narciso?”, io vedo sia Narciso che Edipo dotati di una mente e di un volto. Riformulo quindi la
domanda: “Cosa fa sì che Narciso si innamori del proprio volto e che questo amore lo porti alla
morte e che Edipo si accechi trasformando il proprio volto in una maschera di sofferenza e di
sangue, di fronte al cadavere della madre morta, a una conoscenza che si presenta tragica colpa?”
Spesso vediamo i nostri pazienti esitare e arretrare di fronte alla possibilità di riconoscersi come
portatori di un desiderio personale o di fronte a una conoscenza che assume i caratteri di una tragica
mancanza.
Aristotele nella Poetica parla della Tragedia come di un corpo dotato di unità di luogo, di tempo e
d’azione che permette allo spettatore attraverso la pietas di immedesimarsi con i personaggi e
attraverso la stessa immedesimazione lo espone al terrore, permettendo la purificazione dalle
passioni messe in scena dai personaggi. Al centro della Tragedia non è la realtà stessa, ma la
veromiglianza. L’elemento tragico non consiste tanto nell’errore umano, nell’intenzionalità e nella
volontà, quanto nella sproporzione della sventura che si abbatte sul protagonista rispetto alle sue
intenzioni, alla sua responsabilità cosciente. Sia Sofocle nel raccontarci la storia di Edipo che
Ovidio nel raccontarci quella di Narciso si attengono a queste regole.
Se consideriamo la mente come un sistema organizzato di funzioni teso alla sopravvivenza del
soggetto e alla trasmissione della vita, appare evidente come sia Narciso che Edipo falliscono tale
obiettivo.
La Tragedia ha comunque come suo compito quello di prendersi cura delle passioni dell’uomo e
alla morte di Narciso corrisponderà la rinascita sotto forma di fiore, alla incapacità di Edipo di
divenire padre di una discendenza feconda il suo divenire, dopo la morte, il protettore di Atene dai
suoi nemici.
Nel mito di Narciso il rifiuto alla relazione amorosa con l’altro e la morte, attraverso la pietas degli
dei, sono premessa alla nascita dell’omonimo fiore. Sembra qui essere presente una dimensione più
antica del mito dove il fiore di narciso annuncia la primavera, il ritorno sulla terra della vita dopo
l’inverno, una allusione ai passaggi rituali attraverso cui fanciulli e fanciulle accedono alla
dimensione adulta. Per Narciso comunque il passaggio sembra essere non dal passato al futuro, ma
dal presente al passato, come ripresa di un processo germinativo interrotto.
Al centro del mito edipico è la dimensione della colpa, una colpa frutto dell’ignoranza, staccata
dalla responsabilità personale. L’autoaccecamento di Edipo sembra presentarsi come un tentativo
di rinnegare la propria storia, un ripiegamento narcisistico. Anche qui è la pietas degli ateniesi, la
morte e l’intervento degli dei, a permettere la trasformazione, il passaggio da una aggressività
distruttiva e inconsapevole, a una aggressività vitale a protezione di Atene, della terra che gli ha
concesso ospitalità.
Sorge qui spontanea una domanda, che sarà oggetto di riflessione nell’ultima parte del lavoro:
“L’aumento delle patologie narcisistiche nella nostra realtà sociale, al di là delle dimensioni
tragiche sul piano personale e sociale, può rappresentare la premessa indispensabile a una loro
migliore comprensione e all’attivazione di processi trasformativi di sviluppo, ove sia presente una
capacità di pietas ?”
Le tematiche narcisistiche ed edipiche, pur compresenti, si riferiscono a due concettualizzazione
differenti della mente.
La tematica narcisistica ha al centro le dinamiche relazionali e lo sviluppo del Sé, uno sviluppo
indirizzato al costituirsi di un Sé coeso, alle capacità del Sé di apprezzare e ricevere apprezzamento,
di ammirare e di farsi ammirare, alla sviluppo di ambizioni realistiche, alla consapevolezza dei
propri talenti, capacità, limiti e di quelli delle persone che ci circondano. Naturalmente le
gratificazioni narcisistiche sono correlate all’età e, da un punto di vista pulsionale, possono
assumere caratteristiche orali, anali, falliche, o genitali.
La tematica edipica ha invece al centro lo sviluppo del Super-Io e la capacità del Io di interagire con
l’Es e il Super-Io. In un ottica pulsionale la gestione dell’angoscia collegata agli impulsi libidici e
aggressivi, da origine a meccanismi di difesa che vanno dall’evitamento dell’angoscia attraverso il
diniego della realtà, a difese onnipotenti con al centro la rimozione e la modificazione della
consapevolezza, alla trasformazione dell’angoscia come capacità di dare un senso personale alla
propria esperienza.
Il quadro di Fernand Khnopff “La sfinge”, rappresentava bene visivamente la dimensione preedipica. La Sfinge, la cagna incantatrice di Sofocle, non è affrontata e sconfitta, come nella vicenda
di Edipo, ma mantiene una posizione assolutamente centrale. Il giovane, pur tenendo stabilmente
nella sua mano il caduceo, storicamente simbolo di concordia, in cui i serpenti sono espressione di
polarità contrapposte, come la vita e la morte, in cui le ali simboleggiano il primato
dell'intelligenza, che si pone al di sopra della materia e la domina attraverso la conoscenza, è
completamente sbilanciato e attratto verso di lei.
Fernand Khnopff (1858 – 1921)
Des caresses, 1896
Bruxelles, Musées Royaux des Beaux-Arts
[...]
Nella dimensione pre-edipica “Vincere è vivere, perdere è morire” assume il significato di un
tragico inganno. L’intelligenza simboleggiata nel caduceo come principio di armonia tra gli opposti,
come elemento di concordia e guarigione, viene qui usata per falsificare la realtà.
Il soggetto, per mantenere il possesso esclusivo della madre, per difendersi dalla realtà esterna,
falsifica la propria realtà interna, il proprio sentire, trasforma il vissuto di abbandono in vissuto di
trionfo.
[…]
Se Edipo sconfigge la Sfinge, il quadro di Franz von Stuck (1863 – 1928) “Il bacio della sfinge”
svela l’esito fatale dell’inganno, essere baciati è morire.
Franz von Stuck (1863 - 1928)
Il bacio della Sfinge, 1895
Budapest, Museum d.bild.Künste
“Vincere è vivere, perdere è morire” in una dimensione edipica assume un valore diverso. Al centro
non c’è più la madre ambiente, ma la madre persona, non c’è più la negazione onnipotente della
propria percezione del mondo, ma l’espressione dell’onnipotenza del proprio desiderio. Un
desiderio che nega quegli aspetti della realtà che si pongono come ostacolo, la differenza di età e di
generazioni. Un desiderio che, nel mito edipico, diviene azione concreta: uccisione del padre,
accoppiamento con la madre. Il padre, percepito come ostacolo da rimuovere, è un padre persona, il
compagno della madre.
Al centro, come prima nella dimensione pre-edipica, è ancora il binomio “Vita mea, mors tua”, ma
cambiano completamente i riferimenti. Se nella dimensione pre-edipica ciò che viene sacrificato è
il soggetto, come nel narcisismo deficitario, o la realtà oggettuale, come nel narcisismo grandioso,
nella dimensione edipica ciò che viene sacrificato è solo una parte della realtà, quella parte della
realtà rappresentata dal Padre, nel tentativo di evitare il pensiero della morte, della caducità, del
limite, di tutto ciò che si oppone all’unione tra la madre e il bambino.
Come ben descritto da Winnicott, è necessario che il bambino possa distruggere i suoi oggetti in
fantasia, ma anche che questi, come oggetti reali, sopravvivano, così che il bambino possa iniziare
a preoccuparsi per essi e per le conseguenze intrapsichiche delle proprie spinte istintuali.
Qui si pone la tragedia di Edipo, nella morte concreta dei suoi genitori, nel dovere prendere su di sé
tutta la colpa, anche quella di non essere sopravvissuti alle sue fantasie infantili.
Nella dimensione post-edipica “Vincere è vivere, perdere è morire” va incontro a una profonda
trasformazione. La morte, il limite, lo scorrere del tempo e delle generazioni non sono più negati.
Anzi la morte e assunta come condizione e rischio connesso al vivere. Al binomio “Vita mea, mors
tua” si sostituisce il binomio “Vita mea, vita tua”, nella consapevolezza che la salvezza, la vita, non
è un fattore individuale, ma collettivo, transgenerazionale. Salvarsi da soli viene ora percepito come
una tragica illusione. In questa dimensione trovano il loro senso la coppia genitoriale come spazio
di scambio fecondo, la dedizione dei genitori per i propri figli, l’impegno sociale, il mettere a
rischio la propria vita per la vita di qualcun altro. È in essa trova la sua pienezza il comandamento
biblico “Ama il prossimo tuo come te stesso” e il comandamento nuovo dato da Gesù “Amatevi gli
uni gli altri come io vi ho amato”, cioè al di là di ogni differenza di religione, di razza, di sesso, di
età, disponibili attraverso la propria vita a diffondere vita nel mondo.
È il binomio “Vita mea, vita tua” il miglior limite alle guerre di potenza, al terrorismo, a una deriva
societaria del tipo: “Il consumo è la base del benessere sociale”, tutte espressione di una grave
patologia narcisistica, in cui progressivamente si passa dal binomio “Vita mea, mors tua” a quello
“Mors mea, mors tua”, con al centro non il diniego della morte, ma la sua idealizzazione.
Avviandoci al termine riprendo brevemente la domanda: “L’aumento delle patologie narcisistiche
nella nostra realtà sociale, al di là delle dimensioni tragiche sul piano personale e collettivo, può
rappresentare la premessa indispensabile a una loro migliore comprensione e all’attivazione di
processi trasformativi di sviluppo, ove sia presente una capacità di pietas ?”
A fronte all’aumento delle patologie narcisistiche nei nostri pazienti e nella società, al ricorso
sempre più frequente alle droghe, alla finzione che sembra sempre più avvolgerci, alla continua
proposta di assumere come obiettivi personali le esigenze narcisistiche di qualcun altro, possiamo
vedere il frantumarsi di barriere storiche, una comunicazione sempre più ampia e interattiva, e,
almeno nella nostra società, la cura che gli adolescenti danno al mutuo aiuto, al reciproco sostegno
narcisistico. Mai come nella nostra epoca il rapporto dei figli con la madre ambiente e la madre
persona è al centro dell’attenzione.
Nostra responsabilità, sia come soggetti sociali che come terapeuti, è, spinti dalla pietà e dal timore,
prenderci cura del nostro sviluppo personale divenendo “adulti competenti” e “terapeuti
competenti” capaci di umiltà e riconoscenza. Nostro compito è lavorare per dare voce e possibilità
di trasformazione al disagio della società in cui viviamo, favorendo a livello terapeutico il
superamento delle chiusure narcisistiche, lo sviluppo di un Sé coeso, il costruirsi di un Io saldo e di
un Super-Io maturo investiti narcisisticamente, a livello sociale lo sviluppo di politiche centrate sul
rispetto delle persone e dell’ambiente in cui viviamo. L’uso sconsiderato delle risorse della terra, va
visto infatti come una problematica narcisistica.
Concludo con l’augurio a tutti noi che sorgano continuamente persone che come Sofocle e Ovidio,
possano trasformare il tragico, cioè le concrete esperienze di vita, in poesia, in tragedia, in
rappresentazione artistica, permettendo attraverso la pietà e il timore di comprendere e superare ciò
che nella esperienza diretta inesorabilmente schiaccia.
Un ringraziamento quindi a tutti coloro che non cessano di sognare, compresi i nostri pazienti con i
loro sogni, contribuendo a preservare la vita nel mondo, a renderlo nuovo ogni giorno a sé e agli
altri.
Bibliografia
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