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Metodi e tecniche del colloquio psicologico
Anno accademico 2005/2006
Il colloquio come
strumento psicologico e
come “metodo”
Prof. M. T. Maiocchi
Noemi Monti
3200714
1
Indice
1.
Il colloquio psicologico: definizione e aspetti costitutivi
1.1
Aspetti costitutivi del colloquio psicologico
1.1.1 Il conduttore
1.1.2 Il soggetto
1.1.3 La motivazione
1.1.4 L’aspettativa
1.1.5 Lo scopo
1.1.6 Lo scambio verbale
1.1.7 La comunicazione non verbale
1.1.8 Il silenzio
1.1.9 L’ascolto
1.1.10 La relazione
1.1.11 L’ambiente
1.1.12 L’oggetto
1.2 Fasi di svolgimento del colloquio
2.
Applicazioni: il colloquio clinico con il paziente schizofrenico
2.1 La schizofrenia
2.2 Il colloquio…
2.2.1 …nella fase acuta
2.2.2…nella fase sub-acuta
2.2.3…nella fase cronica
2
1. Il colloquio psicologico: definizione e aspetti costitutivi
Il colloquio psicologico, pur presentano elementi di contatto con l’usuale mezzo di scambio della
comunicazione quotidiana, presenta delle caratteristiche proprie che lo rendono una “metodologia
scientifica”. “ Un metodo si definisce in quanto tale perché possiede delle regole che ne stabiliscono
la struttura e che rimangono, in qualche modo, fisse e costanti. Questi elementi di stabilità
permettono il suo adeguamento a situazioni fra loro estremamente diversificate” (Giusberti e Ricci,
1987).
Il termine “colloquio” presenta una storia antica: esso deriva dal verbo latino colloqui che significa
“parlare con”, “parlare insieme”. È possibile identificare cinque caratteristiche generali del
colloquio:
-
la presenza di due persone in relazione asimmetrica (uno degli interlocutori, infatti, pone
delle questioni all’altro che possiede una funzione di ascolto e, per quanto possibile, di
risposta);
-
la necessità di un accordo comune tra gli interlocutori ( se ne distinguono due livelli
principali – uno preliminare, fondato sul riconoscimento dell’interazione verbale come
fondamentale strumento di acquisizione delle informazioni- ed uno secondario, relativo al
grado di strutturazione del colloquio stesso-);
-
un oggetto o argomento che costituisca il focus dello scambio (oggetti privilegiati del
colloquio sono opinioni, atteggiamenti, esperienze, caratteristiche e vissuti dell’interlocutore
ricavati dalla comunicazione, verbale e non, con lo psicologo);
-
un obiettivo o scopo (il colloquio si pone come obiettivo principale quello di effettuare una
valutazione delle condizioni generali dell’interlocutore in una determinata fase del suo ciclo
di vita);
-
un’atmosfera
che
favorisca
lo
scambio
comunicativo
(ciò
dipende
soprattutto
dall’atteggiamento del conduttore che deve essere caratterizzato da empatia e disponibilità
all’ascolto, attenzione per le altrui emozioni, in particolare quelle connotate negativamente).
Grazie a questi elementi è possibile dare una definizione generale di colloquio in ambito
psicologico come: “Un particolare tipo di strumento caratterizzato da uno scambio verbale in una
situazione dinamica di interazione psichica che permetta lo svilupparsi di un processo di
conoscenza. Per raggiungere tale obiettivo ci si basa sul consenso tra conduttore e partecipante, a
discutere, a parlare, trattare insieme un tema o un argomento. Per facilitare la comunicazione, il
3
conduttore usa tecniche non direttive, consente al soggetto di sentirsi valorizzato, non sottoposto a
giudizio valutativo, trattato come persona da un’altra personali cui percepisce la disponibilità”1.
1.1
Aspetti costitutivi del colloquio psicologico
1.1.1. Il conduttore
È un professionista in grado di gestire un colloquio psicologico: è un esperto di “conversazione”.
Egli è inoltre capace di creare un ambiente, un setting accogliente che consente e promuove una
migliore conoscenza dell’altro. Tre sono i tipi di compiti che è chiamato ad assolvere:
- facilitare la conversazione;
- facilitare la relazione;
- facilitare il processo di conoscenza.
Al fine di raggiungere gli obiettivi sopra citati, il conduttore deve possedere alcune caratteristiche:
-
lo schema teorico generale di riferimento, che svolge il ruolo di guida nell’ideazione e nella
conduzione del colloquio. Questo permette al “soggetto del colloquio” di vedere lo
psicologo come persona autonoma, come, utilizzando termini psicoanalitici, un oggetto
“intero e non parziale”;
-
la teoria specifica che fa da guida nell’ideazione e nella conduzione del colloquio. Si tratta
di definire le aree specifiche (intelligenza, personalità…) che il conduttore intende
investigare e che gli consentono un’accurata definizione delle ipotesi “particolari” (ossia
l’insieme di informazioni che si desidera ottenere e che costituiscono l’ “oggetto del
colloquio”);
-
cultura generale o accademica. Si riferisce al bagaglio di cultura generale e accademica
richiesta al conduttore sulla base del percorso formativo intrapreso e che gli consente di
utilizzare lo strumento del colloquio in “modo scientifico”. In particolare la cultura generale
permette allo psicologo di “seguire il soggetto nel suo modo di esporre le proprie idee,
opinioni, conoscenze”2;
1
2
A. LIS, P. VENUTI, M. DE ZORDO, Il colloquio come strumento psicologico, Giunti, Firenze 1995, p. 8
A. LIS, P. VENUTI, M. DE ZORDO, Il colloquio come strumento psicologico, Giunti, Firenze 1995, p. 30
4
-
caratteristiche di
personalità. Poiché l’atteggiamento
dello psicologo
costituisce
un’importante variabile del colloquio, la sua personalità può produrre determinati effetti e
distorsioni nella conduzione.
In particolare, legate alla personalità del conduttore, sono state individuate quattro principali
distorsioni:
- l’effetto alone (Thorndike, 1920), che consiste nell’estensione di aspetti effettivamente
riscontrati su un solo tratto della personalità del soggetto anche ad altri tratti;
- la correlazione illusoria (Newcomb, 1931), ossia la tendenza a considerare tratti diversi
della personalità come un insieme di tratti congruenti tra loro;
- il pregiudizio contagioso (Rice, 1929), che consiste in una convinzione, non avente basi
reali, fondata sul pregiudizio e sul preconcetto;
- l’effetto indulgenza (Sears, 1936), che si traduce nell’assunzione di un atteggiamento
“buonista”, troppo indulgente, nei confronti dell’interlocutore.
È possibile riassumere così alcune caratteristiche del buon conduttore:
- adulto e maturo dal punto di vista psicologico, con una personalità integrata;
- motivato al proprio compito;
- autenticamente interessato all’altro e al suo mondo interiore;
- in grado di mantenere l’atteggiamento di neutralità nei confronti dell’altro e di quanto
comunica.
Tutte queste caratteristiche costituiscono una sorta di “cornice mentale” del conduttore, parte
integrante della struttura mentale e dello stile dell’interlocutore.
1.1.2 Il soggetto
Il soggetto è colui che, inviato da altri o recatosi spontaneamente, viene incontrato dal conduttore al
fine di raggiungere una certa conoscenza di sé attraverso la relazione interpersonale che si crea con
lo psicologo. Come per il conduttore, anche per il soggetto si possono delineare alcune
caratteristiche che possono influenzare lo svolgimento del colloquio:
-
età. È particolarmente importante in quanto influenza altri aspetti del colloquio quali
motivazione, aspettative, relazioni, modalità privilegiata di comunicare (sia verbale che
non). Non riguarda semplicemente gli aspetti anagrafico-cronologici delle persone, ma le
peculiarità evolutive che ogni fase di vita presenta;
5
-
caratteristiche di personalità. Il “soggetto del colloquio” può mostrare una buona
disponibilità nello scambio con lo psicologo, oppure essere restio e diffidente (in questo
secondo caso, spesso il soggetto attiva meccanismi difensivi quali la razionalizzazione,
l’isolamento…);
-
livello socioeconomico e culturale. Influenzano il colloquio in diversi modi. In particolare
livelli socioeconomici e culturali alti possono spingere il conduttore a formarsi un’idea
dell’interlocutore come persona orientata al successo (sia personale sia sociale), capace di
comprendere maggiormente le domande postegli e di partecipare in modo attivo al
colloquio; per contro livelli socioeconomici e culturali bassi possono portare il conduttore a
formulare una previsione negativa sulla possibilità di una reciproca comprensione sia a
livello linguistico che empatico.
1.1.3 La motivazione
“La motivazione rappresenta l’“aspetto dinamico” della condotta. Essa è inerente alle fonti e alle
modalità di utilizzo dell’energia psichica necessarie alla persona per intraprendere o portare avanti
una determinata attività” (Petter, 1994).
Al fine di comprendere tale aspetto occorre distinguere preliminarmente tra motivazione intrinseca
e motivazione estrinseca: la prima è alla base di quei comportamenti giudicati “spontanei” da alcuni
ricercatori e si evidenzia nel colloquio quando è il soggetto stesso, spinto da un’ esigenza di
“conoscenza di sé”, a richiedere l’intervento psicologico; la seconda, invece, si mette in luce
quando la partecipazione del soggetto agli incontri è dettata da una qualche forma di
condizionamento esterno. Durante il colloquio, affinché lo scambio verbale sia efficace, occorre che
vi sia nel soggetto (ma anche nel conduttore) motivazione intrinseca.
Se nell’interlocutore lo psicologo percepisce solo l’esistenza di una motivazione estrinseca può
adottare alcune strategie per modificarle e farla diventare “motivazione estrinseca autodeterminata”.
Oltre alla consueta distinzione tra intrinseca ed estrinseca, la motivazione può essere distinta in base
ad altre caratteristiche che dipendono da tre fattori: finalità, contenuto del colloquio e teoria di
riferimento. In particolare si distingue tra:
-
motivazione soggettiva (tensione psicologica verso il raggiungimento di un determinato
obiettivo) e motivazione oggettiva (inerente ad una qualità dell’obiettivo stesso –
facile/difficile…-);
-
motivazione su base cognitiva e/o affettiva. In particolare il colloquio psicoterapeutico
sembra essere fondato su aspetti prevalentemente emotivi, quello di ricerca su base
cognitiva e quello diagnostico su entrambi gli aspetti;
6
-
motivazione conscia/inconscia. Entrambi i tipi di motivazione sono presenti nel colloquio. A
seconda dell’orientamento teorico del conduttore esse acquisteranno maggior o minore peso.
Il livello superficiale conscio rappresenta comunque sempre il punto di partenza;
-
motivazione autocentrata/eterocentrata. In base alla prima il soggetto parla esplicitamente di
sé con l’obiettivo giungere ad una conoscenza specifica che ritiene utili per sé, mentre nella
seconda il colloquio è centrato su un tema esterno alla persona (almeno inizialmente).
1.1.4 L’aspettativa
L’aspettativa si configura come un insieme di idee e speranze che sia conduttore che soggetto
possiedono nei confronti del colloquio. Essa si differenzia dalla motivazione in quanto ha un
carattere essenzialmente affettivo e spesso meno consapevole. Le attese del conduttore sono
fortemente legate allo scopo generale del colloquio e si differenziano in base all’ambito di
applicazione. Da parte del soggetto, invece, le aspettative sono legate alla richiesta affettiva e
latente che nutre nei confronti dell’incontro. In particolare, in ambito clinico, l’aspettativa è
caratterizzata da: intensità del bisogno percepito dal soggetto, qualità del beneficio che si aspetta
dalla partecipazione al colloquio e consapevolezza della propria aspettativa.
Il soggetto è spinto al colloquio da un bisogno: trovare sollievo ad un disagio percepito.
1.1.5 Lo scopo
Lo scopo generale che ogni tipo di colloquio si prefigge (condiviso sia dal conduttore sia dal
soggetto) è quello di “innescare” un processo di conoscenza. Si può asserire che, prendendo in
considerazione la diade psicologo-soggetto, se nella motivazione il focus attentivo è posto
principalmente sul soggetto, nel caso dello scopo esso si sposta maggiormente sul conduttore, che
ha il compito di esplicitare e concordare con il soggetto, il fine principale comune da raggiungere.
1.1.6 Lo scambio verbale
Lo scambio verbale che si realizza nel corso del colloquio ha caratteristiche precise che lo
distinguono dalla conversazione libera ed informale, che è propria delle interazioni quotidiane. Esso
inoltre si differenzia in base alle diverse tipologie di colloquio: ricerca, diagnosi, terapia.
Il più importante aspetto che caratterizza lo scambio verbale all’interno del colloquio è la specificità
del linguaggio. A tal proposito si possono distinguere due aspetti fondamentali:
-
tipo di linguaggio. Il linguaggio utilizzato dallo psicologo deve adattarsi all’interlocutore,
tenendo conto della sua età, del livello socioculturale e delle caratteristiche di personalità
7
che presenta. Tutto ciò è finalizzato alla “comprensione” delle domande da parte del
soggetto;
-
modalità di formulazione delle domande. Le domande devono essere formulate in modo
chiaro, tale da non generare fraintendimenti, da non stimolare nel soggetto disagio e da
facilitarne in lui la risposta. Guittet (1983) classifica le domande in: dirette (indagano aspetti
di conoscenza e razionalità), indirette (raccolgono informazioni inerenti a sentimenti ed
emozioni) e proiettive (richiedono al soggetto di immaginarsi situazioni fantastiche e di
esprimere i suoi sentimenti).
In generale comunque le domande devono portare il soggetto ad affrontare gradualmente i temi del
colloquio andando dal particolare al generale o dal semplice al complesso.
1.1.7 La comunicazione non verbale
Sebbene il colloquio si fondi in buona parte sullo scambio verbale, anche la comunicazione non
verbale riveste un ruolo importante durante l’interazione: “il non verbale è più verbale del verbale”
(Maiocchi, 2006). Tra scambio verbale e comunicazione non verbale esiste un’importante
differenza: mentre il primo facilita l’espressione conscia della comunicazione (è maggiormente
controllabile), la seconda esprime gli aspetti latenti, affettivi ed istintivi (sfugge più facilmente al
controllo). Sono diverse le funzioni che la comunicazione non verbale può assolvere nel corso di un
colloquio. Tra queste vi sono:
-
ripetizione. La comunicazione non verbale rinforza ed integra ciò che è detto verbalmente;
-
contraddizione. Il messaggio non verbale può porsi in contrasto con quanto enunciato
verbalmente;
-
sostituzione. Il messaggio verbale può essere sostituito da quello non verbale;
-
accentuazione. Le espressioni non verbali possono enfatizzare i contenuti o alcune parti del
messaggio verbale;
-
relazione e regolazione. Includono gli aspetti del non verbale che contribuiscono a regolare
il flusso verbale nel corso dell’interazione (cenni del capo, sguardi…);
-
funzione informativa. È svolta dai gesti aventi un significato condiviso da tutti che può
essere un messaggio, una sottolineatura, l’espressione di un’emozione;
-
funzione interattiva. È realizzata dai gesti che possono modificare o influenzare lo scambio
comunicativo tra due persone (contatto visivo, sguardi…);
-
funzione espressiva. È svolta dai gesti appositamente impiegati per comunicare un
messaggio;
8
-
funzione referenziale. È propria dei gesti illustratori che si propongono come “commento” al
verbale.
Le prime cinque funzioni sono state identificate da Sir Argyle, Ekman e Freisen, mentre le restanti
da Buck, von Cranach, Ricci Bitti e Zani (quest’ultime riguardano in particolare il livello di
espressione e comunicazione implicito nel non verbale).
1.1.8 Il silenzio
Il silenzio è parte integrante dello scambio verbale che si attua nel corso del colloquio. La
psicoanalisi lo ha inizialmente considerato come un rifiuto ad esprimersi, a condividere qualcosa di
personale con lo psicologo; successivamente questa posizione è stata rivista e sono stati messi in
luce i molteplici significati che il silenzio può rivestire (momento di riflessione, facilitazione di un
clima di ascolto ed attenzione, opposizione o resistenza al colloquio, momento “vuoto”, privo, cioè
di comunicazione).
È compito dello psicologo interrogarsi sul significato del silenzio del soggetto in una data
circostanza, chiarendone verbalmente il significato ad un livello di comprensione dell’interlocutore,
facilitandone così la prosecuzione dello scambio verbale.
Anche il silenzio del conduttore può assumere diverse valenze: “non saper dire”, “un attimo di
vuoto mentale”, “un silenzio empatico di ascolto”3.
1.1.9 L’ascolto
L’ascolto è alla base della costituzione della relazione tra soggetto e professionista.
“Ascoltare significa: comprendere e valutare i messaggi inviati dall’interlocutore, le sue idee, i suoi
punti di vista, ma anche entrare empaticamente in contatto con il suo mondo più intimo e personale
del soggetto. Un ascoltatore empatico sa rimanere fedele a ciò che ha sentito e sa trarne spunto per
formulare nuove domande” (Scotto Di Carlo, 1994).
Inoltre saper ascoltare comprende la capacità di cogliere, non solo quello che il soggetto comunica,
ma anche il suo eventuale disagio, le sue difficoltà.
Kohut (1959) definisce l’ascolto come “l’abilità ad assumere immaginativamente la posizione del
parlante. In tal modo è possibile comprendere dall’interno, empaticamente, senza giudicare,
emozioni e sentimenti da lui provati. Il processo di ascolto completo implica la capacità di percepire
3
A. LIS, P. VENUTI, M. DE ZORDO, Il colloquio come strumento psicologico, Giunti, Firenze 1995, p. 60
9
i segnali inviati dall’altro, quindi di unirli a quelli desunti dalla propria esperienza e poi di
interpretarli”.
Da tali considerazioni ne consegue che l’ascolto attento e partecipe è una condizione fondamentale
affinché si possa conoscere, capire ed aiutare il soggetto nel suo percorso di cambiamento.
Lo scambio verbale, la comunicazione non verbale, il silenzio e l’ascolto costituiscono una
particolare competenza: la “competenza comunicativa”. Essa è basata su tre classi specifiche di
abilità:
-
abilità nella ricezione, ossia essere in grado di cogliere ed interpretare adeguatamente i
segnali inviati dall’interlocutore (sia di natura verbale che non verbale);
-
abilità nell’inviare messaggi, ossia agire in modo appropriato nei confronti degli altri
integrando i segnali emessi dal canale verbale e non verbale;
-
abilità intraindividuale, ossia essere capaci di consapevolezza, congruenza interna operando
un costante monitoraggio nei confronti dei propri atteggiamenti comunicativi.
1.1.10 La relazione
La relazione all’interno del colloquio è definibile come “processo d’interazione psichica e
motivazionale che fa da sfondo e consente lo svolgimento del colloquio”.
Essa assume particolari connotazioni e significati. Bion, per esempio, la definisce come “una
conversazione che dovrebbe assomigliare alla vita reale” sottolineandone gli aspetti di spontaneità e
non direttività peculiari dell’incontro tra due persone, ma anche il carattere particolare, quasi
“strano”, di questo incontro.
A proposito di tale tematica, Lai, riconosce l’importanza che lo stile relazionale dello psicologo sia
improntato al “metodo dell’identificazione” (mettersi nei panni dell’altro, assumere il suo punto di
vista, sviluppare empatia nei suoi confronti).
In sintesi la relazione tra psicologo e “soggetto del colloquio” può essere definita “un’area ludica”
in quanto dà spazio sia all’espressività individuale e creativa.
1.1.11 L’ambiente
L’ambiente può assumere diversi significati:
-
ambiente istituzionale. Si intende quello “schema di riferimento” entro cui si sviluppa
l’interazione. Assume particolare importanza nel caso in cui il soggetto sia inviato al
colloquio da terzi, ponendosi come “terza struttura” fantasmaticamente presente, come
10
committente. In questo caso sono tre i partecipanti al colloquio: il committente, l’utente e il
conduttore;
-
stanza di consultazione. Si riferisce all’ambiente fisico in cui avviene il colloquio. Numerosi
autori hanno dedicato ampie ricerche sull’importanza dell’arredamento e sulla sua
disposizione nello spazio (Bloom, Weigel). In ogni caso la stanza dove avviene il colloquio
costituisce una specie di “presentazione non verbale di sé” dello psicologo all’interlocutore,
poiché riflette stili e gusti personali. È inoltre importante che l’ambiente sia accogliente e
faccia sentire a proprio agio il soggetto;
-
setting. Si riferisce all’insieme di particolari che contribuiscono alla creazione di un
ambiente consono allo svolgimento del colloquio. Può essere distinto in interno ed esterno.
Il primo designa la capacità dello psicologo di generare una modalità relazionale adeguata
che consente lo svolgimento del colloquio, mentre il secondo indica il luogo fisico ove si
svolge, la sua durata e la sua strutturazione.
-
ambiente interno.
1.1.12 L’oggetto
L’oggetto comprende contenuto, tema, problema o argomento del colloquio.
I temi trattati possono variare, oltre che in base all’ambito cui si riferiscono, anche in estensione e
specificità.
1.2
Fasi di svolgimento del colloquio
È possibile individuare tre fasi durante lo svolgimento di un colloquio psicologico: fase iniziale,
fase intermedia e fase finale.
La fase iniziale ha come scopo quello di introdurre il soggetto e il conduttore all’interno delle
finalità del colloquio motivandolo adeguatamente. Essa possiede tre obiettivi specifici: il
riconoscimento (esplicitazione dei ruoli all’interno dell’interazione che può avvenire grazie ad una
reciproca presentazione), l’esplicitazione della motivazione e dello scopo (solo dopo che si è creata
un’adeguata atmosfera di fiducia e un buon livello di reciproca conoscenza) e l’accordo iniziale dei
partecipanti sull’obiettivo comune da raggiungere.
La fase intermedia riguarda il processo di conoscenza vero e proprio. In particolare lo psicologo
toccherà quei temi che ritiene importanti per agevolare tale processo nel soggetto.
Infine la fase conclusiva è dedicata all’insieme delle modalità utilizzate dal conduttore per
terminare gli incontri. In questo momento assume grande rilevanza la restituzione, intesa come un
“restituire al soggetto quanto almeno ha dato” (Semi, 1985). Nello specifico, nel colloquio
11
psicodiagnostico, la restituzione comporta un ribadire al soggetto qualche aspetto di ciò che egli ha
raccontato, che consenta di riprendere le problematiche investigate e che gli mostri che è stato
ascoltato con attenzione.
Inoltre a queste tre fasi, nel colloquio psicodiagnostico, ne segue una quarta: la progettazione. Essa
ha l’obiettivo di formulare dei “progetti per il futuro” da realizzare insieme al paziente. Tali progetti
possono essere approfondimenti dei precedenti colloqui, applicazione di reattivi mentali o interventi
psicoterapeutici.
2.
Applicazioni: il colloquio clinico con il paziente
schizofrenico
Nel caso di colloquio con un paziente schizofrenico emerge con forza uno specifico ruolo dello
psicologo che media tra gli aspetti istituzionali e il contatto personale con il paziente.
Il paziente schizofrenico è “un paziente regredito e fissato a livelli di sviluppo libidico molto
primitivi, in cui emerge il processo primario, caratteristico della vita infantile, prima dell’entrata in
funzione dell’aspetto preconscio; ma in cui nell’interpretazione del disturbo alcuni ‘sintomi
accessori possano venir intesi quali tentativi di guarigione, momenti di lotta tra la rimozione e
tentativi di ricondurre la libido ai suoi oggetti” (Freud).
Con tale paziente i compiti dello psicologo sono essenzialmente due: contenere le sue angosce e
gestire la sua regressione. Questo richiede un lavoro istituzionale d’equipe che consenta di
“tradurre” i bisogni e le richieste latenti del soggetto, spesso espressi attraverso alla comunicazione
non verbale. Per trattare con questi pazienti occorre innanzitutto avere una conoscenza adeguata
della malattia.
2.1 La schizofrenia
Bleuler utilizza il termine “schizofrenia” per definire un insieme di disturbi, “Psicosi Funzionali
Endogene”, già individuate da Kraepelin, psichiatra tedesco, come “dementia praecox”.
Kraepelin mette in luce quattro forme di schizofrenia, tutte imputabili, a suo avviso, a cause
eziopatogenetiche (degenerazione organica cerebrale e/o disturbo di natura metabolica): Ebefrenica,
Catatonica, Paranoide e Semplice. Per contro Bleuler focalizza la sua attenzione non tanto sui
sintomi in sé (come aveva fatto Kraepelin), quanto sulla loro interpretazione enfatizzando la
“dissociazione delle funzioni psichiche”, sintomo “principe” della patologia.
12
Bleuler distingue i sintomi in fondamentali (disturbi di tipo associativo, autismo, disturbi della sfera
affettiva, ambivalenza) e accessori (deliri, allucinazioni, disturbi del linguaggio…).
Oltre a Kraepelin e Bleuler, un importante autore, di formazione psicoanalitica, che si è occupato di
disturbi schizofrenici, è Pao. Egli sostiene che tali disturbi non possono essere imputati unicamente
a cause genetiche o ambientali prese separatamente, quanto piuttosto ad un’interazione fra le due
nei primissimi anni di vita del soggetto. Da questa concezione Pao ricava una classificazione
innovativa della patologia. In particolare egli si sofferma sulla diversità dello scambio verbale nei
differenti tipi di disturbi schizofrenici.
1. SCHIZOFRENIA 1. L’infanzia e l’adolescenza del soggetto presentano una buona qualità;
qualità che è “turbata” intorno ai vent’anni, quando un improvviso episodio acuto ed intenso
segnala la malattia. A tale episodio segue generalmente una “guarigione sociale” entro pochi
mesi, spesso seguita da una ricaduta. Questa tipologia di patologia è quella che presenta un
esito prognostico più favorevole.
2. SCHIZOFRENIA 2. Infanzia e fanciullezza sono più disturbate di quelle che caratterizzano
il paziente di tipo 1 e si presentano ritardi ad ogni fase dello sviluppo. È durante
l’adolescenza che compaiono i sintomi. In questo caso anche i genitori sono spesso
disturbati e, in ogni caso, svolgono in modo inadeguato il loro ruolo.
3. SCHIZOFRENIA 3. Fin dall’infanzia l’io del soggetto appare gravemente disturbato. I
sintomi della malattia appaiono durante la pubertà in forma “non-florida” (manifestazioni
acustiche, ritiro affettivo e appiattimento). L’ambiente familiare è spesso patologico e la
prognosi è per lo più sfavorevole.
4. SCHIZOFRENIA 4. Questa forma può essere rappresentata da qualsiasi delle tipologie
precedenti a cui fanno seguito reiterati ricoveri, ospedalizzazioni, anni di malattia e
sofferenza che portano il paziente ad un appiattimento cognitivo, emotivo e sociale e a non
nutrire speranze di guarigione.
L’evoluzione della schizofrenia può seguire almeno tre percorsi:
-
totale guarigione con ripresa della vita sociale, affettiva e lavorativa precedente;
-
ricadute frequenti alternate a periodi di remissione dei sintomi;
-
appiattimento cognitivo, emotivo e sociale.
13
Pao, inoltre, individua tre fasi nel decorso della schizofrenia:
1. fase acuta. E’ caratterizzata da ansia e terrore del paziente con frequenti tentativi di
riorganizzazione del sé;
2. fase sub-acuta. In essa il paziente ristabilisce un senso di coesione del Sé, maturando nuove
opinioni sia su di sé che su chi lo circonda;
3. fase cronica. È caratterizzata da un rafforzamento della coesione del sé maturata nella fase
precedente. Questi nuovi sistemi di riferimento sono pressoché fissi, non inclini a
mutamento e portano il nuovo sé ad un funzionamento inferiore e regredito.
2.2 Il colloquio…
2.2.1 …nella fase acuta
Il colloquio ha come principale obiettivo il contenimento del terrore manifestato dal paziente
accompagnato dal tentativo di offrirgli un supporto per stabilire un senso di coesione del sé. Spesso
il paziente si presenta dallo psicologo contro la sua volontà o in condizioni di contenzione
farmacologia, del tutto privo di motivazione intrinseca.
In questi casi compito del clinico è quello riconoscere empaticamente la sofferenza, il disagio del
paziente, di accostarsi alle sue sofferenze soggettive con interesse sincero, profondo rispetto e
atteggiamento di accettazione incondizionata. Gli schizofrenici, avendo avuto esperienze passate di
tradimento e frustrazione nelle relazioni interpersonali, vivono il rapporto con lo psicologo in modo
estremamente diffidente e sospettoso: è per questo che l’atteggiamento del professionista è di
fondamentale importanza per la conquista della fiducia del suo interlocutore.
Durante la fase acuta della patologia, lo psicologo può trovarsi di fronte a sintomi “floridi”, in
particolare a deliri e allucinazioni (essi vengono attribuiti al paziente ad oggetti esterni dal sé).
Questi costituiscono un “canale preferenziale d’accesso” al conflitto profondo del paziente. È
compito dello psicologo ascoltare e comprendere tali fantasie considerandole come espressioni del
“pensiero primario”dell’individuo.
2.2.2…nella fase sub-acuta
Il colloquio ha, in questa fase, come principale obiettivo quello di modificare le nuove opinioni
riguardo a sé e al mondo esterno, riducendo anche la sensazione di terrore che caratterizza il
soggetto nella fase precedente. Il paziente che si trova in questa fase è spesso stato appena dimesso
dal Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura in seguito ad un ricovero. Gli scopi specifici del
14
colloquio, oltre che quello di sostegno psicologico, sono: aiutare il paziente a non accettare la
chiusura “di un opinione patologica di se stesso e del mondo oggettuale” e a “concettualizzare il
sintomo come inerente alla sua esperienza di angoscia o alla mancanza di benessere, condizioni
correggibili nel contesto delle relazioni oggettuali del paziente” (Pao, 1979).
In questa fase lo psicologo deve essere consapevole della precarietà dell’equilibrio raggiunto dal
paziente e delle esperienze di frustrazione che questi vive ogni qualvolta si percepisce inefficace nel
mantenimento del controllo sulle proprie manifestazioni. La fase sub-acuta è, inoltre, caratterizzata
spesso dall’alternarsi di sintomi tipici della psicosi (deliri, allucinazioni) e di sintomi “pseudonevrotici” (fobie, compulsioni).
Nel momento in cui il soggetto sperimenta la propria adeguatezza nel dialogo e nella relazione col
clinico, egli tenderà ad abbandonare l’alternarsi dei sintomi e ad approssimarsi ad una condizione di
normalità. È infine importante che lo psicologo intrattenga, durante questo periodo, rapporti anche
con la famiglia nucleare del paziente.
2.2.3…nella fase cronica
Il colloquio ha, durante tale fase, l’obiettivo di aiutare il paziente nell’adattamento e nel
cambiamento di opinioni relative alla sfiducia provata nei confronti di chi lo circonda.
Infatti, sembra che il soggetto nutra la convinzione che “il proprio mondo oggettuale gli sia ostile e
che egli non potrà mai riuscire a soddisfare in maniera soddisfacente i propri desideri” 4. A questo
punto il paziente impara a non desiderare e se lo fa, lo fa solo per mezzo delle allucinazioni. Anche
se in questa fase il cambiamento si rivela più complesso, esso è comunque possibile.
Il compito dello psicologo è dunque quello di comprendere l’esperienza soggettiva del paziente,
riconoscendone la sofferenza ed aiutandolo a ritrovare fiducia nel suo “mondo oggettuale” al fine di
consentirgli un adeguato adattamento alla realtà.
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A. LIS, P. VENUTI, M. DE ZORDO, Il colloquio come strumento psicologico, Giunti, Firenze 1995, p. 386
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Bibliografia
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1995
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Bologna, il Mulino, 1999
16
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