Concerto dell’11 Aprile 2014 – Chiesa di San Ferdinando – Università Bocconi Il titolo del Concerto era “STABAT MATER di G.B. Pergolesi per soprano, contralto, archi e basso continuo”, ma il programma prevedeva l’avvio del concerto con l’Adagio in sol minore di Tomaso Albinoni, per archi, eseguito dall’Ensemble Pàrodos. Tutti lo conoscono, questo brano, solenne e cantabile a un tempo, certamente rasserenante nel rincorrersi fluttuante delle note. Ci siamo cascati tutti nel tranello architettato dal musicologo Remo Giazotto, il quale sostenne di aver ricomposto nel 1958 il brano in base ad alcuni frammenti del grande compositore del Settecento, trovati fra le macerie della Biblioteca di Stato di Dresda, distrutta dalle bombe durante la II Guerra Mondiale. Alla morte di Giazotto fu scoperta la verità: era una sua composizione originale. Non c’è da dolersene: questo vuol dire che chi conosce bene la musica, sa comporla secondo i vari stili. Con grande profitto artistico… L’Ensemble Pàrodos, accompagnato dal clavicembalista Thomas Scardoni, che ha eseguito l’Adagio, sotto la direzione di Mirko Guadagnini, ha riempito di note la chiesa, accompagnando l’uditorio su un percorso in cui l’anima emergeva per fondersi con l’armoniosa bellezza di un brano a dir poco toccante. Molto apprezzato il gesto del direttore che ha atteso qualche istante per abbassare la bacchetta, in modo che l’applauso entusiasta del pubblico non spezzasse subitaneamente un’atmosfera di elevazione che necessitava di qualche attimo di silenzio per ricomporsi. A questo punto, hanno fatto il loro ingresso le due soliste: Daniela Marti, soprano, e Ilaria Molinari, contralto. Lo Stabat Mater di Pergolesi vede l’alternarsi – in 12 numeri musicali – di duetti e parti solistiche, schema, questo, che sottolinea ora la drammaticità, ora il lirismo di un testo, misto di racconto e di supplica. Parte il duetto, affiatatissimo, con note da un lato profonde, a scuotere le fibre più intime del cuore, e da un altro altissime per portare lo spirito in un rapido incedere verso l’alto, quasi un connubio architettonico fra romanico e gotico. Qual è il fulcro di questo testo, attribuito a Jacopone da Todi? Il verbo stabat: non è solo un esserci, è un esserci con costanza: lo stare significa non allontanarsi, esserci sempre. La Madre, Maria, non si è mossa da sotto la croce, fino al momento di portare il Figlio al sepolcro. Il duetto parte con una sonorità appassionata, un canto pieno di dolore, vibrante. La voce – sono due, ma anche l’arcobaleno ha più colori eppure lo vediamo come un fascio luminoso unico – si appoggia sul termine stabat, quasi a sottolinearne l’importanza del significato. E il canto procede con un alternarsi di duetti e soliste per arrivare, al sesto numero musicale cantato dal soprano, che recita: Vidit suum dulcem natum morientem desolatum dum emisit spiritum. Ecco, qui gli strumentisti hanno un compito particolarmente difficile: accompagnare con potenza e dolcezza un canto che non può che diventare struggente. Da brivido. Continua il canto, alternato, fra preghiera e supplica dell’orante che chiede di poter condividere il dolore della madre e anche quello del Figlio. Pergolesi non indulge in vani virtuosismi: la sua musica, forte e intima, coinvolge chi canta, chi suona e chi ascolta in volute di suoni che sono preghiera e afflato. Non si può non spendere una parola sulla potenza dell’Amen finale, quasi una strofa a sé: difficile sentirne uno così preponderante. Spesso nei canti liturgici ha una levità che finisce gradatamente nel silenzio. Qui è un’affermazione poderosa, che conferma e sottolinea tutto il testo che precede. Un grazie di cuore a tutti gli esecutori, in particolar modo al soprano e al contralto perché la voce umana è sì uno strumento, ma uno strumento particolare che ha bisogno di impeto, dolcezza, ampiezza, levità, modulazione, frutto di grande esercizio e sconfinata sensibilità.