DISEGNO DI LEGGE SULLA PROCREAZIONE ASSISTITA

Confederazione Generale Italiana del Lavoro
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GENETICA E CITTADINANZA
Sala Di Vittorio, 1 Dicembre 1998
Testo definitivo
Editing a cura di Cinzia Caporale e Marco Grasso
(Trascrizione a cura di Ediesse)
MARIA GIGLIOLA TONIOLLO
L'iniziativa di oggi tratta di una materia assai complessa e articolata dove consenso e aspettative
legate al progresso scientifico si intrecciano sempre più strettamente con formidabili interessi
economici e nuovi oscurantismi, generando nelle persone diffidenza, rimozione e un vero e proprio
mare di dubbi e di angosciose paure. Riteniamo così a maggior ragione che sia importante,
significativo e urgente affrontare la discussione su "Genetica e Cittadinanza", contando soprattutto
sul fatto che questa giornata altro non rappresenti che l’inizio di una grande operazione politica che
il sindacato sarebbe stato comunque tenuto ad assumere tramite i suoi strumenti di azione, le varie
iniziative e il coinvolgimento dei vari settori dell'organizzazione.Per stabilire un legame evidente tra
questa giornata e le questioni tutti i giorni che vengono specificamente seguite dall'Ufficio Nuovi
Diritti, si può ragionare sull’impatto tra nuove scoperte e moralismo, proponendo come solo
esempio la domanda che si faceva Galimberti tempo fa: se si scopre che effettivamente
l’omosessualità proviene da un gene, quanto tempo passerà prima che qualcuno non pensi, non
proponga e non offra mezzi per eliminarla dalla faccia della terra?Il progresso esiste e va
conosciuto e seguito per quello che é, rinnegando ogni forma di chiusura a priori. Nella scienza c’è
il segreto della vita, la speranza di stare meglio, di vivere insieme meglio, e di sconfiggere grandi
nemici che ci hanno perseguitato nei secoli.Stiamo arrivando alla mappatura del genoma, una
nuova straordinaria realtà conoscitiva, un grande risultato che tuttavia finirà nelle mani dello stesso
uomo che accanto a splendide conquiste a saputo immaginare e produrre e nello stesso tempo le
mine anti-bambino. Quindi é quanto mai necessario non lasciar fare, non estranearsi, bensì
partecipare, discutere, conoscere, costruire iniziativa e pratica politica, affinchè le grandi questioni
non restino confinate dentro certe anguste stanze, quelle del potere e degli interessi commerciali,
dove l'assenza e la non conoscenza delle persone viene da sempre ampiamente strumentalizzata.
Nell'augurare a tutti buon lavoro, passo a questo punto la parola a Luigi Agostini, responsabile del
Dipartimento diritti di cittadinanza e politiche del terzo settore.
LUIGI AGOSTIN:
In questa introduzione mi preme sottolineare il nesso tra rivoluzione genetica e nuova cittadinanza;
riteniamo infatti che, quella che viene definita "rivoluzione genetica", nel suo procedere, impone e
sempre più imporrà una ridefinizione dell’insieme dei diritti di cittadinanza e delle regole
complessive della convivenza. Siamo messi quotidianamente di fronte a notizie sconvolgenti: dalla
clonazione della pecora Dolly, alla schedatura genetica dell’intera popolazione dell’Islanda, dalla
proposta del sindaco di New York di istituire banche-dati genetiche per meglio combattere la
criminalità, alla possibilità di clonare "parti di ricambio" del corpo umano. Siamo inondati
quotidianamente inoltre da una serie variegata di parole-chiave, un nuovo linguaggio: geni,
patrimonio genetico, ingegneria genetica, tests genetici, screenings genetici, banche del DNA,
medicina predittiva, brevettabilità dei geni, copyright genetico, censimenti genetici, piante e animali
transgenici, bioinformatica, clonazione, società "live sciences", bio-oligopoli, complesso genetico
industriale, biocolonialismo, manipolazione, eugenetica, ecc. Tutto ciò alimenta una polarizzazione
di atteggiamenti: da una parte lo sviluppo vorticoso della conoscenza scientifica, sviluppo che
procede con velocità inedita e che ogni giorno dischiude orizzonti inimmaginabili , provoca una
specie di superstizione scientista; dall’altro, tale processo, proprio per il suo procedere al di sopra
e al di fuori della portata dei lavoratori e dei cittadini alimenta un senso di impotenza ed una fuga
verso il "pensiero magico". In un’opera edita propro in queste settimane, J.Rifkin sostiene che
"geni più computer rappresentano la più grande valanga tecnologica della storia" e che tale
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combinazione apre una nuova era, dopo quella aperta 3000 anni fa, dalla rivoluzione del fuoco.
Sull’onda delle possibilità aperte dallo sviluppo delle tecnologie informatiche –il tempo di raddoppio
della potenza dei chips è passato da 18 mesi a 6 mesi, come ci racconta il Presidente della INTELidentificare, mappare, ricombinare i geni, idea di fondo del Progetto Genoma, apre la strada alla
possibilità di modificare la struttura genetica delle cellule sia della linea somatica che della linea
germinale: l’uomo diventa ingegnere della vita, un potere che sta tra l’invenzione e la creazione, un
potere prometeico. Il processo è destinato a cambiare il volto della medicina, il rapporto tra natura
e corpo, tra causalità e scelta, tra libertà e possibilità. Ingegneria genetica come "seconda Genesi".
Se tale è la prospettiva, è indispensabile interrogarsi su quali debbano essere le strategie sociali
più adatte per affrontare tale passaggio d’era: sembra indubbio che se la rivoluzione genetica
mette a disposizione dell’uomo inedite e smisurate possibilità di intervento e di modifica delle
condizioni biologiche, altrettanto indubbio è l’esplosione di interrogativi, ansie, angosce, circa i
rischi che possono accompagnare, in termini sempre più marcati, tali sviluppi. D’altronde da molti
anni l’ingenuo fideismo illuminista sul ruolo linearmente progressivo del cammino scientifico era
stato già infranto dalla eugenetica Hitleriana e dalla atomica di Hiroschima. Si affollano, quindi,
disorientamento e dilemmi, si ripropongono le domande di fondo sul significato di "vita umana" di
"identità personale" di "maternità e paternità" di "senso della vita e della morte"; dunque
potenzialità immensa e rischi altrettanto immensi: e quindi, quali strategie culturali e sociali in
grado di comprendere e governare l’insieme dei processi, connessi agli sviluppi della rivoluzione
genetica. Innanzitutto culturali. Ancora oggi l’opinione corrente è nettamente divisa circa il ruolo
della ereditarietà, degli aspetti innati, nel conformare il comportamento e la personalità umana. Gli
studiosi di orientamento "biologico-riduzionista", tendono a ricercare una spiegazione genetica
praticamente per ogni aspetto della personalità umana: geneticamente, gli individui, quindi, sono
predeterminati e non semplicemente predisposti; gli studiosi di orientamento "culturale" tendono
invece a vedere in ciascuna generazione una tabula rasa, pronta ad essere riempita dalla società,
con idee storicamente prodotte. "Schematicamente possiamo dire che la cultura è stata la parola
d’ordine degli intellettuali di sinistra, in quanto essa sembra massimizzare il potere di scelta
umana, mentre la natura ha definito il campo degli intellettuali di destra. Natura spesso usata per
ratificare lo status quo della società" (B. Ehrenreich – Riti di sangue – Feltrinelli). La rivoluzione
genetica ripropone i termini di antiche querelles come quelle tra determinismo positivista e libero
divenire dell’uomo oppure, su un altro piano quello tra libero arbitrio e predestinazione. E’
necessario evitare una schematizzazione così grossolana; il problema tra cultura e natura non è
un problema i cui termini si escludono a vicenda; si può benissimo sostenere che "i geni esercitano
statisticamente un’influenza sul comportamento umano e contemporaneamente essere convinti
che tale influenza possa essere modificata, annullata o rovesciata da altri fattori" (R. Dawkins . Il
gene egoista – Mondadori). Sostiene inoltre un biologo evoluzionista, R. Lewontin, che "il carattere
di ogni soggetto vivente consiste nella reazione agli stimoli esterni piuttosto che essere
passivamente condizionato"; "i rapporti tra geni, organismo, ambiente, sono relazioni reciproche in
cui tutti e tre gli elementi sono sia causa che effetto"; i "loro percorsi sono influenzati da forze
interne ed esterne"; "ogni organismo costruisce il proprio ambiente e come non può esistere alcun
organismo senza un ambiente, così non può neanche esistere un ambiente senza organismi" (R.
Lewontin – Gene-organismo-ambiente- Laterza). Gli organismi viventi possiedono in verità due
proprietà fondamentali e "paradossali": quella di riprodursi conservando le proprie caratteristiche, e
quella di cambiare, evolversi, trasformarsi. L’uomo inoltre ha sempre selezionato piante ed animali,
adattandoli alle proprie esigenze e necessità. Non predeterminazione quindi ma predisposizione,
che potrà e non potrà esprimersi in comportamenti effettivi.La scelta, in ultima istanza, rimanda alla
volontà dell’uomo e al contesto sociale in cui è inserito. Inoltre, concettualmente, l’idea di individui
predeterminati geneticamente e non semplicemente predisposti potrebbe essere assunto a
fondamento di ogni tipo di discriminazione. La scelta dell’impostazione culturale è quindi dirimente
per orientarsi in tale passaggio d’epoca in cui tutto pare e può essere rimesso in gioco. Né
determinismo biologico, né "culturalismo" acritico quindi, ma capacità di accogliere positivamente
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l’elemento di predisposizione che il successo della ricerca genetica porta in superficie per costruire
su tali risultati una azione dell’uomo più consapevole ed efficace ed una strategia di controllo
sociale all’altezza dei problemi. Avviare per tempo una riflessione sulle relazioni tra rivoluzione
genetica e lavoro, tra rivoluzione genetica, salute e politiche sociali, rappresenta il compito più
immediato e persino più ovvio per una organizzazione come il Sindacato. In un recente fascicolo di
Science, di fronte al diffondersi di tests, di screenings, di banche-dati genetiche si sosteneva la
possibilità di forme nuove e più insidiose di discriminazione; pensiamo particolarmente all’ambito
assicurativo e lavorativo: è certamente vero che l’avanzare di questi nuovi fenomeni rende
particolarmente possibile discriminare su tutti gli aspetti del rapporto di lavoro: dall’assunzione al
licenziamento, dalla formazione al ruolo della persona nel processo lavorativo. Ma proprio per
evitare tali pericoli è necessario già oggi ragionare su un nuovo diritto del lavoro, su un nuovo
sistema di protezione giuridica delle libertà individuali, della privacy personale, in definitiva su un
nuovo Statuto: nuove possibili discriminazioni e quindi nuovi diritti.. Una seconda questione
riguarda lo sviluppo della genetica medica, della medicina predittiva; come è desumibile da un
testo recente del professor Dulbecco (Sperling e Kupfer). I progressi della genetica medica
comportano una analisi estremamente nuova del rischio malattia, del concetto stesso di malattia:
Senza arrivare a deduzioni troppo secche, la conoscenza della predisposizione a determinate
patologie, oggettivamente, modifica la qualità del rapporto individuo e società ed insieme il
concetto di rischio: non più rischio statistico, legato al calcolo delle probabilità, ma rischio sempre
più individualizzato, personalizzato, L’avanzamento dei progressi scientifici comporta in definitiva
una idea radicalmente nuova del rischio malattia, una concezione più personalizzata della malattia,
un approccio meno "statistico" al sociale. Le implicazioni possono assumere caratteristiche di
vitale rilevanza proprio perché mettono in crisi l’approccio statistico al sociale, e quindi la logica
assicurativa su cui si fondano tutte le grandi assicurazioni, i grandi istituti sociali. Nella loro
essenza infatti tutti i sistemi di welfare costruiti finora poggiano sulla sequenza: rischio statistico –
assicurazioni - contribuzione. La personalizzazione tendenziale della malattia/salute; il nuovo
rapporto tra individuo e società, tra persona e comunità provoca una invalidazione tendenziale
della logica assicurativa; concettualmente, il rischio assicurabile entra in contraddizione con la
predisposizione conosciuta. Se tali sembrano essere le tendenze in incubazione, le conseguenze
sul rapporto tra libertà e solidarietà, tra protezione sociale e controllo sociale dei comportamenti
possono essere radicali. Esempi recenti, provenienti dagli Stati Uniti, sono illuminanti; la Comunità,
attraverso le nuove forme di "democrazia telematica", definisce l’entità e le forme della protezione
sociale e insieme ipotizza, quale corrispettivo, comportamenti sociali coerenti di coloro che
beneficiano di tali protezioni. Il messaggio trasmesso da tali episodi ha un significato rilevante in
termini politici e sociali; può cioè operarsi un fenomeno particolarmente nuovo, una disgiunzione,
tra lo sviluppo della libertà individuale e lo sviluppo della solidarietà collettiva. E’ intuibile che più si
renderà chiaro la predisposizione ed il costo sociale di determinate patologie, più le scelte di
protezione spingeranno verso forme di controllo sociale come corrispettivo. Sicuramente allora
fronteggiare il pericolo di tale disgiunzione sarà il compito centrale delle politiche sociali
solidaristiche della prossima fase. Se tali possono essere i caratteri del contesto che si va
disegnando, l’esercizio della solidarietà richiederà un nuovo Contratto Sociale in grado di definire,
al nuovo livello, il rapporto tra carattere dei comportamenti sociali e costo delle nuove protexzioni
sociali che l’evoluzione delle conoscenze tenderà a rendere sempre più chiaro e calcolabile..
L’altra grande questione riguarda il rapporto tra rivoluzione genetica, organizzazione sociale,
democrazia. La potenza intrinseca della ingegneria genetica, la struttura dell’offerta, concentrata in
un numero ristretto di multinazionali, di oligopoli -che di fatto controllano gran parte della ricerca e
fanno man bassa del patrimonio genetico mondiale- possono determinare una situazione esposta
potenzialmente a rischi estremi; dalla manipolazione genetica spicciola, alla creazione su grande
scala di vere e proprie caste biologiche riportando in auge perfino il mito eugenetico di P. Galton.
La Monsanto controllo il 50% dell’agrochimica mondiale, l’altro 50% è suddiviso fra altre tre-quattro
grandi multinazionali; alcuni economisti parlano già oggi di "complesso genetico-industriale" in
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formazione. A giudizio di molti, la procreazione di tutti gli organismi viventi è ormai a portata di
mano; questa capacità mette le nostre società di fronte alla domanda cardine sul senso della vita e
ripropone anche una "questione galileiana" circa il rapporto tra scienza e fede: la vita è creazione
di Dio o invenzione dell’uomo? Nelle industrie agronome e farmaceutiche successi folgoranti
permettono fin da oggi la produzione di animali e di vegetali geneticamente modificati e di
medicine ad attività genetica. L’etica classica lascia posto ad una nuova linea di separazione "tra
coloro che pensano che la vita umana abbia un valore intrinseco e coloro che pensano che abbia
un valore utilitaristico, affidato e definito dal mercato" (J.Rifkin). Chi decide e dove si decidono le
linee di ricerca, quali procedure e come comunicare i risultati, quale uso del risultato e quali forme
di controllo, quale ruolo delle istituzioni pubbliche, quale sapere sociale: tali domande tornano ad
essere domande centrali per poter governare processi sconvolgenti e per contrastare sul nascere i
possibili rischi, dal rischio di inquinamento genetico ai rischi connessi alla possibilità assolutamente
inedita di creare un "Potere Perfetto" alla Orwell o alla J. Bentham del Panopticon; rischi che
possono scaturire da un processo evolutivo affidato alla pura logica del "Mercato". Se venisse
accettato che solo il mercato capitalistico regola bisogni e desideri e costituisce il solo produttore di
senso della attività umana, si aprirebbe la porta ad eccessi irreversibili e il destino stesso della vita
potrebbe trovarsi nelle mani di apprendisti stregoni. Ciò che viene messo in gioco dal "DNA
RICOMBINATO" fa fatica ad essere percepito in tutte le sue implicazioni. La dichiarazione
dell’Unesco rappresenta certamente un atto di grande rilievo; è necessario però su tutti gli aspetti
avviare un grande processo di alfabetizzazione scientifica capace di coinvolgere l’insieme dei
cittadini. L’idea cara alla New Age che la scienza disumanizza il mondo e distrugge l’ambiente
rappresenta la faccia, di segno rovesciato, della superstizione scientista di origine positivista per
cui la scienza, di per sé, automaticamente è matrice di progresso. Fino ad oggi il confronto ha
coinvolto cerchie ristrette di specialisti –scienziati, politici, intellettuali-; l’impatto sociale è avvenuto
in maniera arrembante e ha proceduto tra sensazionalismo ed allarmismo, con effetti profondi e
deformanti sulla vita di milioni di persone. Un confronto serio sullo stato della ricerca è
indispensabile per mettere a fuoco con il rigore necessario sia la dimensione etica e filosofica che
la prefigurazione di nuovi diritti, cosiddetti morali, come il diritto al patrimonio genetico, al sapere
ma anche al non sapere ecc. Un amico, qualche giorno fa, mi chiedeva perché mai stavamo
organizzando questo appuntamento quasi a sottolineare la scarsa rilevanza di tali questioni per il
sindacato,. Se, come molti sostengono, quello che stiamo già vivendo rappresenta "l’esperimento
più radicale della storia dell’uomo", è indispensabile invece assumere la rivoluzione genetica come
la "nuova frontiera" e gettare tutto il peso che la Confederazione possiede per mettere in moto un
grande processo di alfabetizzazione e di costruzione di una nostra strategia sociale. Il compito
primario in tale processo appartiene sicuramente alle istituzioni pubbliche, ma una grande
organizzazione sociale, oltre a pretendere tale compito dalle stesse istituzioni pubbliche può e
deve farsi soggetto promotore di un dibattito di massa attraverso cui costruire un nuovo sapere
sociale: non si dà infatti controllo sociale, senza la costruzione e socializzazione di un sapere
sociale alla dimensione dei problemi da affrontare: "cittadino è colui, diceva stupendamente
Aristotele, capace di governare o di essere governato". Alfabetizzazione sistematica e strategia
sociale quindi, perché oggi, come si diceva poco fa con il prof. Dulbecco la grande massa di
lavoratori e cittadini vive tra la speranza e la paura; ma tra la speranza e la paura può facilmente
prosperare la manipolazione, il sensazionalismo, l’oscurantismo, può crearsi un cortocircuito; è
necessario perciò costruire un solido ancoraggio che non può che consistere in un sapere diffuso
ed approfondito centrato sulla storia delle scienze, dei processi in corso e di tutte le implicazioni
possibili, di ordine economico, sociale, politico, etico, storico, filosofico. Se ci troviamo di fronte alla
più grande avventura dell’uomo, dell’uomo capace di inventare e creare la vita, stare dentro tale
processo in termini consapevoli –cioè con un sapere ed una strategia sociale all’altezza del
compito- è possibile solo se tale "rivoluzione" è compresa in tutti i suoi aspetti, se si esce dai
circuiti sociali ristretti ed elitari. Dopo questo appuntamento pensiamo ovviamente di sviluppare
riflessioni ed iniziative sui temi che specificamente i nostri ospiti tratteranno; chiediamo quindi ai
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nostri ospiti un impegno anche per il futuro, un impegno a d arricchire insieme un’opera che nella
sua essenza più profonda significa civilizzazione/cittadinanza, unica in grado –-scegliendo di
affidarci alla politica della libertà e della responsabilità- di controbilanciare e governare i rischi che
sempre le innovazioni radicali portano con sé: libertà e responsabilità come condizioni
indispensabili del "camminare eretti" e "ad occhi aperti".
CINZIA CAPORALE
Grazie a Maria Gigliola Toniollo ed a Luigi Agostini per avermi coinvolto nella progettazione di
questa iniziativa. Rapidamente, prima di dare la parola al professor Renato Dulbecco, vorrei
ricordare che se un secolo fa l'esercizio della cittadinanza si poteva realizzare attraverso
l'alfabetizzazione e la conoscenza dei diritti garantiti dalle Costituzioni, nelle società tecnologiche
attuali l'esercizio della cittadinanza passa per una alfabetizzazione scientifica. Spero quindi che da
questa iniziativa possa partire un grande appello per una concreta politica di alfabetizzazione
scientifica. "Il Progetto Genoma Umano tra realtà e prospettive": do la parola al professor Renato
Dulbecco, premio Nobel per la medicina e responsabile del Progetto Genoma Umano per l'Italia.
RENATO DULBECCO
Sono molto contento di essere qui e di partecipare a questa iniziativa, perché è un settore, diciamo
così, "pericoloso". In fondo quando la gente sente questo termine, "genetica", immediatamente
pensa a qualcosa di terribile. A Milano, qualcosa come sei mesi fa, è stata fatta un'inchiesta tra il
pubblico. Sono state poste due domande. La prima era : "Sapete che cos'è l'ingegneria genetica?";
e la seconda: "Pensate che l'ingegneria genetica sia buona o cattiva?". La risposta è stata questa:
il 90% delle persone non sapeva cos'è l'ingegneria genetica, però il 70% delle persone sapeva che
era dannosa. È proprio questo il fatto, che purtroppo si costruiscono delle favole, delle suggestioni
nella mente della gente, e poi queste diventano in un certo qual modo realtà. Per questo è
importante comunicare, cercare si spiegare veramente la realtà delle cose, sia dal punto di vista
dell'utilità delle biotecnologie, sia dal punto di vista dei rischi, ma esaminandoli in modo razionale.
Vi parlerò del Progetto Genoma soltanto dal punto di vista scientifico e magari toccherò anche la
questione dell'organizzazione, perché poi i problemi sociali verranno discussi dai relatori seguenti.
È interessante ricordare una mia riflessione in proposito: come mai mi sono messo a lavorare e
pensare in questo campo? In effetti, è una cosa vecchissima, perché comincia quando ero
studente di medicina a Torino, periodo in cui pensavo ai geni, e nessuno allora aveva la più
lontana idea di cosa fossero. Si trattava soltanto di un termine. Mi chiedevo: come si può studiare
e allo stesso tempo cercare sperimentalmente? Mi sono risposto : forse quello che possiamo fare
è usare metodi fisici, come ad esempio le radiazioni, e capire come reagiscono. È per questo che
sono poi andato negli Stati Uniti a lavorare con Luria, anche lui di Torino. Questa era la partenza,
poi naturalmente tutto è cambiato e in modo notevole. Successivamente, verso gli anni Ottanta, e
anzi molto prima, il mio interesse si è sviluppato nella direzione dello studio del cancro. C'è stato
un progresso enorme in questo campo, per cui alla fine si è compreso che il cancro è una malattia
dei geni in cui sono molti i geni implicati: alcuni lo fanno iniziare mentre altri lo fanno progredire.
Specialmente quando mi sono occupato del cancro al seno, pensavo: conosciamo tutta la strada,
ma che cosa vi è alla fine della strada? Alla fine di questa strada ci deve essere un'alterazione
grandissima delle cellule, moltissimi geni devono essere alterati. Per cui, se vogliamo veramente
progredire, dobbiamo conoscere i geni che sono alterati in queste cellule cancerose. Ma come si
può fare questo? E cosa si sapeva allora dei geni?
Del gene si sapeva soltanto che è un'istruzione. Abbiamo questo lungo filamento nelle cellule, che
si chiama DNA, e lì ci sono dei segmenti che contengono l'informazione. Ognuno di questi
segmenti costituisce un gene. Quest'informazione è usata per fare un altro tipo di molecola: una
proteina. Le proteine sono molecole presenti in tutto il corpo. Ce ne sono un'enorme varietà, anche
perché in fondo sono quelle che fanno tutto nel nostro organismo, sono la chiave di tutto il suo
funzionamento. Ma le proteine sono fatte su istruzione di un gene e, dunque, ad ogni gene
corrisponde una proteina. Questa sintesi, però, non avviene in modo diretto: tra il gene e la
proteina c'è una molecola intermedia che è una copia del gene e che è chiamato il "messaggero".
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Abbiamo dunque il gene nel DNA, l'RNA messaggero, che è una copia del gene, e la proteina.
Una cosa importante da sapere è che il DNA è lunghissimo e contiene non solo geni ma molte
altre cose, per cui i geni che codificano per le proteine sono forse il 3-4% del tutto. Il resto non si
sa ancora bene cosa sia. Il messaggero, invece, corrisponde solo al gene e perciò, se vogliamo
studiare il gene, la cosa più diretta da fare è studiare il suo messaggero. Occorre inoltre
considerare che di geni ce ne sono moltissimi. Allora, nessuno sapeva esattamente quanti ce ne
fossero, ma non lo sappiamo nemmeno oggi con esattezza: qualcosa come centomila,
approssimativamente.
Quando pensavo al problema del cancro, mi dicevo: è evidente che bisogna capire bene quali
sono i geni del cancro, ma per far ciò, dobbiamo conoscere tutti i geni, perché l'unico modo in cui
noi possiamo sapere quali sono i geni che non dovrebbero essere attivi in una cellula del cancro,
oppure quelli che dovrebbero esserlo ma che non lo sono, è di guardare i messaggeri. Ma noi,
allora, conoscevamo pochissimi geni e, quindi, pochissimi messaggeri. Bisognava allora andare a
conoscere tutti i geni dell'individuo. Scrissi un articolo, nel 1986, appunto su questo, orientato
proprio nella direzione del cancro, dicendo che bisognava cercare di conoscere il genoma umano.
Mi ricordo che, quando l'articolo è stato pubblicato, era un giorno in cui c'era una riunione molto
importante di scienziati, vicino a New York. Alla fine di questa riunione, un gruppo di questi
scienziati ha deciso di riunirsi per dibattere proprio il contenuto di quell'articolo. È stata una cosa
molto interessante, perché la maggior parte di quelli che partecipavano erano contrari, dicendo che
questa sarebbe stata una perdita di tempo: la definirono "big science", scienza troppo grande,
troppo impegnativa. La scienza deve invece essere "piccola": era quello il loro argomento. Ce
n'erano anche alcuni favorevoli, ma la cosa interessante è che, entro un periodo di due settimane,
la maggioranza di quelli che erano contrari sono diventati favorevoli perché ci hanno ripensato e
hanno riconosciuto che effettivamente esistevano delle buone ragioni. Difatti poi, abbastanza
rapidamente, la cosa si è svolta, e un anno dopo, ha avuto inizio ciò che noi oggi definiamo il
"Progetto Genoma Umano".
Vorrei fare un'osservazione relativa all'organizzazione del progetto, perché questa è una cosa
importante non solo per questo specifico progetto, ma anche in generale. Il Progetto Genoma
Umano è un progetto mondiale, al quale partecipano tutte le nazioni dove la scienza è avanzata.
Non c'è stata, però, un'organizzazione. Tutta l'iniziativa è stata lasciata agli individui, ai ricercatori,
magari in qualche caso ai governi e ai comitati dei governi, ma, insomma, a tutta una serie
d'iniziative separate. Una cosa però si è poi sviluppata rapidamente, nonostante le iniziative
fossero separate: lo scambio d'informazioni. Tutti lavoravano indipendentemente e nessuno
cercava d'influenzare l'altro, però tutti sapevano quali risultati erano stati ottenuti. I risultati tecnici
venivano immessi nelle banche dati, che sono a disposizione di tutti, per cui tutti potevano sapere
in qualunque momento, chi faceva che cosa, nonché il risultato. Si tratta quindi di
un'organizzazione orizzontale e non piramidale. Penso che se si fosse cercato di realizzare
un'organizzazione piramidale, sarebbe stato un fallimento completo. L'unica organizzazione
generale che è stata realizzata è "Hugo", che vuol dire "Human Genoma Organization". "Hugo" ha
fondamentalmente lo scopo di mantenere le connessioni, magari di aiutare ad ottenere borse di
studio, insomma svolge l'azione di favorire il progetto, non certo quello di regolarlo.
Vediamo ora come si è sviluppato questo progetto. In principio il progetto si è concentrato sul
genoma umano. Innanzitutto, cosa vuol dire genoma? È un termine che è stato adottato da molto
tempo, per indicare l'insieme dei geni. Perciò il termine "genoma" di per sé non vuol dire nulla: il
genoma umano avrà infatti circa centomila geni, il genoma di un virus ne avrà viceversa solo tre,
ma sono comunque tutti genomi, genomi di un tipo o di un altro. Come dicevo, il Progetto Genoma
si è concentrato dapprincipio sui geni dell'uomo. Questo ovviamente perché si voleva studiare il
cancro e le altre malattie dovute ai geni, malattie ereditarie ben note che sono circa cinquemila: la
pressione ad intraprendere il progetto è venuta proprio da queste varie direzioni. Naturalmente,
siccome esistono tanti genomi appartenenti a specie diverse, pian piano è venuta l'idea che in
fondo valeva la pena di andare a studiare anche altri genomi, perché si è visto subito dopo i primi
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lavori che tutti i genomi di tutte le specie hanno qualcosa in comune. Esistono geni che sono
presenti in tutte le specie, dai lieviti, alle specie animali, alle piante. Ad esempio, tutti i geni che
hanno a che fare con la moltiplicazione cellulare sono gli stessi dal lievito in su lungo la scala
evolutiva. Questo aspetto è assai significativo: l'unità dei genomi risulta estremamente utile poiché,
se cerco un gene nell'uomo e mi è difficile trovarlo, può darsi che lo trovi studiando il lievito, oppure
il moscerino della frutta, nei quali, possedendo un genoma più semplice, sarà molto più facile
rintracciare il gene dello stesso tipo e da lì ritornare al gene umano.
I geni per le malattie erano l'oggetto di studio più importante e lo sforzo maggiore era dedicato a
identificare proprio questi geni. Tuttavia, immediatamente si è incontrata la prima difficoltà. Come
si fa a trovare un gene in un DNA in cui ci sono miliardi di basi? Si tratta di una quantità di scrittura
enorme, come si fa a trovare un gene che può rappresentare magari solo l'uno per mille di tutta la
lunghezza di questo genoma? La prima cosa che si è fatta è stata quella di organizzare le
cosiddette mappe. Facciamo un esempio: pensate ad una strada, una strada lunga che va da
Parigi a Roma, e qualcuno vi dice di avere una casa lungo il percorso e vi mostra la fotografia della
sua casa. Dove è la casa, tuttavia, non lo sappiamo. Se però abbiamo la mappa di quella strada,
con tutti i punti di riferimento e le distanze, allora possiamo andare a trovarla. Così, analogamente,
la prima cosa è stata quella di costruire le mappe. Le mappe sono solo questo ed esattamente
questo: prendendo la forma lineare del DNA di estrema lunghezza, trovare punti di riferimento
periodici in modo da potercisi ritrovare senza perdersi nella lunghezza. La prima mappa che è
stata costruita è stata una serie di punti. È stata chiamata mappa genetica e aveva circa seimila
punti lungo tutto il DNA. Questa mappa è stata realizzata molto rapidamente perché per fortuna
c'era stata una persona molto lungimirante a Parigi, il professor Dosset, che aveva raccolto alcuni
pedigree di colture cellulari ottenute da un individuo, dai suoi fratelli e da tutti i parenti, e le aveva
conservate in modo che fossero a disposizione. Studiando queste colture, si è riusciti a trovare
molti punti di riferimento che sono diventati i punti di riferimento della mappa genetica: circa
seimila. Dopo qualche tempo, è stata costruita un'altra mappa, basata su un principio diverso:
siccome il DNA è una lunga molecola che si può frammentare, di può ottenere una mappa fatta da
una serie di frammenti tutti contigui, conseguentemente denominata mappa fisica. Esistono perciò
due diverse mappe e anche nella seconda possiamo rinvenire qualcosa come seimila punti di
riferimento: esistono reagenti che servono per usare sia l'una che l'altra mappa.
Come si cerca un gene? Se esiste il gene di una malattia ereditaria, ci saranno famiglie in cui
questa malattia si presenta. Si cercano allora famiglie di cui fanno parte sia persone normali, che
non presentano la malattia, sia persone affette dalla malattia. Si ottiene il DNA da tutti questi
individui e lo si esamina usando i reagenti del primo tipo di mappa. Con questi reagenti si riescono
a trovare alcuni dei riferimenti che sono sempre presenti negli individui positivi ma mai, o quasi
mai, in quelli negativi. Questo vuol dire un certo individuo ha una zona del DNA dove è presente il
gene ricercato. Con l'altro tipo di mappa, si studiano poi i segmenti di DNA e si va a ricercare il
segmento in cui ci sia una differenza nella struttura, nel linguaggio, tra persone normali e
consanguinei che invece presentano la malattia. In questo modo il gene si identifica e si può poi
studiare. Questo è stato il metodo iniziale, ed è usato ancora oggi per studiare i geni e per scoprirli.
È stato messo a punto successivamente un altro metodo, il metodo del sequenziamento, che
prende in considerazione quei miliardi di basi del DNA, che tutte una dopo l'altra, vengono indicate
in generale come "sequenza". Sequenziamento vuol dire essenzialmente determinare l'ordine,
cioè leggere in fondo la scrittura del DNA. In principio, questa procedura era molto difficile perché
non c'erano le tecnologie adatte. Tuttavia, con lo svilupparsi del progetto è cresciuto l'interesse,
sono state utilizzate tecnologie più progredite, per cui il sequenziamento è stato possibile. Adesso
è il metodo correntemente usato e molti scienziati lavorano in questa direzione. Ma il
sequenziamento ha un vantaggio e uno svantaggio. Lo svantaggio è che i geni non sono separati,
ma con l'ausilio dell'informatica è stato possibile sviluppare dei criteri per identificarli. Questi non
sono criteri assoluti, ma sono criteri molto validi per dare un'opportunità, magari dell'85-90%,
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d'identificazione del gene. Il grande vantaggio di questo sistema è che non è limitato, a differenza
del sistema che si basa sulle malattie, e dunque è molto importante.
Un terzo metodo per scoprire i geni umani, è quello di usare conoscenze ottenute in altri
organismi. Avevo già menzionato le somiglianze tra i geni, per cui dato il gene, per esempio del
moscerino della frutta, è possibile andare a cercare il gene equivalente nell'uomo, che
generalmente si trova.
A che punto siamo oggi? Siamo ad un punto veramente molto avanzato perché le mappe sono
perfettamente adeguate. I geni relativi alle malattie vengono scoperti continuamente, anche se ce
ne sono ancora molti da scoprire. Il sequenziamento procede. Naturalmente è un lavoro molto,
molto pesante, per cui fino ad ora circa il 6% del genoma è stato sequenziato. Il 6% sembra poco,
però vuol dire 200 milioni di basi, isolate una per una e messe al loro posto. È chiaramente un
lavoro notevole ed è un risultato già molto buono. Il sequenziamento andrà avanti molto
rapidamente, perché questa tecnologia migliora sempre, come anche l'automazione, e i
miglioramenti tecnici permetteranno a questo progetto di andare velocemente avanti in modo da
raggiungere una conclusione direi nell'anno 2002. Nell'anno 2002, cioè, il sequenziamento sarà
essenzialmente completo e questo vuol dire che tutti i geni saranno individuati, riconosciuti, li
avremo nella provetta, e potremo poi andare avanti a caratterizzarli.
Quale è, a questo punto, il passo successivo? Avere il gene in provetta è certamente una buona
cosa, ma di per sé non ci dice niente delle sue funzioni. Bisogna sapere che cosa fa questo gene,
perché l'informazione sia davvero utile. Questa è la direzione che la ricerca sta seguendo: lo studio
della funzione dei geni. Si tratta di uno studio più biologico e non più di tipo tecnologico, com'è
stato finora, perché dalla mera struttura del gene si può capire qualcosa ma non molto. Da quel
punto in poi si può cercare di capire in quale tipo di cellula un certo gene è attivo. All'interno della
cellula si può cercare di conoscere la localizzazione della proteina prodotto dal gene. Esistono
inoltre alcuni metodi, sviluppati in questi ultimi anni, come quello di introdurre il gene in topi
transgenici, per vedere che cambiamenti vengono introdotti da questo gene, oppure, eliminando lo
stesso gene da un topo, comprendere quali deficienze provoca la sua assenza. In tutti questi modi
pian piano si arriveranno a conoscere le funzioni dei geni: ci vorranno molti anni per farlo.
Dal punto di vista delle ricadute applicative, a che punto siamo? Una cosa essenziale da dire a
questo punto è che, date le nostre conoscenze, che sono parziali, siamo in un periodo di
transizione, siamo cioè in un periodo in cui le conoscenze aumentano, e si cominciano a
intravedere le ricadute possibili. Per il momento, ci sono delle ricadute molto interessanti in alcuni
campi, per esempio nel campo delle malattie ereditarie. Conoscendo il gene relativo è possibile
fare una diagnosi molecolare su singole cellule.
Tuttavia la diagnosi non basta. Infatti una degli aspetti significativi che viene fuori per le malattie
ereditarie, è la possibilità di prevenzione. La maggior parte delle malattie ereditarie sono cosiddette
recessive. Se due portatori sani si accoppiano, il figlio che nasce ha una probabilità su quattro di
avere tutti e due i geni alterati, perciò di presentare la malattia. Di queste malattie ereditarie ce ne
sono di tutti i tipi, in gran varietà, fra cui alcune assolutamente spaventose. Ad esempio, ce n'è una
che colpisce solo i maschi per una questione d'eredità. I bambini che nascono sono deficienti
mentalmente. Successivamente cominciano a mangiarsi le mani, a mangiarsi le dita, e devono
essere legati perché non lo facciano. Allora si mangiano le labbra o la lingua. Insomma si tratta di
una cosa veramente orribile. Queste malattie ereditarie sono molte. Perciò l'identificazione, il
cercare di prevenirle è un fatto molto importante. È fondamentale identificare i portatori, dato che i
geni sono noti e si sa come vengono alterati nelle malattie. La questione è, però, che ciascuno di
noi è portatore di qualche gene di questo tipo, per fortuna senza esserne a conoscenza. Se però,
come dicevo, per caso si accoppiano due di noi che senza averne la più lontana idea, sono
portatori dello stesso gene, ecco che nascerebbe un figlio gravemente ammalato. Ci si potrebbe
chiedere, a questo punto, perché non tentare di identificare tutti i portatori, ma questo sarebbe
impossibile perché dovremmo esaminare tutto il mondo per cinquemila malattie ereditarie note:
questo è assolutamente impraticabile! Lo screening, invece, è molto utile in condizioni speciali. Per
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esempio, ci sono delle popolazioni dove certi geni sono frequentemente alterati. Un esempio di
questo è la popolazione della Sardegna, dove si presenta l'anemia falciforme, una malattia mortale
quando tutti e due i geni sono presenti. Esiste poi un'altra malattia, che si chiama la malattia di
Tay-Sachs, che è presente negli ebrei ashkenaziti con frequenze molto alte. In questi due casi, le
malattie sono state ridotte in modo veramente apprezzabile dalle conoscenze della genetica.
Specialmente per la malattia Tay-Sachs, nelle scuole degli ashkenaziti tutti i giovani vengono
esaminati per verificare la presenza del gene e si fa uno screening generalizzato. Quelli che
possiedono il gene vengono informati e viene loro spiegato quali siano le loro responsabilità:
vengono consigliati di non avere un figlio con una persona che sia portatore dello stesso gene.
Inoltre, se due persone che hanno lo stesso gene nonostante ciò si sono accoppiate ed hanno
avuto un figlio, si può effettuare una diagnosi prenatale e se il figlio dovesse presentare questa
malattia, viene consigliato l'aborto terapeutico. Occorre rendersi conto che ci sono condizioni in cui
un bambino nasce già condannato a morte, condizioni terribili per lui e per la famiglia, e l'idea di
abortire, che a nessuno piace, sembra essere una cosa molto logica.
C'è infine l'ultima possibilità, quella della fecondazione in vitro. Una volta che il pre-embrione si è
moltiplicato fino allo stadio di dodici cellule, si può prelevare una cellula ed esaminare i geni. Se
l'embrione esaminato ha almeno uno dei due geni normali, l'embrione viene impiantato. Questa è
una tattica raramente usata, non per ragioni di principio, ma perché è molto complicata ed è molto
costosa.
Per quanto riguarda le malattie ereditarie, insomma, lo scopo principale al giorno d'oggi è quello
della diagnosi dei portatori e della possibile prevenzione con i vari metodi che abbiamo discusso.
Possibilità ulteriori di terapia non esistono al giorno d'oggi. Questa è la parte del Progetto Genoma
che verrà dopo, quando verranno comprese bene tutte le circostanze, si conosceranno le proteine
in dettaglio, e si svilupperanno dei farmaci diretti specificamente a queste proteine. Si tratta di una
fase successiva che al giorno d'oggi è solo in studio, ma effettivamente esiste la possibilità di
introdurre nell'individuo portatore del gene ammalato una copia normale del gene stesso. La
terapia genica è però ancora in una fase di studio e ha dato purtroppo molte delusioni. Esistono
tuttavia buone possibilità e speranze per il futuro.
Infine il problema del cancro. In questo tipo di ricerca siamo partiti dal cancro e adesso il circolo si
chiude. Dodici anni fa dicevo che bisognava esaminare tutti i geni delle cellule cancerose per
vedere se alcuni sono diverse dalle cellule normali. Adesso si può fare e anzi si è cominciato a
fare. Ci sono un progetto negli Stati Uniti e un progetto europeo di anatomia dei geni del cancro.
Questo studio porterà a delle conoscenze molto avanzate, che possono essere molto utili, di
nuovo, per la diagnosi e per la prognosi, perché i tumori sono molto diversi uno dall'altro. Ulteriore
risultato importante, degli studi sul genoma, è la produzione di farmaci. Molti farmaci che
corrispondono a sostanze prodotte dall'organismo non possono essere fatte sinteticamente, ma
oggi è possibile ottenerli con l'ingegneria genetica una volta che si conosce il gene che le codifica.
Si possono, tra l'altro, sintetizzare in modo tale da averne delle quantità rilevanti a disposizione. Un
esempio di questo è dato dall'ormone della crescita. Fino a dieci o quindici anni fa l'ormone veniva
estratto dai cadaveri, e qualche volta la persona, senza che nessuno lo sapesse, era morta per
una malattia contagiosa gravissima che poi veniva trasmessa con l'ormone al paziente a cui
veniva somministrato. Con l'ingegneria genetica abbiamo eliminato questo problema e, inoltre,
l'ormone funziona anche meglio di quello che si otteneva dai cadaveri. Riguardo alle biotecnologie,
naturalmente, ci sono diversi problemi aperti, come quello della brevettabilità cui si è accennato
precedentemente. Tuttavia, il problema centrale di tutto questo, secondo la mia opinione, è il
seguente: se prendiamo un gene umano, lo estraiamo da un individuo e lo usiamo per fare
l'ormone della crescita, questo va bene, e si reputa che non c'è nessun pericolo, perché viene da
una persona sconosciuta. È del tutto anonimo, non c'è niente d'individuale, niente di personale. Se
invece cerchiamo i portatori di una data malattia, se andiamo a cercare i geni per una malattia nel
singolo individuo, allora la cosa è diversa perché operiamo una personalizzazione. Veniamo cioè a
sapere che questo specifico individuo ha questo particolare gene: lì cominciano i problemi. Ma di
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questo parlerà il professor Rodotà. Per concludere, questo è tutto ciò che si sa al giorno d'oggi del
genoma dal punto di vista scientifico. Ci sono moltissimi ulteriori dettagli che potrei aggiungere, ma
lascerò la parola agli altri relatori che parleranno di alcuni problemi specifici.
CINZIA CAPORALE
Grazie al professor Renato Dulbecco. Abbiamo dunque ascoltato come il Progetto Genoma
Umano produrrà un'immensa quantità di dati. L'uso e il misuso di questi dati sono questioni
realmente rilevanti. Proprio sul rapporto tra rivoluzione genetica e privacy, diamo la parola al
professor Stefano Rodotà, Ordinario di Diritto Civile all'Università di Roma e Presidente
dell'Autorità garante per la protezione dei dati personali.
STEFANO RODOTÀ
Dall' esposizione chiarissima del professor Dulbecco, tutti hanno potuto misurare l'ampiezza di ciò
che sta accadendo. Non è quindi fuori luogo usare il termine rivoluzione, che ormai si usa
comunemente per ciò che riguarda le scoperte della scienza, ed è invece proscritto in altri campi
della discussione. Questa rivoluzione non solo pone problemi nuovi e inediti per ciò che riguarda la
questione della privacy, ma impone di ripensare la nozione stessa di privacy, da almeno quattro
punti di vista: a chi appartengono i dati genetici; come vengono raccolti e come circolano questi
dati; come incidono sulla costruzione della sfera privata, che non è soltanto l'autorappresentazione
di ciascuno di noi, ma anche la definizione delle condizioni di molti rapporti personali e sociali;
come tutto questo incide sulla costruzione della cittadinanza. Costruzione della cittadinanza che è
stata spesso affidata alle grandi utopie negative, perché in questo secolo, accanto alla ricerca
scientifica, sono state costruite diverse utopie negative da parte dei letterati. È quasi un luogo
comune citare George Orwell per le tecnologie della comunicazione e, per tutto ciò che riguarda la
biologia e la genetica, "Il mondo nuovo" di Aldous Huxley.
Il quadro all'interno del quale opera questa ridefinizione della privacy, è quello di una crescente
attenzione per quello che viene ormai comunemente definito il "diritto alla autodeterminazione
genetica". Uso questa espressione perché è ricalcata su una decisione della Corte Costituzionale
tedesca del 1983, che era stata chiamata a risolvere il problema della legittimità costituzionale del
censimento e che invalidò in parte questa legge sostenendo che i cittadini hanno il diritto
all'autodeterminazione informativa, come diritto fondamentale del cittadino. In altre parole, i
cittadini hanno il diritto di stabilire loro stessi qual è la sorte delle informazioni che li riguardano,
con tutta una serie di limiti e di eccezioni legate sia ai rapporti con gli altri, interpersonali, sia ai
rapporti con gli altri come rapporti sociali. In questo momento, si tende a trasferire questo calco
linguistico e questo modello concettuale nell'ambito della genetica, appunto parlando di un diritto
all'autodeterminazione genetica, legato evidentemente alle caratteristiche proprie dei dati genetici.
Caratteristiche che li differenziano da tutti gli altri dati personali, e sicuramente dagli altri dati che
riguardano la salute anche se, ogni tanto, qualcuno tende a mettere in ombra questa distinzione
per ragioni alle quali accennerò successivamente. Le caratteristiche proprie dei dati genetici sono
quelle di essere dati strutturali, cioè che accompagnano la persona per tutta la sua vita, e di avere
un'attitudine predittiva, nel senso che la conoscenza di questi dati genetici permette, con tutte le
cautele nell'uso di questo termine, di predire il futuro di una persona. Il rischio che corriamo è farne
un uso scandalistico, approssimativo, indotto qualche volta da ricercatori piuttosto disinvolti, che
scoprirebbero il gene della omossessualità, dell'infedeltà e così via, con una idea di riduzionismo
biologico e una sottovalutazione dell'interazione tra struttura genetica e ambiente. In ogni caso,
nonostante le semplificazioni, l'attitudine predittiva è assolutamente indiscutibile.
L'altra caratteristica dei dati genetici è quella della condivisione: uno degli elementi che, dal punto
di vista della ricostruzione della nozione di privacy, assume un significato particolarmente rilevante.
Noi condividiamo molte informazioni con molte altre persone. Si tratta cioè di un'informazione
socialmente condivisa. Se io ho un'opinione politica che condivido con altri, essa resta la mia
opinione ed è un'opinione che posso cambiare. Ciò che accade per i dati genetici è viceversa una
condivisione strutturale con gli appartenenti al medesimo gruppo di sangue o biologico. Ciò è tanto
vero che, per lo svolgimento di indagini genetiche, c'è bisogno, in molti casi, di informazioni su altri
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membri del medesimo gruppo biologico. A questo punto, evidentemente, si pone il problema del
determinare di chi sono queste informazioni, che non è una domanda astratta. In questo momento
in Italia, con un singolare addensamento statistico, le cronache ci hanno parlato di una madre che
era alla ricerca della donna che l'aveva partorita e abbandonata, la cui identità le era sconosciuta.
Ora, presso l'Autorità garante per il rispetto della privacy, pende la domanda di una donna, la
quale vuole accedere alla cartella clinica del proprio padre, che invece le nega questi dati. La
donna ha bisogno di questi dati per una decisione procreativa: avere o non avere un figlio in
presenza di una storia di disordini genetici familiari. In entrambi questi casi, a chi appartengono le
informazioni genetiche? Perché il fatto è che io sto chiedendo informazioni a mio padre o a mia
madre, non per sapere qualcosa su di loro, ma per sapere qualcosa su di me, o sulla mia
discendenza. Ecco la differenza radicale rispetto alla tutela di tutte le altre categorie di dati. In una
Raccomandazione del Consiglio d'Europa (1997) sui dati riguardanti la salute, i dati genetici sono
anche definiti come quelli che costituiscono il patrimonio di un gruppo d'individui legati da vincoli di
parentela e dunque come un patrimonio comune. Dobbiamo uscire dalla logica dei dati personali,
non a caso chiamati in questo modo perché identificati con il soggetto al quale vengono riferiti, per
entrare in una logica diversa sulla quale c'è molto da riflettere. Io non ho una soluzione, ma illustro
quale è il problema nuovo per la privacy, perché in questa dimensione l'elemento solidarietà,
scambio, diritto alla tutela della salute, può prevalere, e tende a prevalere, su quello della
riservatezza. Tutto questo con una logica diversa, nel senso che si può sostenere che io accedo a
dati che sono anche miei e che quindi l'obiezione altrui è irrilevante. In un parere su "Hugo" e sulle
banche del DNA, dato dall'Ethics Commetee di cui io faccio parte, si mette in evidenza che
dovrebbe essere favorito il diritto dei parenti stretti di accedere ai DNA sampling, ai dati del DNA,
che sono stati depositati in quella banca da un altro parente. Vedete, quindi, che la nozione di
privacy in questo caso cambia, e deve essere riferita piuttosto a un gruppo che a una persona. La
nozione di privacy perde allora una sorta di unidimensionalità e ci troviamo di fronte non a coppie
oppositive, ma a complementarità, sapere o non sapere, perché in molti casi la tutela della
riservatezza è legata al non sapere da parte dello stesso individuo. Vediamo cosa significa questo
concetto. Potrebbe capitare che io non voglia sapere che svilupperò una determinata malattia,
perché questa condizione d'ignoranza è quella che mi consente la pienezza e la libertà nella
costruzione della mia personalità. Ma questa potrebbe non essere l'opinione condivisa da tutti. Altri
potrebbero sostenere: "Il sapere mi consente la migliore pianificazione della mia vita: avere o non
avere dei figli, sposarmi o meno, decidere sul destino del mio patrimonio". Divulgazione e
conoscenza - che costituiscono un'altra coppia, come il sapere e il non sapere-, si intrecciano,
come possono intrecciarsi divulgazione e segretezza nel caso sopra menzionato. Si tratta quindi di
informazioni in uscita e in entrata, se vogliamo usare qui una terminologia di tipo informatico. Ma la
privacy storicamente è sempre stata considerata come una tutela delle informazioni in uscita: non
voglio che altri divulghino informazioni che mi riguardano, non devono cioè uscire determinate
informazioni dalla mia sfera privata. Viceversa è l'entrata delle informazioni che la genetica ha
messo in particolare evidenza, anche se non è tipica soltanto della materia della genetica: non
voglio che alcune informazioni entrino nella mia sfera privata, non voglio che, per esempio, in
occasione di un'indagine mi vengano comunicate determinate informazioni inattese. Forse questo
atteggiamento corrisponde ad un forte egoismo, ma consideriamo che anche se mi si dice "Io non
ti comunicherò i risultati dell'analisi", dai comportamenti che saranno tenuti dalla persona che
appartiene al mio gruppo biologico, saprò comunque se il rischio genetico in famiglia esiste oppure
non esiste. Se, ad esempio, questa persona decide di non sposarsi o di non avere figli, io saprò,
senza bisogno che mi venga comunicato il risultato del test, qual è il rischio familiare.
Naturalmente questo ci porta a ipotizzare una modifica anche nella rete di rapporti giuridicamente
rilevanti. Noi abbiamo una nozione di famiglia che è circoscritta da una serie di regole: la coppia, i
genitori e i figli. Non abbiamo una nozione di gruppo giuridicamente rilevante, che comprenda
soggetti che non fanno parte della famiglia. Rispetto ai genitori di una persona adottata, che in
molti paesi devono rimanere nell'ombra, l'anonimo donatore di gameti per una fecondazione
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assistita è, da questo punto di vista, altrettanto importante del soggetto noto. Sicuramente, quindi,
ci troviamo in presenza di un quadro radicalmente modificato. I valori di riferimento, e qui l'intreccio
si fa molto complesso, sono sicuramente quelli della segretezza. Tutti i documenti che riguardano
le varie forme di test, lo screening genetico, la raccolta d'informazioni, le banche dati del DNA,
mettono fortemente l'accento sulle condizioni di segretezza, che sono le garanzie offerte ai
soggetti che mettono a disposizione di altri soggetti o della collettività le loro informazioni
genetiche. L'esigenza di segretezza resta importante. Ma altrettanto forte è l'ignoranza dello stesso
soggetto, l'ignoranza deliberata per la libertà di scelte esistenziali. Discorso che viene per esempio
proiettato nella dimensione della clonazione: ciò che viene violato dalla clonazione è la libertà delle
scelte esistenziali, il sapere di non essere unici, e quindi anche in questo caso l'informazione
genetica contribuisce radicalmente a creare la percezione di sé. Ciò perché la nozione di privacy
ormai non può essere ricostruita attraverso l'idea vecchia del diritto di essere lasciato solo. È
divenuta una struttura complessa di governo delle proprie informazioni, in funzione della
costruzione della personalità. Se leggiamo tutti i documenti più recenti, come la Convenzione del
Consiglio d'Europa sui Diritti dell'Uomo e la Biomedicina -già firmata da un certo numero di Paesi e
prossima a entrare in vigore grazie alle ratifiche che si succedono-, oppure se leggiamo la
Dichiarazione Universale sui Diritti dell'Uomo e il Genoma dell'Unesco, entrambe del 1997, il punto
della discriminazione è messo in particolare evidenza insieme al punto della non
commercializzazione del corpo, delle sue parti e dei suoi prodotti. Sono quindi presi due valori di
riferimento: il corpo e anche le informazioni.
Personalmente, sono ostile al riduzionismo. Le formule "l'uomo e le sue informazioni", "l'uomo e i
suoi geni", sono fortemente distorcenti. Tuttavia, sicuramente le informazioni hanno un ruolo
capitale perché hanno un valore di mercato, un valore aggiunto straordinario nella società
dell'informazione. Sottolineare, quindi, come esse siano fuori dal mercato è un punto capitale,
perché qui si gioca un elemento di cittadinanza. Parlerò di un caso che in questo momento è in
discussione: il caso islandese. L'Islanda ha poco più di 250 mila abitanti, una storia d'isolamento e,
quindi, una sorta di "purezza genetica", che consente sia una maggiore prevenzione, sia la
possibilità di offrire un giacimento genetico di straordinario interesse per chi deve sviluppare
questo tipo di ricerche. Due sono i problemi di cui ci si occupa a livello internazionale. Il primo è un
tema tradizionale di tutela della privacy: la piccola dimensione della comunità consente la facile
identificazione del soggetto a cui si riferiscono i dati. La seconda questione riguarda il fatto che
questa base di dati sia negoziata dal governo islandese con una società farmaceutica notissima,
con un problema di vendita dell'identità genetica dei soggetti: si pone quindi anche un rilevante
problema etico, quello della non commercializzazione e della non discriminazione. Il problema
della non discriminazione è un tema capitale. Secondo la mia opinione si pone un problema di
riduzione della cittadinanza, di esclusione di soggetti, perché l'uso delle cosiddette carte genetiche,
che si cominciano a richiedere in molti casi, determinano rischi concreti d'esclusione. Ai quattro
angoli del mondo, e non solo negli Stati Uniti, esistono esempi di datori di lavoro che hanno
chiesto, o che hanno effettuato, analisi genetiche sui dipendenti, soprattutto al momento
dell'assunzione. L'argomento ha anche qualche aspetto positivo: si vuole evitare che ci siano
interazioni tra dati genetici e ambiente di lavoro tali da mettere a rischio la salute del lavoratore.
Più concretamente questo implica due conseguenze: invece di migliorare l'ambiente di lavoro si
scelgono gli individui geneticamente resistenti. In secondo luogo i soggetti che si trovano ad avere
un certo patrimonio genetico, rischiano l'esclusione dal lavoro. Si rischia quindi la creazione di una
casta di non impiegabili.
Ancora più marcato è il discorso intorno al contratto d'assicurazione. Il contratto d'assicurazione è
quello che in questo momento, anche per gli enormi interessi che muove, pone i massimi problemi,
e sono finora caduti nel vuoto per esempio gli stessi inviti di Clinton ad approvare il Genetic
Privacy Act, anche in un Paese che non ama particolarmente le leggi in questa materia. In quel
caso c'era una ragione precisa, ma rimane comunque la resistenza delle compagnie
d'assicurazione che ha provocato qualche effetto politico di non piccolo rilievo negli Stati Uniti. Le
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categorie dei soggetti non assicurabili possono essere assicurate a condizioni particolarmente
onerose, con due tipi di effetti su cui vale la pena di riflettere molto, anche per rispondere alle
compagnie d'assicurazione che pongono un problema, quello della cosiddetta "reverse
discrimination": il fatto cioè che io approfitti della mancata comunicazione dei miei caratteri genetici
per avere delle condizioni d'assicurazione più vantaggiose. La verità è un'altra, e cioè che tutto ciò
sta cambiando radicalmente, almeno in prospettiva, la natura stessa del contratto d'assicurazione,
che aveva due pilastri: la mutualità e il rischio, e cioè la ripartizione del rischio su una platea ampia
di soggetti. Noi andiamo sempre di più in direzione di contratti d'assicurazione tagliati sulla misura
individuale, sempre più personalizzati, nei quali diminuisce la quota di rischio e anche la mutualità.
C'è, su questo, una riflessione molto seria da fare. Ce n'è poi una ulteriore, che spero non venga
intesa come una sorta di altolà ideologico. Quando, con troppa disinvoltura, noi affermiamo la
necessità di privatizzare il settore della sanità, dobbiamo ricordarci che c'è ancora nel nostro
Paese la difficoltà di accedere all'assicurazione malattia o all'assicurazione vita. Credo di non
esagerare dicendo che sono milioni le persone escluse dall'accesso anche alle forme più modeste
di assistenza medica, in Paesi dove la privatizzazione è la regola. Quando si privatizza, se siamo
in presenza di un settore assicurativo fortemente condizionato dall'accesso e dall'utilizzazione dei
dati genetici, noi introduciamo immediatamente un fattore di discriminazione, anzi di esclusione
dalla cittadinanza. Questo perché, se ormai la cittadinanza non è solo quella che ci ha insegnato la
teoria politica ottocentesca - e cioè l'appartenenza a un determinato Stato nazionale e il godimento
connesso di alcuni diritti civili e politici-, ma è un fascio di diritti, all'interno dei quali come
precondizione si pone un minimo di reddito, d'informazione, d'istruzione e di salute, deprimere uno
di questi elementi significa ridurre la cittadinanza. Detto brutalmente, se nel secolo passato il fatto
di essere esclusi dal voto per il censo significava esser esclusi dalla cittadinanza, allo stesso modo
se il censo è quello che determina la quota di salute di cui io posso godere - e cioè ho tanta salute
quanta ne posso comprare sul mercato-, ecco che noi incidiamo radicalmente sulla cittadinanza.
Per questi motivi, ragionare su queste questioni è molto importante, perché i modelli di regolazione
su questo aspetto sono piuttosto divergenti se compariamo Stati Uniti ed Europa. Negli Stati Uniti,
le legislazioni che già prevedono limiti all'uso delle informazioni genetiche a finalità d'impiego o per
il contratto d'assicurazione, in genere seguono questo modello: si possono raccogliere le
informazioni ma non le si possono adoperare a fini di discriminazione individuale. Apparentemente,
lo schema funziona. Tuttavia, a parte il rischio di essere tentati poi dall'usarle a fini di
discriminazione, se si costruiscono modelli non individuali per la gestione del contratto
d'assicurazione, gli effetti di discriminazione e di espulsione possono verificarsi lo stesso. I modelli
-intendiamoci, molto contestati-, che sono stati adottati in Europa (vedi Austria, Belgio,
Danimarca), sono invece di divieto di raccolta di informazioni in queste materie. Soluzioni
conclusive evidentemente non ce ne sono, se non quelle (quasi autoevidenti dall'analisi di questo
tipo di problemi) della tutela della riservatezza. Può rappresentare, e certamente è così in alcuni
casi, una forma di egoismo quando consiste nel rifiuto di collaborare con gli appartenenti alla
propria famiglia genetica; può esserlo quando ci siano ingiustificati rifiuti a mettere i propri dati a
disposizione della ricerca, anche in presenza di adeguate garanzie. Ma ciò che nello stesso tempo
noi dobbiamo fortemente tenere come punto di riferimento, sono gli aspetti che ho citato: la libertà
della costruzione della personalità, per la quale la conoscenza e l'accesso ai dati stessi può
risultare molto importante. Qualcuno ha addirittura sostenuto: "La genetica predittiva mi mette in
condizione di stabilire un antidestino". La formula è un po' retorica, ma ci dice quanto è significativo
l'apporto che ci viene dalla genetica anche nella dimensione individuale. Usando questi parametri,
che sono poi quelli che ci parlano di cosa significa oggi la privacy, credo che l'analisi sulla non
commercializzazione e la non discriminazione possa risultare abbastanza corretta.
CINZIA CAPORALE
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Dedicherei alcuni minuti per le eventuali domande sia al professor Dulbecco che al professor
Rodotà. Immagino che le domande siano numerose anche se, evidentemente, l'argomento è assai
complesso.
Il professor Dulbecco vuole rivolgere una domanda al professor Rodotà…
RENATO DULBECCO
Volevo chiedere questo: tutto il ragionamento è basato sull'affermazione che il gene ha un'azione
categorica, ma non include il fatto che c'è l'ambiente, che in fondo può avere un'influenza assai
notevole e modificare di molto l'azione del gene.
STEFANO RODOTÀ
In realtà, ho detto esplicitamente che il tempo mi obbligava a semplificare. Ho specificato che sono
personalmente nemico di queste forme di riduzionismo, e questa è una delle ragioni. Ci sono
compagnie d'assicurazione, che invece vanno proprio in questa direzione, attribuendo un eccesso
di rilevanza ai dati, con notevoli rischi rispetto ai test genetici, non tanto perché in quanto invasivi,
ma perché rischiano proprio di enfatizzare un singolo elemento. Quindi, su questo punto sono
assolutamente d'accordo e, anzi, grazie della domanda, che ci premette di evitare equivoci di
questo genere che sono molto pericolosi.
CINZIA CAPORALE
C'è una domanda, mi pare, da parte di Flavia Zucco.
FLAVIA ZUCCO
Per presentarmi vorrei dire che faccio parte della CGIL Ricerca. Prima di tutto avrei da fare
un'osservazione relativa ad una questione di cui CGIL si è già occupata. "Il sistema ricerca", che
era una rivista della CGIL Ricerca, già nel 1987 aveva iniziato a raccontare la storia del Progetto
Genoma, una storia che è un po' diversa da come l'ha raccontata il professor Dulbecco. La rivista
ha poi proseguito nel racconto della storia di questo progetto evidenziando i grossi problemi che
poteva generare e che già ha generato fin dal suo inizio. La domanda che volevo porre è se il
professor Dulbecco può accennare qualcosa circa i costi di questa ricerca, circa gli investimenti in
termini di professionalità, di forze umane, e di ricadute sul piano del lavoro e dell'occupazione
nell'ambito della ricerca scientifica.
RENATO DULBECCO
I costi mondiali non glieli so dire ma, ad esempio, quest'anno negli Stati Uniti il budget per la
ricerca sul genoma è di circa 300 milioni di dollari. È stato di questo livello anche l'impegno
finanziario per parecchi anni passati. Si aggiungano inoltre alcune altre centinaia di milioni di dollari
in altri Paesi: si arriva forse ad un costo di diversi miliardi di dollari.
Vengo poi alla sua domanda sull'organizzazione, e su come questo s'inserisce nel campo della
ricerca in generale. In fondo la genetica oggi è parte della biologia. Non esiste biologia senza
genetica perché i geni hanno un'influenza così pervasiva su tutto che tutte le funzioni della cellula
e dell'organismo sono riconducibili ad essi. La genetica non è una cosa così semplice come si
pensa: dai geni si formano le proteine, le proteine trasmettono segnali, i segnali vanno da una
cellula all'altra... Insomma, si tratta di una rete complessa, per cui non credo che la ricerca
genetica abbia alcun effetto negativo sulla biologia ma che, anzi, ne sia parte integrante .
CINZIA CAPORALE
Grazie al professor Dulbecco. Passiamo ora al prossimo intervento. Il professor Rodotà parlava di
dati genetici con attitudine predittiva, e la prossima relazione si intitola appunto "Dalla medicina
preventiva alla medicina predittiva". Sempre il professor Rodotà accennava ai rischi di esclusione
dal mercato del lavoro. Sappiamo di un processo in corso nel nostro Paese in cui il danno
biologico da contaminanti ambientali sul posto di lavoro è stato definito come responsabilità
individuale: se si è "sbagliati" geneticamente non si verrebbe risarciti in caso di danno biologico. Si
tratta, evidentemente, di un rischio consistente. Delle applicazioni già possibili e di quelle futuribili
del Progetto Genoma, ma anche delle sue implicazioni culturali, sociali e politiche, ci parla Gilberto
Corbellini, storico delle scienze biomediche dell'Università di Roma.
GILBERTO CORBELLINI
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Comincerò sostenendo una tesi contraria a quella che è la posizione comunemente assunta in
relazione allo statuto epistemologico della medicina predittiva. Questa tesi, contrariamente a come
viene in genere intesa soprattutto in Italia, è che la medicina predittiva non è riduzionistica. Se
andiamo a consultare la letteratura soprattutto anglosassone, questa problematica del
determinismo genetico è già in parte superata e in parte anche rivoltata contro coloro che la
vorrebbero utilizzare in chiave discriminativa. Facciamo un esempio: è stato citato il problema del
determinismo genetico e delle possibili origini della componente genetica dell'omosessualità, o di
alcuni suoi aspetti e forme. Al riguardo, teniamo conto che i movimenti attivisti omosessuali
statunitensi hanno in parte abbracciato questo tipo di spiegazione perché, in tal caso, ritengono
che se esiste una componente biologica dell'omosessualità non c'è più nessuna ragione di
attribuire una valenza morale negativa a un comportamento di questo genere. Si tratterebbe
semmai di capire come mai l'evoluzione biologica e la selezione naturale hanno conservato e
mantenuto certi tipi di comportamenti che devono necessariamente essere funzionali in certi
contesti. Secondo l'opinione di questi movimenti si può discutere sulla componente genetica
dell'omosessualità quanto si vuole, però il fatto di individuare una componente biologica non vuol
dire parlare di determinismo genetico e quindi non vuol dire attribuire una colpa o un'utilizzazione
di tipo discriminativo a questo tipo di informazione. Tra l'altro -il che non giustifica assolutamente
l'utilizzazione dei test predittivi in ambito lavorativo-, un fatto interessante è che il primo a proporre
l'utilizzazione dei test genetici è stato, nel 1938, uno dei fondatori della genetica evoluzionistica. In
un libro molto interessante intitolato "Eugenics and politics", lui sosteneva che la genetica
predittiva rappresentava una grossa opportunità per i lavoratori: si poteva evitare che i lavoratori
predisposti a determinate malattie andassero a lavorare in ambienti che li avrebbero fatti
ammalare. Inoltre, è stato uno del gruppo dei genetisti socialisti inglesi che ha difeso i genetisti
sovietici, che nel frattempo venivano tenuti in galera e uccisi da Stalin. Le situazioni sono, quindi,
abbastanza sfumate, anche storicamente.
Vorrei, a questo punto, tornare sulla questione dello statuto epistemologico della medicina
predittiva. Uso il termine "epistemologico" perché in effetti l'epistemologia, proprio in relazione al
processo citato da Cinzia Caporale, è stata addirittura chiamata in causa dai periti che
disquisivano sulla natura della causalità in epidemiologia e su quanta parte degli studi
epidemiologici di popolazione potesse essere utilizzata per accertare l'esistenza di una causa a
livello di una malattia individuale. Questi periti sono stati coinvolti dalla Enichem-Montedison in un
contesto ben preciso, quello del processo per i morti e per coloro che si sono ammalati negli
stabilimenti di Portomarghera, a causa del cloruro di vinile.
La medicina predittiva non è riduzionistica sostanzialmente perché, secondo una definizione del
premio Nobel Dosset -che ha scoperto gli antigeni di istocompatibilità nell'uomo e cioè gli antigeni
che rappresentano la "carta d'identità" individuale-, "la medicina predittiva è una medicina basata
sulla probabilità e viene condotta su basi individualizzate." La medicina predittiva al suo centro ha
due elementi: probabilità e individualità. Probabilità non vuol dire certezza e quindi il determinismo
salta. Individualità vuol dire che i fattori di rischio devono essere tenuti in conto sulla base di
esperienze e storie individuali secondo tutti i meccanismi di cui ci ha raccontato il professor
Dulbecco e che vanno dal gene alla sua espressione, passando attraverso una rete d'interazioni
straordinaria. In questo senso, indubbiamente la medicina predittiva cambia il rapporto medicopaziente poiché di fatto, in svariate situazioni, i medici non sempre hanno cure adeguate e non
possono consigliare strategie preventive. Inoltre, essa sicuramente crea un nuovo tipo di soggetto
nell'ambito della medicina, che non è ancora un malato, ma che non è nemmeno sano, e che
comunque entra in un circuito di conoscenze, di problematiche, di interessi e di attenzioni da parte
del medico, ponendo tutti quei problemi sull'utilizzazione dell'informazione in ambito sociale che il
professor Rodotà ci ha descritto così efficacemente.
Per quanto riguarda poi il problema dell'informazione genetica, credo che molto spesso si faccia
confusione tra l'accezione strettamente scientifica d'informazione genetica e quanto
quest'informazione genetica può essere usata per fini conoscitivi. C'è un interessantissimo articolo,
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che cito tutte le volte che dibatto sull'evoluzione del concetto di malattia, il cui titolo è "La fallacia
astorica della medicina": il suo contenuto di base è una bellissima meta-analisi sugli esiti dei
trattamenti per la schizofrenia. Questo gruppo di ricercatori americani verifica che gli esiti positivi
nel trattamento della schizofrenia cambiano in relazione alla definizione della malattia, e da queste
osservazioni arriva alla conclusione che in fondo acquisire informazioni nel campo della medicina
non vuol dire necessariamente avere conoscenze su un certo tipo di fenomeno. La conoscenza ha
qualcosa a che fare anche con il piano dell'interpretazione: è anche con il piano dell'utilizzazione
delle informazioni che si ha possibilità di usare e di integrare in un insieme funzionale.
Vengo a questo punto ad una questione che riguarda le caratteristiche delle discussioni su queste
tematiche che hanno luogo in Italia e che, secondo me, sono realmente peculiari. Il dibattito sopra
ricordato avviene su ciò che si sa negli Stati Uniti o comunque nei Paesi anglosassoni: sto
riscrivendo un capitolo di un libro sugli aspetti etici della medicina molecolare e posso conoscere
benissimo quali siano le caratteristiche delle persone che, per esempio, acquistano test genetici
negli Stati Uniti, oppure quali siano i fattori che negli USA o in Francia o nel Regno Unito
influenzano la decisione di accedere a un test genetico, oppure come gli individui rispondano a un
test genetico. Ad esempio, esistono tutta una serie di mitologie relativamente al fatto che un
individuo che si sottopone ad un test genetico per il Morbo di Huntington poi si suiciderebbe, cosa
che dalle statistiche pubblicate non risulta assolutamente. Esistono poi anche degli effetti
paradossali piuttosto interessanti su che cosa succede nell'ambito familiare, quando una persona
che si sottopone a un test genetico scopre che è effettivamente affetta dalla malattia ricercata
oppure che non lo è: in rapporto alla condizione di stress che vive, e di stress che provoca ai suoi
familiari, accadono cose molto particolari. Se però cerchiamo di capire, quando riflettiamo su
questo tipo di questioni bioetiche, quale sia la situazione in Italia, non abbiamo alcun dato empirico
a disposizione. Non solo non si hanno dati, ma si verifica anche una situazione assurda per cui
mentre negli altri Paesi si mettono a punto diverse strategie per l'utilizzazione dell'informazione
genetica, si creano i "gene shop" (come quello all'aeroporto di Manchester) o si allestiscono
mostre e iniziative culturali, in Italia manca del tutto un minimo di informazione e di acculturazione
genetica nelle scuole, e non si sa neppure quale sia il livello di comprensione dei problemi genetici.
Relativamente alle università so quale è il livello di comprensione dei problemi genetici perché
faccio esami a studenti del terzo e quarto anno di medicina. Francamente spero che nei corsi di
clinica medica, del quinto e sesto anno, qualcosa succeda perché gli studenti con cui ho a che fare
non sanno nulla, fanno quindici o venti ore di genetica al primo anno (su settanta ore tra biologia),
dopo di che la genetica medica e comunque tutti gli insegnamenti e le informazioni di carattere
genetico scompaiono. È infatti a discrezione degli altri corsi introdurre questo tipo di nozioni e di
conoscenze.
Uno degli aspetti principali che emerge dal dibattito internazionale è la necessità, il bisogno, di
educazione, di formazione, e che le persone, gli individui, i cittadini, negli Stati Uniti, si rivolgono ai
medici e chiedono di fare un test genetico perché hanno in famiglia persone che presentano
patologie ereditarie. Negli Stati Uniti esistono supporti di carattere psicologico, consulenze
genetiche, società che sul mercato offrono questi servizi. Nel Regno Unito si utilizzano altre
strategie: i test genetici sono proposti dal servizio sanitario, nel senso che ci sono anche dei piani
prospettici in cui si studia in che modo si possa migliorare la consulenza genetica, quale tipo di
domande vengano dalla popolazione e come indirizzare e informare in modo che la scelta risulti
davvero autonoma, consapevole, funzionale e utile anche in questo contesto. Faccio infine
riferimento anche a una delle conseguenze caratteristiche, e direi anche paradossali, del fatto che
poi in Italia si discuta molto e ci si lamenti di essere colonizzati dagli altri Paesi, ma poi, di fatto,
non si raccolgano dati e informazioni per ragionare sul tipo di atteggiamento e di prospettiva che ci
potrebbe essere nel nostro Paese su queste tematiche. Su un supplemento del Corriere della sera,
"Io donna", è stato pubblicato un dossier sulle biotecnologie. Il dossier interpellava per il 70%
persone appartenenti all'area ambientalista: è evidentemente un'opzione di un certo tipo, gli
intervistati parlavano ovviamente delle biotecnologie in modo assai negativo. C'era poi un'intervista
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al professor Dulbecco, che non mi sembra persona che quando rilascia interviste per prima cosa
mette in luce gli aspetti negativi. Eppure, nel dossier di "Io donna", il professor Dulbecco sosteneva
che ci sono dei seri problemi e dei gravi rischi nell'uso delle biotecnologie. Immagino che chi ha
redatto l'articolo, abbia scelto deliberatamente di mandare un certo tipo di messaggio. Il dossier si
concludeva con un'intervista al professor D'Agostino, presidente del Comitato Nazionale per la
Bioetica, il quale, a proposito dei test genetici, sosteneva che rappresentano un serio e grave
problema di sanità pubblica. Questo Comitato Nazionale per la Bioetica Nazionale, sono dieci anni
che funziona, è un po' un disastro. Però siccome siamo vicini al rinnovamento dei membri e
siccome la bioetica è stata una delle tematiche che sono state discusse per formare questo
Governo, francamente trovo che ci sia da preoccuparsi: quando si sente il professor D'Agostino
sostenere queste cose senza aver fatto nemmeno lo sforzo, in questi anni, di produrre qualcosa
che davvero accresca le conoscenze… Al Comitato Nazionale per la Bioetica sostanzialmente se
ne stanno nel loro ufficio, nel loro studio, leggono un po' di cose…
Una delle cose che rende relativamente ottimisti nei riguardi del futuro, secondo me, è la reazione
dell'opinione pubblica: quando prima si parlava della diagnosi precoce della talassemia in
Sardegna, bisognava ricordare che le coppie, prendendo coscienza di cosa vuol dire la qualità
della vita di un bambino monozigote talassemico rispetto alla qualità della vita di un bambino
eterozigote, sanno bene come scegliere e cosa scegliere, e utilizzano tranquillamente l'aborto,
nonostante le battaglie che sono state fatte dalla chiesa cattolica contro di esso. Da uno studio
europeo di due anni fa (in Italia non ci sono dati), risulta che l'Italia è il Paese dove si effettua il
maggior numero di diagnosi precoci prenatali: il maggior numero! Ma se andate all'ospedale
romano Fatebenefratelli e leggete che se ci si sottopone ad una diagnosi precoce in gravidanza, lo
si fa soltanto per ragioni conoscitive e non per fare scelte di tipo abortivo, io dico che viviamo nella
più totale ipocrisia e nella più assoluta ignoranza rispetto a quello che succede in questo Paese.
CINZIA CAPORALE
Grazie. Gilberto Corbellini evocava uno dei punti importanti delle biotecnologie, soprattutto per
quel che riguarda la salute e per quel che riguarda l'embrione umano. Ma le biotecnologie non
riguardano soltanto l'embrione, oppure la salute dell'uomo. C'è molto altro e ne parlerà adesso il
professor Marcello Buiatti. La sua relazione riguarda lo stato delle biotecnologie, in particolare nel
nostro Paese, la problematica dei brevetti, la pericolosità dei monopoli e quindi le implicazioni
economiche e quelle della ricerca scientifica. Il professor Marcello Buiatti è Ordinario di Genetica
all'Università di Firenze, ed è presidente di "Ambiente e Lavoro".
MARCELLO BUIATTI
Vorrei cominciare il mio intervento ringraziando la CGIL per aver organizzato questo dibattito
perché è una delle rarissime occasioni in cui davvero si ragiona su queste questioni. Lo dico molto
francamente, mi sono trovato diverse volte coinvolto, e di fatto schiacciato, fra due opposti
estremismi: fra chi ritiene che trasformare geneticamente gli organismi sia un'operazione di magia,
e chi è invece dalla parte opposta ed è convinto che, attraverso queste tecniche, sia adesso
possibile salvare il mondo.
Cercherò di fare rapidamente il punto della situazione attuale, anche perché ci sono, sia da una
parte che dall'altra, una serie d'esagerazioni. Vorrei raccontare non tanto quello che si potrà fare
forse tra vent'anni, ma quello che succede già ora, ovviamente non per quanto riguarda non l'uomo
di cui si è già parlato. Cominciamo dai batteri: possono essere utili per moltissime, sia buone che
cattive. Fra quelle buone può essere ricordata l'eliminazione di alcuni tipi di inquinamento chimico,
che forse alla CGIL interesserà, in alcune trasformazioni dei cicli produttivi, per esempio nel
tessile, nel conciaio e in altre produzioni. Esistono inoltre batteri estrattivi e batteri che fermentano
meglio, per applicazioni industriali, oltre che naturalmente i farmaceutici. Poi ci sono le armi
biologiche. Personalmente non sento mai parlare di armi biologiche realizzate con l'ingegneria
genetica, che esistono ufficialmente dagli anni Ottanta: nel 1984-85 c'è stata una forte polemica
negli Stati Uniti, dove generalmente sono più attenti di noi rispetto a queste questioni. In Italia
invece è come se non esistessero, i nostri laboratori sono coperti dal segreto militare, e io sono
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uno di quelli che addestrano gli operatori che devono difenderci dal rischio di organismi
ingegnerizzati. Al riguardo, non credo che i nostri laboratori facciano armi biologiche, ma
potrebbero benissimo averne. Questo è un uso dei batteri non molto simpatico, di cui però non si
parla mai.
Negli animali cosa si può fare ? Dico subito che negli animali si può fare ben poco, e ben poco si
sta facendo che possa entrare sul mercato. Ciò perché gli animali, come noi, sono poco tamponati
di fronte alle modificazioni genetiche. Tra gli esempi che si possono fare c'è quello del topo
transgenico in cui è stato inserito l'ormone della crescita umano oppure di ratto e che raggiunge
dimensioni notevoli. Quando questo esperimento è stato realizzato, sembrava che fosse possibile
creare un'enorme mucca o un enorme pollo e quindi gli zootecnici dimostrarono un grandissimo
interesse. In realtà questa trasformazione non funziona bene, perché questo topo ha un
metabolismo così alterato che vive al massimo due anni, mentre normalmente la vita di un topo
normale è di circa cinque anni. Il topo transgenico inoltre, sta molto male ed è praticamente sterile:
l'alterazione di un singolo gene, che però ha molta importanza nel metabolismo, può portare a
danni intermedi all'organismo, per cui esso non si riproduce e le sue condizioni sono cattive. Ad
oggi, infatti, non esistono mucche o maiali o polli che siano stati modificati e che siano in
commercio come tali. Esistono, viceversa, diverse linee cellulari modificate transgeniche, oppure
alcuni animali da laboratorio che sono stati modificati e che sono in commercio, ma non esiste
nulla in zootecnia. Quindi, chi per principio ha paura della transgenosi può stare tranquillo: il
pericolo della carne viene dalla mucca pazza, ma non viene dalla transgenosi. Noi genetisti siamo
innocenti, anche perché non riusciamo a farle, queste cose: se ci riuscissimo, non so cosa
succederebbe.
Per quanto riguarda le piante, che sono nell'occhio del ciclone, in questo momento ce n'è un lungo
elenco in sperimentazione. I caratteri che sono stati modificati nelle piante adesso in commercio o
in attesa d'autorizzazione al commercio, sono essenzialmente due: la resistenza agli erbicidi e la
resistenza agli insetti. In campo vegetale è molto più facile operare delle modificazioni genetiche.
L'abbiamo già fatto attraverso delle mutazioni indotte dalle radiazioni: moltissime varietà sono state
prodotte in questo modo, mentre gli animali non sono stati modificati perché in genere muoiono
con una dose molto inferiore di irraggiamento completo. Nonostante sia più facile con le piante,
sono comunque pochi i prodotti vegetali in commercio. Come dicevo, si tratta di prodotti per la
resistenza agli insetti che hanno effetti positivi sull'ambiente e sulla produzione perché riducono
l'uso di insetticidi, ma l'incremento produttivo e questo carattere che si stanno già perdendo: gli
insetti stanno diventando di nuovo resistenti e già in Cina, dove si coltiva molto cotone transgenico,
i benefici si stanno perdendo. L'altra modificazione cui accennavo è la resistenza agli erbicidi che
ha un effetto di diminuzione di spesa, naturalmente, perché se è resistente agli erbicidi posso
somministrarne senza dover lavorare per rimuovere le erbe infestanti. Il problema, evidentemente,
è che si tende a usare una maggiore quantità di erbicidi, caratteristica che viene poco nominata
quando si parla di rischio. Un ulteriore rischio è rappresentato dal fatto che, ad esempio, sono
pochissime le varietà di soia che sono state trasformate, non più di quattro o cinque, perché a farlo
è un'unica azienda: ciò significa che in tutto il mondo rapidamente verranno coltivate solo queste
varietà con una perdita di biodiversità. Ricordiamoci che questi effetti non sono colpa della soia in
sé ma, bensì, il derivato di una nostra scelta politica, fatta per modificare questo carattere invece
che altri. Si potrebbero infatti modificare altri caratteri, come ad esempio la resistenza al sale per le
aree desertificate, cambiamenti delle qualità organolettiche oppure miglioramenti e incrementi della
produzione. Ci sono, insomma, molti caratteri che si potrebbero modificare e che non si stanno
modificando perché danno una rendita molto rapida (il 7-8 % di reddito in più) e hanno un valore
aggiunto subito alto, immediato, ma viviamo in una situazione di monopolio su cui dopo torneremo.
Secondo i dati di Assobiotec, che è l'associazione degli industriali che produce biotecnologie, si
prevede che il mercato italiano, in capo al 2000, avrà un fatturato di 1.4 miliardi di dollari. In Italia,
per quanto riguarda i terapeutici, qualche tentativo è stato fatto. In agricoltura invece, le imprese
sono inesistenti e l'alimentare è in crescita lenta. Esiste qualche tentativo nella chimica fine e una
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buona posizione per i diagnostici, che servono per esempio a selezionare piante o animali e anche
per monitorare la biodiversità: questo mercato è abbastanza forte ed è quello che sta
maggiormente crescendo in tutto il mondo. Quaranta è il numero delle imprese che in Italia, nel
1996-1997, si definiscono biotecnologiche. Il che però non vuol dire che siano aziende che
lavorano col DNA: fanno della biotecnologia fine, anche i formaggi sono biotecnologia. Ci sono poi
88 piccole o piccolissime imprese (com'è tipico nel nostro Paese), con 4-7 dipendenti, molto
spesso agricole, che non fanno affatto ricerca e che naturalmente non la potrebbero neppure fare
perché a malapena sopravvivono. Ciò accade per la tendenza generale italiana a fare ben poca
ricerca e sviluppo, ma anche per il fatto che questa ricerca non è di per sé fonte di rendita. Si
dovrebbe poter investire sull'idea prima, dovrebbe cioè esserci venture capital, cosa che in Italia
non c'è: non ci siamo abituati, perché i nostri capitali di rischio sono pochi, mentre questo tipo di
industria va avanti soltanto col capitale di rischio, dal momento che vende una innovazione
scientifica e non un prodotto conseguente all'innovazione. Tutto ciò, inoltre, accade in una
situazione di quasi monopolio. Questo aspetto del monopolio di un piccolissimo numero di imprese
è un fatto molto importante perché sono poi queste poche imprese che scelgono quali prodotti
realizzare. È indicativa su questo la questione della soia. Inserirei a questo punto la questione
della famosa Direttiva europea sulla biobrevettabilità. Citerò un solo articolo, che non viene mai
ricordato, perché l'informazione passa tutto tranne le cose pericolose. Questo articolo dice che la
protezione attribuita da un brevetto a un materiale biologico dotato, in seguito all'invenzione, di
materiale di proprietà, si estende a tutti i materiali biologici da esso derivati mediante riproduzione
o moltiplicazione in forma identica o differenziata. Ciò significa che se io brevetto un gene e lo
metto in una pianta, per vent'anni tutte le generazioni di quella pianta sono coperte da brevetto, e
anche i prodotti di quelle piante in teoria lo sarebbero, se io potessi identificare nei prodotti quel
gene. Questa forma brevettuale è un'aberrazione rispetto ad un normale brevetto industriale
perché è molto più estesa. Diventa una spada di Damocle per i coltivatori o per chi cerca di
riselezionare: teniamo anche conto che, soprattutto in campo agrario, le riserve di geni utili per il
futuro stanno nel Sud del mondo, che non possiede queste tecnologie. Il Sud del mondo, da
questo punto di vista, siamo anche noi italiani, è bene essere chiari...
Comunemente quando si parla di biotecnologie, lo scienziato viene dipinto come affamatore del
terzo mondo: questo potrebbe anche essere vero, soltanto che non è lo scienziato cattivo che ruba
da mangiare, ma lo è chi paga lo scienziato che usa la biodiversità dei Paesi in via di sviluppo
producendo delle varietà che mai quei Paesi avrebbero potuto fare autonomamente. C'è poi un
altro fatto. Quando facciamo un'operazione d'ingegneria genetica, noi usiamo dei processi noti e
quindi brevettati, cioè usiamo dei vettori in cui s'inserisce il gene noto e quindi brevettato. Questo
vuol dire che noi non siamo padroni delle nostre scelte in campo biotecnologico. Non è
indifferente, perché se noi vogliamo sviluppare un'industria biotecnologica che sia "buona", cioè
che faccia prodotti utili per l'ambiente, per la fame nel mondo, è bene sapere che questi prodotti
con la fame nel mondo non c'entrano proprio nulla! Non ascoltate quelli che dicono "questi prodotti
risolveranno...", perché altri magari sì, ma questi non possono affatto aiutare la lotta contro la fame
nel mondo.
Se noi scegliessimo di fare una giusta politica di incentivo per la ricerca, ponendo l'Italia come un
Paese che stimola iniziative per l'ambiente, non potremmo agire se non con un grosso sostegno
pubblico, perché in questo momento c'è questa forma brevettuale approvata anche dai nostri
deputati. Ho lavorato molto sulla questione: mi sembra un aspetto molto importante perché noi non
siamo tuttora padroni di fare delle scelte positive in campo biotecnologico.
Molto sinteticamente, quali sono i problemi socioeconomici, ma anche in parte politici, delle
biotecnologie? Intanto il diritto di accesso alle innovazioni positive. C'è un articolo della
Convenzione Europea dei Brevetti che dice che non si possono brevettare oggetti che siano contro
il pensare e la morale comune, e ce n'è un altro che dice che non si possono brevettare i processi
terapeutici e chirurgici. Questo è trascritto nella Convenzione Europea dei Brevetti, ma non è
attuato. Anche la Dichiarazione dell'Unesco dice che tali processi non si possono brevettare.
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Personalmente sono per un brevetto che non sia un capestro e che sia non tanto contro il pensare
e la morale comune, che non esistono, ma che non vada contro alcuni principi e che soprattutto
permetta l'accesso ai prodotti veramente utili, cruciali per la vita. E dunque cosa fare? I Paesi in via
di sviluppo dovrebbero avere dei sistemi di accesso favorito: non voglio dire che non debbano
esistere i brevetti, ma che debba esistere un accesso favorito ai prodotti che servono per la fame
nel mondo, nonché ai processi terapeutici e chirurgici. Occorre vigilare affinché negli accordi
commerciali internazionali non si tralasci un'interessante clausola che sta anche nella Direttiva
sulla biobrevettabilità: anche gli Stati possono fare delle eccezioni, possono dire "noi non
brevettiamo questo". Qui si tratta di aprire un dibattito pubblico sulle questioni riguardanti
l'accesso. Quindi, per i batteri, per le piante, per gli animali e per gli esseri umani: facilità
nell'accesso, compatibilità con la salute, compatibilità con le politiche economiche.
La politica agricola comunitaria, come anche la nostra, è contro l'uso della chimica, è per ridurre il
suo uso perché costa troppo e perché ha un alto impatto ambientale. Il rischio è diverso da quello
dell'ingegneria genetica. L'ingegneria genetica può fare degli organismi anche "mostruosi", ma
bisogna sempre ricordarsi che un organismo mostruoso sta peggio di uno che non lo è. Il che
significa che gli organismi pericolosi sono quelli normali, non quelli mostruosi. Questo
ricordiamocelo sempre. Il pericolo non è fare un povero dinosauro, ma è il non farlo perché è
imbelle, basta un nulla per farlo scomparire.
Senza entrare troppo nei dettagli, farò alcuni esempi che dimostrano la bassa qualità
dell'informazione e del perché occorre mettere insieme la questione dei pericoli con la questione
dell'informazione. La pecora Dolly, quella che è stata clonata, non è affatto pericolosa: è
semplicemente un gemello con un altro gemello e non vi è nulla di magico in questo. Ciò non
significa che non ci siano delle remore etiche sulla clonazione dell'uomo o anche su quella degli
animali, oppure che, alla lunga, ci potrebbe essere un pericolo di perdita di diversità genetica.
Tuttavia, Dolly non è pericolosa. Quindi l'orrore per Dolly è un orrore che ha dietro alcune nostre
irrazionalità: anche a me fa impressione uno che ha la mia stessa faccia, però non è pericoloso, e
tra l'altro non è identico a me, com'è ovvio. Io ricordo sempre che il clone di Einstein sarebbe un
cretino, perché tutti penserebbero che lui debba necessariamente diventare come Einstein:
immaginate quali scompensi avrebbe se venisse fatto nascere, un disastro!
Vorrei citare un altro piccolo caso: il gene per l'omosessualità. Vi siete mai chiesti come possa
esistere un gene per l'omosessualità, visto che generalmente gli omosessuali non fanno figlioli?
Anche se il gene è recessivo, durerebbe per una generazione. In genetica sappiamo che i geni si
affermano quando danno all'organismo che li possiede una fitness alta. Fitness alta vuol dire fare
molti figli e quindi distribuire i propri geni a una progenie numerosa. Secondo questi principi, il
gene dell'omosessualità dovrebbe essere scomparso o comunque dovrebbe essere in percentuale
molto inferiore al numero degli omosessuali. E se preferiamo parlare in termini di penetranza è
bene cominciare a ragionare in questa maniera: su queste basi siamo tutti omosessuali, alcuni con
penetranza bassa, altri con penetranza più alta.
Tornando al discorso relativo all'agricoltura, cito il sistema "Terminator", che è un sistema genetico
che Monsanto e altre imprese stanno introducendo nelle loro sementi migliorate perché una volta
seminate queste piante, i semi che vengono prodotti non possono dare altre piante, per cui i semi
devono essere ricomprati da Monsanto. Questo non sarebbe nulla, un semplice espediente della
libera concorrenza. Il fatto però è che si tratta di un sistema genetico letale che può fuoriuscire
dalla pianta transgenica e andare a distribuirsi su altre piante, creando un problema ambientale
non secondario.
Il gene del pesce artico è un gene che conferisce resistenza al freddo: sono state prodotte delle
meravigliose fragole in Finlandia che crescono sotto la neve. I finlandesi sono ovviamente tutti
contenti, ma lo sono meno i marocchini che vivevano producendo e vendendo fragole ai finlandesi.
Un problema analogo lo abbiamo anche noi con l'olio d'oliva, perché è stato messo a punto un
modo per far produrre alle piante acidi grassi insaturi: una caratteristica nutritiva tipica dell'olio
d'oliva. Attualmente si può produrre la colza transgenica con questa peculiarità. Per noi non è
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molto grave perché l'olio di colza è cattivo, mentre l'olio di oliva, almeno a noi, piace. Ma, certo,
costa meno produrre l'olio di colza.
Un ultimo esempio riguarda la famosa soia. Quale è il problema della soia transgenica? Questo
tipo di soia possiede un gene con una proteina leggermente modificata rispetto alla soia normale.
Si tratta di un gene che normalmente è il bersaglio dell'erbicida. La soia modificata non è
suscettibile all'erbicida. L'olio di soia e le lecitine non contengono questa proteina perché non sono
prodotte da quel gene, sono prodotte da altri geni che non abbiamo modificato e quindi non
sussiste pericolo. Dietro a questo gene però ce n'è un altro per la resistenza agli antibiotici. Questo
in teoria un certo pericolo potrebbe procurarlo, perché i batteri presenti nel nostro intestino
potrebbero diventare altrettanto resistenti. La battaglia che stiamo conducendo è proprio quella di
proibire l'uso di questo marcatore: si potrebbe utilizzare un altro marcatore meno rischioso, come il
gene per la fluorescenza, invece che continuare a usare il gene per la resistenza agli antibiotici.
Volevo concludere con due brevissime cose. C'è un significato politico nell'immaginario, e non
nell'ingegneria genetica: il presentare tutto come dovuto ai geni e tutto come modificabile
semplicemente modificando i geni stessi. Questo implica per noi esseri umani come prima cosa di
non essere colpevoli di nulla: se io ammazzo qualcuno, e ciò è scritto nei miei geni, non è colpa
mia. Come seconda ricaduta ciò implica che intanto la CGIL dovrebbe chiudere perché se non
modifichiamo le cose modificando i nostri geni allora siamo autorizzati a non modificare nulla...
Stiamo attenti che in un'epoca come la nostra, in cui la competizione individuale è assunta come
valore fondamentale e l'azione collettiva è in genere disdegnata, credo che tale questione debba
essere ogni tanto messa in luce: i geni sono sì quelli che determinano il fascio di possibilità che un
individuo possiede, ma noi siamo animali sociali e abbiamo delle altre cose che non stanno scritte
nei geni, perché il nostro cervello contiene alcuni miliardi in più di informazioni del nostro DNA.
Quindi ciò che si trova nel nostro cervello è molto più libero e variabile di ciò che sta nel nostro
DNA, il quale comunque pone le basi perché il cervello ci sia e sia così potente.
Infine due proposte. Gli incentivi producono uno sviluppo controllato delle biotecnologie. Credo sia
inutile impedire le biotecnologie perché stiamo mangiando pomodori transgenici, che non fanno
male e che vengono dalla Romania perché non abbiamo un sistema di controllo alle frontiere né
abbiamo norme. L'unico modo per fare qualcosa di utile è che gli organismi di controllo funzionino
meglio di come funzionano ora, perché sono debolissimi, e inoltre che si creino di nicchie di
mercato per chi non vuole mangiare prodotti transgenici attraverso un'etichettatura più trasparente,
che si realizzino degli incentivi perché si sviluppi un'industria biotecnologica che abbia
caratteristiche nuove, che si organizzino delle campagne informative sui rischi reali. Ho ben
presente la situazione della scuola media e dei nostri licei: il livello di conoscenza sulle
biotecnologie è estremamente basso, vengono considerate quasi magia... Credo che l'Italia sia
uno dei Paesi più indietro da questo punto di vista, e il seguente mi pare che sia un buon esempio
di non divulgazione.
In definitiva, le proposte possibili sono: informazione e leggi di tutela dei lavoratori che sono azioni
specifiche del Garante della privacy ma non soltanto sue; recepimento della direttiva, con alcune
modificazioni che sono facilmente scrivibili (etichettatura ed incentivi alla creazione di nicchie di
mercato, regole sull'accesso ai prodotti biotecnologici essenziali per la salute come i farmaci).
Concludo con una notizia: nel febbraio 1999 verrà presentata e messa in commercio una
macchinetta in grado di sequenziare 980 milioni di basi del DNA al giorno. Il che significa che con
dieci di queste macchine avremmo presto portato a compimento, almeno in teoria, il Progetto
Genoma. Anche per le piante esistono dei progetti genoma. Una pianta modello è in via di
sequenziamento da diversi anni, mentre la multinazionale Monsanto l'ha già sequenziata tutta:
purtroppo noi genetisti non abbiamo accesso a queste informazioni, perché si patentano.
Questo è un altro sasso che lancio, perché è una questione abbastanza importante per un Paese
come il nostro che non ha un'industria di biotecnologia capace di reggere il confronto
CINZIA CAPORALE
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Grazie al professor Marcello Buiatti. Dunque, il problema non sembra tanto "se" fare biotecnologie
ma piuttosto "come" fare biotecnologie. A parte le fragole che resistono al freddo, si potrebbero
costruire piante che, ad esempio, resistono alla siccità. Per i paesi del terzo mondo ciò
costituirebbe
davvero
un
momento
potenziale
di
sviluppo
straordinario.
Proprio del terzo mondo parliamo con il prossimo relatore che è Pietro Greco, giornalista
scientifico, vicedirettore del Master in Comunicazione della Scienza di Trieste. Abbiamo ascoltato
altri relatori parlare di discriminazioni a livello individuale ed a livello di gruppo, sentiremo adesso
parlare di eventuali discriminazioni a livello di Stati e forse anche di interi continenti.
PIETRO GRECO
Innanzitutto grazie per avermi chiamato anche se io non sono portatore di una particolare
esperienza, di una particolare expertise: io sono un testimone delle cose che avvengono anche in
questo settore come in molti altri ambiti della scienza, e vi porto la mia testimonianza avendo
partecipato a dei momenti di intenso dibattito su questi argomenti.Le cose di cui parlerò, molte
delle quali ha già fatto riferimento Marcello Buiatti, sono il rapporto tra le nuove biotecnologie e lo
sviluppo del terzo mondo. Ora, dico nuove biotecnologie perché ovviamente l'uomo con le
biotecnologie almeno dal neolitico, ha a che fare (lo sviluppo umano si fonda sulle biotecnologie,
almeno da quel periodo), sono nuove biotecnologie perché ci riferiamo in questo momento a
queste nuove biotecnologie perché queste biotecnologie fanno riferimento a nuovi approcci, per
esempio a quelle basate sulle tecniche del DNA ricombinante di cui si è già parlato.Ora, le nuove
biotecnologie, anche in rapporto alle tematiche relative al terzo mondo, a mio avviso, almeno di
questo sono portatore di testimonianza, rappresentano sia delle opportunità, però, insomma ci
sono anche dei rischi. Prima di passare rapidamente a verificare quali sono presumibilmente le
opportunità e quali sono presumibilmente i rischi, io volevo fare un discorso preliminare, anche se
abbastanza breve, e fare una distinzione almeno in prima battuta astratta tra quella che è la
scienza, ovvero l'acquisizione di conoscenze scientifiche che, a mio avviso, almeno in prima
battuta rappresenta sempre l'apertura di nuove opportunità, e quelle che sono le tecnologie anche
in ambito biologico, ovvero la concreta applicazione di queste conoscenze.Ovviamente,
l'applicazione delle conoscenze scientifiche non appartengono allo scienziato ma, a mio avviso,
appartengono di più alla società nel suo complesso, comportano responsabilità economiche e
politiche, come giustamente diceva Marcello Buiatti, anche militari perché molte tecnologie sono
utilizzate dai militari e molte biotecnologie sono utilizzate dai militari.Ora, mentre la scienza
possiamo dire, almeno in prima battuta, offre sempre delle opportunità non so se comporta dei
rischi, certamente l'applicazione delle conoscenze scientifiche comporta sia dei rischi che delle
opportunità. Questo discorso non è particolarmente nuovo e può essere anche abbastanza ozioso,
se non fosse per il fatto che le biotecnologie si caratterizzano per avere una natura abbastanza
ambigua in cui non è semplice, certo è possibile abbastanza ma non è semplice separare ciò che
è la conoscenza, la scienza pura dall'innovazione tecnologica.Noi cercheremo di soffermarci
soprattutto sulla innovazione tecnologica, sull'aspetto quindi strettamente biotecnologico e questo,
come dicevo, offre sia opportunità che rischi. Bene, le opportunità che offre - così almeno come io
ne sono venuto a conoscenza frequentando sia gli ambienti scientifici ma anche gli ambienti
politici, gli ambienti economici e i gruppi ambientalisti che, ciascuno con il suo portato, hanno
affrontato il problema - a mio avviso sostanzialmente sono due: la prima opportunità attiene allo
sviluppo delle cosiddette biotecnologie rosse, cioè le biotecnologie che comportano lo sviluppo di
nuovi farmaci e di nuove terapie, oltre che di farmaci e terapie prodotti in modo più economico e
sicuro.Questo, ovviamente, riguarda anche il terzo mondo. In realtà per il terzo mondo potremmo
aggiungere che c'è un ulteriore elemento, cioè lo sviluppo di processi che consentono una
produzione più sicura e più economica soprattutto di farmaci che in occidente hanno eradicato
alcuni tipi di malattie mentre nel terzo mondo, proprio per la loro scarsa economicità, non l'hanno
fatto.Vi sono altre opportunità relative alle biotecnologie verdi, e queste opportunità sono
essenzialmente una maggiore produttività, associata con le piante, soprattutto, ma probabilmente
in futuro anche con animali, quindi una maggiore produttività, il che significa più cibo ma significa
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anche maggiore competitività; un minore impatto ambientale, almeno questo è quello che si evoca,
cioè una minore pressione sull'ambiente ma anche più nello specifico si dice che molte delle
biotecnologie di tipo verde, di tipo agroalimentare comporteranno una riduzione della presenza
chimica nei campi - la cosa è controversa, come vedremo, e infine c'è una difesa della biodiversità,
anche questo è un aspetto altamente controverso perché i fautori delle opportunità delle
biotecnologie verdi sostengono che la difesa della biodiversità può essere biotecnologia, può
avvenire sia attraverso la produzione di nuove specie, sia attraverso la difesa e la conservazione
delle specie già esistenti, quindi una difesa più puntuale, migliore.Io volevo leggere quella che è
un'aspettativa autorevole. La FAO, per esempio, sostiene che "la tecnologia del DNA
ricombinante" quindi una parte notevole delle biotecnologie, "può avere maggiore importanza per i
paesi in via di sviluppo piuttosto che per quelli industrializzati, ha il potenziale per un impatto molto
positivo sulle loro economie che sono basate sull'agricoltura, può rappresentare un mezzo per
produrre sufficienti quantità di cibo sicuro e nutrizionalmente elevato per la loro popolazione
sempre crescente. I benefici con ogni probabilità", sostengono ancora alla FAO, "raggiungeranno
direttamente le persone a livello della produzione, perché si tratta di una tecnologia estremamente
facile da trasferire essendo impacchettata in un seme.".Quindi per la FAO ci sarà probabilmente,
grazie a queste tecnologie, una maggiore quantità di cibo, quindi una maggiore produttività nei
paesi del terzo mondo, ma anche una maggiore capacità competitiva dei produttori nel terzo
mondo.
Ovviamente, dico ovviamente perché probabilmente tutti voi lo saprete, queste tesi sono molto
controverse sia in ambito economico che in ambito ambientale, per cui mi soffermerò un attimo di
più sugli eventuali rischi che lo sviluppo delle biotecnologie comportano quando le rapportiamo allo
sviluppo del terzo mondo. Io ne ho individuati almeno quattro: uno che ho definito, rubando la
parola a un tecnico della FAO, bio-pirateria, vedremo fra un attimo in che cosa consiste; l'altro è il
rischio connesso allo sviluppo di nuovi e più potenti monopoli, e tutto questo va sotto il nome di
neocolonialismo o biocolonialismo; poi c'è un altro rischio connesso ad un'ulteriore erosione della
biodiversità, vedremo cosa significa tra poco; e infine c'è un quarto rischio che forse è il meno noto
ma è connesso alla - Buiatti ne faceva riferimento prima - produzione di organismi modificati e al
rilascio nell'ambiente di questi organismi geneticamente modificati nei paesi in via di sviluppo, nei
paesi del terzo mondo.In cosa consiste il rischio di bio-pirateria? Allora, molto schematicamente,
nel terzo mondo è concentrato il 75% della biodiversità del pianeta. Per essere piuttosto tranchant,
significa che nel terzo mondo c'è il 75% delle specie viventi conosciute e probabilmente anche di
quelle sconosciute. Ora, ci sono al mondo attualmente circa cento istituti scientifici a carattere
pubblico e settanta aziende private, sono essenzialmente istituti e aziende del primo mondo,
impegnate in attività di bioprospecting cioè di ricerca delle risorse genetiche nel terzo mondo.Io
faccio il nome di qualcuna di queste aziende, per esempio la (Merc ?) che è una grande azienda,
nel '91 ha raggiunto e ha firmato una convenzione, un contratto con uno stato, il Costarica, in base
alla quale ha ceduto allo stato tre miliardi di lire da investire nella conservazione delle risorse
genetiche della biodiversità del Costarica, che è particolarmente ricca, e in cambio ha ottenuto il
diritto a studiare, isolare e brevettare sequenze di DNA animali, piante e microrganismi locali. In
altri termini, se individua dei geni interessanti, li può isolare, li può brevettare e ne può
commercializzare i prodotti ottenendo delle royalties che, lo dico francamente, a me pare se
riuscirà a commercializzare almeno uno di questi geni, certamente il suo guadagno sarà superiore
ai tre miliardi conferiti allo stato del Costarica. Ecco il rischio del neocolonialismo.Altro esempio.
Un'altra grande azienda ottiene un miliardo di dollari l'anno commercializzando due farmaci
ottenuti da una pianta del Madagascar, utilizzando un gene contenuto in una pianta del
Madagascar. Il Madagascar da tutto questo non ha ottenuto una lira.
Infine ci sono anche dei problemi connessi alla conoscenza scientifica. Un altro dei nostri genetisti
molto famosi, Luigi Luca Cavalli Sforza, dirige un gruppo di ricerca per un'importantissima ricerca
in campo genetico a livello mondiale e si è scontrato con i primi movimenti di resistenza nel terzo
mondo, i quali hanno sollevato il problema della proprietà del proprio patrimonio genetico, e quindi
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in questo modo, quando ci si pone di fronte a questi problemi, talvolta anche la scienza può avere
dei rapporti, lo sviluppo delle conoscenze può avere dei problemi.Allora, per venire a una
brevissima conclusione rispetto a questo problema della bio-pirateria, occorrerebbe che noi a
livello globale, a livello mondiale e a livello di Nazioni Unite nelle varie sedi che già sono operative,
regolare questa bioprospecting questa capacità degli istituti di ricerca e delle grandi aziende di
cercare le risorse genetiche perché non si trasformi in bio-pirateria.Un secondo rischio connesso
strettamente a questo è quello dell'insorgenza di nuovi monopoli. Lo accennava già Buiatti,
sostanzialmente il know-how rispetto a queste biotecnologie è posseduto e probabilmente sarà
sempre più posseduto da poche grandi aziende multinazionali, questo è il timore, non è detto che
si avveri ma questo è il timore, e allora questo creerà un nuovo tipo di monopolio, un monopolio
che i paesi del terzo mondo in questo ambito, nell'ambito agroalimentare e quindi nei commerci
internazionali, hanno già sperimentato nell'ambito della cosiddetta rivoluzione verde che fu portata
avanti negli anni '50 e '60 che ha prodotto aumento di produzione ma, appunto, ha determinato
anche una maggiore dipendenza dalle grandi aziende multinazionali.
Infine vorrei ricordare che esistono problemi connessi all'erosione della biodiversità, cioè utilizzare
le "super-piante" nel terzo mondo potrebbe produrre l'abbandono da parte delle popolazioni che
praticano agricoltura in quel paese di una varietà di specie che è ancora abbastanza vasta e il
concentrarsi su pochissime specie. Io, per esempio, voglio dirvi, almeno queste sono cifre che ho
colto, che praticamente 10.000 anni fa il pianeta era popolato da circa 5 milioni di esseri umani che
utilizzavano per alimentarsi circa 5.000 diverse piante. Oggi ci sono sei miliardi di individui, quindi
c'è un aumento di un fattore tre, di mille volte è aumentata la popolazione, mentre il numero delle
piante utilizzate si è ridotto a 150. Ancora, più nello specifico, il 75% della nostra alimentazione
dipende da sole 9 piante e il 50% da sole 3 piante.Ecco, tutto questo se non controllato, se non
regolato può portare a delle crisi tipo quella che è avvenuta in Irlanda quando l'intera isola
coltivava, alla metà dell'ottocento, un solo tipo di patata, una sola malattia sterminò tutta
l'agricoltura irlandese determinando notevoli morti, il dimezzamento della popolazione sia per
morte che per emigrazione da quel paese.Infine c'è un quarto tipo di rischio connesso allo sviluppo
dell'ingegneria genetica nei paesi del terzo mondo. I rischi sono duplici: c'è la presenza di istituti e
aziende del nord che, in virtù di minori controlli e magari di minor spesa per il personale, investono
nel terzo mondo sfruttando la mancanza di controlli, mentre qui in occidente i controlli sono già
abbastanza selettivi, non tutti sono d'accordo che siano al 100% sicuri ma certamente sono molto,
molto più impegnativi. Quindi ci potrebbe essere, o forse qualcuno dice che è già in atto, uno shift
di aziende che si spostano nel terzo mondo per produrre materiali ingegnerizzati con minori
controlli.Poi c'è lo sviluppo autoctono, anche questo di aziende del terzo mondo che operano nel
terzo mondo che producono, manipolano e diffondono nell'ambiente organismi geneticamente
modificati e la presenza di un minore controllo questo comporta rischi per tutti, Buiatti già faceva
degli esempi, e uno dei casi più grossi è certamente quello della Cina: la Cina ha uno sviluppo
notevole di biotecnologie, ma l'affidabilità del sistema dei controlli non sembra essere almeno
quella di tipo occidentale. Tra l'altro, si è discusso molto negli ultimi tempi su dei progetti di
eugenetica che ci sono in Cina, e quindi anche lì occorrerebbe che in una sede adeguata a livello
globale, tutti questi temi venissero discussi e si addivenisse a delle forme di controllo che
impegnano il nord e il sud nello stesso tempo.Ovviamente, lo sviluppo dell'ingegneria genetica,
della biotecnologia nel terzo mondo non rappresenta solo rischi ma comporta anche delle
opportunità perché la scienza e la tecnologia connessa con l'ingegneria genetica non è molto
onerosa, molti sostengono che è a portata di organizzazione e di risorse finanziarie da parte dei
paesi del terzo mondo e quindi merita di essere sviluppata e offre, tra l'altro, potenzialità
straordinarie. Pensiamo, per esempio, ad una ricerca condotta sul caso della malaria, una malattia
che è stata sostanzialmente eradicata dal primo mondo e poi dimenticata, e ci siamo dimenticati
che invece nel terzo mondo questa malattia fa registrare circa due milioni di morti all'anno, alcune
decine di milioni di contagiati ogni anno e lo sviluppo di un vaccino, da parte delle grandi
compagnie farmaceutiche, non è rilevante.
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CINZIA CAPORALE
Grazie a Pietro Greco. La prossima relazione si intitola "Genetica: nuovi diritti, nuove
discriminazioni". Titolo che forse è il filo conduttore del convegno-dibattito di questo pomeriggio.
Parlerà delle implicazioni culturali della conoscenza genetica il professor Giovanni Berlinguer, che
è Ordinario di Igiene del Lavoro presso l'Università di Roma ed è direttore del Corso di
perfezionamento in Bioetica sempre presso la medesima università, forse la migliore scuola di
bioetica di questo paese.
GIOVANNI BERLINGUER
Apprezzo molto, innanzitutto come iscritto, questa iniziativa della CGIL e il lavoro che hanno fatto
Luigi Agostini, Cinzia Caporale e Maria Gigliola Toniollo per organizzarlo.
Il Progetto Genoma è innanzitutto una grande impresa scientifica e il tentativo, svolto con
successo, della scoperta del continente interno dell'uomo, analogamente a quanto accadde per la
scoperta dell'America. Mi permetto di ricordare che nel poemetto di Pascarella dedicato a questo
evento, si racconta che Cristoforo Colombo va dal re di Spagna e gli dice: "Io avrebbe l'intenzione,
si lei m'aiuta, de scoprì l'America", e il re gli dice: "Ma 'sta America che c'è, ne siete certo?". E per
assicurarsi che ci fosse, o almeno che ci fosse una probabilità di scoprirla, manda Cristoforo
Colombo a confronto con i dotti di Salamanca che lo torchiano. Pascarella così racconta l'incontro:
"Lui parlava ma manco lo sentiveno, e più lui s'ammazzava pe' scoprilla, più quell'antri gliela
ricopriveno". Io credo che noi dobbiamo soprattutto evitare questo atteggiamento: essere coloro
che "gliela ricopriveno".
Il fatto che quella scoperta fu anche un genocidio, forse uno dei peggiori genocidi della storia, nulla
toglie al suo valore, e che fosse un genocidio, che ci fosse qualcosa di storto, lo capì perfino il
primo interlocutore di Cristoforo Colombo, quello al quale Colombo si rivolse dicendogli: " E tu chi
sei?". Lui rispose in due maniere: una è notissima: " E chi ho da esse'? So' un servaggio". L'altra è
meno nota: " E a te chi te ce manna?", perché capì immediatamente che quello cercava qualcosa:
l'oro a tutti i costi.
Così il fatto che la genetica possa servire eventualmente a clonare esseri umani o a mettere in
commercio sequenze del DNA umano, non nega il suo alto valore conoscitivo e pratico. Non credo
che ci sia sempre bisogno di giustificare questa ricerca con motivazioni pratiche come la cura e
come la prevenzione, anche perché, come ha ribadito il professor Dulbecco, le motivazioni relative
alla cura, anche se per molti casi è probabile che verrà ottenuto un risultato concreto, sono quasi
tutte da venire, e le giustificazioni della prevenzione in alcuni casi sono abusate.
Vorrei citare due esempi. Si dice che la diagnosi prenatale, utilissima anche se se ne fa abuso,
tende a curare qualcosa. In verità è vero che statisticamente previene gli aborti mentre non è vero
che incita all'abortire perché, ad esempio, in Sardegna gli aborti erano molto più frequenti prima
dell'introduzione di queste tecniche. Infatti, in qualunque caso di gravidanza con due genitori affetti
da talassemia minor, cioè recessivi, quasi sempre la donna decideva di abortire, mentre adesso si
abortisce al massimo in un caso su quattro. Tuttavia, questa può essere considerata una forma di
prevenzione? Prevenzione di che? Da un punto di vista pratico, e anche morale, previene non la
malattia ma la nascita, cioè provoca l'interruzione di un processo vitale. Io non voglio
colpevolizzare chi lo fa, ma questo è il fatto. Anche sulla prevenzione dei tumori vorrei dire che nel
progetto dell'OMS, "Developing and global strategies for cancer", preparato da Carlo Sicora,
responsabile del programma sul controllo dei tumori, si dice che in futuro la prevenzione sarà
consentita dall'emergere della disciplina dell'epidemiologia molecolare e che i programmi di
prevenzione del cancro, almeno nei Paesi sviluppati, saranno completamente individualizzati: una
combinazione di genetica, ambiente e stili di vita i cui dati verranno utilizzati per costruire messaggi
personalizzati molto specifici. Il che in parte è vero, è utile ed è giusto. Però, qual è il presente e
anche il futuro della prevenzione del cancro almeno per il ventunesimo secolo? Sta nel fatto che il
fumo di tabacco diminuisce dello 0,5% nei Paesi sviluppati e aumenta contemporaneamente del
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2,5% nei Paesi poveri e quindi la tendenza dei tumori, su scala internazionale, sarà quella di un
aumento. Quali sono i motivi di questo aumento? Il documento stesso dice che la responsabilità è
nella politica del tabacco che è una ragnatela cospirativa di industriali, agricoltori, produttori, politici
e imprese assicurative che guardano ai propri interessi. Ma quando si passa a discutere su come
rimuovere questa ragnatela, il documento dell'OMS dice: "Certo, i governi sono naturalmente cauti,
le democrazie sono soggette a intense lobbies e le soluzioni sono complesse, etc". E quindi non si
va avanti. L'enfatizzazione dei risultati pratici delle conoscenze genetiche delle biotecnologie non è
necessaria: i risultati sono già rilevantissimi, ne abbiamo avuto molti esempi nel campo dei vaccini,
dei farmaci, degli ormoni, delle produzioni agricole eccetera, e l'enfatizzazione non crea altro che
illusioni.
Al riguardo, farò solo pochissimi esempi, ma chiunque legge i quotidiani ne può fare almeno
altrettanti. Nel giro di poche ore e di pochi giorni, questi erano i titoli di alcuni giornali: "La scienza
prepara nascituri senza difetti" dal Secolo XIX di Genova; "Manipolazione genetica: tutti arzilli
centenari" dal Corriere Mercantile; "Il gene predice il cancro al seno" dal Corriere della Sera
Salute, mentre in realtà può stabilire una predisposizione soltanto ad alcuni tipi di cancro al seno;
"Ecco il gene della longevità", da La Repubblica. Ora, qualcuno potrebbe sostenere che "è colpa
dei giornalisti". Ma chi ha dato loro queste informazioni? Qualcuno deve evidentemente averle
fornite e i casi sono due: o chi ha dato queste informazioni non si è preoccupato minimamente di
un'eventuale propensione della stampa ad enfatizzare; oppure le ha date già enfatizzate perché
l'informazione al pubblico fa parte del gioco, della creazione di un'opinione favorevole al
finanziamento dei progetti di ricerca scientifica.
Quel che io considero altrettanto e forse anche più grave, è che questo tipo di impostazione, che
non apparitene alla genetica in sé, diffonde un'immagine dell'uomo e della donna come individui
geneticamente "predeterminati" il che è assolutamente diverso dal dire "predisposti". Giustissima è
la distinzione che ha fatto il professor Dulbecco ma, in generale, si dice o si capisce
"geneticamente predeterminati", forse anche per una naturale tendenza alla semplificazione che
abbiamo tutti. Che significa geneticamente predeterminati? Significa non capaci di decidere il
proprio destino, e questo comporta, e non è poco, la fine della libertà e della morale umana,
perché chi non è capace di decidere il proprio destino, non può distinguere tra ciò che è bene e ciò
che è male.
Vorrei fare a questo punto una considerazione più generale. Negli ultimi vent'anni, insieme a una
grande espansione oggettiva determinata dal progresso delle scienze, delle tecniche, delle
conquiste sociali e politiche, insieme all'espansione notevole delle libere scelte possibili (basti
pensare all'informazione e alla comunicazione, alla sessualità e alla generazione, alle protesi e alle
terapie, alla possibilità di consumare in modi diversi), noi abbiamo vissuto due successive e
talvolta contemporanee ondate deterministiche-riduzionistiche. Non sempre il riduzionismo in
quanto tale è un male, perché nel campo delle scienze molto spesso proprio il concepire fenomeni
isolati e il sottolineare quanto essi fossero importanti, è stato un elemento di stimolo alla
conoscenza. Ma se il riduzionismo si trasferisce sul piano generale, diventa negativo. Abbiamo
vissuto un'ondata deterministica dell'economicismo, anzi del fondamentalismo monetario che, a
quanto io so, è l'unica religione che sia diventata universale nel giro di pochi anni, con i suoi
dogmi, con il suo latino quando è penetrata nel linguaggio, con le sue cattedrali e cioè i
supermercati, che sono un po' meno belli delle cattedrali classiche o barocche ma che comunque
incombono sulle nostre città.
L'altra ondata che abbiamo subìto è quella del biologismo. La prima ondata si è affievolita, anche
perché contemporaneamente si proclamava la fine della politica, che invece presto è tornata a
riprendere il suo ruolo, soprattutto in Europa, con i cambiamenti che ci sono stati negli ultimi anni.
La seconda però non si è ancora esaurita, anche perché molti oppositori confondono gli abusi,
culturali o applicativi, con la scienza e i suoi vantaggi conoscitivi e i suoi benefici che sono indubbi
e che vanno valorizzati come una conquista di tutti e per tutti. Gli abusi, tuttavia, esistono, e tra
questi vi sono le possibili discriminazioni a cui hanno fatto cenno gli articoli scritti oggi da Cinzia
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Caporale e da Maria Gigliola Toniollo. Si tratta di abusi nell'assistenza, che non diventa più
conveniente per i soggetti che sono predisposti a malattie gravi o che hanno una speranza di vita
minore. Cosa accade poi nel campo del lavoro? Di discriminazioni nel lavoro ne abbiamo
conosciute molte, di natura politica, sindacale, e non fanno parte solo del passato: a Taranto è
stata denunziata l'esistenza di un reparto di confino che è esattamente come il reparto di confino
che c'era alla Fiat negli anni '50 e '60. Abbiamo conosciuto anche discriminazioni basate sulla
predisposizione. Ricordo che per circa vent'anni dopo la Liberazione, prevalse nella teoria
infortunistica il fatto che l'80% degli infortuni fossero dovuti al cosiddetto fattore umano e in
particolare all'accident prones, propensione individuale all'incidente. Venivano effettuati test di
assunzione psicologici per individuare quelli che fossero propensi a subire un incidente.
Successivamente, a partire dalla fine degli anni '60, ci furono le lotte per la sicurezza del lavoro e,
senza che cambiasse la platea o la predisposizione di coloro che avevano una particolare
vocazione personale a cercarsi l'incidente, i morti sul lavoro sono diminuiti nel giro di vent'anni da
4.000 all'anno a circa 1.000 all'anno: sono ancora troppi, ma la riduzione di numero significa che
con altri metodi si può prevenire l'infortunistica.
La differenza tra le discriminazioni attuali e le ultime che ho citato, consiste nel fatto che oggi
queste presunte predisposizioni hanno una qualche veste scientifica reale perché forse qualcuno
propenso individualmente all'infortunio esisteva o esiste, non lo escludo. Queste predisposizioni,
come ha più volte sottolineato Rodotà, sono irreversibili, non modificabili. Rodotà ha scritto che
uno può cambiare partito se viene discriminato in base alle sue idee politiche, può cambiare
sindacato, può cambiare religione, ma non può cambiare la sua costituzione genetica, almeno per
ora.
Il danno, però, è per tutti, e non solo per coloro che sono esclusi. Innanzitutto perché si viene
esclusi col pretesto di essere protetti, poi perché quasi sempre si piomba nella disoccupazione e,
come si sa, il non lavoro è la principale malattia lavorativa attuale, anche perché l'allontanamento è
quasi sempre sostitutivo della riduzione dei contaminanti ambientali o dell'organizzazione del
lavoro insalubre. La verità è che questi contaminanti sono sì nocivi per chi è suscettibile ma, sia
pure in misura minore, sono nocivi proprio per tutti: se si ha un danno 10 per una persona,
eliminando questa persona si mantiene un danno 1 per 1000 persone, il che non cambia il prodotto
totale del danno.
Come implicazione specifica di queste possibili discriminazioni, non è sufficiente, anche se è
necessario, vietarle con norme applicate e applicabili, ma soprattutto bisogna far sì che il lavoro sia
sano e sicuro per tutti. Mi auguro, e so, che su questo problema ci sia la spinta a un maggior
impegno da parte delle organizzazioni sindacali, del governo e di tutte le istituzioni. Bisogna inoltre
far sì che anche l'assistenza sanitaria e altre forme di tutela assicurativa siano accessibili a tutti, in
base al principio dell'universalità che è l'unico che possa escludere questo tipo di discriminazione,
evitando che nei sistemi di cura e di prevenzione sia importato il peggio, cioè il profitto, anziché il
meglio, cioè la qualità.
In generale, cosa significa la "cittadinanza"? Non significa soltanto regole e divieti, ma significa in
senso positivo appropriazione individuale e sociale di questi contenuti, appropriazione in senso
culturale (e qui possono avere un ruolo importante le organizzazioni sociali, la politica,
l'accademia, che svolgano il loro dovere di informare) e, nel senso letterale della parola,
"appropriazione" come rivendicazione della proprietà dei dati e della stessa materia biologica
costituente l'individuo e, per quanto concerne i suoi riflessi, anche delle altre specie viventi.
Vorrei aggiungere soltanto una considerazione, che mi è stata stimolata da quel che ha detto
Marcello Buiatti e che riguarda la palese incongruenza e anzi distorsione profonda di uno degli
articoli della direttiva europea sui brevetti, relativamente alla brevettabilità delle sequenze del
genoma umano. Per sfuggire alla Convenzione Bioetica europea -approvata dal Consiglio
d'Europa e quindi da tutti gli Stati dell'Est, dell'Ovest, del Nord e del Sud-, che vieta la
mercificazione del corpo umano, si è introdotta una norma che permette la brevettabilità di
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elementi isolati dal corpo umano, per esempio le sequenze del DNA, quando siano il risultato di
procedimenti tecnici che hanno identificato, purificato, caratterizzato questo elemento. Io non sono
un genetista, ma ho l'impressione che per identificare una sequenza del DNA qualche
procedimento tecnico sia necessario, come per identificare i microbi è stato necessario coltivarli,
colorarli, sottoporli al microscopio. Non si può cioè trovare una sequenza e dire: "me ne
approprio!". Mi sembra che il procedimento sia un po' più complesso e che quindi questa
formulazione ipocrita praticamente vanifichi del tutto quanto ha detto e ha voluto sostenere il
Consiglio d'Europa. So che esiste un ricorso su questo punto dell'Olanda: mi auguro che il ricorso
sia accolto perché il fatto di travalicare quelle che sono delle norme etiche che dovrebbero avere
validità universale non facilita certo la popolarità della genetica o degli stessi brevetti, che pure
sono necessari.
CINZIA CAPORALE
Grazie a Giovanni Berlinguer. Siamo all'ultimo intervento. Abbiamo sentito parlare di pericoli reali,
di rischi, di opportunità ma anche di pericoli immaginari: Dolly evocata come pericolo
pericolosissimo cosa che viceversa non è. Dunque chiediamo all'ultimo dei relatori, che è il
professor Marino Niola, antropologo dell'Università di Trieste, di intervenire riguardo alle ricadute
che gli avanzamenti della scienza producono nelle rappresentazioni individuali e collettive.
Insomma, tra natura e cultura, nel pieno della rivoluzione genetica, l'Uomo dov'è?
Il titolo della sua relazione è "I confini del corpo".
MARINO NIOLA
Vorrei lavorare soprattutto sulle metafore dell'analfabetismo mediatico o dell'oscurantismo diffuso.
Qual è lo scarto e che cosa c'è dietro questo scarto tra i progressi, le rivoluzioni della scienza e il
senso comune, il modo in cui noi percepiamo tutto questo? Il professor Dulbecco proprio all'inizio
della sua relazione ha usato un termine che secondo me è emblematico, "campo pericoloso", e si
è subito riferito ad una statistica. Da questa statistica risultava lampante lo scarto fortissimo tra la
reale conoscenza del fenomeno e l'imponenza del giudizio di valore sul fenomeno stesso:
immediatamente le categorie evocate erano "bene" o "male". Del fenomeno, cioè, c'è percezione
immediata, codificato in termini di bene e male. Ciò vuol dire che ci troviamo di fronte a fenomeni
che assumono, nell'immaginario e nel sentire collettivo, una portata mitica immediata. Quindi si
tratta di categorie mitologiche che vanno anche affrontate con gli strumenti che l'antropologia ha
elaborato per studiare i miti: tutte le volte che una rivoluzione scientifica, una rivoluzione epocale
della scienza, induce dei grandi assestamenti, tutto ciò produce un nuovo ordine del mondo. La
vicenda galileiana, il rapporto tra Galilei e il potere del suo tempo, ne è la prova: non si trattava
soltanto di una semplice scoperta scientifica, questa scoperta avrebbe comportato un riassetto
dell'ordine del mondo. Soprattutto nel caso delle scienze della vita, ciò è ancora più vero proprio
per le questioni che vengono messe sul tappeto: basti considerare come la stampa, parlando di
biotecnologie, ricorra quasi sempre a categorie, figure e emblemi di ordine mitologico.
Faccio qualche esempio che riguarda la stampa quotidiana. Ubris conoscitiva: sappiamo
benissimo che Ubris è una categoria che ci viene dal pensiero greco e non corrisponde, come ci
insegna spesso la scuola, all'arroganza ma, come ci insegnano i buoni grecisti, corrisponde
all'oltranza, all'oltrepassamento di un limite, oppure all'eccesso prometeico della scienza. Molto
spesso inoltre, ricorre la categoria della mostruosità in un duplice senso: quello della cosa
mostruosa e contro natura, ma anche quello della produzione di mostri, in questo caso, genetici.
Ma noi sappiamo che questo termine possiede un'ulteriore ambiguità perché i "mostri" sono anche
dei segni, sono dei miracoli. E sappiamo anche che tutta la scienza moderna, la scienza laica, si
costituisce proprio attraverso un rapporto drammatico, concitato ma vitale, nei confronti della
religione. La grande questione comprende, da una parte, i prodigi della natura e il pensiero laico,
e, dall'altra, la rivendicazione del potere di sospendere le leggi di natura. Valga per tutti ciò che
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Hobbes dedica al miracolo nel primo libro del "Leviatano", forse le più belle pagine che siano mai
state scritte sui miracoli e sui rapporti con la scienza.
Questi termini dividono immediatamente la questione in due livelli che sono interconnessi ma che
vanno accuratamente distinti nell'analisi: lo specifico aneddotico delle pratiche scientifiche, e la
loro ricaduta sulle rappresentazioni collettive, cioè sulle credenze, sul costume, su tutto quello che
crea opinione. Quindi, sulle propaggini carsiche e su tutto ciò che la scienza significa quando entra
in relazione con i sistemi di valore in una certa cultura e in una certa epoca.
In questo senso, le grandi rivoluzioni scientifiche sono degli elastici strutturali, sono dei rivelatori, ci
fanno capire com'è veramente una data società in un certo momento, proprio perché lasciano
affiorare i confini etici di una cultura e il suo orizzonte mitologico. L'orizzonte mitologico non va
dimenticato: è quello che sempre e comunque, in tutti i tempi e in tutti i luoghi, sperimenta e
rappresenta più fortemente l'esperienza del limite, cioè del rapporto tra il noto e l'ignoto. I mostri
sono questi: sono sempre creature a due facce, una faccia che ci guarda e a cui noi diamo una
forma, e questa forma che dà volto all'indicibile, a quello che ancora non conosciamo ma che forse
speriamo di conoscere. Sono figure, sono grumi di pensiero in attesa di essere articolati, e il
compito della scienza è quello di articolare questi mostri, di farli uscire dal sonno della ragione.
Non a caso, un buon testimone di questo processo è il cinema. Il cinema, infatti, accompagna fin
dall'inizio il rapporto che c'è tra le metamorfosi prodotte dalla cultura industriale e certe creature
che poi significano certe metamorfosi. Pensiamo, ad esempio, a quanti film su Frankestein sono
stati prodotti: è probabilmente la creatura cinematografica più rappresentata e il testo stesso di
Mary Shelley ha come sottotitolo "Il Prometeo moderno ".
I mostri, quindi, come direbbe il più grande antropologo di questo secolo, Claude Levi Strauss,
sono buoni da guardare in questo senso proprio perché sono buoni da pensare, sono proprio
grumi di pensiero raffigurato. In questo senso, dunque, da Frankestein alla pecora Dolly corre il filo
rosso dell'immaginario, un filo che ci risospinge verso il mito che, come dicevo prima, serve proprio
agli uomini per parlare del limite, ma soprattutto serve ad articolare le soglie tra il noto e l'ignoto,
tra il lecito e l'illecito, tra l'umano e l'animale e, in ultima istanza, il rapporto tra natura e cultura. Tra
quello, cioè, che appartiene alla natura e quindi non è modificabile, e quello che invece è cultura, è
storia, e quindi fatto e rifacibile dall'uomo.
Non a caso, i media riassumono spesso i termini di queste questioni di grande complessità
ricorrendo proprio, come dicevo prima, ad immagini e luoghi mitologici. Una per tutte. Prendiamo il
titolo di un quotidiano: "Creata in provetta la cellula Minotauro". L'occhiello dell'articolo è: "L'ibrido
uomo-mucca potrebbe fornire ricambi organici". Parlano da soli, sia il titolo che l'occhiello. L'uomo
mucca, nel rievocare l'immagine del Minotauro, di fatto rievoca la soglia dell'umano: cosa la
caratterizza, cosa ci permette di identificare l'umano e cosa ci permette di distinguere l'umano
dall'animale. E, quindi, cosa ci consente di riconoscere e di definire i confini del corpo, cosa nel
corpo è natura e cosa nel corpo è cultura. Sembra qualcosa di scontato, ma sappiamo benissimo
che ciascuna cultura e ciascuna epoca produce una sua immagine del corpo che non è mai la
stessa di un altra epoca o di un altra cultura.
È indubbio che le frontiere della genetica inducono continuamente a ripensare questo confine del
corpo e il rapporto tra quello che è ascrivibile alle leggi apparentemente immodificabili della natura
e quello che invece l'uomo può modificare. In realtà, si sa bene che la natura non è mai una realtà
oggettiva, ma è una rappresentazione, una soglia variabile, un confine che si sposta nel tempo e
nello spazio. Lo dimostrano i contenuti di tale concetto nella storia del pensiero occidentale a
partire dalla rivoluzione galileiana e, forse, ancor di più dalla pubblicazione del "De Humane
corporis fabrica" di Andrea Vesalio, in cui, per la prima volta, il corpo è pensato secondo una
metafora particolare che è quella architettonica, vitruviana. Il corpo è una fabbrica: questa è una
rivoluzione scientifica che comporta una rivoluzione sociale del costume e dell'idea stessa
dell'uomo. Quindi, anche dei confini del corpo.
Per questo stesso motivo, è chiaro che la possibilità della manipolazione genetica, fa apparire lo
scienziato alla stregua di un Prometeo, oppure di un Ulisse, di qualcuno che varca le colonne
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d'Ercole e che è dunque un violatore di confini. Basti riferirsi a tutti i problemi posti dall'ingegneria
genetica ed alla radicalità di temi come la parentela, la filiazione, i confini dei gruppi, la nozione
stessa di persona, sovrapponibile o no alla nozione di corpo.
Le scoperte della genetica ci inducono proprio domande di questo tipo e ci pongono anche un'altra
questione che è fondamentale: la riproduzione fisica degli individui ed il rapporto tra riproduzione e
produzione. Si tratta di domande di notevole spessore, che già bastano a spiegare la carica
mitologica che tutto ciò assume nell'immaginazione collettiva, anche e soprattutto perché viene
continuamente riferito a criteri di valore e di scelta.
Le osservazioni del professor Dulbecco a proposito del caso delle malattie ereditarie, che per certi
versi potremmo considerare malattie culturali, ci pongono di fronte a problemi assolutamente nuovi
come, per esempio, accettare l'eredità biologica con beneficio d'inventario: sarà possibile oppure
no?
Ovviamente, questa è una banalizzazione del problema, ma questa stessa banalizzazione indica
da una parte l'entità e la grandezza di questi problemi, dall'altra il cono d'ombra dei nostri sistemi
formativi, perché questo scarto tra la reale sostanza dei problemi e la nostra percezione, dipende
proprio da un difetto di formazione e di informazione. Avremo un importante compito educativo nei
prossimi anni, che deve sottrarci dall'alternativa secca e fuorviante di un oscurantismo per cui la
natura non si tocca, oppure di una fede cieca e indiscriminata nella scienza. Ciò che in questo
caso si perde è proprio il legame tra i progressi della scienza, il suo utilizzo e il suo controllo
sociale. In realtà, non è il progresso a definire l'immagine di una società, ma è il disegno sociale a
tracciare l'immagine del progresso e dei compiti di una scienza al servizio dell'uomo.
CINZIA CAPORALE
Grazie a Marino Niola, dunque potremmo dire che nulla è più culturale dell'idea di natura. Siamo al
termine di questo incontro, mi pare avesse chiesto di prendere la parola Flavia Zucco, della CGIL
Ricerca. Al termine, alcune considerazioni conclusive dal professor Renato Dulbecco, e quindi il
Segretario nazionale della CGIL, Sergio Cofferati.
FLAVIA ZUCCO
Mi limiterò ad alcuni flash della storia del Progetto Genoma. Per cominciare vi ricordo che, in
origine, chi ha investito fondi notevoli nel Progetto è stato il Dipartimento dell'Energia che fa parte
del Ministero della Difesa americano: quindi vedete che esiste un nesso con gli interessi militari.
Un secondo aspetto è il problema della "big science". Non si tratta di un aspetto secondario perché
non riguarda un innamoramento del "piccolo è bello", ma riguarda il problema del controllo. Un
progetto di grande complessità ovviamente implica delle difficoltà di controllo. In particolare,
quando sono coinvolti investimenti finanziari e di professionalità notevoli, sono implicate difficoltà di
reversibilità della scelta anche se, per fortuna, la decisione del Congresso americano di alcuni anni
fa di interrompere una ricerca sugli acceleratori va in direzione contraria: doveva essere costruito
un tunnel di oltre 70 chilometri ma, al 34° chilometro, hanno valutato che questo progetto costava
troppo e l'hanno interrotto. Esiste quindi, forse, una speranza di reversibilità dei grandi progetti che
si rivelano al di là delle possibilità e delle necessità di un Paese.
Il Progetto Genoma presenta alcuni problemi. Innanzitutto è vero che si sono mosse molte
iniziative autonome, ma non nello spirito di grande libertà e autonomia, bensì con l'intenzione di
creare un'accesa competitività anche in casi nei quali uno dei fondamenti della ricerca scientifica è
stato violato: quello della libera circolazione delle informazioni. Non solo è accaduto questo, ma si
è andati anche oltre: per la fretta di essere i primi, sono stati pubblicati anche alcuni lavori che
sono stati successivamente ritirati.
Si è verificata, quindi, una profonda alterazione del mondo scientifico e della sua etica, anche
perché è vero che i distinguo tra ricerca di base, ricerca e tecnologia si possono ancora effettuare,
ma questo solo laddove la ricerca è intimamente connessa, anche con dei forti interessi economici,
alla produzione di tutta una serie di tecnologie come indubbiamente accade per il Progetto
Genoma, intimamente collegato con il business. Una scienza che è business, non è così
autonoma e libera come si vuole fare credere. Alcuni esponenti dei comitati scientifici che si
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occupavano di questo progetto, hanno anche fondato delle aziende private, come la "Genome
Corporation", che sono poi fallite ma che avevano ben presente il nesso scienza-business. Credo
che queste cose vadano dette.
Un'altra critica mossa dai giornali scientifici al Progetto Genoma è che la professionalità che si
forma intorno a questa ricerca è abbastanza scarsa, nel senso che esistono delle menti pensanti,
ma poi l'esecuzione del sequenziamento implica lavorazioni a scarso input intellettuale. In un
articolo su "Science" si diceva che un ricercatore che è addetto alla macchina del sequenziamento
dopo due anni di lavoro subisce un burn out, è cioè "bruciato". Non mi sembra quindi che si tratti di
professionalità scientifiche su cui una nazione debba puntare.
Dalla questione dei fondi, inoltre, sono stati esclusi tutti i finanziamenti delle banche dati, Anche in
questo caso c'è stato un amplissimo dibattito su come venivano raccolti i dati, su come erano stati
gestiti e sulla confusione che ne era nata.
In ogni caso, ciò che volevo dire è questo: fa parte dei diritti di cittadinanza anche il controllo della
scienza. Un progetto di tale complessità e con tale entità di investimenti pone delle difficoltà di
controllo dal basso. I lavoratori coinvolti vivono in maniera abbastanza isolata la grande mutazione
e la caduta di responsabilità etica che sta avvenendo nel mondo della scienza. Questo, quindi, è
un richiamo che viene fatto e che dovremmo fare a tutti perché si ponga una maggiore attenzione
al lavoro che viene svolto dentro il mondo della ricerca.
Un altro messaggio che voglio lanciare, è quello di distinguere tra quelli che sono stati problemi
vecchi che si presentano sotto nuove forme, da quelli che sono veramente problemi nuovi rispetto
ai diritti di cittadinanza. Il fatto che si usino agenti biologici in campo militare, non necessita di
utilizzare l'ingegneria genetica, o il Progetto Genoma. Ho letto che dopo che l'OMS ha dichiarato
che il vaiolo è estinto, in realtà si sa che in America e in Russia esistono delle banche di vaiolo in
cui esso è ancora presente. Questo è un vecchio problema che si presenta, con cui dobbiamo
confrontarci continuamente. L'ultimo messaggio che voglio dare è che non vorrei che
riconducessimo tutta la complessità della vita al DNA, che è diventato una specie di entità
metafisica e che si è sostituito a tutto il resto. Invito il compagno Cofferati a non dire mai "è scritto
nel DNA della CGIL", perché, facendo questo, avvalora l'entità suprema che il DNA è diventato.
Soprattutto non vorrei che la scienza, attraverso la proposizione di modelli, diventasse fondamento
della morale.
CINZIA CAPORALE
Risponde a Flavia Zucco il professor Renato Dulbecco...
RENATO DULBECCO
Purtroppo dovrò spendere un po' di tempo in relazione a queste ultime osservazioni perché sono
piene di errori e di travisazioni della realtà. Prima di tutto, il Dipartimento dell'Energia non ha nulla
a che fare con i militari. Il Dipartimento dell'Energia già da molti anni si occupava degli effetti delle
radiazioni sugli organismi viventi perché all'epoca c'era la bomba atomica. Il risultato è stato
questo: il Dipartimento ha sviluppato una forte competenza biologica, ed è per questa competenza
biologica che è stato tra i primi a partecipare veramente all'ideazione e alla realizzazione del
Progetto Genoma, al quale partecipa tuttora.
Il secondo punto riguarda la questione del "big business". Quando lei fa il paragone del lavoro e
dei costi implicati nel Progetto Genoma con il grande tunnel la cui costruzione è stata interrotta, lei
sbaglia: il tunnel era una spesa enorme dedicata ad un solo esperimento, mentre quando si parla
del Progetto Genoma, si parla di migliaia di ricercatori che lavorano su problemi vari, tutti
interconnessi, che sono alla base della biologia moderna. Per questo, veramente non ravvedo una
connessione fra le due iniziative.
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Sul fatto che qualche volta ci siano state delle retroazioni, vorrei sapere a cosa lei si riferisce,
anche perché qualche retroazione ogni tanto avviene anche per qualche banale errore.
La connessione col business, poi, non è una cosa specifica. Tutta la biologia al giorno d'oggi è
connessa col business. È per questo che esiste la biotecnologia: la biotecnologia è il metodo usato
per sfruttare le conoscenze biologiche per scopi umani di qualunque tipo. Quindi, che la ricerca
genetica del Progetto Genoma venga utilizzata per questo scopo non è assolutamente
sorprendente, non è una macchia, ma viceversa è un fatto assolutamente normale. Perché le cose
non vanno forse come lei pensa e cioè che questi ricercatori lavorino per l'industria: esistono
ricercatori che lavorano per sé, per l'università e per gli istituti di ricerca. Quando fanno una
scoperta, l'istituto di ricerca la brevetta e poi la consegna a un'azienda che possa sfruttarla
commercialmente. Si tratta di una procedura molto chiara e molto trasparente. Mi rincresce dover
puntualizzare tutte queste cose, ma occorre essere precisi perché se si comincia a travisarle,
allora tutto va a rotoli.
Tuttavia, su quello che lei ha sostenuto alla fine del suo intervento sono d'accordo: l'era della
genetica "stretta" è finita, non c'è più. Sappiamo infatti che ciascuno di noi come organismo è
molto di più che non la genetica. Siamo degli organismi complessi, la nostra personalità non è nei
geni ma nel nostro cervello, e il nostro cervello si forma dall'educazione, durante lo sviluppo, e
credo che questa sia una cosa molto importante.
Per concludere, nell'insieme questo è stato un incontro di grande interesse specialmente per la
diversità dei partecipanti e delle opinioni. Non sarei d'accordo su alcuni punti. Si è parlato della
schizofrenia come un esempio di incertezza: il fatto è che la schizofrenia è una diagnosi clinica che
nessuno sa esattamente in cosa consista. Quindi non si può parlare di schizofrenia come di
un'unità ma, più probabilmente costituisce un insieme di diverse condizioni e, in questo senso,
l'incertezza si comprende benissimo. Sulla questione dei brevetti non sono d'accordo col professor
Berlinguer che citato solo una parte della Direttiva europea e cioè l'isolamento delle parti del corpo.
Ci sono altri articoli della Direttiva che sono quelli "chiave": isolare un gene non è brevettabile e
questo è stato dimostrato molto estesamente nei tribunali. Ciò che è brevettabile è che il gene
venga isolato, venga incorporato in qualche sistema, venga modificato per farlo esprimere e se ne
ottenga un prodotto. È tutto questo che lo rende brevettabile, quindi bisogna fare un po' di
attenzione quando si parla di questa Direttiva. Vi ringrazio molto per avermi invitato. Mi auguro che
possiate continuare questo tipo di discorsi molto più spesso.
CINZIA CAPORALE
Grazie al professor Renato Dulbecco. Dunque, relativamente alle biotecnologie ed a quello che è
iscritto nel "non DNA" della CGIL, do la parola a Sergio Cofferati.
SERGIO COFFERATI
Se vogliamo infrangere il clima di questa discussione che ha teso ad evitare polemiche, io sono
disposto a farlo subito e ritorno immediatamente sul Dna. Non sono d'accordo con Flavia e credo
di aver usato una volta tanto in forma appropriata quell'espressione. Siccome penso che la Cgil
abbia una sua identità, penso che l'identità della Cgil sia il suo Dna. Poi so anche che la Cgil è
fatta di tante persone che per fortuna determinano l'ambiente. Se potessimo paragonare la Cgil a
un corpo, potremmo dire di essere un corpo predisposto ma non predeterminato: l'intelligenza
delle persone fa la diversità, però quando ci sono dei valori da indicare, sono questi che
rappresentano il Dna di un'organizzazione. Ciò detto io ritorno nel mio seminato e, a differenza del
professor Niola che lo fa per civetteria, dovrò stare necessariamente vicino ai comportamenti delle
persone e lontano dalla scienza. La ragione di questo convegno - per il quale vi ringrazio davvero
per la partecipazione e i contributi che poi, con il vostro permesso, vorremmo utilizzare in
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circostanze successive - è quella dichiarata dal titolo e io credo che oggi abbiamo portato insieme
intanto un primo sassolino alla costruzione di una muraglia che si preannuncia di difficile
architettura e di lungo lavoro. La muraglia è quella della conoscenza. Ora, lo diceva Gigi Agostini
nell'introdurre la discussione, noi tutti siamo molto colpiti dal livello altissimo di disinformazione e a
volte dallo stravolgimento dell'informazione più elementare su questi temi. I casi che avete citato
sono casi emblematici. Si parla, in genere, dei più grandi quotidiani e delle fonti di informazione più
ascoltate, ritenute anche le più efficaci sullo stesso piano scientifico, e contemporaneamente ci
preoccupa il livello basso di acculturamento intorno a questi temi perché il sensazionalismo, il
tentativo di evitare qualsiasi forma di approfondimento che abbia un minimo di fondamento
scientifico, produce danni. Produce danni intanto per le ragioni più volte richiamate: il sapere è
l'accesso fondamentale alla cittadinanza, e questo dato di fatto vale per qualsiasi argomento e a
maggior ragione per argomenti che sono così esposti e che possono condizionare anche i
comportamenti di massa. Per un'organizzazione collettiva i comportamenti di massa e il sentire
comune non sono mai cosa dalla quale si può prescindere, a maggior ragione quando sono deviati
o quando sono condizionati così negativamente. Io credo che, come dicevo, il sapere sia un
fondamento della possibilità stessa di avere diritti individuali, cioè della cittadinanza sociale, e sia
fondamento anche dell'esercizio dei diritti collettivi che, a loro volta, rappresentano l'architrave
della democrazia. Il problema non è mai, secondo me, quello della neutralità della scienza, che
neutrale non è, ma dell'utilizzo che si fa della scienza, e le regole che debbono ordinare tale
utilizzo sono compito della politica, dell'ordinamento istituzionale: le devono cioè definire in primo
luogo le donne e gli uomini che definiscono, in pari tempo, i criteri, i fondamenti, le coordinate di un
sistema democratico. Ma da sindacalista ho una preoccupazione in più: la distorsione
dell'informazione ed il poco sapere producono, non alla lunga, ma anche in tempi medio-brevi,
distorsioni consistenti sul piano delle solidarietà. La solidarietà è uno dei tratti fondamentali di
qualsiasi processo di coesione sociale e forse anche economico e, in ogni caso, per
un'organizzazione di rappresentanza collettiva che vuole avere questo tratto di rappresentanza
generale, è un valore irrinunciabile. Se noi fossimo un'associazione pur importante di professione
o di categoria, non avremmo queste preoccupazioni. Un'organizzazione confederale invece, che
rappresenta interessi diversi e li deve mediare, non può prescindere nei suoi comportamenti
dall'individuazione di una gerarchia di valori e dalla possibilità concreta di praticare solidarietà. E
se la conoscenza non è adeguata in quantità e forma, i comportamenti di massa cambiano e
quelle che venivano ritenute anche forme consolidate di esercizio del proprio ruolo, della propria
rappresentanza, possono essere rimosse in un arco di tempo brevissimo. Noi abbiamo a questo
riguardo casi, ahimè, esemplari in negativo che non è il caso qui di richiamare, e che però ci
segnalano come nei comportamenti delle persone che lavorano e di quelle che noi vorremmo in
genere rappresentare, non soltanto perciò di quelle che lavorano, mutamenti di questa natura si
siano registrati troppe volte. I comportamenti di massa poi, come si sa hanno un'influenza enorme
sul carattere qualitativo-quantitativo della domanda e dell'offerta, della domanda e dell'offerta
economica ma anche della domanda e dell'offerta sociale. Ora, questo compito di diffusione della
conoscenza, di crescita dell'acculturamento, non è un compito prioritario di un'organizzazione
sindacale; io credo, però, che un'organizzazione come la Cgil non si debba sottrarre anche a una
funzione di questa natura. In fondo, anche nell'esercizio della nostra attività più tradizionale, quella
contrattuale, e nell'affrontare alcuni temi, come quelli della prevenzione e della sicurezza, noi
abbiamo svolto compiti, fra gli altri, apparentemente estranei al nostro mandato ma di qualche
efficacia per l'acculturamento e la diffusione di elementi di conoscenza anche fuori dall'ambito
stretto della rappresentanza sindacale. Questo lo si può dire anche per altri aspetti della vita del
sindacato: pensate per un attimo a come un'attività tradizionale, quella del riconoscimento
convenzionale delle professionalità, nel corso degli anni si sia trasformata da un rapporto tra il
lavoro che veniva prestato e la retribuzione legata a questa prestazione, in un processo assai più
complesso che coinvolge elementi di conoscenza, di formazione, di sviluppo e di crescita della
capacità professionale delle persone. Io non credo che questo sia uno dei compiti fondamentali del
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sindacato, ma non credo nemmeno che sia un aspetto marginale o residuale. Tengo moltissimo
alla distinzione di ruolo, penso addirittura che una parte delle nostre sfortune sia legata al fatto che
non sempre siamo chiari nel fissare quali debbano essere i confini del nostro operato, e che per
questa ragione ci carichiamo di tante ostilità che potremmo invece risparmiarci; credo però anche
a una funzione alta e non banale dell'esercizio della rappresentanza. Per questo vi abbiamo
chiesto di discutere con noi oggi di questo tema partendo da questa prima esigenza: la
cittadinanza e i diritti di chi lavora, che sono ovviamente una parte della cittadinanza, hanno
bisogno di questi tratti di conoscenza. In più aggiungo, ma non è marginale, che l'esercizio di
tradizionali e apparentemente banali solidarietà - banali non in senso limitativo della qualità
dell'esercizio della solidarietà, che è sempre nobile e alto in sé, ma per gli effetti materiali che
possono derivarne - ha bisogno dell'approfondimento e della diffusione anche delle molte cose di
carattere scientifico o sociologico che abbiamo discusso oggi e che ci avete rappresentato. Poi ci
sono anche tutte le ragioni economiche che qui sono state richiamate. Va da sé che il controllo
dell'attività scientifica, in tema di biotecnologie, produce mutamenti profondi negli scambi
economici - sono stati forniti dati, sia pure generali, che si commentano da soli - ma la produzione
delle merci e il rapporto tra i produttori cambia in virtù della possibilità, che viene data oppure
preclusa, di accesso alle tecnologie. Questa infatti, se non governata, diventa o può diventare una
delle ragioni di alterazione più rilevante delle dinamiche economiche. Oggi gli effetti delle
biotecnologie sulla produzione materiale sono ancora contenuti; ma si può facilmente immaginare,
estrapolando alcune delle considerazioni che qui sono state fatte, cosa possa diventare l'effetto
finale in un sistema senza regole, in un mercato che venga definito tale, ma che tale non sia, con
un ruolo ad esempio dei monopoli ed una funzione prevalente di alcuni raggruppamenti industriali
e produttivi che possono contemporaneamente controllare e orientare la ricerca e poi utilizzarne,
senza regole e senza vincoli, le applicazioni industriali. Ma c'è di più, e si tratta di un tema che
varrà la pena di essere ripreso in un approfondimento successivo. Pensate per un attimo a come
possono cambiare i sistemi di protezione e le tutele in virtù della trasformazione possibile
attraverso la bioetica sia dell'attività di cura che quella di prevenzione. Noi siamo figli di un modello
di welfare che viene progressivamente aggiornato e che basa la sua esistenza sull'equilibrio tra la
ricchezza prodotta e la qualità delle tutele che vengono offerte ai cittadini, da una parte, e su
elementi ritenuti risolutivi, fondamentali come quelli dell'universalismo della prestazione dall'altra.
Se ciò venisse messo in discussione, cambierebbe radicalmente, ancora un volta e rapidamente, il
comportamento di masse diffuse di persone che oggi hanno delle protezioni e che potrebbero
essere indotte a chiedere loro spontaneamente, in virtù di una scorretta informazione o della
mancanza di cultura, una trasformazione improvvida e pericolosa del sistema delle protezioni. Il
professor Rodotà faceva qui l'esempio di come sia cambiato radicalmente e rapidamente il
rapporto tra le compagnie di assicurazione. Quando in un'attività così importante, in sé e per gli
effetti economici collaterali che determina, il rischio da parte dei soggetti che la gestiscono cambia
e si trasforma, nel senso che si altera irreversibilmente la dimensione della mutualità, va da sé che
la ricaduta ulteriore e terribile, almeno potenzialmente terribile per le persone interessate, è la
rottura della solidarietà o comunque l'introduzione di forme di solidarietà tra platee così ristrette da
provocare una divaricazione nei comportamenti sociali e ulteriori e nuove forme di esclusione.
Anche di questo, credo sia necessario che un'organizzazione collettiva debba tenere conto.
L'ultima cosa, della quale forse si è meno parlato, ma era giusto così, riguarda l'equilibrio nuovo
che si determina tra l'esercizio della privacy, la cittadinanza e quella parte di cittadinanza che sta
nei diritti del lavoro. Le forme di determinismo, quest'idea, appunto, del predeterminato e non del
predisposto che prevale, produce i pericoli di riduzione che sono stati qui indicati e se portata
all'estremo, l'estremo è un'evoluzione in un sistema non regolato, ha delle conseguenze che si
possono facilmente prevedere fin da adesso. Va da sé che, a quel punto, prevarrà l'idea, che può
diventare addirittura cultura, che i comportamenti individuali fanno premio sui comportamenti
collettivi e di conseguenza i deboli ritenuti tali geneticamente, che diventeranno poi tali anche sul
piano delle protezioni e forse anche delle occasioni economiche, verranno considerati soggetti
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destinati all'auto-tutela, con la rottura delle dinamiche sociali tradizionali. E soprattutto, questa è
una cosa che francamente dovrebbe preoccupare di più un'organizzazione sindacale, si
consoliderà l'idea che l'ambiente è immutabile; la predeterminazione prevarrà sulla
predisposizione, e noi non solo non avremmo più un ruolo, ma ci troveremo in questa tragica
condizione insieme a tanti altri, a tutte le forme di rappresentanza collettiva, da quelle istituzionali a
quelle politiche che, come il sindacato, avrebbero più o meno un destino segnato. I percorsi
attraverso i quali poi si esercitano le forme di rappresentanza, mutano rispetto a quelli tradizionali,
quelli per i quali noi siamo sostanzialmente cresciuti. Io credo che debbano essere evitati questi
due estremi: quello di non vedere i vantaggi, gli elementi indubbiamente positivi dell'evoluzione
scientifica, e dall'altra parte, però, quello di considerarla talmente inevitabile, ovvia e carica di
neutralità, dal non renderci conto che può cambiare alla radice anche le forme stesse della
rappresentanza sociale, di una rappresentanza collettiva, cioè, che si giustifica, proprio perché le
persone sono predisposte ma non predeterminate, con quella quota di intelligenza che poi si
aggiunge al Dna di ciascuno, che definisce l'ambiente nel quale ciascuno vive e finisce con
l'essere alla fine risolutiva. Insomma, noi ci teniamo a questo tratto di differenza, altrimenti come
organizzazioni sociali avremmo già gettato la spugna, avremmo considerato esaurito il nostro
compito. Io credo invece credo che ci sia ancora bisogno, anzi penso, in splendida solitudine
qualche volta, che di rappresentanza sociale ci sia più bisogno in una società complessa e
articolata di quanto non ce ne fosse in precedenza. Penso anche che la rappresentanza sociale
debba fare i conti con il mondo che cambia, con trasformazioni che hanno incidenza sulle sue
ragioni d'essere più tradizionali e all'apparenza più scontate. Quelle di cui abbiamo discusso oggi
non sono né tradizionali né scontate, per questo motivo abbiamo sentito il bisogno di discuterne e
io credo che il vostro contributo sia stato assai importante. Poi bisognerà tornarci e, come dicevo
prima, vorremmo farlo utilizzando il contributo che oggi ci avete fornito, se non avete contrarietà
particolari, e poi dando anche prosecuzione e continuità a questa discussione ancora con voi. Le
forme potranno essere le più disparate, non necessariamente sempre la stessa, anzi di norma la
forma con la quale si inizia un rapporto è destinata a non essere ripetuta, reiterata e riutilizzata a
breve, però se in corso d'opera dovessimo avvertire l'esigenza di un approfondimento come quello
di oggi, se siete disponibili la Cgil lo è. Ho sentito dire una cosa per me molto bella. Alcuni di voi si
sono trovati per la prima volta a discutere di questi temi appunto discutendone e non essendo
sollecitati a schierarsi. Il nostro obiettivo è sempre quello di cercare di contribuire alla soluzione dei
problemi. Fare il tifo per l'una o per l'altra ipotesi è un comportamento che affascina molti nella
rappresentanza collettiva, qualche volta affascina anche il sindacato, ma per il sindacato non
funziona mai perché al dunque il sindacato ha, tra le tante ragioni del suo Dna, anche quello per
cui deve decidere e deve scegliere quale ritiene sia la soluzione migliore, qualche volta la meno
dannosa, per i suoi iscritti; e questo scioglie al dunque il nodo che invece condiziona tanti altri. Noi
quindi non possiamo essere tifosi perché dobbiamo essere soggetti che alla fine decidono; però
per decidere abbiamo bisogno di un po' di consapevolezza e di qualche elemento di conoscenza e
voi questo oggi senza alcun dubbio ce lo avete fornito. Il resto vorremmo farlo, se siete d'accordo,
utilizzando ancora la vostra pazienza e la vostra disponibilità. Quello che vi offriamo è una sede
nella quale, se lo riterrete di qualche utilità, continuare una discussione senza che nessuno vi
chieda di essere schierato a priori per un'ipotesi o per l'altra. Prospetteremo le nostre piccole
angosce, qualche volta neanche tanto piccole, e le nostre opinioni, poi a noi toccherà il compito di
decidere, perché abbiamo questa funzione alla quale non possiamo rinunciare. Se però voi ci
aiuterete a farlo nella maniera più consapevole del caso, vi saremo grati. Intanto, grazie.
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