Communitas e interculturalità
C’è sempre un po’ di emozione e di nostalgia nel tornare, dopo un anno, in questa aula ove sono
state organizzate tante attività didattiche e tante manifestazioni studentesche che hanno avuto come
promotore il prof. Franco Di Michele e alle quali anch’io ho partecipato. Penso che nel Liceo ci
siano ancora studenti che sono stati suoi alunni, anche se per poco tempo. Pertanto, non c’è alcun
bisogno di ricorrere alla retorica per ricordare un docente molto impegnato in ambito culturale,
sociale, politico e, soprattutto, umano. Noi colleghi che abbiamo lavorato con Franco, pur non
condividendo, in talune occasioni, certi atteggiamenti o alcune idee, siamo testimoni diretti del suo
operato e della sua costante ricerca di una didattica alternativa che incidesse molto più
profondamente nella formazione dei giovani e fornisse loro gli strumenti necessari per poter
camminare da soli. E’ in palio l’autonomia operativa e di pensiero. Questo, però, non significa
anarchia o autarchia, ma sviluppo del pensiero divergente e capacità di comunicarlo. E’ sulla
comunicazione, infatti, che si gioca la partita delle relazioni tra individui. Il ricorso
all’intersoggettività, da parte di tanti autori del pensiero contemporaneo, a cominciare da E.
Levinas, P. Ricoeur, J. Derrida, J. Habermas, G. H. Gadamer, fino a M. M. Olivetti, è oltremodo
significativo e importante.
Il termine communitas richiama la koinè, non tanto nel significato etimologico e/o denotativo in
riferimento ad una lingua di corte che s’impone sui singoli dialetti per divenire lingua
“diplomatica”, quanto in quello connotativo. La valenza significativa, infatti, va colta nel senso
d’identità che il significante assume, quando diviene espressione di un gruppo sociale (etnos) i cui
membri condividono ethos, epos e logos (comportamenti, eroi fondatori e linguaggio), che si
trasmettono attraverso il mythos (la parola, il racconto). Siamo quasi agli antipodi dell’accezione
odierna, denotante non un ristretto gruppo sociale, ma una comunità molto vasta, dall’estensione
veramente “ecumenica” (oikouménes = tutta la terra abitata). Molta strada è da percorrere, prima di
giungere alla contemporaneità che forse vive in modo fortemente conflittuale la multiculturalità.
Non è certo possibile, almeno in questa sede, toccare le singole tappe, tuttavia si può tracciare un
percorso da seguire. Anzitutto occorre distinguere tra multiculturalità e interculturalità. Il primo
termine indica una società nella quale convivono più culture; il secondo determina un progetto
tendente, da una parte, al superamento delle diversità e, dall’altra, alla identificazione mediante le
diversità e le differenze. Solo per inciso, si vuole richiamare come il proliferare delle differenze,
nell’Idealismo trascendentale di Schelling, comporti non l’allontanamento dalla identità
indifferenziata iniziale, ma l’esplicarsi di quest’ultima, attraverso la dialettica, nelle forme
apparentemente contraddittorie della realtà.
L’Ellenismo, vero Illuminismo ante litteram, affermava il cosmopolitismo, inteso come
superamento dell’identità individuale e di gruppo, e la pacifica coesistenza di culture diverse in
un’unica aggregazione politica e sociale. Ecco allora la koinè divenire lingua, per eccellenza, della
comunicazione. Alessandro il Macedone era estimatore della multiculturalità del proprio impero e,
nel contempo, fautore dell’intercultura che sosteneva con l’esempio personale e con un programma
di promozione e di sviluppo della civiltà del tempo, la quale non s’identificava più con quella greca,
la cui lingua, però, diveniva universale, autentico veicolo anche di espansione.
La civiltà greca ci ha trasmesso diverse strutture di communitas: si va dalla polis ai demi, alle
assemblee, alle classi sociali, ecc. C’è sempre un qualcosa di molto profondo che accomuna i
cittadini appartenenti alle varie categorie: interessi politici, economici, ma anche sodalizi culturali.
Si pensi alle varie scuole nate in Atene e in altre poleis. La communitas che avrà più spessore e
significato nella cultura occidentale sarà l’ecclesìa, fondata su vincoli di fratellanza e di amore per il
prossimo, all’interno della quale trova accoglienza chiunque e, soprattutto, i diseredati del mondo e
tutti gli uomini di buona volontà. Con il Cristianesimo si diffonde un altro tipo di vita comunitaria:
il monachesimo (si distingua, però, quello orientale da quello occidentale). Un’altra straordinaria
esperienza è stata prodotta dal protocristianesimo: l’agape. E’ la caritas, la solidarietà, l’altruismo,
l’amore per il prossimo e per i bisognosi. Il Cristianesimo ancora ha mediato questo termine come
communio, in senso lato: unione di tutti i credenti “cattolici” (da katà òlos = tutto intero) e in senso
più stretto come banchetto eucaristico.
Anche il mondo romano antico si è cimentato con il termine communitas che è l’astratto di
communus (composto di cum e munus, cioè un insieme di uffici, di prestazioni, di privilegi propri di
una determinata categoria di persone, munificate del diritto di cittadinanza). Si pensi pure
all’estensione del diritto di cittadinanza a quasi tutto l’impero nel terzo-quarto secolo d. C. e al
connesso problema dell’interculturalità, che forse, non adeguatamente considerato, ha prodotto la
fine del grande impero romano. L’opposizione tra culture diverse ha causato scontri e lotte impari,
conflittualità sociali e politiche, contrasti interni alle diverse classi sociali e tra queste e il potere.
Già Catone il censore lamentava l’abbandono del mos maiorum a favore di una cultura e di una
civiltà fondate sull’effeminatezza e sulla mollezza dei costumi.
Non solo le grandi religioni monoteistiche hanno costituito al proprio interno delle comunità
particolari che vivevano, spesso, anche ereticamente il proprio credo. Secondo D. Hume, la
religione nasce naturalmente politeista (anche G. Vico parla di età degli dei) per poi diventare
monoteista: la prima sfocia nella superstizione e nel determinismo, la seconda nell’intolleranza (le
Crociate, come opposizione tra islamismo e cristianesimo, e l’antiebraismo sono veramente
significativi in merito). Manca, cioè, in tali società qualsiasi progetto d’intercultura. Kant ed Hegel,
educati ad una severa religiosità pietistica, ammettevano e lodavano la communitas intesa quale
sodalizio universale. Una confederazione planetaria di repubbliche per Kant; lo Stato etico per
Hegel. Kierkegaard e Nietzsche disprezzavano, invece, la plebe e la folla che sono rivalutate da
Marx. La filosofia odierna pur ispirandosi alla storicità dei fenomeni legati ai due termini presi in
considerazione, sviluppano temi e problemi connessi ad una civiltà e ad una società in rapidissima
evoluzione. Il postmoderno non definisce assolutamente niente, pertanto sono da ripensare e
valutare alcuni atteggiamenti di società precedenti per trovare soluzione agli attuali problemi che
l’intercultura pone davanti. Quale valore, quale significato, quale ruolo gioca oggi la tecnologia?.
Comunicazione e tecnologia vanno a braccetto. M. macLuhan ci ha fornito dei mezzi straordinari
per leggere il villaggio globale che internet ha esasperato. Da qui l’esigenza di una netiquette, cioè
un’etica del net.
Michele Ciliberti