Turandot: l`incompiuta di Puccini, completata da Brockhaus | Fucine

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Turandot: l’incompiuta di Puccini, completata da Brockhaus | Fucine Mute webmagazine
29/01/2015 18:09
Turandot: l’incompiuta di Puccini, completata da
Brockhaus
Se esisto e posso vivere, un poco lo devo a Puccini. Nel
settembre del 1943 mio nonno venne catturato dalle truppe
tedesche e trasferito in un campo di prigionia nei pressi di
Berlino. Lontano dalla sua patria, così bella e ferita,
costretto in una cella di due metri per quattro con altri sette
prigionieri, mio nonno ebbe salva la vita una notte in cui
uno dei suoi carcerieri lo sentì cantare “Nessun dorma”:
celeberrima aria della Turandot di Puccini. ”Il tedesco
amava la musica” e chi ama la musica non può essere
completamente insensibile al dolore umano. Il “Nessun
dorma” di mio nonno era merce di scambio con gli avanzi di mollica dei soldati
nazisti, che lui compattava e suddivideva in otto parti uguali. Quei pezzi di pane
hanno tenuto in vita lui e due dei suoi compagni, fino al giorno della liberazione.
Ricordo perfettamente quel pomeriggio in cui mi raccontò questa storia; avevo non
più di sette anni. Al tempo non esistevano il computer, il downloading e youtube e la
musica classica viaggiava in musicassette e 33giri. Il pomeriggio seguente, uscito da
scuola, alla biblioteca comunale cercai disperatamente quella “canzone”. Dopo ore di
ricerca, bloccato dall’orgoglio che m’impediva di chiedere aiuto, la trovai, scoprendo
che si trattava di un’opera lirica intitolata Turandot, e che la canzone, in realtà, era
un’aria. Mio nonno aveva detto la verità!
Passai una sera insonne a immaginare quella principessa nella sua fredda stanza, a
guardare le stelle tremare d’amore e di speranza. Immaginavo il mistero che
quell’uomo sconosciuto non voleva raccontare a nessuno. Quel “No, no, sulla tua
bocca lo dirò…” diventava ingenuamente “Nonno, sulla tua bocca lo dirò… ” e capivo
perché i nazisti non avrebbero mai potuto uccidere il mio nonno, se cantava quell’aria
sublime. Alla fine l’Italia si è rialzata, i tedeschi hanno perso, e io sono nato, in Alto
Adige, a Merano, un poco italiano e un poco tedesco.
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Solo parecchi anni dopo il cerchio si è chiuso, quando mio
nonno se n’era già andato da tempo, e io frequentavo la
biblioteca perché mi piaceva una ragazza del liceo. Ritrovai
quella cassetta della Turandot e mi accorsi che era una
registrazione fatta a San Francisco il 4 novembre 1977:
Luciano Pavarotti debuttava nel ruolo di Calaf e
Montserrat Caballe in quello di Turandot.
La Turandot è forse l’opera più misteriosa e affascinante
della produzione italiana dell’Otto-novecento. È un
ineguagliato esempio di capolavoro globale, dove struttura
musicale e scenica sono al completo servizio della trama e dell’apparato simbolico ad
essa sotteso. Puccini sprigiona tutto il suo talento in tre intensissimi atti ambientati in
una Cina volutamente indefinita, quasi onirica. Il compositore di Torre del Lago era
un toscano che per forza vedeva la Cina attraverso il filtro della sua biografia, della
sua cultura e delle sue radici. Per questo la Turandot è un’opera che si presta a
spostamenti temporali e non può essere aderente a nessuna realtà specifica.
Il primo atto si apre con l’annuncio della decapitazione del principe di Persia,
colpevole di non avere risolto gli enigmi proposti da Turandot. La soluzione degli
enigmi è condizione necessaria per poter avere la mano della principessa. Sulla scena
irrompe Calaf — figlio di Timur, re tartaro spodestato —, assieme alla schiava Liù.
Impressionato dalla regale bellezza di Turandot, Calaf decide di tentare la risoluzione
dei tre enigmi. Liberatosi di Ping, Pong e Pang, tre ministri del regno che tentano di
dissuaderlo, Calaf suona il gong invocando il nome di Turandot.
Nel secondo atto tutto è pronto per il rito dei tre enigmi. L’imperatore Altoum cerca di
scoraggiare Calaf, che non ha alcuna intenzione di ritirarsi dalla sfida. Entra la perfida
principessa Turandot e giustifica il rito dei tre enigmi irrisolvibili con la sua volontà di
non lasciarsi possedere da nessun uomo, per via di un torto ricevuto. Calaf risolve gli
enigmi e Turandot supplica il padre di non concederla allo straniero. Il padre non
indietreggia e Turandot si promette al vincitore, riluttante e piena d’odio. Per questo
Calaf propone a Turandot la libertà, se questa sarà in grado di scoprire il suo nome.
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Il terzo atto inizia con un accenno del “Nessun dorma ”. È notte e nessuno deve
riposare, la principessa ha ordinato di scoprire il nome del principe straniero. Ping,
Pong e Pang offrono a Calaf qualsiasi cosa per conoscere il suo nome. Viene poi
portata di fronte a Turandot la schiava di Calaf, Liù che subisce ogni genere di
torturata senza mai rivelare il nome dello straniero, del quale è segretamente
innamorata. Suicidandosi Liù confessa a una stupita Turandot il suo amore per Calaf.
Turandot e Calaf rimangono da soli e alle suppliche di lei, Calaf le rivela il suo nome,
risparmiandola dalla umiliazione pubblica. A questo punto lei se ne innamora e il
giorno dopo, lasciandosi cadere tra le braccia di Calaf, annuncia al popolo di
conoscere il nome dello straniero: “Amore”.
L’opera è ricordata come l’”incompiuta” a causa della prematura morte di Puccini,
avvenuta prima del suo compimento. Origina da una riduzione di Johann Christoph
Friedrich von Schiller di una fiaba scritta daCarlo Gozzi, fondatore dell’Accademia dei
Granelleschi e inventore della fiaba teatrale. L’ambientazione orientale si deve
interamente al Puccini, il quale, com’è noto, era già stato affascinato dall’oriente in
precedenza. Il compositore lucchese impiegò infatti almeno dieci melodie giapponesi
in Butterfly, ricreandole all’interno del proprio stile, allo scopo di rendere evidente il
contrasto fra Ovest e Est su cui ruota l’asse drammatico dell’opera. In Turandot,
invece, utilizzò sette temi originali cinesi, badando soprattutto alla coerenza
dell’impianto fiabesco.
Il dramma vive quindi nello stile musicale orientale, ed ogni personaggio è
materializzazione di quel mondo sonoro. Il percorso creativo che portò Puccini alla
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realizzazione della Turandot s’interruppe improvvisamente in concomitanza con la
morte di Liù, nel terzo atto. A quel punto Puccini interruppe il suo flusso creativo,
lasciando ai posteri alcuni bozzetti per un eventuale atto finale, che il maestro non fu
mai in grado di scrivere. Fu Arturo Toscanini che convinse l’editore Ricordi ad
affidare il finale al giovane compositore Franco Alfano, il quale si trovò con
l’impossibile compito di dare un degno seguito all’aria “Nessun dorma”. Il finale di
Alfano è quello rappresentato in tutti i teatri del mondo, anche se la frattura tra il
terzo atto di Alfano e il lavoro di Puccini è chiara ed evidente. Con Alfano, Turandot
diventa molto più ballabile e allegra, a svantaggio del momento drammatico
culminato con il suicidio per amore di Liù. Per questo motivo, delle opere pucciniane,
Turandot è quella che nel corso degli ultimi cinquant’anni si è meglio prestata ad
interpretazioni e soluzioni di regia più o meno innovative ed eccentriche, alla ricerca
di una più soddisfacente conclusione.
Tra le tante Turandot, quella di Henning Brockhaus (Teatro Comunale di Bolzano,
18-19 dicembre) è sicuramente tra le più convincenti. La direzione di Brockhaus
rinuncia al kolossal esotico per concentrarsi sul dramma psicologico vissuto da
Turandot e Liù. La tesi di Brockhaus è che Puccini non sia stato in grado di
concludere Turandot perché sconvolto dalla morte della sua serva Doria Manfredi,
con la quale, secondo il regista di Plettenberg, il maestro intratteneva una relazione
sentimentale.
Brockhaus compone la rottura tra Puccini e Alfano iniziando l‘opera con un prologo
privo d’orchestra, ambientato in una generica piazza italiana degli anni Venti, dove
una moltitudine di persone s’incontra: una coppia borghese rappresenta Puccini e sua
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moglie; un medico, un avvocato e il sindaco, ovvero Ping, Pong e Pang, sono gli amici
di Puccini a Torre del lago; Doria, la serva di casa Puccini è Liù e il barista della piazza
è Timur. Due acrobati e un clown — figura introdotta dal regista tedesco —
convincono i presenti a diventare parte di uno spettacolo viaggiante, attraverso la
distribuzione di maschere da teatro comico che pian piano trasformano i passanti in
viandanti cinesi e spostano la scenografia da Torre del lago a Pechino, la città
proibita.
Turandot avanza quindi davanti a un carro cinese, ovvero un teatro nel teatro.
Secondo la regia di Brockhaus, il coro è sempre presente come pubblico e rimane
coinvolto nell’azione come il pubblico brechtiano. Se con Turandot Puccini
abbandona il realismo e il verismo, Brockhaus compie una specie di flashback, per dar
conto dell’ambiente sociale e familiare nel quale questo dramma lirico è nato. La
trasformazione dei personaggi serve a Brockhaus per comunicare allo spettatore che
con Turandot il maestro lucchese volesse mettere in scena il proprio vissuto
personale. Infatti, sembra che Turandot origini in parte da un fatto realmente
accaduto a casa Puccini: Doria Manfredi si era tolta la vita perché accusata da Elvira,
moglie del compositore, di esserne stata l’amante. Per questo motivo Puccini accorda
a Liù uno spazio enorme, sia nel primo sia nel terzo atto. Liù/Doria è una piccola
donna destinata a perdere contro la perfida Turandot, pur non avendo alcuno dei
problemi psicologici che invece affliggono la principessa. Dopo l’aria “Tu, che di gel
sei cinta”, Liù si toglie la vita e, facendo breccia nello stupore ammirato di Turandot,
riesce a trasmetterle la profonda umanità di questo piccolo ma immenso personaggio.
Puccini ha musicato in tal modo il contatto fra due donne. Liù è la parte mancante
della personalità dell’altra. La sua morte segna l’abbandono da parte di Turandot di
vecchie maniere, delle quali il gioco dei tre enigmi sono un’esemplificazione.
Brockhaus dipinge quindi la sua Turandot nella convinzione che questa fosse l’opera
autobiografica di Puccini.
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Il soggetto esotico — ovvero l’ambientazione in Cina — era invece perfetto per
sperimentare un messaggio musicale inedito. Turandot non è una donna
sottomissibile, ma è orgogliosa e rammaricata per avere perso il suo ruolo di prestigio
nella società (nella regia di Brockhaus appare per la prima volta come un’ombra
cinese); è un ruolo da soprano con tessitura acuta, mantenuto per tutta l’opera. Come
afferma una delle più grandi Turandot della storia, Montserrat Caballe, quando si
canta Turandot bisogna fare attenzione a non urlarla. Attraverso una tessitura tra le
più complesse scritte per soprano, Puccini dipinge una donna crudele e allo stesso
tempo bambina innocente. Nella regia di Brockhaus, per evidenziare l’interruzione
del contributo di Puccini, alla morte di Liù il gioco esotico finisce e il palcoscenico
ritorna nella sua ambientazione iniziale italiana. I personaggi in scena si tolgono le
maschere in segno di profondo rispetto, presi dal lutto. Incomincia la musica di
Alfano, Turandot diventa Elvira, Calaf diventa Puccini e il duetto tra i due è un lied
matrimoniale. La storia viene esposta e, come detto, nel finale Alfano ammette di non
essere stato in grado di completare Turandot, facendo riecheggiare il
celeberrimo“Nessun dorma”.
Merita un cenno il cast bolzanino della Turandot, ormai collaudato in tutt’Italia.
Giovanna Casolla, dotata di una voce chiara e limpida, non sempre impeccabile nel
registro acuto ed efficace dal punto di vista interpretativo, si è alternata nel ruolo di
Turandot con una mediocre e spesso urlante Lisa Livngston. Francesco Hong, uno dei
più convincenti Calaf, ha lasciato il posto in replica a Kamen Chanev, che non
possiede la presenza scenica del primo. Senza lode e senza infamia, Chiara Angella e
Rachele Stanisci si sono alternate nel ruolo di Liù. Affiatata e divertente la prova di
Walter Franceschini, Nicola Pamio e Cristiano Olivieri nel ruolo di Ping, Pong e Pang.
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Elia Todisco e Marco De Carolis hanno interpretato in modo soddisfacente Timur e
Altoum. Di spessore la prova di Jean Méning, nel ruolo del clown inserito da
Brockhaus, capace di legare in modo magistrale la trasformazione scenica introdotta
dal regista tedesco. Del tutto deludente, a tratti imbarazzante, il coro del Teatro
sociale di Rovigo, fuori tempo e incapace di dare conto di un’ambientazione orientale.
Oliver von Dohnànyi ha diretto in modo acerbo e senza brio la Filarmonica Veneta
“G.F. Malipiero”, spesso tenuta troppo alta per un teatro dotato di eccellente acustica,
ma poco adatto a rappresentazioni operistiche.
Un pezzo di
storia nel
Gruppo
della Rocca
(II)
Urca, che
tempi!
Protomembrana
Cuba libre
I love Luci
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