Tommaso D’ Aquino era un lavorista? (pubblicato su Il Giusto processo, bimestrale di civiltà giuridica e di varia umanità, n.13 LuglioSettembre 2004, Euro 20,00) Grazie al dominio incontrastato del principio utilitarista che da due secoli ha plasmato, e tuttora informa, l’Occidente, il lavoro viene trattato come sacer e orridus, e dunque mai veramente discusso. Fra coloro i quali hanno alzato argini in difesa dell’intangibilità del lavoro, non pochi sono quelli che hanno usato dell’autorità di Tommaso D’Aquino. Ora, l’atteggiamento di San Tommaso nei confronti del lavoro non era sostanzialmente diverso da quello propugnato dal suo citatissimo Filosofo, cioè Aristotele, vedi la Seconda sezione della Seconda Parte della sua gigantesca Summa, la cosiddetta Secunda Secunda, alle Questioni 179, 180, 181, 182, e 187. Cambiava solo il fatto che nel frattempo era scomparsa una civiltà; e con essa tutte le possibilità per gli uomini liberi di dedicarsi cum dignitate ad attività degne, per cui di necessità si doveva in qualche modo valorizzare il lavoro: altrimenti chi convinceva i cristiani a lavorare e quindi a produrre il sostentamento per la ristrettissima élite dirigente? E allora ecco che da molte parti si citavano con insistenza o San Paolo o Sant’Agostino, dei quali appunto è costretto a più riprese ad occuparsi anche (il non ancora Santo) Tommaso, soprattutto per rettificare col suo magistero le interpretazioni correnti. Così, ad esempio, nel rispondere alla questione su quali cose siano lecite ai religiosi, si trova ad affrontare il tema della liceità dai lavori manuali per essi; e nell’esporre, come era costume Scolastico, gli argomenti a favore e contro, deve dar conto: di tutta una serie di citazioni esortative di Agostino a favore del lavoro e contro l’elemosina; della famosa Seconda Lettera ai Tessalonicesi di Paolo; e anche di tutta una serie di altri autori. Ma alla fine, nel suo Responsio – o Respondeo – cioè nelle conclusioni sue, egli sentenzia, fra l’altro, che: In quanto è ordinato ad assicurare il vitto, il lavoro manuale ha necessità di precetto nella misura che è necessario codesto fine (cioè: tocca lavorare perché si deve mangiare): in fatti ciò che è ordinato a un fine prende da questo la sua necessità, essendo necessario nella misura in cui si richiede per il fine stesso. Perciò chi non ha altro mezzo (chi non ha altro mezzo!) per poter vivere, qualunque sia la sua condizione, è tenuto al lavoro manuale. E’ questo il senso della parole dell’Apostolo: “Chi non vuol lavorare, non mangi”; come se dicesse: “Si è tenuti così strettamente a lavorare con le proprie mani, come si è costretti a mangiare”. Se uno quindi potesse vivere senza mangiare, non sarebbe tenuto (non sarebbe tenuto!) al lavoro manuale. Lo stesso si dica di chi ha di che vivere lecitamente in altro modo.1 Avrebbe potuto Tommaso essere più chiaro? Insomma: beato chi può permettersi di vivere – lecitamente, è ovvio – senza dover lavorare! Il che dovrebbe bastare a chiarire che anche per il Divino Dottore il lavoro era niente altro che una costrizione, dalla quale chi poteva era legittimo si salvasse. Tanto è vero che per chiarire il concetto – e la dimostrazione è rivolta a religiosi e secolari, (visto che I precetti comuni a tutti devono essere osservati allo stesso modo dai religiosi e dai secolari e che il precetto del lavoro manuale è dato a tutti) – egli aggiunge: (…) 1 Tommaso D’Aquino, La Somma Teologica, II-II, q.187, a.3, “Rispondo” 1 Infatti l’Apostolo comanda il lavoro manuale solo per escludere il peccato di coloro che si guadagnano da vivere in maniera illecita. (…) E S. Girolamo afferma, che l’Apostolo ha scritto tali cose “più per correggere i vizi dei pagani, che per insegnare”.2 E siccome era necessario precisare, dati i tempi, egli aggiunge una definizione di lavoro che davvero potrebbe essere sottoscritta anche oggi a distanza di 700 anni, così come poteva andar bene per l’Antichità, perché fa risaltare l’essenza strumentale, cioè coercitiva - e dunque estranea all’esecutore del lavoro. Sono le sue stesse parole a far comprendere come l’aggettivo “manuale” (tuttora usato) sia superfluo, e imposto da una tradizione che dalla distinzione fra vita attiva e contemplativa voleva far discendere forzosamente anche quella fra lavoro manuale e lavoro intellettuale. Infatti, egli sottolinea che il vero nesso distintivo è l’essere costretti a, guadagnarsi da vivere: ovverosia la vera essenza del lavoro. L’essenza vera: senza tutti i falsi fronzoli che una tradizione successiva – cristiana e laica – vi ha aggiunto (come vedremo) nel disperato tentativo di far diventare il lavoro quello che non era mai stato, nemmeno nelle intenzioni del Divino Dottore: un “valore in sé”. Una cosa che Tommaso D’Aquino non poteva sognarsi di affermare, perché la vita contemplativa impegna quello che è più peculiare dell’uomo, cioè l’intelletto: invece nelle opere della vita attiva sono impegnate anche le facoltà inferiori, comuni (vedi il Protagora di Platone) a noi e alle bestie. E anche perché, come egli sottolinea citando le parole di S.Gregorio: “La vita attiva è schiavitù, mentre la contemplativa è libertà”.3 Cosa altro era necessario che aggiungesse? Ma vediamo dunque questa definizione: Si noti però che per lavoro manuale qui si intendono tutte le occupazioni con le quali gli uomini guadagnano lecitamente da vivere, sia che esse si compiano con le mani, o con i piedi, o con la lingua: infatti le guardie, i corrieri e altri professionisti del genere, che vivono del loro lavoro, sono tra quelli che vivono con l’opera delle loro mani. Essendo infatti la mano, “lo strumento degli strumenti”, per lavoro manuale s’intende qualsiasi lavoro con il quale uno può guadagnarsi lecitamente da vivere.4 Si poteva essere più inequivocabili di così? Non ha forse egli limpidamente disegnato 700 anni fa il crinale che – ancora oggi – divide il lavoro, cioè quella faccenda imposta dalla sopravvivenza, da tutte le altre attività veramente libere, in quanto non coatte? Eppure, anche il Divino Dottore doveva confrontarsi sia con una tradizione che con un contesto obbliganti, poiché come abbiamo sopra ricordato qualcuno doveva lavorare; e così se da un lato la sua ammirazione per Aristotele (Arendt, 1958: 236) lo spingeva a essere conseguente, dall’altro la forza delle cose – una sorta di concussione ambientale, diremmo oggi – lo spingeva a essere inconseguente; per cui anche il suo linguaggio chiaro e preciso - che riusciva a rendere meno letale un metodo espositivo come quello Scolastico che molti ne uccise per la noia - scivolava ad un livello più basso, là dove i ragionamenti traballano; sicché la Soluzione delle difficoltà (cioè la chiusa finale, che spesso ripeteva sostanzialmente il Rispondo), risultava vieppiù difficoltosa, perché doveva cercare di tenere entrambi in piedi due princìpii che si negavano a vicenda: l’intellezione (il nous platonico) e il lavoro. Tommaso D’Aquino, La Somma Teologica, II-II, q.187, a.3, “Rispondo” Tommaso D’Aquino, La Somma Teologica, II-II, q.181, a.1 4 Tommaso D’Aquino, La Somma Teologica, II-II, q.187, a.3, “Rispondo” 2 3 2 Ma questo, se non era molto aristotelico, era certamente molto ecclesiastico, come la lunghissima tradizione del pensiero cattolico ha sempre confermato. E dunque doveva andare bene anche per lui, che si trovò così a scrivere: Il precetto formulato dall’Apostolo è di legge naturale. Infatti, a commento di quel testo, “Tenetevi lontano da qualunque fratello si conduca disordinatamente”, la Glossa spiega: “cioè diversamente da come esige l’ordine naturale”: e là si parla di coloro che si astenevano dal lavoro manuale. La natura infatti ha dato all’uomo le mani al posto delle armi e delle pellicce concesse agli altri animali (ohibò! Ecco lo scivolone); affinché con esse si procacciasse tutto il necessario. - Anche volendo concederlo - visto che si dimentica completamente il cervello - che c’entra? Dunque, facendo uso di una glossa, cioè di un commento senza autore, Tommaso tira fuori un collegamento semplicistico e inconseguente, visto che il precetto, come lui stesso ha chiarito prima, era esclusivamente moralistico e didattico: serviva cioè ad ammaestrare i pagani. Ma lui adesso, invece, lo definisce di legge naturale. Quindi qui Tommaso confonde sbadatamente (o forzosamente?) due piani: quello sociologico e quello naturalistico. Cioè, l’invito a tenersi lontano dai fratelli ecc. era chiaramente una norma comportamentale volta a creare la disciplina nel gruppo sociale dei primi cristiani di Thessaloniki: cosa diavolo potrebbe entrarci una considerazione fra l’altro superficiale sulla biologia umana? Sarebbe come se a un gruppo di commensali in procinto di spartirsi una gallina, si ponesse come dirimente il quesito dell’uovo. In sostanza, a mezzo di una glossa, egli sembrerebbe sostenere in maniera non esplicita, ma allusiva, che l’ordine naturale esigerebbe per tutti il lavoro manuale. E questo dopo aver affermato (vedi sopra), con ben altra chiarezza, che – invece - il lavoro è una costrizione dovuta alla fame; nonché che S. Girolamo afferma, che l’Apostolo ha scritto tali cose “più per correggere i vizi dei pagani, che per insegnare”.5 E’ lo stile ecclesiastico dei Due Principi, al quale Tommaso si è adattato, visto che non pare curarsi della contraddizione insanabile con quanto da lui stesso prima enunciato. (Ma poi: per uno che citava continuamente San Gregorio e Aristotele, non pare consono al proprio stile ribassarsi a una glossa! Il che contribuirebbe ad alimentare il sospetto che qui si tratti di pagare un tributo.) Non per caso, plausibilmente, il Divino è costretto a usare una glossa: per sbattere lì un argomento, che – forse in quanto estraneo al proprio repertorio – si affretta a concludere in fretta (a differenza del solito), onde uscire da quella imbarazzante caduta di stile. Infatti, dopo la sopra riportata traballante premessa, conclude frettolosamente con: E’ evidente perciò che a tale precetto son tenuti tutti ugualmente, religiosi e secolari, come a tutti gli altri precetti di legge naturale. - E, finalmente liberato dal dovere, può dedicarsi con la consueta maestria a scolpire, (su commessa probabilmente ma senza darlo a vedere), la pietra d’angolo - che in tanti abbelliranno nei secoli a venire - gettando lì, con un po’ di senso comune e la citazione dell’Apostolo, le linee guida della divisione del lavoro e della stratificazione sociale in classi. E magari, ripetiamo, egli non aveva alcuna intenzione di arrivare a tanto. Magari si era solo trovato (come a molti capita ancor oggi) a pagare senza convinzione il pedaggio alla sua epoca, ai luoghi comuni che anche lui dovette 5 Tommaso D’Aquino, La Somma Teologica, II-II, q.187, a.3, “Rispondo” 3 subire (per non voler sospettare altro). E allora vediamo come si impiantano le fondamenta di questo senso comune: Però non è detto che chiunque non lavora con le mani faccia peccato. - Ecco gettata la pietra d’angolo: dopo aver chiaramente affermato – poco prima, nel “Rispondo” - che il lavoro è solo quello manuale e cioè forzoso, ecco qui una frase che potrebbe lasciar intendere che si possa anche lavorare senza le mani. Dunque con l’intelletto! È chiaro che “chiunque non lavora con le mani” - per quanto detto prima da lui stesso - dovrebbe intendersi: che non lavora affatto (e quindi può dedicarsi alla vita contemplativa). Ma naturalmente - prestandosi così bene questa stessa frase ad interpretarsi nel senso che vi possa essere anche un lavoro intellettuale oltre a quello manuale - non parve vero alla Chiesa e a tutti i santificatori del lavoro di intenderla in quest’ultimo modo; in ciò aiutati dalla chiusa susseguente a questa frase, che sembrerebbe disegnare una vera e propria stratificazione sociale lavoristica, se la si intendesse in senso moderno: Perché alle leggi naturali volte al bene collettivo non sono tenuti i singoli individui, ma basta che gli uni attendano a tale ufficio, mentre altri svolgono altre funzioni: è necessario, cioè, che alcuni siano operai, altri agricoltori, altri giudici (ecco i lavoratori intellettuali), altri insegnanti, e così via, conforme alle parole dell’Apostolo: “Se tutto il corpo fosse occhio, dove sarebbe l’udito? e se tutto udito, dove l’odorato?”.6 Può essere che il senso inteso da Tommaso fosse quello Romano, e cioè della virtuosa divisione dei compiti fra chi (schiavo) lavora e chi pensa, data la somiglianza con l’antico luogo comune agrippino; ma, come abbiamo detto, era troppo agevole leggervi la divisione-dei-lavori perché i santificatori si lasciassero sfuggire una simile occasione. E’ in pratica l’abbozzo dell’ossimoro lavoro-attività sui quali a centinaia si avventeranno per utilizzarlo in mille implicazioni, come vedremo più avanti. Quello che succederà dopo queste poche righe non è detto che sia stato, lo ripetiamo, nelle sue intenzioni. Ma, come spesso accade per l’eterogenesi dei fini, moltissimi useranno le parole di Tommaso (nel frattempo divenuto Santo) D’Aquino ai propri scopi, per sostenere una tesi, e farsi scudo dell’immensa autorità al riparo della quale poter affermare qualunque cosa, confidando nell’effetto deterrente esercitato dall’immensa mole – in latino – prodotta dal Divino. Così farà per esempio Fanfani, quando affermerà addirittura che nel pensiero laico del Rinascimento si sentono gli echi delle lezioni tomistiche, al fine di affermare una improbabile continuità fra il pensiero cristiano ecclesiastico e quello laico di Leon Battista Alberti, da molti visto come una specie di illuminato precursore dello spirito capitalistico, laddove invece Oscar Nuccio ha dimostrato come vedremo più avanti che i laici, cioè i mercanti, a tale spirito erano pervenuti già due tre secoli prima, e contro il pensiero canonico (Nuccio, 2000). Così faranno molti altri, dei quali è inutile fare l’elenco: basti dire che costituiscono una vera e propria scuola di pensiero, ormai al tramonto per sfaldamento delle mura portanti, dal momento che contrariamente a quanto alcuni esegeti moderni hanno tentato di leggere nelle fonti cristiane, non esistono precedenti della moderna glorificazione del lavoro nel Nuovo Testamento7 (…), come chiarisce la Arendt, ricordando anche in che modo Paolo fu a forza chiamato l’apostolo del lavoro: Questo appellativo fu inventato dal domenicano Bernard Allo, Le travail d’apres St. Paul (1914). 6 7 Tommaso D’Aquino, La Somma Teologica, II-II, q.187, a.3, “Soluzione delle difficoltà”, c.1 Hanna Arendt, 1958, Vita activa, pag. 236 4 Tra i difensori dell’origine cristiana della moderna glorificazione del lavoro sono, in Francia, Etienne Borne e François Henry, Le travail et l’homme (1937); in Germania Karl Muller, Die Arbeit: Nach moral-philosophischen Grundsatzen des heiligen Thomas von Aquino (1912). Più recentemente, Jacques Leclercq (Lovanio), che con il quarto libro delle sue Leçons de droit naturel, intitolato Travail, propriété(1946), ha dato uno dei più validi e interessanti contributi alla filosofia del lavoro, ha rettificato questa erronea interpretazione delle fonti cristiane: “Il cristianesimo non ha modificato di molto la reputazione del lavoro”; e nell’opera dell’Aquinate “il concetto di lavoro si presenta soltanto in modo molto accidentale” (pp.61-62).8 Crediamo che quanto finora esposto possa bastare a dimostrare come il pensiero dell’Aquinate sia stato manipolato al fine di fondare scuole di pensiero e luoghi comuni di basso conio. Ed è proprio cogliendo questo aspetto che Tilgher dice esplicitamente come in realtà non vi sarà poi una reale differenza del pensiero della Chiesa nemmeno nella contemporaneità. E ciò vale anche per i movimenti politici (allora) nascenti. La Democrazia Cristiana o Socialismo Cristiano riconosce nel lavoro la fonte di ogni progresso e benessere e cultura. Lavorare è dovere imposto dalla legge divina e dalla legge naturale insieme.9 E allora, per avere un’idea di questa scuola di pensiero cristiano-laborista, lasciamo illustrare La Summa ad Antimo Negri, fidando nella autorevolezza di questo studioso, il quale però – chissà perché - sostiene le sua analisi con contributi altrui. Scrive quindi Negri: L’episodio teoretico veramente evenemenziale della cultura medioevale è, senza dubbio, la sistemazione del pensiero cristiano operata con inclinazione squisitamente razionalistica al servizio della fede (ma non per questo la filosofia si fa ancella della teologia, anzi guadagna il livello di un discorso autonomo) da San Tommaso D’Aquino (1226-1274). (…) Nell’area di questo ideale e di questa prassi entra la problematica del lavoro; per ciò stesso, la sintesi tommasiana non può ritenerla teoreticamente estranea. Anzi, il modo in cui nella sintesi tommasiana è assunta, fa di questa problematica quella stessa del Cristianesimo, come nell’assunzione critica di J.Hassle. Il quale, “cercando di porre filosoficamente l’idea del lavoro”, trova un punto di riferimento dottrinale irrinunciabile in quella sintesi: “Il lavoro, in quanto è un onore personale, un ufficio affidato da Dio a ciascun uomo, partecipa della dignità personale del lavoratore, è legato nella maniera più profonda a tutto il suo essere. “L’atto del lavoro conferisce all’attività fisica e spirituale, intellettuale e volontaria dell’uomo, un’unità da esse non posseduta in una statica giustapposizione…” (Simmel). “San Tommaso mostra questa intima penetrazione e, direi identificazione relativa tra lavoro e persona umana. (sul tema potrebbesi fare un lungo elenco di autori laici: da Hume, a Smith, a Locke, a Hegel, a Marx, per non citare che i più noti, celebranti il lavoro come consustanziale all’umanità dell’uomo) Ogni lavoro è, secondo lui, l’attività di un io spirituale, attività personale e regolata dalla ragione. - Ed ecco, finalmente, l’immancabile l’identità fra attività e lavoro, l’ossimoro che mette insieme la libertà spirituale dell’attività, con la esecuzionecoercizione del lavoro: il vero obiettivo di ogni dissertazione, sia essa laicohegeliana o ecclesiale. E, naturalmente, secondo lui! (Giusto per dare un’idea dell’enormità di tali affermazioni, si pensi – visto che Ogni lavoro è, “secondo lui”, l’attività di un io spirituale – al lavoro del pulitore di cloache.) Questa strampalata costruzione non è che un esempio della caterva di congetture simili che ripeteranno in sostanza sempre questo medesimo schema. Tutte si appoggeranno a questo ossimoro dell’attività-lavoro che - grazie 8 9 Hanna Arendt, 1958, Vita activa, nota n. 80 al capitolo VI, pag. 236 Adriano Tilgher, 1929, Homo Faber, pag. 42 5 all’autorità di Tommaso, oltre che alla ben più consistente convenienza economica di esso ossimoro - non verrà mai messo in discussione seriamente. E d’altra parte la lettura lavorista non aveva remore, pur di scollegare il lavoro dalla millenaria realtà che testimoniava schiavitù, per portarlo in un mondo spirituale senza riferimenti con il reale, nel quale si potevano fare tutti i giochi linguistici più artificiosi, fino ad arrivare ad affermazioni come la seguente: Il “principium quod agendi”, il soggetto dell’attività lavorativa, è l’anima. (Senza freni - dopo aver trascinato l’io ad identificarsi con il lavoro - per paura di lasciarlo esposto a critiche mondane, lo si nasconde nel ricettacolo intoccabile dell’anima. Ma, evidentemente paventando un eccessivo distacco che magari indurrebbe alla vita contemplativa piuttosto che alla soma, ecco la variante correttiva in perfetto stile ecclesiastico: ) Il “principium quod agendi” sono le potenze dell’anima e le energie del corpo che costituiscono lo strumento psico-sensoriale del lavoro. L’uomo è innanzitutto spirito. E’ un principio ben noto di metafisica tomistica che le attività presuppongono un soggetto. (e su questo siamo tutti d’accordo) Il lavoro è attribuito piuttosto all’agente principale che alla causa strumentale; non lavora la mano, ma il soggetto (soggetto!) uomo, “homo per manum”. (Ohibò!) - Questa affermazione sembrerebbe di una idiozia assoluta, in quanto è evidente che la mano da sola non potrebbe lavorare; ma è altrettanto lampante che con questa similitudine strampalata si vuole far passare un concetto – degno di tale similitudine – con il quale assimilare l’attività (e quindi l’agente) al lavoro (e cioè all’esecutore). Una volta fatta accettare questa “identità” fra attività e lavoro, il gioco è fatto, perché non si può più distinguere fra: l’attività, che presuppone un soggetto agente; e il lavoro che invece da millenni è la negazione di ogni soggettività, visto che è il luogo per antonomasia degli oggetti agìti, cioè degli schiavi, come gli etimi nitidamente confermano. Sono affermazioni davvero mediocri, che mostrano quanto sia infima la materia che venne usata per costruire l’edificio della mistificazione fondamentale, quello dell’identità fra azione ed esecuzione, fra agente ed esecutore, fra attività e lavoro. Di conseguenza, non c’è tra l’attività animale e il lavoro dell’uomo una semplice differenza di grado, ma una differenza di natura che non può essere cancellata.”10 L’incongruenza di tale infelice chiusa è fin troppo palese. Ma osserviamo anche il tentativo impacciato di differenziare l’uomo laborante dall’animale: un lapsus freudiano gravido di indizi e di sviluppi come suggerisce il Protagora, e che merita una discussione a parte. In definitiva, il pensiero tommasiano, forzato nell’interessata interpretazione ecclesiale - che è riuscita a svincolare il lavoro dall’angolo nel quale l’aveva gettato la dottrina cristiana originale - può consentire il salto di qualità della chiesa mondana, anche se (come è costume della tradizione cristiana), contiene in se altresì elementi atti a mantenere una formale fedeltà ai valori originari. Ma gli artifizi linguistici riusciranno a far presa soltanto all’interno della comunità ecclesiastica, oppure su quei dotti che riterranno di poter leggere la verità J. Haessle, L’etica cristiana del lavoro, trad. it. , Milano, 1949, pp. 62-63, citato da A. Negri, Filosofia del Lavoro, 1980, Vol. II, pag. 33 10 6 compulsando solo i documenti canonici. Così, come autorevolmente conferma Le Goff, Malgrado l’assoluzione medioevale, il lavoro è rimasto un valore fragile, minacciato, continuamente rimesso in causa dall’evoluzione economica e sociale. Prima, come dopo la rivoluzione industriale, gli strati sociali arricchiti a forza di lavoro si sono affrettati a rinnegare la loro origine di classe. Il lavoro non ha mai veramente cessato di essere considerato una macula servile. 11 Non è un caso insomma che la Summa divenga la pietra d’angolo sulla quale verrà edificata tutta la successiva storia della dottrina cristiana, data l’ampia possibilità che offriva - al riparo di una sistematizzazione dottrinale autorevole - di scegliere, nelle maglie delle interpretazioni tommasiane, quella più confacente alla situazione reale che si voleva commentare. In sostanza, l’opera di edulcorazione interpretativa praticata sulla Summa Tommasiana, non è che un esempio paradigmatico degli espedienti cui vengono costretti a ricorrere coloro i quali vogliono mostrare come siano ben fondati gli assunti lavoristici, pur contro la loro povertà dottrinale. Non avendo essi sufficiente dignità teorica per reggersi autonomamente ma al contempo non volendosi ammettere la dipendenza degli assunti dal principio utilitarista, poiché ciò li mostrerebbe quali essi in realtà sono, ossia strumenti – si cerca come si può (e dunque malamente) di annidarli nelle pieghe di qualche grande sistema teorico, nella speranza che godano di luce riflessa e, soprattutto, che nessuno si scomodi per andare a conoscerli. Luigi Leone 11 Jacques Le Goff, Tempo della Chiesa e tempo del mercante. E altri saggi sul lavoro e la cultura nel Medioevo, trad.it. di M. Romano, Torino, 1977, p. 152 – tratto da Filosofia del Lavoro, 1980, Negri, pag. 25 7