Riccardo Rovelli – Economia dell’Integrazione Europea
Agg. 01/12/2002
Lezioni 16-18
I CRITERI DI DISCIPLINA DELLA POLITICA FISCALE NELL'UE
Indice:
I.
Introduzione
II.
Gli aspetti normativi
III. Criteri di convergenza e Patto di stabilità: uno scopo comune?
IV. Perché preoccuparsi della crescita del debito?
V.
Sono appropriati gli indicatori di disciplina fiscale?
VI. Patto di stabilità e politiche di stabilizzazione: sono compatibili?
VII. I piani di rientro del debito: simulazione
VIII. Costi macroeconomici della disciplina fiscale
Appendice 1: Vincolo di bilancio del settore pubblico e decisioni di consumo
Appendice 2: Comunicazione della Commissione Europea: Strengthening the
co-ordination of budgetary policies
Riccardo Rovelli - EIE - Criteri di disciplina della politica fiscale nell'UE
2
I. INTRODUZIONE
In questa lezione analizzeremo e cercheremo una risposta ad alcune domande, elencate di
seguito. In particolare le ultime sette domande si ripropongono di frequente nel dibattito (e
anche nelle polemiche) intorno al Patto di Stabilità:
1. Perché il Trattato di Maastricht prevedeva degli indicatori di convergenza fiscale come
precondizione per la transizione alla fase finale dell’unione monetaria ?
2. Come si giustificano i particolari indicatori prescelti nel Trattato, sia da un punto di vista
qualitativo che numerico?
3. Perché il Patto di stabilità e crescita – che si rivolge in particolare ai paesi già membri
dell’UEM – ha mantenuto in vigore i criteri di disciplina fiscale previsti dal Trattato, ed
anzi per certi aspetti li ha rafforzati?
4. Il Patto di stabilità - in particolare, nell’interpretazione che ne dà la Commissione Europea
– è uno strumento adeguato per coordinare e disciplinare la politica fiscale dei paesi
membri dell’UE e dell’UEM?
5. Più in particolare, è davvero necessario proporsi di coordinare le politiche fiscali?
6. E, se così fosse, sarebbe utile anche coordinare l’azione della politica fiscale con quella
della politica monetaria?
7. I paesi ad elevato debito devono dedicare eventuali avanzi di bilancio al rimborso
accelerato del debito oppure anche alla riduzione delle imposte o a programmi di spesa?
8. I criteri di stabilità sono validi e debbono essere rispettati anche nelle fasi cicliche
negative?
9. I margini di flessibilità previsti per la politica fiscale lasciano un margine sufficiente alle
politiche fiscali di stabilizzazione?
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II
3
GLI ASPETTI NORMATIVI
II.1 Il Trattato di Maastricht. Il Trattato prevedeva tre fasi:
•
Prima fase UEM (90.07-93.12):
Completamento del mercato unico dei capitali.
•
Seconda fase (94.01-98.12):
Creazione IME. Verifica della convergenza. Creazione della BCE.
•
Terza fase (dal gennaio 1999):
Avvio dell’euro e dell’operatività della BCE e del SEBC.
Il passaggio alla terza fase era (ed è tuttora, per gli Stati membri che devono o dovranno
adottare l’euro) condizionato al rispetto di alcuni criteri di convergenza, esposti nel riquadro.
I CRITERI DI CONVERGENZA
Art. 121 - Ex Art.109 j - del Trattato che istituisce la Comunità Europea
e Protocollo sui criteri di convergenza
Firmato a Maastricht il 7 febbraio 1992, ed entrato in vigore il 1° novembre 1993.
Per essere ammesso alla terza fase, ciascun paese deve avere avuto, nell’anno precedente:
•
un tasso d’inflazione non superiore a 1,5% più la media dei tre paesi con minore
inflazione (al momento della verifica, non superiore perciò al 2,7%)
•
un tasso d’interesse sui titoli di Stato a lungo termine non superiore al 2% più la media dei
tre paesi con minore inflazione (al momento della verifica, non superiore perciò al 7,8%)
•
un disavanzo complessivo della Pubblica Amministrazione non superiore al 3% del PIL
•
un debito lordo della Pubblica Amministrazione non superiore al 60% del PIL, oppure in
fase di riduzione verso tale valore
•
un tasso di cambio che abbia rispettato i “margini normali di fluttuazione previsti dal
meccanismo di cambio del Sistema Monetario Europeo, per almeno due anni”.
Inoltre (Art 109 – ex Art.108) deve essere verificata la compatibilità delle legislazioni
nazionali, inclusi gli statuti delle banche centrali nazionali, con il Trattato e con lo Statuto
della Banca Centrale Europea.
Precisazioni
• Tollerati eccessi del disavanzo “eccezionali e temporanei”, purché non lontani dal valore
di riferimento.
• Accettabile debito eccessivo purché in fase di riduzione “persistente e sostanziale, ad un
ritmo soddisfacente” (Art. 104, ex Art.104c).
Sanzioni:
•
esclusione dalla terza fase
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II.2 Il “Patto di stabilità e di crescita”
Il Patto di stabilità (SGP) è stato concordato a Dublino nel dicembre 1996 tra gli stessi paesi
aderenti al Trattato. Esso consiste in una “Risoluzione del Consiglio europeo relativa al Patto
di stabilità e crescita” (Amsterdam, 17 giugno 1997), e in due Regolamenti (CE) del
Consiglio in data 07/07/97, n. 1466/97 [per il rafforzamento della sorveglianza delle posizioni
di bilancio nonché della sorveglianza e del coordinamento delle politiche economiche ] e n.
1467/97 [per l'accelerazione e il chiarimento delle modalità di attuazione della procedura per i
disavanzi eccessivi].
Il Patto stabilisce, tra l’altro e in aggiunta rispetto ai criteri di Maastricht, che gli Stati membri
si impegnano a rispettare l'obiettivo, indicato nei loro programmi di stabilità o di
convergenza, di un saldo di bilancio a medio termine prossimo al pareggio o positivo e ad
adottare le misure correttive del bilancio che ritengono necessarie per conseguire gli obiettivi
dei programmi di stabilità o convergenza, ogniqualvolta dispongano di informazioni che
indichino un divario significativo, effettivo o presunto rispetto a detti obiettivi;
Inoltre, il patto predispone una elaborata procedura per gestire in modo non troppo
discrezionale eventuali “disavanzi eccessivi”.
La procedura per individuare e gestire i disavanzi pubblici eccessivi
Queste procedure si applicano ai paesi che partecipano all’UEM.
Un disavanzo superiore al 3% del PIL verrebbe ritenuto eccessivo, tranne che se si verificasse
in conseguenza di un “evento catastrofico”, o di una “recessione severa”, definita come una
caduta del PIL nell'arco di un anno di almeno il 2% (o, in particolari circostanze, da
giustificare esplicitamente caso per caso, di almeno lo 0,75%).
Un disavanzo superiore al 3% in assenza di tali circostanze attenuanti verrebbe senz'altro
giudicato eccessivo, ed in tal caso il Consiglio dei Ministri finanziari dell'UE formulerebbe
delle raccomandazioni e inizierebbe un’azione di monitoraggio delle contromisure adottate
dal paese in questione.
Queste misure verrebbero esaminate dapprima entro quattro mesi e – se insufficienti – entro
altri dieci mesi. Se entro questo periodo le misure prese fossero ritenute ancora inappropriate,
allora il Consiglio comminerebbe delle sanzioni, variabili fra l’ 0,2% e lo 0,5% del PIL. Se il
deficit venisse corretto entro due anni, le somme depositate a titolo di sanzione verrebbero
restituite, in caso negativo verrebbero incamerate dalla Comunità..
Dopo numerosi dibattiti e prese di posizione anche polemiche, che hanno coinvolto sia i
governi degli Stati membri che membri della Commissione e della BCE, la Commissione
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Europea ha qualificato in modo importante la propria interpretazione del Patto nella
Comunicazione presentata il 21.11.2002 al Consiglio ed al Parlamento Europeo
(ECFIN/581/02-EN rev.3: “Strengthening the co-ordination of budgetary policies”
http://europa.eu.int/comm/economy_finance/publications/sgp/2002/com2002_668_en.pdf
-
vedi Appendice)
III. CRITERI DI CONVERGENZA E PATTO DI STABILITÀ: UNO SCOPO
COMUNE?
III.1. I criteri di Maastricht
Lo scopo primario dei criteri di convergenza approvati a Maastricht era, se vogliamo,
“precauzionale”: evitare che Stati membri con una tradizione di finanza allegra, e di
subordinazione della politica monetaria alle esigenze del bilancio pubblico, per un verso
cercassero di condizionare la futura politica monetaria unica, e per l’altro potessero trovarsi a
desiderare di scaricare gli oneri sopravvenienti dalla passata indisciplina (la montagna del
debito pubblico, ed il torrente della spesa per interessi che ne conseguiva) sugli altri membri
dell’unione. In particolare, il timore era che paesi indisciplinati potessero chiedere o una
monetizzazione “collettiva” del debito da loro accumulato in precedenza, oppure di porre
parte del loro onere fiscale a carico dei bilanci degli altri Stati membri. Ambedue queste
soluzioni sarebbero state assolutamente inaccettabili per tutti gli altri Stati membri.
III.2 Constant vigilance: la disciplina fiscale dopo la moneta unica
Poiché, di fatto, l’esame di ammissione alla terza fase è stato superato da alcuni paesi (Belgio
e Italia) in modo un po’ rocambolesco (ossia: con livelli di debito in pratica doppi rispetto ai
criteri previsti, ma per i quali si era accertato che il rapporto debito/PIL si stava “riducendo in
misura sufficiente e ... avvicinando al valore di riferimento [60%] con ritmo adeguato”1) la
“vigilanza” sul processo di adeguamento del debito è naturalmente proseguita anche dopo
l’inizio della terza fase, ossia dopo l’adozione della moneta unica.
1 IME, Rapporto sulla Convergenza, Marzo 1998, p. 16 e p. 22. In particolare, il ritimo di riduzione
effettivo per il Belgio era di circa 4% per anno, per l’Italia del 3%.
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Pertanto, il criterio del debito ha continuato ad occupare un ruolo prominente anche nel Patto
di stabilità e crescita. Naturalmente, si è posto il problema di quale deterrente potesse
assicurare il mantenimento della volontà di rientro, essendo venuta meno la minaccia di
esclusione dalla moneta unica. Si è creduto di trovare questo nuovo deterrente nella
“procedura per i disavanzi eccessivi”, e più in generale nella peer pressure che i paesi virtuosi
avrebbero continuato ad esercitare su quelli più indisciplinati. In questo probabilmente si è
peccato di ingenuità.
Tuttavia, il Patto di stabilità non ha solo inteso rinforzare il rispetto della disciplina fiscale
nell’ottica di Maastricht. In positivo, ha voluto introdurre motivazioni del tutto nuove, e che
hanno in buona misura sorpreso i commentatori esterni, molti dei quali non hanno colto le
novità rappresentate dal Patto. Le due altre preoccupazioni relative alla politica fiscale accolte
dal Patto sono le seguenti.
III.3 La seconda motivazione del Patto: un uso anticiclico della politica fiscale
Un secondo obiettivo è consentire l’uso anticiclico (ossia, a fini di stabilizzazione
macroeconomica) delle politiche fiscali, all’interno dei vincoli posti dal Trattato di Maastricht
per evitare l’eccessivo accumulo di debito (la prima motivazione). Come ha chiarito il
Consiglio europeo di Amsterdam (17 giugno 1997)2: “Il perseguimento dell'obiettivo
concernente l'equilibrio del bilancio, con un saldo prossimo al pareggio o positivo,
consentirà agli Stati membri di far fronte alle normali fluttuazioni cicliche, mantenendo il
disavanzo pubblico entro il valore di riferimento del 3 % del PIL”.
III.4 La terza motivazione: sostegno alla crescita ed alla politica monetaria
Ma c’è anche una terza motivazione, che spesso nei dibattiti scompare, confondendosi dietro
la seconda. Il Patto la presenta in modo un po’ generico: “L'equilibrio delle finanze pubbliche
quale strumento per rafforzare le condizioni favorevoli alla stabilità dei prezzi e ad una
crescita vigorosa e sostenibile che promuova la creazione di posti di lavoro. È altresì
necessario garantire che le politiche di bilancio nazionali sostengano politiche monetarie
orientate alla stabilità”.
2 Il testo in italiano della risoluzione sul
http://www.cida.it/europa/116_Risoluzione_consiglio.htm
Patto
di
stabilità
si
trova
su:
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A prima vista, sembra un’affermazione con scarsa rilevanza operativa. Ma non è così, lo
scopo è in realtà molto preciso, e lo si vede all’opera con chiarezza nei successivi “Indirizzi di
massima per le politiche economiche” (Broad Economic Policy Guidelines, BEPG)3.
Nel seguito, riprenderemo in modo dettagliato i diversi punti toccati in questa sezione.
IV.
PERCHÉ PREOCCUPARSI DELLA CRESCITA DEL DEBITO?
In Italia, il debito pubblico è esploso (nel dopoguerra) a partire dagli anni 70, in conseguenza
degli elevati disavanzi del bilancio pubblico in quegli anni: dal 1980 al 1996 il debito è salito
dal 45,3 al 125% del PIL. In Europa, solo il Belgio ha una situazione analoga. Tuttavia, le
discussioni sul contenimento dei disavanzi e sulla riduzione dei livelli di debito dei governi
sembrano, a volte, dominare ogni altro dibattito macroeconomico. Perché ci si preoccupa
tanto del debito pubblico?
Le teorie macroeconomiche tradizionali trascurano il problema del debito pubblico
Notiamo che l’esigenza di tenere sotto controllo l’evoluzione nel tempo del debito del settore
pubblico non trova spazio nelle teorie macroeconomiche tradizionali, volte essenzialmente a
determinare le condizioni di equilibrio tra domanda ed offerta aggregata. In queste teorie e
modelli, la politica fiscale entra essenzialmente attraverso le decisioni sul livello della spesa
pubblica, G, e sulla scelta se finanziarla con imposte (T) o con l’emissione di debito ( ∆D). In
particolare, a seguito di un aumento di G finanziato con debito:
•
nella teoria (neo)ricardiana, il debito pubblico non è ricchezza per i risparmiatori: è solo
un anticipo delle imposte future, e il consumo non aumenta, anzi i consumatori aumentano
il risparmio in attesa delle imposte future;
•
nella teoria keynesiana, si verifica un aumento dei consumi, affiancato da uno
spiazzamento parziale (indotto dall’aumento del tasso d’interesse reale) degli
investimenti, il che può ridurre la capacità di crescita futura dell’economia.
In nessuna dei due casi, però, viene considerata l’accumulazione di debito da un periodo
all’altro: pertanto, non è in questi modelli che si può trovare conferma alle preoccupazioni
che pur emergono con tanta evidenza dal Trattato di Maastricht.
Le possibili motivazioni per dedicare una speciale attenzione (o preoccupazione) alla
dinamica del debito pubblico sono in generale due:
3 Le BEPG sono adottate a norma dell'art. 99, para. 2, del Trattato istitutivo della Comunità europea. Il
loro ruolo è poi stato rinforzato a seguito del Consiglio Europeo di Lussemburgo (dicembre 1997).
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1. Se nel tempo il debito pubblico cresce troppo, ad un certo punto diventerà impossibile fare
aumentare a sufficienza le tasse, per riuscire a rimborsarlo. A quel punto, il governo potrebbe
forzare la banca centrale ad acquistare il debito dello stato, “monetizzandolo”, ossia creando
base monetaria e quindi inflazione. Alla fine, il valore reale del debito verrebbe radicalmente
decurtato dall’aumento dei prezzi.
2. Come extrema ratio, il governo potrebbe proprio decidere di non onorare il debito (vari
paesi in via di sviluppo si sono comportati in questo modo nei confronti del debito collocato
all’estero a partire dagli anni 70, e questa tentazione è spesso ricorrente – gli ultimi casi sono
stati quelli della Russia e dell’Argentina nel 2002), trasformando i titoli già emessi in carta da
macero o, nella migliore delle ipotesi, obbligando i detentori di titoli a tenerli per un periodo
ben più lungo di quanto previsto, e ad accettare una sospensione o una riduzione del
pagamento degli interessi (“consolidamento”).
In altre parole, sono soprattutto le preoccupazioni relative alla possibilità di monetizzazione
futura o di consolidamento a spiegare perché l’eccessivo accumulo di debito da parte di
alcuni governi mandi segnali di allarme capaci di far entrare in fibrillazione la comunità
finanziaria internazionale! E proprio per evitare preoccupazioni di questo tipo in una
situazione di politiche fiscali nazionali decentrate rispetto alla politica monetaria (e rispetto
agli organi di governo comunitari) si spiega l’insistenza del Trattato ( e poi del Patto di
stabilità) attorno ai criteri di disciplina fiscale nazionale. In ultima analisi, perciò, queste
disposizioni discendono dalle stesse motivazioni che stanno alla base delle disposizioni
relative all’autonomia delle banche centrali nazionali (e della BCE) dai rispettivi governi. In
particolare mi riferisco al fatto che, per l’Art. 108 del Trattato istitutivo della CE4 né la BCE
né le banche centrali nazionali devono:
•
ricevere o richiedere istruzioni da alcun governo;
•
concedere crediti o acquistare direttamente titoli emessi dai governi o dagli enti locali.5
4 Art. 108: “Nell'esercizio dei poteri e nell'assolvimento dei compiti e dei doveri loro attribuiti dal presente
trattato e dallo statuto del SEBC, né la BCE né una banca centrale nazionale né un membro dei rispettivi organi
decisionali possono sollecitare o accettare istruzioni dalle istituzioni o dagli organi comunitari, dai governi
degli Stati membri né da qualsiasi altro organismo. Le istituzioni e gli organi comunitari nonché i governi degli
Stati membri si impegnano a rispettare questo principio e a non cercare di influenzare i membri degli organi
decisionali della BCE o delle banche centrali nazionali nell'assolvimento dei loro compiti”.
5 Pertanto l’unico modo di acquistare titoli di Stato, per la BCE, è acquistare (con operazioni di
mercato aperto, e non in diretta contropartita con gli emittenti) titoli già circolanti sul mercato.
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Tuttavia, all’interno dell’UEM e nel dibattito attorno al trattato di Maastricht, queste
preoccupazioni hanno assunto un’articolazione particolare, presentate nel riquadro.
Giustificazioni per i criteri di disciplina fiscale formulati
nel Trattato di Maastricht e nel Patto di stabilità
I due motivi principali:
1. Debito insostenibile (in qualche paese) può generare irresistibili pressioni per la
monetizzazione (in euro) (la “spiacevole aritmetica monetarista”).
2. Debito insostenibile può (nell’ipotesi che la BCE sappia resistere) condurre ad una crisi
fiscale nazionale con richiesta di bailout a carico della UE (il bailout è ex ante
indesiderabile ma probabilmente ex post ottimale, e ciò potrebbe vanificare eventuali
clausole di no-bailout).
Altri motivi che giustificano l’importanza della disciplina fiscale in una unione monetaria:
3. Politiche fiscali non coordinate o disciplinate possono determinare un aumento dei tassi
d’interesse di mercato (anche a prescindere dagli aumenti che riflettono la percezione del
rischio di credito) con un costo che ricade equamente anche sui paesi che si indebitano
poco (effetto spillover). Pertanto, è desiderabile regolamentare l’accesso dei singoli paesi
- che non rispondono a stimoli di prezzo - al mercato dei capitali comune.
4. Evitare che una politica fiscale eccessivamente espansiva contrasti con (o renda più
oneroso) l’operato della BCE, orientato in primo luogo alla stabilità dei prezzi.
5. Scoraggiare i governi nazionali che, dopo l’introduzione dell’euro, potrebbero essere
tentati di ricorrere in misura aumentata al finanziamento della spesa con emissione di
debito. Queste tentazioni potrebbero avere una duplice origine:
•
i singoli governi potrebbero sentirsi meno “sorvegliati” dai mercati finanziari, in quanto
non saranno più identificati con le rispettive monete nazionali, ma si potranno indebitare
in un mercato ed in una moneta dichiaratamente sopranazionali;
•
aumenterà la domanda di politiche fiscali nazionali di stabilizzazione (per compensare la
perdita della funzione di stabilizzazione nazionale della PM);
•
alcuni governi potrebbero ricercare forme di competizione fiscale consistenti nel
finanziare un ammontare dato di spesa pubblica meno con imposte e più con debito.
Motivi che riflettono una propensione per un assetto economico meno “statalista”:
6. Incentivare – attraverso la riduzione del debito pubblico - una riduzione del peso
dell’intervento pubblico nei singoli Stati membri;
7. Disciplinare i sindacati del settore pubblico, che rappresentano lavoratori al riparo dalla
concorrenza internazionale e che quindi non “internalizzano” la necessità della disciplina
anti-inflazionistica, se non imposta attraverso stretti vincoli di bilancio (Garrett e Way, in
Eichengreen, Frieden, von Hagen, 1995).
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Anche se non tutti i possibili motivi elencati sono ugualmente importanti o condivisibili, nel
complesso emerge sicuramente che ci sono fondati motivi per tenere sotto controllo e
disciplinare la politica fiscale sia prima che dopo l’inizio della fase finale dell’UEM..
In particolare, la garanzia dell’autonomia della BCE da sola non sarebbe sufficiente, anche
perché la politica fiscale continuerebbe ad essere largamente decentrata.
Tuttavia questo non deve indurre ad un radicalismo di segno opposto. Infatti:
•
è probabile e giustificato che la domanda di politiche fiscali di stabilizzazione a livello
nazionale aumenti in seguito alla “centralizzazione” della politica monetaria
•
“disciplina fiscale” non significa né rinuncia al ruolo di stabilizzazione delle PF
(soprattutto se attuato attraverso gli stabilizzatori automatici) né necessità di ridurre a zero
il debito pubblico in essere. Anzi vi sono fondati motivi, relativi al ruolo del debito
pubblico sia come fornitore di “liquidità” (Woodford, AER-PP 1990) che come
benchmark di riferimento per la formazione dei tassi d’interesse sulle diverse scadenze,
che suggeriscono come sia desiderabile mantenere un certo stock di debito pubblico.
Pertanto, bisogna domandarsi se - pur accettando lo spirito di una “disciplina fiscale” da
mantenere anche nel dopo Maastricht - i limiti quantitativi di tale disciplina siano adeguati o
non piuttosto eccessivi.
V
SONO APPROPRIATI GLI INDICATORI DI DISCIPLINA FISCALE?
Diversi economisti hanno sostenuto che i criteri di politica fiscale (in particolare la
proibizione, per ciascun paese partecipante, di avere disavanzi superiori al 3% del PIL) sono
così restrittivi da compromettere la stessa funzionalità della politica fiscale.
Altri, al contrario, dubitano che la semplice enunciazione di tali criteri sia un effettivo
deterrente rispetto alla tentazione dell’indisciplina fiscale (con le conseguenti pressioni per un
successivo accomodamento monetario).
E’ possibile che, con l’esperienza dei prossimi anni, sapremo meglio rispondere a queste
domande, ed eventualmente sapremo come modificare la formulazione dei criteri di disciplina
fiscale. Tuttavia l’indipendenza della politica monetaria rispetto alla politica fiscale rimarrà
sicuramente una caratteristica centrale dell’UME.
Riccardo Rovelli - EIE - Criteri di disciplina della politica fiscale nell'UE
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Abbiamo visto in precedenza sotto quali ipotesi il criterio del debito (60%) e quello sul
disavanzo (3%) siano reciprocamente compatibili). Nel riquadro elenchiamo schematicamente
alcune obiezioni nei confronti dei particolari indicatori presi in considerazione nel Trattato 6
Perché i criteri di Maastricht fanno riferimento al debito pubblico lordo?
•
Perché non al netto del debito verso la banca centrale?
•
Perché non al netto delle attività finanziarie e delle attività reali?
La scelta di riferirsi al debito lordo si spiega con la volontà da un lato di non incoraggiare la
BCE a privilegiare titoli pubblici nelle proprie operazioni di mercato monetario, dall’altro di
scoraggiare l’intervento dello stato come azionista-imprenditore in sostituzione dei privati.
Perché i criteri di Maastricht fanno riferimento al disavanzo nominale corrente?
•
Perché non solo al disavanzo primario?
•
Perché non al disavanzo reale?
•
Perché non tenere conto del disavanzo aggiustato per il ciclo?
(i) Rispetto al disavanzo primario, è vero che questo misura più correttamente la componente
controllabile attraverso decisioni di politica fiscale (essendo la spesa per interessi
predeterminata). Tuttavia la crescita del debito da un anno all’altro è esattamente pari al
disavanzo complessivo – quindi è naturale riferirsi a quest’ultimo
(ii) Per quanto riguarda il disavanzo reale, definito come:
Disavanzo reale = Disavanzo nominale - π ⋅ Debito nominale
effettivamente esso sarebbe la misura corretta del nuovo debito effettivo richiesto (e valutato
a prezzi costanti) per finanziare una data spesa. Infatti tale definizione tiene conto della
eventuale svalutazione del debito pre-esistente, causata dall’inflazione. Ma il punto in questo
caso è proprio che non si vuole consentire o giustificare alcuna svalutazione inflazionistica
del debito, ed è quindi naturale riferirsi al disavanzo nominale
(iii) In riferimento al disavanzo aggiustato per il ciclo, in realtà questa considerazione è ben
presente nel Patto di stabilità7, la dove si dice che nel medio termine (cioè: a prescindere dal
ciclo) il bilancio pubblico deve essere orientato al pareggio) mentre nel breve periodo deve
6 Vedi in particolare Buiter, Corsetti e Roubini, Economic Policy, 1993.
7 Ed è stata rafforzata nella Comunicazione della Commissione Europea del 21/11/02. V. Appendice
2.
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limitarsi a rispettare (salvo alcune eccezioni) il vincolo di un disavanzo non superiore al 3%
del PIL. La vera questione è pertanto se lo spazio di flessibilità compreso all’interno di un
disavanzo del 3% del PIL è sufficiente a porre in atto adeguate politiche di stabilizzazione. E’
ovvio che la risposta dipenda – ceteris paribus – dal livello medio al quale si pone l’avanzo o
disavanzo pubblico: se in media il disavanzo fosse mantenuto al 2,5%, allora il disavanzo
massimo consentito sarebbe chiaramente incompatibile con un’efficace politica di
stabilizzazione ciclica. Se invece in media il disavanzo fosse nullo, allora lo spazio per una
politica di stabilizzazione sarebbe senz’altro maggiore e probabilmente adeguato. Nel seguito
approfondiremo l’esame di questo punto.
VI.
PATTO DI STABILITÀ E POLITICHE DI STABILIZZAZIONE: SONO
COMPATIBILI?
Se il compito di gestire una politica fiscale di stabilizzazione8 a livello dei singoli paesi
partecipanti all'UEM è affidato alle autorità di politica fiscale nazionale, esse saranno in grado
di farlo nel rispetto dei vincoli posti dal Patto di stabilità? O tali vincoli sono troppo stretti per
consentire una gestione efficiente di tali ammortizzatori? Secondo le stime di B.Eichengreen e
C.Wiplosz (Economic Policy, 1998), se il Patto di stabilità e di crescita fosse stato in vigore
nel passato, esso avrebbe alterato in modo abbastanza significativo il sentiero della politica
fiscale: osservando il comportamento dei paesi europei a partire dal 1955, su un totale di 455
anni/paese osservati, in 186 anni il disavanzo è stato superiore al 3%: ma solo in 22 occasioni
la recessione è stata superiore allo 0,75% del PIL, e solo quattro volte è stata superiore al 2%.
Se il Patto fosse stato in vigore durante questo periodo, sicuramente la politica fiscale avrebbe
dovuto essere ben più restrittiva. In tal caso, dobbiamo concludere che avremmo osservato
recessioni ben più drammatiche e frequenti di quelle - poche in verità - che si sono
effettivamente osservate?
Poiché l'economia non è una scienza sperimentale, è difficile rispondere a questa domanda.
Tuttavia, Eichengreen e Wiplosz conducono un'analisi "controfattuale", e ne concludono che
effettivamente il Patto per la stabilità e la crescita avrebbe ridotto la funzione di
stabilizzazione della politica fiscale, ma che i costi sarebbero stati modesti - tranne che per
Riccardo Rovelli - EIE - Criteri di disciplina della politica fiscale nell'UE
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l'Italia, dove il Patto avrebbe ridotto la crescita di nove punti percentuali cumulati fra il 1975
ed il 1995, ossia quasi mezzo punto all'anno.
Bisogna osservare che queste sono probabilmente stime per eccesso. Se il patto di stabilità
fosse stato (credibilmente) in vigore negli anni precedenti l'UEM, le autorità di politica fiscale
nazionali avrebbero tenuto conto di ciò e pertanto - per consentirsi un adeguato margine di
manovra nel corso delle fasi di recessione, senza urtare contro la "barriera" del 3% avrebbero mediamente mantenuto un saldo di bilancio più vicino al pareggio di quanto non
abbiano poi fatto in realtà.
Per formulare la stessa osservazione in altri termini, chiediamoci cosa determina il costo in
termini di output perduto della politica prevista dal Patto per la stabilità e la crescita.
Essenzialmente sono due fatti:
•
La frequenza e l'intensità con la quale ciascun paese subisce shock recessivi esogeni
•
Il grado di manovrabilità della politica fiscale, nel momento in cui gli shock si
manifestano.
Il secondo punto è quello sul quale si può più facilmente agire. Se il disavanzo è tenuto in
media attorno al 3%, non ci sarà alcuno spazio per condurre politiche di stabilizzazione negli
anni di recessione. Se invece il disavanzo, negli anni favorevoli, è prossimo allo zero, allora
rimane senz'altro spazio per effettuare un'adeguata politica fiscale negli anni di recessione. In
questa prospettiva, è importante - come infatti è previsto e richiesto dal Patto di stabilità - che
il governo miri a mantenere il bilancio delle Amministrazioni Pubbliche in pareggio (o anche
in moderato surplus) nella media del ciclo economico, per poterlo all'occorrenza espandere
negli anni di crisi .
Questo consenso di fondo sul Patto di stabilità non significa d’altra parte che la formulazione
del Patto sia priva di difetti, e che la sua applicazione non possa essere migliorata da diversi
punti di vista. Fra i punti da migliorare, vi sono sicuramente i seguenti:
• Come migliorare il funzionamento e la formulazione degli stabilizzatori automatici
• Come evitare di imporre “piani di rientro”, la cui data di scadenza non tenga in conto
l’evoluzione ciclica delle economie?
8 Per politica di stabilizzazione ci riferiamo anche (e soprattutto) alle variazioni del bilancio pubblico
imputabili agli stabilizzatori automatici.
Riccardo Rovelli - EIE - Criteri di disciplina della politica fiscale nell'UE
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• Come inserire nel Patto un meccanismo di “cooperative policymaking” fra la BCE ed i
governi nazionali, che indichi a questi ultimi come adottare una politica fiscale
complessivamente convergente con gli orientamenti della politica monetaria?
Su questi punti, si veda J. von Hagen e S. Mundschenk (Swedisch Economic Policy Revieww,
2001) e la Comunicazione della Commissione Europea del 21/11/02, riportata in Appendice
2.
Critiche più radicali al Patto prevedono – al di là della sua semplice abolizione - di aumentare
la possibilità di ricorso a politiche discrezionali, oppure di escludere le spese per investimenti
netti dai criteri di stabilità. Per quanto riguarda il ricorso a politiche discrezionali, va
ribadito che le migliori regole fiscali – in condizioni normali - sono quelle automatiche, che
hanno effetti tempestivi, prevedibili e reversibili. Si tratta di qualità che mai competono alle
politiche discrezionali. Pertanto, non sarebbe opportuno assegnare alla Commissione Europea
o al Comitato Ecofin margini ulteriori di discrezionalità nel coordinamento delle politiche
nazionali discrezionali. D’altra parte, sembrerebbe ancor più paradossale – come vorrebbe
Charles Wiplosz – aumentare il margine per le decisioni discrezionali affidandole, come in
una Repubblica di Platone, ad un “Comitato di esperti indipendenti”. Sarebbe improponibile
che rappresentanti non eletti possano farsi carico di decidere, e successivamente di annullare,
impegni di spesa carichi di implicazioni redistributive, e comunque destinati ad essere attuati
in tempi non brevi attraverso iter burocratici complessi e articolati
Per quanto riguarda la proposta di riforma, avanzata da più parti, di escludere le spese per
investimenti netti dal bilancio valido ai fini del Patto di Stabilità, essa incontra un’ obiezione
tradizionale – come definire esattamente gli investimenti netti? – alla quale se ne affiancano a
mio parere altre due: (1) questa proposta non è di alcun aiuto al fine di gestire in modo
coordinato l’impatto della politica fiscale sulla domanda aggregata; (2) nonostante le buone
intenzioni, essa rischia di avere effetti opposti a quanto desiderato: infatti, come si può evitare
che essa incentivi i governi a finanziare con debito anche le attuali spese in conto capitale,
aumentando così lo spazio per finanziare con il gettito fiscale la spesa pubblica corrente?
Riccardo Rovelli - EIE - Criteri di disciplina della politica fiscale nell'UE
15
VII. I PIANI DI RIENTRO DEL DEBITO: SIMULAZIONE
In Italia, il debito pubblico è esploso (nel dopoguerra) a partire dagli anni 70, in conseguenza
degli elevati disavanzi del bilancio pubblico in quegli anni: dal 1980 al 1996 il debito è salito
dal 45,3 al 125% del PIL. In Europa, solo il Belgio ha una situazione analoga. Tuttavia, le
preoccupazioni sull’andamento della politica fiscale non si limitano a questi due paesi. La
Tabella 1 presenta alcuni dati sulla convergenza del rapporto Debito / PIL per i paesi
appartenenti all’UE (distinti nel gruppo UEM e non-UEM):
Tabella 1
DEBITO/PIL
1991
1994
1997
Austria
58,7
65,4
66,1
Belgio
129,4
133,5
122,2
Finlandia
23,0
59,6
55,8
Francia
35,8
48,2
58,0
Germania
41,5
50,2
61,3
Irlanda
95,0
89,1
67,0
Italia
101,4
124,9
121,6
Lussemburgo
4,2
5,7
6,7
Olanda
78,8
77,9
72,3
Portogallo
71,1
63,8
62,0
Spagna
45,8
62,5
68,3
Danimarca
64,6
78,4
64,1
UK
35,7
52,9
53,4
Grecia
92,3
109,3
108,7
Svezia
53,0
79,3
76,6
Riccardo Rovelli - EIE - Criteri di disciplina della politica fiscale nell'UE
16
Come si vede, non c’è stata in realtà (con l’eccezione dell’Irlanda) alcuna convergenza
(mentre c’è stata per tutti gli altri indicatori di Maastricht): 7 paesi erano sopra il 60% nel
1991, 10 nel 1994, 11 nel 1997.
Ad ogni modo, nel maggio del 1998 l’Italia e altri dieci paesi sono stati ammessi nel numero
dei primi paesi partecipanti all’Unione Economica e Monetaria europea (UEM). Per l’Italia
ed il Belgio è stato un esame di ammissione lungo e difficile. Per essere ammessi i due paesi,
ed in particolare l’Italia, hanno dovuto impegnarsi ad una politica fiscale molto restrittiva per
gli anni a venire, assicurando in tal modo una graduale discesa del rapporto fra debito
pubblico e PIL.
Ma come si fa a calcolare l’evoluzione nel tempo di tale rapporto? Sappiamo che, sotto alcune
ipotesi semplificatrici, possiamo scrivere:
∆b =
(2.b)
(1 + i ) − (1 + π) (1 + g )
b −1 − a
(1 + π) (1 + g )
Ora cerchiamo di misurare quest’espressione per l’Italia. Prendiamo ad esempio il 1997, anno
nel quale si è iniziata a concretizzare la "politica di rientro" dell'Italia (vedi la Tabella 2):
Tabella 2
1997
% del PIL
Entrate
Spese totali
Interessi
Saldo
totali
escl.interessi
Passivi
primario
48,8
42,0
9,5
6,8
Saldo
Debito alla
complessivo fine del 1996
-2,7
124,0
Il costo del debito nel 1997 è stato pari al 9.5% del PIL: questo corrisponde, nei nostri
simboli, a: ib-1. Pertanto il costo unitario del debito (in rapporto al rapporto debito/PIL
iniziale) è:
i = 9,5% / 124,6% = 7,62%.
Il tasso di crescita del PIL nominale è stato del 4,54%. Pertanto:
(1 + i) − (1 + π) (1 + g)
1,0762−1,0454
b−1 =
1,246= 0,0367= 3,67% .
(1 + π) (1+ g)
1,0454
Sostituiamo questo valore nell’espressione (2.b) e otteniamo:
Riccardo Rovelli - EIE - Criteri di disciplina della politica fiscale nell'UE
17
∆b = 0,037 + 0,420 - 0,488= - 0,031 = - 3,1%
ossia il rapporto debito/PIL nel corso del 1997 è diminuito del 3,1%. Questo approssima bene
quanto è avvenuto: in effetti alla fine del 1997 il rapporto debito/PIL ha raggiunto il 121,6 %.
Il debito appariva quindi avviato sul sentiero del “rientro”. Possiamo valutare questo sentiero
in modo più preciso, se formuliamo delle ipotesi sull’evoluzione futura delle variabili
rilevanti. Prendiamo le ipotesi prospettate nel Decreto di Programmazione Economica e
Finanziaria (DPEF), presentato dal Governo e approvato dal Parlamento nel maggio 1998.
Perciò assumiamo:
•
avanzo primario / PIL = a = 5,5 % dal 1998 in avanti;
•
spesa per interessi / PIL = i b-1 : pari all’8% nel 1998; poi in diminuzione di 0,5% ogni
anno fino al 2001; da quel momento il tasso d’interesse rimane costante, e la spesa
diminuisce solo in proporzione alla riduzione del debito;
•
tasso di crescita del PIL nominale = (1+π) (1+g) -1 ≈ π + g = 4,54% per tutto il periodo.
In base a tali ipotesi, il DPEF si proponeva di raggiungere l’obiettivo di un rapporto debito /
PIL pari al 100 % alla fine del 2003.
Immettiamo le prime tre ipotesi in uno schema di calcolo basato sull’equazione (2).9 La
Tabella 3 riproduce lo stato iniziale del file: come si vede dalla prima colonna, anche il nostro
calcolo conferma che il debito avrebbe dovuto essere inferiore al 100% del PIL alla fine del
2003, ed inferiore al 60% nel 2012.
Rispetto alla possibilità di raggiungere effettivamente questi obiettivi, sin dall’inizio erano
stati sollevati due ordini di dubbi:
•
Le variabili esogene (i, π, g) avrebbero effettivamente seguito lo scenario previsto?
•
Sarebbe stato politicamente sostenibile, dopo il 2005 ed il previsto annullamento del
fabbisogno complessivo, mantenere ancora invariati i parametri della politica fiscale?
Come giustificare politicamente il perseguimento, da quest’anno in poi, di sistematici
avanzi complessivi? La risposta a questi dubbi varierà, naturalmente, a seconda che la
disciplina fiscale abbia, fra il 1998 ed il 2005, generato principalmente benefici o costi
macroeconomici.
9
Questo file è PF-RIENTRO.XLS
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Tabella 3
Per memoria
Anno
b(t) =
G/Y
T/Y
(B/Y)-1 ⋅ [(1+i) - (g+π) ]
ibt-1
Fabbisogno
.
1997
1,216
0,420
-0,488
1,246
1,076
-0,0454
0,095
0,027
1998
1,186
0,420
-0,475
1,216
1,066
-0,0454
0,080
0,025
1999
1,152
0,420
-0,475
1,186
1,063
-0,0454
0,075
0,020
2000
1,115
0,420
-0,475
1,152
1,061
-0,0454
0,070
0,015
2001
1,074
0,420
-0,475
1,115
1,058
-0,0454
0,065
0,010
2002
1,032
0,420
-0,475
1,074
1,058
-0,0454
0,062
0,007
2003
0,990
0,420
-0,475
1,032
1,058
-0,0454
0,060
0,005
2004
0,948
0,420
-0,475
0,990
1,058
-0,0454
0,057
0,002
2005
0,905
0,420
-0,475
0,948
1,058
-0,0454
0,055
-0,000
2006
0,861
0,420
-0,475
0,905
1,058
-0,0454
0,052
-0,003
2007
0,817
0,420
-0,475
0,861
1,058
-0,0454
0,050
-0,005
2008
0,772
0,420
-0,475
0,817
1,058
-0,0454
0,047
-0,008
2009
0,727
0,420
-0,475
0,772
1,058
-0,0454
0,045
-0,010
2010
0,681
0,420
-0,475
0,727
1,058
-0,0454
0,042
-0,013
2011
0,635
0,420
-0,475
0,681
1,058
-0,0454
0,040
-0,015
2012
0,588
0,420
-0,475
0,635
1,058
-0,0454
0,037
-0,018
2013
0,540
0,420
-0,475
0,588
1,058
-0,0454
0,034
-0,021
2014
0,492
0,420
-0,475
0,540
1,058
-0,0454
0,031
-0,024
Come esercizio, realizzeremo in classe un aggiornamento di questa tabella, confrontandola
con i dati relativi al periodo intercorso dal 1998 alla data di lezione, riferiti all’evoluzione sia
dei dati assunti come esogeni nello scenario, che alle variabili di politica fiscale.
Riccardo Rovelli - EIE - Criteri di disciplina della politica fiscale nell'UE
19
VII. I COSTI MACROECONOMICI DELLA DISCIPLINA FISCALE
Un “piano di rientro” del debito implica di necessità una politica fiscale restrittiva. In uno
schema keynesiano tradizionale (IS-LM), una contrazione fiscale è sempre recessiva. Questo
è vero anche nel semplice schema formale che abbiamo seguito finora, dove l’output gap
(ovvero la curva IS) è espresso dalla relazione:
x t = y t − y*t = a − α (i t − π at ) + η f t + e 2, t
Questo modo di ragionare è generalmente appropriato quando abbiamo a che fare con
condizioni di finanza pubblica "fisiologiche", che possiamo riassumere con: (i) il bilancio
pubblico è in media costante e non troppo lontano dal pareggio; (ii) disavanzi eventualmente
superiori alla media degli anni precedenti sono di natura chiaramente occasionale e non
troppo persistente; (iii) il debito pubblico non è troppo elevato e rimane stazionario nel
tempo.
Di recente, alcuni economisti hanno osservato che, in alcuni casi, contrazioni fiscali anche
notevoli sono stati seguiti da una fase di espansione del reddito e della domanda aggregata.
Come e quando si produce questo risultato inusuale?
Secondo A. Alesina e S. Ardagna (“Tales of Fiscal Adjustment”, Economic Policy, No. 27,
1998, pp. 489-545) ci sono due meccanismi al lavoro dal lato della domanda:
•
Effetto ricchezza sul consumo, dovuto alla minore incidenza attesa delle imposte sui
redditi futuri. Si può mostrare che tale effetto è più probabile, se più elevato è il livello
iniziale del debito.
•
Effetto credibilità sui tassi d’interesse. Anche questo effetto è più forte, se il livello
iniziale del debito è più alto.
E due dal lato dell’offerta:
•
Effetto “neoclassico” sull’offerta di lavoro (assai incerto): Se un taglio permanente alle
imposte sul reddito genera un effetto sostituzione (= incentivo a lavorare di più) maggiore
dell’effetto reddito (= incentivo a lavorare di meno per godersi il maggior reddito), allora
l’offerta di lavoro aumenterà.
Riccardo Rovelli - EIE - Criteri di disciplina della politica fiscale nell'UE
•
20
Se il mercato del lavoro non è competitivo, ma è dominato dalla contrattazione sindacale,
gli effetti sull’occupazione possono essere più rilevanti: una riduzione delle imposte attese
può indurre ad una consistente moderazione salariale da parte dei sindacati..
Alesina e Ardagna esaminano 51 casi di consolidamenti fiscali nei paesi OCSE dal 1960 al
1994. La loro conclusione è che effetti espansivi di un consolidamento fiscale sono tanto più
probabili quando il debito è elevato, quando il consolidamento è attuato con una riduzione
della spesa, non con un aumento delle imposte. E se è accompagnato da un atteggiamento di
moderazione salariale e da una svalutazione: quest’ultima naturalmente non è più un’opzione
(almeno individuale) per i paesi dell’UEM.
Conclusioni dello stesso tenore, riferite ai paesi europei, si ricavano dai lavori di P. Caselli e
R. Rinaldi (“La politica fiscale nei paesi dell’Unione europea negli anni novanta”, Banca
d’Italia, Temi di Discussione, No. 334, 1998) e A. Zaghini (“The economic policy of fiscal
consolidations: the European experience”, Banca d’Italia, Temi di discussione no.355, 1999).
In particolare Zaghini esamina 49 aggiustamenti fiscali in Europa fra il 1970 e il 1998. Fra
questi, gli aggiustamenti che hanno avuto successo (ossia, sono stati seguiti da una riduzione
di debito rimasta ancora significativa alcuni anni dopo la manovra di aggiustamento) sono 12;
sono stati caratterizzati da tagli alle spese (trasferimenti, salari pubblici, spese previdenziali)
piuttosto che da tagli alle imposte, e sono stati seguiti da espansioni (non inflazionistiche)
della domanda aggregata. Al contrario gli aggiustamenti che non hanno avuto successo (dal
punto di vista della finanza pubblica) sono anche quelli che – seppure di minore dimensione
in rapporto al PIL - hanno avuto durata mediamente più breve e sono stati posti in atto
attraverso aumenti delle imposte e/o riduzioni delle spese per investimenti pubblici, ma sono
stati più frequentemente caratterizzati da effetti recessivi.
Una critica all’impostazione di Zaghini è che probabilmente in alcuni casi gli aggiustamenti
“che non hanno avuto successo” non si proponevano neppure di averlo, trattandosi di semplici
manovre orientate alla stabilizzazione di breve periodo (senza che vi fosse una situazione di
emergenza dal lato del debito pubblico). Questo tuttavia suggerisce – come osserva lo stesso
Zaghini – che ci possano essere in realtà due diversi regimi di efficacia della politica fiscale:
1. Il regime “normale” (keynesiano) opera quando sia il disavanzo che il debito pubblico
sono sotto controllo: in tal caso una contrazione fiscale ha effetti convenzionalmente
riduttivi della domanda aggregata.
Riccardo Rovelli - EIE - Criteri di disciplina della politica fiscale nell'UE
21
2. Il secondo regime può diventare operante dopo che, per un certo periodo, la dinamica
del disavanzo e del debito pubblico è apparsa fuori controllo o comunque eccessiva:
in tal caso una consistente e persistente riduzione delle spese pubbliche segnala
credibilmente che (quando i parametri fiscali saranno ricondotti a normalità) sarà
possibile ridurre stabilmente le imposte: questo genera un effetto ricchezza positivo
nel comportamento del settore privato, e quindi una maggiore domanda di
investimenti e consumi.
Riccardo Rovelli - EIE - Criteri di disciplina della politica fiscale nell'UE
22
APPENDICE 1:
VINCOLO DI BILANCIO DEL SETTORE PUBBLICO, DECISIONI DI CONSUMO ED IL DIBATTITO
SULL’IPOTESI
RICARDIANA
Per poter meglio analizzare meglio gli effetti delle manovre di politica fiscale sulle decisioni
di spesa e di risparmio, è necessario conoscere gli effetti di tale decisioni sul vincolo di
bilancio dei consumatori. In generale ci aspettiamo che la riduzione dei consumi privati, C ,
in seguito ad un aumento delle imposte, T, sia più o meno marcata, a seconda che la
variazione delle imposte sia temporanea oppure persistente.
Ma cosa si intende per una riduzione persistente delle imposte? Come può avvenire? E come
possono i consumatori decidere se una variazione delle imposte correnti sarà in effetti
temporanea o persistente?
Per rispondere, dobbiamo analizzare il vincolo di bilancio del settore pubblico, e poi ancora
quello dei consumatori.
Definisco Bi
debito pubblico in essere alla fine del generico periodo i , e Gi e Ti
rispettivamente la spesa pubblica e le imposte nel corso di tale periodo. Supponiamo che il
debito iniziale sia nullo, B0 = 0, e – solo per semplificare la notazione – che non vi sia
inflazione. Possiamo esprimere la sequenza del debito pubblico nei periodi successivi con le
seguenti espressioni (dove tutte le variabili sono a prezzi correnti, e r è il tasso d’interesse
sia nominale che reale (coincidono data l’ipotesi che non vi è inflazione):
B1 = G1 - T1
,
B2 = G2 -T2 + (1+r)B1
,
... ,
Bt = Gt - Tt + (1+r)Bt-1
Naturalmente (come abbiamo argomentato più volte in precedenza) il debito non può essere
continuamente rifinanziato. Ad un certo punto dovrà essere rimborsato. Questa constatazione
ha delle implicazioni molto importanti, che analizziamo nel semplice modello che segue.
Un semplice modello a due periodi. Un modo molto semplice per analizzare da un punto di
vista qualitativo il problema del rimborso del debito, è di supporre che l’intera sequenza
temporale si divida in due soli periodi, e che alla fine del secondo il debito debba essere
rimborsato. Ossia:
Riccardo Rovelli - EIE - Criteri di disciplina della politica fiscale nell'UE
23
B1 = G1 - T1
T2 = G2 + (1+r)B1 , con B2 = 0.
Sostituendo la prima espressione nella seconda, si ha: T2 = G2 + (1+r)(G1- T1), ossia:
T1 +
(A.1)
1
1
T2 = G1 +
G
1+ r
1+ r 2
Quest’espressione esprime il vincolo di bilancio intertemporale del settore pubblico. Essa ci
dice che il valore attuale delle imposte correnti e future è uguale al valore attuale della spesa
pubblica (non per interessi) corrente e futura.
Dall’esame del vincolo di bilancio è facile rendersi conto delle seguenti proposizioni (che
valgono indipendentemente dal numero di periodi entro il quale il debito viene rimborsato,
purché esso venga rimborsato con certezza):
1. A parità di spesa pubblica corrente e futura, una riduzione delle imposte correnti implica
un aumento di pari valore attuale delle imposte future
2. Una riduzione delle imposte correnti a parità di imposte future richiede una riduzione di
pari valore attuale della spesa pubblica corrente o futura.
Per valutare l’importanza di queste affermazioni per la teoria del consumo, prendiamo in
esame il vincolo di bilancio del consumatore. Indichiamo con Y il reddito da lavoro prima
delle imposte, e supponiamo per semplicità che la ricchezza iniziale dei consumatori sia nulla:
C1 +
(A.2)
C2
= ( Y1 − T1 ) +
1+ r
Y2 − T2
1+ r
Y  
T 

=  Y1 + 2  −  T1 + 2 

1 + r 
1 + r
Quest’espressione mostra che il valore attuale delle spese per consumi è uguale al valore
attuale dei redditi disponibili, ossia al valore attuale del reddito lordo da lavoro meno il valore
attuale delle imposte future.
Posso sostituire la (A.1) nella (A.2):
(A.3)
C1 +
C2 
Y  
G 
=  Y1 + 2  −  G1 + 2 
1+ r 
1 + r 
1 + r
Riccardo Rovelli - EIE - Criteri di disciplina della politica fiscale nell'UE
24
e osservo che, nell’espressione (A.3), le imposte non compaiono: questo riflette un fatto
molto importante: l’onere delle imposte per il consumatore è dato dal valore attuale della
spesa pubblica da finanziare, non dal particolare sentiero temporale delle imposte.
Discussione. La conclusione appena raggiunta (così come le due proposizioni precedenti,
dalle quale essa deriva) illustra la teoria ricardiana10 del debito pubblico.
Un’altra implicazione di questa teoria è che il debito pubblico non costituisce una ricchezza
netta per i consumatori, in quanto il valore corrente del debito pubblico, più il valore attuale
della spesa pubblica, è esattamente uguale al valore attuale delle imposte future.
Le principali implicazioni di politica economica di quest’approccio sono due:
•
un aumento (o riduzione) delle imposte correnti non ha, di per sé (ossia, lasciando
invariato il valore attuale della spesa pubblica prevista) alcun effetto restrittivo (o
espansivo) sulla domanda aggregata corrente
•
la previsione di una diminuzione della spesa pubblica in tutti i periodi futuri ha un effetto
espansivo sulla domanda aggregata corrente.
Queste affermazioni capovolgono la teoria tradizionale (o keynesiana) del debito pubblico e
della politica fiscale. Ma sono implicazioni empiricamente valide?
Ci sono tre tipi di situazioni, nelle quali l’approccio ricardiano non vale:
1. I consumatori sono “miopi”, o meglio non sono in grado di valutare il vincolo
intertemporale di bilancio del settore pubblico.
2. I consumatori sono “razionati”. In base al modello di consumo ottimale, desidererebbero
consumare di più del reddito corrente, ma non ottengono il credito necessario. In questo
caso, una riduzione delle imposte correnti consente di consumare di più oggi: è come se lo
stato si indebitasse (rinunciando alle imposte oggi) per conto dei consumatori.
3. I consumatori hanno un orizzonte limitato: meno tasse oggi significano più tasse domani,
ma non è detto che sia io a doverle pagare. (Contro questo argomento, però, vale l’ipotesi
che l’utilità dei genitori include il benessere dei propri discendenti).
10 Poiché David Ricardo aveva esaminato tale teoria soprattutto per esprimere dubbi sulla sua validità,
sarebbe più corretto usare il termine di teoria neo-ricardiana.
Riccardo Rovelli - EIE - Criteri di disciplina della politica fiscale nell'UE
25
Queste obiezioni alla teoria della neutralità ricardiana sono rilevanti. Ma non contraddicono
del tutto la validità della teoria. Piuttosto, ci suggeriscono che teorie diverse debbono valere
in situazioni diverse:
•
La teoria ricardiana più probabilmente vale in un’economia avanzata, con mercati
finanziari sviluppati, e in situazioni abbastanza vicine alla piena occupazione.
•
La teoria tradizionale più probabilmente vale in un’economia con una struttura finanziaria
primitiva o eccessivamente regolamentata, o nella quale vi sia stata, per motivi esogeni,
una caduta rilevante ed imprevista della domanda aggregata (ad esempio, un crollo
imprevisto delle esportazioni). In queste situazioni, una riduzione anche solo temporanea
delle imposte, o un aumento della spesa pubblica corrente finanziato l’emissione di
debito, possono ancora aiutare l’economia ad uscire dalle secche di una recessione.
Le pensioni sono ricchezza?
Oltre al debito pubblico apparente (i titoli di Stato già emessi), vi è un debito pubblico
nascosto: la differenza fra il valore attuale delle pensioni pubbliche, ed il valore attuale dei
contributi pagati al sistema pensionistico pubblico. Le stime del debito pubblico previdenziale
sono incerte, ma comunque elevate. In teoria, si potrebbe farvi fronte con un aumento dei
contributi pensionistici a carico dei lavoratori negli anni a venire, ma le aliquote contributive
(già elevate adesso) diventerebbero proibitive. Allora, forse le pensioni promesse non
verranno interamente erogate? Se questa è un’eventualità possibile, dovrebbe essere riflessa
dal comportamento dei consumatori: se le pensioni future diventano incerte, a parità di altri
fattori bisognerà risparmiare di più oggi. Quindi, la crisi del sistema pensionistico pubblico
dovrebbe tradursi in un aumento della propensione al risparmio.