La certezza del diritto nell`età della decodificazione

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La certezza del diritto nell’età della decodificazione
CARLA FARALLI
1. La certezza del diritto dall’illuminismo al positivismo giuridico
Fin dall’antichità la certezza del diritto è stata considerata come una caratteristica
essenziale e costitutiva del diritto ed è stato sostenuto che essa può essere garantita in
primo luogo da leggi generali ed astratte. Queste, infatti, riguardando non il singolo, ma
la generalità e regolando non comportamenti particolari, ma una classe di
comportamenti, ci danno la possibilità di prevedere la valutazione che il diritto dà delle
nostre azioni e quali conseguenze giuridiche possano derivare dalla nostra condotta1.
Ma è un’illusione che generalità ed astrattezza delle leggi assicurino di per sé la
certezza, per garantirla occorrono, come è stato ampiamente e persuasivamente
sostenuto2, presupposti materiali, quali la possibilità di conoscenza delle leggi da parte
dei destinatari, l’uniformità di interpretazione da parte degli organi giudicanti,
l’efficacia dell’ordinamento, tutte condizioni che richiedono stabilità e coesione sociale.
Com’è noto, l’ideale di un diritto certo, conoscibile e prevedibile, diviene motivo
centrale del pensiero giuridico del Settecento: tutto il pensiero giusnaturalistico moderno
è percorso dall’esigenza di garantire gli individui, tutti uguali e liberi in forza della legge
di natura, da qualsiasi possibilità di arbitrio. A tal fine, secondo Locke, occorre
«dispensare la giustizia e decidere intorno ai diritti dei sudditi con leggi promulgate e
fisse e giudici autorizzati e conosciuti». È per questo, infatti, conclude Locke che «gli
uomini rimettono tutto il loro potere naturale alla società in cui entrano e la comunità
pone il potere legislativo nelle mani che giudica opportune, con la fiducia che sarà
governata da leggi dichiarate, altrimenti la pace, la tranquillità e la proprietà rimarranno
sempre nella stessa incertezza in cui si trovavano allo stato di natura» (Locke 1982, §
136).
Il fine indicato da Locke fu perseguito in gran parte degli stati dell’Europa
continentale attraverso le codificazioni che, tuttavia, ben lungi dall’essere una
traduzione in norme positive dei principi ideali dl diritto naturale, come avrebbero
voluto i giusnaturalisti, si risolsero in una semplice “consolidazione” di norme
preesistenti, romane o consuetudinarie3. Ciò che dell’ideologia illuministica i codici
accolsero, come sottolinea Fassò (1994, 15 ss.), fu il principio meno giusnaturalistico,
quello che anzi racchiudeva in sé il più attivo germe del positivismo giuridico: il
principio cioè che il codice dovesse essere completo, in modo che all’interprete fosse
lasciata la minima libertà possibile. In alcuni progetti era stato addirittura stabilito
1
Oltre al significato qui adottato, con il termine certezza, come ha tra gli altri evidenziato L.
Lombardi Vallauri (1975, 567ss.), sono stati intesi diversi aspetti del fenomeno giuridico, quali la
conformità del diritto a standards di giustizia, l’effettività dell’ordinamento giuridico, la stabilità del
diritto nel tempo ecc.
2
Il riferimento è, in particolare, a M. Corsale (1979). Per una bibliografia essenziale sul tema della
certezza del diritto cfr. Gianformaggio 1988; Corsale 1988; e Pizzorusso 1988.
3
Classico sul tema rimane Tarello 1976.
1
l’obbligo per il giudice, nel caso di silenzio, di contraddizione o di oscurità della legge,
di ricorrere alla commissione legislativa: e questo per affermare il principio che nessuno
potesse “creare” diritto tranne il legislatore. Nessuno dei testi definitivi dei codici giunse
a questo estremo, ma si stabilì ugualmente che il giudice dovesse attenersi strettamente
alla parola della legge e che, nel silenzio di questa, dovesse decidere secondo i principi
generali del codice stesso e secondo le norme di esso regolanti casi analoghi a quello in
questione.
Nella teoria della codificazione il problema della certezza del diritto trova quindi
risposta - sia dal punto di vista della produzione sia dal punto di vista della applicazione
- in una gerarchia delle fonti in cui al livello più alto si trova la volontà sovrana (la
legge) e in posizione subordinata l’interpretazione dei giudici, che altro non sono, per
dirlo con le parole di Montesquieu, che «la bocca che pronuncia le parole della legge,
esseri inanimati che della legge non possono moderare né la forza né il rigore» (1973,
LXI, cap. 6).
Le codificazioni costituirono, così, l’involontario ponte tra giusnaturalismo e
positivismo giuridico ottocentesco, espressione di un’epoca di sostanziale stabilità
economica e sociale, caratterizzata dal monopolio politico e legislativo della borghesia,
la quale sola trovava piena espressione nella legge, a differenza delle altre forze sociali
che, a causa della limitazione del diritto di voto, non avevano alcun tipo di
rappresentanza.
Noi non potremmo capire il significato pregnante di questa concezione, sostiene
Zagrebelski (1992), se pensassimo alla legge come alle leggi che conosciamo oggi:
numerose, mutevoli, frammentarie, occasionali, contraddittorie.
La legge per eccellenza era allora il codice: nel codice si trovavano riunite ed
esaltate tutte le caratteristiche della legge, cioè la volontà positiva del legislatore, capace
di imporsi indifferentemente su tutto il territorio della stato e operante per la
realizzazione di un progetto giuridico di ragione (la ragione della borghesia liberale); il
carattere deduttivo dello svolgimento delle norme; la completezza, la generalità e
l’astrattezza.
Proprio in quanto generale ed astratta la legge era ritenuta capace di garantire
l’imparzialità dello stato di fronte ai cittadini, la conseguente eguaglianza giuridica di
questi ultimi e la prevedibilità delle conseguenze giuridiche dell’agire individuale,
esigenza fortemente sentita dalla intraprendente borghesia del tempo.
È stato scritto che un diritto che realizzi pienamente il valore della certezza
rappresenta un ideale al quale i diritti storici possono approssimarsi più o meno
notevolmente senza però avere la pretesa o illusione di realizzarlo. Il diritto codificato
del secolo scorso, nella misura in cui si avvicinò a tale ideale, vi riuscì non perché
costituito da norme generali ed astratte, ma perché la società era sostanzialmente stabile
e le norme raccolte nei codici e uniformemente interpretate dai giudici, secondo una
comune ideologia, ben rispondevano alle esigenze del tempo (Ferrari 1989, 150ss.).
Ma, a partire dalla fine dell’Ottocento, le profonde trasformazioni sociali ed
economiche, conseguenti alle diverse fasi della rivoluzione industriale, il progressivo
venire meno della egemonia della classe borghese e il livellamento tra le diverse classi
sociali hanno prodotto conseguenze profonde anche in ambito giuridico. In una società
caratterizzata da rapide trasformazioni, da una grandissima mobilità e da una continua
2
diversificazione di gruppi e strati sociali, la legge con le sue caratteristiche di generalità
e di astrattezza perde progressivamente la sua centralità. Il dogma della completezza
dell’ordinamento giuridico diventa insostenibile in una realtà in trasformazione, in cui
sempre nuove attività e nuovi rapporti economici fanno continuamente sorgere la
necessità di corrispondenti nuovi istituti e nuovi rapporti giuridici. Conseguentemente,
si affaccia l’idea di un ruolo “creatore” del giudice, che, nella sua attività, non si limita a
ricorrere a procedimenti puramente logico-formali, ma interpreta le esigenze profonde
delle società - economiche, etiche, sociali - per colmare le lacune che nel diritto esistono
e non possono non esistere.
Non a caso in questo clima di instabilità cominciano a manifestarsi le prime
critiche alla certezza dl diritto, sia da parte di un giuspositivista come Hans Kelsen, sia
da parte di un anti-formalista come Jerome Frank.
Kelsen (1952, 99) tiene una posizione scettica nei confronti della certezza,
liquidandola sbrigativamente come un’illusione; Frank, uno degli esponenti più estremi
di quella “rivolta contro il formalismo”, che costituisce l’espressione più radicale della
mobilissima società americana, compie di essa la critica più corrosiva.
2. La critica di Jerome Frank al “mito” della certezza del diritto
Il compito che Frank (1932a, 568) si prefigge è quello di abbattere l’edificio di finzioni
giuridiche che sostanziano il “mito” della certezza del diritto e di promuovere,
sull’esempio di Holmes, “primo giurista veramente adulto”, una scienza giuridica
“adulta”, consapevole della realtà dei fatti.
Il punto di partenza della riflessione di Frank, come peraltro di quasi tutti i realisti
americani, è il rifiuto di definire il diritto: esso viene assunto come una “nozione d’uso”,
non come un concetto da definirsi4.
In Law and Modern Mind, Frank, rifacendosi ad Holmes, aveva tentato una
definizione di diritto, affermando che per ogni situazione data il diritto è o diritto vero e
proprio, cioè una decisione specifica già presa, o diritto probabile, vale a dire una
congettura riguardo alla decisione futura concernente il caso specifico. Quindi, in
sintesi, il diritto consta di concrete e specifiche decisioni passate e di congetture su
concrete e specifiche decisioni future5.
Ma fin dagli anni immediatamente successivi alla pubblicazione di Law and
Modern Mind, negli articoli Are Judges Human? del 1931 e What Courts Do in Fact del
1932, Frank rettifica la sua posizione, concludendo che ci sono parole che se si potesse
farlo sarebbe bene abolire, perché la loro vaghezza provoca dispute futili e senza fine,
«Ma ahimè, non c’è la possibilità che un movimento per l’abolizione delle parole
ambigue abbia successo. Comunque, per quel che è possibile, l’uso di tali parole
4
Per un esame approfondito della critica dei realisti al diritto in quanto concetto, cfr. G. Tarello
(1962, 73ss.).
5
Cfr. Frank 1949a. Tra il 1930 e il 1949 l’opera ebbe sei edizioni; alla sesta è premessa una lunga
introduzione in cui Frank precisa il suo punto di vista e la sua collocazione all’interno dell’orientamento
realista. Per la bibliografia di Frank si vedano F. Paul (1959, 158-62) e W.E. Volkomer (1970, 225-31).
3
ingannevoli può essere ridotto. Diritto è una tipica parola di quel genere» (Frank 1932b,
645).
E molti anni dopo, riflettendo sull’evoluzione del suo pensiero, Frank (1949b, 6667) ricorda: «diciannove anni or sono pubblicai un libro in cui ero così folle da
arrischiare una mia definizione di diritto […]. Mi trovai immediatamente nel mezzo di
una querelle terminologica con altri giuristi che definivano in modi diversi il diritto.
Prontamente mi ritirai da simili battaglie verbali. Da allora ovunque possibile ho evitato
l’uso della parola diritto. Ho invece dichiarato direttamente - senza far intervenire
definizione alcuna di quella vaga e litigiosa parola - ciò di cui stavo parlando, e cioè
quanto i tribunali e gli avvocati fanno o quanto dovrebbero fare oppure l’intero campo
dell’amministrazione della giustizia».
L’ostinazione con la quale i giuristi continuano a definire il diritto si spiega,
secondo Frank, con la volontà mistificatrice di presentare l’esperienza giuridica come
certa. «Vi sono dozzine di diverse definizioni di questa parola - egli argomenta - e quasi
tutte sono formulate in modo da far ritenere che il diritto sia sostanzialmente certo,
definito e uniforme, quantunque le decisioni dei tribunali non lo siano. Escludendo dalle
definizioni tutto ciò che è palesemente incerto e non uniforme, coloro i quali hanno
definito il diritto sono riusciti a convincere loro stessi e con loro molti altri che gli
elementi peculiari di incertezza sono senza significato, non essendo elementi del diritto
così come definito. In questo modo i legal magicians trovano appoggio in un diritto che
è o può essere piuttosto stabile e rifiutano di tenere conto del fatto che l’esito delle cause
è affidato al caso»6.
L’ambiguità del termine diritto deriva da una conoscenza volutamente parziale
della realtà giuridica: solo la parte formale, normativa, è stabile e questa è stata ritenuta
fondamentale; i fattori che pure intervengono, ma che sono caratterizzati da
mutevolezza e contingenza, sono stati etichettati come irrilevanti.
La critica di Frank al concetto di diritto investe anche il diritto soggettivo come
una pretesa che ha già avuto successo o che presumibilmente avrà successo in quanto è
altamente ipotizzabile che il suo titolare riuscirà a persuadere un giudice ad emettere un
provvedimento a lui favorevole. Nella società primitiva gli individui combattevano per
assicurarsi dei beni, nella società moderna tra i singoli e le loro istanze ci sono i
tribunali, ma «l’oggetto diretto e immediato del combattimento in tribunale è lo stesso,
cioè far fare ad altri ciò che costituisce l’oggetto della pretesa».
Nella società primitiva il vincitore otteneva non solo il riconoscimento del proprio
diritto, ma anche che il perdente agisse di conseguenza, nella società moderna il
vincitore è colui che nel combattimento svoltosi in tribunale riesce a persuadere la corte
a pronunciarsi in suo favore e quindi può avvalersi del suo diritto, riconosciutogli
dall’autorità giudiziaria, nei confronti del perdente. Nella società primitiva la garanzia
6
Nel capitolo IV dell’opera sopra citata (Frank 1949b, 37 ss.), intitolato Modern Legal Magic, Frank
definisce come legal magic il guardare la realtà non come essa è, ma attraverso la lente deformante delle
proprie preferenze e dei propri ideali: sua funzione essenziale è occultare i fattori contingenti e
determinanti incertezza nel diritto. «I praticanti del moderno magismo desiderano un sistema giuridico in
cui ci siano relativamente pochi mutamenti […]. Essi vogliono credere che i loro desideri siano esauditi,
così invece di dire ‘questo è ciò che vorrei accadesse nelle corti’ dicono ‘questo è ciò che solitamente
accade’».
4
dell’applicazione del diritto era la forza delle armi, nella società moderna tale sicurezza
è data da armi che sono puramente verbali, sono strumenti di persuasione, mezzi per
piegare la mente dei giudici o della giuria al fine di ottenere il provvedimento
favorevole. Le singole cause prendono il posto dei singoli combattimenti materiali,
costituiscono la strada che conduce ai diritti. Non esistono perciò diritti soggettivi
precedenti il dibattito in aula: «un diritto è una causa vinta e un dovere è una causa
persa» (Frank 1949a, 46; 1949b, 8ss., 16, 24, 27, 103ss.).
Ma quali argomentazioni possono essere fatte valere per assicurarsi una posizione
soggettiva vantaggiosa?
Per lo più si ritiene che i giudici si facciano persuadere da un argomento che
procede sillogisticamente da una premessa maggiore, normativa, a cui si sentono
vincolati, e da una premessa minore, assertiva di un fatto provato, alle quali segue una
conclusione giuridica. Ma, sostiene Frank, in primo luogo «i fatti e le regole giuridiche
interagiscono nel processo di decisione e non rappresentano affatto, come vorrebbe la
teoria tradizionale, entità indipendenti che giocano l’una sull’altra solo sillogisticamente
nel determinare una decisione, […] il giudice non separa certamente le sue conclusioni
sui ‘fatti’ dalle sue conclusioni sul ‘diritto’».
Supponiamo che nell’ascoltare i testimoni il giudice pensi che una particolare
formulazione di una particolare regola sarà atta a risolvere il caso. Tale regola allora
servirà come guida alla sua attenzione, cioè polarizzerà la sua attenzione sulla
testimonianza e sul comportamento di quei testimoni che si riferiscono a fatti
specificamente rilevanti per la sua versione della regola, ma se, nel corso del processo, il
giudice cambia idea sulla formulazione corretta della regola, egli non può più ricordare
bene le testimonianze rilevanti per la nuova formulazione della regola (Frank 1949a,
116; 1949b, 181).
Le norme, poi, alla luce dell’analisi di Dewey nel saggio Logical Method and Law
(1924)7, entusiasticamente definito da Frank (1949a, 337) «the best available
description of the logical method employed by judges»8, non sono pronte, a portata di
mano, per essere applicate così come sono in un sillogismo; esse hanno una funzione
meramente indicativa, sono semplicemente, come Frank le definisce, «leve
psicologiche, ponti o scale mentali, cartelli indicatori, modi di riflessione come - se,
convenienti ipostatizzazioni, formulazioni provvisorie, pali indicatori, guide» che
lasciano nel «terreno paludoso dell’incertezza» (1932b, 761; 1949a, 167).
Il fatto, a sua volta, secondo Frank non è qualcosa che esiste prima che la causa
cominci: esso non è ciò che è realmente accaduto tra le parti in causa, ma ciò che la
corte ritiene sia successo: in ogni caso specifico controverso il fatto in sé non è
conosciuto ed è inconoscibile anticipatamente al giudizio emesso dalla corte.
Sull’influsso esercitato da questo saggio di Dewey sui realisti rinvio a C. Faralli (1990, 137ss.).
All’analisi del pensiero di Dewey, Frank dedica un lungo saggio Modern and Ancient Legal
Pragmatism. John Dewey & Co. Vs. Aristotle (1950). In questo articolo, pur sottolineando i meriti
indiscussi del filosofo americano per aver liberato il diritto dal mondo astratto delle elaborazioni
concettuali e riconoscendogli la funzione di guida “ideale” per aver stabilito un rapporto veramente nuovo
e importante tra teoria e pratica, Frank critica pesantemente Dewey e quelli che definisce legal Deweystes
(tra i realisti Llewellyn e Cook) per essersi limitati ad analizzare l’opera dei tribunali di grado superiore,
trascurando l’analisi dei fatti, la cui determinazione è compito proprio dei tribunali di grado inferiore.
Valutazioni analoghe sull’opera di Dewey sono espresse in Courts on Trial (Frank 1949b, 193).
7
8
5
Secondo Frank, pochi giuristi, anche tra i realisti, si sono occupati del problema
della determinazione dei fatti, ossia degli eventi che hanno portato all’azione
giudiziaria, compito peculiare dei tribunali in grado inferiore (trial courts), l’attività dei
quali è invece importantissima, sia perché costituisce la parte quantitativamente più
rilevante del sistema giudiziario americano, sia perché le scelte della corte d’appello
dipendono dall’accertamento dei fatti compiuto nella prima istanza9.
Con riferimento ai fatti Frank distingue due fasi: la prima, precedente il processo
vero e proprio, comprende il fatto stesso che ha determinato il ricorso alla giustizia e il
reperimento delle testimonianze: la seconda, invece, riguarda il processo nella sua
attuazione e, più in particolare, il comportamento dei testimoni, dei giudici e della
eventuale giuria. Nella maggior parte dei casi, secondo Frank, i fatti determinati nel
corso del processo non corrispondono ai fatti realmente accaduti, e questo avviene per
vari fattori.
In primo luogo il racconto di ciò di cui una persona è stata testimone dipende dalle
sue capacità sensoriali, emozionali e culturali. Inoltre, quando un testimone fa la sua
deposizione, riferisce ciò che ricorda di quello che ha osservato, visto o udito nel
passato. «Un testimone - osserva Frank - non è una pellicola fotografica o una
registrazione discografica»: nel suo racconto possono intervenire vari fattori d’errore.
A parte il caso in cui il testimone dica volontariamente il falso, egli può aver
osservato erroneamente l’evento […], «la percezione umana è fallibile, soggettiva, è
influenzata da difetti di vista, di udito o dalle condizioni emotive o psicologiche nonché
da preconcetti. Come centinaia di esperimenti hanno dimostrato, due osservatori dello
stesso fatto spesso si trovano in disaccordo» (Frank 1949a, 107ss.). Ma, anche
ammettendo che un testimone non abbia compiuto errori nell’osservazione del fatto, egli
può ricordare in modo sbagliato ciò che ha osservato correttamente. «Molti testimoni
hanno una memoria immaginativa, e cercando di descrivere il fatto che nella memoria
sta svanendo o sforzandosi di darne una descrizione completa, sostituiscono la fantasia
al fatto o costruiscono secondo buon senso il fatto dimenticato» (Frank1949b, 17-18) .
Il giudice, a sua volta, «è esso stesso testimone, un testimone di un testimone»
(Idem 1953). La sua difettosa osservazione dei testimoni, dovuta a disattenzione o ad
altri fattori, i suoi errori nel ricollegare quanto percepito, influenzano la sua
determinazione dei fatti.
Per lo più - osserva Frank - si fa riferimento alle inclinazioni politiche,
economiche, sociali del giudice, ma queste sono facilmente riconoscibili e non sempre
intervengono, mentre costantemente agiscono una quantità di elementi, molti dei quali
inconsci, come disposizioni momentanee o inclinazioni istintive particolari.
Ad esempio, «le simpatie o le antipatie del giudice, le preferenze o meno per le
donne bionde, per gli uomini con la barba, per i Sudisti, gli Italiani o gli Inglesi, gli
idraulici, i ministri, i laureati o gli appartenenti al Partito Democratico interferiscono
sulle sue valutazioni dei testimoni, degli avvocati e delle parti in causa. Una certa
9
Sulla centralità delle corti di grado inferiore nel sistema giudiziario americano si vedano, in
particolare, Frank 1931, 242; 1932a, 597; 1947a, 1311; 1947b, 1273; 1949b, 4 e 23. L’aver trascurato
l’opera delle corti di grado inferiore ha impedito, secondo Frank, ad un’ala del realismo, i rule skeptics,
che pure rivendicava, in polemica col formalismo, l’importanza del diritto in azione, di compiere
un’analisi approfondita della realtà. Alle critiche di Frank ai rule skeptics replicò Llewellyn 1962.
6
pronuncia nasale, un certo modo di tossire o di gestire possono richiamare alla memoria
del giudice ricordi piacevoli o spiacevoli. E tali ricordi, mentre egli ascolta un testimone
che presenta quella pronuncia, quella tosse o quei gesti, possono influenzare il modo in
cui il giudice recepisce la testimonianza e, in un secondo momento, il modo in cui
ricostruirà ciò che il teste ha detto, nonché l’importanza o la credibilità da attribuire alla
testimonianza medesima (Frank 1949a, 106).
Tutto ciò dimostrerebbe, secondo Frank, che la giustizia è una faccenda molto
personale, che riflette il temperamento, la personalità, l’educazione, l’ambiente, i
caratteri peculiari del giudice e, se la personalità del giudice è il fattore chiave
dell’amministrazione della giustizia, come l’analisi della realtà dimostra, allora il diritto
è destinato a variare a seconda della personalità del giudice che si occupa di un
determinato caso.
Molti critici hanno rimproverato a Frank di aver troppo insistito sui fattori
individuali10 e ad essi il giurista americano replica, affermando di non aver nessuna
ingenua nozione di un giudice senza pregiudizi: non è mai esistito e mai esisterà. «Ciò
che io desidero non è vivere in una società in cui tali giudici subumani o superumani
esercitino il loro potere […], ma è auspicabile, e io lo ritengo possibile, avere giudici
sufficientemente consapevoli delle proprie inclinazioni e capaci di contenerne gli effetti
deleteri» (Frank 1932b, 764; v.anche1947a, 1308-309; e 1949b, 413).
Quanto detto per i testimoni e i giudici vale, secondo Frank, anche per la giuria: le
percezioni soggettive, le inclinazioni, i pregiudizi influenzano profondamente l’esito del
lavoro dei giurati che, per di più, hanno scarsa familiarità con le regole, i precedenti, il
linguaggio giuridico in generale. «È inconcepibile - osserva Frank (1949b, 116) - che un
gruppo di dodici uomini comuni, casualmente presi e uniti per pochi giorni, possano,
semplicemente ascoltando le parole del giudice, giungere alle conoscenze necessarie per
comprendere quelle parole che spesso hanno acquistato il loro significato dopo centinaia
di anni di dispute professionali»11.
Tutto ciò porta Frank a concludere che ogni processo è da considerarsi a sé stante
e risulta impossibile una qualche previsione della sentenza. Sia il diritto, in generale, sia
i diritti soggettivi, in particolare, non hanno una loro definizione precedentemente alla
trattazione della causa.
Nonostante l’esame del comportamento delle corti dimostri che nelle questioni
giuridiche il coefficiente di incertezza è incredibilmente alto, continua a perdurare tra gli
uomini di legge e tra la gente comune il mito della certezza del diritto, la cui origine
Frank si propone di svelare.
Rielaborando teorie psicologiche, in particolare di Freud e di Piaget, che si
andavano affacciando sulla scena americana intorno agli anni Trenta, con una certa
superficialità e con quell’esaltazione tipica di colui che crede di essere giunto a scoprire
verità fondamentali rimaste a lungo nascoste, il giurista americano si dichiara convinto
che nei problemi infantili e nel modo in cui il bimbo cerca di risolverli si possono
rinvenire le origini di molte delle illusioni più tenaci degli anni della maturità (Frank
1949a, 13 ss.).
10
A titolo esemplificativo si vedano alcune delle recensioni a Courts on Trial (Frank 1949b), ad
esempio Rodell 1949; Bendix 1950; Stone 1950; Roberts 1950.
11
Sulla giuria si vedano anche Frank 1949a, 170-85, 302-09; 1942, 80-90, 95ss.
7
Alla nascita, il bambino viene letteralmente forzato a entrare in un mondo nuovo:
egli deve respirare e nutrirsi, iniziare cioè la sua lotta per l’esistenza. I suoi bisogni sono
al principio pochi e il soddisfarli non gli costa molto sforzo; i genitori, poi, fanno del
loro meglio per appagare i suoi desideri. Proprio per questo motivo il bambino
sperimenta una sensazione di onnipotenza, visto che gli basta chiedere per essere
prontamente obbedito. A mano a mano che il bambino cresce, però, la sua onnipotenza
diminuisce. Ciò nonostante «egli non dubita nemmeno un momento dell’esistenza
dell’onnipotenza. Per lui il caso non esiste: ciò che è contingente e accidentale non è da
lui concepito».
Trascorsa la prima infanzia, cala nella consapevolezza del bambino il suo potere
di controllo e di organizzazione della realtà, ma il fanciullo si fa forte della convinzione
che i genitori possano farlo per lui. Egli «si aggrappa alla credenza che il padre è
onnisciente e onnipotente, che istituisce delle regole di condotta infallibili e perfette».
Nella secolare suddivisione di ruoli nella società patriarcale, alla figura maschile,
in quanto capofamiglia, è sempre stata attribuita la funzione di guida, di giudice, di
arbitro; alla madre, invece, quella di soddisfare il bisogno di protezione e di tenerezza.
Il padre impersona ciò che è certo, sicuro, infallibile, e, nonostante le quotidiane
smentite a questa immagine, il bimbo non prende mai completa coscienza della realtà,
non è disposto ad accettare completamente la disillusione.
Col tempo altre persone prendono il posto del padre: il prete o il pastore, i
governanti o i capi del gruppo. Tutti, prima o poi, finiscono col tradire le aspettative, ma
il bisogno della autorità paterna non viene meno. I sostituti del padre diventano sempre
più indefiniti, più vaghi e impersonali, tuttavia quel tipo di relazione costituisce il
paradigma, il prototipo dei rapporti successivi.
Se agli occhi del bambino il padre è un giudice infallibile, un creatore di precise
norme di condotta, per l’uomo adulto il diritto, cioè quell’insieme di regole che
sembrano stabilite per fissare in maniera infallibile ciò che è giusto e ciò che è ingiusto,
diventa inevitabilmente un «sostituto parziale del Padre, in qualità di Giudice
Infallibile».
In altre parole, il desiderio infantile di affidarsi ad un padre, le cui capacità e
conoscenze sono illimitate, non scompare in età adulta e trova soddisfazione in una
«inconscia e antropomorfica concezione del diritto», ovvero nella «attribuzione al diritto
delle caratteristiche del Padre - Giudice infantile».
Conseguentemente, gli uomini che non hanno ancora abbandonato del tutto il
bisogno infantile dell’autorità paterna, e, inconsciamente, ricercano nella legge un
sostituto per quelle qualità di fermezza, stabilità, sicurezza, certezza e infallibilità, che
durante la loro infanzia attribuivano al padre, assegnano al diritto una certezza che però
è irrealizzabile. Infatti - sottolinea Frank (1949a, 6) - neppure in presenza di un ordine
sociale stabile è possibile prevedere tutti i cambiamenti e le combinazioni future degli
eventi: si verificano sempre situazioni nuove che non potevano essere previste nel
momento della prima formulazione della legge, a maggior ragione, quando le relazioni
umane si trasformano quotidianamente, le relazioni giuridiche non possono venire
formulate in maniera durevole.
La critica ha rilevato che la riduzione della questione della certezza del diritto ad
una analogia con alcuni atteggiamenti scoperti dalla psicologia infantile è in sé un po’
8
ingenua e fortemente discutibile se presentata, come fa Frank, da un punto di vista
scientifico12.
Come si è detto, il problema della certezza del diritto può trovare una giusta
collocazione solo all’interno di una ricerca storico-sociologica approfondita, cosa che
Frank non fa. Limitandosi ad accogliere entusiasticamente i dettami della psicologia
infantile, applicandoli senza alcun rigore, ma solo sulla base di analogie, spesso solo
apparenti, ad un ambito diverso, quello del diritto che, a differenza delle altre figure
alternative a quella del Padre - Giudice infallibile infantile, non è una persona. È
opportuno sottolineare, infatti, che, secondo Frank, non sono i giudici a ricoprirsi del
manto dell’assoluta certezza, ma è l’insieme delle norme e delle regole che
costituiscono formalmente il diritto.
L’opera di Frank ha avuto grande successo in America - nonostante abbia
suscitato anche aspre critiche del tenore di quelle cui si è fatto cenno - e ha avuto il
merito di stimolare studi sulle riforme processuali (Glennon 1985).
In gran parte dell’Europa continentale, e soprattutto in Italia, invece, le tesi di
Frank, considerate espressioni di una mentalità tipica di un ordinamento di common law,
non sono state oggetto di grande attenzione e sono state per lo più criticate per il loro
estremismo, una certa ingenuità e una buona dose di banalità13.
Critiche in gran parte condivisibili; tuttavia è interessante rilevare che Frank
sposta il discorso sulla certezza del diritto dal piano oggettivo al piano soggettivo,
sottolineando che la certezza non è una caratteristica intrinseca del diritto, bensì una
esigenza individuale.
Questo aspetto dell’opera di Frank si presta ad una più consapevole valutazione
oggi, in cui, tra l’altro, le differenze tra sistemi di civil law e sistemi di common law
sono più sfumate.
3. La certezza del diritto nell’età della decodificazione
Gli stati contemporanei, come altri hanno sottolineato in diversi saggi di questa raccolta,
presentano trasformazioni profonde che li hanno sempre più allontanati dal modello
dello Stato di diritto, proprio, come si è detto, del liberalismo e del positivismo
ottocentesco, incentrato sull’assoluto predominio della fonte legislativa.
La perdita di centralità della legge è resa palese dal forte ridimensionamento dello
strumento che può essere considerato l’emblema della pretesa del legislatore di avocare
a sé la disciplina della vita sociale e il codice.
I codici e le norme generali ed astratte in esso contenute hanno perso
progressivamente e quasi completamente la loro centralità: siamo oggi, per dirlo con una
frase famosissima di Natalino Irti, nell’età della decodificazione, caratterizzata dalla
12
Critiche di questo tenore vennero a Frank anche dall’interno del movimento realista, inteso in senso
lato, ad esempio da R. Pound (1931, 700); da M.R. Cohen (1967, 359-60). Obiezioni analoghe anche in
N. Bobbio (1951, 146-52); F. Paul (1959); S. De Grazia (1948, 203-04); G.W. Paton (1946, 19).
13
Oltre che nei contributi generali sul realismo americano - per i quali rimando all’aggiornata
bibliografia in S. Castignone (1995, 304ss.) - l’opera di Frank è stata discussa in Italia in due recensioni di
N. Bobbio (1951), e di G. Tarello (1957).
9
sempre maggiore importanza attribuita alle leggi speciali, dal formarsi di micro-sistemi
normativi logicamente autonomi, dal moltiplicarsi di leggi, leggine e provvedimenti
vari, spesso tra di loro scarsamente coordinati, pieni di formulazioni vaghe, equivoche
ed ambigue, frutto di incerte e precarie mediazioni politico-partitiche. È stato notato che
la nota tipica della legislazione odierna è il compromissismo che fa sì che la legislazione
da attività normativa razionale guidata dagli interessi generali si trasformi in un
coacervo di provvedimenti occasionali.
«La crisi della centralità del codice - sottolinea Irti (1979, 38, 96) - è solo
un’immagine della crisi dello stato moderno e così dell’emersione storica di gruppi e
classi, di categorie economiche ed élites che esigono specifici statuti e tavole di diritto
[…]. Il movimento delle norme speciali è fedele interprete di una società pulviscolare,
che non si riconosce in una comune tavola di valori».
Si assiste così ad un sostanziale ritorno a quel particolarismo giuridico, cioè a
trattamenti normativi differenziati, che aveva rappresentato il principale bersaglio dei
promotori delle codificazioni ottocentesche.
Il diritto dei codici è scaduto da diritto generale, applicabile salvo deroghe, a
diritto comune, applicabile solo alle fattispecie più generali, non caratterizzate da quegli
elementi particolari che ne hanno determinato la sussunzione sotto la legislazione
speciale.
La marginalizzazione del codice si è poi notevolmente accentuata, da un lato,
dopo l’entrata in vigore della Costituzione, dall’altro, a seguito della nascita di
istituzioni internazionali come, in primo luogo, l’Unione Europea.
La Costituzione infatti si pone ad un livello normativo gerarchicamente superiore
alla legislazione ordinaria, di cui il codice è espressione, sancendo diritti fondamentali e
regole cui la legge non può derogare.
L’Unione Europea, d’altra parte, è dotata di appositi organi produttivi di un diritto
comunitario di cui l’ordinamento italiano riconosce l’efficacia. La stessa Corte
Costituzionale in diverse pronunce ha affermato la capacità dei trattati comunitari di
derogare al sistema costituzionale delle fonti ed ha sottolineato il potere-dovere dei
giudici nazionali e degli organi della Pubblica Amministrazione di disapplicare, cioè
considerare non efficaci, le norme interne contrastanti con il diritto comunitario
direttamente applicabile.
Ulteriori fattori tra gli altri che hanno messo in crisi la legge statuale sono il diritto
internazionale privato e la cosiddetta lex mercatoria.
Il diritto internazionale privato, ovvero l’insieme delle norme che servono ad
individuare le regole applicabili ai rapporti tra italiani e stranieri, ha sempre maggior
rilevanza nelle odierne società multietniche.
La lex mercatoria, espressione con la quale, come è noto, si designa un diritto
derivante dagli usi, dai contratti e dai regolamenti degli ordini professionali nel campo
del commercio internazionale, applicato dagli arbitri, scelti dalle parti in alternativa ai
giudici nazionali, nelle decisioni delle controversie tra operatori commerciali di paesi
diversi, ha da tempo superato la frammentazione dei diritti nazionali, rispondendo alle
esigenze della globalizzazione dei mercati.
Questo stato di cose ha prodotto significativi cambiamenti sia sul piano teorico sia
sul piano pratico.
10
In primo luogo ne esce minata la tradizionale teoria delle fonti del diritto,
incentrata, come si è più volte detto, sul predominio della legge.
«Le concezioni classiche del diritto - argomenta Galgano (1990, 158) - non
collocano la sentenza e il contratto tra le fonti normative, ma, se continuassimo a
concepire il contratto e la sentenza come mere applicazioni del diritto e non come fonti
di diritto nuovo, ci precluderemmo la possibilità di comprendere in qual modo muta il
diritto nel nostro tempo».
Muta profondamente il ruolo del giudice: i giudici si trovano oggi nei sistemi di
civil law ad affrontare problemi analoghi a quelli di un judge - made law, ma senza il
retroterra culturale dei paesi di common law14. Infatti la produzione legislativa sempre
più abbondante, caotica, continuamente modificata, piena di formule oscure e
compromissorie, lascia aperti margini molto ampi di “creatività” da parte del giudice.
Tutto ciò ha minato alla base il principio della certezza del diritto: oggi nessun
cittadino, neppure il più esperto, è in grado di conoscere il diritto in vigore e,
conseguentemente, di prevedere la valutazione giuridica dei suoi comportamenti.
Si è posta quindi, drammaticamente, la questione di come recuperare un grado di
certezza accettabile, evidenziando che la certezza non è solo un elemento che attiene al
momento della produzione del diritto, ma anche un aspetto dell’applicazione giuridica.
La prima risposta formulata dalla dottrina è stata quella del ruolo da attribuire alla
Costituzione. In quanto posta al vertice la carta costituzionale, che pure ha determinato
la crisi della normazione legislativa, consente però di ricostruire l’unità del sistema, le
cui norme devono costituire attuazione o almeno non violazione di essa. Le norme
costituzionali, fornendo il parametro di legittimità delle norme ordinarie e tracciando le
linee di sviluppo delle norme speciali, riducono - o dovrebbero ridurre - l’incertezza dal
punto di vista della produzione normativa, lasciando intravedere un quadro di
riferimento (Zagrebelsky 1992; Irti 1979; Pegoraro 1998).
Anche dal punto di vista dell’applicazione, negli anni ’70 Fassò si appellava alla
Costituzione, proponendo di affidare alla Corte Costituzionale una funzione unificatrice
della giurisprudenza.
Di fronte alle trasformazioni della società contemporanea Fassò sottolineava la
necessità di rivedere il rapporto tra giudice e legge, ma rilevava con forza che la crisi del
diritto sotto forma di legge non potrà essere superata da un diritto lasciato alle decisioni
imprevedibili e incontrollabili dei giudici, che creino diritto secondo le loro convinzioni
personali. Infatti la giurisprudenza creatrice può sì condurre al liberalismo sociale di
Holmes (ma, in America, in una cultura di common law), ma anche al decisionismo di
stampo nazionalsocialista.
«Per conciliare i pregi del diritto in forma di legge con quelli del diritto fatto dal
giudice, evitandone per quanto possibile i rispettivi difetti, - concludeva Fassò (1972;
1974, 89ss.; 1982, 985ss.) - si sottopongano le leggi ad un giudice unico che possa
ricondurre il diritto alla coscienza del popolo. Non sarebbe nulla di rivoluzionario, ma
solo l’applicazione della Costituzione».
L’osservazione è di A. Giuliani 1982. Interessanti annotazioni sul mutamento del ruolo del giudice
nella pratica della vita italiana d’oggi in Corsale 1995.
14
11
Vari anni più tardi, nel 1987, anche Uberto Scarpelli invitava i giudici
costituzionali «a farsi elemento centrale e portante, matrice razionalizzante dell’intero
sistema», ma non senza un certo scetticismo.
Infatti la soluzione del controllo di conformità alla Costituzione, quale metodo per
conseguire una reductio ad unum delle norme giuridiche, appare problematica.
In primo luogo, la Corte Costituzionale decide in base a tecniche ed argomenti che
solo parzialmente sono giuridici, ma sono sostanzialmente di politica (quantomeno
costituzionale). Ogni decisione della Corte suscita dibattiti, spesso accesi, sulle
conseguenze non solo giuridiche, ma anche politiche che produce.
Inoltre, le norme costituzionali sono, per la loro ampiezza e compromissorietà,
ambigue e non rappresentano un criterio adeguato per il controllo dell’attività
interpretativa, la quale può pervenire sulla loro base a decisioni anche divergenti, tutte
giustificabili attraverso la disposizione interpretata.
Infine, ed è questo uno dei nodi più difficili da sciogliere, la Costituzione non
appare più esprimere un’immagine dello Stato e della società unanimemente condivisi.
L’esito dell’attuale incertezza del sistema giuridico viene da altri autori
individuato nei princìpi, sia da un punto di vista legislativo (nel senso di una
legislazione per princìpi, capace di garantire l’elasticità del sistema), sia da un punto di
vista giurisprudenziale (nel senso di un «diritto dei giudici fondato sui princìpi»,
secondo la definizione di Scarpelli). Come è noto, i principi si caratterizzano per la
fattispecie aperta: l’esistenza di un principio, per dirla con Dworkin (1982, 95), «non
determina ancora l’esposizione di condizioni che rendono la sua applicazione
necessaria. Piuttosto afferma una ragione che spinge in una direzione, ma che non
necessita di una particolare decisione». Per Alexy (1997, 72ss.) che riprende,
ampliandolo, il modello di Dworkin, i principi sono «precetti di ottimizzazione», ossia
norme la cui realizzazione è suscettibile di gradazioni: essi si limitano a prescrivere che
qualcosa deve essere realizzato in un certo grado o in una certa misura, in relazione alle
compatibilità giuridiche (la tensione con altri principi)e di fatto (le caratteristiche
concrete dei casi).
In tutti i modi siamo ben lontani da un concetto forte di certezza quale quello che
aveva caratterizzato il giuspositivismo in un contesto politico, sociale e culturale stabile
ed omogeneo. La società del secondo Ottocento è stata definita “il mondo della
sicurezza”, una sicurezza oggettiva che nasceva dalla struttura stessa della società in cui
i codici, raccogliendo e fissando i valori dominanti, fornivano un quadro di riferimento
certo e sicuro, in base al quale ogni individuo sapeva cosa doveva aspettarsi dagli altri
soggetti privati e dai poteri pubblici.
La società odierna, in continua trasformazione, sempre più divisa in gruppi e
categorie che non condividono valori comuni, ma anzi sono portatori di interessi diversi,
spesso fra loro contrastanti e profondamente mutevoli, è caratterizzata da insicurezza e
instabilità e non può quindi esprimere un diritto uniforme e indifferenziato.
Ma, proprio in forza a questo stato di cose, è sempre più sentita da parte dei
singoli l’esigenza irrinunciabile a quello che, secondo una tendenza oggi largamente
diffusa a presentare ogni discorso su valori e principi come un discorso sui diritti, può
12
definirsi «diritto alla certezza»15 o, in un senso più ampio, comprensivo di quello di
certezza, alla sicurezza16. Ha scritto Norberto Bobbio (1990, XIII-XIV) che i diritti
umani «sono diritti storici, cioè nati in certe circostanze contrassegnate da lotte per la
difesa di nuove libertà contro vecchi poteri, gradualmente, non tutti in una volta e non
una volta per sempre». Ad esempio la libertà religiosa è un effetto delle guerre di
religione; le libertà civili delle lotte dei parlamenti contro i sovrani assoluti; le libertà
politiche e quelle sociali della nascita, crescita e maturità del movimento dei lavoratori
salariati e così via. Certe richieste nascono, infatti, soltanto quando nascono certi
bisogni e nuovi bisogni nascono in corrispondenza del mutamento delle condizioni della
società.
Seguendo queste linee interpretative, si può dunque sostenere che nella società
contemporanea, caratterizzata da instabilità, insicurezza, incertezza sia nato un “diritto
alla certezza” o, in senso lato, alla sicurezza, da collocarsi fra i cosiddetti diritti della
terza generazione, categoria vaga ed eterogenea, la cui caratteristica è stata spesso
individuata nell’essere aspirazioni diffuse, desideri non di singoli, ma di gruppi umani,
popoli o nazioni.
Tale diritto alla sicurezza è posto dal moderno pensiero costituzionale tra gli ideali
che la Costituzione deve perseguire e proteggere. Si tratta di un concetto molto ampio
che si estende fino a comprendere la difesa dai rischi per la vita personale e sociale,
dalle malattie e dalla disoccupazione, nei confronti dei pericoli dello sviluppo tecnicoindustriale (compreso quello della distruzione dell’ambiente), ma comprende anche un
nucleo squisitamente giuridico (Denninger 1994, 15ss.; 1996, 1ss.; Grimm 1996, 144ss.;
Peces Barba Martinez 1995, 127ss.; Perez Lluño 1991). La sicurezza giuridica, a sua
volta, presenta una dimensione oggettiva, di chiara derivazione hobbesiana, che Peces
Barba (1993, 222ss.) definisce «sicurezza attraverso il diritto» e una dimensione
soggettiva «la sicurezza nel diritto», che altro non è, appunto, che la certezza giuridica.
Una certezza in senso più debole rispetto al passato che, nella crisi sopra delineata
di un punto di riferimento quale la legge, si affida sempre più all’attività interpretativa e
applicativa del diritto. Proprio come le leggi, anche le decisioni giudiziarie - scrive
Habermas (1996, 237) citando Dworkin - sono «creature sia della storia che della
morale: ciò che un individuo ha diritto di avere in una società civile dipende sia dalle
consuetudini che dalla giustizia delle istituzioni politiche. Il problema della razionalità
giurisdizionale dipende da come l’applicazione di un diritto contingentemente formatosi
possa essere internamente intrapresa in maniera compatibile ed esternamente motivata
in maniera razionale, sì da garantire simultaneamente certezza giuridica e giustezza».
La certezza del diritto che si può e si deve reperire nelle società contemporanee,
caratterizzate, come si è visto, da un diritto che si presenta come entità dinamica, in fieri
15
Questo aspetto è stato particolarmente sottolineato da A. Aarnio (cfr. in particolare, 1987, 3-5), il
quale impiega “certezza” in un senso molto ampio, non solo per indicare la prevedibilità delle
conseguenze giuridiche delle azioni, ma anche per indicare la conformità del diritto a standards valutativi
quali la giustizia , la correttezza etc. Concordo con P. Comanducci 1994, 111-127 nel restringere le
affermazioni di Aarnio circa l’aspettativa di certezza del diritto, largamente diffusa tra i cittadini delle
moderne società democratiche, alla certezza tradizionalmente intesa stricto sensu.
16
L’ampliamento della problematica della certezza alla sicurezza sarebbe avvenuto nel ventesimo
secolo come reazione agli effetti e ai problemi della società borghese contemporanea: così sostiene F.X.
Kaufmann (1973, 74ss.); v. anche N. Luhmann (1990, 354ss.).
13
perpetuo, da un “diritto mite”, secondo la celebre definizione di Zagrebelsky, risiede
nella possibilità di ricavare la soluzione giuridica dei casi concreti per mezzo di una
procedura argomentativa che faccia sì che la soluzione adottata, anche se non è in realtà
l’unica possibile, possa essere riconosciuta come legittima e non arbitraria, in quanto
quella meglio argomentabile alla luce e in coerenza coi principi su cui il diritto è
fondato.
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