Edizioni Simone - Vol. 1 Diritto del lavoro
Capitolo 14
La cessazione del rapporto di lavoro
Sommario
1. Le cause di estinzione del rapporto di lavoro subordinato. - 2. La disciplina delle dimissioni e delle risoluzioni consensuali.
Sezione Prima: Licenziamenti individuali. - 3. L’evoluzione storica della disciplina del licenziamento.
4. La regolamentazione del licenziamento. - 5. I requisiti sostanziali. - 6. I divieti di licenziamento.
7. Il licenziamento discriminatorio. - 8. I requisiti formali. - 9. L’illegittimità del licenziamento e le conseguenze sanzionatorie.
10. L’impugnazione, l’offerta di conciliazione e la revoca del licenziamento. - 11. Il regime sanzionatorio
dei licenziamenti discriminatori, nulli e orali. - 12. Il vecchio regime sanzionatorio dei licenziamenti illegittimi.
13. Il nuovo regime sanzionatorio dei licenziamenti illegittimi (D.Lgs. 23/2015). - 14. L’area del recesso ad nutum.
Sezione Seconda: Licenziamenti collettivi. - 15. La disciplina. - 16. La procedura di licenziamento collettivo. - 17. Il recesso:
comunicazione, impugnazione e regimi sanzionatori.
1.Le cause di estinzione del rapporto di lavoro subordinato
A) Tipologia
Il rapporto di lavoro, sia esso a tempo determinato che a tempo indeterminato, può estin­
guersi per una pluralità di cause previste dall’ordinamento (1). In particolare:
1) per scadenza del termine: tale ipotesi si realizza solo nei rapporti di lavoro che prevedono una scadenza finale (es. contratto a tempo determinato);
2) per morte del lavoratore.
Non produce l’estinzione del contratto la morte del datore di lavoro poiché di regola il rapporto di lavoro
continua con i suoi successori nella titolarità dell’impresa; il rapporto di lavoro può tuttavia estinguersi
qualora sia strettamente e infungibilmente legato alla persona del datore di lavoro (es. segretaria di un avvocato titolare dello studio legale) (DE LUCA TAMAJO);
3) per risoluzione consensuale (o mutuo consenso) che è la causa generale di risoluzione
dei contratti e che trova pertanto applicazione anche per il contratto di lavoro (ex art.
1372 c.c.);
4) per impossibilità sopravvenuta della prestazione o per forza maggiore. Tali circostanze possono attenere sia al lavoratore (es. la sua carcerazione, oppure la sopravvenuta assoluta inidoneità fisica al lavoro) che al datore (es. requisizione degli impianti
aziendali, loro distruzione per fatti naturali come terremoto od inondazione).
Secondo le disposizioni di diritto civile (artt. 1463 ss. c.c.), nei contratti a prestazioni corrispettive, e tale è
anche il contratto di lavoro, l’impossibilità di una delle prestazioni determina la risoluzione del contratto
liberando entrambe le parti, debitore e creditore. Le ordinarie regole civilistiche non trovano tuttavia piena
applicazione nell’ambito del rapporto di lavoro, in quanto l’impossibilità sopravvenuta della prestazione
non comporta l’automatica estinzione del rapporto, che potrà derivare soltanto a seguito di licenziamento;
5) per altre specifiche cause previste dalla legge: a titolo esemplificativo, se a seguito
dell’ordine del giudice di reintegrazione nel posto di lavoro, il lavoratore esercita l’op(1) Per il contributo dovuto dal datore di lavoro in caso di interruzione del rapporto di lavoro, v. Cap. 15.
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Capitolo 14
zione per l’indennità sostitutiva (cd. opting out), ovvero non riprende servizio entro 30
giorni dall’invito da parte del datore di lavoro, il rapporto di lavoro si risolve (ex art. 18,
co. 1-4, L. 300/1970 e art. 2, co. 3, D.Lgs. 23/2015).
Alle precedenti cause di estinzione del rapporto di lavoro, va aggiunto il recesso che è
l’ipotesi più ricorrente e più importante e che necessita di una trattazione a sé (v. successivi paragrafi).
Particolare rilievo ha il recesso del datore di lavoro, cd. licenziamento, per il quale l’ordinamento appresta una disciplina diretta a limitarne l’esercizio, con la conseguente
affermazione del principio di tipicità delle cause di estinzione del rapporto di lavoro
(ROCCELLA), nel senso che non possono in alcun modo costituire una modalità per
eludere tale disciplina limitativa.
Giurisprudenza
In relazione al principio di tipicità delle cause estintive del rapporto di lavoro, la giurisprudenza ha in più
occasioni affermato che «né all’autonomia individuale né a quella collettiva è consentito, in ordine alla
risoluzione del rapporto, sottrarsi alla disciplina limitativa dei licenziamenti (individuali o collettivi)» con
la conseguente illegittimità delle norme che prevedono una risoluzione automatica (Cass. 535/2003,
1011/2001). Le norme che disciplinano i licenziamenti sono, infatti, considerate imperative, con la
conseguente nullità delle disposizioni contrattuali ad esse contrastanti ex art. 1418 c.c. (Cass. 6175/2000).
La contrattazione collettiva (o, a maggior ragione, il contratto individuale) non può, dunque, «in assenza di una norma che ciò espressamente consenta, prevedere cause estintive del rapporto a
tempo indeterminato diverse rispetto a quelle già individuate e disciplinate dall’ordinamento», quali
licenziamento, dimissioni, mutuo consenso, ovvero alle ulteriori specifiche ipotesi previste dalla legge
(Cass. 13851/2000, 14387/2000, 9958/2000, 6175/2000, 6176/2000).
B) Segue: Il recesso di una delle parti del rapporto
Se il recesso proviene dal lavoratore, assume comunemente la denominazione di dimissioni, se proviene dal datore di lavoro quella di licenziamento.
Il recesso è un atto unilaterale recettizio con cui si manifesta la volontà di porre fine al
rapporto di lavoro. Esso acquista, quindi, efficacia nel momento in cui viene a conoscenza
dell’altra parte.
È sufficiente quindi la mera comunicazione poiché non presuppone alcuna accettazione del destinatario (art.
1334 c.c.).
La disciplina del recesso nel rapporto a tempo determinato è contenuta nel codice civile
(art. 2119) ed è sostanzialmente unitaria, non presentando alcuna distinzione tra licenzia­
mento e dimissioni. Infatti ad entrambe le parti, lavoratore e datore, non è consentito recedere dal rapporto prima del termine stabilito, a meno che si verifichi una giusta causa.
Il recesso del rapporto a tempo indeterminato è, invece, disciplinato in modo diverso tra
lavoratore e datore di lavoro: mentre infatti le dimissioni non necessitano di alcuna giustificazione, il licenziamento è sottoposto alla sussistenza di una causa giustificatrice, secondo
una normatva di carattere speciale a tutela del lavoratore.
Il recesso del datore di lavoro è la causa di estinzione più rilevante dal punto di vista normativo e sociale e pertanto ad esso sono dedicate le due sezioni che seguono, distinte a
seconda se il licenziamento è individuale o collettivo.
La cessazione del rapporto di lavoro
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C) Segue: L’obbligo di preavviso. L’indennità mortis causa
La parte recedente da un contratto di lavoro a tempo indeterminato deve osservare l’obbligo di
dare un periodo di preavviso (art. 2118 c.c.) per evitare che la parte che patisce il recesso si
trovi all’improvviso di fronte alla rottura del contratto (PERA). Durante tale periodo, nel caso di
dimissioni, il datore di lavoro può ricercare «un sostituto nel mercato del lavoro» (ROCCELLA),
nel caso di licenziamento, il lavoratore può procurarsi un’altra occupazione (Cass. 112/1998).
La durata del periodo di preavviso è stabilita dai contratti collettivi di categoria e varia in
relazione alle qualifiche e all’anzianità di servizio dei lavoratori.
Durante il periodo di preavviso, il rapporto di lavoro continua normalmente con la conseguenza che entrambe le parti sono tenute ad osservare tutti gli obblighi ad esso connessi:
pertanto, deve essere eseguita la prestazione (ed infatti si dice che «il preavviso deve essere lavorato») e pagata la retribuzione.
La prestazione deve essere effettivamente eseguita per cui, da un lato, i giorni di ferie maturati e non consumati non possono essere portati a decurtazione del periodo di preavviso (art. 2109, co. 4, c.c.), dall’altro, esso rimane sospeso se dopo la comunicazione interviene la malattia, l’infortunio o la gravidanza del prestatore.
Il periodo di preavviso lavorato è, inoltre, computato ad ogni effetto ai fini dell’anzianità.
In mancanza di preavviso, la parte recedente deve corrispondere all’altra un’indennità equivalente all’importo della retribuzione che sarebbe spettata per il periodo di preavviso (cd.
indennità sostitutiva del preavviso).
L’obbligo di preavviso tuttavia non sussiste se le dimissioni o il licenziamento avvengono
per giusta causa (v. succ. lett. D). In tal caso, occorre tuttavia distinguere:
—nel caso di licenziamento, il datore di lavoro è dispensato dall’obbligo di preavviso e
dalla corresponsione dell’indennità sostitutiva;
—nel caso di dimissioni, il lavoratore è dispensato dall’obbligo di preavviso e benché parte
recedente non solo non è tenuto alla corresponsione dell’indennità sostitutiva, ma ha diritto
egli stesso a percepirla. In sostanza, l’atto di recesso, in quanto fondato sua una giusta causa, produce il duplice effetto di consentire la cessazione immediata del rapporto di lavoro e,
nel contempo, di avere diritto all’indennità economica. Ciò perché le dimissioni non dipendono da una libera scelta del lavoratore, ma da un comportamento colpevole del datore di
lavoro (si pensi all’ipotesi di mancata corresponsione della retribuzione protrattasi nel tempo). Ne consegue che l’indennità sostitutiva che il datore di lavoro è tenuto a corrispondere
al lavoratore recedente svolge una funzione, si potrebbe dire, latamente «risarcitoria».
L’indennità si calcola computando le provvigioni, i premi di produzione, le partecipazioni agli utili o ai prodotti ed ogni altro compenso di carattere continuativo, con esclusione di quanto è corrisposto a titolo di rimborso
spese (art. 2121, co. 1, c.c.).
In caso di morte del lavoratore, l’indennità è corrisposta a taluni fami- Obbligo di preavviso
liari superstiti, quali il coniuge, nonché la parte dell’unione civile (art.
1, co. 17, L. 76/2016), i figli e, se vivevano a carico del prestatore di
lavoro, i parenti entro il terzo grado e gli affini entro il secondo grado (cd. indennità mortis causa). La ripartizione dell’indennità, se non vi è accordo tra gli aventi diritto, deve
farsi secondo il bisogno di ciascuno. In mancanza di tali soggetti, l’indennità è attribuita
secondo le norme della successione legittima (art. 2122 c.c.).
Analoga disposizione si applica anche per il TFR (v. Cap. 16 par. 2 lett. D).
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Capitolo 14
D)Segue: La giusta causa di recesso
L’art. 2119 c.c. disciplina la «giusta causa» come condizione che legittima la risoluzione
immediata del rapporto sia esso a tempo determinato (in tal caso l’estinzione avverrà prima
della sua naturale scadenza) o a tempo indeterminato (nel qual caso non è necessario che si
rispetti il periodo di preavviso).
La giusta causa opera per entrambe le parti del rapporto potendo essere posta a fondamento del recesso sia dal lavoratore che dal datore.
La norma fa riferimento ad una causa «che non consenta la prosecuzione, anche provviso­
ria, del rapporto» e da tale formulazione si è giunti a concepire la giusta causa come un
qualsiasi atto o fatto, riferibile alla sfera contrattuale ed entro determinati limiti a quella
extracontrattuale, di oggettiva gravità.
2.La disciplina delle dimissioni e delle risoluzioni consensuali
Il D.Lgs. 151/2015 (art. 26), di attuazione del Jobs Act (L. 183/2014), ha ridisegnato, in
chiave di semplificazione, la disciplina delle dimissioni volontarie e delle risoluzioni con­
sensuali del rapporto di lavoro per la generalità dei lavoratori.
Per entrambi gli atti di cessazione del rapporto di lavoro devono essere utilizzati, a pena di
inefficacia, i moduli (2) resi disponibili dal sito del Ministero del Lavoro (www.lavoro.gov.
it) che devono essere trasmessi al datore di lavoro e alla sede territoriale dell’Ispettorato
nazionale del lavoro (INL) esclusivamente con modalità telematiche.
La trasmissione dei moduli può avvenire anche per il tramite dei patronati, delle organizzazioni sindacali, dei
consulenti del lavoro (3), delle sedi territoriali dell’INL, nonché degli enti bilaterali e delle commissioni di
certificazione, espressamente abilitati a trasmettere il modulo per conto del lavoratore.
La procedura telematica è divenuta operativa dal 12-3-3016, a seguito della definizione dei
dati contenuti nel modulo e degli standard e delle regole tecniche per la compilazione e
trasmissione (D.M. 15-12-2015).
Dalla predetta data è conseguentemente venuta meno la procedura di convalida delle dimissioni e delle risoluzioni consensuali introdotta dalla legge Fornero (art. 4, co. 16-23, L. 92/2012) per contrastare i rischi di manipolazione della volontà del prestatore (si pensi alle cd. dimissioni in bianco fatte sottoscrivere al lavoratore per
poi essere utilizzate dal datore di lavoro quando ritenuto opportuno).
Entro sette giorni dalla data di trasmissione del modulo il lavoratore può revocare le dimissioni e la risoluzione consensuale con le medesime modalità (cd. diritto di ripensamento).
Sono esclusi dalla nuova procedura le dimissioni e le risoluzioni consensuali (4):
—delle lavoratrici in stato di gravidanza o delle lavoratrici o dei lavoratori durante i primi
tre anni di vita del bambino, nonché nei primi tre anni di accoglienza del minore adot­
(2) Salvo che il fatto costituisca reato, il datore di lavoro che alteri il modulo è punito con la sanzione amministrativa da €
5.000 ad € 30.000. L’accertamento e l’irrogazione della sanzione sono di competenza delle sedi territoriali dell’INL.
(3) La trasmissione telematica dei moduli è consentita soltanto ai consulenti del lavoro e non anche agli altri professionisti (avvocati, dottori commercialisti, ragionieri etc.) di cui all’art. 1, co. 1, della L. 12/1979 (Min. Lav. risposta ad interpello 24/2016).
(4) Il Codice per le pari opportunità prevede espressamente che le dimissioni delle lavoratrici presentate nel periodo intercorrente dal giorno della richiesta delle pubblicazioni di matrimonio, in quanto segua la celebrazione, a un anno dopo
la celebrazione stessa devono essere confermate entro un mese presso gli uffici pubblici competenti (art. 35 D.Lgs. 198/2006).
L’ipotesi non è contemplata tra i casi di esclusione della procedura telematica.
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La cessazione del rapporto di lavoro
tato o in affidamento, o, in caso di adozione internazionale, nei primi tre anni decorrenti dalla comunicazione della proposta di incontro con il minore o dell’invito a recarsi
all’estero per la proposta di abbinamento.
Trova applicazione infatti la specifica procedura che si svolge dinanzi al servizio ispettivo del Ministero del
Lavoro che provvede alla convalida dell’atto di risoluzione e alla quale è sospensivamente condizionata
l’efficacia (art. 55, co. 4, D.Lgs. 151/2001);
—avvenute nell’ambito del lavoro domestico;
—intervenute in una delle sedi qualificate previste dalla legge (es. sede sindacale) (art.
2113, co. 4, c.c.) ovvero avanti alle commissioni di certificazione (art. 76 D.Lgs. 276/2003).
L’esclusione è estesa anche al recesso durante il periodo di prova (ex art. 2096 c.c.) e ai
rapporti di lavoro marittimo (circ. Min. Lav. 4-3-2016, n. 12), nonché ai rapporti di lavoro
alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni (art. 26, co. 8bis).
Sezione Prima
Licenziamenti individuali
3.L’evoluzione storica della disciplina del licenziamento
A) Dalla libertà di recesso al divieto di licenziamenti immotivati
L’esercizio del diritto potestativo di recesso da parte del datore di lavoro (licenziamento)
incontra notevoli limiti legislativi.
Tali limiti non può dirsi costituiscano violazione del principio di parità contrattuale delle parti.
Ciò perché nel contesto socio-economico che ha caratterizzato l’evoluzione della legislazione speciale del lavoro, il rapporto di lavoro presentava un’obiettiva e stridente disparità
tra le parti: un contraente «forte», il datore di lavoro, un contraente «debole», il lavoratore.
La subalternità contrattuale e socio-economica del lavoratore — che, pur con aspetti ed
implicazioni differenti, permane anche ai nostri giorni — si proietta nello sviluppo del
rapporto di lavoro ove il prestatore è esposto a rischi di abusi che solo una specifica normativa garantista può scongiurare.
Ecco perché la disciplina dei licenziamenti ha subìto nel tempo una notevole evoluzione,
man mano che le esigenze di tutela dei lavoratori hanno trovato nella società e nelle forze
politiche un maggiore riscontro.
Nel codice civile del 1865, la materia del lavoro era circoscritta in una visione economicofilosofica esclusivamente di tipo liberale, sostanzialmente ribadita dal Evoluzione
codice civile del 1942, che, all’art. 2118, prevede la libertà del reces­ della disciplina
so sia del datore di lavoro che del lavoratore dal contratto di lavoro a del licenziamento
tempo indeterminato (salvo l’obbligo del preavviso), ponendo sullo
stesso piano lavoratore e datore di lavoro. Tale uguaglianza formale non tiene conto della
posizione di svantaggio del primo nei confronti del secondo.
Con l’avvento della Costituzione repubblicana, sulla base degli artt. 4 e 41, co. 2, si aprì
così in dottrina un ampio e vivace dibattito perché venisse affermato il divieto di licenzia­
menti immotivati.
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Capitolo 14
La materia, per oltre quindici anni, è stata oggetto di contrattazione collettiva: gli accordi
interconfederali del 1947 introdussero alcune limitazioni ai licenziamenti nell’industria; nel
1950 due accordi regolamentarono sia i licenziamenti individuali che quelli collettivi e
vennero sostituiti da due successivi accordi del 1965.
La prima disciplina legislativa venne introdotta dalla L. 15-7-1966, n. 604 che sanciva
espressamente l’illegittimità del licenziamento non sorretto da giusta causa o da giustifica­
to motivo. Tale normativa era applicabile, però, solo ad imprese con più di 35 dipendenti.
Un decisivo passo avanti sul piano della tutela effettiva della stabilità del posto di lavoro è
stato poi compiuto con la L. 20-5-1970, n. 300 (Statuto dei lavoratori), che, all’art. 18,
ha previsto la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, nel caso di insussistenza di
una giusta causa o di un giustificato motivo del licenziamento.
La L. 11-5-1990, n. 108 ha poi dato un nuovo assetto alla normativa dei licenziamenti innovando la L. 604/1966 e modificando l’art. 18 L. 300/1970. In particolare, da un lato, ha
esteso anche alle cd. piccole imprese la disciplina del recesso per giusta causa o giustificato motivo, prevedendo l’obbligo di riassunzione o, in alternativa, il risarcimento del danno
per il lavoratore illegittimamente licenziato, dall’altro, viene riconosciuto ai lavoratori di
imprese con più di 15 dipendenti il diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro.
B) La vicenda dell’«articolo 18»
All’inizio del nuovo millennio si manifesta la tendenza ad abbandonare il modello di rigorosa protezione del lavoratore che ha trovato riflesso nella vicenda dell’«articolo 18» (L.
300/1970) che ha visto sindacati, partiti politici e imprese arroccati su due posizioni radicali e contrapposte, una per la strenua difesa di tale norma, l’altra in favore dell’abolizione.
È stata così tentata sia la strada dell’abrogazione della norma attraverso il referendum del
2000 denominato «Licenziamenti: abrogazione delle norme sulla reintegrazione del posto
di lavoro», ammesso con sent. Corte Cost. 46/2000, ma con esito negativo per mancato
raggiungimento del quorum necessario per la validità, sia quella della modifica legislativa
cui però si è desistito per molti anni.
E difatti, a distanza di 20 anni dall’ultima modifica, la L. 4-11-2010, n. 183, cd. collegato
lavoro, si limita ad innovare il regime di impugnazione del licenziamento, ma non intacca
le tutele dei lavoratori contro i licenziamenti illegittimi, che vengono invece integralmente
stravolti dopo pochi anni.
Il legislatore interviene nel 2012 con la L. 92/2012 (cd. legge Fornero) direttamente sull’art.
18 riducendone sensibilmente il campo di applicazione (v. succ. lett. C) e nel 2015, con il D.Lgs.
23/2015, che in attuazione del Jobs Act, introduce una nuova disciplina dei licenziamenti, così
escludendo l’applicazione dell’art. 18 ai lavoratori assunti dal 7-3-2015 (v. succ. lett. D).
Il diritto del lavoratore licenziato alla reintegrazione nel posto di lavoro, così faticosamente ottenuto, viene sostituito progressivamente dal diritto al risarcimento del danno.
Nel 2017 la vicenda in esame ritorna nuovamente alla ribalta e di nuovo si intende utilizzare lo strumento referendario, ma nel senso opposto rispetto a quello del 2000: si mira cioè
a ridare all’art. 18 il compito di assicurare nuovamente il diritto alla reintegrazione nel
posto di lavoro nella sua pienezza, peraltro estendendone il campo di applicazione.
Viene infatti proposta l’«abrogazione delle disposizioni in materia di licenziamenti illegittimi», da un lato, del D.Lgs. 23/2015 nella sua interezza, dall’altro, di alcune norme dell’art.
La cessazione del rapporto di lavoro
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18 al fine di ottenere, in caso di risultato referendario positivo, «una disciplina precisa e
rigorosamente unitaria, incentrata sulla tutela reale della reintegrazione nel posto di lavo­
ro per la generalità dei licenziamenti illegittimi, in tutti i casi in cui il datore di lavoro oc­
cupi alle sue dipendenze più di cinque lavoratori». Tuttavia, con sentenza 26/2017, la
Corte costituzionale ha dichiarato inammissibile la richiesta di referendum.
C) L’intervento riformatore della legge Fornero (L. 92/2012)
Come accennato, nel 2012 il regime sanzionatorio dei licenziamenti illegittimi previsto
dall’art. 18 L. 300/1970 viene completamente riformato: la legge Fornero (L. 28-6-2012,
n. 92) pone infatti fine all’unicità del regime di tutela reale (reintegrazione nel posto di lavoro) stabilito dalla norma per tutti i casi di illegittimità (nullità, annullamento e inefficacia).
A seguito della riforma, infatti, in determinate ipotesi, i lavoratori di aziende con più di 15
dipendenti hanno diritto ad una tutela unicamente risarcitoria.
Viene così intaccata la norma-baluardo dei diritti dei lavoratori ed aperta la strada al più
incisivo intervento del 2015.
La L. 92/2012 apporta alla disciplina dei licenziamenti individuali anche ulteriori modifiche:
— viene introdotta una procedura di conciliazione obbligatoria che il datore di lavoro con più di 15 lavoratori deve attivare prima della comunicazione del licenziamento per giustificato motivo oggettivo;
— viene posto a carico del datore di lavoro l’obbligo di specificare nella lettera di licenziamento i motivi che
lo hanno determinato;
— viene ridotto da 270 a 180 giorni il termine entro il quale deve essere depositato il ricorso giudiziale (o comunicato alla controparte il tentativo di conciliazione o arbitrato) a seguito dell’impugnazione stragiudiziale;
— viene introdotto un rito specifico per le controversie aventi ad oggetto l’impugnativa di licenziamenti nelle
ipotesi regolate dall’art. 18 (v. Cap. 21).
Rimane invece immutato il regime di tutela obbligatoria dei licenziamenti illegittimi nelle
imprese fino a 15 dipendenti (così come disciplinato dall’art. 8 L. 604/1966).
D)La nuova disciplina dei licenziamenti ex D.Lgs. 23/2015
L’attenzione verso l’art. 18 L. 300/1970 non finisce neanche a seguito della legge Fornero.
Allo scopo espresso di rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di
coloro che sono in cerca di occupazione, la L. 10-12-2014, n. 183, cd. Jobs Act, delega il Governo ad emanare uno o più decreti legislativi che prevedano, per le nuove assunzioni, il contratto a
tempo indeterminato a tutele crescenti (cd. CATUC) in relazione all’anzianità di servizio con:
—esclusione, per i licenziamenti economici, della reintegrazione nel posto di lavoro, e
riconoscimento solo di un indennizzo certo e crescente con l’anzianità di servizio;
—diritto del lavoratore alla reintegrazione nel posto di lavoro nelle
Riforma Fornero e
ipotesi di licenziamenti nulli e discriminatori e in specifiche fat- Jobs Act
tispecie di licenziamento disciplinare.
A differenza della legge Fornero, la L. 183/2014 non modifica l’art. 18
L. 300/1970, ma mira a creare un nuovo regime sanzionatorio dei licenziamenti illegittimi.
In attuazione della legge viene emanato il D.Lgs. 4-3-2015, n. 23, entrato in vigore il 7-32015, che delinea un sistema «completo» che si affianca non solo all’art. 18, ma anche alla
tutela obbligatoria dell’art. 8 della L. 604/1966.
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Capitolo 14
In sostanza, le nuove disposizioni coprono l’area dei licenziamenti nulli, ove si prescinde dalle
dimensioni occupazionali del datore di lavoro, nonché quella dei licenziamenti ingiustificati o
inefficaci, diversificando a seconda del possesso o meno da parte del datore di lavoro dei requisiti dimensionali determinati secondo i criteri di computo dell’art. 18, co. 8-9, L. 300/1970.
Il decreto va anche oltre, non trovando applicazione soltanto per i neoassunti con contratto
a tempo indeterminato a tutele crescenti, ma anche, a determinate condizioni, per i lavoratori occupati prima del 7-3-2015.
In sintesi, il D.Lgs. 23/2015 introduce una specifica disciplina dei licenziamenti così caratterizzata:
—per i lavoratori di imprese medio/grandi (art. 18, co. 8, L. 300/1970), la tutela reale è
prevista unicamente nei casi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per
giusta causa se è direttamente dimostrata in giudizio dal lavoratore l’insussistenza del
fatto materiale contestatogli. In tutti gli altri casi di licenziamento per giustificato moti­
vo oggettivo e soggettivo e di licenziamenti inefficaci per vizi di motivazione e procedu­
rali è prevista la tutela risarcitoria e l’indennità è determinata in relazione all’anzianità aziendale del lavoratore, entro un limite minimo e massimo;
—per i lavoratori di piccole imprese viene dettata una disciplina ad hoc che prevede per
tutti i casi di licenziamenti ingiustificati e inefficaci per vizi di motivazione e procedurali solo la tutela risarcitoria; l’indennità risarcitoria non è però posta in alternativa
alla riassunzione, come accade nell’ambito della tutela obbligatoria ex art. 8 L. 604/1966,
ma viene determinata secondo il nuovo criterio basato sull’anzianità di servizio e gli
importi sono dimezzati rispetto a quelli stabiliti per le imprese medio/grandi.
Il D.Lgs. 23/2015 si compone di ulteriori disposizioni che prevedono:
—l’esclusione dal suo campo di applicazione del cd. rito Fornero e della procedura con­
ciliativa obbligatoria prevista per i licenziamenti per giustificato motivo oggettivo nelle
imprese con più di 15 addetti (ex art. 7 L. 604/1966);
—un nuovo regime sanzionatorio dei licenziamenti nelle cd. organizzazioni di tendenza,
che viene equiparato a quello delle altre imprese;
—la possibilità per il datore di lavoro, al fine di evitare un eventuale giudizio, di offrire al
lavoratore licenziato un importo entro un limite minimo ed un limite massimo (cd. of­
ferta di conciliazione standard o agevolata);
—un nuovo regime sanzionatorio per i licenziamenti collettivi.
L’attuale assetto normativo
L’attuale disciplina dei licenziamenti illegittimi si basa su due complessi normativi: uno si fonda
sugli artt. 18 L. 300/1970 e 8 L. 604/1966, l’altro sulle disposizioni del D.Lgs. 23/2015.
In prospettiva, queste ultime finiranno con l’essere sostanzialmente la principale normativa da applicare, man mano che, col passare degli anni, la stragrande maggioranza dei rapporti di lavoro soggetti ai citati articoli 18 e 8 andranno a cessare.
Ciò spiega perché il D.Lgs. 23/2015 disciplini compiutamente e autonomamente la materia dell’illegittimità dei licenziamenti, anche laddove avrebbe potuto operare anche un rinvio all’art. 18 (come
nei casi di licenziamenti discriminatori, nulli e orali, di opzione per l’indennità sostitutiva della reintegrazione ovvero di revoca del licenziamento).
Tenuto conto che i lavoratori cui si applicano le disposizioni del D.Lgs. 23/2015 sono soltanto quelli
con qualifica di operai, impiegati e quadri, integralmente immutata resta la disciplina dei licenziamenti dei dirigenti (e più in generale dei lavoratori rientranti nell’area del recesso ad nutum).
La cessazione del rapporto di lavoro
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4.La regolamentazione del licenziamento
A) I presupposti di legittimità
La specifica disciplina del licenziamento trova applicazione soltanto nei rapporti di lavoro
a tempo indeterminato, sia nella sua forma «tradizionale» che in quella «a tutele crescenti» (cd. CATUC) (v. anche Cap. 4).
Tale disciplina impone, ai fini della legittimità dell’atto di recesso datoriale, il rispetto di
requisiti sia sostanziali che formali.
I requisiti sostanziali si traducono nell’obbligo di una causa giustificatrice del recesso: il licenziamento del prestatore di lavoro, infatti, non può avvenire che per giusta causa (art. 2119
c.c.) o per giustificato motivo (art. 1 L. 604/1966). La giusta causa ed il giustificato motivo
rientrano nell’ambito delle cd. clausole generali, ossia «moduli generici che richiedono di
essere specificati in sede interpretativa» (sui limiti al controllo giudiziale, si v. Cap. 21).
I requisiti formali riguardano essenzialmente la forma, il contenuto e la procedura di
comunicazione del recesso, diversi a seconda della causa giustificatrice del licenziamento
e delle dimensioni occupazionali del datore di lavoro.
La violazione delle disposizioni relative ai requisiti, sia sostanziali che formali, produce
conseguenze sanzionatorie a carico del datore di lavoro.
B) L’onere della prova
In base all’art. 5 L. 604/1966, l’onere della prova della sussistenza della giusta causa o del
giustificato motivo di licenziamento spetta al datore di lavoro.
La norma dunque espressamente mira a favorire la posizione processuale del lavoratore al
quale spetta solo dimostrare l’esistenza del rapporto di lavoro e l’avvenuto licenziamento,
in quanto è sul datore di lavoro che, titolare del potere di recesso, incombe l’onere di provarne la legittimità, ossia l’esistenza dei presupposti previsti dalla legge (MAZZOTTA).
Nel caso specifico del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, il datore di lavoro
deve dimostrare non solo l’effettività delle ragioni poste a base del licenziamento, ma anche
l’impossibilità di una diversa proficua utilizzazione dei lavoratori licenziati (cd. obbligo di
repêchage).
Qualora invece si tratti di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta
causa soggetto alla disciplina del D.Lgs. 23/2015, al fine di poter ottenere la tutela reale, il
lavoratore è tenuto a dimostrare «direttamente» l’insussistenza del fatto materiale contestatogli, trattandosi dell’unica ipotesi in cui è prevista, per il licenziamento soggettivo, la
reintegrazione nel posto di lavoro.
Nel caso di licenziamento per motivi discriminatori, fermo restando
Presupposti
che il datore di lavoro deve dimostrare la causa giustificatrice, spetta al di legittimità
lavoratore l’onere di provare il carattere illecito dell’atto di recesso.
del licenziamento
Fornire siffatta prova è però nella pratica così arduo che suole essere
definita diabolica. In considerazione di ciò, la specifica normativa (5) in materia di discriminazioni ha introdotto delle facilitazioni, consentendo al lavoratore di avvalersi di presun­
(5) Si tratta della normativa sulle discriminazioni di genere (art. 40, D.Lgs. 198/2006) e sulle discriminazioni per motivi di
razza, origine etnica, religione etc. (art. 28, co. 4, D.Lgs. 150/2011).
396
Capitolo 14
zioni e di dati statistici per fornire la prova della discriminazione subita, con la conseguenza che spetta poi al datore di lavoro provare l’insussistenza della discriminazione.
5.I requisiti sostanziali
A) La giusta causa
L’art. 2119 c.c. disciplina la «giusta causa» come causa che non consente la prosecuzione,
neanche provvisoria, del rapporto di lavoro (v. anche prec. par. 1 lett. D).
La giusta causa di licenziamento ricorre infatti quando il lavoratore commette fatti di par­
ticolare gravità i quali, valutati soggettivamente ed oggettivamente, sono tali da configurare una grave ed irrimediabile negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro ed
in particolare di quello fiduciario.
La giusta causa non viene integrata esclusivamente da comportamenti costituenti notevoli
inadempienze contrattuali, ma è ravvisabile anche in fatti e comportamenti estranei alla
sfera del contratto e diversi dall’inadempimento, purché idonei a produrre effetti riflessi
nell’ambiente di lavoro ed a far venir meno la fiducia che impronta di sé il rapporto (in tal
senso DE LUCA TAMAJO, GHERA, SCOGNAMIGLIO).
In ogni caso, la gravità delle ragioni legittima l’interruzione immediata del rapporto di lavoro, non gravando sul datore di lavoro l’onere di dare il preavviso (cd. licenziamento in
tronco).
Licenziamento per disvalore ambientale
Ai fini dell’esistenza di una giusta causa di licenziamento, occorre valutare la condotta del lavoratore
anche «alla luce del disvalore ambientale che la stessa assume quando, in virtù della posizione professionale rivestita, può assurgere per gli altri dipendenti dell’impresa a modello diseducativo e disincentivante» (Cass. 4-12-2002, n. 17208, Cass. 18-1-2008, n. 1077).
B) Il giustificato motivo soggettivo
Il giustificato motivo soggettivo consiste in un «notevole inadempimento degli obblighi
contrattuali del prestatore di lavoro» (art. 3 L. 604/1966).
Poiché la norma parla esplicitamente di «inadempimento», i fatti che possono integrare il
giustificato motivo soggettivo possono essere costituiti esclusivamente da comportamenti
attinenti al rapporto contrattuale, non quindi fatti anche esterni al rapporto di lavoro, come
invece si è visto ricorrere per l’ipotesi di giusta causa.
L’inadempimento costituente giustificato motivo è caratterizzato da una minore gravità quantitativa rispetto a
quello integrante la giusta causa di recesso, ma deve essere pur sempre notevole, altrimenti l’inadempimento
degli obblighi contrattuali potrà essere sanzionato esclusivamente con misure disciplinari meno gravi.
Inoltre l’inadempimento deve essere dovuto a colpa del prestatore, in quanto altrimenti si
tratterebbe di impossibilità sopravvenuta della prestazione per fatto attinente al lavoratore.
Sta di fatto che la minor gravità del comportamento integrante il giustificato motivo soggettivo rispetto alla
giusta causa, fa sì che mentre in quest’ultimo caso il licenziamento è in tronco (immediato e senza preavviso),
se il licenziamento è intimato per giustificato motivo soggettivo, le ragioni che sostengono il recesso, pur se
rilevanti, non sono tali da escludere il preavviso che pertanto è dovuto (salvo diverso accordo o il pagamento
dell’indennità sostitutiva) (v. anche prec. par. 1 lett. C).
La cessazione del rapporto di lavoro
397
Giurisprudenza
La giurisprudenza configura la giusta causa ed il giustificato motivo soggettivo del licenziamento come
mere «qualificazioni giuridiche di comportamenti ugualmente idonei a legittimare la cessazione del
rapporto di lavoro, l’uno con effetto immediato e l’altro con preavviso».
Ne consegue che è consentito al giudice convertire il licenziamento per giusta causa in licenziamento per giustificato motivo soggettivo se al fatto addebitato al lavoratore può essere attribuita la minore gravità propria di quest’ultimo tipo di licenziamento (Cass. 10-8-2007, n. 17604).
C) Il licenziamento disciplinare
Il licenziamento motivato dall’inadempimento degli obblighi contrattuali da parte del
lavoratore si qualifica come disciplinare risolvendosi nella più grave sanzione disciplinare adottabile dal datore di lavoro.
In tal caso, la legittimità del licenziamento è subordinata all’osservanza dei requisiti stabiliti dalla L. 604/1966 e dall’art. 7 della L. 300/1970 che disciplina le modalità di irrogazione delle sanzioni disciplinari (v. anche Cap. 7).
In particolare, il comma 4 del citato art. 7 stabilisce che «fermo restando quanto disposto
dalla legge 15 luglio 1966, n. 604, non possono essere disposte sanzioni disciplinari che
comportino mutamenti definitivi del rapporto di lavoro».
Dalla lettera della norma è scaturito un duplice problema interpretativo:
—se il licenziamento può rientrare tra le sanzioni disciplinari e, se sì, se deve essere necessariamente previsto nel codice disciplinare.
Il dubbio nasce dalla formulazione dell’art. 7, co. 4, L. 300/1970, che nel dichiarare ferme le disposizioni
della L. 604/1966, sembra voler mantenere la regolamentazione del licenziamento nell’ambito della medesima legge e riservare le garanzie procedimentali stabilite per le sanzioni disciplinari soltanto a quelle
conservative del rapporto;
—quali garanzie procedimentali sono previste a tutela del lavoratore licenziato per motivi
disciplinari (solo quelle della L. 604/1966 o anche quelle dell’art. 7 L. 300/1970).
La differenza è rilevante sul piano del livello di tutela accordato al lavoratore. Per chiarezza, è opportuno
ricordare quali sono le regole alle quali l’art. 7 L. 300/1970 subordina l’irrogazione della sanzione disciplinare: predeterminazione delle infrazioni sanzionabili (co. 1), preventiva contestazione dell’addebito al lavoratore e diritto di difesa (co. 2), diritto di assistenza sindacale del lavoratore (co. 3), limite alle sanzioni
(co. 4), decorrenza di 5 giorni per l’applicazione delle sanzioni più gravi (co. 5), possibilità di promuovere
l’intervento di un collegio di conciliazione extragiudiziale (co. 6), sospensione della sanzione per mancata
partecipazione del datore al tentativo di conciliazione (art. 7) e limite alla rilevanza della recidiva (co. 8).
Entrambe le questioni sono state risolte con l’intervento della Corte
Costituzionale che, con sent. 29-11-1982, n. 204, ha dichiarato l’ille­
gittimità costituzionale dei commi primo, secondo e terzo dell’art. 7 Requisiti sostanziali
della L. 300/1970, se interpretati nel senso che sono «inapplicabili ai
licenziamenti disciplinari».
L’applicazione dell’art. 7 al licenziamento disciplinare discende dalla considerazione che si
tratta della più grave sanzione inflitta al lavoratore, perché espulsiva, da comminarsi a seguito di un notevole e colpevole inadempimento del lavoratore. Se la norma fosse inapplicabile, si avrebbe il paradosso che, ad esempio, per una semplice multa (come di qualsiasi
altra sanzione conservativa), il datore di lavoro sarebbe tenuto al rispetto dell’intero iter
398
Capitolo 14
procedurale previsto dal predetto art. 7, che assicura maggiori garanzie al lavoratore, mentre per l’intimazione del licenziamento per motivi disciplinari sarebbe sufficiente l’osservanza delle sole formalità generali della L. 604/1966.
Sul presupposto che un tale sistema sarebbe irrazionale, la Corte costituzionale ha concluso
per l’estensione di talune garanzie dell’art. 7 L. 300/1970 anche al licenziamento disciplinare.
La sentenza ha portato così all’affermazione della nozione del licenziamento ontologicamente disciplinare, che copre «per intero l’area del licenziamento per giustificato motivo
soggettivo e quasi totalmente quello del licenziamento per giusta causa» (DE LUCA TAMAJO).
Non assume natura disciplinare dunque il licenziamento per giusta causa per fatti che non costituiscono inadempimento.
Giurisprudenza
A seguito dell’intervento della Corte Costituzionale (sent. 204/1982), il licenziamento disciplinare è
legittimo se:
— è contemplato nel codice disciplinare. Tuttavia, non è necessario provvedere all’affissione del
codice disciplinare in tutti i casi in cui il comportamento sanzionatorio sia immediatamente percepibile dal lavoratore come illecito, perché contrario al cd. minimo etico o a norme di rilevanza
penale, e pertanto ben può rendersi conto, anche al di là di una analitica predeterminazione dei
comportamenti vietati e delle relative sanzioni da parte del codice disciplinare, della illiceità e
gravità della propria condotta (Cass. 3-1-2017, n. 54);
— è formalmente contestato l’addebito al lavoratore;
— è consentito al lavoratore di essere ascoltato e quindi di difendersi;
— è data facoltà al lavoratore di farsi assistere da un rappresentante del sindacato.
D)Il giustificato motivo oggettivo
Ricorre il giustificato motivo oggettivo quando il licenziamento viene intimato per fatti
inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa (art. 3 L. 604/1966).
Nel caso del giustificato motivo oggettivo la legge riconosce una prevalenza delle esigenze
dell’impresa, ex art. 41 Cost., rispetto a quella del lavoratore alla conservazione del posto
di lavoro: l’imprenditore è infatti libero di determinare l’assetto aziendale più confacente
alle esigenze produttive, anche se ciò può comportare uno o più licenziamenti.
Al giustificato motivo oggettivo si riconducono anche fatti attinenti alla sfera del lavoratore ma a lui non imputabili a titolo di colpa, che hanno una ricaduta sull’organizzazione aziendale e che legittimano l’interruzione del rapporto (es. la carcerazione preventiva del lavoratore, la perdita di titoli professionali necessari per lo svolgimento di una attività oppure la sopravvenuta inidoneità fisica permanente alla mansione) (cd. impossibilità sopravvenuta della
prestazione, su cui v. anche prec. par. 1 lett. A), che può giustificare il recesso qualora il datore di lavoro non abbia più interesse alla prosecuzione del rapporto ex art. 1464 c.c.).
La differenza tra il licenziamento per giustificato motivo oggettivo concernente il lavoratore e il licenziamento
per giustificato motivo soggettivo riguarda l’elemento della colpa: anche se in entrambi i casi infatti si pone a
base del recesso un inadempimento contrattuale, nel primo caso (motivo oggettivo) il lavoratore non ne ha
colpa, nel secondo caso (motivo soggettivo) sì.
La cessazione del rapporto di lavoro
399
Secondo la giurisprudenza, quando il motivo del licenziamento è oggettivo, il datore di
lavoro ha l’obbligo di verificare la possibilità di un’altra proficua utilizzazione del lavoratore licenziato ovvero l’impossibilità di utilizzarlo in mansioni diverse da quelle precedentemente svolte (Cass. 9-11-2016, n. 22798) (cd. obbligo di repêchage): in pratica il licenziamento deve risultare come extrema ratio rispetto alle circostanze verificatesi (mazziotti, galantino).
Il licenziamento determinato da giustificato motivo oggettivo, allorché investe una pluralità di lavoratori, non
costituisce una ipotesi di licenziamento collettivo, il quale ai sensi dell’art. 11, L. 604/1966 è sottratto alla normativa vincolistica in tema di recesso (per una più puntuale differenza tra licenziamento plurimo individuale e
licenziamento collettivo v. amplius Sez. II).
6.I divieti di licenziamento
Il recesso del datore di lavoro è vietato nei seguenti casi:
a) matrimonio della lavoratrice: il licenziamento non può essere intimato nel periodo
compreso dal giorno della richiesta delle pubblicazioni fino ad un anno dopo la cele­
brazione del matrimonio (art. 35 D.Lgs. 198/2006);
b) stato di gravidanza e di puerperio (6): il divieto opera dall’inizio dello stato di gravi­
danza fino al compimento di un anno di età del bambino (art. 54 D.Lgs. 151/2001).
Il divieto è esteso anche al licenziamento causato dalla domanda o dalla fruizione del congedo parentale e
per la malattia del bambino, da parte sia della lavoratrice che del lavoratore, il quale viene tutelato anche
nel caso di fruizione del congedo di paternità, per la durata del congedo stesso e fino al compimento di un
anno di età del bambino;
c) infortunio o malattia: il divieto dura per tutto il periodo previsto dalla legge o dai contratti collettivi (art. 2110 c.c.);
d) richiamo alle armi: il licenziamento non può essere intimato prima di tre mesi dalla
ripresa della occupazione (artt. 2110, co. 1 e 3, 2111, co. 2, 990, co. 4, D.Lgs. 66/2010,
cd. Codice dell’ordinamento militare) (7).
È altresì vietato il licenziamento dei dirigenti delle rappresentanze sindacali aziendali,
dei candidati e dei membri di commissione interna, fino ad un anno dalla cessazione
dell’incarico (tre mesi dalle elezioni, per i candidati non eletti) (artt. 18 e 22 L. 300/1970),
dei lavoratori eletti a svolgere pubbliche funzioni (art. 51 Cost.) e dei lavoratori che
partecipano a scioperi (art. 15 L. 300/1970).
L’arco di tempo durante il quale opera il divieto è chiamato periodo di comporto e la sua
durata è generalmente definita dalla contrattazione collettiva.
(6) Il D.Lgs. 151/2001 (art. 61) estende la tutela anche alle lavoratrici a domicilio ed ai casi di adozione e affidamento (art.
54, co. 9). In queste ultime ipotesi il divieto opera fino ad un anno dall’ingresso del minore nel nucleo familiare. In caso di
adozione internazionale, il divieto opera dal momento della comunicazione della proposta di incontro con il minore adottando o della comunicazione dell’invito a recarsi all’estero per ricevere la proposta di abbinamento.
(7) L’art. 2111 c.c. contempla anche il servizio di leva che tuttavia non è più obbligatorio dal 1°-1-2005, in quanto da tale data
sono state sospese le chiamate (art. 1929 D.Lgs. 66/2010).