Fondazione Giangiacomo Feltrinelli

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Fondazione Giangiacomo Feltrinelli
Salvatore Veca
IL MODELLO COSMOPOLITICO DI KANT
E I SUOI EREDI
Fondazione Giangiacomo Feltrinelli – Papers
I “Papers” sono costituiti da testi proposti nell’ambito delle iniziative promosse dalla Fondazione
Giangiacomo Feltrinelli. Si tratta di lavori “in progress” proposti come strumenti per la ricerca e la
discussione critica.
I “Papers” sono pubblicati dalla Fondazione per gentile concessione dell’autore.
© 2004 – by Salvatore Veca
L'immagine di copertina è tratta dal sito internet della
Kant-Forschungsstelle der Johannes Gutenberg-Universität Mainz
http://www.uni-mainz.de/~kant/kfs/ikonographie/karikatur.html
Il modello cosmopolitico di Kant e i suoi eredi
Queste osservazioni sono dedicate all’esame di alcune
prospettive cosmopolitiche che hanno rilievo nella ricerca della
filosofia politica contemporanea. Le prospettive cosmopolitiche hanno
rilievo, in quanto mirano a delineare i tratti di una concezione del
giusto e della giustizia senza frontiere, come risposta al fatto e ai
dilemmi della globalizzazione. Alcune fra le prospettive
cosmopolitiche, forse le più importanti, esemplificano l’accettazione
del retaggio di Kant, l’autore di Zum ewigen Frieden.
Le mie osservazioni si articolano in tre parti. Nella prima mi
propongo di discutere due prospettive filosofiche che si misurano
direttamente con il retaggio del punto di vista cosmopolitico di Kant.
Si tratta della prospettiva del diritto dei popoli di John Rawls e della
prospettiva della costellazione postnazionale di Juergen Habermas. Il
mio scopo è mettere a fuoco la natura del debito di tali prospettive nei
confronti delle idee e delle congetture di Kant. Il debito sarà definito
nei termini di modi di guardare ed esplorare lo stato del mondo,
concettualizzato intrinsecamente come uno spazio di possibilità.
Nella seconda parte, mi propongo di gettar luce sulla tensione
essenziale fra modi alternativi di guardare ed esplorare lo stato del
mondo, esemplificati da una qualche versione del realismo politico e
una qualche versione dell’istituzionalismo cosmopolitico, erede della
prospettiva kantiana. L’impegno a prendere sul serio tale tensione
dipende da alcune assunzioni normative e queste ultime sono
riconoscibili nel nucleo della versione kantiana dell’Illuminismo.
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Nella terza parte potrò così cercare di rispondere alla domanda
su quale senso possa avere per noi, quali eredi, la persistente lealtà al
recente Illuminismo. E la risposta connetterà, a sua volta,
un’interpretazione minimalistica dell’Illuminismo con la prospettiva
cosmopolitica. L’interpretazione minimalistica si baserà sull’elogio
kantiano dell’uso pubblico della ragione.
1. Cominciamo considerando le tesi principali di The Law of
Peoples di Rawls. L’autore di A Theory of Justice sostiene che il
tentativo di definire i tratti salienti di uno ius gentium costituisce un
caso di estensione della sua teoria politica normativa: dalla
costellazione nazionale all’arena delle relazioni internazionali. Da una
singola comunità politica, considerata come un sistema chiuso e
stabilmente definito da confini, alla geografia del globo conteso.
L’estensione riguarda lo strumento concettuale più importante della
teoria. E questo coincide con l’idea di contratto sociale.
In particolare, Rawls introduce una posizione originaria a due
stadi. Il primo stadio coinvolge parti rappresentative di popoli
democratici (per convenzione, le società liberali). Il secondo stadio si
estende a parti rappresentative di popoli decenti (società non liberali, e
tuttavia bene ordinate alla luce di un qualche criterio di valore
politico). La posizione originaria a due stadi deve generare la
selezione dei principi del diritto internazionale e della giusta condotta
dei popoli nella politica estera, su cui è ragionevole assumere la
possibilità di un consenso per intersezione fra società caratterizzate da
differenti e divergenti culture politiche, religiose, etiche. Più
precisamente, ciò che è oggetto di scelta, nella situazione iniziale di
scelta appropriata agli scopi di una teoria della giustizia
internazionale, è una varietà di interpretazioni del diritto
internazionale. Allo stesso modo per cui ciò che è oggetto di scelta,
entro la costellazione nazionale, è una varietà di interpretazioni del
diritto costituzionale.
Perché una posizione originaria a due stadi e non una singola
posizione originaria, di carattere globale o cosmopolitico? Secondo
Rawls, la distinzione fra i due stadi è coerente con il dovere della
tolleranza e con il fatto del pluralismo planetario. Una singola
posizione originaria, favorita da altri filosofi cosmopolitici, non
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prenderebbe sul serio la varietà delle culture politiche, esemplificata
dalla varietà delle società liberali e delle società decenti. Una società
giusta dei popoli deve quindi estendere al caso internazionale
l’applicazione della tolleranza e del rispetto, due virtù difficili che noi
riconosciamo come tali, sullo sfondo della nostra storia, della vicenda
contingente e situata che è alle nostre spalle, quella della guerra
religiosa europea.
Ora, Rawls sostiene che l’idea base del suo diritto dei popoli è
quella del foedus pacificum di Kant. “L’idea base è di seguire la
direzione tracciata da Kant in Per la pace perpetua (1795) con la sua
nozione di foedus pacificum. Interpreto questa idea nel senso che
dobbiamo prendere le mosse dall’idea, basata sul contratto sociale,
della concezione politica liberale di un regime a democrazia
costituzionale, per poi estenderla introducendo un’ulteriore posizione
originaria di secondo livello, per così dire, in cui i rappresentanti di
popoli liberali stipulano un accordo con altri popoli liberali”. Questo è
il debito che viene riconosciuto nei confronti del filosofo della pace
perpetua e del diritto cosmopolitico. Dovremo ora chiederci quale sia
la natura di questo debito. La risposta non è facile. A prima vista, uno
potrebbe essere indotto a cercarla nella struttura della teoria di Rawls
e nella congettura a proposito della società delle società liberali e
decenti, che risponde al fatto del pluralismo. Ma qui la difficoltà
dipende dal fatto che la congettura di Rawls si discosta in un punto
cruciale dalle tesi e dagli argomenti di Kant a proposito delle
condizioni di pensabilità di uno stato del mondo, che si approssimi
alla pace e all’istituzione di un ordinamento cosmopolitico, che valga
quale esemplificazione realizzata del diritto internazionale.
Rawls non accetta il primo articolo definitivo, quello secondo
cui la costituzione di ogni Stato deve essere repubblicana, perché sia
possibile il foedus pacificum. La condizionalità della forma di governo
per le singole comunità politiche nell’arena internazionale è
fortemente indebolita: tanto società liberali quanto società decenti
(entrambe società bene ordinate) devono poter essere partner a pieno
ed eguale diritto della società dei popoli e convergere, per ragioni di
giustizia, sui principi del diritto internazionale. Non è quindi nelle tesi
avanzate dal diritto dei popoli che ritroviamo propriamente il debito di
Rawls nei confronti della prospettiva cosmopolitica di Kant.
Dobbiamo cercare da un’altra parte, per specificare con precisione la
natura del debito. (Per natura del debito intendo le assunzioni che
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sono presupposte dall’adottare una prospettiva e le conseguenze che
derivano dall’adottarla.) La mia congettura è la seguente: la natura del
debito si chiarisce esaminando la nozione rawlsiana di utopia
realistica.
Il diritto dei popoli è una teoria della giustizia realisticamente
utopica, in quanto si basa congiuntamente sulla descrizione degli
esseri umani come sono e sulla prescrizione a proposito delle
istituzioni come possono o devono essere. In questo senso l’utopia
realistica esplora la regione delle possibilità politiche e istituzionali,
entro lo spazio che il mondo ci concede. Questo spazio è severamente
limitato e genera i vincoli per l’accessibilità a mondi possibili. Così,
potremmo dire, i due sensi musiliani della realtà e della possibilità si
tengono assieme e lavorano in tandem nella costruzione dell’offerta
filosofica di teoria politica della giustizia internazionale. Il debito
contratto nei confronti della prospettiva cosmopolitica di Kant si
traduce quindi nell’esplorazione dello stato del mondo, orientata
all’individuazione di signa prognostica.
Considerata in questa prospettiva, la storia si presenta come un
enorme repertorio di possibilità, sia nella forma della comprensione
retrospettiva, sia nella forma della anticipazione di validità future.
L’idea della storia dal punto di vista cosmopolitico è alla radice di
questo atteggiamento intellettuale: così, potremmo anche dire, un
aggregato informe di azioni si converte per noi, nell’indagine, in un
sistema. Come leggiamo nell’Idea di una storia universale dal punto
di vista cosmopolitico: “E’ certamente un calcolo strano e
all’apparenza assurdo voler redigere una storia secondo un’idea di ciò
che dovrebbe essere il corso del mondo umano qualora esso dovesse
adeguarsi a certi fini razionali: sembra che con un tal proposito si
possa solo fare un romanzo. Ma se è lecito ammettere che la natura,
anche nel gioco della libertà umana, procede secondo un disegno e
uno scopo finale, allora questa idea potrebbe anche riuscire utile; e
sebbene noi siamo di vista troppo corta per penetrare il segreto
meccanismo della struttura della natura, tale idea ci può però servire
da filo conduttore per rappresentarci almeno nell’insieme come un
sistema quello che altrimenti ci apparirebbe come un informe
aggregato di azioni umane”.
Possiamo allora concludere: le assunzioni a proposito del nostro
interesse per la storia generano come conseguenza l’impegno
all’esplorazione, che ha luogo per signa prognostica o rememorativa o
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demonstrativa, delle possibilità politiche, istituzionali e giuridiche,
entro lo stato del mondo che ci è contemporaneo. E questa è
propriamente la natura (assunzioni e conseguenze) del debito di Rawls
nei confronti della prospettiva cosmopolitica di Kant.
Si consideri ora, per grandi linee, la lettura che Juergen
Habermas propone, con l’immeritata consapevolezza dei posteri, di
Per la pace perpetua sullo sfondo della costellazione postnazionale, al
giro di boa del ventesimo secolo. Esaminando l’idea kantiana della
pace perpetua, Habermas in primo luogo ne mette a fuoco le premesse
entro la prospettiva di Kant e, in secondo luogo, ne saggia la portata
“alla luce degli ultimi duecento anni”. Nell’ambito delle premesse il
problema principale consiste nell’audacia e nella difficoltà di una
concettualizzazione coerente dello stato o della situazione
cosmopolitica. E’ in quest’ambito che ha del resto un ruolo saliente
l’analogia fra la soluzione interna o locale del conflitto, proprio di uno
stato di natura, e la soluzione esterna o globale, che dovrebbe indurre
alla trasformazione del diritto delle genti in diritto cosmopolitico. Ed è
proprio questa analogia – per quanto problematica e incerta negli
scritti cosmopolitici kantiani - a contrassegnare il luogo della
controversia persistente fra modi divergenti e differenti congetture
teoriche a proposito della natura dell’arena internazionale e della
dimensione propriamente cosmopolitica. Le difficoltà della soluzione
di Kant sembrano per Habermas derivare dai vincoli propri dello
sfondo o del contesto del mondo statuale della modernità classica.
“Finché fu questo mondo statuale della modernità classica a
costituire un insuperabile orizzonte concettuale, qualsiasi progetto di
costituzione cosmopolitica che non rispettasse la sovranità degli stati
doveva necessariamente apparire irrealistico”: E questo spiega i)
l’insistenza di Kant nel rifiutare la soluzione del “terribile dispotismo”
di un governo mondiale, ii) l’accento posto sulla federazione, sul
foedus pacificum e iii) la delineazione di una filosofia della storia con
intenti cosmopolitici. Il modello della filosofia cosmopolitica di Kant
sembra così destinato ad incepparsi entro il suo contesto pertinente,
perché la costellazione nazionale non consente di superare la trappola
di una sorta di teorema hobbesiano d’impossibilità. E su ciò gioverà
tornare nella seconda parte. D’altra parte, Habermas sembra convinto
del fatto che la difficoltà kantiana nel trovare una soluzione al
problema della trasformazione del diritto delle genti in diritto
cosmopolitico in senso lato, una difficoltà imputabile al contesto della
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fine del diciottesimo secolo europeo, non vincoli a quello stesso
contesto la portata delle ragioni e degli argomenti a suo favore. La
portata del modello kantiano trascende il contesto entro cui prende
forma, e si estende a quei contesti non direttamente connessi, che può
accadere siano semplicemente i nostri, o quelli che riconosciamo
come tali, in qualità di osservatori o partecipanti.
Sono in particolare le ragioni che militano a favore della natura
non aggressiva delle repubbliche, quelle che inducono all’elogio della
funzione unificante del commercio e della sfera pubblica, a subire nel
corso del tempo, a partire da quel contesto, la vicenda complicata di
smentite e confutazioni da una parte, di sviluppi, riformulazioni e
possibili applicazioni dall’altra. Habermas propone in questa
prospettiva una revisione del quadro categoriale del progetto kantiano
che investa i) i mutamenti delle relazioni internazionali e il problema
della sovranità esterna degli stati, ii) i vincoli normativi sulla sovranità
interna e iii) la stratificazione della società mondiale e la
globalizzazione del rischio, che ci costringono a pensare in termini
diversi l’idea di pace. E la revisione è richiesta dall’esplorazione dello
stato del mondo che ci è contemporaneo, alla luce del modello
cosmopolitico di Kant.
Nel caso di Habermas, potremmo quindi dire, il debito nei
confronti del modello kantiano di filosofia cosmopolitica è
propriamente rivelato dall’interesse a pensare lo stato del mondo in
termini di transizioni. Tale interesse presiede e orienta l’esplorazione
del gran teatro del mondo come uno spazio di possibilità, per le quali
siano ravvisabili circostanze o tendenze, tanto favorevoli quanto
avverse. E quest’esercizio intellettuale, che consiste nell’impegno a
pensare transizioni nella costellazione del presente, adotta come
vincolo il terminus a quo di processi e mutamenti e immerge il
terminus ad quem nella regione delle modalità del possibile e nelle sue
matrici di intellegibilità. Per quanto a volte Habermas sembri lasciar
pensare a una qualche visione sottostante in termini di leggi di
movimento della storia in cui terminus a quo e terminus ad quem si
implicano necessariamente, ad esempio nella ricostruzione sociologica
dei processi di modernizzazione, il pensare transizioni nella trama del
presente non implica inevitabilmente l’elogio della necessità o
l’omaggio pigro alla falsa necessità.
Alla storia profetica di chi scruta i segni del tempo si addice
piuttosto, con vigile senso dei limiti, l’elogio ricorrente della
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possibilità. Quella storia dovrà propriamente avvalersi di proposizioni
problematiche e non assertorie, né apodittiche. Come ha scritto Rawls,
l’utopia realistica del foedus pacificum stabilisce che “un mondo
sociale giusto può esistere in qualche luogo e in qualche tempo, ma
non che la sua esistenza sia necessaria o lo sarà in futuro”.
2. Abbiamo considerato in che senso Rawls ritenga importante
indebolire la clausola kantiana relativa alla costituzione repubblicana.
Abbiamo anche visto come Habermas individui nel contesto
leviatanico di fine Settecento europeo le ragioni della difficoltà
kantiana di trovare una soluzione coerente al dilemma dell’ordine
cosmopolitico in assenza di sovranità, e indaghi la costellazione
postnazionale per rintracciare transizioni. Ora possiamo dire che, in
entrambi i casi, l’effetto del debito nei confronti del modello kantiano
di filosofia cosmopolitica indebolisce le pretese riduzionistiche del
realismo politico, vecchio e nuovo. Sono convinto che questo esito sia
una delle più importanti conseguenze dell’adozione della prospettiva
cosmopolitica. Si tratta di una conseguenza che si inferisce
direttamente dall’assiomatica di Kant nel pensare il diritto
cosmopolitico, come direbbe Jacques Derrida. E la conseguenza
discende dall’interpretazione di quegli scritti in cui Kant, direbbe
ancora Derrida, annuncia istituzioni e pratiche sociali, quegli scritti in
cui – da filosofo profeta – si impegna in esercizi di delineazione di
una democrazia a venire.
Si consideri che il teorema centrale della teoria cosmopolitica di
Kant è formulato in termini problematici e prevede una tensione
irrisolta fra possibilità alternative, sullo sfondo della messa in
questione del modello westfaliano dello ius publicum europeum e
della sua versione del nesso fra diritti e sovranità. “Come la generale
violenza e i mali che ne derivavano dovettero da ultimo portare un
popolo alla decisione di sottoporsi alla coazione (che la ragione
medesima gli imponeva come mezzo), ossia alla pubblica legge, e di
entrare in una costituzione civile, così i mali derivanti dalle continue
guerre, per le quali gli Stati cercano a loro volta di indebolirsi e di
soggiogarsi reciprocamente, dovranno da ultimo portarli, anche loro
malgrado, o a entrare in una costituzione cosmopolitica, o, siccome un
tale stato di pace universale (come è avvenuto più volte tra gli Stati
assai grandi) è per altro aspetto ancora pericoloso per la libertà,
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potendo originare il più orribile dispotismo, questa necessità dovrà
portarli non a una comunità cosmopolitica sotto un unico sovrano, ma
a una condizione giuridica di federazione sulla base di un diritto
internazionale stabilito in comune.”
Il teorema centrale, quello che mostra la possibilità (e la
necessità etica) della conversione del diritto delle genti in diritto
cosmopolitico in senso lato, sembra lasciare aperta l’opzione fra la
federazione coeteribus paribus di stati sovrani e quella che chiamerò
la costituzionalizzazione internazionale dell’ordine cosmopolitico. Del
primo tipo è la soluzione abbozzata da Rawls del diritto dei popoli,
fatto salvo il requisito della costituzione repubblicana (l’unico
requisito universalistico resta quello della tutela dei diritti umani
fondamentali, che ogni società deve soddisfare per essere partner della
società delle società giuste). Al secondo tipo di soluzione sembra
mirare l’esplorazione habermasiana delle possibilità e delle condizioni
di trasformazione delle istituzioni e delle organizzazioni della
costellazione postnazionale, in cui i confini fra interno ed esterno
sembrano diventare intrinsecamente porosi e sfide e dilemmi globali
sembrano richiedere politiche e attori di politica globali. Del resto,
mentre i filosofi cosmopolitici della VoelkerRepublik sono convinti
della necessità dell’architettura di una nuova sovranità globale, i
teorici cosmopolitici dei diritti fondamentali presi sul serio mirano ad
una sorta di costituzionalizzazione del diritto internazionale, aldilà
della sovranità e della politica.
La mia congettura è che il teorema centrale del modello
kantiano abbia istituito, in questo modo, un campo di tensioni e di
controversie che coinvolge la varietà di connessioni fra concezioni di
sovranità territoriale e concezioni di diritti delle persone. Possiamo
dire che il teorema centrale ha definito i confini mutevoli di uno
spazio di condizioni e possibilità alternative e ha messo all’ordine del
giorno dell’indagine filosofica, al tempo stesso, decostruzione e
ricostruzione delle idee di politica, sovranità, diritto e diritti.
Potremmo anche dire, parafrasando con blanda infedeltà una
considerazione illuminante di Michel Foucault, che in questo caso non
si tratta tanto di una filosofia critica che mira a definire condizioni e
limiti di possibilità della conoscenza di un oggetto, quanto piuttosto di
una filosofia critica volta alla ricerca delle condizioni e delle
possibilità, ancora indeterminate, della sua trasformazione.
Riconosciamo ora che questo spazio delle condizioni e delle
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possibilità di transizioni è stato perimetrato e, per così dire, ritagliato
nella penombra o nell’intorno del modello del realismo politico. E
possiamo concludere che la prospettiva cosmopolitica di Kant ha
innescato una tensione essenziale con i modi di pensare l’arena delle
relazioni internazionali che in una qualche versione del realismo
politico da Tucidide a Hobbes, e ben oltre, affondano le loro radici.
La tensione essenziale, di cui siamo eredi in tempi incerti,
difficili e tanto mutati, chiama in causa il teorema di impossibilità
dell’estensione di criteri di giustizia dal versante interno delle
comunità politiche all’arena internazionale. La questione aperta è
grosso modo la seguente: perché – date certe assunzioni normative dovremmo accettare l’esito di impossibilità del modello delle relazioni
internazionali, che ne definisce la logica in termini di inevitabile o
necessaria anarchia, di modus vivendi e di soluzioni instabili di
cooperazione e di equilibrio fra attori sovrani, sullo sfondo della realtà
o dell’aspettativa stabile di conflitto e guerra? In altri termini, perché –
date certe assunzioni normative - dovremmo accettare che la soluzione
della pace interna, concettualizzata grazie all’idea di contratto sociale,
costituisca di per sé un divieto inaggirabile nei confronti della
soluzione della pace esterna? Perché, infine, – date certe assunzioni
normative - ci è vietato e inaccessibile un mondo possibile giusto o
meno ingiusto per coinquilini del pianeta? Il modello kantiano di
filosofia cosmopolitica è responsabile, in virtù delle sue assunzioni
normative, della generazione di questo tipo di domande. E qualsiasi
tentativo di risposta è destinato ad aprire e mantenere aperta la
tensione essenziale con una qualche versione del realismo politico.
Come ho sostenuto nelle lezioni de La bellezza e gli oppressi, la
mia interpretazione della tensione fra realismo politico e prospettiva
cosmopolitica non richiede in alcun modo il rifiuto o la confutazione
delle tesi realistiche, a sé prese. Essa richiede solo il rifiuto della loro
pretesa di completezza o, in altri termini, la critica del riduzionismo
cui il realismo può (e non necessariamente deve) aspirare. Non
parlerei di tensione fra i due modi di vedere le cose, se disponessi di
un argomento per far piazza pulita di uno dei due. (Il celebre
riconoscimento kantiano del “legno storto” ha del resto un sapore
realistico.) Sostengo che il realismo politico ha l’importante funzione
intellettuale di fissare i vincoli, entro cui sono per noi via via
accessibili mondi possibili. Il realismo politico fissa e circoscrive
severamente i limiti delle possibilità alternative che ci sono
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accessibili. Non prendere sul serio tali vincoli sarebbe solo segno di
irresponsabilità intellettuale. Diremo allora che l’insieme delle
descrizioni realistiche, a un tempo dato, funge da vincolo collaterale
sulle nostre selezioni di possibilità, orientate da assunzioni normative.
Solo un commento, prima di esaminare la natura delle
assunzioni normative che orientano e guidano l’esplorazione delle
possibilità, entro lo spazio che il mondo ci concede. Si consideri il
tratto intrinsecamente kantiano dell’idea ora evocata dei limiti. Come
ha suggerito Peter Strawson nell’incipit del suo celebre saggio sulla
Critica della ragione pura, è certamente possibile immaginare tipi di
mondo molto diversi dal mondo che conosciamo. E’ possibile
descrivere tipi di esperienza molto diversi dall’esperienza che
abbiamo effettivamente. Ma ciò non vuol dire che qualsiasi
descrizione di un possibile tipo di esperienza possa essere per noi una
descrizione realmente comprensibile. Esistono dei limiti entro i quali
possiamo concepire, o renderci comprensibile, una possibile struttura
generale dell’esperienza. Allo stesso modo, suggerisco che i vincoli
collaterali generati dalle descrizioni del mondo sociale definiscano per
noi propriamente i limiti, entro cui possiamo immaginare e selezionare
mondi sociali possibili, alla luce di un qualche criterio di valore e di
importanza, date certe assunzioni normative.
3. Per gettar luce sulle assunzioni normative che orientano per
noi eredi l’esplorazione dello spazio di condizioni e possibilità
cosmopolitiche, restringo l’attenzione alla versione kantiana
dell’Illuminismo. L’idea è di mettere a fuoco la risposta alla domanda
su che cosa è Illuminismo, quella consegnata a uno scritto in cui –
come ha osservato Michel Foucault – Kant inaugura una riflessione
critica sul “presente”, una sorta di messa in questione filosofica della
storicità della ragione. L’interpretazione che favorisco della risposta
alla domanda sull’Illuminismo è minimalistica. Nel senso che si basa
esclusivamente sull’idea dell’uso pubblico della ragione. Intendo, in
senso elementare, l’uso pubblico della ragione come l’uso della
ragione in pubblico, un uso non irreggimentato o disciplinato dalle
regole e dai poteri o dalle etichette di comunità o dai confini di cerchie
sociali date.
L’esercizio della ragione in pubblico implica propriamente la
costituzione di un pubblico, la costituzione di una comunità possibile
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e alternativa a quelle socialmente date. Tale esercizio presuppone
naturalmente che le persone siano libere di rivolgere atti di
comunicazione a uditorii possibili. E questa libertà, quella di “fare
pubblico uso della propria ragione in tutti i campi” è la libertà par
excellence del recente Illuminismo; il grado maggiore o minore di
questa libertà è l’indicatore del grado di maggiore o minore
rischiaramento dei rapporti fra esseri umani, punto e basta. “Il
pubblico uso della ragione deve essere libero in ogni tempo, ed esso
solo può attuare l’illuminismo fra gli uomini.”
La libertà par excellence del recente Illuminismo coincide con
l’emancipazione delle persone dalla tutela e dagli effetti di dominio,
imputabili all’esercizio dei variegati poteri che, limitando,
restringendo o azzerando le possibilità dell’uso pubblico della ragione,
minano, riducono o azzerano “il sentimento della stima razionale del
proprio valore e della vocazione di ogni uomo a pensare da sé”. (Si
consideri che, dalle nostre parti europee, il prototipo della libertà par
excellence è quello della libertà religiosa.) La costituzione di
comunità, grazie a esercizi di uso pubblico della ragione, ha carattere
universalistico e inclusivo e, soprattutto, il suo tratto distintivo
consiste nella indipendenza da confini dati. Potremmo dire che,
rispetto al paradigma del potere che dà nomi alle cose, la costituzione
di comunità o di pubblici distinti è generata dagli usi della libertà di
rinominare noi stessi e il mondo. In questo senso, gli usi di tale
libertà, rinominando le cose e alterando i confini, generano lo spazio
della controversia o della discussione pubblica. La maggiore o minore
capacità delle persone, ovunque esse siano e chiunque esse siano, di
prendere parte alla discussione pubblica è allora l’indicatore del grado
di illuminismo nelle forme di vita in comune per esseri umani.
L’interpretazione minimalistica del nucleo del recente
Illuminismo, nella sua versione europea, può così sostenere che il
resoconto in termini di uso pubblico della ragione costituisce
l’insieme delle assunzioni normative di una prospettiva cosmopolitica.
Annunciando il processo innescato - in una vicenda dopo tutto
particolare e contingente - dalla consapevolezza illuministica, Kant ci
induce a riconoscerne il valore universale. Nel senso, ancora una volta
elementare, per cui si assume che in ogni parte del mondo gli esseri
umani possono avere ragioni per considerarlo tale. Più precisamente,
si assume che gli esseri umani possano avere ragioni differenti per
condividere tale valore. Come ha sottolineato Amartya Sen, quando
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una convinzione meditata di questo genere assume carattere generale e
naturale (diviene naturalizzata, nel senso di Richard Rorty), essa
determina un insieme di atteggiamenti valutativi e un riorientamento
concettuale tale che chi la confuti finisce per avere l’intero onere della
prova.
In questo, e non in altro, credo consistano la nostra lealtà al
nucleo normativo di una prospettiva cosmopolitica, e il suo senso.
Come abbiamo appreso cammin facendo, venire meno a tale lealtà è
certamente un’opzione sistematicamente aperta e accessibile per noi
eredi. Ma dovremmo al tempo stesso sapere bene quale perdita secca
in valore comporti per noi la defezione rispetto al meglio che siamo
riusciti tortuosamente, per prove ed errori, a fare. Se ci chiedessimo
quale sia precisamente la natura della perdita, risponderei che essa
consiste nella dissipazione e nella cancellazione di ogni promessa
possibile di futuro, riconoscibile per noi. E, in questo senso, posso
concludere, il nucleo normativo del recente Illuminismo è
semplicemente l’Illuminismo a venire. Anche, e soprattutto, in tempi
difficili.
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Riferimenti bibliografici essenziali
G. Borradori, Filosofia del terrore. Dialoghi con Juergen Habermas e
Jacques Derrida, Laterza 2003
J. Derrida, Il diritto alla filosofia dal punto di vista cosmopolitico, Il
Melangolo 2001
M. Foucault, Archivio Foucault, 3, 1978-1985, Feltrinelli 1998
J. Habermas, L’inclusione dell’altro, Feltrinelli 1998
Id., La costellazione postnazionale, Feltrinelli 2000
I. Kant, Per la pace perpetua, Feltrinelli 2004
J. Rawls, Una teoria della giustizia, Feltrinelli 1982
Id., Il diritto dei popoli, Edizioni di Comunità 2001
Id., Lezioni di storia della filosofia morale, Feltrinelli 2004
A.K. Sen, Lo sviluppo è libertà, Mondadori 2000
Id., La democrazia degli altri, Mondadori 2004
P. F. Strawson, Saggio sulla Critica della ragione pura, Laterza 1981
S. Veca, La bellezza e gli oppressi. Dieci lezioni sull’idea di giustizia,
Feltrinelli 2002
13
© 2004 - Salvatore Veca
Fondazione Giangiacomo Feltrinelli – Papers – 1
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