Un`officina di uomini. La scuola del costruttivismo

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Collana diretta da
Alberto Abruzzese, Giovanni Boccia Artieri, Gino Frezza,
Gianfranco Pecchinenda, Giovanni Ragone
Angela Spinelli
Un’officina di uomini
La scuola del costruttivismo
Liguori Editore
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© 2009 by Liguori Editore, S.r.l.
Tutti i diritti sono riservati
Prima edizione italiana Novembre 2009
Spinelli, Angela :
Un’officina di uomini. La scuola del costruttivismo/Angela Spinelli
Napoli : Liguori, 2009
ISBN-13 978 - 88 - 207 - 4932 - 3
1. Didattica
2. Società della conoscenza
I. Titolo
Aggiornamenti:
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15 14 13 12 11 10 09
10 9 8 7 6 5 4 3 2 1 0
Sommario
Introduzione
L’educazione, un investimento etico
1
Prima parte
Perché apprendere ad apprendere?
Dalla società dell’informazione alla società della conoscenza
La conoscenza: per un’epistemologia della vita
11
25
Etica ed epistemologia: la questione del metodo
37
Seconda parte
Il costruttivismo pedagogico
Paradigmi e topoi
Il sapere filosofico: ontologia vs gnoseologia
Natura della conoscenza: rappresentazione vs costruzione
L’oggetto dell’apprendere: teoria vs pratica
La relazione conoscitiva: individuo vs ambiente
45
46
51
58
64
Le implicazioni metodologiche
71
Gli ambienti di apprendimento: il triangolo metodologico
77
Tecniche di intervento negli ambienti di apprendimento
collaborativi: il lavoro di gruppo
89
Conclusioni
Punti d’arrivo e di partenza
101
VIII
Indice
Appendice
Il ruolo dei media nella didattica costruttivista
105
Bibliografia
117
Sitografia
125
«Proponete quello che è fattibile, sento ripetermi continuamente.
È come se mi si dicesse: proponete di fare quello che si fa o, per
lo meno, proponete qualche bene che possa accordarsi col male
esistente. [...] Signori genitori, ciò che è fattibile è ciò che voi volete
fare. Debbo rispondere io della vostra volontà?»
J. J. Rousseau, Emilio o dell’educazione, 1762
«Questi ultimi anni dell’era postmoderna mi sono sembrati un po’
come quando sei alle superiori e i tuoi genitori partono e tu organizzi una festa. Chiami tutti i tuoi amici e metti su questo selvaggio,
disgustoso, favoloso party, e per un po’ va benissimo, è sfrenato
e liberatorio, l’autorità parentale se ne è andata, è spodestata, il
gatto è via e i topi gozzovigliano nel dionisiaco. Ma poi il tempo
passa e il party si fa sempre più chiassoso, e le droghe finiscono,
e nessuno ha soldi per comprarne altre, e le cose cominciano a
rompersi o rovesciarsi, e ci sono bruciature di sigaretta sul sofà, e
tu sei il padrone di casa, è anche casa tua, così, pian piano, cominci
a desiderare che i tuoi genitori tornino e ristabiliscano un po’ di ordine... Non è una similitudine perfetta, ma è come mi sento, è come
sento la mia generazione di scrittori e intellettuali o qualunque cosa
siano, sento che sono le tre del mattino e il sofà è bruciacchiato
e qualcuno ha vomitato nel portaombrelli e noi vorremmo che la
baldoria finisse. L’opera di parricidio compiuta dai fondatori del
postmoderno è stata importante, ma il parricidio genera orfani, e
nessuna baldoria può compensare il fatto che gli scrittori della mia
età sono stati orfani letterari negli anni della loro formazione.
Stiamo sperando che i genitori tornino, e chiaramente questa voglia
ci mette a disagio, voglio dire: c’è qualcosa che non va in noi? Cosa
siamo, delle mezze seghe? Non sarà che abbiamo bisogno di autorità e paletti? E poi arriva il disagio più acuto, quando lentamente
ci rendiamo conto che in realtà i genitori non torneranno più – e
che noi dovremo essere i genitori.»*
D. F. Wallace, 1993
*
Stralcio da una intervista rilasciata a L. McCaffery per la Review of Contemporary
Fiction (estate 1993). D. Foster Wallace (1962), figura di primo piano della letteratura
americana e internazionale, si è ucciso il 12 settembre 2008.
Cfr. Morto impiccato David Foster Wallace, in Corriere.it 14.09.2008.
Introduzione
L’educazione, un investimento etico
«Perfecte fini suo respondentem voco scholam,
quae vera hominum officina sit.»
Comenio, Grande didattica, 1657
Ogni qualvolta ci si appresti ad un atto educativo, contemporaneamente, si gettano le basi per un’azione di natura progettuale. Chiunque
sia il soggetto educante, genitore o insegnante, nel momento in cui esercita la sua funzione ed il suo ruolo progetta un futuro per il soggetto da
educare. Consapevolmente o meno, implicitamente o meno, l’educatore,
ha una propria idea di uomo, di società, ha elaborato considerazioni sulla
“natura” del soggetto da educare, ipotizza possibili sviluppi per il futuro,
che persegue attraverso il rinnovamento della sua azione educativa o
– viceversa – reiterando consuetudini, abitudini e tradizioni.
Una madre, educando i propri figli e figlie, immagina per loro un
ruolo sociale coerente con l’idea che possiede di società; li educa in
conformità con principi di natura etica, morale, pragmatica, procedurale, in armonia con l’idea che si è costruita di “essere umano”, sia essa
meditata e consapevole o estemporanea.
Anche i “professionisti dell’educazione”, siano essi ricercatori o
insegnanti, avviano la propria attività a partire da opinioni di simile
natura. Prima di diventare professionisti hanno maturato posizioni di
natura “progettuale” sull’uomo e sul mondo e, internamente a queste
considerazioni, hanno costruito la propria professionalità scegliendo le
opzioni teoriche e le procedure metodologiche coerenti con tale visione
“filosofica”.
Freire, padre della pedagogia degli oppressi, così esprime la sua
posizione in merito: «qual è il mio “sogno”? Bisogna essere chiari sul
2
Un’officina di uomini
sogno dell’educatore. Non nel senso di imporlo all’allievo, ma nel senso
di spiegargli che ci sono diversi sogni politici che corrispondono a differenti modalità di azione pedagogica. [...] L’educazione è anche questo,
l’educazione è anche fascinazione. [...] L’educatore non deve cercar di
nascondersi. Egli è tanto più serio ed etico quanto più manifesta in modo
esplicito il suo sogno, senza imporlo».1
Chi educa cela in sé un progetto, un sogno per l’educando e per il
futuro in cui si troverà a vivere; ha una sua idea di uomo che influisce
sulle scelte metodologiche che opera. Non sempre questa corrispondenza è evidente, può sfuggire anche all’educatore stesso, ma non per
questo è meno presente o meno incisiva.
«Ciascun modello didattico è l’effetto di un modello culturale, filosofico, epistemologico che agisce come una metateoria del modello didattico»2 e che il docente, l’educatore, il formatore si sono costruiti attraverso
le proprie esperienze di discenti, che hanno elaborato in dialettica con le
esperienze formative individuali e sulle quali influiscono anche pensieri
di natura extra-scientifica. Non è possibile «alcuna pratica didattica o
azione didattica o opera didattica prescindendo da modelli e codici di
tipo teorico e metateorico. Questi condizionano quelle, anche se non
sempre l’operatore, l’insegnate, l’educatore avvertono con nitidezza la
percezione culturale ed epistemologica di questo nesso».3
Comenio, Rousseau, Montessori, Dewey e tutti i grandi pedagogisti e didatti sono partiti, per formalizzare le loro posizioni teoriche e
pratiche, da considerazioni simili, rispondendo ad implicite domande
sul futuro da costruire per l’uomo e per la società facendo leva sull’atto educativo e, quindi, rispondendo alle domande “come si insegna?”,
“come si apprende?” e finalizzandole allo specifico progetto.
Comenio, scrivendo la Didattica magna non ha lavorato ad un “esercizio di stile”, ma ha rivolto la metodologia didattica e financo le tecnologie didattiche alla sua idea di uomo. Il suo metodo perseguiva l’ideale
utopistico dell’insegnare tutto a tutti (omnes, omnia, omnino) perché gli
uomini sono tutti ad immagine e somiglianza di Dio, e pertanto tutti
uguali. Il suo progetto era fondato su profonde convinzioni religiose
e la sua prospettiva non poteva che essere escatologica: l’educazione
era lo strumento per migliorare la vita dell’uomo in virtù dell’esistenza
1
E. Passetti (a c. di), Conversazioni con Paulo Freire. Il viandante dell’ovvio, Elèuthera, Milano 1996, pp. 50-51.
2
M. Gennari, Istituzioni di didattica, in M. Gennari (a c. di), Didattica generale,
Bompiani, Milano 2002, p. 36.
3
Ivi, p. 37.
Introduzione 3
mondana e in attesa di quella ultraterrena. Solo attraverso l’educazione
universale (pandidattica) era possibile far partecipare il genere umano
alla sapienza universale (pansofia) perseguendo l’ideale umanistico della
rinascita religiosa, politica e civile: «se vogliamo chiese, stati, economie
ben ordinate e fiorenti, prima di tutto creiamo ordine nelle scuole e
facciamole fiorire, affinché siano vere e vive officine di uomini, vivaio di
uomini della Chiesa, del governo, dell’economia. Questo è il solo modo
di realizzare i nostri fini, non altro».4
Verosimilmente, Rousseau si chiese «come posso educare il fanciullo
preservandolo dalla corruzione che implica la vita sociale e riuscendo
a mantenere integra la sua naturale predisposizione al bene?». Come
posso «insegnargli a conservarsi da sé quando sarà adulto, a sopportare
le percosse del destino, a sfidare l’opulenza e la miseria, a vivere, se
necessario, tra i ghiacci dell’Islanda o tra le rocce infocate di Malta»?5 E
l’Autore, esplicitamente e provocatoriamente, chiede: «che cosa dobbiamo fare per formare quest’uomo raro? Molto, indubbiamente: vegliare
perché nulla sia fatto».6 Le troppe attenzioni nei confronti dei fanciulli,
se non fisicamente mortali, lo sono in un senso più ampio e profondo,
perché «vivere non è respirare: è agire, è fare uso degli organi, dei
sensi, delle facoltà, di tutte quelle parti di noi stessi per cui abbiamo il
sentimento di esistere».7 Da qui, l’Emilio, con gli esempi, i precetti, le
strategie coerenti con l’orizzonte teorico dell’Autore.
Maria Montessori, al termine della terribile esperienza bellica, rielabora tutte le sue conoscenze mediche e le sue riflessioni pedagogiche
e metodologico-didattiche per interrogarsi sulla strada da seguire per
costruire un mondo nuovo. L’ideale della costruzione di una comunità
mondiale pacifica ed armonica orienta i suoi sforzi teorici e conduce
l’Autrice a rintracciare nel bambino la sola possibilità di salvezza e nella
corretta educazione l’unica via percorribile: «se v’è per l’umanità una
speranza di salvezza e di aiuto, questo aiuto non potrà venire che dal
bambino, perché in lui si costruisce l’uomo, e di conseguenza la società.
[...] L’educazione non dovrebbe più limitarsi a trasmettere delle nozioni, ma deve prendere nuove vie, mirando allo sviluppo delle capacità
potenziali dell’uomo».8
Le aspirazioni di Dewey erano diverse: il “suo” fanciullo sarebbe
4
5
6
7
8
Comenio, Grande didattica, La Nuova Italia, Scandicci 1993, p. 33.
J. J. Rousseau, L’Emilio o dell’educazione, Armando, Roma 1995 p. 71.
Ivi, p. 70.
Ivi, p. 72.
M. Montessori, Educazione per un mondo nuovo, Garzanti, Milano 2000, p. 12.
4
Un’officina di uomini
dovuto diventare un uomo capace di autonomia e libertà di pensiero e
d’azione in vista della sua attiva e consapevole partecipazione alla vita
democratica della società cui apparteneva. Scopo dell’educazione era
l’educazione stessa, in quanto portatrice di valori in sé: «scopo dell’educazione è di permettere agli individui di continuare la loro educazione
[...]. Ora questa idea non può essere applicata a tutti i membri di una
società se non dove ci sono mutui rapporti fra uomo e uomo e si provvede adeguatamente alla ricostruzione delle abitudini e istituzioni sociali
mediante ampi stimoli che sorgano da interessi ugualmente distribuiti.
Questo significa società democratica».9
Tutti i grandi pensatori hanno elaborato le proprie teorie all’interno
di un contesto storicamente determinato, ma sulla base di convinzioni
personali di natura non scientifica ma altrettanto importanti e che, sinteticamente, investono la sfera morale, etica e politica. Anche i docenti
fanno emergere il concetto di apprendimento dal modo di concepire
l’istruzione, ne siano consapevoli o meno.
L’atto di educare, insomma, è un investimento del singolo e della società; comporta un certo grado di “governo” dell’avvenire. L’individuale
e il collettivo, come categorie interpretative del sociale, si intersecano
all’interno dei progetti educativi e l’agire didattico è strumento di intervento sul futuro, anche se non di natura deterministica.
Di fatto tutta la riflessione sull’educazione, anche quella “pre-pedogogica”, è stata una vivificazione dell’aspirazione umana al bene privato
e pubblico e perciò è, oggi, un’operazione moralistica voler includere
nella contemporanea visione dell’educazione ciò che per secoli ne è stata
la linfa: la sua implicita portata etica e valoriale?
Probabilmente, la domanda è frutto di un equivoco che ha influito
su parte della riflessione pedagogica e didattica del secolo precedente
e cioè che insegnare ed educare siano due case separate sul medesimo
pianerottolo. Si è sancita una distinzione netta tra istruire ed educare
9
J. Dewey, Democrazia e educazione, La Nuova Italia, Scandicci 1992, p. 147. Ancora
più esplicitamente, nel breve saggio Scuola e società: «l’introduzione dell’attività manuale,
dello studio della natura, della scienza elementare, dell’arte, della storia, la relegazione
al secondo piano dell’elemento puramente simbolico e formale; il cambiamento dell’atmosfera morale della scuola, nelle relazioni fra scolari e maestri, cioè nella disciplina; il
dare maggior peso all’attività, all’espressione, all’autogoverno: tutti questi non sono meri
accidenti, sono necessità dell’evoluzione sociale più progredita. [...] Quando la scuola farà
di ogni ragazzo della società un membro di questa piccola comunità, lo avrà impregnato
dello spirito di servizio, e lo avrà provveduto degli strumenti di un effettivo autogoverno,
avremo la più profonda e migliore garanzia di una più grande società rispettabile, amabile
e armonica», La Nuova Italia, Scandicci, pp. 19-20.
Introduzione 5
che ha costretto parte della riflessione contemporanea ad una visione
funzionale dell’insegnamento, epurato della funzione progettuale. Tale
distinzione, utilizzata a fini di ricerca, è stata adeguata alla costruzione
di una visione scientifica delle scienze dell’educazione ma, contemporaneamente, ha nutrito teorie e pratiche incapaci di guardare al futuro. In
particolare, se la didattica si è andata dotando – quale disciplina autonoma dalla pedagogia – di una testa speculativa e di un corpo pratico10
nel suo cammino sembra aver perso gli “occhiali” dell’etica, intesa come
progetto per il futuro.
Moltissimi fattori hanno influito su questa prospettiva miope, non
ultimo la commercializzazione dell’evento formativo e – in particolare
– degli apparati tecnologici che lo supportano; contestualmente ad una
dialettica tutta interna alle scienze dell’educazione che ricercava una
autonomia disciplinare dalla filosofia, per la pedagogia e per la didattica
e che, nel pensiero comune e nella pratica della divulgazione scientifica,
si è trasformata in una visione falsamente autonoma e circoscritta dei
diversi saperi, come se il pedagogista non potesse riflettere sui metodi e
le strategie didattiche, come se il didatta non avesse titolo ad esprimersi
sui fini dell’educazione.
Nel secolo definito della formazione, probabilmente, sarà lecito al
didatta interrogarsi sul metodo migliore per raggiungere un fine che si
compone anche di aspetti etici e al pedagogista sarà dato di chiedersi
con quale procedure educative si possa perseguire una determinata idea
di uomo e di società.
Il presente volume è il frutto di una visione olistica dell’evento formativo che va studiato e praticato nella sua complessità fatta di strumenti e di fini, ed in relazione ad istanze di natura sociale, etica e politica.
È il frutto di un progetto di ricerca nutrito dalle teorie costruttiviste
(didattiche, epistemologiche e psicologiche) ma nato – specificatamente
– nel nuovo secolo: il secolo della società della conoscenza. Pertanto,
la prima parte è volta a mettere in luce il ruolo dell’educazione nella
società della conoscenza, mentre la seconda si soffermerà sui molteplici
aspetti delle teorie costruttiviste che sembrano, oggi, capaci di rispondere alle esigenze formative e valoriali del prossimo futuro.
Perché proprio il costruttivismo?
Perché può essere usato come paradigma di interpretazione della
realtà duttile, flessibile e interdisciplinare. Il costruttivismo, considerato
nella sua complessità pedagogica, epistemologica e psicologica offre mo-
10
Cfr. F. Frabboni, Manuale di didattica generale, Laterza, Roma-Bari, 2001.
6
Un’officina di uomini
delli interpretativi utili all’agire didattico prospettando soluzioni innovative in vista di un progetto educativo per la società della conoscenza.
Come modello pedagogico e come prassi didattica, il costruttivismo, è
in grado di confrontarsi con le istanze etiche che ogni azione formativa
include, offrendo indicazioni percorribili e innovative. Ma per verificare questa ipotesi è necessario comprendere la portata teoretica del
costruttivismo, valutarne le ricadute pratiche, analizzarlo nello specifico
contesto didattico. Insomma, sottoporlo ad un’analisi, oltre che attenta,
complessiva, che riesca a rendere conto dell’estrema complessità e multidisciplinarietà della teoria stessa.
Solo a conclusione di un percorso così ramificato sarà possibile valutare la reale capacità del costruttivismo di rispondere, almeno in parte,
alle domande che la società e l’educazione pongono, alle istanze socioeducative che i cambiamenti culturali in corso richiedono.
Allo stato attuale della ricerca la letteratura scientifica è pronta (quantitativamente e qualitativamente) per trasformarsi in pratica
d’azione e di pensiero, aprendo a prospettive plurali che sono l’essenza
stessa del costruttivismo (se di essenza si può ancora parlare...). E se,
come è possibile, questa rinnovata visione della conoscenza che investe
a cascata tanti altri settori disciplinari del sapere comporta il “rischio”
di cadere in una visione/azione relativistica è questione da sciogliersi in
sede etica e non gnoseologica. Infatti, la questione della fondazione del
sapere non è questione interna alla visione costruttivista della realtà.
Piuttosto, in sede didattica, è da valutare con attenzione il rapporto
tra trasmissione e costruzione del sapere perché se da un lato il costruttivismo, come suggerisce la parola stessa, considera il sapere come una
costruzione del soggetto, dall’altro questa “necessità” va armonizzata
con il bisogno di trasmettere il sapere già consolidato.
All’interno della scuola appare utile sollecitare una dinamica utilitaristica fra trasmissione e costruzione del sapere: pur ammettendo che in
contesti non formali il soggetto apprenda attraverso pratiche individuali
e collettive di costruzione del sapere va considerata la specificità dell’istituzione scolastica che risiede nel suo essere deputata alla formazione
complessiva degli individui.
Una parte della riflessione, dunque, può essere anche di natura disciplinare: domandarsi cosa considerare un sapere stabile e consolidato,
oggi, è porre una buona domanda a chi si occupa di educazione. Disciplina e metodo sono istanze da tenere in considerazione nella riflessione sui
risvolti didattici del costruttivismo. Infatti, individuare un sapere stabile
(storicamente) da tramandare come uno “strumento” per la costruzione
di nuovo sapere appare una soluzione percorribile per una scuola che
Introduzione 7
da un lato vive un disagio profondo e paralizzante, ma dall’altro teme
i processi di rinnovamento come determinanti una perdita di senso e
di funzione.
Apprendere ad apprende sembra essere la richiesta più urgente che
il rinnovamento sociale e del mondo del lavoro chiedono alla scuola e
alle molteplici agenzie formative; dunque, per ipotesi, le cose possono
essere viste come segue: se do ad un fanciullo uno strumento il cui uso
è ampiamente consolidato e codificato, per esempio un martello, nulla
osta a che gli dica anche come si usa e perché, per esempio per inserire un chiodo nella parete il martello si usa battendo direttamente la
testa del chiodo mentre lo si tiene fermo per inserirlo dritto. Ho così
trasmesso una conoscenza codificata, ma potrei anche sollecitare usi
non convenzionali del medesimo strumento, il fanciullo – per esempio
– potrebbe scoprire che può essere usato agevolmente per rompere una
noce, o un pinolo ...
Ebbene, sono due passi diversi ma parimenti importanti del processo
di apprendimento: l’acquisizione di sapere codificato e l’elaborazione
di nuovo sapere. Poiché il costruttivismo ha piena consapevolezza, nei
suoi interpreti più maturi, del suo essere un modello interpretativo e
non rappresentazionale della realtà può agevolmente essere circoscritto in ambiti specifici dell’attività didattica perché, per definizione, una
interpretazione non è mai totalizzante.
Conoscenze di base e pensiero riflessivo sono due diversi obiettivi
che la scuola deve perseguire contemporaneamente: «il saper accedere alle conoscenze, il saper riflettere su di esse, insomma l’imparare a
organizzarsi nelle conoscenze, a viaggiare consapevolmente nei saperi,
ha bisogno di fare riferimento a quella quota solida, persistente della
formazione scolastica, indispensabile per permettere ad ognuno di tornare più volte a scuola, di continuare a imparare in ogni momento della
propria vita».11
È possibile che la mediazione fra diverse istanze offra alla scuola la possibilità di corrispondere alle due diverse esigenze individuate
precedentemente: 1) la trasmissione del sapere e 2) la formazione di
individui capaci di rinnovare le proprie conoscenze e competenze in
coerenza con il rinnovato panorama culturale e sociale, nonché con il
mondo del lavoro. L’obiettivo è di formare (competenze di base) alla
11
A. Sasso, Introduzione, in A. Sasso, S. Toselli (a c. di), La scuola nella società della
conoscenza. Formazione, tecnologie, informazione, modelli di vita, Mondadori, Milano
1999, p. 19.
8
Un’officina di uomini
formazione (competenze metacognitive) attraverso pratiche rispettose
delle relazioni interpersonali e degli stili cognitivi individuali.
La visione costruttivista della realtà può, dunque, offrire la garanzia
all’investimento sul futuro di cui l’educazione ha bisogno e di cui la pedagogia e la didattica sono portavoci? Può corrispondere alla esigenza
di pratiche sociali etiche capaci di inclusione dell’altro nel rispetto della
sua alterità? Può essere strumento di apprendimento significativo? Può
sollecitare la costruzione di nuovo sapere e non solo l’attitudine alla
memorizzazione?
Domande diverse, che implicano prospettive disciplinari e saperi
diversi, a testimonianza delle attese che il paradigma costruttivista della
conoscenza ha sollecitato e del fascino di cui è portatore.
Prima parte
Perché apprendere ad apprendere?
Dalla società dell’informazione
alla società della conoscenza
Definire la società della conoscenza non è impresa da poco. Molti
Autori hanno tentato questa avventura, affiancando la loro visione interpretativa alle definizioni elaborate con scopi di indirizzo politico da
istituzioni nazionali ed internazionali.
La knowledge society è, prima ancora che una realtà socio-culturale
o un paradigma scientifico consolidato, una metafora del mondo in cambiamento utile come modello di rappresentazione del reale.1 Gli sforzi
di definirne i contorni e le caratteristiche, sia sul piano interpretativo sia
sul piano politico, non sono mai puramente descrittivi, ma racchiudono
intenti di indirizzo economico, sociale, culturale. Come tutte le metafore,
anche questa ha il merito di associare termini apparentemente distanti
generando un significato nuovo capace di descrivere la realtà in termini
di rappresentazione ermeneutica aperta. Come tale, con società della
conoscenza, si intende più che un dato oggettivo, un processo in corso,
ancora mutevole e passibile di evoluzione.
Certo è che la società della conoscenza succede al modello industriale, sostituendo ai beni materiali, come espressione di ricchezza, i beni
immateriali: le conoscenze. Questo cambiamento interessa il modo in cui
le persone vivono, lavorano, apprendono, producono, dividono i profitti.
La società della conoscenza comporta l’assunzione di nuovi stili di vita
(relazioni sociali) e un nuovo modello economico-produttivo (relazioni
economiche), nonché un rinnovato rapporto con la generazione e la
fruizione del sapere.
Due fattori in particolare hanno alimentato la portata di questa
trasformazione che ha condotto dalla società industriale a quella post1
Cfr. F. Vespasiano, La società della conoscenza come metafora dello sviluppo, Franco
Angeli, Milano 2006.
12
Un’officina di uomini
industriale: da un lato il fenomeno della globalizzazione dei mercati, con
tutto il portato di scambio di merce e di sapere e di uomini; dall’altro la
rivoluzione tecnologica che ha consentito una diffusione su larga scala
delle telecomunicazioni, delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (TIC o ICT Information and Communication Technology)
inverando il preannunciato villaggio globale e rendendolo una realtà di
fatto, seppure densa di contraddizioni.
Globalizzazione e rivoluzione tecnologica hanno stimolato la nascita
della così detta “società dell’informazione e della comunicazione” che
ha poi trovato il suo apice nella “società della conoscenza”.
Tutte e due le visioni del cambiamento ammettono un distacco netto
dalla precedente società industriale ed implicano considerazioni onnicomprensive sulla portata del rinnovamento in atto, ma la knowledge
society ha spostato l’attenzione sull’intelligenza (individuale e collettiva)
che risiede in quella conoscenza.2
Il Summit Mondiale sulla Società dell’Informazione (WSIS – World
Summit on the Information Society), tenutosi nel 2003 a Ginevra e nel
2005 a Tunisi, è stato convocato dall’assemblea Generale dell’ONU con
l’intento di costruire una visione comune della società dell’informazione:
vi partecipano governi, settore privato, organizzazioni intergovernative
e società civile organizzata. La questione principale ruota intorno alla
governance delle tecnologie considerate portatrici di sapere, potere, conoscenza, ricchezza, sviluppo. Tre gli obiettivi principali: assicurare a
tutti l’accesso alle tecnologie dell’informazione e della comunicazione;
utilizzare le TIC per coadiuvare il raggiungimento degli Obiettivi del
Millennio che, secondo le Nazioni Unite, prevedono entro il 2015 l’abbassamento del tasso di povertà, di mortalità, di mancanza di istruzione,
di discriminazioni di genere; e infine, rafforzare la fiducia e la sicurezza
nell’utilizzo delle TIC.3
In particolare, la risoluzione 56/163 dell’Assemblea generale delle
Nazioni Unite indica come obiettivi del vertice: lo sviluppo di una visione
e di una comprensione comune della Società dell’informazione e l’adozione di una dichiarazione e di un piano di azione che sia implementato
dai Governi, dalle organizzazioni internazionali e da tutti i settori della
società civile in grado di garantire una società dell’informazione per
tutti, su scala realmente globale.
Appare evidente come il dibattito possa essere, e di fatto lo è stato,
2
3
Ibidem.
http://www.itu.int/wsis/index.html
Perché apprendere ad apprendere?
13
controverso perché interessi economici e prospettive sociali non sempre hanno raggiunto un accordo di indirizzo programmatico. La prima
questione che è stata dibattuta (e non risolta) è il digital divide che di
fatto, da un punto di vista numerico, inficia la visione globale della
società dell’informazione.4 Al tema del divario digitale fra Nord e Sud
del mondo è strettamente collegata la visione del sapere che come bene
comune andrebbe diffuso a livello globale attraverso strumenti capaci
di abbattere le barriere tecnologiche ed economiche quali – per esempio – software open source e diverse garanzie di proprietà intellettuale
che ne proteggono la paternità ma non l’esclusività economica, come le
licenze Creative Commons.
Di fatto, il digital divide è la causa del knowledge divide che, a fronte
di una globalizzazione dei mercati, non determina una globalizzazione
del sapere.5 Sono due aspetti diversi del medesimo fenomeno, colti e
sintetizzati già nel primo incontro del Summit: «qui si incontrano due
visioni distinte e per molti aspetti contrapposte della società della conoscenza, che hanno trovato espressione rispettivamente nella Dichiarazione ufficiale del summit e in quella (quelle) della società civile. Per l’una
visione è il mercato, coadiuvato dai governi, che dà forma allo sviluppo
delle ICT e governa i processi di innovazione tecnologica e la loro penetrazione nella società. Per l’altra è la società, attraverso le sue forme di
aggregazione e l’uso democratico delle tecnologie, che deve informarne
lo sviluppo perché queste contribuiscano al rispetto e al godimento dei
diritti e della libertà fondamentali di ogni individuo, indipendentemente
dai livelli di benessere, istruzione o dalla posizione sociale».6
Il problema è sentito anche da un punto di vista pedagogico perché
la formazione è lo strumento principale per sanare un divario conoscitivo, sociale e digitale. È un motore di sviluppo che può garantire equità
sociale. Questione non nuova, se si pensa che nel 1969 la Commissione
delle Nazioni Unite per lo sviluppo internazionale indicava proprio la
formazione come snodo fondamentale per aumentare la capacità dei
4
La portata dell’esclusione a livello planetario è davvero imponente, una panoramica completa è reperibile sul sito http://digital-divide.it che rimanda anche ai siti ufficiali
delle agenzie nazionali ed internazionali che si occupano della questione a livello istituzionale.
5
Cfr. G. Schiesaro, La sindrome del computer arrugginito. Nuove tecnologie nel sud
del mondo tra sviluppo umano e globalizzazione, SEI, Torino 2003; J. Nardi, C. Padovani
(a c. di), Diritto a comunicare e accesso ai saperi. La nuova frontiera dei diritti nella società
della conoscenza, Yema, Modena 2004.
6
J. Nardi, C. Padovani (a c. di), Diritto a comunicare e accesso ai saperi. La nuova
frontiera dei diritti nella società della conoscenza, op. cit. p. 11.
14
Un’officina di uomini
paesi in via di sviluppo di assorbire, adottare e sviluppare conoscenza
scientifica e tecnica.7
L’accesso alla conoscenza è una questione di diritto paragonabile
alla necessità di poter accedere al consumo dei beni di prima necessità
e, anche nei documenti ufficiali, se ne ravvisa questo significato. La conoscenza è un bene universale, che rientra a pieno titolo nel significato
profondo ed utopistico del termine “universalizzazione” che Bauman
dichiara ormai in disuso perché sostituito dal termine globalizzazione.
Eppure universalizzazione e globalizzazione non sono sinonimi perché
mentre il primo include l’idea di un ordine universale da raggiungere
progressivamente dispiegando le forze della modernità, il secondo indica
un nuovo disordine mondiale. L’universalizzazione «annunciava all’unisono la volontà di cambiare e rendere migliore il mondo, di diffondere
il mutamento e il progresso a una dimensione globale, cioè all’umanità intera. Allo stesso tempo dichiarava l’intenzione di rendere simili
le condizioni e le chances di vita di tutti, dovunque: forse addirittura
di renderle uguali. Niente di quanto abbiamo appena detto sopravvive
nel significato del termine globalizzazione, almeno nella forma che il
discorso attuale gli attribuisce. Piuttosto che a iniziative e a intraprese
globali, il nuovo termine si riferisce principalmente agli effetti globali
– che, sappiamo bene, non sono né voluti né anticipati».8 La conoscenza,
perciò, dovrebbe essere un bene universale, non globale.
Il passaggio dalla definizione di società dell’informazione a società
della conoscenza amplifica ulteriormente l’importanza della formazione.
Lo spostamento semantico, infatti, implica una lettura delle politiche sui
cambiamenti in corso da elaborare non solo intorno alle tecnologie che
veicolano il sapere, ma anche sul sapere stesso. La produzione, gestione
e diffusione del sapere sono riconosciute come azioni dotate di un valore
in sé, ma anche come strategie in grado di corrispondere alle rinnovate
sfide economiche.
Il Consiglio europeo, riunitosi a Lisbona nel 2000, ha affidato all’Unione un ambizioso obiettivo: divenire, entro il 2010, l’economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo, in grado di
realizzare una crescita economica sostenibile con la creazione di nuovi
7
Cfr. D. Crispim Ditta, Le tecnologie dell’informazione e lo sviluppo nei PVS: posizioni a confronto, e F. Comunello, Formazione e conoscenza oltre il digital divide, in
Bollettino sulla diffusione delle Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione, n.
1 e 2, 2003.
8
Z. Bauman, Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone, Laterza,
Roma-Bari 2007, p. 68.
Perché apprendere ad apprendere?
15
e migliori posti di lavoro e una maggiore coesione sociale.9 All’intero
della strategia di Lisbona, e in coerenza con i principi e gli obiettivi
sanciti, l’Unione europea, sostenendo e completando l’azione degli Stati
membri, ha proposto un Programma di istruzione e formazione durante l’intero arco della vita capace di garantire gli obiettivi elencati, che
prevede programmi specifici coprendo gli anni 2007-2013. Nel dettaglio
i sottoprogrammi formativi inclusi sono il Comenius, l’Erasmus, il Leonardo da Vinci, il Grundtvig, il Programma trasversale e il Programma
Jean Monnet10 tutti basati sulle precedenti esperienze dei Programmi
previsti dal 2000 al 2006 e che includevano il Socrates, il Leonardo da
Vinci, Imparare on-line e l’azione Jean Monnet.
Lo scopo del processo di Lisbona, affiancato dal processo di Bologna
che riguarda l’istruzione superiore11, è di incentivare la società europea
ad essere una società basata sulla conoscenza, trasformandola – quindi
– in una knowledge based society capace di competere con le altre potenze economiche, e in particolar modo con gli Stati Uniti d’America. La
posizione europea fornisce una lettura dei cambiamenti in atto in termini
più conoscitivi che tecnologici: le TIC sono strumento fondamentale
per la società che si sta perseguendo, ma il fulcro del cambiamento è di
natura cognitiva, risiede cioè nelle opportunità/capacità dei soggetti di
formarsi, entrando a far parte in modo attivo, produttivo, consapevole
della società della conoscenza.
Questo intento spiccatamente cognitivo era stato già ampiamente
analizzato, dichiarato e posto nel Libro bianco, Insegnare ed apprendere12 nel quale sono indicati tre “choc motori” (società dell’informazione, mondializzazione, civiltà scientifica e tecnica) che hanno dato
avvio al mutamento socio-economico e culturale. Nel Dossier le risposte
a tali choc sono individuate nella rivalutazione della cultura generale
e nell’attitudine all’occupazione, da perseguire attraverso azioni che
favoriscano l’acquisizione di nuove conoscenze, avvicinino la scuola
all’impresa, combattano l’emarginazione, sollecitino l’apprendimento
di almeno tre lingue comunitarie e favoriscano investimenti economici
9
http://europa.eu/index_it.htm
Per le specifiche dei programmi cfr. Decisione n. 1720/2006/CE del Parlamento
europeo e del Consiglio, del 15 novembre 2006, http://eur-lex.europa.eu
11
Per una sintesi cfr. http://europa.eu/scadplus/leg/it/cha/c11088.htm
Per l’analisi comparativa dei risultati del Processo di Bologna nei diversi paesi europei
cfr. D. Palomba (a c. di), Changing Universities in Europe and the “Bologna Process”. A
Seven Country Study, Aracne, Roma 2008.
12
E. Cresson, P. Flynn (a c. di), Insegnare ed apprendere: verso la società della conoscenza, Commissione europea, Lussemburgo 1996.
10
16
Un’officina di uomini
nella formazione. Gli intenti da concretizzare sono almeno tre: risolvere il problema dell’occupazione, innalzare il livello di consapevolezza
e di qualità della vita dei cittadini e, infine, combattere l’esclusione
sociale. Tutti temi di portata storica che implicano vistose antinomie,
a cominciare da una contraddizione trasversale a tutto il volume rilevata anche da alcuni critici: infatti, da un lato l’azione dei singoli stati
membri si fa sempre più flebile nel campo della formazione, demandando responsabilità e scelte ad enti ed associazioni private; dall’altro
si ravvede, proprio nella formazione, una necessità imprescindibile quale ultima possibilità di rimedio ad una situazione occupazionale ormai
preoccupante. La conseguenza di investimenti statali sempre più esigui
e, di contro, la necessità di formazione durante tutto l’arco della vita
implicano una responsabilità del soggetto in formazione: lo sforzo di
adattamento ricade sulle sue spalle; è il soggetto stesso, durante tutto
l’arco della vita, a dover costruire da sé le proprie qualifiche, affastellando e ricomponendo conoscenze elementari acquisite in diverse
sedi. Non che il ruolo dei sistemi di istruzione non venga posto come
di fondamentale importanza, ma il Libro bianco non chiarisce quali
saranno nella quotidianità gli elementi di cui sarà costituito, quali cioè
le istituzioni capaci di raccogliere la sfida e di concretizzarla con interventi e percorsi formativi innovativi, capaci di affiancare – quando non
sostituire – le esperienze precedenti, e in particolare quelle fallimentari
perché, di fatto, per nulla “professionalizzanti”. La conseguenza è che
non è chiaro quale formazione sarà disponibile sul mercato e quanto
sarà realmente spendibile dal singolo, anche in virtù della natura ormai
profondamente flessibile del lavoro che rende inutilizzabili contenuti
formativi eccessivamente tecnici o poco versatili. La responsabilità della
formazione ricade, così, su colui il quale mette a disposizione la propria
forza-lavoro, in un contesto di incertezza e plasticità; sua è la responsabilità di gestirla durante tutto l’arco della vita, cercando di corrispondere alle esigenze della società della conoscenza. Di fatto, almeno allo
stato, «si tratta di un radicale movimento regressivo rispetto a ciò che è
stato il grande movimento storico dell’evoluzione dei rapporti di lavoro
in Europa e nei grandi paesi industrializzati nel periodo successivo alle
due guerre mondiali».13
Paradossalmente, ai singoli si chiede di trovare soluzioni formative
13
A. d’Iribarne, Una lettura dei paradigmi del Libro bianco sull’istruzione e sulla
formazione: elementi per un dibattito, in Formazione professionale, Rivista europea, n.
8/9, 1996, p. 29. In rete: http://www2.trainingvillage.gr/download/journal/bull-8-9/8-9_it_iribarne.pdf
Perché apprendere ad apprendere?
17
adeguate ai cambiamenti strutturali in atto all’interno di un’offerta formativa che, però, ancora non ha saputo adeguarsi. L’imperativo della
formazione soffre la condizione di essere, contemporaneamente, una
necessità e una contraddizione, dal momento che neppure le agenzie
formative istituzionali (scuola, università) hanno proposte adeguate da
offrire ai potenziali utenti.
Da un punto di vista strettamente pedagogico e didattico, poi, il Libro propone una innovazione di prodotto come se fosse una innovazione
di processo: auspicando lo sviluppo di una vera e propria industria europea del software educativo e multimediale come strumento pedagogico
del futuro. L’equivoco che sostiene l’equazione “apparecchiatura tecnologica uguale rinnovamento didattico” non è certo nuovo, ma continuare ad alimentarlo conferma l’illusione che l’innovazione pedagogica e
didattica possa essere raggiunta seguendo la scorciatoia dell’innovazione
tecnica. Inoltre, questa posizione dilaga a tutto vantaggio della industria
della formazione (e del software) che si nutre solo in parte delle argomentazioni etiche e sociali auspicate dal Libro, guardando – invece – al
suo lecito obiettivo che risiede nel profitto.
Il volume è, pertanto, segnato da forti contraddizioni interne ma
anche da idiosincrasie fra una realtà ipotizzata e una realtà di fatto che,
pur presa in considerazione, non viene messa in discussione e analizzata
a partire dalle cause prime.
«Cosa intende oggi l’Europa dei venticinque per era della conoscenza? Da un punto di vista pedagogico, è questa la via maestra per
formare cittadini dal pensiero plurale e dall’etica solidaristica? La nostra risposta è gonfia di se e di ma».14 Di fatto, gli obiettivi posti sono
condivisibili, ma le strategie indicate implicano una riflessione attenta
e una “sorveglianza” sulle modalità d’azione scelte dai Paesi membri
perché le incongruenze fra gli intenti e le procedure di realizzazione
sono piuttosto evidenti.
Le questioni dibattute nelle sedi istituzionali comportano problemi
rilevanti di condivisione di intenti e di strategie di perseguimento degli
scopi, ciò nonostante sono ormai consolidate le agende politiche orientate al raggiungimento degli obiettivi mondiali ed europei.
A queste visioni della società dell’informazione e della conoscenza
si affiancano molte letture sociologiche che tentano di spiegare la transizione fra una società industriale fondata su categorie spazio/temporali
più definite e l’attuale “neonata” società in cui i confini dello spazio e
14
F. Frabboni, Società della conoscenza e scuola, Erickson, Trento 2005, p. 24.
18
Un’officina di uomini
del tempo si fanno sottili e flessibili e mobili così come quelli del lavoro,
della formazione, della produzione.
Una analisi del passaggio dalla società industriale alla società postindustriale è stata elaborata da Castells, per il quale né la conoscenza
né l’informazione sono il motore del cambiamento in atto perché «la
conoscenza e l’informazione sono state centrali in molte, se non in tutte,
le società storicamente conosciute».15 Il cambiamento, piuttosto, è stato
determinato da una diversa organizzazione su scala globale che ha reso
la società contemporanea un network, una network society. L’analisi
suggerita implica una visione deterministica del ruolo della tecnologia,
interpretata come capace di decretare forme di organizzazione sociale;
la tecnologia, insomma, plasma in maniera decisiva la struttura materiale
della società e la sua organizzazione. Anche con l’avvento del “paradigma tecnologico dell’industrialismo”, capace di generare e distribuire
energia per mezzo di manufatti costruiti dall’uomo, la spinta propulsiva
è rintracciata dall’Autore nella diffusione e stabilizzazione dell’innovazione tecnologica industriale. Infatti, ciò ha condotto a forme innovative
di produzione (produzione industriale su larga scala), di consumo e di
organizzazione sociale. All’industrialismo, oggi, è succeduto un nuovo
paradigma tecnologico: l’informazionalismo. In quanto paradigma tecnologico, è stato un propulsore potentissimo del cambiamento sociale,
ma, di fatto, trova i propri riferimenti esclusivamente nella tecnologia e
non nell’organizzazione sociale. «L’informazionalismo fornisce la base
per un certo tipo di struttura sociale che io definisco “network society”.
Senza l’informazionalismo la network society non potrebbe esistere,
tuttavia questa nuova struttura sociale non è un prodotto dell’informazionalismo ma di un ampio schema di evoluzione sociale. […] Ciò
che contraddistingue il nostro periodo storico è un nuovo paradigma
tecnologico introdotto dalla rivoluzione dell’information technology,
incentrata su un gruppo di tecnologie dell’informazione. Ciò che vi è
di nuovo è la tecnologia dell’elaborazione dell’informazione e il suo
impatto sulla generazione e l’applicazione della conoscenza. Questo è
il motivo per cui io non uso i concetti di economia della conoscenza o
di società dell’informazione, bensì l’idea di informazionalismo: un paradigma tecnologico basato sull’accrescimento della capacità umana di
elaborazione delle informazioni, il cui fulcro sta nella doppia rivoluzione
della microelettronica e dell’ingegneria genetica».16
15
M. Castells, L’informazionalismo e la network society, in P. Himanen, L’etica hacker
e lo spirito dell’età dell’informazione, Feltrinelli, Milano 2003, p. 119.
16
Ivi, p. 119-120.
Perché apprendere ad apprendere?
19
Il nuovo modello di società è, quindi, il frutto di una concomitanza
di fattori fra cui fondamentale risulta essere l’innovazione tecnologica.
Il risultato è una network society, ovverosia una organizzazione sociale
composta da network informazionali capaci di potenziare la produttività
e la competitività a livello globale. Nel panorama mondiale la network
society è dominante e tende ad escludere ogni altra forma di organizzazione sociale. Localmente, i singoli stati, si organizzano sul medesimo
modello, in modo da inserirsi nel circuito globale in forma istituzionale,
autonoma, ma sufficientemente flessibile.
L’informazionalismo, dunque, è parte integrante della network society, un modello sociale costituito da network informazionali locali e
globali, alimentati dalle tecnologie che hanno dato vita al nuovo paradigma: le tecnologie dell’informazione. Queste reti non hanno alcun
centro, ma solo nodi collegati fra loro, impongono la loro logica anche
ai singoli, che sono costretti ad adattarsi al modello o a restarne totalmente fuori. Un esempio di network è stata la new economy nella quale
i mercati finanziari globali, poggiando su network informatici, hanno
elaborato dati economici, politici, sociali definendo il valore di un patrimonio e determinando i flussi di capitali. L’informazionalismo è dunque
un ipersviluppo tecnologico. Il nuovo paradigma modifica la struttura,
incalzando una trasformazione del modello organizzativo globale. Nella
lettura fornita da Castells, dunque, stiamo assistendo ad un cambiamento epocale, simile a quello avvenuto nel passaggio dall’economia
pre-capitalistica a quella capitalistica vera e propria.
«Sì, esiste la vita al di fuori della network society: nelle comunità
culturali fondamentaliste che respingono i valori dominanti e costruiscono autonomamente le fonti del loro significato; talvolta intorno a nuove
utopie alternative; più spesso a partire dalle verità trascendenti di Dio,
Nazione, Famiglia, Etnia e Territorialità. Quindi il pianeta non è interamente sussunto dalla network society, in quanto la società industriale
non si è mai estesa alla totalità dell’umanità».17 Dunque, c’è altro al di
fuori della network society: c’è chi sceglie di non entrarvi e chi rimane
fuori forzatamente, perché un’altra caratteristica del nuovo modello/paradigma socio-tecnologico è quello di diffondersi selettivamente, ossia
di includere chi è in grado di sostenerlo ed escludere chi non lo è, tanto
a livello singolo quanto a livello collettivo.
Di natura economica, invece, le ragioni che individua Rifkin quali
cause del passaggio dal capitalismo industriale all’attuale fase del capi-
17
Ivi, p. 127.
20
Un’officina di uomini
talismo post-industriale o ipercapitalismo, che ha cagionato uno spostamento dall’era del possesso all’era dell’accesso, dal mercato alla rete.
L’era dell’accesso comporta una nuova forma di capitalismo, un capitalismo culturale in cui la merce di scambio non è più un bene materiale,
ma una conoscenza immateriale e in cui il possesso del bene è sostituito
dall’accesso al servizio che lo rimpiazza e che è inventato grazie a forme
innovative di sapere e creatività. Se ne deduce facilmente che se nel
capitalismo tradizionale la ricchezza consisteva nel possedere un bene,
nel capitalismo culturale descritto da Rifkin la ricchezza consiste nel
poter accedere all’informazione e alla comunicazione dei saperi e dei
servizi. La conoscenza è un bene economico.
«L’era dell’accesso [...] è governata da un insieme completamente
nuovo di assunti economici, del tutto diverso da quello che ha dominato
l’era del mercato. Nel nuovo mondo, i mercati cedono il posto alle reti,
i venditori e i compratori ai fornitori e agli utenti, e il godimento di
qualunque bene si può ottenere attraverso l’accesso».18
Schematicamente, ciò comporta: la dematerializzazione dei beni, la
perdita di valore del capitale fisico, l’ascesa del patrimonio immateriale,
la trasformazione di beni in servizi, lo spostamento dalla produzione al
marketing, la mercificazione di relazioni ed esperienze. Secondo questa
lettura stiamo progressivamente e inesorabilmente passando dalla produzione di beni all’offerta di servizi. Il principale assunto del capitalismo
tradizionale è la proprietà privata, legata al possesso fisico di capitale,
al mercato, alla merce e alla libertà individuale. Il nuovo capitalismo
culturale, invece, getta le fondamenta sul concetto di accesso, sostituendo al mercato la rete, alla merce il capitale intellettuale e alla libertà
individuale la socializzazione e condivisione delle esperienze e della cultura, ovviamente, a pagamento. E allo spazio geografico si sovrappone il
cyberspazio: «in questo nuovo mondo, dove vengono commercializzate
informazione e servizi, coscienza ed esperienze vissute, in cui ciò che è
materiale lascia il posto a ciò che non lo è, e la mercificazione del tempo
acquisisce un’importanza via via maggiore, le nozioni convenzionali di
rapporti di proprietà e di mercato, così come sono state definite negli
ultimi duecento anni, durante l’era industriale, sono sempre meno rilevanti».19
Il cyberspazio per Rifkin è il nuovo mondo in cui sono commercializzati informazioni, servizi, conoscenze, esperienze, comunicazione,
18
J. Rifkin, L’era dell’accesso. La rivoluzione della new economy, Mondadori, Milano
2000, p. 9.
19
Ivi, p. 20.
Perché apprendere ad apprendere?
21
socializzazione, tempo e cultura. Il cyberspazio consente l’accesso al
nuovo mercato dell’immateriale.
Una sempre più veloce obsolescenza dei prodotti, la saturazione
dei mercati e l’appagamento dei bisogni materiali hanno condotto tanto
l’offerta quanto la domanda a rapportarsi all’economia con strumenti
diversi. Noleggio, affitto e accesso, nelle loro tante possibili forme, sostituiscono il possesso. Il primo assioma del neonato ipercapitalismo è
«usatelo, non possedetelo»20, e le conseguenze, in sintesi, sono la contrazione dello spazio immobiliare di lavoro; una diffusione di “scorte”
just in time che soppiantano lo stoccaggio nei magazzini; la dematerializzazione del denaro sostituito sempre più da carte di credito; la
fine del risparmio privato; l’espansione della proprietà in outsourcing;
la proliferazione di attività in franchising e di proprietà in leasing e la
creazione di comunità di interesse a pagamento.
Uno spettro tanto ampio e totalizzante di attività umane legate alla
possibilità/impossibilità dell’accesso sottolinea come tale questione «non
riguarda più, semplicemente, l’accesso ai mezzi, ma l’accesso – attraverso
i mezzi – alla cultura».21 Non poter utilizzare strumenti e mezzi tecnologici implica l’esclusione da una cultura sempre più diffusa e pervasiva.
Le differenti interpretazioni dei fenomeni di cambiamento in atto
sono accomunate dall’attenzione rivolta alla conoscenza e alla tecnologia (ma anche alla tecnologia e alla conoscenza, come si è visto) e
alle conseguenze che questi due portatori di innovazione determinano
sull’economia, sulla vita quotidiana, sulla organizzazione del lavoro, del
sapere e della società. Tanto da un punto di vista politico-istituzionale
quanto da un punto di vista sociologico, la lente di ingrandimento è
posta sui cambiamenti in atto per cercare di concretizzare la “metafora” società della conoscenza indirizzandone gli sviluppi e le possibili
evoluzioni. La questione dell’ingresso del maggior numero possibile di
individui all’interno di tale evoluzione sociale diventa determinante, e
non solo come questione etica, ma anche come possibilità di sviluppo
economico.
Bauman22 interpreta queste rinnovate condizioni culturali come liquide, in contrapposizione alla solidità del precedente periodo storico.
Non che il XXI secolo non sia “moderno”, al contrario, lo è, ma con
caratteristiche diverse rispetto al secolo precedente. Due elementi in
particolare ne caratterizzano la eterogeneità: primo, il crollo e il declino
20
21
22
Ivi, p. 56.
Ivi, p. 312.
Z. Bauman, Modernità liquida, Laterza, Roma-Bari 2000.
22
Un’officina di uomini
dell’illusione protomoderna che investiva sul futuro in una prospettiva
teleologica della storia e della società; secondo la deregolamentazione e
privatizzazione di fondamentali elementi sociali, quali il ruolo dell’individuo e il bene pubblico. Nella modernità liquida si vanno contrapponendo gli interessi privati a quelli pubblici e, contemporaneamente, mutano
i doveri che erano stati specifici del periodo moderno, generando una
opposizione tra individuo e cittadino. La modernità solida è stata caratterizzata da un capitalismo pesante, metaforicamente rappresentabile
da una nave, in cui il lavoro era una condizione naturale dell’individuo
inserito in un progetto sociale collettivo volto al miglioramento delle condizioni di vita, al riconoscimento del ruolo sociale, alla sconfitta
della povertà. La leggerezza di un aereo, invece, è più coerente con la
rappresentazione della modernità liquida e del capitalismo leggero che la
contraddistingue. Nelle mutate condizioni sociali ed economiche cambia
anche il carattere ed il ruolo del lavoro individuale, nonché il suo valore
e riconoscimento pubblico: «forse il termine “arrabattarsi” è più adatto a
caratterizzare la mutata natura del lavoro emersa dal grande progetto di
missione universale del genere umano e da quello non meno grandioso
di una vocazione lunga una vita».23 Il lavoro, flessibile quando non precario, non ha più un valore escatologico, non è più un perno per la costruzione del sé, non rappresenta più la caratteristica fondamentale per
la strutturazione e proiezione della identità sociale. Le categorie di spazio e tempo non rispondono più alle esigenze moderne e, nell’insieme,
questi fattori sollecitano negli individui una percezione ed un’esperienza
di provvisorietà, di insicurezza, di incertezza e vulnerabilità perché la
precarietà è il tratto distintivo della contemporanea condizione umana,
è la condizione preliminare che caratterizza tutto il resto, compresa la
qualità della vita derivante dal lavoro e dall’occupazione.24
Gli esseri umani della modernità liquida si trovano a camminare
in una vita-labirinto, che incarna la condizione umana più diffusa.25 A
mutate condizioni sociali, anche per Bauman, corrispondono diverse
caratteristiche economiche: il capitalismo leggero comporta tanto una
modifica dei tempi e degli stili di lavoro, quanto una diversità nella
produzione. Il modello fordista, oltre ad essere un’efficace strategia produttiva, proponeva implicitamente una interpretazione del sociale, era
un’autocoscienza della modernità capace di fornirne una lettura episte23
Ivi, p. 159.
Ivi, p. 186.
25
Bauman utilizza la metafora del labirinto seguendo la lettura di J. Attali in Trattato
del labirinto, Spirali, Milano 2003.
24
Perché apprendere ad apprendere?
23
mologica; di contro, attualmente «le principali fonti di profitto [...] tendono sempre più ad essere le idee anziché gli oggetti fisici»26 e pertanto
lo standard produttivo fordista e il conseguente canone interpretativo
della realtà non sono più utili.
Ancora una volta la conoscenza assume un valore economico, diventa il fulcro di una nuova economia non ancora interamente dispiegata
ma, certamente, vicina a venire. Ed in questo contesto il soggetto ha da
imparare a camminare sulle sabbie mobili, perché deve essere capace di
auto-formarsi costantemente in una condizione di perenne incompiutezza.27 La formazione diventa una “dipendenza” in termini di vantaggio
competitivo,28 «questo è probabilmente il motivo per cui i programmi
di “formazione permanente” tendono a trasformarsi, inavvertitamente
e senza alcuna motivazione esplicita, in esortazioni “all’apprendimento
permanente”, “sussidiarizzando” così su coloro che subiscono “mercati
del lavoro” notoriamente fluidi e volubili la responsabilità di selezionare
le abilità, di farle acquisire e di sopportare le conseguenze di scelte sbagliate».29 Seguendo l’efficace metafora proposta da Bauman il soggetto
in formazione dovrebbe comportarsi come un missile intelligente, capace di apprendere mentre si sposta e contemporaneamente di dimenticare
quanto appreso poco prima e non più utile al raggiungimento di un
bersaglio mobile. Nella modernità liquida, che determina stili di vita altrettanto liquidi, i missili balistici sono stati sostituiti da quelli intelligenti
e i soggetti devono compiere lo stesso percorso di adattamento perché,
come i missili, non conoscono il loro bersaglio in anticipo e dunque non
possono seguire una traiettoria univoca e stabilita a priori, ma devono
potersi riadattare in qualunque momento, addirittura in progress, in una
dialettica di apprendimento-disapprendimento che trova via via obiettivi
contingenti verso cui mirare.
Questa lettura dell’apprendimento permanente come dialettica volubile tra imparare/disimparare, ricordare/dimenticare non è nuova alla
psicologia eppure la metafora citata cela un fondo di inquietudine e
preoccupazione tipiche della produzione di Bauman.
Nonostante ciò non va omesso che uno degli scopi dichiarati dal documento Realizzare uno spazio europeo dell’apprendimento permanente
è di concretare un empowerment che possa favorire la cittadinanza attiva
26
Z. Bauman, Modernità liquida, op. cit., p. 174.
Z. Bauman, Vita liquida, Laterza, Roma-Bari, 2008.
Commissione della Comunità europea, Realizzare uno spazio europeo dell’apprendimento permanente, Bruxell 2001.
29
Z. Bauman, Vita liquida, op. cit., pp. 140-141.
27
28
24
Un’officina di uomini
come «partecipazione sul piano culturale, politico/democratico e/o sociale dei cittadini alla società nel suo complesso e in seno alla collettività».30
L’empowerment, come possibilità di partecipazione attiva, offre «agli
individui il potere di prendere iniziative responsabili onde orientare la
loro vita e quella della loro comunità o società negli ambiti economico,
sociale e politico».31 Agli individui spetta il compito di ricostruire spazi
pubblici, che erano stati progressivamente abbandonati, in cui praticare
l’inclusione sociale.32
Ovviamente, lo strumento per raggiungere questi traguardi e per
affidare compiti così ponderosi ad individui preparati per svolgerli rimane la formazione costante, a lungo termine, durante tutto l’arco della
vita e che ne abbracci tutti gli aspetti (lifewide learning). La formazione,
insomma, intesa come leva per innalzare la qualità della vita di ciascuno
e di tutti; la formazione come investimento per il futuro, a giudicare
anche dall’apertura del documento in cui è citato un proverbio cinese
che recita:
quando fai piani per un anno semina grano.
Se fai piani per un decennio pianta alberi.
Se fai piani per la vita, forma e educa le persone.
Complessivamente, le due principali contraddizioni evidenziate dai
dati e dalle analisi politiche e sociologiche riportate possono essere
sintetizzate nell’opposizione tra la funzione privata e quella pubblica
della formazione e nella conseguente ambigua posizione dell’individuo
interpretato nelle molteplici identità di soggetto in formazione/cittadino/lavoratore, al quale è affidata la responsabilità della sua formazione.
L’impegno di costruire spazi pubblici di condivisione e inclusione è,
ovviamente, individuale ma non supportato e garantito – di fatto – da
strumenti istituzionali che non sanno (e non possono) corrispondere ai
mutamenti in corso troppo veloci e ancora in larga parte imprevedibili.
Nella formazione, certo, è individuata la risorsa principale per preparare
30
Cfr. Commissione della Comunità europea, Realizzare uno spazio europeo dell’apprendimento permanente, op. cit., p. 38.
31
Ibidem.
32
Con questo termine nella Relazione si intende la condizione che «si dà allorché le
persone possono partecipare appieno alla vita economica, sociale e civile, allorché il loro
accesso al reddito e ad altre risorse (personali, familiari, sociali e culturali) è sufficiente
per consentire loro di fruire di un livello di vita e di una qualità della vita considerati
accettabili dalla società in cui vivono e allorché sono pienamente in grado di far valere i
loro diritti fondamentali», op. cit., p. 39.
Perché apprendere ad apprendere?
25
soggetti sufficientemente attrezzati a vivere e lavorare in questo nuovo
scenario ma, anche in questo caso, la responsabilità da pubblica diventa
privata. Sembra che le dichiarazioni di intenti e programmatiche non
riescano a sciogliere il circolo vizioso che lega la qualità della vita alla
qualità della formazione, trasformandolo in un circolo virtuoso, in una
spirale di progressivo miglioramento individuale e collettivo. Piuttosto,
pare che sia il singolo a dover essere capace di scegliere il meglio per
sé in quel momento contingente, obbligato a scegliere in un panorama
formativo in cui la quantità non fa il paio con la qualità e in cui non
esistono indicazioni da seguire; l’individuo deve possedere autonomamente gli strumenti e i mezzi e le possibilità per adattarsi e ri-adattarsi
costantemente in “armonia” con un sistema la cui imprevedibilità, al
momento, è l’unica certezza.
La conoscenza: per un’epistemologia della vita
«Oggi niente sviluppo senza nuove conoscenze, niente nuove conoscenze senza continuo apprendere. Apprendere […] è sempre più la
condizione per rendere e mantenere attivi i processi stessi della produzione di nuova conoscenza e quindi per tenere aperte le dinamiche
dello sviluppo».33
Per comprendere meglio la metafora “società della conoscenza” è
utile soffermarsi sul secondo termine di cui è composta, per scioglierne,
o quantomeno individuarne, i molteplici significati e la vasta portata
semantica. Da un lato, la conoscenza, in questa nuova visione sociale,
è una ricchezza privata e collettiva in grado di assicurare al singolo una
migliore qualità della vita e di garantire rapporti sociali basati sui principi di uguaglianza, rispetto, inclusione e produttività. In questo senso,
la conoscenza, è un bene comune e come tale va perseguita, preservata
e condivisa.
Come “bene” individuale, la conoscenza, è un diritto-dovere del
cittadino, ed in questa accezione si capisce bene l’affinità con il dirittodovere all’istruzione scolastica; ma è anche qualche cosa di più. Infatti,
l’istruzione scolastica è una possibilità/necessità “a termine”, variamente
collegata alla scadenza di una età anagrafica sancita dall’obbligo scolastico. La nuova visione della conoscenza, invece, apre ad una prospettiva
33
A. Pavan, Nella società della conoscenza. Il progetto politico dell’apprendimento
continuo, Armando, Roma 2008, p. 21.
26
Un’officina di uomini
che non è più temporanea, ma ricorsiva: la conoscenza è mutevole, veloce, vasta, richiede un impegno durante tutto l’arco della vita. In questo
senso è riconosciuto il valore in sé della conoscenza, che si inserisce fra
quei diritti fondamentali della persona di cui nessun uomo e nessuna
donna dovrebbero essere deprivati. Se mangiare è imprescindibile per
lo sviluppo fisico, allora conoscere è indispensabile alla crescita sociale,
etica, professionale ed economica.
Contemporaneamente, la conoscenza è anche una merce. Oltre ad
essere un “bene comune” è anche e sempre più collegata con il mercato e con il mondo del lavoro. Al di là della ormai classica visione del
“sapere come potere”, si va consolidando una pratica di scambio della
conoscenza che la rende simile ad una qualsiasi altra merce o bene di
consumo. La conoscenza come prodotto sottostà alle regole che normano tutti gli altri beni economici: si vende e si compra, con la lapalissiana
conseguenza che non a tutti è consentito goderne. La conoscenza come
merce perciò genera esclusione, emarginazione, amplia il divario tra chi
può accedervi e chi no, anche all’interno dello stesso paese.
Queste due accezioni, che ovviamente non esauriscono i significati,
implicano un giudizio di valore sul termine e una visione politica della
gestione del processo di diffusione del sapere. In ambedue i casi, però,
il valore della conoscenza è riconosciuto come di fondamentale importanza allo sviluppo e alla crescita e pertanto questa stima determina
nuovi comportamenti, fra i quali la diffusione di offerta e domanda
di life long learning, proprio per corrispondere tempestivamente alle
richieste dei mutamenti e dei rinnovamenti sociali e, in special modo,
produttivi.
L’ampliamento della conoscenza richiede una sua diffusione attraverso la formazione e questo può implicare sviluppi diversi e in contraddizione fra loro, come ben sottolinea Frabboni, per il quale il tandem conoscenza-formazione, variamente declinato, avvia il futuro lungo
tre direttrici perseguibili: la freccia/risorsa economica, la freccia/risorsa
sociale e la freccia/risorsa umana.34 Ovviamente ciascuna freccia mira
ad obiettivi diversi e dunque prevede un indirizzo attento e calibrato
capace di rendere la strada scelta effettivamente percorribile. In proposito, la posizione di Frabboni, autore della metafora citata, è molto
chiara: «soltanto una formazione che sia insieme mono e metacognitiva,
diffusa sull’intera popolazione scolastica fino al diciottesimo anno (obbligo formativo), potrà valere da zattera di navigazione (e di possibile
34
Cfr. F. Frabboni, Società della conoscenza e scuola, op. cit.
Perché apprendere ad apprendere?
27
salvataggio) per poter procedere nell’odierno mare dei mass media e
dei personal media, fino a raggiungere le spiagge della risorsa umana
intitolata alla “singolarità” del soggetto-persona: una “singolarità” non
cliccabile, non manipolabile, non duttile».35
L’apertura pedagogica delle politiche sulla società della conoscenza
implica una visione non mercificata del sapere e della formazione, che
offra pari opportunità, anche su scala universale. La pedagogia planetaria
propone un modello educativo per il futuro: «l’orizzonte del possibile
veste la Pedagogia di un indubbio provvidenzialismo teleologico: che per
noi si chiama forza della ragione, possibilità di dare risposta all’utopia dell’andare oltre, dove poter progettare e sperimentare una nuova umanità,
priva di confini territoriali».36 L’obiettivo di questa freccia è, certamente,
il perseguimento della direttrice dello sviluppo umano e sociale.
Così la conoscenza del terzo millennio diventa propulsiva dei classici concetti di paideia e di bildung, che fanno leva sulla persona, sulla
qualità della vita, sulla democraticizzazione delle pratiche sociali per
diventare solo in un secondo momento strumenti di formazione come
motore di sviluppo economico e bene di scambio sul mercato del lavoro.
Le caratteristiche della modernità liquida e il labirinto in cui si trovano a
vivere quotidianamente gli abitanti del terzo millennio implicano l’innovazione dei processi formativi istituzionali e professionali. Agli individui
è richiesto un rinnovamento del sapere pressoché costante e una visione
comunitaria e condivisa degli orizzonti di questo sapere.
Il Rapporto dell’UNESCO del 199637 configura quattro aree fondamentali dell’apprendimento, che includono una visione dell’educazione
come iniziale, permanente e degli adulti senza che questa suddivisione
formale implichi una ripartizione di fatto. Le quattro aree si distinguono
in 1) imparare a conoscere; 2) imparare a fare; 3) imparare a vivere insieme e 4) imparare ad essere, e sono accomunate da un intento rintracciabile nella capacità di “imparare ad imparare” durante tutto il corso
della vita e in diversi e mutevoli contesti sociali, educativi, professionali. Nel Rapporto si sottolinea come «una concezione ampia e globale
dell’apprendimento dovrebbe tendere a consentire a ciascun individuo
di scoprire, svelare e arricchire il suo potenziale creativo, di rivelare
il tesoro che c’è in ciascuno di noi. Questo significa andare oltre una
visione strumentale dell’educazione, cioè come un processo al quale ci
si sottopone per raggiungere determinati scopi [...], per arrivare a una
35
36
37
Ivi, p. 25.
Ivi, p. 45.
J. Delors, Nell’educazione un tesoro, Armando, Roma 1997.
28
Un’officina di uomini
visione che metta in risalto lo sviluppo della persona nella sua interezza,
cioè della persona che impara ad essere».38
La condizione dell’apprendere ad apprendere è, dunque, essenziale
nei processi educativi della società della conoscenza, e in questa accezione è inclusa una visione del processo educativo come capace di
dispiegare le potenzialità individuali, in armonia con le richieste sociali e
in corrispondenza con le esigenze del mondo del lavoro e con il mercato
della conoscenza e del sapere. Non a caso, la prima stanza del metaforico
labirinto “costruito” dalla Alessandrini per fornire delle outlines alla
formazione è intitolata al sogno, all’utopia: alla società della conoscenza
come sogno utopico che trova le sue radici nella Encyclopédie Francaise
dell’illuminismo, nel suo indiscusso universalismo, nella sua fede nel
progresso del genere umano. Il fulcro della riflessione non dovrebbe
perdere di vista la natura intrinsecamente antinomica della società della conoscenza che «vede entrambe le tesi – la pessimistica e l’utopica
– presenti come “lembi” di uno stesso drappo che coprono e scoprono
la fotografia – alquanto sfumata – di una società dell’immagine mediatica in cui la percezione tra reale e virtuale appare sempre più difficile
e complessa».39 E nonostante ciò non si ha da perdere la speranza in
quel sogno che l’Autrice identifica, sulla scia di Rifkin, con il sogno
europeo,40 in cui risiede la possibilità che «le politiche per l’occupazione
si intersechino sostanzialmente con le politiche sociali, verso l’obiettivo dell’inclusione sociale, che quindi diventa una parte sostantiva della
stessa idea di società della conoscenza».41
Anche il documento Realizzare uno spazio europeo dell’apprendimento permanente si apre sottolineando come gli individui siano il centro
delle preoccupazioni della comunicazione stessa. È da essi, dagli individui, dalla loro consultazione che muovono le ipotesi strategiche per
la costruzione dello spazio di formazione permanente in cui i soggetti
possano migliorare le conoscenze, le capacità e le competenze in una
prospettiva personale, civica, sociale e/o occupazionale.42
La conoscenza, pertanto, ha sia un valore in sé sia un valore quantificabile economicamente. Nella prima condizione, quella del valore in sé,
38
39
Ivi, p. 80.
G. Alessandrini, Manuale per l’esperto dei processi formativi, Carocci, Roma 2005,
p. 36.
40
J. Rifkin, Il sogno europeo, Mondadori, Milano 2004.
G. Alessandrini, Manuale per l’esperto dei processi formativi, op. cit., p. 32.
42
Cfr. Commissione della Comunità europea, Realizzare uno spazio europeo dell’apprendimento permanente, op. cit.
41
Perché apprendere ad apprendere?
29
la bildung è la strada da seguire e, contemporaneamente, l’obiettivo da
raggiungere per la formazione costante di individui capaci di vivere nelle
rinnovate condizioni sociali ed economiche senza per questo perdere
di vista i valori umani fondamentali della crescita del sé, dell’autosviluppo e della solidarietà ed inclusione sociale. Questa accezione ampia
della conoscenza determina condizioni che consentono agli individui
di rinnovare i propri saperi anche in vista della professionalità, perché
l’imparare ad imparare include le capacità di autoeducarsi sollecitando
competenze di natura critica (interrogative) e investigativa (di ricerca
delle fonti e di verifica dell’attendibilità), e dunque capacità riflessive
e metacognitive.
Pertanto, se da una parte le letture dei cambiamenti sociali ed economici interni all’avvento della società della conoscenza implicano giudizi
preoccupanti sulle rinnovate condizioni di vita individuali, dall’altra le
scienze umane e – in particolare – le scienze dell’educazione convergono
nel tentativo costante e variegato di convogliare tali mutamenti all’interno di un orizzonte che preveda anche una prospettiva etica capace di
arginare le possibili derive disumanizzanti della conoscenza considerata
solo come merce.
In particolare, se imparare a conoscere e imparare a fare sono obiettivi educativi consolidati e condivisi, la sfida che il futuro lancia risiede
nell’imparare a vivere con gli altri e nell’imparare ad essere. Acquisita
l’idea di apprendimento come cambiamento43, ciò che viene richiesto ai
singoli è di essere protagonisti consapevoli di tale cambiamento, d’essere
in grado di orientarlo in coerenza con fini utilitaristici e con fini etici, in
una visione liberale e illuminata della condizione umana.
Contemporaneamente a questa lecita richiesta agli individui, va però
chiarita la posizione che i governi intendono assumere per supportarla:
fatte salve le opzioni personali e le responsabilità individuali nonché i
doveri di ciascuno, è importante che le eventuali scelte formative sbagliate siano sostenute da un sistema in grado di offrire opportunità di
inserimento e reinserimento, garantendo l’occupabilità e la qualità della
vita anche in condizioni di flessibilità e precarizzazione. Infatti, lasciare
che il mercato sia il motore principale della formazione, anche solo degli
adulti, comporta la certezza di perpetrare le esclusioni sociali esistenti
e la possibilità di crearne di nuove.
La dimensione politica risulta essenziale per coadiuvare le scelte
43
Non è possibile elaborare una definizione univoca di apprendimento; nonostante
ciò in questa sede si è scelto di sottolineare l’aspetto di cambiamento durevole che l’apprendimento comporta perché funzionale all’argomentazione e condiviso in letteratura.
30
Un’officina di uomini
individuali, perché se la vita e la società liquida non possono conservare
la propria forma a lungo né mantenere costante la rotta, la bussola deve
essere in mano alla politica, mentre agli individui spetta la responsabilità
di saper leggere le carte per orientarsi nella direzione giusta: «emerge
sempre più chiaramente come il “mercato dell’insegnamento”, se lasciato funzionare in base alle proprie logiche, sia destinato ad accrescere
le ingiustizie, anziché ridurle, e a moltiplicarne le conseguenze sociali
e gli effetti collaterali potenzialmente catastrofici. Se si vuole evitare la
rovina è inevitabile un intervento politico».44
In questo rinnovato contesto, alla pedagogia viene chiesto di essere
ancora una volta capace di vivificare la dialettica fra essere e dover
essere, e cioè di indirizzare i fini e gli scopi dell’educazione e della
formazione per evitare il rischio di affidarli esclusivamente a contingenze economiche. La bildung ha un ruolo “escatologico”, può offrire
agli individui gli strumenti per determinare positive condizioni di vita
nel trasformato e trasformabile scenario contemporaneo, senza cedere
all’arrabbatarsi. Coerentemente, la didattica, dovrà dimostrarsi capace
di superare la dicotomia tra teoria e pratica, per sostenere processi di
apprendimento in cui il sapere e il fare avvengano contemporaneamente
e in modo consapevole, cosciente, riflessivo.
Poiché la società della conoscenza è caratterizzata dall’obsolescenza
e dal contemporaneo incremento del sapere, agli individui è richiesto un
aggiornamento costante, una forma mentis che consideri l’apprendimento una risorsa e non un obbligo. Imparare ad imparare è la prospettiva
che meglio può corrispondere alle richieste della società della conoscenza. La natura altamente relazionale della network society richiede anche
di saper mettere in relazione, in rete conoscenze, persone e processi.
Lo sviluppo della società della conoscenza in termini positivi dipende dall’apprendimento che i soggetti riescono ad esercitare in prospettiva dello sviluppo umano ed economico, individuale e collettivo. Queste
caratteristiche, però, per essere praticate fino in fondo e su larga scala
richiedono un rinnovamento di natura cognitiva ed epistemologica così
ampio e diffuso da investire anche la sfera politica: per raggiungere una
reale società della conoscenza si deve praticare un ideale di democrazia
e giustizia cognitiva perché «nella società della conoscenza si fa società,
si vive e si opera insieme in modo diverso e si trasforma così la realtà
e la percezione dello spazio pubblico».45
44
Z. Bauman, Vita liquida, op. cit., p. 137.
A. Pavan, Nella società della conoscenza. Il progetto politico dell’apprendimento
continuo, op. cit, p. 69.
45
Perché apprendere ad apprendere?
31
Da qui l’apertura al paradigma costruttivista che pare saper corrispondere alle richieste di rinnovamento formativo, culturale e sociale
sottolineate precedentemente. Infatti, il costruttivismo, nella sua complessità, apre al controllo individuale dei processi cognitivi (metacognizione), alla responsabilità personale del soggetto in formazione, alla
costruzione della conoscenza in relazione e scambio dialogico ed ermeneutico con gli altri soggetti coinvolti e con l’ambiente esterno, alla
produzione e gestione di prospettive di lettura multiple della conoscenza
e, dunque, della realtà. Il costruttivismo, pertanto, implica naturalmente
un’educazione al pluralismo che non si esaurisce nella semplice tolleranza, ma si attiva in una progressiva reciproca elaborazione di sintesi
delle diverse posizioni, attività – questa – che può condurre all’inclusione
delle diversità.
Le dicotomie individuate nella società della conoscenza (liquido/solido – possesso/accesso – materiale/immateriale – istruzione/formazione
– pubblico/privato – individuo/cittadino) devono essere risolte dialetticamente e via via ricomposte in una prospettiva educativa. Il modello
costruttivista, come si vedrà, pare funzionale a questo compito perché
non propone una visione ontologica-rappresentazionale della realtà, ma
una lettura epistemologica fluida, capace di integrare le istanze proprie
dell’individuo e quelle precipue della società con il risultato di non opporre l’ontologia all’epistemologia ma di ri-collocare la conoscenza e la
sua acquisizione in un contesto specificatamente umano, rinunciando
agli idola metafisici senza per questo cedere il passo al nichilismo postmoderno.
La testa ben fatta, di Montaigne prima e di Morin poi, è una testa
che si sottopone ad auto-indagine perché sempre passibile di errore,
pertanto l’educazione deve includere fra i suoi compiti il sollecitare le
capacità di auto-critica, formando ad un uso consapevole della conoscenza: «la conoscenza della conoscenza, che comporta l’integrazione di chi
conosce nella sua conoscenza, deve essere per l’educazione un principio
e una necessità permanente».46
Apprendere ad apprendere è l’imperativo della società della conoscenza e il costruttivismo può offrire la possibilità di controllo di questo
processo ad ogni individuo, perché è, contemporaneamente, un processo e un meta-processo di apprendimento. Sollecita capacità cognitive e
sostiene analisi matacognitive, coerentemente con le prospettive del-
46
E. Morin, I sette saperi necessari all’educazione del futuro, Raffaello Cortina, Milano 2001, p. 31.
32
Un’officina di uomini
l’autoformazione, attivando gli ambiti conoscitivi considerati importanti
dal documento UNESCO del 1996 suddivisi, ormai comunemente, in:
sapere, saper fare e saper essere. Così è possibile trasformare il sapere
da disciplinare in un processo di costruzione e di interazione fra saperi
stabili e competenze liquide in una integrazione costante che appare,
almeno al momento, una risposta plausibile alle richieste della società della conoscenza. Contemporaneamente, condividere con gli altri i
processi conoscitivi in un percorso collettivo di costruzione del sapere
sollecita prospettive multiple della realtà e, perciò, un’attitudine al pluralismo come base fondamentale per l’integrazione e l’inclusione. La
pratica relazionale a fini conoscitivi, assunta in un contesto di apprendimento, è una buona palestra di allenamento per affrontare la natura
altamente relazionale della network society, in cui la capacità di fare è
importante tanto quanto la capacità di fare insieme con altri e in cui la
comunicazione riveste un ruolo di fondamentale importanza in tutte le
sue pratiche, pubbliche e private.
La conoscenza, quale fulcro della vita di ciascun individuo nella società contemporanea, va considerata come un processo costante, come
un’attitudine al pensare e al fare, come un habitus intellettuale. Quello
che sembra prospettarsi per il futuro, nella migliore delle ipotesi, e cioè
senza voler considerare le analisi pessimistiche sui tempi oscuri, è una
“epistemologia della vita” in cui il processo conoscitivo, che supporta
tutte le sfere individuali, inneschi spirali riflessive tra azione e pensiero
in un ciclo continuo. «Il soggetto qui reintegrato non è l’ego metafisico,
fondamento e giudizio supremo di tutte le cose. È il soggetto vivente,
aleatorio, insufficiente, vacillane, modesto, che introduce la propria finitudine»47 e che opera una conoscenza della conoscenza che gli permette
di agire consapevolmente in una situazione aleatoria e vacillante almeno
quanto lui.
Pensare alla formazione come ad uno strumento che solleciti una
“epistemologia della vita” significa pensarla in termini di processo perché non punta solo all’acquisizione di saperi, ma anche alla padronanza
di abilità cognitive e metacognitive. Riflettere epistemologicamente sull’azione comporta una metodologia di pensiero che, seppure non univoca, sia almeno un atto consapevole nel soggetto, al quale il soggetto
stesso venga educato. La flessibilità, l’incertezza, la volubilità sono presupposti inalienabili all’attuale periodo storico, educare a riflettere in
azione attraverso metodologie didattiche capaci di sostenere tali processi
47
E. Morin, La conoscenza della conoscenza, Feltrinelli, Milano 1989, p. 28.
Perché apprendere ad apprendere?
33
riflessivi pare una buona strategia di formazione capace di far fronte a
situazioni impreviste e imprevedibili. Preferiamo, perciò, sostituire la
funebre metafora dei missili intelligenti con l’immagine del professionista
riflessivo, capace di gestire l’imprevedibilità delle situazioni perché usa la
sua conoscenza mentre agisce e non prima, non ad un livello superiore
ma inutile di pianificazione preventiva.
«Quando qualcuno riflette nel corso dell’azione, diventa un ricercatore operante nel contesto della pratica. Non dipende dalle teorie
consolidate della teoria e della tecnica, ma costruisce una nuova teoria
del caso unico. La sua indagine non è limitata ad una decisione sui mezzi
dipendente da un preliminare consenso sui fini. Egli non tiene separati i
fini dai mezzi, ma li definisce in modo interattivo, mentre struttura una
situazione problematica. Non separa il pensiero dall’azione, ragionando sul problema sino a raggiungere una decisione che successivamente
dovrà trasformare in azione, l’implementazione è costruita nell’ambito
dell’indagine. Così la riflessione nel corso dell’azione può procedere,
anche in situazioni caratterizzate da incertezza o unicità».48
Così come il professionista riflessivo di Schön attiva una conversazione riflessiva con una situazione unica e incerta, trovando via via
nuove soluzioni e nuovi problemi, anche l’individuo liquido dovrà ricompattarsi in una pratica riflessiva sulla quotidianità che includa il suo
essere nel mondo come cittadino, come lavoratore, come soggetto in
apprendimento. La società contemporanea sta progressivamente sostituendo alle certezze solide dei mutamenti liquidi, all’expertise tecnica
una creatività in progress, ai processi burocratici delle pratiche di management condiviso e l’individuo deve adattarsi per non essere escluso
dal mutamento in corso.
La didattica, allora, può contribuire a questo necessario adattamento
rinnovando i propri metodi, così da formare soggetti che, come professionisti riflessivi in grado di attuare un’epistemologia in pratica, siano in
grado di agire-pensando, tenendo in debito conto l’inconoscibilità delle
molte variabili in campo. L’allargamento dello spazio e la contemporanea contrazione del tempo vivificano un crono-topo in cui panta rei e
carpe diem segnano le condizioni dell’agire individuale e non più, o non
solo, delle condizioni ontologiche.
Agire bene, e non solo agire, perciò richiede una rappresentazione
della propria mente49 durante l’azione perché: «ciò che distingue le azioni
48
D. Schön, Il professionista riflessivo. Per una nuova epistemologia della pratica
professionale, Dedalo, Bari 1993, p. 94.
49
A. Harrison, Making and Thinking, Hackett, Indianapolis 1978.
34
Un’officina di uomini
sensate da quelle sciocche non è la loro origine ma la loro procedura,
e questo vale per le azioni intellettuali non meno che per quelle pratiche. “Intelligente” non può essere definito in termini di “intellettuale”
o “sapere come” in termini di “sapere cosa”; “pensare a ciò che sto
facendo” non connota “sia il pensare cosa fare che il farlo”. Quando
faccio qualcosa in modo intelligente ... faccio una cosa e non due... La
mia prestazione richiede una speciale procedura o uno speciale stile,
non speciali antecedenti».50
La prima difficoltà che si ravvisa in questa impostazione è l’individuazione e il trasferimento di tutti quei saperi taciti e impliciti che
rendono possibile un’azione ben riuscita. Il così detto sapere non formale e informale che caratterizza il fare del professionista è considerato,
anche nei documenti istituzionali, come necessario alle condizioni di
vita contemporanee e pertanto meritevole di essere condiviso. È un
«apprendimento risultante dalle attività della vita quotidiana legate al
lavoro, alla famiglia o al tempo libero. Non è strutturato [...] e di norma
non sfocia in una certificazione. L’apprendimento informale può essere
intenzionale, ma nella maggior parte dei casi non lo è».51 L’attività formativa, ormai, presta attenzione a questa varietà di saperi e, scorgendone l’importanza e l’utilità, riconosce pure la necessità di sollecitare
apprendimenti corrispondenti, anche se non riconosciuti né riconoscibili
con certificazioni.
Il costruttivismo, con le metodologie didattiche che implica, è in
sintonia con la complessità che il termine conoscenza include e che è
stata fin qui evidenziata. Come visione epistemologica concorda con un
metodo conoscitivo che prescinde da una proiezione rappresentazionale
e ontologica della realtà; come strategia didattica esercita la costruzione
collettiva della conoscenza, in accordo con una visione del sapere che
non è mai solo teorico né mai solo pratico/tecnico, ma che, al contrario,
è composto da un “fare pensando”. Queste caratteristiche sembrano
corrispondere alle rinnovate esigenze didattiche della formazione nella
società della conoscenza, specialmente per ciò che riguarda l’apprendimento degli adulti.
L’opzione sulla conoscenza, perciò, ne privilegia l’accezione come
bene comune, prevedendo una azione politica che ne garantisca l’ac50
G. Rile, On Knowing how and Knowing, in Concept of Mind, Hutheson, London
1949, p 32. Citato da D. Schön, Il professionista riflessivo. Per una nuova epistemologia
della pratica professionale, op. cit., p. 77.
51
Cfr. Commissione della Comunità europea, Realizzare uno spazio europeo dell’apprendimento permanente, op. cit., p. 37.
Perché apprendere ad apprendere?
35
cesso e la qualità rendendola disponibile individualmente ma a tutta
la collettività. Non che la conoscenza non abbia un ritorno economico,
non che non sia merce, ma la responsabilità della formazione, anche
durante tutto il corso della vita, è da attribuire tanto alla sfera pubblica
(politica) quanto a quella individuale.
In questa prospettiva alla sfera privata rimane il dovere di scegliere
la formazione più adatta al contesto individuale e alle sue specifiche ed
irripetibili caratteristiche; a quella pubblica è invece affidato il compito
di garantire quantità e qualità delle proposte.
Alla pedagogia e alla didattica, invece, il compito di perseguire i fini
(anche etici) attraverso strategie appropriate ai diversi contesti, operando in un dialogo alla pari con la politica e con le parti sociali così
da evitare il rischio di essere circoscritte solo all’interno dell’istruzione
dell’obbligo o di essere assimilate per intero alle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione.
Poiché è noto che tra informazione e sapere c’è una grande differenza,52 la presente ricerca indaga da una prospettiva didattica nell’alveo delle domande che la società della conoscenza pone, individuando
nell’epistemologia costruttivista e nel metodo didattico cooperativo e
collaborativo una delle possibile risposte.
52
«“Informazione non fa senso, non è sapere”, [l’affermazione] lascia intendere che
tra il piano dell’informazione e il piano del sapere c’è qualcosa che deve intervenire che
consenta di “ruminare”, come dice l’UNESCO, la materia dell’informazione e trasformarla
così in sapere. Ebbene che cos’è questo “qualcosa”?», A. Pavan, Nella società della conoscenza. Il progetto politico dell’apprendimento continuo, op. cit., p. 99.
Etica ed epistemologia: la questione del metodo
«Dopo la stabilità delle civiltà arcaiche relativamente isolate, e separate l’una dall’altra, dopo il furore provocato dal contatto e dal conflitto
fra le civiltà storiche, sarà possibile l’emergere di una civiltà planetaria
in cui il bilancio penda a favore della pluralità piuttosto che dell’omogeneità, a favore della creazione piuttosto che a favore dell’eliminazione di
ciò che è considerato “superato”, a favore della sperimentazione e della
diversificazione piuttosto che della standardizzazione?».1
Riflettere sull’educazione e sui metodi e mezzi che la veicolano e costruiscono significa, anche, rispondere ad istanze di natura più generale
sulla conoscenza e sul suo rapporto con le sollecitazioni storiche e sociali.
Finché è prevalsa l’idea che il fanciullo fosse una tabula rasa, una tavola
di cera sulla quale si poteva imprimere la conoscenza, uno specchio della
natura, l’atto di insegnare è stato centrato sulla trasmissione del sapere. Con Comenio è possibile seguire l’evoluzione di queste posizioni:
«Aristotele paragonò l’animo umano a una tavola rasa, in cui nessun
segno è tracciato, ma tutto può esservi tracciato. […] Il nostro cervello,
fucina di pensieri, è paragonabile giustamente alla cera, sulla quale si
imprimono sigilli o da cui si modellano statuette. […] Infine l’occhio o
lo specchio raffigurano benissimo la nostra mente: se metti davanti ad
essi qualsiasi cosa, di qualsiasi forma e colore, subito ne riproducono
un’immagine identica».2 Il metodo didattico, unico ed universale, era
per l’Autore lo strumento che avrebbe consentito di modellare la mente
dei fanciulli conducendo ciascuno alla vera conoscenza che muove dalle
cause agli effetti, dal generale al particolare. Pur nella sua grandezza, la
visione comeniana del sapere è maturata all’interno di un determinismo
1
2
M. Ceruti, Evoluzione senza fondamenti, Laterza, Roma-Bari 1995, p. 86.
Comenio, Grande didattica, op. cit., pp. 77-79. Corsivo nel testo.
38
Un’officina di uomini
gnoseologico che investe tutta la sezione teorica della Grande didattica,
ma da quando questa visione deterministica del sapere è venuta meno
anche l’insegnamento ha tentato di trovare risposte adeguate.
L’epistemologia ha da sempre un rapporto intimo con la storia dei
metodi e dei modelli della conoscenza, ma veicola anche un portato
etico, in quanto capace di determinare il rapporto tra verità, significato
e valore. Fare scelte di natura epistemologica implica perciò questioni
etiche.
Da questa dinamica (epistemologia-didattica-etica) non è esclusa
l’epistemologia costruttivista che, se ha rinunciato allo studio dell’essere, alla fondazione metafisica del sapere, non ha ceduto di fronte al
“dover essere”.
La rinuncia alla conoscenza oggettiva del mondo implica, specularmene, l’accettazione che ciò che possiamo conoscere è il procedimento
con cui il soggetto costruisce le proprie interpretazioni del mondo e non
il mondo in sé, ridimensionando così la portata universale del sapere. Il
fulcro del processo conoscitivo è un soggetto responsabile del proprio
sapere e consapevole della sua relatività storico-culturale, perché consapevole del valore individuale ed in parte arbitrario dell’esperienza.
La tematica, ovviamente, non è nuova, né interna al solo costruttivismo: Feyerabend scriveva che il suo anarchismo metodologico3 era utile
nella misura in cui poteva condurre alla felicità.4 In ultima istanza, le
questioni epistemologiche erano una chiave per aprire la porta dell’etica
e dei valori. Ma se il relativismo si è fermato di fronte all’incommensurabilità delle diverse concezioni del mondo, il costruttivismo utilizza
l’ermeneutica, l’interpretazione, come possibile via di uscita.
Il soggetto è assunto come responsabile del sapere, in quanto concorre a costruirlo, e pertanto anche dei mondi che ne derivano, dei loro
significati, dei loro valori perché è proprio nello spazio tra la verità e il
significato che i valori si muovono: costruire significati significa costruire
verità, e le verità implicano giudizi di valore.
Il costruttivismo, per il quale «epistemologia ed etica sono due facce
della stessa medaglia»5 perché gli scienziati sono i responsabili della loro
3
Cfr. P. K. Feyerabend, Contro il metodo. Abbozzo di una teoria anarchica della
conoscenza, Feltrinelli, Milano 1995.
4
«Vogliamo liberare le persone [dal giogo della razionalità scientifica, n.d.A.] in
modo che possano sorridere», P. K. Feyerabend, Come difendere la società dalla scienza,
in I. Hacking, Rivoluzioni scientifiche, Laterza, Roma-Bari 1984, pp. 26-27.
5
H. von Foerester, Presentazione, in M. Ceruti, Il vincolo e la possibilità, Feltrinelli,
Milano 1996, p. 1.
Perché apprendere ad apprendere?
39
scienza, deriva dalle posizioni epistemologiche un appello al confronto
e al dialogo capace di rendere giustizia alle diverse visioni del reale.
Sebbene sia questa una questione estremamente complessa è difficile
non scorgerne l’ideale democratico dell’apertura all’altro, al “diverso”,
così necessario nella società complessa, globale e multietnica in cui viviamo.
Naturalmente non mancano le critiche a questa posizione: Boghossian, che pure riconosce come negli Stati Uniti le idee cotruttiviste siano
legate ai movimenti progressisti quali il postcolonialismo e il multiculturalismo, sostiene che «da un punto di vista strettamente politico è
difficile capire come si possa avere pensato che questa fosse una buona
applicazione del pensiero costruttivista: se il potente non può criticare
l’oppresso, perché le categorie epistemologiche fondamentali sono inesorabilmente connesse alle rispettive prospettive, ne segue che anche
l’oppresso non può criticare il potente»,6 e dunque non rimane che accettare un doppio standard, a nostro giudizio sui generis, che determina una
situazione in cui «è concesso criticare un’idea discutibile se è sostenuta
da coloro che si trovano in una posizione di potere […] ma non se è
sostenuta da coloro che sono oppressi dai potenti».7
In verità, il costruttivismo non si è mai fatto portavoce degli oppressi,
non è un’epistemologia della liberazione; piuttosto ha insistito sempre
su un principio di responsabilità individuale che, a partire dalle istanze
gnoseologiche ed epistemologiche ha derivato “naturali” appelli etici,
il cui fondamento è proprio la convinzione di essere i costruttori del
mondo.8 L’osservatore, in quanto incluso nelle sue osservazioni, ne è
co-responsabile.
La percezione è antecedente all’oggetto e l’attività mentale è costitutiva della realtà stessa, cioè il processo conoscitivo non inizia dall’oggetto
per arrivare al soggetto, ma muove esattamente nel percorso inverso.9
Questo interrompe l’equivalenza tra sapere e potere perché l’individuo,
autodeterminando la propria riflessività e le proprie capacità metacognitive, può diventare attento critico della sua conoscenza e di quella
altrui, è il pensiero riflessivo che supporta il principio di responsabilità.
Ciascuno costruisce le proprie conoscenze all’interno di una più ampia
6
P. A. Boghossian, Paura di conoscere. Contro il relativismo e il costruttivismo, Carocci, Roma 2006, p. 152.
7
Ibidem.
8
H. von Foerester, Non sapere di non sapere, in M. Ceruti, L. Preta (a c. di), Che
cos’è la conoscenza, Laterza, Roma-Bari 1990, p. 10.
9
Cfr. S. Ceccato, Il perfetto filosofo, Laterza, Roma-Bari 1998.
40
Un’officina di uomini
cosmologia di natura contingente, ne deriva che le diverse prospettive
hanno pari dignità e possono dialogare a partire da posizioni eque, come
a dire che da un punto di vista gnoseologico non esistono oppressi ed
oppressori, e che tali categorie si costruiscono solo in virtù di altre determinazioni. Il riconoscimento dell’altro, come soggetto dotato di pari
dignità, il confronto e la collaborazione come valori individuali e sociali,
al contrario, corrispondono alla voglia di comunità10 che caratterizza
parte della cultura contemporanea.
E colpisce notare come pure Maturana, che è un neurofisiologo, nel
volume Autopoiesi e cognizione, essenzialmente un trattato di biologia,
conduca i concetti di base del volume (sistema e autopoiesi) fino alle
soglie dell’etica, attribuendo al sistema “soggetto conoscente” una possibilità di osservare relazioni sociali a lui esterne da un meta-dominio che
lo conduce a esprimere un giudizio di valore etico sulla società stessa.
Questa esperienza, per l’Autore, è un’esperienza maturata nell’amore
e virtualmente sovversiva: «un osservatore è sempre potenzialmente
antisociale»;11 ma non per questo meno indispensabile. A conclusione
dell’Introduzione, in cui sono esposti questi cenni di etica Maturana
rilancia, lasciando che sia poi il lettore a fare la sua mossa: «a questo
punto c’è molto di più da dire, oppure niente […]».12
È evidente che questa visione della scienza, della conoscenza e della
responsabilità soggettiva all’interno di questo dominio considerato oggettivo per tanti secoli implica un rinnovamento educativo, tanto di natura teorica quanto di natura metodologica. In primis, perché gli strumenti
riflessivi vanno formati attraverso pratiche didattiche che ne sollecitino
la costruzione e l’esercizio; in secondo luogo perché dall’assunto che
le prospettive sulla realtà sono multiple il costruttivismo ha tratto un
insegnamento condiviso dalla pedagogia interculturale: l’educazione al
pluralismo non è semplice accettazione dell’altro, ma pratica dialogica ed
ermeneutica di progressivo avvicinamento, comprensione, integrazione
ed, infine, inclusione condivisa dai soggetti in causa. Inoltre, una visione
complessa della realtà apre al pluralismo metodologico anche nelle pratiche didattiche, portando con sé la speranza di un reale rinnovamento
dell’atto educativo e della scuola. In questa prospettiva la “questione del
metodo” non è un cul-de-sac teoretico, ma determina la natura stessa
della pratica didattica, perché spostando il proprio asse dall’atto dell’in10
11
Cfr. Z. Bauman, Voglia di comunità, Laterza, Roma-Bari 2001.
H. R. Maturana, F. J. Varela, Autopoiesi e cognizione, Marsilio, Venezia 1985,
p. 42.
12
Ivi, p. 44.
Perché apprendere ad apprendere?
41
segnare a quello dell’apprendere diventa una questione epistemologica
in senso pieno. Se il compito dell’educazione è quello di sollecitare le capacità individuali di sviluppo, il metodo diventa il raccordo fra il soggetto
e l’oggetto di conoscenza, lo strumento che permette la loro relazione
in una prospettiva di riflessività ricorsiva in vista del fine che, lavorando
sulle attività cognitive, compara livello teorico e livello pratico dell’esperienza sottoponendola al controllo dell’intelligenza e della ragione, come
ha mirabilmente mostrato Dewey nel volume Come pensiamo.13
Il metodo, diventa così «il vero mediatore tra le dinamiche di apprendimento e il contenuto»14 disciplinare. La didattica, perciò, non è più
centrata sul contenuto, ma sul metodo e, specificatamente, sul metodo
di apprendimento; in linea con queste tendenze, la scuola può spostare
la riflessione dai contenuti al metodo per sollecitare la costante gestione della conoscenza da parte del soggetto e non solo la trasmissione di
saperi codificati e parcellizati. L’innovazione didattica non risiede nella
riforma dei contenuti, ma nel rinnovamento metodologico, come ben
sottolineato dall’interrogativo che Guasti pone ai suoi lettori: «il contenuto è sempre educativo, il metodo è sempre strumentale. Il metodo
appartiene alla cultura dello strumento, il contenuto no. Se così fosse,
perché mai una scuola che, per almeno un secolo di gloriosa storia, si
è basata soltanto sulla cultura del contenuto ritiene, essa stessa, di non
aver raggiunto i suoi obiettivi?».15
I metodi della didattica, perciò, non possono essere distinti fra attività di ricerca e attività pratica, quanto piuttosto con riguardo ai significati
che si intendono dare all’attività educativa e alla collocazione, al suo
interno, di tutti gli attori che la costituiscono perché ciascun metodo «è
portatore di un significato nei confronti della realtà stessa, per cui la
13
J. Dewey, Come pensiamo. Una riformulazione del rapporto fra il pensiero riflessivo e l’educazione, La Nuova Italia, Scandicci 1961: «l’educazione consiste nello sviluppo
della curiosità, della suggestione, e degli abiti di esplorazione e di prova, sviluppo che
accresce la sensibilità per i problemi e l’amore della ricerca per tutto ciò che è misterioso
e sconosciuto; che aumenta l’adeguatezza delle suggestioni che affiorano nella mente e
ne controlla lo sviluppo e l’ordine di successione; che rendono più acuto il senso della
forza, del potere di prova che ogni fatto osservato e ogni suggestione impiegata possono
assumere. […] Per tutti questi motivi il problema del metodo nella formazione di abiti
di pensiero riflesso è quello di stabilire condizioni capaci di far sorgere e di guidare la
curiosità; di stabilire nelle cose sperimentate connessioni che più tardi promuoveranno
il corso delle suggestioni, creeranno problemi e propositi atti a favorire la connessione
ordinata nella successione delle idee.», p. 122.
14
L. Guasti, Didattica e significato del metodo, in L. Guasti (a c. di) Apprendimento
e insegnamento. Saggi sul metodo, Vita&Pensiero, Milano 2002, p. 14.
15
Ivi, p. 18.
42
Un’officina di uomini
scelta di un metodo rispetto ad un altro connota la qualità del rapporto
che si intende avere con la realtà, con la società, con gli uomini».16
Se allo studente spetta un ruolo centrale in quanto portatore egli
stesso di un metodo di apprendimento, al docente spetterà un rinnovato
compito di gestione di quel metodo in vista del suo sviluppo, «l’insegnante deve quindi porsi un duplice problema nei riguardi della formazione
degli abiti del pensiero. Da un lato egli deve studiare […] i tratti e gli
abiti individuali di ogni scolaro; dall’altro, quelle condizioni che possono modificare in meglio od in peggio le direzioni abituali nelle quali si
esprimono le capacità dei singoli».17
La didattica, insomma, può essere la scienza che media fra le dinamiche dell’apprendimento e il contenuto della cultura formale,18 attraverso la figura del docente, gestore dell’intero processo e competente,
contemporaneamente, dei metodi della propria disciplina, dei metodi
dell’insegnare e dei metodi dell’apprendere.
Anche in didattica il metodo apre ad argomenti epistemologici, ma
non più – o non solo – con riguardo ai contenuti disciplinari, quanto
piuttosto con riguardo all’epistemologia del soggetto in atto di apprendimento. Chiedersi: come si insegna? equivale a domandarsi: come si
apprende?
Educare abiti di pensiero corretti sana il rapporto fra verità, significato e valore che include, evidentemente, capacità di giudizi etici: «non è
necessario penetrare tanto a fondo il pensiero costruttivista per rendersi
conto che questa concezione porta infallibilmente a rendere responsabile l’uomo pensante, e lui solo, del suo pensiero, della sua conoscenza e,
conseguentemente, anche delle sue azioni. […] È questo in fin dei conti
che il costruttivismo vuole esprimere e, nel tentativo di farlo, mette in
luce aspetti della teoria della conoscenza altrimenti trascurati».19
In conclusione, la riflessione e il rinnovamento metodologico, in
didattica, non sono orpelli per gli specialisti, ma strumenti indispensabili per tutti gli “addetti ai lavori” che pensano all’educazione come al
motore per lo sviluppo sociale.
16
L. Guasti, Modelli di insegnamento: lezione, modulo, trasversalità, progetto obiettivi,
problem solving, interpretazione, De Agostini, Novara 1998, p. VI.
17
J. Dewey, Come pensiamo. Una riformulazione del rapporto fra il pensiero riflessivo
e l’educazione, op. cit., p. 123.
18
Cfr. L. Guasti, Didattica e significato del metodo, in L. Guasti (a c. di) Apprendimento e insegnamento. Saggi sul metodo, op. cit.
19
H. von Glasersfeld, Introduzione al costruttivismo radicale, in P. Watzlawich (a c.
di), La realtà inventata. Contributi al costruttivismo, Feltrinelli, Milano 2006, p. 17.
Seconda parte
Il costruttivismo pedagogico
Paradigmi e topoi
Il costruttivismo, prima di ogni altra cosa, è un paradigma culturale. Paradigma inteso nel senso più ampio del termine che Kuhn ne ha
fornito nel 19701 e in cui rientrano le generalizzazioni simboliche, la
dimensione ideologica, i casi esemplari e la matrice disciplinare, e che
ampliano la prima (1963) e controversa definizione del termine descritto
più semplicemente come «una conquista scientifica fondamentale che
comprende sia una teoria sia alcuni esempi di applicazione dei risultati
alla sperimentazione e dell’osservazione. Ancora più importante, esso
è una conquista aperta, che lascia ogni genere di ricerca ancora da intraprendere. Infine, è una conquista accettata, nel senso che è condivisa
da un gruppo i cui membri non tentano più di contrastarla o di creare
alternative ad essa».2
Come tale, le origini e le successive espansioni di significato del termine “costruttivismo” sono complesse e molteplici perché nutrite da un
humus composto da aspetti scientifici (scienze umane e scienze naturali),
metodologici, etici, ideologici e simbolici. Le ricostruzioni storiche dell’evoluzione del paradigma costruttivista devono, pertanto, fare i conti
con una complessità disciplinare e prospettica connaturata al paradigma stesso. Anche l’accezione pedagogica e didattica del costruttivismo
implica questa multidisciplinarietà terminologica, infatti non è possibile
affrontare il discorso se non includendo i significati che provengono
dalla psicologia, dalla cibernetica, dalla linguistica, dalla filosofia. In
prima istanza, il costruttivismo, può essere definito come una visione
della conoscenza costruita attraverso un’opera dialettica fra soggetto
1
T. S. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino 1999.
T. S. Kuhn, La funzione del dogma nella ricerca scientifica, in S. Gattei (a. c. di),
Dogma contro critica: mondi possibili nella storia della scienza, Cortina, Milano 2000,
p. 17.
2
46
Un’officina di uomini
conoscente e oggetto da conoscere e relativizzata ad uno spazio-tempo
di natura ambientale, culturale e sociale.
Ai fini degli interrogativi posti nelle ipotesi iniziali,3 però, una ricostruzione topologica appare più utile di un exursus storico. «La storia
– topologicamente intesa e costruita – è l’analisi concettuale degli apriori
di senso, dei topoi, che definiscono lo spazio temporale, l’orizzonte di
una presenza».4 Così intesa, la ricostruzione sincronica dei significati,
si esplica in alcuni punti fondamentali: le parole della tradizione sono
quelle che vanno interrogate per de-costruire i concetti; le parole antiche
prescelte ai fini dell’analisi vanno usate come luoghi originari di senso,
come «principi di esplicazione di ambiti di realtà anche molto diversi
e distanti».5 La ricerca topologica prevede una dialettica fra l’analisi
dei termini topologici (per es. essere) nel loro significato originario e il
riconoscimento dei topoi utilizzati all’interno di un testo culturale.6
Il nostro testo, il costruttivismo, sarà pertanto de-costruito utilizzando come strumenti i significati, e le dialettiche in essi inclusi, dei seguenti
termini, assunti al ruolo di topoi:
•
•
•
•
ontologia vs gnoseologia;
rappresentazione vs costruzione;
teoria vs pratica;
individuo vs ambiente.
Sebbene presentati come termini in opposizione il costruttivismo,
come si vedrà, tende a superare i dualismi e le dicotomie nella ricerca
di una dialettica della complessità che non escluda gli opposti ma che,
al contrario, li possa integrare in una visione unica ma non univoca.
Così soggetto e oggetto, ambiente ed individuo non saranno più termini
in opposizione ma elementi costitutivi della costruzione di conoscenza.
Il sapere filosofico: ontologia vs gnoseologia
Il costruttivismo è una teoria della conoscenza e non una teoria
della realtà: parte, infatti, dall’assunto che la realtà è kantianamente
3
Se e come il costruttivismo offra alla didattica una metodologia utile alle rinnovate
esigenze dei singoli individui nella società della conoscenza (cfr. Introduzione).
4
V. Vitiello, Storia della filosofia, Jaca Book, Milano 1992, p. 80.
5
Ivi, p. 89.
6
Testo inteso «in senso amplissimo: testo è la Critica della ragion pratica come “l’opera” di Platone, la filosofia italiana del Rinascimento…», ivi, p. 90.
Il costruttivismo pedagogico 47
non conoscibile, intrinsecamente noumenica e risponde a questa presa
d’atto con una rinuncia alla conoscenza ontologica, tipica della postmodernità. Ma in verità, più che una rinuncia è una mancanza di interesse che muove il costruttivismo all’analisi fenomenica del mondo. La
Realtà, così come la Verità, non esistono e perciò non sono questioni
da affrontare in sede gnoseologica ed epistemologica. Piuttosto, il valore
della conoscenza è di natura pragmatica, è il verum ipsum factum di
Gianbattista Vico, per il quale la conoscenza razionale corrisponde alla
costruzione della mente che organizza l’esperienza e secondo cui non
si può conoscere se non ciò che si è fatto. La scienza nuova di Vico è,
infatti, la storia, perché la scienza è conoscenza della genesi, cioè del
modo in cui la cosa è fatta, «e ‘l criterio che usa è che ciò che si sente
giusto da tutti o la maggior parte degli uomini debba essere la regola
della vita socievole […]: questi deon essere i confini dell’umana ragione.
E chiunque se ne voglia trar fuori, egli veda di non trarsi fuori da tutta
l’umanità».7 Il criterio della verità è il suo essere condivisa e il valore
della conoscenza risiede nei suoi risvolti pratici: ogni conoscenza può
essere utilizzata, al di là della sua veridicità, come se fosse vera.8
La conoscenza è, di fatto, una convenzione condivisa – almeno in
parte – dalla comunità di appartenenza che costruisce linguaggi capaci
di dare significato alla realtà stessa.
La questione ontologica, quella che si interroga sull’essere in quanto
essere, non è interna al costruttivismo che privilegia, invece, l’analisi
gnoseologica ed epistemologica perché parte da una visione del sapere
priva di un fondamento metafisico. Ontologia e gnoseologia più che
contrapposte sono dissolte l’una nell’altra; destino comune a quello
che occorre al dualismo classico fra soggetto conoscente e soggetto da
conoscere. Nel costruttivismo, infatti, questi classici dualismi vengono
ricomposti in una visione che esclude il modello classico di razionalità
(realtà = conoscenza della realtà) per proporne uno nuovo, tutt’altro che
dimesso o remissivo, che rinuncia alla rappresentazione oggettiva della
7
G. Vico, Principi di scienza nuova, Mondadori, Milano 1992, p. 134. Per approfondire l’analisi del rapporto tra Vico, Kant e il costruttivismo: P. Watzlawich (a c. di), La realtà
inventata. Contributi al costruttivismo, op. cit. (con un saggio di E. von Glasersfeld intitolato Introduzione al costruttivismo radicale); A. Cosentino, Costruttivismo e formazione.
Proposte per lo sviluppo della personalità docente, Liguori, Napoli 2002; E. Gattico, R.
Orrù, Costruire per conoscere. Epistemologia costruttivista nelle pratiche psicopedagogiche,
Unicopoli, Milano 2008; B. M. Varisco, Costruttivismo socio-culturale. Genesi filosofiche,
sviluppi pscio-pedagogici, applicazioni didattiche, Carocci, Roma 2007.
8
H. Vaihinger, La filosofia del come se: sistema delle finzioni scientifiche, etico-pratiche e religiose del genere umano, Ubaldini, Roma 1967.
48
Un’officina di uomini
realtà per cedere il passo alla sua costruzione ed interpretazione. Se,
dunque, vi è una rinuncia alla razionalità forte, oggettiva, positivista, al
realismo metafisico non vi è, di contro, una rinuncia alla razionalità toutcourt. Il costruttivismo opera un mutismo ontologico, una epoché sulle
questioni metafisiche per spostare l’attenzione su come la conoscenza
venga costruita soggettivamente (soggetto-ambiente) e collettivamente
(soggetto-cultura).
La questione della razionalità è uno dei temi “forti” delle scienze
umane, specialmente se le domande che la riguardano includono, oltre
che la scienza (settore specialistico) anche la conoscenza, comunemente
intesa e diffusa. Ebbene, il costruttivismo, in entrambe le accezioni di
sapere, implica una visione sociale, determinata, costruita e contingente
e nonostante ciò non propone una rinuncia alla conoscenza o un relativismo fine a se stesso o peggio ancora un nichilismo gnoseologico perché
esclude volontariamente la riflessione intorno alla corrispondenza soggetto/oggetto, alla quale sostituisce una connivenza epistemologica.
La dissolvenza reciproca di soggetto e oggetto non è solo predicata
da assunti teorici, ma ha trovato enorme riscontro nel “principio di indeterminazione” di Heisenberg (1927) nel quale è enunciato come sia
impossibile determinare posizione e velocità di una particella in movimento perché la presenza dell’osservatore modifica necessariamente le
condizioni iniziali. Come a dire che la realtà non è mai conoscibile per
ciò che è perché la presenza dell’osservatore modifica inevitabilmente
le condizioni della realtà stessa, generandone una potenzialmente diversa. Considerazione, questa, che nelle scienze umane (in particolare la psicologia) aveva avuto già attenzione e risonanza, ma che nelle
scienze naturali scardina la visione tradizionale del metodo osservativo
e sperimentale.
Boghossian, attento critico delle teorie costruttiviste, trova parole
acute per definire questa visione della conoscenza: «di solito, dire che
qualcosa è costruito significa dire che non era lì per essere semplicemente trovato o scoperto, ma piuttosto che è stato creato e messo in
essere dall’attività intenzionale di qualche persona in un dato momento.
Inoltre, dire che è stato costruito socialmente significa aggiungere che è
stato costruito da una società, da un gruppo di persone organizzate in
qualche modo, con particolari valori, interessi e bisogni».9 In effetti, le
cose stanno esattamente così, però ciò non nasconde una paura di cono-
9
p. 33.
P. Boghossian, Paura di conoscere. Contro il relativismo e il costruttivismo, op. cit.,
Il costruttivismo pedagogico 49
scere la realtà in quanto tale, come conclude l’Autore, quanto piuttosto
l’accettazione dell’impossibilità di praticare la conoscenza noumenica,
nonché la sua inutilità da un punto di vista pragmatico.
L’attenzione, quindi, si sposta tutta sulle dinamiche che legano il
soggetto conoscente al soggetto da conoscere e su quelle che vedono
una intera comunità impegnata a comporre il significato di una realtà,
ma non secondo un modello “stampino da biscotto” alla Goodman10, a
meno che non si accetti l’idea che se il biscotto è modellato dallo stampino, anche lo stampino è modellato dal biscotto.
E, d’altra parte, la certezza del fondamento del pensiero Cartesio
la rintracciava nel pensiero stesso (cogito ergo sum), per poi appellarsi
all’esistenza di Dio come avallo della corrispondenza tra realtà e pensiero. Dio era il fondamento metafisico garante della correttezza del
pensiero umano; ma se la morte di Dio è decretata nel 1882 da Nietzsche nella Gaia scienza, la cultura post moderna ne ha fatto definitivamente scempio e alle teorie gnoseologiche non rimane che fermarsi
alla fondazione del pensiero nel pensiero stesso, della conoscenza nella
conoscenza, accettandone la storicità, la contingenza e il movimento.
Come evidenzia Morin: «il sapere che la conoscenza non può essere
garantita da un fondamento non significa già aver acquisito una prima
conoscenza fondamentale? E ciò non dovrebbe indurci ad abbandonare la metafora architettonica, in cui il termine “fondamento” assume
un senso indispensabile, per una metafora musicale di costruzione in
movimento che trasformerebbe nel suo stesso movimento gli elementi
costitutivi che la formano?».11
Pensiero e azione, riuniti nell’atto esperenziale, rendono teoretica
l’esperienza, che trova un controllo in se stessa. I fatti, non più oggettivamente percepiti e percepibili, perdono la funzione di mezzo di
controllo per la veridicità delle teorie e il qualsiasi cosa può andar bene
dell’anarchismo metodologico feyerabendiano è trasformato nel trattare
la verità secondo il principio di viabilità. La verità non è tale perché
ontologicamente rappresentativa della realtà, ma funziona se sopravvive
attraverso il grado di efficacia di una conoscenza, attraverso un principio
di viabilità: letteralmente, capacità di sopravvivere (viability). L’essere
umano, mente-cervello-corpo, costruisce verità in dialettica con l’ambiente esterno e in interazione con gli altri soggetti umani, ma la verità
cui giunge è una proiezione del reale, non la sua rappresentazione.
10
11
Ivi, p. 59.
E. Morin, La conoscenza della conoscenza, op. cit., pp. 21-22.
50
Un’officina di uomini
Con Von Glasersfeld:
«Quando associamo la camicia di Tom a quella che gli abbiamo visto
indossare ieri, attribuiamo un’identità specifica ad essa e presupponiamo che sia la stessa camicia. La presupposizione ovviamente potrebbe
essere sbagliata. Tom potrebbe replicare che ha una mezza dozzina di
queste camicie. Ciò ci costringerebbe a concepire una classe invece di
un’identità. Ma se la nostra presupposizione di identità non è contraddetta, dobbiamo pensare a una sola camicia, una specifica e sempre la
stessa che ha una continua connessione con quella che abbiamo visto ieri.
Tuttavia non abbiamo una sequenza continua di elementi senso-motori
che garantiscano una tale connessione, e perciò dobbiamo costruirla
come una successione fuori dal nostro campo di esperienza. Dobbiamo
pensarla come se fosse un legame che è separato, ma parallelo, alla
successione di esperienze che abbiamo avuto nell’intervallo tra le due
percezioni della camicia. Ricordiamo la successione delle nostre effettive esperienze come un continuo che ha un ordine sequenziale, e ora
possiamo proiettare il modello di sequenzialità sulla linea immaginaria
che mantiene l’identità individuale della camicia. Con questa proiezione
costruiamo una sequenzialità senza avvenimenti, un flusso astratto.
Ho altresì suggerito che la creazione di questo dominio possa poi
eventualmente servire come fondamento per quello che consideriamo
come “essere” e che i filosofi chiamano realtà ontologica».12
Nella situazione decritta, la maggior parte degli osservatori sarebbero propensi a concludere che Tom indossa la stessa camicia, operando
così una proiezione di ipotesi che riempiono il vuoto temporale nel quale
non sappiamo se Tom si è cambiato o meno. In questo modo giungiamo
a conclusioni anche in assenza di avvenimenti; conclusioni che stimiamo
come vere fino ad eventuale (ed evidente) smentita. Per Von Glasersfeld è con questo meccanismo di proiezione e “riempimento” che si
è costruito il concetto di tempo, i concetti metafisici e le conoscenze
umane non auto-evidenti.
Il costruttivismo, definito anche un déjà-vu del cognitivismo,13 nasce
dal sodalizio spontaneo e non organizzato tra discipline e pensatori anche molto distanti fra loro ma che, nel loro insieme, si pongono in con12
E. von Glasersfeld, La costruzione concettuale del tempo, http://www.methodologia.
it/f_text.htm
13
A. Calvani, Costruttivismo, progettazione didattica e tecnologie, http://www.robertocrosio.net/SIS/CALVANI_COSTRUTTIVISMO.pdf
Il costruttivismo pedagogico 51
trapposizione con una visione ontologica della realtà: ciò che possiamo
conoscere è culturalmente e socialmente definito, cioè si nega l’oggettività della conoscenza, vale a dire quella corrispondenza biunivoca per
cui soggetto e oggetto vengono a coincidere in un progressivo avvicinamento conoscitivo. Alla base vi è una crisi più generale del pensiero
razionalistico rintracciabile nel pensiero filosofico di inizio secolo (Nietzsche, Freud, Husserl) e ancora in atto nel panorama culturale attuale
e negli orientamenti che lo costituiscono (postmoderno, ermeneutica,
decostruzionismo, pragmatismo, etica della comunicazione). Situazione, questa, presente anche nel settore epistemologico della riflessione
filosofica e rappresentata inizialmente dal falsificazionismo popperiano,
per poi approdare a posizioni antiscientifiche o relativistiche con Feyerabend, Goodman o Rorty. L’eredità della crisi della ragione ha dato così
vita al cognitivismo di seconda generazione: il costruttivismo. Esso è il
frutto del crollo di un modello epistemico razionale, lineare, dell’idea
che la realtà possa essere esaustivamente padroneggiata e rappresentata,
in particolare avvalendosi di modelli logico-gerarchico e proposizionali.
Il costruttivismo rinuncia definitivamente all’ontologia e ad una visione
forte della ragione.
Questo livello metateorico del costruttivismo influisce, a cascata, su
tutte le sue molteplici posizioni, comprese quelle pedagogiche e didattiche che assumono questa complessità cercando di trasformarla in attività
di insegnamento coerente con i principi epistemologici e con le caratteristiche dei nuovi modelli interpretativi dell’apprendimento umano.
Natura della conoscenza: rappresentazione vs costruzione
Nella Verità o Discorsi sovvertitori Protagora di Abdera (tra il 491 e
il 481 a.c.) scriveva che “di tutte le cose misura è l’uomo, di quelle che
sono, per ciò che sono, di quelle che non sono, per ciò che non sono”.
La parola dei sofisti non esprimeva la verità delle cose, ma serviva alla
retorica come arte del convincere; anche Platone nel Gorgia considerò la
retorica come un’arte priva di un oggetto specifico e per questo la criticò
duramente, avendo come principale bersaglio l’utilizzo “mercenario”
che ne fecero i sofisti. Il relativismo gnoseologico protagoreo aveva,
probabilmente, al centro della riflessione l’uomo singolo e non il genere
umano; nonostante tale differenza con il costruttivismo, anche questa
classica corrente di pensiero postula l’inconoscibilità della realtà, che
appare passibile contemporaneamente di giudizi antitetici: della medesima cosa si possono predicare termini opposti perché la “misura” delle
52
Un’officina di uomini
cose non risiede nelle cose stesse, ma nell’uomo che ne predica. L’uomo
misura la realtà, costruendone significati e non rappresentando quelli
ontologicamente connaturati all’essere e al non essere. Questa posizione
filosofica, al di là della problematicità argomentativa, conduce al rifiuto
degli assunti della logica aristotelica del principio di non contraddizione
(A o non-A), del principio di identità (A = A) e del principio del terzo
escluso (Tertium non datur) perché di una realtà si possono predicare
A e non-A, così come una proposizione può essere sia vera, sia falsa.
I paradossi esemplificano questa posizione, implicita nel costruttivismo
contemporaneo e nella logica fuzzy, una logica sfumata e polivalente in
cui «le cose fuzzy rassomigliano alle cose definite per negazione rispetto
alle precedenti ossia alle non-cose fuzzy. A rassomiglia a non-A. Le cose
fuzzy hanno confini vaghi con i loro opposti, con le non-cose. Quanto
più una cosa assomiglia al suo opposto, tanto più è fuzzy. Nei casi più
fuzzy la cosa eguaglia il suo opposto. Ne sono esempi il bicchiere di
acqua mezzo pieno e mezzo vuoto, il mentitore di Creta che dice che
tutti i cretesi mentono e che contemporaneamente mente e non mente,
gli individui incerti al tempo stesso soddisfatti e insoddisfatti. In questi
casi lo yin eguaglia lo yang, come nell’antico simbolo taoista».14
L’uomo misura la realtà perché crea socialmente convenzioni che
forniscono significati condivisi utili alla reciproca comprensione, ma che
investono la realtà come una sovra-struttura che non le appartiene per
natura. Il metro ne è un classico esempio: in origine venne fissato come
la quarantamilionesima parte del meridiano terrestre, per poi essere
definito, nel 1983, come la distanza percorsa dalla luce nel vuoto in un
intervallo di tempo pari a 1/299 792 458 di secondo. Una costruzione
umana di significato è convenzionalmente utilizzata per rappresentare
la realtà, come se, per esempio, Roma e Milano fossero “davvero” (nel
senso di ontologicamente e non convenzionalmente) distanti 585 km.
Insomma, «la matematica non esiste senza i matematici»,15 il metro della
realtà è la costruzione intellettiva che l’uomo ne fa. Con il termine uomo,
però, il costruttivismo apre alla duplice interpretazione di uomo-singolo
e uomo-sociale; nel primo caso le determinazioni sono schemi cognitivi
individuali, nel secondo costrutti di significato culturalmente condivisi;
la prospettiva costruttivista è sia ontogenetica sia filogenetica.
Già con la visione rappresentazionale della conoscenza si era antici14
B. Kosko, Il fuzzy-pensiero. Teorie e applicazioni della logica fuzzy, Baldini&Castoldi, Milano 1997, pp. 31-32.
15
R. Apery, Mathématique constructive, in F. Guénard, G. Lelièvre (a c. di), Penser
les mathématiques, Seuil, Paris 1982, p. 62.
Il costruttivismo pedagogico 53
pato uno iato fra la realtà e la sua conoscibilità che investiva i modelli
rappresentativi di un valore paradigmatico, anche se non si potevano
assumere come interamente realistici; per esempio con Popper la classica
accezione di verificabilità di un’affermazione si trasforma nel celebre
concetto di “falsificabilità” secondo cui, posta un’ipotesi e la sua controipotesi, se questa viene smentita l’affermazione iniziale è potenzialmente
vera, anche se la teoria di riferimento non può affermarlo.16
Con il costruttivismo la rappresentazione, invece, serve al soggetto
per conoscere i propri schemi cognitivi e la propria conoscenza, non la
realtà. Non che la funzione rappresentativa scompaia, piuttosto si allontana dalla realtà per avvicinarsi al modo con il quale il soggetto la
costruisce. Assunto, dunque, che la conoscenza è il frutto di processi cognitivi e sociali che danno significato al reale ciò che viene rappresentato
è la conoscenza stessa (e non la realtà) e la conoscenza della conoscenza
(attività metacognitiva), classico esempio ne sono le mappe concettuali
che rispondono al bisogno di capire come un determinato dominio conoscitivo è stato elaborato dal soggetto e non come è nella realtà.
La costruzione della conoscenza implica una manipolazione della
realtà da un punto di vista teorico e pratico perché la conoscenza è il
frutto di un’interazione costante fra il soggetto, l’ambiente e il contesto
sociale; solo in questi termini e all’interno di questa complessità, per il
costruttivismo, vi è conoscenza.
In particolare Piaget è stato l’autore che, da una prospettiva psicologica, più di altri ha riflettuto sul rapporto tra il soggetto e l’ambiente in
una visione evolutiva, mentre Vygotskij ha considerato prioritariamente
il rapporto fra l’individuo e la società.17 Le due prospettive, che oggi
16
La posizione dell’Autore è, ovviamente, molto più complessa, in questa sede è
stata snellita per motivi argomentativi, di seguito però una citazione esemplificativa delle
posizioni originarie: «una teoria si dice “empirica” o “falsificabile” quando divide in modo
non ambiguo la classe di tutte le possibili asserzioni-base in due sottoclassi non vuote.
Primo, la classe di tutte quelle asserzioni-base con le quali è contraddittoria (o che esclude, o che vieta): chiamiamo questa classe la classe dei falsificatori potenziali della teoria;
secondo, la classe delle asserzioni-base che essa non contraddice (o che “permette”).
Possiamo formulare questa definizione dicendo: una teoria è falsificabile se la classe dei
suoi falsificatori potenziali non è vuota. Si può aggiungere che una teoria fa asserzioni
soltanto intorno ai suoi falsificatori potenziali. (Asserisce la loro falsità). Intorno alle sue
asserzioni-base “lecite”, non dice nulla. In particolare, non dice che sono vere.», K. R.
Popper, Logica della scoperta scientifica. Il carattere autocorrettivo della scienza, Einaudi,
Torino 1995, p. 76.
17
Jean Piaget (Neuchâtel 1896 – Ginevra 1980) fu allievo di E. Claparède al quale succedette nella direzione dell’Istituto delle scienze dell’educazione dell’Università di
Ginevra. I suoi primi interessi furono inizialmente più prossimi alle scienze naturali, fino
54
Un’officina di uomini
la letteratura con poche eccezioni tende a considerare complementari,
hanno dato vita alla corrente cognitiva e sociale del costruttivismo.18
Per Piaget solo l’interazione fra il soggetto e l’ambiente può render
conto del processo di apprendimento e della creazione di conoscenza;
è solo attraverso i complementari processi di assimilazione e accomodamento che l’individuo, progressivamente, conosce la realtà, dapprima
investendola con i propri schemi mentali (assimilazione) per poi valutarla anche in base alle occorrenze esterne (accomodamento). Pertanto
lo sviluppo dell’intelligenza nei bambini non è un processo che inizia
dall’io o dalle cose esterne, ma – al contrario – è un’interazione che muove dall’uno alle altre e viceversa: l’intelligenza organizza il mondo, ma
compiendo questa operazione via via riorganizza se stessa; costruendo
il mondo, l’io costruisce se stesso. L’adattamento è l’equilibrio esistente tra il processo di assimilazione e quello di accomodamento, tanto a
livello comportamentale, quanto a livello cognitivo: «esiste perciò un’assimilazione concettuale nello stesso senso in cui esiste un’assimilazione
senso-motoria degli oggetti agli schemi d’azione del soggetto, poiché
queste azioni si prolungano in operazioni. A tutti i livelli questi schemi
si differenziano incessantemente per accomodamento continuo ai dati
nuovi e così l’adattamento risulta dall’equilibrio tra questo accomodamento e l’assimilazione».19
all’avvicinamento all’epistemologia e alla psicologia che rinnovò tanto da un punto di vista
metodologico/sperimentale quanto da un punto di vista speculativo. In psicopedagogia fu
sostenitore di una differenza qualitativa tra il pensiero dell’adulto e quello del fanciullo
e dimostrò l’esistenza di fasi di sviluppo cognitivo durante l’età evolutiva. Lëv Vygotskij
(Gomel 1896 – Mosca 1934), proveniente da studi filosofici e linguistici ed influenzato dal
pensiero del materialismo storico, si interessò alla psicologia dell’età evolutiva che mise in
relazione con la linguistica, dando così avvio alla “scuola storico-sociale” il cui centro di
interesse sono i condizionamenti che i fattori socio-culturali hanno sui processi cognitivi
superiori e sulla coscienza degli individui.
18
Fa eccezione a questa lettura complementare del costruttivismo cognitivo e del
costruttivismo sociale Jerome Bruner in Celebrare la divergenza: Piaget e Vygotskij, in O.
Liverta Sempio (a c. di), Vygotskij, Piaget, Bruner. Concezioni dello sviluppo, Raffaello
Cortina, Milano 1998.
19
J. Piaget, Biologia e conoscenza. Saggio sui rapporti fra le regolazioni organiche
e i processi cognitivi, Einaudi, Torino 1983, pp. 200-201. B. M. Varisco definisce come
segue i due processi: «se un’esperienza è composta da a, b e c, essa può essere equiparata
ad un’esperienza composta da a, b e c, e x fintantoché x non viene considerato: questo
rappresenta il principio dell’assimilazione. Se invece, un’esperienza, pur contenendo a,
b e c, si svolge in modo diverso da quanto ci si aspetti in base a quanto sperimentato
in precedenza, essa provoca una “perturbazione” che può avere l’effetto di coinvolgere
altri elementi e qualità; quando ciò accede c’è la possibilità di distinguere l’elemento
perturbante da quelli accettabili in base a una qualità. Sulla base di questo principio
Il costruttivismo pedagogico 55
Piaget non ha contestato l’esistenza di una realtà oggettiva, ha invece costantemente sottolineato la centralità del rapporto individuo-ambiente come unica possibilità di sviluppo del bambino: ciò che mette in
relazione l’organismo individuale con l’ambiente è l’esperienza. Senza
tale necessaria interazione anche le basi biologiche deputate allo sviluppo sono deprivate della possibilità di apprendimento. Nonostante
l’accettazione di una realtà esterna Piaget non ricerca il fondamento
della conoscenza, ma indaga sui modi con la quale questa è costruita
dal soggetto in relazione con l’esterno; la sua è un’epistemologia derivata che ha come centro d’attenzione le dinamiche epistemologiche del
soggetto e non l’ontologia del reale; il soggetto piagetiano è un soggetto
epistemico in interazione con il reale. Lo iato tra soggetto conoscente
e oggetto da conoscere è superato da Piaget attraverso un’implicita
indifferenza alla tematica filosofica della realtà in quanto tale, e in
questo senso la psicologia cognitiva dell’Autore elvetico è pienamente
costruttivista.
La visione di Piaget della conoscenza come frutto dell’interazione
fra individuo e ambiente ha guidato gran parte delle ricerche successive
fino alle contemporanee posizioni della neuropsicologia e della psicobiologia che sottolineano come, a partire da presupposti biologici, lo
sviluppo è condizionato dalla possibilità o meno di fare esperienza del
mondo esterno; è stato infatti dimostrato che lo sviluppo di una funzione
sensoriale può essere deficitario o addirittura assente se manca l’esperienza appropriata nel periodo critico, ovvero in quel periodo sensibile
all’interno del quale l’esperienza è essenziale per il normale sviluppo di
un certo tipo di circuiti neurali: «durante un periodo critico, tali circuiti
attenderanno l’arrivo di “istruzioni” specifiche per continuare a svilupparsi normalmente. Le istruzioni sono fornite dall’esperienza attraverso
il tipo di attività elettrica che essa evoca nei circuiti stessi. L’esperienza
determina, in questo caso, l’indirizzamento irreversibile verso un preciso
schema di connettività neurale, a partire da un insieme di possibili schemi. I periodi critici sono quindi particolari finestre temporali durante lo
sviluppo postnatale entro le quali l’esperienza appropriata è necessaria
per completare lo sviluppo di un circuito neurale».20 Al termine della
fondamentale Piaget ha costruito la sua famosa teoria dell’assimilazione e dell’accomodamento che portano adattamento generando equilibrio alle strutture o schemi cognitivi.»,
Costruttivismo socio-culturale. Genesi filosofiche, sviluppi pscio-pedagogici, applicazioni
didattiche, op. cit., p. 43.
20
N. Berardi, T. Pizzorusso, Psicobiologia dello sviluppo, Laterza, Roma-Bari, 2006,
pp. 187-188. In proposito, molto interessante è la posizione di Neisser che sostiene come
56
Un’officina di uomini
finestra temporale, se i circuiti neurali non sono stati sollecitati dall’esperienza, non sarà possibile recuperarne il normale sviluppo: qualcosa sarà
perduto per sempre perché neuroni e sinapsi se non vengono attivati
dall’esperienza decadono, perdono funzioni specifiche.
La dialettica/opposizione fra nature e nurture, fra ereditarietà e ambiente, è così orientata ad accogliere la soluzione che già Lorenz, nei suoi
studi di etologia, aveva indicato: esiste una predisposizione innata ad
apprendere, e l’imprinting ne è l’emblema poiché l’atto del seguire è innato, ma l’individuazione dell’oggetto da seguire è frutto di una reazione
apprenditiva sollecitata dall’esperienza dell’ambiente esterno.21 L’esperienza costruisce la conoscenza (non ancora la realtà, come nel caso delle
successive teorie radicali del costruttivismo) e, contemporaneamente,
costruisce il corpo, perché ne modella le connessioni neurali.
Anche le ricerche sulla biologia della cognizione di Maturana e Varela, pur partendo da un’altra prospettiva ancora più vicina alle posizioni
cibernetiche e della teoria dei sistemi, confermano l’ipotesi di una embodied cognition, cioè di una conoscenza che non si considera più come
il frutto delle classiche distinzioni mente/corpo e individuo/ambiente.
Per questi Autori il sistema nervoso “inventa” il comportamento nel
senso che lo determina, ma l’ambiente, a sua volta, può modificarlo
data la plasticità del sistema stesso.22 La conoscenza, pertanto, non può
anche la percezione, dato storicamente considerato oggettivo, sia condizionata dal rapporto che si instaura tra il percettore ed il mondo: «lo sviluppo percettivo non avviene
in modo automatico, innato, indipendentemente dall’ambiente. Il ciclo di anticipazione e
raccolta d’informazione collega il percettore al mondo, e può svilupparsi esclusivamente
entro le linee che il mondo offre. Si dice che i pigmei, i quali vivono nelle fitte foreste
tropicali, dove è raro vedere oggetti distanti, commettono buffissimi errori di percezione
quando per la prima volta si trovano a vedere da lontano un branco di animali. Analogamente, nel base-ball, i giocatori fuori-campo privi di esperienza commettono grossolani
errori difensivi nel mal giudicare la traiettoria della palla, e i guidatori neo-patentati si
domandano con preoccupazione se la loro auto ce la farà a stare in quelli che in realtà
sono ampi parcheggi. Con la pratica, tali capacità si sviluppano a un punto tale da sembrare
un fatto magico per i non iniziati.», U. Neisser, Conoscenza e realtà. Un esame critico del
cognitivismo, il Mulino, Bologna 1993, p. 82.
21
«Né il concetto di innato né quello di appreso sono definiti per mutua esclusione.
Entrambi sono definiti dalla provenienza delle informazioni che costituiscono il prerequisito dello stato di adattamento all’ambiente. Ci sono due soli modi con cui queste
informazioni possono entrare nel sistema organico. Il primo è l’interazione fra specie e
ambiente, nel corso dell’evoluzione. [...] Il secondo è l’interazione tra l’individuo e l’ambiente in cui esso acquisisce informazioni.», K. Lorenz, Evoluzione e modificazione del
comportamento, Boringhieri, Torino 1971, p. 130.
22
Cfr. H. R. Maturana, F. J. Varela, L’albero della conoscenza, Garzanti, Milano
1999.
Il costruttivismo pedagogico 57
essere specchio della realtà perché la mente/cervello è incarnata in un
corpo che possiede “determinazioni a-priori”, cioè caratteristiche che ne
determinano le interazioni con l’ambiente in una prospettiva di mantenimento dell’equilibrio (autopoiesi).23
Piuttosto, la conoscenza è il frutto di una relazione fra il sistema
conoscente (soggetto) e la realtà esterna/esperienza che ne determina
a livello teoretico delle interpretazioni, e non delle rappresentazioni,
proprio perché i sistemi cognitivi sono il frutto dell’interazione in tempo
reale tra organismo e ambiente, interazione che può modificare la struttura del sistema ma non la sua organizzazione. In realtà gli Autori fanno
esplicito riferimento al termine rappresentazione, ma più nel significato
di auto-rappresentazione dell’ambiente e di se stessi, scardinando l’oggettività della relazione con l’esterno e generando il seguente paradosso:
«vi sono organismi [come gli esseri umani n.d.A.] che generano rappresentazioni delle proprie interazioni specificando entità con le quali interagiscono come se queste appartenessero a un dominio indipendente,
mentre in quanto rappresentazioni esse raffigurano soltanto le loro proprie interazioni».24 Le interazioni fra sistemi autopoietici costituiscono i
sistemi sociali perché, sebbene i sistemi autopoietici siano sistemi chiusi,
hanno relazioni con l’ambiente che gestiscono attraverso la cognizione,
strumento della conservazione dell’organizzazione.
Appare evidente che gli studi di psicologia, confortati dalle teorie
della biologia, hanno una ricaduta importante dal punto di vista pratico:
se la realtà non la si conosce oggettivamente, ma mediata da condizioni
psico-fisiche di natura filogenetica è inutile pensare di trasmettere un
23
Dal greco: autos (da sé) e poiesis (produzione): «un sistema vivente è autopoietico
in quanto si auto-produce: esso non può essere caratterizzato in termini di input e output,
nessuna delle sue trasformazioni può essere spiegata come una funzione degli stimoli del
suo ambiente; esso si modifica in base alla sua organizzazione, allo scopo di conservare
costante la sua organizzazione stessa: questo processo di costante aggiustamento è il processo cognitivo. L’organizzazione dei sistemi viventi è quindi circolare, nel senso che c’è
una circolarità nelle relazioni che la specificano: le relazioni di produzione dei componenti
che specificano l’organizzazione sono costantemente rigenerate dai componenti che producono.», G. De Michelis, Prefazione al volume H. R. Maturana, F. J. Varela, Autopoiesi
e cognizione, op. cit., p. 7.
24
H. R. Maturana, F. J. Varela, Autopoiesi e cognizione, op. cit. p. 60. G. De Michelis,
nella sua Prefazione al volume esemplifica molto chiaramente questa posizione: «ad esempio, funzioni come quelle di scopo, funzione, controllo, ecc. che usiamo frequentemente
per descrivere e spiegare i sistemi viventi sono al di fuori di questi domini fenomenici:
esse appartengono al dominio del nostro discorso sulle nostre azioni, e non sono quindi
costitutive dei sistemi viventi che osserviamo, che anzi possono essere spiegati senza fare
ricorso ad esse.», p. 10.
58
Un’officina di uomini
sapere secondo la visione classica della comunicazione (emittente – messaggio – destinatario) che non tiene conto della unità strutturalmente determinata che è il soggetto che apprende. Da un punto di vista didattico e
pedagogico, che è quello che ci interessa, le ricadute sono potenzialmente
sostanziali perché influiscono sul modo di considerare l’apprendimento,
sui metodi di praticare l’insegnamento e sull’idea complessiva del ruolo
della comunicazione all’interno dell’attività educativa, ormai inevitabilmente più vicina ad una visione ermeneutica ed interpretativa che non ad
un’ipotesi ingegneristica di trasmissione o passaggio di informazioni.
L’oggetto dell’apprendere: teoria vs pratica
Che il “fare” piuttosto che il “pensare” sia il seme dell’apprendimento non è ipotesi nuova, né all’interno delle scienze dell’educazione né
nel sentire comune. L’apprendimento senso-motorio è stato opposto a
quello simbolico-ricostruttivo25 tipico dei processi istituzionali di apprendimento con spiccate note polemiche nei confronti di una scuola lontana
dalla naturalità del processo apprenditivo che si verifica nei contesti
non istituzionali. La pedagogia e la didattica contemporanee, spostando
progressivamente l’attenzione, la riflessione e la ricerca dall’insegnare
all’apprendere hanno messo al centro il fanciullo, il bambino, e così facendo hanno sollecitato una presa di coscienza intorno alla necessità del
“fare” per apprendere, hanno sottolineato la centralità dell’esperienza
e del protagonismo attivo del soggetto in apprendimento.
Contemporaneamente, però, la gerarchizzazione del sapere anche
nella scuola ha perseguito una cultura “classica” di natura teorico-speculativa e una “tecnica” professionalizzante, praticando di fatto una separazione della teoria dalla pratica e lasciando intendere che la pratica,
la tecnica, il fare sono aspetti strumentali di un sapere qualitativamente
superiore.
Questa posizione è stata particolarmente diffusa nella scuola italiana,
segnata profondamente dall’idealismo. In proposito scriveva Ciari agli
inizi degli anni ’70: «non è raro il caso di tecniche apparentemente piegate
a servire finalità diverse ed eterogenee; in questo caso però la tecnica è
svilita e tradita; di essa non si è preso se non la buccia, l’aspetto più esteriore e meccanico. In definitiva la tecnica non è altro che la realizzazione
dei valori, i quali non esistono affatto “per sé”, come nell’iperuranio
25
Cfr. F. Antinucci, La scuola si è rotta. Perché cambiano i modi di apprendere,
Laterza, Roma-Bari 2001.
Il costruttivismo pedagogico 59
platonico, ma solo in quanto si attuano nella vita della scuola. Le tecniche
sono così riscattate da una loro funzione meramente strumentale, alla
quale viene subito da pensare data l’accezione corrente del termine. Esse
non sono al servizio di certi valori, ma sono i valori stessi».26
Ma l’opposizione tra scienza (teoria) e tecnica (pratica) ha radici ben più lontane: nella cultura greca classica la ricerca del vero non
contemplava l’accidente, la realtà nel suo molteplice manifestarsi, per
curarsi invece della riflessione intorno all’essere in quanto essere, di
natura esclusivamente metafisica. La tradizione del pensiero classico
ha pesato profondamente sulla gerarchizzazione del sapere che ha visto la speculazione teoretica regnare sulle molteplici attività tecniche e
tecnologiche.
La storia della filosofia è ricca di Autori che amplificano la centralità dell’attività speculativa in opposizione alla subordinazione del
sapere pratico, relegato il più delle volte ad una visione tecnica o – nel
migliore dei casi – alla sfera etica e politica. Non mancano eccezioni, come nel caso di Bacone27 ma, nell’insieme, l’essenza del sapere è
stata individuata nel pensiero puro. Di qui, la tradizione educativa ha
privilegiato il sapere rispetto al saper fare sollecitando una trasmissione della cultura legata all’acquisizione intellettuale, piuttosto che alla
sperimentazione pratica. Per secoli si è assunto come presupposto ideologico alla interpretazione dell’uomo che la sua condizione “naturale”
risiedesse nel pensare e solo di recente la sociologia e l’antropologia lo
hanno considerato anche da un’altra prospettiva capace di considerare
la produzione materiale al pari di quella intellettuale. Con le apologie
della tecnica di Gehlen e Popitz28 la condizione dell’umano è stata con26
B. Ciari, Le nuove tecniche didattiche, Editori Riuniti, Roma 1971, pp. 16-17. Per
un approfondimento del complesso tema delle tecnologie didattiche e del loro rapporto
con i diversi saperi cfr. A. Spinelli, Rette e spirali. Geometrie di tecnologie didattiche,
Aracne, Roma 2006.
27
Francesco Bacone (Londra 1561 – 1626), unanimemente riconosciuto come filosofo
dell’età industriale, nel Novum Organum individua nella stampa, nella polvere da sparo e
nella bussola i tre elementi che hanno mutato definitivamente l’assetto del mondo e, in
piena polemica con l’opera di Aristotele, avvia una riflessione sul metodo come strumento
di scoperta e ricerca per opere vantaggiose per la vita umana e non come mezzo buono
soltanto per le dispute e le controversie intellettuali. Lo scopo dell’uomo, per Bacone,
risiede nel generare e introdurre in un corpo dato una nuova natura o più nature diverse,
cioè nell’intervenire artificialmente sulla natura per orientarla al soddisfacimento efficace
dei bisogni umani operando attraverso un metodo, almeno in parte, di natura sperimentale
nel senso moderno del termine.
28
Cfr. A. Gehlen, L’uomo nell’era della tecnica, Armando Editore, Roma 2003. H.
Popitz, Verso una società artificiale, Editori Riuniti, Roma 1996.
60
Un’officina di uomini
siderata naturalmente artificiale («anche l’uomo è così come la tecnica
nature artificielle»29) e quindi tecnologica. Senza poter entrare nel dettaglio di un dibattito e di una tematica così ampia, in questa sede basti
ricordare che anche l’epistemologia dell’ultimo secolo si è confrontata
in modo serrato, e proficuo, con il tema del rapporto esistente fra teoria,
pratica e verità.
Dewey, riflettendo sulla conoscenza, individua nella costante attenzione tradizionalmente dedicata all’aspetto metafisico un tentativo di
ricerca della certezza e, contemporaneamente, afferma con fermezza
il ruolo principale della pratica generatrice di teorie, ribaltando così la
gerarchia classica.30
Dewey, citando esplicitamente Aristotele, attribuisce alla tradizione classica la responsabilità di aver diviso teoria e pratica, generando
una visione dualistica della conoscenza che non corrisponde al vero e
che non tiene conto della natura contemporaneamente sociale e individuale dell’apprendimento: «Aristotele affermava che la facoltà della
pura conoscenza entra nell’uomo dall’esterno come attraverso una porta. Da allora molti continuano ad affermare che il conoscere e l’agire
non hanno una connessione intrinseca l’uno con l’altro. Si afferma che
la ragione non ha responsabilità relative all’esperienza; si dice che la
coscienza è un oracolo sublime, indipendente dall’educazione e dagli
influssi della società. Tutte queste concezioni derivano naturalmente dal
mancato riconoscimento che tutta la conoscenza, il giudizio, la credenza
rappresentano un risultato conseguito attraverso l’opera degli impulsi
naturali in connessione con l’ambiente».31
Anche in Democrazia ed educazione l’Autore fa esplicito riferimento ai classici per ricostruire la genesi dell’opposizione tra esperienze e vera conoscenza, lontane quanto l’agio dal guadagnarsi da vivere.
E pur riconoscendo ad Aristotele e Platone una reciproca autonomia
di pensiero e delle differenti posizioni filosofiche li individua concordi
nell’«identificare l’esperienza con interessi puramente pratici; e perciò
nell’assegnarle come fine degli interessi materiali e come organo il corpo»;32 come pure uniti nel considerare – di contro – la conoscenza come
libera da fraintendimenti esperenziali, completa, autosufficiente, lontana
29
A. Gehlen, L’uomo nell’era della tecnica, op. cit., p. 33.
Cfr. J. Dewey, La ricerca della certezza: studio del rapporto fra conoscenza e azione,
La Nuova Italia, Scandicci 1968.
31
J. Dewey, Natura e condotta dell’uomo, La Nuova Italia, Scandicci 1977, pp. 200201.
32
J. Dewey, Democrazia e educazione, op. cit., 319.
30
Il costruttivismo pedagogico 61
da bisogni materiali e collocata organicamente in una «mente puramente
immateriale».33
Per il costruttivismo il punto di vista si trasforma in un punto d’azione34 in cui anche l’attività linguistica diventa attività generatrice e produttrice (pertanto anche tecnologica) di significati. Infatti, se da una
parte è ormai diffusa l’idea più o meno latente che per imparare bisogna
fare, è meno consapevole il dato che anche pensando si fa. Ancora una
volta la visione costruttivista, nella sue molteplici espressioni, tende a
trasformare un dualismo in una dialettica aperta e continua: anche il linguaggio costruisce il mondo, ne determina il senso, ne indirizza i significati, quasi a sottointendere l’ipotesi che anche parlare è fare. Austin, con
la teoria degli atti linguistici, annunciò l’ipotesi che gli enunciati hanno
anche un valore performativo (perlocuzione) che produce modificazioni
nel comportamento dell’interlocutore e nella realtà circostante, determinando un’incidenza fattiva sulla realtà, come nel caso della profezia che
si autodetermina, che è: «una supposizione o profezia che, per il solo
fatto di essere stata pronunciata, fa realizzare l’avvenimento presunto,
aspettato o predetto, confermando in tal modo la propria “veridicità”».35
Il teorema di Thomas, secondo cui “se gli uomini definiscono certe situazioni come reali, esse sono reali nelle loro conseguenze” si sostanzia
nelle profezie che si autodeterminano e nell’effetto Pigmalione, secondo
cui un insegnante influisce anche inconsciamente sul comportamento
dello studente il quale interiorizza la visione che l’insegnante ha di lui,
assecondandola.36
Tutta la pragmatica della comunicazione, poi, evidenzia come l’azione linguistica abbia determinazioni sul reale, come lo modifichi, innestando un loop che genera una spirale di trasformazioni tra realtà-atto
linguistico-realtà, in una visione cibernetica e non tautologica del comunicare. Anche la linguistica e lo studio sociale e psicologico del linguaggio hanno evidenziato questa capacità costruttiva della comunicazione
umana, che determina orizzonti di senso in una dialettica costante tra
individuo e società. De Saussure ha distinto fra langue e parole, a sottolineare la differenza tra il codice sociale e il codice individuale di una
33
Ibidem.
R. Orrù, L’apprendimento costruttivo, in E. Gattico, R. Orrù, Costruire per conoscere. Epistemologia costruttivista nelle pratiche psicopedagogiche, op. cit., p. 122.
35
P. Watzlawich, Le profezie che si autodeterminano, in P. Watzlawich (a c. di), La
realtà inventata. Contributi al costruttivismo, op. cit., p. 87.
36
Sul tema, e sulla questione valutativa in relazione all’influenza degli insegnanti sulle
prestazione degli studenti, cfr. R. Rosenthal (a c. di), Pigmalione in classe: aspettative degli
insegnanti e sviluppo intellettuale degli allievi, Franco Angeli, Milano 1999.
34
62
Un’officina di uomini
lingua. Il significato è determinato dall’interazione fra i due aspetti che
l’individuo realizza durante l’uso quotidiano e personale del linguaggio,
attraverso il quale costruisce i suoi significati.37
Con Goodman, poi, il linguaggio come espressione del pensiero è
un’attività che nel conferire senso costruisce mondi simbolici. La realtà
è inscindibilmente legata alle modalità simboliche con cui è descritta al
punto che non è possibile individuarne la veridicità perché tutte sono
parimenti e potenzialmente vere, e nessuna è più vera delle altre.38
Queste teorie sul linguaggio aprono alle prospettive ermeneutiche e
confermano la visione della conoscenza come interpretazione del reale
da parte di un soggetto conoscente che ha una rilevanza maggiore rispetto all’oggetto da conoscere. Anche in questo caso cominciano ad intravedersi le implicazioni didattiche e metodologiche che verranno affrontate
più avanti, è però importante sottolineare che se da un punto di vista
epistemologico si era seguita l’idea costruttivista secondo cui osservare è
agire, le autorevoli analisi del linguaggio citate in precedenza tendono a
perseguire una posizione non dissimile: nell’atto conoscitivo il soggetto
e l’oggetto sono stati integrati nel medesimo gesto di osservazione che
determina reciproche modificazioni; così la produzione linguistica genera significato e senso (e mondi) che partendo dal soggetto storicamente
e culturalmente determinato a sua volta lo trasforma in un processo di
coevoluzione conoscitivo.
Pertanto la distinzione tra teoria e pratica, tra fare e pensare non
è, presumibilmente, una dicotomia; non è una ripartizione manichea
sostanziale, piuttosto è una delle possibili interpretazioni del reale. Di
fatto, si fa sempre più strada l’ipotesi che questa dicotomia non riesca
a spiegare l’apprendimento, «la conoscenza è il risultato instabile dell’ecologia dell’azione umana, nella quale l’uomo agisce nel corso del suo
sviluppo e si sviluppa nel corso del proprio agire, in un sincrono processo
di modificazione dell’ambiente e di se stesso nell’ambiente».39
Oggetto e soggetto non esistono autonomamente, nell’atto conoscitivo vivono l’uno in funzione dell’altro attraverso una transazione40
37
Cfr. F. De Saussure, Corso di linguistica generale, Laterza, Roma-Bari 1998.
Cfr. N. Goodman, Vedere e costruire il mondo, Laterza, Roma-Bari 2008.
R. Orrù, L’apprendimento costruttivo, in E. Gattico, R. Orrù, Costruire per conoscere. Epistemologia costruttivista nelle pratiche psicopedagogiche, op. cit., p. 146.
40
«Ciò che chiamiamo “transazione” […] non si deve quindi considerare, in quanto
espressione tecnica, come se “esistesse” indipendentemente dall’osservazione, né come
se fosse un modo di osservare “esistente nel cervello umano” in presunta autonomia da
ciò che si osserva.», J. Dewey, A. F. Bentley, Conoscenza e transazione, La Nuova Italia,
Scandicci 1974, p. 124.
38
39
Il costruttivismo pedagogico 63
che li fa esistere, che li rende reciprocamente reali e che elimina, nel
pragmatismo deweyano, la separazione tra il fare e il conoscere: «l’aver
compreso che l’osservazione necessaria alla conoscenza entra a far parte
dell’oggetto conosciuto, cancella questa separazione fra il fare e il conoscere e rende possibile, anzi esige una dottrina nella quale azione e
conoscenza siano intimamente connesse tra loro».41
Anche l’esperienza, così come la storia, ha nel contempo significati soggettivi e oggettivi, gli uni non possono esistere senza gli altri, e
viceversa. Ci sono condizioni necessarie dell’esperienza e della storia
(per es. il sole, la luna, le stelle, le montagne) che non sono solo esterne, ma sussistono come parti integranti ed indispensabili, eppure senza
atteggiamenti, interessi e interpretazioni queste cose non sarebbero la
storia.42
L’esperienza, in Dewey, è il nodo in cui azione e conoscenza si allacciano; è da questo giudizio che discende il suo attivismo pedagogico,
che sollecita il ruolo attivo del fanciullo, impegnato a fare e pensare
contemporaneamente. L’esperienza a cui pensa l’Autore è educativamente significativa, anche per contrastare le critiche di lassismo che gli
venivano fatte, ma è anche e inevitabilmente complessa, contraddittoria e precaria, come nella realtà adulta ed extra-scolastica. La ragione,
pertanto, è uno strumento per operare sulle condizioni date dalla realtà
stessa e non ha un valore assoluto, come in Hegel e nei suoi successori
con i quali Dewey si era formato. L’esperienza è il centro dell’attività
educativa perché sollecita l’interesse e la motivazione, indispensabili
per un apprendimento significativo, e perché il pensiero o determina un
aumento dell’efficienza dell’azione o è solo un peso sulla mente: «un’oncia di esperienza è meglio che una tonnellata di teoria, semplicemente
perché è soltanto nell’esperienza che una teoria può avere un significato
vitale e verificabile. Una esperienza, un’umilissima esperienza, è capace
di generare e contenere qualsiasi teoria (o contenuto intellettuale), ma
una teoria all’infuori dell’esperienza non può essere in definitiva afferrata neppure come teoria. Tende a diventare una semplice formula
verbale […]».43
La ragione, in Dewey, diventa intelligenza proprio a sottolineare
il distacco dalla tradizione metafisica classica, lontana dall’attività pratica. L’intelligenza muove dalla realtà e dall’esperienza, intese come
41
J. Dewey, La ricerca della certezza: studio del rapporto fra conoscenza e azione,
op. cit., p. 221.
42
Cfr. J. Dewey, Esperienza e natura, Mursia, Milano 1990.
43
J. Dewey, Democrazia e educazione, op. cit., p. 194.
64
Un’officina di uomini
situazioni incerte e critiche, che costituiscono il “problema” da risolvere
attraverso un’indagine di natura sperimentale. La funzione della teoria
è quella di investire la pratica per trovare soluzioni a situazioni reali,
il pensiero è utile come azione di ritorno sul mondo della pratica e il
pensiero è riflessivo in quanto, nell’atto del pensare, guida l’agire.
L’agire come epicentro dell’attività educativa è giustificato, nelle
teorie costruttiviste, anche dalla visione sociale dell’apprendimento, che
fu tema centrale in Dewey, tanto come organizzazione metodologica
dell’atto educativo, quanto come suo fine ultimo. Nell’esperienza, infatti,
vive la dialettica interna all’intelligenza fra le abitudini (intese come
habitus, anche in senso etico) e gli impulsi, dialettica che inquadra l’intelligenza come una facoltà che subisce la tradizione ma che sa anche
porre le condizioni per l’innovazione.
La relazione conoscitiva: individuo vs ambiente
Rousseau per educare Emilio pensava di preservarlo dai rapporti
sociali che ne avrebbero corrotto la natura buona e spontanea; la socializzazione, per l’Autore, non era certo il fulcro dell’educazione infantile.
Il tema del rapporto fra individuo e società attraversa tutte le scienze
umane, comprese la psicologia, la pedagogia e la didattica. Nelle scienze
dell’educazione il tema è un topos ricorsivo, fino alle contemporanee
teorie del costruttivismo sociale che individuano nella relazione fra soggetti il meccanismo di base dell’apprendimento, affiancato al rapporto
– pure fondamentale – tra l’individuo e l’ambiente.
È con Vygotskij che questa posizione dispiega tutta la sua vitalità, specificatamente con il costrutto di zona di sviluppo prossimale (la
ZSP o, nell’acronimo “multilingue” ZOPED44 «è la distanza tra il livello effettivo di sviluppo così come è determinato da problem-solving
autonomo e il livello di sviluppo potenziale così come è determinato
attraverso il problem-solving sotto la guida di un adulto o in collaborazione con i propri pari più capaci»)45 che mette in relazione il concetto
44
Zone of Proximal Development: Zo è la prima sillaba di zona, Pe si riferisce alla
prima e all’ultima lettera di prossimale, D è la prima lettera di development. Cfr F. Carrugati, P. Selleri, Psicologia dell’educazione, Il Mulino, Bologna 2005, p. 51; L. Mason,
Psicologia dell’apprendimento e dell’istruzione, Il Mulino, Bologna 2006, p. 45.
45
L. S. Vijgotskij, Il processo cognitivo, Bollati Boringhieri, Torino 1987, p. 127. «È
nel momento in cui il soggetto “agisce” socialmente, cercando di risolvere un problema che
non sarebbe in grado di affrontare autonomamente, attraverso lo scaffolding (sostegno)
Il costruttivismo pedagogico 65
di sviluppo e quello di apprendimento. È a scuola, secondo l’Autore
russo, che praticando un’opera di apprendimento si sollecita lo sviluppo
attraverso l’imitazione. Ma la prospettiva non è, ovviamente, quella di
una ripetizione esatta del comportamento esperto da parte del soggetto
meno esperto, come nel caso dell’apprendistato classico o dell’analisi
della performance, ancora legate ad una visone comportamentista dell’apprendimento sintetizzabili nel classico schema S→R→R (stimolo→
risposta→rinforzo), quanto piuttosto una interiorizzazione del comportamento esperto il cui esito dipende sostanzialmente dagli apprendimenti pregressi di ciascun individuo e dagli schemi cognitivi già elaborati. I
concetti scientifici e le procedure di ricerca collegate, che sono oggetto
dell’insegnamento scolastico, sono innestate dal soggetto nei concetti
spontanei già posseduti; ciascuno elabora il nuovo sapere sulla base
del precedente, alla luce di quanto già possiede concettualmente, come
esemplificato nella bella analogia intorno all’insegnamento/apprendimento della seconda lingua: «così come una seconda lingua si impara
passando necessariamente attraverso la mediazione dei significati e di
tutta la competenza già acquisita nella lingua materna, allo stesso modo
i concetti scientifici vengono rielaborati e resi significativi allorché, partendo dall’insegnamento, vengono correlati con il patrimonio di concetti
spontanei già posseduti dal soggetto, reinterpretati e riformulati alla luce
della rete di significati già esistente».46
Per Vygotskij non esiste una fase egocentrica della costruzione del
linguaggio e del pensiero, come invece era per Piaget che aveva ipotizzato una condizione del linguaggio infantile spiccatamente intrasoggettiva,
che solo successivamente si sarebbe trasformata in intersoggettiva; il linguaggio infantile, per Vygotskij, è una forma esteriorizzata di pensiero
autoriflettente, ciò che nell’adulto è il discorso interiore o il pensiero
riflessivo. Lo sviluppo di ogni funzione psichica dipende da quanto il
soggetto è in grado di padroneggiare gli strumenti sociali del pensiero.47
dialogico – che orienta senza dirigere – di chi tale problema sa già risolverlo (in quanto
ha già colmato o reso attuale quella sua ZSP), che egli si “appropria” di nuovi strumenti
cognitivi. Essi gli serviranno ad alimentare un “agire interiore” (interiorizzazione della procedura risolutoria attraverso un dialogo che, da sociale, diventa intrapersonale o
“pensiero riflessivo”), il quale gli permetterà di risolvere in maniera autonoma problemi
analoghi a quello affrontato con altri, controllando il proprio operare». B. M. Varisco,
Costruttivismo socio-culturale. Genesi filosofiche, sviluppi pscio-pedagogici, applicazioni
didattiche, op. cit., p. 106.
46
A. Cosentino, Costruttivismo e formazione. Proposte per lo sviluppo della personalità docente, op. cit., p. 102.
47
S. Vygotskij, Pensiero e linguaggio, Barbera, Firenze 1966, p. 72.
66
Un’officina di uomini
Visione, questa, che può non sorprendere se con strumenti sociali del
pensiero si intendono le forme tecnologiche di costruzione, trasmissione
e condivisione del sapere, quali per esempio la scrittura e la stampa. Già
Lurija (allievo di Vygotskij) compiendo ricerche etno-psicologiche su
soggetti illetterati riportò con dovizia di particolari la loro incompetenza
nel riconoscere categorie logiche formali come quelle geometriche; dati
– questi – che servirono poi ad Ong per affermare che: «una cultura
orale semplicemente non riesce a pensare in termini di figure geometriche, categorie astratte, logica formale, definizioni, o anche descrizioni
inclusive o auto-analisi articolate che derivano tutte non semplicemente
dal pensiero in sé ma dal pensiero condizionato dalla scrittura».48 La
tecnologia della scrittura costituisce per Ong l’invenzione che più di
tutte le altre ha trasformato la mente umana perché «non si tratta di una
semplice appendice del discorso orale, poiché trasportando il discorso
dal mondo orale-aurale a una nuova dimensione del sensorio, quella
della vista, la scrittura trasforma al tempo stesso discorso e pensiero».49
Forme del linguaggio e della comunicazione e forme del pensiero che
si modificano reciprocamente, così come già Platone aveva intuito nella
sua celebre accusa alla parola scritta che, se interrogata, maestosamente
tace.50
Così Vygotskij sostiene che linguaggio e pensiero si sviluppano a
partire da un movimento che procede dall’esterno (ambiente) all’interno (soggetto), dal livello sociale a quello individuale e, mentre Piaget
conferisce particolare rilievo a stadi di sviluppo universali scanditi filogeneticamente, Vigotskij ragiona sulle interazioni tra le condizioni sociali
e il substrato biologico del comportamento considerando la relazione,
pure esistente, tra soggetto e ambiente come mediata dalla cultura e dai
sistemi simbolici, localmente e storicamente determinati. Il linguaggio
è, in primis, uno strumento di relazione sociale e solo successivamente
si interiorizza venendo a coincidere con il sé. Così interpretato il linguaggio assume il valore di modello del rapporto tra apprendimento e
sviluppo, esemplificando il ruolo che l’interazione tra individuo e società
ha nella crescita delle funzioni cognitive superiori: «l’acquisizione del
linguaggio può fornire un paradigma per l’intero problema del rapporto
tra apprendimento e sviluppo. Il linguaggio nasce inizialmente come un
mezzo di comunicazione tra il bambino e le persone del suo ambiente.
48
W. J. Ong, Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola, Il Mulino, Bologna 1986,
p. 86.
49
50
Ivi, pp. 126-127.
Platone, Fedro, Laterza, Roma-Bari 1991, pp. 275-276.
Il costruttivismo pedagogico 67
Solo in seguito, dopo la conversione al linguaggio interiore, arriva a
organizzare il pensiero del bambino, cioè, diventa una funzione mentale interiore».51 Dunque l’apprendimento in genere «presuppone una
natura sociale specifica e un processo attraverso il quale i bambini si
inseriscono gradualmente nella vita intellettuale di coloro che li circondano»,52 condividendo e progressivamente negoziando significati e
strumenti, come a confermare l’ipotesi della sociologia della tecnica che
per l’uomo non vi è nulla di più naturale del suo essere artificiale, cioè
culturalmente determinato. L’apprendimento passa attraverso la socializzazione e l’acquisizione culturale di significati che il soggetto rielabora
autonomamente alla luce della propria individualità.
L’attività cognitiva ha un carattere sociale mediato culturalmente,
l’apprendimento informale (extrascolastico) è il risultato di una interazione sociale situata, mentre il livello “meta” dell’apprendimento, la
consapevolezza del come, è una capacità riflessiva di natura ancora superiore al “semplice” apprendimento formale (scolastico).
Il filone di studi contestualista, a cui appartiene Vygotskij, è stato
ampiamente diffuso in Europa e in negli Stati Uniti da Cole che ha
individuato negli artefatti culturali quegli strumenti, anche di natura immateriale, che consentono al singolo di sperimentare il mondo attraverso
la mediazione della propria cultura d’appartenenza.53
Al tema del rapporto fra individuo e società si dedicò anche Dewey,
da una prospettiva più squisitamente pedagogica e in relazione al valore
etico dell’esperienza mediata dal contesto culturale. Il tema dell’esperienza, centrale in tutta la produzione filosofica e pedagogica dell’Autore statunitense, è contestualizzato all’interno di una visione sociale ma
non deterministica, che comporta un’apertura di natura etica e morale.
Per Dewey, infatti, anche le scelte morali sono legate alle abitudini,
ma all’interno della costante relazione fra continuità (sociale) e cambiamento (individuale). Non è possibile considerare un individuo, sia
che si guardi al suo sviluppo sia che si guardi al suo comportamento,
senza tener conto dell’ambiente in cui è inserito: dal linguaggio, alla
morale, all’apprezzamento estetico non vi è possibilità che l’individuo
si sottragga alle influenze socio-culturali e pertanto l’unico modo per
indirizzare correttamente la crescita dei giovani è quello di controlla51
S. Vygotskij, Il processo cognitivo, op. cit., p. 132.
Ivi, p. 130.
Cfr. M. Cole, La cultura in una teoria della comunicazione della mente, in O. Liverta
Sempio, A. Marchetti (a c. di), Il pensiero dell’altro: contesto, conoscenza e teorie della
mente, Raffaello Cortina, Milano 1995.
52
53
68
Un’officina di uomini
re l’ambiente in cui crescono. Dewey elabora una prospettiva organica
che armonizza le posizioni della psicologia del soggetto di ispirazione
piagetiana, centrate sul soggetto, con quelle della scuola socio-culturale
russa di Vygotskij.54 Così come per la storia, anche i fatti non esistono
senza le loro interpretazioni, in una visione quasi ermeneutica della ricostruzione, così l’individuo, sebbene preesistente alla società, non esiste
se non immerso in essa; i soggetti sono inevitabilmente condizionati da
un ambiente naturale e socio-culturale ed è solo all’interno di questa
limitazione che è possibile la conoscenza, l’educazione, la condivisione
valoriale, l’esercizio della libertà. Specificatamente, la conoscenza, è una
strategia di adattamento attivo ad un contesto dato alla cui base si colloca l’esperienza, atto nel quale individuo e società si influenzano vicendevolmente. Pertanto la conoscenza è un processo attivo e complesso,
costituito da attori diversi (soggetto, ambiente naturale, determinazioni
culturali) che l’Autore considera parimenti importanti, «se Kant, sulle
tracce di Cartesio, aveva spostato il centro dell’universo gnoseologico
dall’oggetto al soggetto, ora Dewey, vedendo i limiti propri del dualismo
implicito sia nel soggettivismo che nel realismo, avanza seguendo una
logica della complessità e tende a dissolvere l’idea di un centro fisso
per sostituirla con quella di addensamenti regionali che si succedono
nel processo di continuo mutamento».55
Sulla falsariga dell’ambiente naturale e di quello culturale, la scuola
è un ambiente speciale atto a «controllare coscientemente il genere di
educazione che ricevono gli immaturi»56 per mezzo di una semplificazione della cultura contemporanea troppo complessa «per essere assimilata in toto»;57 attraverso l’epurazione di quei «caratteri dell’ambiente
esistente che non sono degni di influenzare le abitudini mentali»58 e,
infine, con la promozione della conoscenza dei diversi possibili ambienti
che coesistono all’interno di una società moderna, provvedendo «a che
ogni individuo abbia la possibilità di sfuggire alle limitazioni del gruppo
sociale nel quale è nato».59
Il superamento dei dualismi filosofici e specificatamente gnoseologici conduce l’Autore a considerare la necessità di trasferire nella scuola
54
Cfr. A. Cosentino, Costruttivismo e formazione. Proposte per lo sviluppo della
personalità docente, op. cit., p. 111.
55
Ivi, p. 115.
56
J. Dewey, Democrazia e educazione, op. cit., p. 62.
57
Ivi, p. 63.
58
Ibidem.
59
Ivi, p. 64.
Il costruttivismo pedagogico 69
la complessità implicita nell’atto conoscitivo e apprenditivo, complessità
all’interno della quale risiede anche la componente sociale. Così il metodo didattico non è più orientato alla trasmissione del sapere ma alla
condivisione di ciò che di positivo c’è da condividere nella complessità. Dewey scrive esplicitamente del ruolo dell’insegnamento tra pari e
dell’importanza del fattore sociale all’interno dei sistemi di istruzione,
perché, quando ciò manca, l’insegnare e l’apprendere coincidono con
un trasferimento meccanico di sapere. Così come mente e corpo non
possono essere separati nell’esperienza, fonte della conoscenza, così
l’apprendimento del singolo è in relazione con il sapere del gruppo e
dunque «quando lo studio vien prospettato come iniziativa implicante
mutui scambi, la componente sociale diviene parte viva del processo di
apprendimento. Quando il fattore sociale manca, l’imparare diventa un
trasferimento del materiale offerto entro la coscienza puramente individuale»60 e la personalità non ne viene influenzata in alcun modo in senso
sociale. Ma il contesto sociale è allo stesso tempo condizione, strumento
e fine, e come tale va perseguito nel grande ideale social-democratico
che ispira tutta la produzione deweyana: il sociale è condizione dell’apprendere, ma l’apprendere è condizione del miglioramento progressivo
del sociale, così che la scuola persegue il rapporto tra individui orientandolo al fine democratico come modello ideale di «vita associata. Di
esperienza continuamente comunicata».61
L’interazione fra individui considerati all’interno delle determinazioni sociali ha avuto, particolarmente in psicologia, un’attenzione costante
fino ai nostri giorni, riversando nella scienze dell’educazione un portato
teorico che la didattica ha trasformato in prassi educative ed in metodologie.62 Contemporaneamente, però, un progressivo spostamento del
termine “sociale” ha via via ristretto il significato originario dell’analisi
che era stata condotta con un respiro antropologico per circoscriverlo ad
un aspetto contingente, familiare quasi, che ha concentrato l’attenzione
più che sugli aspetti cognitivi su quelli emozionali. Così la didattica e la
didassi,63 influenzate da una semplicistica divulgazione psico-pedagogica, hanno spesso ceduto di fronte alla complessità delle teorie originarie
60
J. Dewey, Democrazia e educazione, op. cit., p. 359.
Ivi, p. 133.
62
Per una rassegna aggiornata cfr. B. M. Varisco, Costruttivismo socio-culturale. Genesi filosofiche, sviluppi pscio-pedagogici, applicazioni didattiche, op. cit.
63
Didattica quale disciplina scientifica e didassi quale pratica dell’insegnare (cfr.
M. Gennari, Istituzioni di didattica, in M. Gennari (a c. di), Didattica generale, op. cit.).
Sebbene i due aspetti in via teorica non siano separabili, di fatto hanno maturato metodi
di ricerca autonomi.
61
70
Un’officina di uomini
con il risultato di scambiare la comprensione della complessità con la
comprensione soggettiva (e per certi versi indulgente) delle difficoltà
individuali maturate dal discente in contesti sociali estremamente determinanti, ma anche estremamente circoscritti.
Le implicazioni metodologiche
L’ampiezza del paradigma costruttivista, come si è dimostrato e più
volte affermato, investe le scienze naturali e le scienze umane ridefinendone confini teorici e strumenti metodologici e pratici. Da questa
innovazione multidimensionale non sono escluse le scienze dell’educazione e, fra queste, la didattica. Specificatamente dal dialogo con la
psicologia (Piaget, Vygotskij ma anche Dewey) la didattica ha mutuato
una rinnovata visione del soggetto che apprende tentando di rispondere
con metodologie ad essa più vicine e in armonia con i nuovi modelli di
apprendimento. Il risultato è la visione di un bambino ecologico, a più
dimensioni che va educato e formato a tutto tondo, equipaggiato di tre
zaini socioculturali specifici: il primo «per il viaggio del bambino verso
la conoscenza dei territori (sociali e naturali) quotidiani, di esperienza
domestica, di vicinato, scolastica, ecc. Il secondo zaino è specifico per
il viaggio del bambino alla ricerca/valorizzazione di quelle esperienze
esistenziali […] che la società oggi tende a mortificare-marginalizzaredeprivare. […] Il terzo zaino, infine, è specifico per il viaggio del bambino nel pianeta della relazione sociale».1
Il puerocentrismo si trasforma da aspirazione pedagogica in prassi
didattica, sollecitando la disciplina stessa a vivificare il suo ruolo all’interno di una società sempre più attenta ai motivi della formazione e dell’educazione concretizzando la lettura secondo cui «la scienza dell’educazione denominata “didattica” costituisce un esempio emblematico di
“disciplinarizzazione secondaria” ovvero di elaborazione di un sapere
relativo ad una pratica sociale (appunto l’insegnamento-apprendimento)
diffusa e storicamente consolidata, che si svolge anche […] prescindendo
dalla relativa elaborazione scientifica specifica».2
1
F. Frabboni, Manuale di didattica generale, op. cit. p. 13.
P. Calidoni, Attualità e scopi della didattica. Linee del dibattito in Italia, in E. Nigris,
Didattica generale, Guerini, Milano 2004, p. 80.
2
72
Un’officina di uomini
Negli ultimi anni la didattica, da un punto di vista metodologico, si è
rinnovata notevolmente postulando, da un lato, una distinzione formale
(ma non sostanziale) fra didassi e didattica e, dall’altro, sottolineando la
sua piena autonomia disciplinare ed epistemologica; ciò ha portato alla
definizione di due macro-aree di interesse: la didattica come disciplina
e la didattica come attività pratica. Distinzione presente in nuce anche
in Agazzi che, alla fine degli anni Sessanta, scriveva: «sono questi i significati che attribuiamo a pedagogia: teoria e scienza dell’educazione;
a didattica: metodologia, teoria del metodo pedagogico; a didassi: atto
dell’educazione in concreto secondo metodi e tecniche adeguate», come
riporta Guasti nel suo Didattica e significato del metodo.3
Come tutte le scienze umane, anche la didattica, avendo come oggetto di studio l’essere umano, ha sofferto sotto la spinta di diverse istanze
metodologiche: da una parte ha assecondato la tendenza a praticare una
ricerca sul modello delle scienze naturali costituito da una razionalità
forte e alla ricerca di prove di natura sperimentale; dall’altra, e più di
recente, ha utilizzato metodologie di natura più contestuale ed interpretativa, sull’esempio del paradigma costruttivista precedentemente analizzato. Questo percorso, che la didattica ha condiviso – per esempio
– con la psicologia, è stato ulteriormente acuito da una condizione tutta
interna alla disciplina stessa: la ricerca dell’emancipazione dalla pedagogia, pur in un rapporto dialettico e fecondo. Il compimento di questo
sforzo di affrancamento le ha consentito di dialogare pariteticamente
con le altre scienze e di puntualizzare sul duplice significato del metodo
al suo interno. Da un lato, infatti, il metodo di ricerca della didattica è
quello disciplinare che unisce la prassi e la teoria,4 dall’altro il metodo
è quello della “didattica che si fa”, dell’attività di insegnamento, della
3
L. Guasti, Didattica e significato del metodo, in L. Guasti (a c. di) Apprendimento
e insegnamento. Saggi sul metodo, op. cit., p. 7. Il volume di Aldo Agazzi a cui Guasti fa
riferimento è: Il discorso pedagogico. Prospettive attuali del personalismo educativo (pro
manuscripto, Milano 1969, p. 9) pubblicato nel 1965 e nel 1975 dalla Vita&Pensiero di
Milano. Successivamente, Gennari riprende la distinzione, aggiungendo: «la didattica si occupa della didassi, ossia dell’insegnare, ma assumendolo nelle sue proprie interconnessioni
con l’apprendere. La didassi è un’espressione dell’educazione, tanto quanto la didattica è
un contenuto della pedagogia.», M. Gennari, Istituzioni di didattica, in M. Gennari (a c.
di), Didattica generale, op. cit, p. 32.
4
Il riferimento è al “triangolo epistemologico” elaborato da Frabboni il quale propone una didattica che non è solo prassi e i cui principi teorici risiedono altrove (pedagogia), ma che rivendica per sé il modello epistemologico seguente: prassi, teoria, prassi
che armonizza metodo induttivo e deduttivo grazie alla dialettica fra il fare e il pensare
l’insegnamento. Questa prospettiva aiuta a ricomporre la frattura fra teoria e azione, fra
scienza pura e tecnica: la didattica è oggi in grado di rivendicare per sé tanto un abito
Il costruttivismo pedagogico 73
didassi. In questo secondo significato risiede la portata reale dell’innovazione didattica, praticabile solo attraverso la riforma metodologica.
La questione del metodo, però, è presente in ambedue i significati e
allora c’è da chiedersi se stiamo parlando della stessa cosa: il metodo
della didattica è il medesimo metodo della didassi?5 Probabilmente sì,
se si sposta il focus del ragionamento dall’attività di imparare a quella
dell’apprendere. Da molti anni, ormai, si concorda sull’importanza di
centrare l’attenzione sullo studente, di attivare pratiche didattiche “studentocentriche” che corrispondano alle necessità, ai bisogni, ai tempi
dell’allievo, fino ad arrivare a soluzione personalizzate e individualizzate. Specularmente, il ruolo del docente si rinnova nei termini in cui è un
professionista capace di lavorare sul metodo con atteggiamento teorico
perché «la teorizzazione sul metodo ha lo stesso valore della teorizzazione su qualsiasi altro contenuto».6 L’insegnare esce, pertanto, dalla
routine per farsi atto che, mentre fa, riflette sul proprio fare. La ricerca
didattica include la disciplina e la pratica rispondendo contemporaneamente a due compiti: «studiare ciò che l’educazione o l’insegnamento
sono nella realtà delle loro realizzazioni, cioè conoscere i fatti come essi
si realizzano nel concreto delle situazioni di un rapporto educativo o del
rapporto di insegnamento-apprendimento, e quello di orientare come
l’educazione o l’insegnamento dovrebbero svolgersi».7
Il primo esempio di ciò rintracciabile nella storia della didattica è
Comenio, per il quale il metodo naturale è proprio tanto della didattica
quanto della didassi e, anzi, il primo giustifica il secondo, mentre il
secondo vivifica il primo. Comenio propone un metodo apriori,8 che
muove dalle cause per giungere agli effetti così da poter contare sulepistemologico quanto un abito metodologico/tecnico. Cfr F. Frabboni, Manuale di didattica generale, op. cit. pp. VII/IX e 42/45.
5
Un tentativo di unificare il metodo della didattica e quello della didassi così da
non separare più i ruoli di “esperto” e di “docente” è la metodologia della ricerca azione
all’interno della quale si accetta che osservatore e dato osservato compartecipino di una
medesima realtà e che dunque l’osservazione del ricercatore è necessariamente partecipante. Questo metodo, la cui formulazione si deve allo psicologo K. Lewin, cerca di integrare
in un ciclo ricorsivo l’azione, la formazione e la ricerca.
6
L. Guasti, Didattica e significato del metodo, in L. Guasti (a c. di) Apprendimento
e insegnamento. Saggi sul metodo, op. cit., p. 11.
7
B. Grassilli, La ricerca in campo didattico, in E. Nigris, Didattica generale, op. cit.,
p. 103.
8
«E tutte queste cose le dimostriamo infine “a priori”: le abbiamo tratte dalla natura
stessa, immutabile, delle cose, come facendo sgorgare da una viva fonte perenni ruscelli;
raccogliendo questi poi di nuovo in un sol fiume, abbiamo istituito principi di un metodo
universale per fondare scuole universali.», Comenio, Grande didattica, op. cit., p. 5.
74
Un’officina di uomini
l’esempio della natura per elaborare il metodo didattico e sulla base di
questa analogia fondare la garanzia della correttezza del ragionamento: se la didattica sarà in grado di ricalcare la natura creata da Dio, la
sua fondazione sarà certa perché garantita dalla perfezione dell’opera
divina. Già dagli albori, in didattica, si nota bene come il livello teorico
e quello pratico siano questioni interne al metodo e “l’arte di insegnare” sia contraddistinta da una consistente attività speculativa, oltre che
dall’azione.
Guasti individua proprio nel metodo il mediatore tra le dinamiche
di apprendimento e il contenuto culturale da trasmettere, indicandolo
come il vero (potenziale) rinnovatore della scuola.9 I contenuti, da soli,
non possono produrre innovazione didattica perché non sollecitano l’apprendere, ma rimangono circoscritti nella sfera dell’imparare.
«La difficoltà che oggi il sistema tradizionale dell’insegnamento avverte non dipende tanto dall’incapacità di insegnare da parte dell’istituzione rappresentata dai suoi docenti, quanto dalla complessità del transitare verso le forme proprie dell’apprendimento che richiedono percorsi
diversi rispetto a quelli della stretta comunicazione del contenuto».10
Il costruttivismo, proprio perché non ha contenuti forti da veicolare,
può rivelarsi un buono strumento metodologico che punta lo sguardo
sullo studente, sui suoi processi cognitivi e metacognitivi e, pertanto,
sull’apprendimento spronando nell’allievo capacità di autoeducazione,
come nell’ispirazione del Lambruschini dell’educando capace di educare
se stesso a fronte di un’opera di insegnamento ben condotta.
Le caratteristiche della società della conoscenza, delineate precedentemente, investono le persone e tra queste i fanciulli: se il tratto
distintivo della precarizzazione del sapere, del lavoro, dell’identità personale e sociale può avere un risvolto positivo questo è individuabile
solo nella flessibilità del pensiero, in quel “apprendere ad apprendere”
da cui eravamo partiti, in quel ruminare che trasforma l’informazione
in sapere e in saper fare.11
Il costruttivismo può rispondere a queste esigenze perché è caratterizzato da un superamento dei dualismi classici (pensiero-azione, mentecervello, teoria-pratica, individuo-società, interno-esterno) che gli consentono di guardare al “vero” non da un punto di vista ontologico, ma
9
L. Guasti, Didattica e significato del metodo, in L. Guasti (a c. di) Apprendimento
e insegnamento. Saggi sul metodo, op. cit., p. 12.
10
Ivi, p. 13.
11
Cfr. A. Pavan, Nella società della conoscenza. Il progetto politico dell’apprendimento
continuo, op. cit.
Il costruttivismo pedagogico 75
da uno pragmatico all’interno di una forte presa di posizione etica. In
didattica ciò comporta un rinnovamento dei ruoli propri degli insegnanti
e dei discenti praticabili attraverso i metodi collaborativi e cooperativi,
tanto in presenza quanto a distanza.
In particolare, il “docente costruttivista”, che condivide gli assunti
teorici e pratica le istanze metodologiche, tenderà a:
• pianificare spazi e tempi adatti al progetto educativo che si intende
perseguire e al clima didattico che si vuole instaurare;
• perseguire e realizzare un clima di dialogo, ascolto, accettazione
reciproca, sperimentazione di sé [cfr. conoscenza come risultato di
pratiche socio-culturali];
• costruire e praticare relazioni interpersonali positive e costruttive
tanto nel gruppo degli studenti quanto tra loro e gli insegnanti [cfr.
sopra];
• accettare e, dove possibile, valorizzare i vissuti individuali come preconoscenze sulle quali costruirne di nuove e attraverso cui trovare
soluzioni inedite [cfr. schemi cognitivi; accomodamento e assimilazione; intelligenze multiple; pensiero divergente];
• attivare conoscenze e competenze preesistenti e sfruttarle per l’acquisizione di nuove [cfr. sopra];
• promuovere tutte le modalità di pensiero e le diverse intelligenze
[cfr. sopra];
• sollecitare la riflessione [cfr. apprendere ad apprendere; pensiero
riflessivo; metacognizione];
• praticare i punti precedenti come processi della quotidiana attività
didattica e non come episodi sporadici.12
12
Cfr. O. Albanese, P. A. Doudin, D. Martin, Metacognizione ed educazione, Franco
Angeli, Milano 2003; E. Nigris, Quali metodologie per quale apprendimento? in E. Nigris,
Didattica generale, op. cit.
Gli ambienti di apprendimento:
il triangolo metodologico
L’apprendimento è possibile solo ed esclusivamente situato in un
ambiente, sia esso informale o formale, naturale o artificiale. Gli ambienti di apprendimento, cioè quegli ambienti pensati specificatamente a fini
didattici, sono artificiali per definizioni e, come tali, sottostanno ad un
comportamento tecnologico, nel senso che sono governati come processi
attraverso un “triangolo metodologico” costituito da: programmazione,
gestione, valutazione. Questi tre momenti sono fondamentali in ogni
attività didattica ma variano al variare della prospettiva teorico-epistemologica che il docente, implicitamente o esplicitamente, condivide e
pratica. Esiste, infatti, un legame profondo tra la visione che il docente
ha del sapere e dell’educazione e il tipo di attività didattica che svolge;
le posizioni teoriche che ha elaborato nel corso della sua formazione e
dell’esercizio professionale influenzano l’agire quotidiano e lo stile di
insegnamento, «a seconda della prospettiva teorico-epistemologica in
cui ci collochiamo, diversi saranno gli obiettivi che perseguiamo, diverso
il tipo di didattica che mettiamo in atto e il tipo di apprendimento che
pensiamo di poter e dover promuovere, diverso l’approccio valutativo
che ne scaturisce».1
Estremamente significativa in tal senso è la schematizzazione tratta
da Willson,2 in cui l’autore istituisce una relazione tra la visione della
conoscenza e la considerazione dell’insegnamento:
1
E. Nigris, Dalla valutazione dell’allievo all’autovalutazione, in E. Nigris, Didattica
generale, op. cit., pp. 10 sezione seconda.
2
Cfr. B. G. Wilson, What Is a Constructivist Learning Environment?, in B. G. Wilson (a c. di), Constructivist Learning Environments. Case Studies in Instructional Design,
Educational Technology Publications, Englewood Cliff, 1996.
78
Un’officina di uomini
Tabella 1
Se pensi alla conoscenza come a…
Allora consideri l’insegnamento come …
una quantità di contenuti da trasmet- un prodotto che deve essere trasmesso
tere
da un canale
uno stato cognitivo come riflesso di un set di strategie d’istruzione rivolte a
schemi e comportamenti procedurali cambiare gli schemi cognitivi
soggettivi
significati costruiti attraverso intera- un incoraggiare le individualità offrenzioni con l’ambiente
do strumenti e risorse in un ambiente
ricco di stimoli
condivisone e adozione di modi di ve- una partecipazione alle attività della
dere ed agire di un gruppo di riferi- comunità
mento
Le posizioni costruttiviste intorno al sapere, alla conoscenza, alle
possibilità di ricerca del vero influiscono profondamente anche sulla
programmazione, sulla gestione e sulla valutazione, modificandone le
pratiche e le metodologie.
Le comunità di pratica, l’apprendistato cognitivo, le comunità di
studenti che apprendono3 sono alcuni degli ambienti costruttivisti in
cui si aspira a rendere significativo e contestualizzato l’apprendimento,
considerando l’allievo potenzialmente alla pari con il soggetto esper3
Le comunità di pratica fanno riferimento alla Teoria sociale dell’apprendimento
di: E. Wenger, Communities of Practice. Learning, Meaning, and Identity, Cambridge
University Press, Cambridge 1998. L’apprendistato cognitivo rielabora il classico modello
di apprendistato aggiungendo gli aspetti riflessivi del pensiero in azione e assumendo lo
studente come un praticante competente: H. Gardner, Educare al comprendere. Stereotipi
infantili e apprendimento scolastico, Feltrinelli, Milano 2001 e Sapere per comprendere.
Discipline di studio e discipline della mente, Feltrinelli, Milano 2001. Le comunità che
apprendono, armonizzando approccio simbolico e approccio pratico, si configurano come
comunità caratterizzate da molteplici zone di sviluppo prossimale e da un forte accento
sull’apprendimento fra pari: A. L. Brown, J. C. Campione, Guided Discovery in a Community of Learners, in K. McGilly (a c. di), Classroom Lesson: Integrating Cognitive Theory
and Classroom Practice, MIT Press, Cambridge 1994. Per una rassegna dei modelli più
diffusi a livello internazionale cfr. B. M. Varisco, Costruttivismo socio-culturale. Genesi
filosofiche, sviluppi pscio-pedagogici, applicazioni didattiche, op. cit. (molto attento alle
relazioni epistemologiche tra il costruttivismo e la didattica collaborativa); L. Mason,
Psicologia dell’apprendimento e dell’istruzione, il Mulino, Bologna 2006 (riporta alcune
esperienze emblematiche svolte in Italia sulla base dei modelli internazionali); A. Carletti,
A. Varani (a c. di) Didattica costruttivista. Dalle teorie alla pratica in classe, op. cit. (ricco
di Esperienze e di proposte di Esercizi e materiali).
Il costruttivismo pedagogico 79
to. Anche in Italia la questione è stata affrontata, ma da un punto di
vista leggermente diverso; infatti, le ricerche intorno al rinnovamento
metodologico hanno ipotizzato un apparentamento procedurale tra il
metodo della scienza e il metodo dell’apprendimento: gli studenti, debitamente istruiti ed educati, possono utilizzare i metodi di ricerca e di
scoperta delle comunità scientifiche esperte. Ciò che più palesemente
manca a questo orientamento è la socializzazione e negoziazione del
sapere e dei significati che, invece, caratterizzano l’approccio costruttivista: la condivisione del sapere è presente nella comunità scientifica
ma non nella comunità studentesca che ne ricalca le procedure perché,
di fatto, è un modello che rientra comunque in una visione trasmissiva
del sapere: ciò che si comunica è un metodo, invece che un contenuto.
Inoltre, va sottolineata una visione della scienza assunta nel senso più
classico del termine come insieme disciplinare in cui la validità delle
procedure è garanzia della sua progressiva autocorrezione. Oltre ciò,
c’è da chiedersi se il metodo della scienza e quello dell’apprendimento
siano (o possano essere) la stessa cosa e, con Guasti, rispondiamo che
probabilmente no, probabilmente la didattica ha una sua specificità metodologica e che «esiste una differenza fra metodi propri della ricerca
e metodi per l’apprendimento».4 Ciò è tanto più vero se si accolgono
le tesi del situazionismo e dell’antropologia cognitiva che sottolineano
come una medesima circostanza conduca soggetti diversi a prestazioni
eterogenee al variare della cultura di appartenenza e degli schemi cognitivi individuali che sono il frutto delle interazioni del soggetto con
l’ambiente naturale e sociale.
Le caratteristiche della didattica costruttivista, pertanto, sono più
ampie rispetto alla classica metodologia della ricerca o all’apprendistato
e, schematicamente, prestano attenzione:
• all’allestimento dell’ambiente formativo come luogo deputato a
scambi comunicativi e alla costruzione di identità individuali e relazioni sociali;
• all’attività di apprendimento come unione indissolubile di pensare
(apprendimento simbolico-ricostruttivo) e fare (apprendimento senso-motorio);
• alla comunicazione e alla gestione della stessa da un punto di vista
procedurale e non solo contenutistico;
4
L. Guasti, Didattica e significato del metodo, in L. Guasti (a c. di) Apprendimento
e insegnamento. Saggi sul metodo, op. cit., p. 22.
80
Un’officina di uomini
• al ruolo giocato dalle identità (possedute e via via costruite) dei singoli;
• ai processi metacognitivi e auto-riflessivi;
• alla condivisione delle regole per la gestione delle dinamiche di gruppo;
• al senso di appartenenza degli individui alla comunità;
• alla costruzione di significati condivisi.
Assumendo come emblematica la distinzione fra tecnologie di processo e di prodotto in cui le prime sono costituite da:
•
•
•
•
•
•
analisi;
programmazione;
produzione;
gestione;
valutazione;
sviluppo,5
e ragionando sul rinnovamento del metodo sulla falsariga della proposta costruttivista, è possibile valutarne la portata esaminando specificatamente la programmazione, la gestione e la valutazione, ossia gli
elementi che costituiscono ciò che, in questa sede, è stato definito il
“triangolo metodologico” dell’azione didattica.
Il termine programmazione ha storia antichissima: rintracciabile già
in Comenio è presente in gran parte delle teorie pedagogiche e dei
modelli didattici.6
Che cosa significa, dunque, “programmare” in una didattica costruttivista? Essenzialmente ragionare sull’ambiente di apprendimento e sulle possibili dinamiche comunicazionali da svolgere al suo interno; infatti
il costruttivismo non ha fornito dei modelli didattici “forti”, agendo
più sulla strutturazione dell’ambiente di apprendimento che non sulla
definizione del ruolo dello studente, lasciato il più autonomo possibile
sia a livello cognitivo (e metacognitivo) che comunicazionale.
L’ambiente di apprendimento è caratterizzato da:
• uno spazio (e il tempo);
• un insieme di attori che agiscono al suo interno;
5
Cfr. L. Galliani, R. Costa, C. Amplatz, B. M. Varisco, Le tecnologie didattiche,
Pensa Multimedia, Lecce 1999.
6
Nel volume di riferimento, con “programmazione” si intende la programmazione
educativa che indirizza la progettazione didattica e definisce gli obiettivi formativi dei curriculum di studio, nonché la pianificazione delle risorse umane e materiali. Cfr. Ibidem.
Il costruttivismo pedagogico 81
• il codice e la struttura della comunicazione, in cui rientrano anche
le specificità disciplinari;
• un insieme di comportamenti concordati e condivisi;
• una serie di norme per la regolamentazione dei comportamenti;
• dei compiti e delle attività;
• dei tempi di operatività;
• un set di strumenti o artefatti tecnici.7
Un ambiente di apprendimento costruttivista considera anche:
•
•
•
•
•
le relazioni che legano tra loro i diversi attori;
il clima che si crea durante lo svolgimento del compito;
le aspettative e le motivazioni individuali;
l’autorappresentazione dell’identità e il senso di autoefficacia;
lo sforzo mentale.8
La programmazione, indispensabile a qualsivoglia attività didattica,
include gli aspetti elencati, di cui deve tener conto ragionando più con
procedure fuzzy che non secondo il classico modello booleano e cioè
considerando la relazione insegnamento-apprendimento in termini non
esclusivamente deterministici e causali. Così facendo cambia il ruolo
degli obiettivi didattici che non vengono posti una volta per tutte e
predeterminati in modo decontestualizzato. Ovviamente, le condizioni
spazio-temporali sono sempre condizioni essenziali ai fini della programmazione, ma ciò che più evidentemente viene a mancare in questa attività da un punto di vista costruttivista è la centralità dell’obiettivo e, di
conseguenza, dell’uso tassonomico di scale di valutazione. Gli obiettivi,
infatti, sono flessibili al punto da poter essere concordati con gli studenti
e, in ogni caso, possono non essere esplicitati perché ciò che conta non
è tanto il loro conseguimento quanto il percorso che ciascun individuo
costruisce e segue per raggiungerli.
La riflessione sugli obiettivi e il loro rinnovato ruolo include anche l’analisi dell’attività metacognitiva che è estremamente importante
perché rende lo studente protagonista consapevole del suo apprendimento.
7
Cfr. G. Salomon, Studying Novel Learning Environments as Patterns of Change, in
S. Vosniadou (a c. di), International Perspectives on the Design of Technology-Supported
Learning Environments, Erlbaum, Mahwah 1996, da cui l’elenco è stato liberamente tratto,
i corsivi indicano gli items presenti nel testo di riferimento.
8
Cfr. B. M., Varisco Costruttivismo socio-culturale. Genesi filosofiche, sviluppi psicopedagogici, applicazioni didattiche, op. cit.
82
Un’officina di uomini
Con Moore è possibile ragionare sulla programmazione focalizzando
l’attenzione su due coordinate in particolare, il dialogo e la struttura, 9
nelle quali possono rientrare i punti elencati precedentemente e che
possono funzionare da macroaree come segue:
Tabella 2
Dialogo (aspetti relazionali)
Struttura
Codice e struttura della comunicazione Spazio e tempo
Relazioni
Attori (insegnanti/studenti)
Clima
Compiti
Aspettative e motivazioni
Artefatti tecnici
Autorappresentazione
Comportamenti e norme
Autoefficacia
Sulla base di queste coordinate Moore propone il costrutto di distanza transazionale per descrivere lo scarto percettivo, comunicativo
e relazionale tra il docente e lo studente. L’espressione, nel significato
originario attribuitogli dall’Autore, è indicativa dei contesti didattici a
distanza, ma appare applicabile anche in quelli in presenza poiché la lontananza spazio temporale che caratterizza, per esempio, l’e-learning non
è l’unica distanza che può separare docenti e studenti e studenti fra loro.
La distanza transazionale è, infatti, un concetto pedagogico che aiuta a
“misurare” il modello di relazione entro cui i soggetti si determinano
reciprocamente e non solo la distanza spazio/temporale oggettiva che
separa gli studenti e i docenti “a distanza”; è un concetto pedagogico
ampio che per stessa ammissione di Moore richiama diffusamente l’idea
deweyana di transazione come reciproca, indispensabile ed inevitabile
influenza tra due o più elementi di una relazione.
Nella programmazione didattica di ambienti costruttivisti vanno inclusi anche questi aspetti di natura relazionale che non sottostanno a
previsioni deterministiche e che comportano una considerazione della
programmazione come un processo ricorsivo, contestuale e potenzialmente incerto. Con ciò non si vuol cedere ad un’idea estemporanea del
metodo didattico o tornare su posizioni naturalistiche, ma si vuole includere nei processi di apprendimento scolastici tutti quei fattori presenti
9
Cfr. M. G. Moore, Theory of transactional distance, in D. Keegan, Theoretical Principles of Distance Education, Routledge, Londra 1997.
Il costruttivismo pedagogico 83
nell’apprendimento extrascolastico che si possono rivelare punti di forza
ai fini della motivazione degli studenti, e perché no, dei docenti.
L’idea originaria, secondo cui la didattica è un artificium,10 è ancora
estremamente condivisibile ma va integrata con una nuova visione della
conoscenza che è quella costruttivista, con nuovi modelli di apprendimento, con la realtà propria della knowledge society di cui viviamo tanto
gli aspetti positivi quanto quelli negativi.
Escludere sollecitazioni così significative comporta il rischio di rinchiudersi in una programmazione didattica rigida e monolitica che non
riesce a confrontarsi con il mondo esterno alla scuola. Di contro, è bene
notare che aprire la programmazione a campi che hanno anche caratteristiche di imprevedibilità richiede uno sforzo costante di attenzione, monitoraggio e revisione della programmazione stessa, nonché un rischio
più elevato di insuccesso, avendo un numero di variabili decisamente
più alto. E nonostante ciò, poiché è ancora radicato il ruolo che la programmazione in quanto strumento del metodo didattico ha nella prassi
educativa, i rischi vanno tutti affrontati se si vuole una scuola in grado
di far fronte alle istanze individuali e sociali, una scuola che risponda
pienamente al ruolo che storicamente ha ricoperto: la costruzione del
futuro attraverso la formazione delle generazioni che lo governeranno.
Al fianco della programmazione si situa la gestione11 del processo,
la sua governance. A questo punto è perciò indispensabile, prima di
procedere oltre, comprendere la portata del termine “processo”.
Nel processo didattico rientrano tutti gli items elencati precedentemente ma non nella struttura sequenziale che la descrizione impone,
quanto piuttosto in interazione fra loro, all’interno di un’ottica ciberne10
La definizione risale a Comenio, con la celebre affermazione: «didactica docendi
artificium sonat» (Comenio, Grande didattica, op. cit., p. 4) ma ha avuto rinnovato vigore
dopo l’interpretazione di B. Vertecchi che nella nota introduttiva all’opera comeniana
esplicita il senso dell’affermazione in tutta la sua forza ancora “rivoluzionaria”: «rifarsi
all’interpretazione di Comenio assume un preciso significato nella complessa fase che
stiamo attraversando. Innanzi tutto ci consente di sgomberare il campo dalla moltitudine
di interpretazioni, per così dire, spontanee che si collegano alle ideologie naturalistiche
[…]. Definire la didattica come artificium esclude infatti che la didattica possa essere
considerata espressione di una disposizione naturale, o di un accomodamento implicito
che si realizza nelle situazioni in cui sia necessario assumere un ruolo docente. […] La
didattica viene perciò a configurarsi come una costruzione culturale.», B. Vertecchi, Rileggere Comenio, in Comenio, Grande Didattica, op. cit., pp. XIII-XIV.
11
La gestione cura la conduzione delle dinamiche comunicative con particolare attenzione agli stili dei linguaggi utilizzati e alle loro conseguenze cognitive e metacognitive
e agli stili formativi individuali. Cfr. L. Galliani, R. Costa, C. Amplatz, B. M. Varisco, Le
tecnologie didattiche, op. cit.
84
Un’officina di uomini
tica e di sistema estremamente complessa. Dal primo punto di osservazione, quello cibernetico, gli elementi sono relazionati fra loro in termini
di feedback, cioè di componenti che si autodeterminano reciprocamente
attraverso un principio di causalità circolare. La cibernetica, poi, valorizza ulteriormente questa lettura della complessità. Il termine, di origine greca, significa “arte di pilotare” ed è quasi ridondante sottolineare
come la gestione del processo didattico, per assonanza, richieda una
simile competenza. La cibernetica prima di tutto è un modello logico,
un modo di pensare e come tale ha un valore meta-disciplinare; nel
corso del tempo si sono susseguiti diversi orientamenti12 ma ciò che li
accomuna e che va considerato nella gestione del processo didattico in
un’ottica di programmazione e costante monitoraggio è, in particolare:
1. l’aspetto del controllo degli elementi in interazione reciproca;
2. la valutazione che, a fronte di medesimi input, i sistemi possono generare diversi output in conseguenza allo stato interno del sistema;
3. la relatività dei sistemi, secondo cui ciascun sistema è parte di una
relazione di sistemi più ampi (è un sottosistema) o più ristretti (è un
sovrasistema);
4. la consapevolezza che sistema osservante e sistema osservato compartecipano di una medesima realtà, influenzandosi reciprocamente.
Cibernetica e teoria dei sistemi, seppur nate in campo scientifico, per
la loro portata epistemologica sono state recepite anche dalle scienze
umane e, particolarmente, dall’antropologia culturale e dalla sociologia
e, in sede pedagogica, sono utili strumenti di lettura della complessità,
capaci di offrire un modello interpretativo che si può concretizzare come
di seguito:13
12
In particolare due: la cibernetica di primo e secondo ordine. La prima (campo tecnologico-applicativo) fu fondata da Norbert Wiener che, insieme a molti altri studiosi, ha
focalizzato le ricerche sui sistemi di feedback e sui meccanismi di regolazione dei sistemi
naturali e artificiali. La seconda (campo antropologico-epistemologico), più vicina ad un
approccio biologico, trova i massimi rappresentanti in Humberto Maturana e Francisco
Varela che si sono impegnati nella ricerca del significato di autopoiesi dei sistemi e Heinz
Von Foerster al quale si deve l’intuizione fondamentale dell’osservatore del sistema come
elemento che modifica il sistema stesso. Per approfondire alcuni degli elementi citati
cfr. A. Cosentino, Costruttivismo e formazione. Proposte per lo sviluppo della personalità
docente, op. cit., p. 80.
13
Questa visione non manca di aspetti paradossali riferibili in particolare alla chiusura
operazionale che i sistemi esercitano per distinguersi dall’ambiente e alla loro reciproca
impossibilità osservativa. Specificatamente è in sociologia che, con la teoria dei sistemi
sociali, questa contraddizione si dispiega per intero, come ben esemplificato da Cosen-
Il costruttivismo pedagogico 85
1. il comportamento di ciascuno studente e di ciascun docente influenza
il comportamento di tutti gli altri; a ciò si aggiungano le influenze
degli elementi non umani che compongono l’ambiente formativo
(cfr. Tabella n. 2). Non è possibile valutare questa inesauribile serie
di eventuali combinazioni ma, certamente, la gestione implica una
ragionevole previsione di “mondi possibili” in conseguenza all’introduzione anche di una sola variabile (causale o accidentale);
2. ad un medesimo stimolo ciascuno studente risponde differentemente,
pur vivendo con gli altri studenti un processo comune; ampliando la
prospettiva, ciascuna classe reagisce in modo diverso al medesimo
ambiente scolastico; e così via… Ciò significa che ad uno sforzo di
programmazione deve corrispondere un’attenzione all’effetto reale,
una capacità di osservazione e di analisi che è l’unico strumento
possibile per valutare e decidere;14
3. lo studente, il docente, la classe sono tutti – contemporaneamente
– sistemi che interagiscono fra di loro a livello micro e macro. È
pertanto da considerare che un intervento sullo studente comporta
un riasetto della classe e viceversa e che ciascun elemento, inteso
come sistema, si comporta diversamente in dipendenza al sistema
con il quale interagisce;
4. il docente, come capitano della “nave didattica”, è un osservatore del
tino che rilegge Luhmann in Il sistema educativo: problemi di riflessività: «ogni sistema
percepisce e descrive la relazione con gli altri sistemi e con la totalità a cui appartiene
secernendo una attività riflessiva che non consente, tuttavia, al sistema di uscire fuori di
sé. Questo vuol dire, per esempio, che quando i pedagogisti descrivono l’ambiente sociale
in cui è collocato il sistema educativo, finiscono inevitabilmente per descrivere una società
già pedagogizzata. Un sistema, infatti, non può osservare come unità il proprio rapporto
con l’ambiente, altrimenti si dissolverebbe in quest’ultimo.», A. Cosentino, Costruttivismo
e formazione. Proposte per lo sviluppo della personalità docente, op. cit., p. 87.
14
Valutazione e decisione hanno uno strettissimo rapporto, come sottolinea Vertecchi
che affronta il tema da un punto di vista squisitamente sperimentale, ma estremamente interessante e rappresentativo in Decisione didattica e valutazione (La Nuova Italia,
Scandicci 1993) sostenendo che: «una pratica razionale della valutazione deve essere in
grado di fornire alle scuole le informazioni delle quali esse hanno bisogno per precisare gli
intenti della loro attività, per programmare gli interventi, per dare attuazione ad essi, per
verificarne l’adeguatezza rispetto agli intenti. In altre parole, i dati valutativi presentano
implicazioni sui modi in cui le scuole fanno fronte al loro compito di formazione: è proprio
la quantità e la qualità dei dati di cui si dispone che consente di individuare i problemi
che si pongono in un certo contesto, di avanzare ipotesi circa il modo di affrontarli, di
stabilire in relazione alle ipotesi l’adeguatezza delle risorse, di prefigurare quale corso
di eventi potrà far seguito alla linea di intervento che sia stata adottata: in altre parole,
la valutazione consente alle scuole di decidere in che modo far procedere l’intervento
formativo.», ivi, p. 67.
86
Un’officina di uomini
“viaggio”, ma un osservatore partecipe di tutti gli aspetti che la compongono e che sono ben sintetizzati nella tripartizione proposta da
Vertecchi, fatta di: interazioni cognitive, emotive relazionali.15 Non è,
pertanto, un osservatore neutrale, sotto nessun punto di vista, perché
compartecipe di tutte e tre le dimensioni.16
L’elenco proposto contestualizza all’interno della didattica i punti
presi in prestito dalla teoria dei sistemi e dalla cibernetica ed evidenzia
come con la progettazione l’insegnante lavori sul setting didattico da un
punto di vista comportamentale, relazionale e cognitivo, e come con la
gestione e la valutazione (trattate separatamente solo per ovvi motivi
di chiarezza ma che di fatto sono due processi contemporanei) concretizzi l’ambientazione virtuale e la sottoponga costantemente a verifica
e riassetto.
L’ambiente formativo è perciò un sistema che richiede processi
complessi ed interconnessi fra loro: la programmazione non ha ragion
d’essere senza la gestione ed entrambe trovano riscontro nei risultati
della valutazione. Oltre a ciò si aggiunga che in un ambiente didattico
costruttivista la valutazione comporta due macro-prospettive che si integrano vicendevolmente per corrispondere alla funzione dell’individuo
e del gruppo: è perciò praticata una valutazione individuale per ciascun
membro in base ai risultati didattici raggiunti, ma anche con riguardo
alle abilità sociali apprese, alla responsabilità assunta, al ruolo svolto
ecc., e una valutazione collettiva in base al compito assegnato, al suo
svolgimento e al risultato raggiunto. Le due forme di valutazione vanno
calibrate perché il gruppo è, contemporaneamente, una risorsa ed un
vincolo per l’individuo e prendere in considerazione a fini valutativi solo
il lavoro collettivo può stimolare la deresponsabilizzazione personale,
sollecitando una tendenze alla delega o alla passività; viceversa, valutare
solo il risultato individuale fa perdere il significato stesso del lavoro di
15
B. Vertecchi, La valutazione consente l’incremento delle interazioni nell’istruzione
a distanza, in B. Vertecchi, Elementi di una teoria dell’istruzione a distanza, in Istruzione
a distanza, Numero monografico 8-9, 1997, p. 48.
16
Scriveva in proposito Bion: «il problema fondamentale dell’osservazione è l’oggettività. A questa oggettività ci si accosta attraverso il mondo interno dell’osservatore, che
non va inteso come un registratore indifferente di eventi, ma un insieme di pensieri e di
sentimenti che entrano nel processo cognitivo e il cui codice di lettura può essere ampio,
aperto alle possibilità e al diverso o viceversa, chiuso e pregiudicante. L’osservatore deve
diventare consapevole che la sua soggettività costituisce il sottofondo della percezione dell’oggetto, ma proprio se vuole conoscerlo non deve/può ridurlo a sé. Il silenzio e l’ascolto
sono lo spazio per accogliere e contenere nella mente l’oggetto osservato», W. R. Bion,
Apprendere dall’esperienza, Armando, Roma 1972, pp. 45-46.
Il costruttivismo pedagogico 87
gruppo, inteso come una comunità con un obiettivo socialmente condiviso al quale tutti concorrono.
Il triangolo metodologico programmazione-gestione-valutazione è
un “classico” della didattica: i tre momenti della valutazione (ex ante – in
itinere – ex post) sono tutti funzionali al mantenimento del controllo e,
dunque, alla gestione del processo, ma in un ambiente di apprendimento
costruttivista anche il momento valutativo da una parte si arricchisce
di punti di vista, di scambi dialogici, di prove “non convenzionali” e
dall’altra soffre del progressivo allontanamento da un metro di giudizio
assunto come oggettivo.
Da una parte, infatti, c’è un rinnovamento docimologico che, in
armonia con il susseguirsi dei modelli psicopedagogici, propone una
disciplina che cambia e che lentamente passa dal “valutare” al “comprendere”17 assecondando un movimento culturale proprio, anche, del
costruttivismo.
Dall’altra parte c’è una situazione concreta, per esempio una classe,
in cui con il metodo costruttivista si sono rinnovate prassi d’insegnamento e posti nuovi obiettivi d’apprendimento, e dunque come valutare le
capacità metacognitive? le competenze relazionali? il saper fare? il saper
essere? l’apprendere ad apprendere?
Sebbene alcuni strumenti esistano e siano in uso (dalla mappa concettuale al protocollo osservativo, dal diario di bordo al portfolio18), la
questione della valutazione problematicizza la natura stessa degli obiettivi. Il costruttivismo, per sua natura, dà vita ad un metodo che si pratica
in un gruppo, che cresce solo se nutrito da una comunità e comporta
perciò una visione del soggetto capace di affrontare situazioni a forte
richiesta relazionale. La domanda che ci si pone, però, è la seguente:
l’esser capaci di lavorare in gruppo è un pre-requisito o un obiettivo?
E, ancora più in là, una tale “qualità” può essere oggetto di valutazione
scolastica senza creare il pericoloso precedente di farvi rientrare anche
atteggiamenti soggettivi, indoli, temperamenti, stati d’animo? Insomma,
se negli obiettivi, oltre al saper fare, rientra il saper essere, anche questo campo dovrà essere oggetto di indagine e valutazione. Ma, allora,
come valutare il saper essere? Come rispettare le individualità diverse
di cui si fa tanta menzione come fonte di ricchezza se poi, in un certo
17
Cfr. L. Santelli Beccegato e B. M. Varisco, Docimologia. Per una cultura della
valutazione, Guerini, Milano 2000.
18
Una esauriente panoramica dei metodi valutativi corredata da Esperienze ed Esercizi e materiali è proposta in A. Carletti, A. Varani (a c. di), Didattica costruttivista. Dalle
teorie alla pratica in classe, Erickson, Trento 2005.
88
Un’officina di uomini
senso, occorre che ciascun soggetto sia disposto a lavorare in gruppo,
a condividere e negoziare significati e visioni del mondo, ad esercitare
capacità di ascolto e di esposizione?
Se, come suggerisce Triani facendo ricorso alla letteratura classica
sui gruppi cooperativi, gli obiettivi didattici possono essere sintetizzati
in tre macroaree suddivise in:
1. imparare a vivere con gli altri;
2. imparare a sapere grazie anche agli altri;
3. imparare a costruire un sapere condiviso;19
quali possono essere gli strumenti di valutazione più adatti a misurare,
giudicare, comprendere queste aree così delicate del soggetto e, tanto
più, del soggetto in età evolutiva e in formazione senza rischiare del
facile “psicologismo”? senza rischiare di entrare con troppa disinvoltura
nella sfera più privata e personale del soggetto che apprende?
Riassumendo, i punti centrali della discussione sulle metodologie
didattiche del modello costruttivista hanno finora illuminato concetti
chiave come il ruolo della comunicazione molti-a-molti governata da
obiettivi didattici; il ruolo dell’identità del singolo che si confronta con
l’altro e che si va strutturando all’interno di tale confronto; la centratura sulle regole comunicazionali e sull’ambiente di apprendimento,
la progressiva costruzione di un sapere condiviso in sostituzione di un
blocco di conoscenze consolidate e trasmesse. Tutti punti che richiedono al docente rinnovate competenze: infatti se programmare, gestire e
valutare sono attività proprie dell’insegnare e non solo precipue della
didattica costruttivista è altrettanto vero che al suo interno assumono,
come si è visto, significati nuovi che vanno a sostituirsi o ad aggiungersi
ai precedenti.
La programmazione è più orientata sulla costruzione di un setting
spazio-temporale e cognitivo-relazionale adatto allo svolgimento di attività cooperative e meno orientata alla pianificazione per obiettivi.
La gestione include, oltre alla classica conduzione dell’aula, il controllo delle dinamiche di gruppo e una disponibilità affettiva a “scendere
dalla cattedra” per lasciare spazio all’attività dello studente.
La valutazione, infine e per ricominciare dalla programmazione
successiva, si rivela come sempre tema delicato e cruciale allo stesso
tempo, che si sofferma sul singolo e sul gruppo, sugli aspetti cognitivi e
metacognitivi, sul sapere e sul saper essere e fare.
19
P. Triani, Il metodo cooperativo, in L. Guasti (a c. di), Apprendimento e insegnamento. Saggi sul metodo, op. cit., p. 215.
Il costruttivismo pedagogico 89
Gli ambienti di apprendimento costruttivisti sono centrati sullo studente, sulla conoscenza, sulla valutazione e sulla comunità20 in costante
relazione e interazione fra loro; al docente spetta l’onere del governo di
tali relazioni e interazioni attraverso la triangolarità proposta come metafora del loro funzionamento (programmazione, gestione, valutazione).
L’immagine della triangolarità esemplifica precisamente il concetto
di feedback e ne lascia intravedere un altro, ancora più adatto a descrivere il processo didattico costruttivista, il feedforward, cioè quella
capacità specificatamente riflessiva di controllo durante l’azione e non
ad azione conclusa per intervenire tempestivamente e in previsione delle
possibili conseguenze.
Tecniche di intervento negli ambienti di apprendimento collaborativi: il
lavoro di gruppo
Ogni volta che, in didattica, si parla di metodo e di tecniche conviene
sgomberare il campo da un equivoco piuttosto diffuso: nell’attività di
insegnamento e apprendimento non esistono ricette. In cucina anche
un cuoco poco esperto può seguire un procedimento standard e ottenere risultati sufficienti, in didattica questo non sempre è vero. Cosa
cambia? La “natura” degli ingredienti: uova, farina, burro sono sempre
uova, farina, burro; cioè sono soggetti a possibili variazioni standard. In
didattica, invece, gli “ingredienti” sono esseri umani, sistemi complessi
e variabili, tendenzialmente imprevedibili, sfuggenti alle categorie di
classificazione, molteplici nella loro unicità, risultanti di elementi cognitivi, emotivi, relazionali che ne determinano identità, composti da
spinte razionali e pulsioni irrazionali, insomma ogni ingrediente umano
è unico ed irrepetibile, diverso dagli altri e anche da se medesimo al
variare delle contingenze.
L’intervento didattico, pur nella legittima aspirazione alla programmazione, si deve far carico della variabilità oggettiva della soggettività.
Le tecniche didattiche, pertanto, offrono spunti da cui cominciare il
lavoro e sperimentare possibili modalità di intervento e non soluzioni
precostituite.
Il primo punto da esaminare concerne l’interazione: considerata
quasi sempre uno scambio che lega il docente agli studenti, il costruttivismo ne fa – invece – il nodo centrale dell’attività didattica. L’intera20
2006.
Cfr. L. Mason, Psicologia dell’apprendimento e dell’istruzione, il Mulino, Bologna
90
Un’officina di uomini
zione è agire tra studenti (interazione sociale) in un ambiente specifico
(interazione ambientale) in seguito ad una specifica sollecitazione del
docente. L’interazione con l’ambiente (Piaget), con il contesto sociale (Vygotskij) e tra la teoria e la pratica (Dewey) sono tutti elementi
recuperati all’interno del metodo cooperativo, il cui scopo è quello di
mettere gli studenti in condizione di imparare con gli altri, per mezzo
delle relazioni costruite all’interno del gruppo. Attivare gruppi di apprendimento cooperativo presuppone il riconoscimento dell’altro da sé
come una fonte di ricchezza e individua nella collaborazione un valore
per la vita del singolo e per la vita sociale. La discussione fra studenti
diventa fondamentale per il progresso del lavoro e del gruppo, per il consolidarsi delle identità e per l’apprendimento delle regole comunicative
e sociali; infine, la discussione, è lo strumento che dovrebbe condurre
alla generazione di nuova conoscenza,21 di nuova cultura, che dovrebbe
perciò realizzare la didattica formativa in cui non solo si riproduce sapere
ma se ne genera, collettivamente, di nuovo.22
Il triangolo metodologico si esplica in primis nella costruzione di un
setting fisico e di un setting psicologico pensati per valorizzare il tipo di
interazioni che si vuol sollecitare e in cui si tenga conto di come spazio,
tempo, chiarezza e condivisione delle regole, individuazione degli obiettivi, definizione dei ruoli, etc. Influiscano sui compiti di apprendimento
e sulla natura delle relazioni del gruppo. Un gruppo è tale quando i partecipanti condividono almeno un obiettivo e/o delle finalità e agiscono,
coordinandosi, per il perseguimento dell’obiettivo in modo continuativo
e non estemporaneo.
Il gruppo può essere un moltiplicatore di apprendimento se il docente
riesce ad organizzarlo in modo funzionale: lavorare in gruppo, infatti,
prevede una condivisione e un senso di appartenenza che superano lo
svolgimento estemporaneo di un lavoro in comune. Le condizioni che
il docente deve sollecitare sono:
• l’interdipendenza positiva tra i partecipanti, che convince i singoli
dell’impossibilità di raggiungere individualmente l’obiettivo;
• il senso di responsabilità di ciascuno nei confronti di tutti.
Queste sono le due condizioni necessarie per rendere formativo il
lavoro di gruppo. Dozza distingue i diversi piani di questo approccio
21
Cfr. L. Czerwinsky Domenis, La discussione intelligente. Una strategia didattica per
la costruzione sociale della conoscenza, Erickson, Trento 2000.
22
Cfr. M. Gennari, (1996) Istituzioni di didattica, in Gennari M. (a c. di), Didattica
generale, op. cit.
Il costruttivismo pedagogico 91
come segue: «nel caso di un gruppo scolastico finalizzato all’apprendimento, il lavoro verte sui processi e sui prodotti dei singoli e del gruppo,
sia sul piano cognitivo, sia sul piano della competenza sociale».23 L’affermazione coglie tutta la complessità del lavorare in modo formativo
con un gruppo, smascherando un diffuso luogo comune che di questo
approccio, nella scuola, fa un momento ricreativo o ludico fine a se
stesso e senza valore perché privo di caratteristiche disciplinari forti e
di contenuti specifici.
Di contro, il lavorare in gruppo si rivela prezioso per le motivazioni
di natura teorico-epistemologica interne alla visione della conoscenza
precedentemente proposta, ma anche e soprattutto perché tiene contemporaneamente conto:
• dei processi e dei prodotti;
• del singolo e del collettivo;
da un punto di vista cognitivo e da un punto di vista socio-relazionale.
L’interdipendenza che si può creare all’interno del gruppo può essere, perciò, di natura funzionale (con riguardo allo scopo da raggiungere)
o di natura relazionale ed emotiva (costruzione di senso e condivisione di
significati e norme), anche se non è da dimenticare che i gruppi costituiti
con scopi formativi sono quasi sempre eterocostituiti ed eterodiretti,
come a scuola o nelle università o nella formazione professionale e che
perciò creare delle veraci relazioni emotive richiede molto lavoro, partecipazione e capacità. Il lavoro del docente, pertanto, consiste nel delegare agli studenti parte della responsabilità contenutistico-disciplinare
per assumere un ruolo di gestore delle interazioni socio-cognitve e comunicative. Come accennato, la preparazione dell’ambiente è importante
per agevolare la conduzione del gruppo e consiste nell’organizzazione
del setting fisico e psicologico.
Il setting fisico dovrebbe:
• consentire agli studenti di sedere faccia a faccia;
• offrire sufficiente spazio tra un gruppo e l’altro così da permettere
di confrontarsi senza disturbarsi reciprocamente durante le fasi di
discussione o nel corso degli spostamenti necessari sia al docente sia
agli studenti;
23
L. Dozza, Il lavoro di gruppo tra relazione e conoscenza, La Nuova Italia, Scandicci
1993, p. 78. Cfr anche C. Pontecorvo, Apprendere in gruppo a scuola: prodotti e processi,
in Età evolutiva, Numero monografico 24, 1986. In rete, sui gruppi: http://www.costruttivismoedidattica.it/articoli/gruppi-prospettive.pdf
92
Un’officina di uomini
• avere delle aree destinate ad attività diverse ed organizzate allo scopo;
• garantire l’accessibilità dei materiali didattici di uso comune;
• prevedere delle regole che aiutino i partecipanti a prendere parte
al lavoro senza distrarre e deconcentrare gli altri (per es. attraverso
degli schemi di spostamento prefissati).
Il setting psicologico è strettamente legato a quello fisico, ma va
anche oltre poiché all’interno del gruppo si sperimentano emozioni forti, sia positive che negative, si mette in gioco la propria individualità e
la propria identità attraverso sofisticati meccanismi di costruzione dell’identità, o di omologazione, di rifiuto o di accettazione di sé e dell’altro.
Per questo all’interno della costruzione dello spazio psicologico, dell’ambientazione, può essere di grande utilità formalizzare dei ruoli che
verranno ricoperti a turno dai partecipanti. Definire ruoli ed elaborare
i compiti delle figure ipotizzate aiuta il singolo a svolgere la funzione
richiesta senza che questo comporti una critica o una messa in discussione delle caratteristiche e delle individuali disposizioni “naturali”. Per
esempio, se è ipotizzato il ruolo del “controllore del tempo”, che ha il
compito di verificare i tempi di svolgimento delle consegne di ciascun
gruppo, a turno gli studenti potranno assumere questo ruolo/compito
senza che vengano identificati dagli altri come degli importuni o dei
pedanti sgobboni.
L’organizzazione del tempo e dello spazio è, come in tutte le attività
formative, di fondamentale importanza, così come lo è il lavoro della
composizione del gruppo, questione che il docente deve affrontare prima
dell’avvio del lavoro vero e proprio.
Anche in questo caso ci sono molte tecniche e molto giochi per
avviare l’attività, a cominciare dal diagramma di Moreno,24 il più complesso metodo di costruzione sociometrica del gruppo, ma per iniziare è
bene sempre e comunque considerare che qualsiasi scelta di costruzione
del gruppo, financo casuale, è preferibile all’autodeterminazione da parte dei partecipanti che riprodurrebbe le relazioni usualmente praticate
senza scopi formativi. Lasciare che un gruppo, anche piccolo, si costituisca da solo in aula non aiuta nell’avvio del lavoro perché tendenzialmente le persone (bambini, ma anche adulti) sceglieranno di reiterare
24
Il volume di riferimento è J. Moreno, Principi di sociometria, di psicoterapia di gruppo e sociogramma, Etas Kompass, Milano 1963; ma per l’uso didattico del sociogramma
cfr. S. Marhaba, Guida alla sociometria nella scuola, Giunti Barbera, Firenze 1974 e F.
Rossi, Per un uso didattico del sociogramma, Giunti&Lisciani, Teramo 1994.
Il costruttivismo pedagogico 93
i rapporti prescelti, precludendo così la possibilità di saggiare nuove
relazioni all’interno delle quali sperimentare ed apprendere competenze
comunicative e sociali. Costituito il gruppo, per abituare i partecipanti
alla discussione, potrebbe essere utile intraprendere la collaborazione
attraverso compiti e consegne di tipo relazionale e sociale, prima di
giungere alla assegnazioni di incarichi cognitivi complessi.25
Una volta formato il gruppo è onere del docente provvedere alla sua
conduzione affidando agli studenti i ruoli elaborati precedentemente nel
setting psicologico, facendo attenzione che abbiano delle caratteristiche
esplicite, definite e chiare e che le azioni che devono svolgere siano funzionali al compito e utili allo svolgimento complessivo del lavoro. I ruoli,
insomma, devono essere reali e non fittizi per facilitare la motivazione e
l’identificazione del soggetto nel ruolo stesso e possono essere assunti a
turno da tutti i partecipanti, soluzione che offre a ciascuno la possibilità
di sperimentarsi come leader, come gestore del materiale didattico, come
controllore del rispetto delle regole e dei tempi comunicativi, etc.
Inoltre, la determinazione e la gestione dei ruoli implica una importante riflessione sulla delega: è bene che l’insegnate prima di avviare
il lavoro rifletta su cosa e quanto è disposto e capace di affidare agli
studenti, perché una nomina apparente ma non reale e alla quale non
corrisponde una funzione concreta, utile e riconosciuta dal gruppo se
reiterata nel tempo rischia di demotivare enormemente, evidenziando
quanto di artificioso c’è nel lavorare in gruppo e oscurandone gli aspetti
positivi.
Per concludere e sintetizzare: una didattica attiva, di natura costruttivista, include necessariamente la “moltiplicazione” di interazioni che
rispecchino i naturali meccanismi di apprendimento, includendo le relazioni sociali e con l’ambiente e sollecitando la partecipazione attiva degli
individui coinvolti. Lavorare in gruppo è una delle possibilità e delle
tecniche attraverso le quali concretizzare, nella pratica formativa, questa
visione del sapere. Il docente, per affrontare questa attività deve:
• come sempre focalizzare l’attenzione progettuale sullo spazio/tempo, badando ad una coerente progettazione dell’ambiente formativo
(provvedere alla creazione e alla gestione di un setting fisico e di un
setting psicologico);
• decidere quali momenti dedicare all’attività collaborativa e quali
obiettivi perseguire;
25
M. Comoglio, M. A. Cardoso, Insegnare e apprendere in gruppo. Il cooperative
learning, Las, Roma 1996.
94
Un’officina di uomini
• comporre i gruppi;
• definire i ruoli e strutturare i compiti attraverso i quali attivare la
collaborazione/cooperazione fra i membri;26
• gestire le dinamiche cognitive, emotive, relazionali e comunicative
all’interno di un gruppo e fra i diversi gruppi, osservando le relazioni
che si vengono a creare e intervenendo dove necessario. In questo
caso il docente deve avere molto chiara la caratteristica del lavoro che
è collettivo, ma composto da singoli e quindi il feedback è necessario
in ambedue le direzioni;
• verificare l’apprendimento individuale e di gruppo, con riguardo
tanto ai processi quanto ai prodotti, e tenendo in considerazione il
ruolo fondamentale per il giudizio complessivo della qualità delle
interazioni cognitive emotive e relazionali.
I modelli didattici che, ispirandosi al costruttivismo, includono il lavoro di gruppo sono molti e all’interno di ciascuno si sono sperimentate
delle tecniche e affinate delle procedure ormai consolidate e condivise. Ciò, però, non significa che la natura degli “ingredienti” umani sia
cambiata e che queste norme siano applicabili e funzionino a prescindere dalla valutazione delle singole esperienze e condizioni. Piuttosto le
buone prassi e le prassi consolidate offrono dei punti di partenza, degli
spunti sulla base dei quali avviare concretamente un lavoro. Per questo
motivo, di seguito, si riportano schematicamente alcune delle esperienze
più significative nell’ambito del cooperative learning, con i riferimenti
bibliografici utili all’approfondimento per il lettore interessato. Da sottolineare, ancora una volta, che tutti i modelli didattici di seguito citati
sono il frutto di un lavoro di sperimentazione collocato all’interno della
visione costruttivista della conoscenza, della realtà e dell’uomo e che,
pertanto, nutrono anche quella visione etica delle interazioni di cui la
scuola, da tempo, si è fatta portavoce.27
26
In letteratura i due termini sono distinti: «preferiamo intendere con il termine
“collaborazione” una situazione in cui più soggetti entrano in un rapporto di sostegno e
reciprocità (ad esempio condivisione di materiali, partecipazione a un web forum, ecc.) e
riservare quello di cooperazione a forme di collaborazione più strutturate, caratterizzate
dal fatto che l’attività è finalizzata al conseguimento di un obiettivo comune, espressamente
riconosciuto come la mèta dei diversi membri: è dunque la condivisione o meno della stessa
mèta che stabilisce se un’attività collaborativa diventa cooperativa in senso stretto (quest’ultima richiede vincoli più rigidi fra i partecipanti della comunicazione).», A. Calvani,
Didattica della comunicazione in rete, in M. Gennari, Didattica generale, op. cit. p. 281.
27
Una rassegna digitale dei modelli di Cooperative Learning è pubblicata sul sito:
http://www.apprendimentocooperativo.it/cmz403-1209-11654/Il_coop_learning/modelli/
Premessa/a.html
Il costruttivismo pedagogico 95
Community of Learners
La comunità di allievi è un ambiente di apprendimento elaborato a
Berkeley, nell’Università della California, da Brown e Campione28 allo
scopo di coinvolgere nelle attività apprenditive bambini in età scolare
con problemi socio-familiari. Il modello è stato progettato sulla base
della visione socio-cognitiva dell’apprendimento e, in particolare, sul
concetto di zona di sviluppo prossimale, e arricchito dalla visione deweyana dell’apprendimento per scoperta.
Le comunità sono costituite da insegnanti, tutor, esperti disciplinari
e studenti e l’attività che vi si svolge è paragonabile a quella di ricerca
esercitata dagli scienziati di una determinata comunità con, in più, una
supervisione dei soggetti esperti che rendono guidato il processo di scoperta in modo che gli alunni non possano elaborare conoscenze errate.
Tutti i ruoli, a turno e con riguardo alle funzioni e alle competenze, sono
vicendevolmente scambiati, così può succedere che gli studenti diventino
esperti e viceversa, scambiandosi i compiti e le responsabilità.
Le principali attività all’interno delle comunità di studenti che apprendono sono:
• le lezioni degli esperti (benchmark lesson) in cui si introducono i concetti fondamentali dall’argomento da affrontare con cui gli studenti
potranno avviare successivamente il loro lavoro di costruzione della
conoscenza;
• l’insegnamento fra pari (reciprocal teaching e reciprocal tutoring);
• le attività di condivisione della conoscenza e dell’expertise (sharing)
e di distribuzione delle informazioni (utilizzando la tecnica jigsaw e
il crosstalk);29
• momenti di riflessione metacognitiva.
28
Cfr. A. L. Brown, J. C. Campione, Guided Discovery in a Community of Learners,
in K. McGilly (a c. di), Classroom Lesson: Integrating Cognitive Theory and Classroom
Practice, op. cit. Per il dettaglio della sperimentazione e dei risultati ottenuti in Italia con
l’applicazione delle Community of Learners cfr. L. Mason, Psicologia dell’apprendimento
e dell’istruzione, op. cit.
29
La tecnica jigsaw (gioco ad incastri – http://www.jigsaw.org/ ) è stata elaborata in
America alla fine degli anni ‘70 e consiste nel creare gruppi con competenze diverse per
poi ricostruirli sulla base di uno scambio che consenta la formazione di nuovi insiemi in
cui è presente un rappresentante di ciascun precedente gruppo così da poter condividere
la conoscenza costruita precedentemente attraverso l’insegnamento/apprendimento fra
pari. Per il dettaglio del funzionamento della tecnica jigsaw cfr. A. Carletti, A. Varani (a
c. di), Didattica costruttivista. Dalle teorie alla pratica in classe, op. cit. In rete: http://www.
costruttivismoedidattica.it/articoli/Carletti/Carletti_Jigsaw.doc. Il crosstalk, o esperienza
96
Un’officina di uomini
Knowledge Building Community
Ambiente progettato in Canada, presso l’Ontario Institute for Studies in Education, da Scardamalia e Bereiter,30 si è concretizzato con
la costruzione di CSILE (Computer Supported Intentional Learning
Environment), ambienti per la costruzione di conoscenza digitali e multimediali, che sono poi diventati Knowledge Forum,31 ambienti virtuali in cui tutti i membri della comunità possono accedere per trovare,
depositare, modificare, scambiare materiale. L’insegnante, all’interno
di queste comunità, è un partecipante esperto con il ruolo di coordinatore, ma non interviene direttamente per proporre soluzioni e fornire
informazioni.
La distinzione concettuale tra apprendimento e costruzione di conoscenza è, in questa prospettiva, fondamentale: le due cose, infatti, non
coincidono. L’apprendimento è il momento individuale dell’elaborazione che, pur fondamentale, è di passaggio verso la costruzione collettiva
della conoscenza. Questo modello include una forte attenzione ai processi metacognitivi perché nel livello cognitivo più alto (costruzione) i
membri della comunità lavorano, in modo globale, sulla conoscenza,
trattandola come un oggetto specifico e generale che sostituisce il problema specifico e particolare. Le sperimentazioni effettuate su queste
comunità sottolineano come la metodologia didattica utilizzata supporti
la definizione dei problemi, la ricerca delle informazioni, l’attività di
analisi e la collaborazione fra i membri.
Una ulteriore evoluzione dell’unione tra Community of Learners e
Knowledge Building Community sono i Learning Circle32 (Circoli di apprendimento) ciascuno costituito da un gruppo di classi che interagiscono
telematicamente fra loro per il raggiungimento di un comune obiettivo.
Il software consente di archiviare, reperire e modificare i contenuti proposti da ciascun gruppo-classe e supporta la comunicazione asincrona e
sincrona uno-a-uno, uno-a-molti e molti-a-molti.
incrociata, consiste nell’affidare agli studenti la conduzione del lavoro di classe nella convinzione che una delle migliori situazioni di apprendimento è la necessità di insegnare
agli altri.
30
Cfr. M. Scardamalia, C. Bereiter, Knowledge Building, in J, W. Guthrie (a c. di),
Encyclopaedia of Education, Macmillan, New York 2003.
31
www.knowledgeforum.com
32
M. Riel, I circoli di apprendimento. Un esempio di apprendimento collaborativo,
basato su rete telematica, fra classi scolastiche distanti, in TD – Tecnologie didattiche, n.
2, 1993.
Il costruttivismo pedagogico 97
Comunità di pratica
Questo modello, elaborato da Wenger,33 è piuttosto complesso perché muove da convinzioni sociali che si trasformano in principi pedagogici e in pratiche didattiche. L’apprendimento, per l’Autore, è un processo
che si svolge in un contesto sociale di scambio e negoziazione intorno
ad attività di natura pratica e teorica: è – dunque – un’attività di natura
sociale e partecipativa attraverso cui si costruiscono significati collettivi,
identità individuali e senso di appartenenza. La comunità, sia essa formale o informale, condivide un sapere che ha costruito collettivamente,
costituito da conoscenze e competenze esperte implicite ed esplicite con
le quali si confrontano i meno esperti. Questo modello, dunque, pone
molta attenzione ai processi metacognitivi trasformando l’apprendistato
classico in una pratica cognitiva che aiuta ad esplicitare attraverso un
monitoraggio dell’azione ciò che del comportamento esperto è implicito
per renderlo condivisibile.34 Apprendere, perciò, significa:
• creare significati;
• elaborare identità personali;
• appartenere ad una comunità all’interno della quale si svolgono e
condividono delle attività.
Dal modello delle comunità di pratica si può passare alle comunità di
apprendimento, specificatamente didattiche e formative, in cui la visione
sociale di base trova uno strumento di lavoro nell’attività cooperativa
del gruppo.
Learning Together
Ambiente creato dai Johnson (David e Robert) e Holubec nell’Università del Minnesota,35 ovviamente di matrice socio-costruttivista e con
uno spiccato impianto collaborativo orientato ad imparare insieme. La
33
Cfr. E. Wenger, Communities of Practice: Learning, Meaning, and Identity, Cambridge University Press, Cambridge 1998.
34
Il riferimento è alla pratica dell’apprendistato cognitivo elaborata da Collins, Brown
e Newman che, rielaborando le pratiche classiche di apprendistato, hanno sostenuto
l’importanza dell’attività di riflessione durante lo svolgimento dell’azione condivisa con
l’esperto, cfr. C. Pontecorvo, A. M. Ajello, C. Zucchermaglio, (a c. di), I contesti sociali
dell’apprendimento, Led, Milano 1995.
35
Cfr. R. T. Johnson, D. W. Johnson, E. J. Holubec, Apprendimento cooperativo
in classe. Migliorare il clima emotivo e il rendimento, Erickson, Trento 1996. In rete:
http://www.co-operation.org il sito del Cooperative Learning Center dell’Università del
Minnesota.
98
Un’officina di uomini
caratteristica principale di questo ambiente è nella funzione/distribuzione dei ruoli che consente di definire dettagliatamente ciò che ciascun
partecipante, a turno, deve fare. Questa ripartizione è operata anche allo
scopo di parcellizzare la leadership per renderla distribuita e condivisa
tra i membri del gruppo.
Structural Approach
Ideato da Spencer Kagan36 della California University sulla base di
un approccio strutturale all’apprendimento cooperativo che lo ha portato ad elaborare più di un centinaio di strutture,37 cioè delle unità di
costruzione per una lezione, alle quali via via se ne stanno aggiungendo
altre anche ad opera di Autori diversi. L’idea originaria era quella di
offrire ai docenti, di cui è riconosciuto il ruolo strategico fondamentale, degli strumenti semplici e flessibili per lavorare cooperativamente
in classe così da corrispondere alle istanze psicopedagogiche delle intelligenze multiple,38 della personalizzazione dell’apprendimento, della
necessità di aiutare gli studenti ad essere flessibili ed aperti.
Student Team Learning
Basato anch’esso sul cooperative, fa uso di alcune delle tecniche più
diffuse per la costruzione e condivisione della conoscenza (come, per
es., del jigsaw), ma a differenza che negli ambienti presentati precedentemente la motivazione estrinseca è sollecitata attraverso classifiche e
graduatorie pubbliche, sia individuali sia di gruppo. Questo approccio,
ideato da Slavin,39 tende a responsabilizzare lo studente nei confronti di
sé e degli altri cercando di incentivare le prestazioni di tutti i partecipanti, anche degli studenti meno motivati intrinsecamente. La cooperazione
36
Cfr. S. Kagan, L’apprendimento cooperativo: l’approccio strutturale, Edizioni Lavoro, Roma 2000. In rete: www.kaganonline.com
37
Un’ampia descrizione di alcune delle strutture di Kagan, adeguato anche all’utilizzo
pratico in classe, è presente nella sezione Esercizi e Materiali del volume A. Carletti, A.
Varani (a c. di) Didattica costruttivista. Dalle teorie alla pratica in classe, op. cit.; in rete:
http://www.costruttivismoedidattica.it/articoli/Carletti/Carletti_Kagan.doc
38
Cfr. H. Gardner, Formae mentis. Saggio sulla pluralità delle intelligenze, Feltrinelli,
Milano 1987; Intelligenze multiple, Anabasi, Milano 1993; L’educazione delle intelligenze
multiple: dalla teoria alla prassi pedagogica, Anabasi, Milano 1995; Educazione e sviluppo
della mente: intelligenze multiple e apprendimento, Erickson, Trento 2005.
39
Cfr. R. Slavin, Cooperative Learning. Theory, research and practice, Allyn ald Bacon, Boston 1995. In rete: http://www.csos.jhu.edu/crespar/ sito del CRESPAR (Center for
Research on the education of Students Placed At Risk) della J. Hopkins University e di
cui Slavin è Program Director per il Center for Social Organization of Schools.
Il costruttivismo pedagogico 99
e collaborazione fra studenti è utilizzata anche a fini competitivi, al
termine del lavoro e per i gruppi/studenti più meritevoli sono previsti
riconoscimenti pubblici.
Group Investigation
Modello ideato per far svolgere agli studenti delle ricerche mirate
attraverso il lavoro di piccoli gruppi (Small Group Teaching). Gli Autori
sono Hertz Lazarowitz,40 Sharan Shlomo e Yael.41
Il metodo di lavoro consiste nell’assegnare un compito alla classe di
cui ciascun gruppo decide autonomamente e in base ai propri interessi
la sezione da approfondire. Al termine del lavoro, in cui sono previsti
laboratori, ricerche e approfondimenti, ciascun gruppo prepara una relazione da presentare agli altri con l’obiettivo che tutti i partecipanti
possano imparare tutto. L’attenzione è posta sulla motivazione intrinseca dello studente; ciascun partecipante è sollecitato a far domande al
docente che deve aiutarlo nella analisi delle risposte, atteggiamento che
supporta l’attività di ricerca e che scardina il classico modello secondo
cui l’insegnate domanda e l’allievo risponde.
Complex Instruction
Ambiente e metodo elaborato dalla Cohen42 a partire dall’ideale pedagogico di offrire pari opportunità a tutti gli studenti a prescindere dalle
eventuali situazioni di svantaggio ed enfatizzando l’individualità delle
diverse intelligenze. L’Autrice si preoccupa di organizzare il modello in
modo che il gruppo non favorisca i membri migliori di cui è composto,
ma sia un luogo di interdipendenza positiva e di uguali possibilità e
occasioni di apprendimento per tutti. Le attività di gruppo prevedono
tre momenti fondamentali: 1. la ricerca delle informazioni; 2. la preparazione delle presentazioni; 3. la revisione collettiva e la riflessione
individuale sull’apprendimento conseguito.
40
http://construct.haifa.ac.il/~rachelhl
Cfr. Y. Sharan, S. Sharan, Gli alunni fanno ricerca. L’apprendimento in gruppi
cooperativi, Erickson, Trento 1998.
42
Dell’Autrice, deceduta nel 2005, non sono più visibili le pagine online ma l’Università di Stanford la ricorda al seguente link: http://news-service.stanford.edu/news/2005/
april6/obit-cohen-040605.html
41
Conclusioni
Punti d’arrivo e di partenza
«Già.
Preside, cosa vogliamo dire quando chiediamo ai giovani di non essere scolatici? E cosa dovrebbero fare per non esserlo? Se tutto va bene
(ma non va bene), ascoltano diligentemente le nostre lezioni, che sono
il riassunto dei manuali su cui abbiamo studiato al liceo o all’università;
poi tornano a casa, leggono e ripetono ad alta voce quello che è scritto
nel loro manuale; quindi vengono alla cattedra e ci recitano i capitoli
che hanno memorizzato. All’interno di questo vecchio rito della scuola
è possibile non essere scolastici?
No, in tutta franchezza non so proprio di cosa li rimproveriamo. Se studiassero cavillando coi distinguo, come facevano i seguaci della Scolastica vera (e non mi dispiacerebbe), il nostro rimprovero avrebbe senso.
Se ci fossimo davvero inventati una scuola di ricerca, fatta di problemi
appassionanti da risolvere, di domande a cui trovare risposte studiando,
il rimprovero avrebbe ancora più senso. Ma non è andata così. I nostri
ragazzi studiano esattamente come abbiamo studiato noi, studiano come
si studia nella scuola da sempre. Quindi non possono essere che scolastici
come siamo stati scolastici noi da ragazzi, come siamo scolastici ora che
insegniamo. I manuali del resto sono scolastici. L’orario è scolastico. Le
aule sono scolastiche. Che pretendiamo?»
D. Starnone, Il collega Starnone 2008
Il coopertaive learning e il lavoro per gruppi, la cui sperimentazione
e diffusione è ormai consolidata, sono ottimi strumenti per trasformare
in pratica la visione costruttivista della conoscenza. Certamente non
sono gli unici, ma nell’insieme posseggono le caratteristiche fondamentali per praticare una visione epistemologica e per realizzare un modello
di conoscenza molto vicino a quello desiderato per la nostra knowledge
society nei suoi aspetti migliori e più promettenti.
102
Un’officina di uomini
E proprio in questa prospettiva sociale la visione costruttivista del
sapere apre al futuro, come risorsa praticabile per corrispondere alle
istanze formative e professionali. La scuola deve rispondere alle rinnovate richieste cui è sottoposta con una innovazione metodologica,
piuttosto che con una riforma contenutistica e una delle proposte che
appaiono parte della soluzione dei suoi problemi risiede proprio nella pratica di forme di didattica costruttivista. E ciò non solo perché,
come si è dimostrato, questo modello pedagogico conduce a risultati
significativi dal punto di vista degli apprendimenti contenutistici e disciplinari; ma anche e soprattutto perché allena a praticare il confronto,
il dialogo, la democratizzazione dei processi, l’incontro e il rispetto
dell’altro, la verbalizzazione delle opinioni e delle emozioni, il rispetto
delle opinioni altrui, la condivisione di obiettivi e di procedure, il senso
di appartenenza ad una comunità con la quale si condivide l’orizzonte di senso e che aiuta la costruzione o la fortificazione dell’identità
individuale.
Insomma, i modelli didattici costruttivistici, pur non essendo la
panacea di tutti i mali della scuola, possono contribuire a rispondere
efficacemente alle richieste e alle sollecitazioni sociali contemporanee
attraverso un’azione didattica e formativa che pratichi l’obiettivo fondamentale per l’apprendimento del futuro: apprendere ad apprendere,
con riguardo ai contenuti, al saper fare, al saper essere… durante tutto
l’arco della vita.
In didattica, certamente, il pluralismo metodologico è la miglior pratica che si possa perseguire perché tanti sono gli obiettivi e ancor di più
le soggettività. Ciò è tanto più vero se si considerano, anche, le questioni
che il costruttivismo solleva, che non sono di poco conto e alcune delle
quali non sono risolvibili in linea teorica ma, probabilmente, solo ed
esclusivamente nell’atto pratico di formare, educare, istruire.
Prima di tutte ci sono le questioni epistemologiche che rimangono
aperte, ma per rimanere all’interno della discussione e, specificatamente,
della scuola la gestione del tempo e dello spazio sono i primi seri ostacoli
che la pratica di tali metodologie può incontrare. L’oggettiva mancanza
di spazi adeguati e una carente organizzazione logistica, sommate ad
una pianificazione del tempo rigida e piuttosto monolitica condizionano
fortemente l’operare dei docenti e ne acuiscono una resistenza diffusa
all’innovazione. Resistenza in cui, per una volta, docenti e studenti si
trovano accomunati perché il rinnovamento spaventa anche le giovani
generazioni che spesso pongono ostacoli al lavoro di gruppo e alla pratica di metodologie più attive che li trasformerebbero in attori protagonisti del lavoro formativo.
Conclusioni 103
Inoltre, per condurre un lavoro ispirato alle teorie e alla psicopedagogia costruttivista occorrono competenze di natura relazionale, oltre
che disciplinare, tanto ai docenti quanto agli studenti. I primi devono
confrontarsi con questioni nuove e complesse (la conduzione del gruppo
come forma di insegnamento; le diverse intelligenze; la motivazione;
l’esigenza di una collaborazione tra i responsabili dell’azione formativa;
le nuove forme relazionali attivate dall’uso delle recenti tecnologie; la
valutazione)1 da gestire più come tutor che come esperti disciplinari.
Agli studenti viene richiesta una faticosa partecipazione all’attività didattica, un protagonismo formativo al quale non sono abituati, una responsabilità individuale e collettiva, delle capacità di comunicazione e di
gestione relazionale, delle forme sofisticate di “essere” e “saper essere”,
un senso di appartenenza e di leale condivisione con il gruppo dei pari,
con il rischio concreto che tutte queste complesse forme di conoscenza
extra-disciplinare vengano trattate come pre-requisiti all’attività formativa e non per quello che sono realmente: gli obiettivi finali che vanno
faticosamente e quotidianamente conquistati.
Oltre ciò, una delle critiche che si possono muovere alle applicazioni
più ortodosse di questi modelli è la mancanza di equilibrio fra il sapere
consolidato – da trasmettere – e la produzione collettiva di nuovo sapere.
Le discipline, nella scuola e in particolare nella scuola italiana, rivestono
una importanza così centrale da rendere apparentemente insignificanti
gli obiettivi didattici che disciplinari non sono. Così facendo, però, la
scuola si sta sempre più rinchiudendo nel campo dell’istruzione, delegando e demandando la formazione alle famiglie che, nella maggior
parte dei casi, non sono in grado di fronteggiare consapevolmente la
transizione che il nostro secolo richiede perché non hanno né gli strumenti interpretativi né, molto spesso, le informazioni, le conoscenze ed
il supporto adatto per farlo. Contemporaneamente, la forte spinta all’individualismo rende impraticabile un “ammortizzatore” educativo che si
occupi socialmente della costruzione delle individualità in crescita con
la conseguenza che manca a livello individuale e sociale una prospettiva
realmente e fattivamente formativa ed educativa. Paradossalmente, nel
secolo della didattica la formazione diventa una scommessa, una sfida
che richiede coraggio per essere accolta.
Pur nella problematicità, però, proporre un nuovo modello pedagogico e un rinnovato metodo didattico può essere una buona proposta per
1
P. Triani, Il metodo cooperativo, in Guasti L. (a c. di) Apprendimento e insegnamento. Saggi sul metodo, op. cit. pp. 235-236.
104
Un’officina di uomini
una scuola che torni a porre le basi per un’alternativa e non si trinceri
solamente in posizione difensiva dello status quo.
Le domande poste all’inizio del presente lavoro2 possono avere,
sulla base delle evidenze riportate, una risposta positiva di cui la scuola si fa portavoce tornando ad essere fucina di uomini del futuro, da
costruire.
2 Cfr. Introduzione.
Appendice
Il ruolo dei media nella didattica costruttivista
L’introduzione di nuovi mezzi di comunicazione modifica inevitabilmente il processo didattico, quale che sia il modello di interazione
che si intende praticare. Questa capacità dei prodotti di innovare anche
i processi è tanto più vera da quando, con l’ingresso delle tecnologie
telematiche, l’offerta di formazione si è moltiplicata in corrispondenza
ad una domanda sempre più diffusa ed esigente, tipica di una formazione
che, come si accennava all’inizio del presente lavoro, è considerata un’attività stabile e permanente per tutto l’arco della vita degli individui.
I mezzi di comunicazione influenzano la fruizione del sapere, i metodi di insegnamento e quelli di apprendimento, «l’invenzione della carta,
della matita, della gomma, dell’inchiostro, della stampa della pena biro
sono tutti (apparentemente) piccoli passi che hanno certamente influito
sul modo in cui un individuo apprende, per esempio, spostando decisamente l’asse dalla comunicazione orale a quella scritta».1
I media sono da sempre oggetto della riflessione didattica perché
ogni atto didattico è, prima di tutto, un atto comunicativo e perché veicolano i contenuti di apprendimento; non sorprenda pertanto che già
Comenio nella seconda metà del ‘600 aveva pensato ad un abbecedario
multimediale (immagini, testo, riproduzione scritta di suoni) per facilitare l’apprendimento delle lingue nei giovani studenti.
Anche per i processi didattici costruttivisti le tecnologie dell’informazione e della comunicazione hanno un ruolo di primaria importanza, ma in questo caso alle considerazioni generali si può aggiungere
una analogia di fondo che accomuna i new media e, per esempio, il
1
N. Mammarella, C. Cornoldi, F. Pazzaglia, Psicologia dell’apprendimento multimediale. E-learning e nuove tecnologie, il Mulino, Bologna 2005, p. 14.
106
Un’officina di uomini
collaborative learning: entrambi hanno una visione reticolare e non sequenziale/gerarchizzata e cumulativa della conoscenza e degli scambi
comunicazionali.
La metafora della rete, brillantemente utilizzata per Internet, è efficace anche per descrivere l’idea che il costruttivismo ha della conoscenza e, non a caso, per rappresentarla sono state utilizzate le mappe
concettuali, ossia uno degli strumenti più diffusi per la progettazione
iniziale degli ipertesti. La rete è una metafora perfetta dell’intelligenza
distribuita e collettiva tipica dei processi costruttivi della conoscenza e
dei metodi didattici collaborativi.2
La rete è perciò il topos che accomuna concettualmente la telematica e la visione costruttivista della conoscenza. Da questa comune
metafora è nato un sodalizio che sempre più unisce le pratiche didattiche a distanza e l’utilizzo dei media di “terza generazione”, ossia di
quei media che permettono la comunicazione molti a molti, asincrona
e sincrona, testuale e audiovisiva e, infine, una costruzione di mondi
virtuali completamente immersivi utilizzati anche a fini didattici, come
per esempio Second life.
Ma ancor prima di tutti i social network online che hanno dato vita
ad ambienti formali ed informali di apprendimento cooperativo, il ruolo
delle tecnologie comunicazionali all’interno degli ambienti didattici cooperativi era molto chiaro, sia a livello nazionale sia internazionale.3
I media, tanto quelli che supportano l’interazione e la comunicazione fra umani tanto quelli che propongono l’interazione uomo-macchina, sono determinanti ai fini degli ambienti di apprendimento, anche
e specificatamente in un’ottica costruttivista e collaborativista, come
dimostrato dai risultati della ricerca svolta dalla Varisco, secondo cui
la maggior parte degli ambienti d’apprendimento digitali e multimediali
sono «supportati da tecnologie digitali, che favoriscono l’apprendimento
ancorato e generativo, la flessibilità cognitiva e il transfer, l’apprendimento intenzionale, “l’etnografia multimediale digitale”, una comprensione
più approfondita dei fenomeni naturali [...]; ambienti tecnologicamente
“ricchi”, basati sull’indagine, sul modellamento e la programmazione
di simulazioni tridimensionali, sul “costruzionismo” papertiano e sul
paradigma “partecipatorio”; ambienti supportati dalla simulazione di
2
In particolare, sul tema dell’intelligenza collettiva che modifica il modo di essere
e di pensare degli uomini, creando una novella antropologia cfr. P. Lévy, L’intelligenza
collettiva. Per un’antropologia del cyberspazio, Feltrinelli, Milano 1998.
3
Cfr. L’apprendimento cooperativo, TD – Tecnologie didattiche, Numero monografico, n. 4, 1994.
Appendice 107
fenomeni complessi, che incentivano il lavoro cooperativo e collaborativo, il tutoraggio tra pari, favorendo la concretizzazione e visibilità dell’astratto (pensiero) e lo sviluppo di processi riflessivi, dialogici,
espressivi e creativi, e che considerano anche il computer come un learning partner».4
In particolare, l’introduzione massiccia dei media nella didattica ha
influito su due proprietà: l’interazione (uomo macchina e uomo-uomo)
e l’uso della multimedialità. Entrambi gli aspetti hanno permesso di
ampliare le possibilità dell’e-learning, fino a permettere la progettazione e l’uso di ambienti telematici e multimediali adatti alle interazioni
didattiche di tipo collaborativo.
La pedagogia costruttivista e la didattica collaborativa hanno trovato nell’uso massiccio e diffuso dei media degli alleati preziosi. Come
sempre, è da sottolineare che l’uso delle tecnologie comunicative può
imporre alla didattica dei modelli che non le sono propri: questo è il
rischio che, da sempre, esiste nell’uso dei mezzi di comunicazione all’interno delle relazioni di insegnamento e apprendimento e che solo
un’attenta e abile progettazione didattica ed un chiarissimo intento formativo possono scongiurare.
Interazione
L’interazione è il centro di ogni pratica di apprendimento, sia essa
svolta tra persone sia esercitata con l’ambiente; l’interazione comunicativa è un sottoinsieme che si avvale dei media per veicolare e/o costruire
il sapere, ma un sottoinsieme estremamente vasto ed importante se si
considera che anche in didattica è condivisibile il famoso assioma della
comunicazione secondo cui non si può non comunicare. I media, nella
didattica e in particolare nella didattica a distanza, supportano tutti i
processi di interazione, tanto con:
• i contenuti e i materiali didattici (Learner-content interaction nel formal, nell’informal e nell’incidental learning);
• i docenti e/o i tutor (Learner-instructor interaction);
• gli altri studenti (Learner-learner interaction);5
4
B. M. Varisco, Costruttivismo socio-culturale. Genesi filosofiche, sviluppi pscio-pedagogici, applicazioni didattiche, op. cit., p. 190.
5
La distinzione fra i tre tipi di interazione è di M.G. Moore, Three Types of Interaction, in The American Journal of Distance Education, n° 2 (2), 1989.
108
Un’officina di uomini
• a cui si può aggiungere l’interazione con le istituzioni che erogano il
corso (Learning Management Sistem LMS).
L’interazione degli studenti con i materiali didattici e degli studenti
fra di loro sono i punti più interessanti per la prospettiva della didattica costruttivista e collaborativa e gli strumenti di comunicazione e di
gestione della conoscenza oggi disponibili sono in grado di supportare
questi modelli di interazione e rendono ipotizzabile il superamento della
distanza spazio temporale tipica delle forme di istruzione a distanza
(IaD) e di e-learning (EL), tanto che è dagli inizi degli anni ‘80 che si
è cominciato a parlare di istruzione a distanza di terza generazione6 per
identificare quei processi didattici a distanza veicolati dalle tecnologie
dell’informazione e della comunicazione. Specificatamente per l’interazione fra studenti gli strumenti di comunicazione oggi disponibili in
rete ne consentono una pratica estremamente diffusa: le chat, i blog, i
software e i tools di lavoro collaborativo, sono tutti elementi integrati
all’interno dei corsi EL che includano fra gli obiettivi didattici la collaborazione attiva tra i partecipanti al processo formativo. Questi media
consentono sia un’interazione sincrona e asincrona fra gli studenti, sia
la possibilità per i gruppi di lavorare contemporaneamente su un medesimo progetto così da praticare in rete ambienti cooperativi in senso
pieno.
6
L’evoluzione che segna il passaggio dall’istruzione a distanza alla formazione in
rete è, convenzionalmente, segnata dal susseguirsi di tre generazioni di formazione: la
prima, istruzione per corrispondenza, prevalentemente cartacea, tipica degli anni ‘60 e
caratterizzata da messaggi di istruzione standardizzati, uno a molti, con un feedback piuttosto basso e un lento meccanismo di interazione. Questa versione fu definita da Otto
Peters una forma di istruzione altamente industrializzata, proprio per le caratteristiche
massmediali del messaggio di istruzione e per la capacità di proporre un buon livello di
alfabetizzazione, primaria ma non solo, su larga scala. La seconda generazione, invece,
prevedeva l’uso integrato di più canali comunicativi (multimedialità) o di una collezione
di materiali ciascuno basato su un medium specifico (plurimedialità). Si venivano, così,
ad integrare materiali a stampa, trasmissioni televisive, registrazioni sonore e in alcuni
casi software didattici (coursware). L’interazione fra docente e discente è sostanzialmente
simile a quella che caratterizzava la prima generazione, con l’aggiunta della velocizzazione
del feedback ad opera delle linee telefoniche e, successivamente, del fax. L’interazione
fra studenti era ancora, di fatto, inesistente se non per qualche incontro in presenza nelle forme blended. L’apprendimento come dimensione sociale della comunicazione tra
pari diventa una caratteristica fondamentale solo con i sistemi IaD così detti di “terza
generazione”. Di fatto, è stata l’introduzione delle tecnologie dell’informazione e della
comunicazione che ha permesso l’applicazione di un modello didattico centrato sull’idea
che l’apprendimento è, in primis, un processo sociale. Nasce così l’apprendimento in rete
o online education o e-learning. Cfr. G. Trentin, Dalla formazione a distanza all’apprendimento in rete, Franco Angeli, Milano 2001.
Appendice 109
Sebbene l’idea che a render tecnologico un ambiente didattico non
siano le tecnologie di prodotto in sé, quanto piuttosto la progettazione e
la valutazione dei processi di insegnamento e apprendimento sia ancora
pienamente attuale e condivisibile7 non è possibile ignorare che le “nuove” tecnologie dell’informazione e della comunicazione hanno generato
un novello cronotopo8 all’interno degli ambienti didattici, ampliando
notevolmente le occasioni di scambio apprenditivo e determinando delle
nuove dinamiche relazionali, con le specificità di una comunicazione caratterizzata contemporaneamente da elementi tipici della presenza (per
esempio la sincronicità, o la visibilità dell’interlocutore) e della distanza
(la possibilità di interrompere facilmente una comunicazione, di modificare la propria identità, etc.). È solo in seguito all’introduzione delle
nuove tecnologie che l’IaD si è trasformata in EL, rendendo praticabile
anche in ambienti virtuali le attività didattiche tipiche del costruttivismo
e la realizzazione di constructivist learning environments virtuali. Negli
ambienti didattici costruttivisti virtuali le interazioni sono ancora più
complesse che nei corrispettivi in presenza perché la Computer Mediated Communication (CMC) è spesso priva di segnali extra-linguistici
come quelli paralinguistici, mimico-gestuali, prossemici che creano una
condizione di contrazione degli indizi simbolici che aumenta il rischio
di una decodifica aberrante.9
La CMC ha delle caratteristiche specifiche che vanno tenute in considerazione durante lo svolgimento di un percorso formativo costruttivista
e la gestione della comunicazione va affidata a persone che ne conoscano le tipicità e ne sappiano gestire la complessità anche da un punto di
vista tecnologico. 10 Le piattaforme dedicate alla didattica costruttivista
online, siano esse open source o vendor, permettono l’interazione tra pari
promuovendo i meccanismi cognitivi tipici della didattica costruttivista
7
B. Vertecchi, Ambienti per la tecnologie dell’istruzione, Tecnodid, Napoli 1992: «fa
parte infatti di una visione distorta dell’istruzione a distanza, e in genere della tecnologia
dell’educazione, ritenere che essa si qualifichi per il supporto attraverso il quale i messaggi
vengono comunicati agli allievi.», p. 19.
8
Una rinnovata relazione fra spazio e tempo caratterizzata da una «spazialità delocalizzata o deterritorializzata (sganciamento dal luogo fisico) e di temporalità a densità variabile (coesistenza e compossibilità della comunicazione differita – dilatazione – e
simultanea – contrazione).», M. Rotta, M. Ranieri, E-Tutor: identità e competenze. Un
profilo professionale per l’e-learning, Erickson, Trento 2005, p. 40.
9
J. B. Thompson, The Media and Modernity. A social Theory of the Media, Polity
Press, Cambridge 1995.
10
Sulla CMC cfr. A. Roversi, Introduzione alla comunicazione mediata dal computer,
il Mulino, Bologna 2004.
110
Un’officina di uomini
quali il problem solving, l’apprendimento esperenziale, il learning by
doing, l’elaborazione di project work condivisi. Ma non va dimenticato
che le problematicità presenti nella didattica costruttivista in presenza,
come per esempio la richiesta altissima di partecipazione e condivisione
a tutti i componenti del gruppo, l’identificazione dei bisogni del singolo
con i bisogni della collettività, l’accettazione e l’introiezione delle regole
di comunicazione e di scambio fra i partecipanti, la co-responsabilità
nello svolgimento del compito e nel raggiungimento dell’obiettivo sono
presenti anche nelle forme di collaborative EL; accentuate dal fatto che
la distanza spazio temporale non sempre aiuta nella introiezione del proprio ruolo all’interno della comunità e nella condivisione degli intenti.
In proposito, diverse teorie si sono confrontate specificando il ruolo
delle identità individuali, delle relazioni che è possibile instaurare e della
socialità che si può praticare in rete attraverso la CMC e nonostante il
dibattito sia ancora acceso è possibile ipotizzare che, allo stato attuale
della ricerca teorica e della diffusione di pratiche di collaborative EL,
l’identità individuale in rete, piuttosto che dissolversi si “moltiplica” in
relazione al gruppo con il quale si interagisce; anche in rete la comunicazione assume aspetti pragmatici e relazionali, oltre a quelli tipici della
trasmissione di contenuti, che conducono i partecipanti ad una progressiva costruzione di senso, di appartenenza e di orizzonti di significati;
l’identità sociale è determinata dall’obiettivo e dalla condivisione (o
meno) dello stesso e non tanto dalle possibilità comunicazionali offerte
dal medium utilizzato.11
Didatticamente ciò corrisponde ad una richiesta molto alta di monitoraggio delle interazioni comunicazionali e sociali che si svolgono in
rete da parte di un docente o, meglio, da parte di più tutor con competenze specifiche che includano capacità reali di gestione della comunicazione e di competenze esplicite di “saper essere” all’interno di una
comunità virtuale. L’esigenza di monitoraggio delle interazioni in rete
è giustificata dal fatto che, al di là dello strumento di comunicazione
utilizzato di volta in volta, la comunicazione a distanza è più complessa
di quella in presenza, richiede più tempo, più chiarezza, maggiore attenzione e – contemporaneamente – va regolata, moderata, sollecitata e
orientata sempre allo scopo didattico. I media stanno creando, anche in
didattica, un rinnovato universo di dinamiche comunicazionali e relazio11
Cfr. G. Riva, Communicating in CMC: Making Order Out of Miscommunication,
in L. Anolli, R. Ciceri, G. Riva (a c. di), Say not to Say: New perspectives on miscommunication, IOS Press 2001; in rete: http://www.vepsy.com/communication/book3/3CHAPT_
09.PDF
Appendice 111
nali e identitarie che richiedono assistenza per essere convogliate verso
un traguardo formativo; avendo a disposizione moltissimi strumenti di
comunicazione con diverse caratteristiche lo studente deve imparare a
superare la pressione tecnica iniziale e a padroneggiarli, deve acquisire
delle competenze di natura metacomunicativa «ossia la capacità di comunicare consapevolmente, di sapersi posizionare ed entrare in relazione
con gli altri, di saper “ascoltare” assumendo atteggiamenti equilibrati
e tolleranti».12 Per raggiungere tutti questi obiettivi lo studente, anche
adulto, ha bisogno di uno scaffolding proprio all’interno di quegli strumenti di comunicazione che hanno estremamente potenziato le possibilità di interazione; diversamente il pericolo è il medesimo che si corre
in presenza: poiché la comunicazione e l’interazione sono fondamentali
per lo svolgimento del percorso formativo e per il raggiungimento degli
obiettivi educativi, si rischia di considerarli pre-requisiti allo svolgimento
dell’attività didattica e non traguardi da raggiungere in itinere; il pericolo
è che vengano considerati come disposizioni personali e naturali piuttosto che come competenze da acquisire attraverso la pratica, l’esercizio
e la guida di persone più esperte.
Multimedialità
Oltre a queste caratteristiche che si muovono principalmente sul
versante relazionale e che sono tipiche di tutte quelle tecnologie che
hanno dato impulso a strumenti di comunicazione interpersonali sempre
più pervasivi, flessibili, disponibili e di facile utilizzo tecnico, i media
offrono al costruttivismo anche altri motivi di interesse, fra cui la multimedialità.
Questo tema, di importanza fondamentale nell’istruzione contemporanea di ogni fascia di età, è particolarmente interessante se si pensa
a quanto sia “naturale” apprendere in modo multimediale e quanto
siano diffusi gli strumenti di comunicazione multimediali che sono utilizzati per fini didattici e non.13 Sommando le due cose il potenziale
sfruttabile all’interno dei processi di apprendimento (in presenza e a
12
M. Rotta, M. Ranieri, E-Tutor: identità e competenze. Un profilo professionale per
l’e-learning, op. cit., p. 85.
13
Sul tema cfr. R. Maragliano, O. Martini, S. Penge (a c. di), I media e la formazione, La Nuova Italia, Scandicci 1994; R. Maragliano, Manuale di didattica multimediale,
Laterza, Roma-Bari 1996 e Nuovo manuale di didattica multimediale Laterza, Roma-Bari
1998.
112
Un’officina di uomini
distanza) è davvero enorme: non a caso sull’argomento la letteratura
è davvero vasta ma, sintetizzando, gli orientamenti più diffusi tendono
– oggi – a sottolineare come positive le seguenti caratteristiche della
multimedialità:
• testo e parole utilizzate contemporaneamente agevolano l’apprendimento perché offrono elementi e indizi più utili e ricchi per il recupero delle informazioni (multimediale);
• testo e immagini sono più utili se presentate agli studenti in contemporanea e vicine fra loro (vicinanza spaziale e temporale);
• le migliori modalità di comunicazione per sollecitare l’apprendimento stimolano canali sensitivi diversi, per esempio le immagini (vista)
e le parole (udito) sono preferibili alle immagine e al testo che impegnano solo il canale visivo (modalità diversa);
• una comunicazione non formale aiuta l’apprendimento e la memorizzazione (personalizzazione).
Date queste premesse positive ai fini dell’apprendimento, utilizzando la multimedialità è consigliabile:
• proporre solo testi e immagini coerenti e rilevanti ai fini dell’obiettivo
formativo perché il carico di informazioni che la memoria di lavoro
può gestire non è illimitato e un eccesso di dati genera confusione e
disorientamento (rilevanza e coerenza del materiale);
• la ridondanza non sempre è un bene: troppi formati della medesima informazione offerti in contemporanea (testo, parole, immagine)
possono generare confusione (ridondanza). 14
Queste caratteristiche, elaborate in principi a seguito della sperimentazione condotta dagli studiosi, sono perlopiù ricondotte alla positività dell’apprendimento multimediale: utilizzare più codici espressivi
e, dunque, impegnare più canali sensitivi aiuta l’apprendimento e la
memorizzazione dell’esperienza e del contenuto anche se Mayer, nel
corso delle sperimentazioni, aveva tenuto in conto i risultati ottenuti
precedentemente da altri studiosi che avevano condotto alla formalizzazione di due assunti: il primo, cosiddetto, della doppia codifica, secondo
cui le informazioni visive e uditive sono elaborate da due diversi canali;15
il secondo, del carico cognitivo, secondo cui la quantità di informazioni
14
2001.
Cfr. R. Mayer, Multimedia Learning, Cambridge Univerity Press, Cambridge
15
Cfr. A. Paivio, Dual coding theory: Retrospect and current staus, in Canadian Journal
of Psychology, n. 45.
Appendice 113
che un soggetto può elaborare è limitata e un sovraccarico danneggia
la comprensione e la memorizzazione.16
Ad oggi, la teoria del carico cognitivo è quella che più di altre ha
problematicizzato le proposte di insegnamento multimediale. Secondo
questa posizione ogni soggetto umano in fase di apprendimento elabora
schemi cognitivi attraverso la memoria di lavoro, una volta costruito
lo schema il soggetto diventa “esperto” e può ricorrere all’uso di automatismi che gli consentono di non impegnare la memoria di lavoro
come in fase di apprendimento; Landriscina così definisce il carico cognitivo: «la quantità totale di attività mentale imposta alla memoria
di lavoro in un dato istante. Se il carico cognitivo è troppo elevato,
uno studente potrebbe non avere più risorse cognitive disponibili per
l’apprendimento».17
La multimedialità perciò può essere una risorsa, ma anche un rischio
per il buon esito dell’apprendimento perché se è mal progettata può
gravare sulla memoria di lavoro più di quanto non faccia una presentazione o un lavoro monomediale ritardando così la costruzione di schemi
cognitivi e pertanto il processo di apprendimento.
Sul tema delle relazioni fra multimedialità, interazione e ipertestualità nei new media e su come queste innovazioni modifichino usi, costumi
e atteggiamenti cognitivi il dibattito è acceso anche in Italia. La querelle
ha visto protagonisti, in particolare, Raffaele Simone e Domenico Parisi; il primo ha messo in luce gli aspetti negativi della comunicazione
informatica multimediale sottolineando come questa conduca ad effetti
regressivi e contribuisca a definire una nuova fase della cognitività umana caratterizzata da processi logici non sequenziali, atteggiamenti nonalfabetici, propensione all’ascolto con conseguente perdita della forma
mentis preposizionale.18
Al contrario, Parisi sottolinea l’importanza dell’apprendimento per
immagini collocandolo nell’alveo degli strumenti didattici che consentono l’apprendimento per simulazione.19
16
Cfr. P. Chandler, J. Sweller, Cognitive load theory and the format of instruction, in
Cognition and Instruction, 1991, n. 8.
17
F. Landriscina, Ma si fanno i conti con il carico cognitivo?, in Je-LKS Journal of
e-Learning and Knowledge Society, n.1, 2007, p 66.
18
Cfr. R. Simone, La terza fase. Forme di sapere che stiamo perdendo, Laterza, RomaBari 2000.
19
Cfr. D. Parisi, [email protected]. Come il computer cambierà il modo di studiare dei nostri
figli, Mondadori, Milano 2000; cfr. anche F. Antinucci, La scuola si è rotta. Perché cambiano i modi di apprendere, op. cit.
114
Un’officina di uomini
Il dibattito, confluito sulla rivista Sistemi intelligenti prima20 e su
TD – Tecnologie didattiche dopo,21 è sostenuto in entrambe le posizioni
dalla teoria rappresentazionale della mente e, rispettivamente, dai proposizionalisti e dai pittorialisti. Ambedue gli orientamenti condividono
il presupposto che la mente è un sistema che elabora rappresentazioni
che sono il portato di una relazione causale con il mondo; ma mentre i
proposizionalisti considerano le rappresentazioni costituite da descrizioni preposizionali, i pittorialisti sono orientati ad individuarle in immagini mentali vere e proprie. Il dibattito è sanato attraverso la proposta
di non contrapporre il “dire” al “fare” e individuando nelle comunità
di apprendimento virtuali il luogo per riparare la spaccatura perché in
esse la dimensione linguistica e verbale risolve (o fonda) la dimensione di esistenza e di possibilità: «è soprattutto in casi come questi che
apprendere implica interagire socialmente e costruire interattivamente
le chiavi di interpretazione della realtà attraverso quel medium che è
il linguaggio».22
Altrettanto interessante e problematicizzante l’approccio comparativo utilizzato da Calvani per sciogliere l’annosa questione se sia meglio
utilizzare un approccio didattico costruttivista o istruttivista. L’Autore fa
riferimento ad una ricerca di Joel Michael in cui si sostiene il primato
di un approccio attivo all’apprendimento basandosi su un’importante
raccolta e documentazione di dati23 e ad un’altra, di segno opposto,
di Kirschner ed altri autori 24 in cui si dimostra come metodologie più
attive di apprendimento, orientate al cooperative/collaborative learning
e alla metodologia della ricerca creino un sovraccarico cognitivo tale da
rendere più difficoltoso il raggiungimento degli obiettivi di istruzione e
di formazione. Calvani, nel riportare brevemente i dati delle succitate
ricerche25 calibra il dibattito proponendo una prospettiva critica, com20
Cfr. D. Parisi, Nota su un libro di Raffaele Simone in Sistemi intelligenti, n. 3, dicembre 2000 e R. Simone Risposta a Parisi, ivi.
21
Cfr. S. Manca, Multimedialità, comunicazione ed apprendimento: una rivisitazione dei rapporti tra parola, immagine ed azione, in TD – Tecnologie didattiche, 24, n. 3,
2001.
22
Ivi, p. 15.
23
Cfr. J. Michael, Where is the evidence that active learning works?, in Advan Physiol
Educ., 2006, 30; in rete: http://advan.physiology.org/cgi/reprint/30/4/159
24
Cfr. P.A. Kirschner, J. Sweller, R.E. Clark, Why minimal guidance during instruction does not work: An analysis of the failure of constructivist, discovery, problem-based,
experiential, and inquiry-based teaching, in Educational Psychologist, 46 (2), 20006; in rete:
http://www.cogtech.usc.edu/publications/kirschner_Sweller_Clark.pdf
25
Cfr. A. Calvani, Costruttivismo o istruttivismo. Una questione eterna mai risolta? in
Je-LKS Journal of e-Learning and Knowledge Society, n 1, 2007.
Appendice 115
parativa, non ideologica e per nulla ingenua: il centro della riflessione
è l’expertise del discente; tanto meno il discente padroneggia il dominio
oggetto di studio tanto più avrà bisogno di una guida di tipo istruttivo;
tanto più il discente è esperto tanto meno avrà bisogno di una guida
istruttiva, da sostituirsi con un approccio attivo in cui la metodologia
didattica opera e vincola maggiormente l’ambiente di apprendimento e
in tono minore il soggetto che apprende, come negli ambienti didattici
costruttivisti.
Questa prospettiva pare adatta anche a dirimere la questione in
ambienti virtuali, dove l’apparato tecnologico e mediale è un ulteriore
elemento da aggiungere alle variabili in campo. Così alla luce della prospettiva proposta la tripartizione dei modelli di e-learning in:
• erogative: content & support – interazione studente/contenuto
• active: wrap around – interazione studente/docente
• integrated model: collaborative – interazione studente/studente26
non appare più rigidamente tassonomica perché ciò che può fare la
differenza, oltre alla progettazione e alla gestione, è la figura dello studente e le conoscenze e competenze con le quali affronta l’ambiente e
il percorso formativo.
Dunque i mezzi di comunicazione influiscono anche sul modello e
sul metodo didattico. Questa evidenza è dimostrata dagli stravolgimenti
che i nuovi sistemi di comunicazione e i nuovi media di intrattenimento
hanno prodotto nel mondo dell’educazione e della formazione. D’altra
parte è altrettanto evidente che i pedagogisti, i didatti, ma anche alcuni tecnologi dell’istruzione hanno reagito sottolineando come questa
“intrusione” non sia di per se stessa didattica, se non governata da un
processo che è tale nelle sue intenzioni. Questa posizione, profondamente condivisibile e condivisa, è circoscritta a tutto quell’universo educativo che è istituzionale e formale ma, probabilmente, l’influenza più
profonda, più radicata e con maggiori ripercussioni sul futuro, i media,
la esercitano all’interno del vastissimo panorama dell’informal learning
sostenuto tanto dall’attenzione sempre maggiore verso le capacità di autoapprendimento, quanto dalle più avanzate tecnologie comunicazionali
“intelligenti” come il web.2.0
26
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