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Unità 5 (secondo tema generale)
La dissoluzione dell’io nel romanzo moderno (Pirandello e Svevo). L’identità compromessa: dalla
paralisi (l’inetto) al riscatto (la follia)
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In sintesi
Il Decadentismo e la crisi del Positivismo: a) Languore di Verlaine e la nuova sensibilità decadente;
b) le radici filosofiche e scientifiche della crisi del Positivismo.
La poetica del Simbolismo francese (Baudelaire, Verlaine e Rimbaud) alla base della poesia
decadente: il poeta-fanciullino di Pascoli e il poeta-veggente di Rimbaud.
Il volto e la voce ambigua della natura nella poesia dei sue massimi esponenti del Decadentismo
italiano: Pascoli e D’Annunzio.
- G. Pascoli: a) la prefazione di Myricae; b) analisi delle poesie Gloria, Arano, Lavandare,
Novembre, Il Lampo, L’assiuolo.
- G. D’Annunzio: La pioggia nel pineto, La sabbia del Tempo, Nella belletta, Le stirpi canore
La prima tappa della dissoluzione del romanzo naturalista e verista: il romanzo spiritualista ed
estetizzante (J. K. Huysmans, O. Wilde e G. D’Annunzio).
Recap per esteso del secondo tema generale fino all’unità 4
a) Il Decadentismo e la crisi del Positivismo
La radice comune alla base del Decadentismo, un complesso fenomeno artistico-letterario e
insieme una sensibilità profondamente critica che pervade la cultura di fine Ottocento e inizi
Novecento, è il rifiuto delle certezze e della visione granitica e ottimistica del reale, basata sulla
fede nella scienza, propria del Positivismo. Come abbiamo visto, tale rifiuto scaturisce da una
mutata percezione del reale che è in primo luogo di natura filosofica e insieme scientifica: chi
comincia a smontare la solida impalcatura ideologica del Positivismo, rivelandone l’orizzonte
limitato e deterministico, è la filosofia dissacrante di Nietzsche, alla quale danno man forte, per
così dire la scoperta dell’inconscio da parte di Freud, la nuova concezione del tempo come durata
elaborata da Bergson e soprattutto la teoria della relatività ristretta e la rivoluzione della
concezione dello spazio-tempo di A. Einstein.
Anche in questo caso, come abbiamo già visto nell’analisi e nella discussione del primo
tema generale, l’arte e la letteratura, in sintonia con la filosofia e la scienza, intercettano i segni
della crisi, le “crepe” nell’impalcatura apparentemente solida dell’ideologia positivista, iniziando
a porre in discussione i fondamenti del Naturalismo e del Verismo e in più in generale di un’arte
– quella del secondo Ottocento – che, fatta eccezione per Baudelaire - presenta una marcata
impronta realista, pervasa, per così dire, dall’ossessione del “vero”. “Vero” è non caso una parola
chiave che accomuna, per es., gli Scapigliati (basti pensare all’ultima strofa di Preludio di E. Praga)
e la narrativa verista di Verga. Tanto Zola, quanto Verga muovono dal presupposto che l’arte – in
questo caso la letteratura – possa fornire un’immagine completa ed esaustiva della realtà in tutte
le sue sfaccettature; ambedue sono convinti pertanto – e proprio in questo si avverte l’influsso
potente dell’ideologia positivista – che tutto il reale si possa abbracciare in un’unica prospettiva.
Essi hanno cioè una visione positiva, monolitica e granitica della realtà che non cela alcun mistero
che la scienza, compresa quella del cuore come direbbe Verga, non possa indagare. Ebbene, il
Decadentismo si appunta proprio su questa pretesa di poter esaurire attraverso l’arte e la
letteratura la rappresentazione della realtà nella sua totalità; in verità c’è sempre qualcosa che
sfugge all’occhio umano, anche il più avvertito; c’è sempre un mistero che si annida nelle pieghe
della natura che la scienza pretende di scandagliare e di possedere.
b) La poesia decadente di Pascoli e D’Annunzio: il rapporto con il Simbolismo francese e la
tensione continua tra innovazione e tradizione.
La visione relativa, sfuggente e contraddittoria del reale filtrata attraverso l’inconscio
(pensa all’Urlo di Munch) trova espressione anche nella produzione lirica di G. Pascoli (18551912) e di G. D’Annunzio (1863-1938) che la critica considera in maniera unanime i due massimi
esponenti del Decadentismo in Italia. Ai due poeti va innanzitutto riconosciuto il merito di aver
traghettato la letteratura italiana dal XIX al XX secolo: mediando tra il vecchio (la lirica
ottocentesca tardo romantica esemplificata da G. Carducci) e il nuovo (l’influsso delle poetiche
simboliste e della filosofia di Nietzsche), essi esauriscono una tradizione letteraria consolidata
aprendo le porte, per così dire, al Novecento. Gli elementi di innovazioni che essi introducono
nell’impianto tradizionale della lirica italiano riguardano sia il contenuto che la forma:
1) sul piano dei temi e dei contenuti, per ambedue i poeti, gli elementi del paesaggio naturale o
campestre non sono solo cose reali, ma anche, e anzi soprattutto, dei simboli. Pascoli si spinge
oltre le apparenze e, attraverso la sua sensibilità esasperata e inquieta, ritrova nella natura una
serie di simboli nascosti che trasmettono un messaggio di morte. Anche in D’Annunzio, proprio in
virtù dell’approccio simbolico con la realtà (che è, per dirla con Baudelaire, una foresta di simboli),
la natura non esiste di per sé, ma in quanto il poeta ne è parte e stabilisce con essa un rapporto di
scambio continuo e di reciproca identificazione, che si compie attraverso l’estasi panica (La pioggia
nel pineto, Meriggio); In ambedue i poeti, pur in forme diverse, si registra la volontà di un contatto
profondo con la natura che si spinge oltre le apparenze attraverso uno sguardo attento ai simboli;
2) per quel che riguarda la veste formale, numerosi e importanti sono gli apporti innovativi che i
due poeti introducono nella tradizione lirica italiana, apporti che costituiscono il primo atto, per
così dire, di un processo di “disintegrazione” o di esaurimento che avverrà con le avanguardie
del Novecento, con Montale e con Ungaretti. Li riproponiamo in estrema sintesi: a) il verso libero
(D’Annunzio) e più in generale una certa libertà nell’uso degli schemi metrici tradizionali (per es.
Pascoli usa la terzina incatenata del poema dantesco per raccontare l’umile vicenda dei migranti
che tornano al nido [in Italy]); b) l’assoluta predominanza della paratassi e il rifiuto del discorso
logico gerarchicamente ordinato; c) l’apertura del lessico tradizionale (monolinguistico) a sfere del
reale finora escluse (i termini tecnici del lavoro dei campi e della botanica in Pascoli, la precisione
botanica di D’Annunzio); d) l’insistenza sulla potenzialità musicale della parola poetica e sul
fonosimbolismo.
c) La dissoluzione del romanzo naturalista e verista: il romanzo spiritualista-estetizzante
All’innovazione del linguaggio e temi della poesia corrisponde, tra la fine dell’Ottocento e i primi
del Novecento, la trasformazione progressiva del genere del romanzo che porta, con Pirandello e
Svevo (primi del Novecento), al superamento definitivo delle forme narrative del romanzo
ottocentesco, dal realismo romantico al Naturalismo-Verismo degli anni ’80 dell’Ottocento.
La prima tappa della trasformazione del genere del romanzo è costituita dal romanzo
spiritualista-estetizzante di fine Ottocento, che rifiuta le poetiche veriste e naturaliste, in
particolare il canone dell’oggettività, privilegiando la soggettività, l’io in una chiave molto diversa e
più problematica (decadente) rispetto al Romanticismo. A tal proposito non si parla più di
romanzo naturalista o verista, ma spiritualista ed estetizzante: la prima caratteristica si spiega alla
luce dell’attenzione quasi esclusiva sull’analisi della vita interiore dell’io, sull’introspezione
psicologica di un’anima turbata e complessa; la seconda è legata al protagonista – spesso
personaggio unico – della vicenda narrata (se di “vicenda narrata” si può parlare), l’esteta, cioè
colui che vive nel culto assoluto della bellezza, ponendo i valori estetici (della bellezza appunto) al
vertice della vita spirituale, arrivando a considerare la vita stessa come ricerca e culto del bello.
Dopo aver analizzato la prefazione della seconda edizione di A rebour in cui l’autore, K.J.
Huysmans prende definitivamente le distanze dai suo trascorsi di scrittore naturalista accusando
Zola e seguaci di aver trascurato “l’anima” a scapito della precisione maniacale nella ricostruzione
degli ambienti sociali, ci siamo soffermati su alcuni passi significativi tratti dai romanzi che meglio
rappresentano il genere in questione: di nuovo A rebour di J.K. Huysmans, Il ritratto di Dorian Gray
di O. Wilde e l’incipit de Il piacere di G. D’Annunzio.
Sotto quali aspetti nei romanzi che abbiamo considerato entra definitivamente in crisi il
modello narrativo ottocentesco del Naturalismo e del Verismo?
a) in primo luogo per l’attenzione esclusiva per i “turbamenti” dell’anima: il romanzo spiritualista
ed estetizzante recupera dunque il soggettivismo romantico (la centralità dei sentimenti e dei
turbamenti dell’io) in una prospettiva moderna che, con le sue contraddizioni estreme anticipa la
dissoluzione dell’individuo a cui assisteremo nei romanzi di Svevo e di Pirandello;
b) questo mutamento di prospettiva, piuttosto radicale, dal vero oggettivo alla soggettività
problematica, comporta – e siamo al secondo aspetto – l’introduzione di una serie di novità
formali e di contenuto:
1) l’interesse per l’intreccio (la costruzione della storia) passa in secondo piano, e così pure la
volontà di ricostruire un determinato scenario storico e sociale; prevale invece l’analisi del mondo
interiore di un singolo personaggio; alla narrazione dei fatti si sostituisce la registrazione di
impressioni, di moti interiori e stati d’animo;
2) l’attenzione si concentra in genere su un singolo personaggio, la cui vita interiore viene
analizzata a prescindere dal contesto sociale;
3) l’intera vicenda è spesso orientata secondo il punto di vista soggettivo del protagonista;
4) le tematiche non sono più legate alla rappresentazione oggettiva e allo studio scientifico della
realtà, ma sono ispirate all’irrazionalismo e all’estetismo decadente.
Infine, la figura dell’esteta che campeggia nei romanzi che abbiamo considerato, anticipa quella
dell’inetto, protagonista dei tre romanzi di I. Svevo e di tante novelle, nonché dei principali
romanzi di L. Pirandello. L’inetto (dal latino ineptus = in (non) + aptus (adatto, capace)) è in
estrema sintesi colui che, pur prefiggendosi obiettivi ambiziosi (di cambiamento radicale, di
affermazione di sé nella società), non è in grado di realizzarli pienamente e di affrontare le
difficoltà della vita in modo serio e costruttivo. Se prendiamo in considerazione il profilo sociale e
psicologico dei protagonisti dei romanzi di Huysmans, Wilde e D’Annunzio di cui ci siamo
brevemente occupati, ci accorgiamo che essi, pur perseguendo l’ideale aristocratico di coltivare la
bellezza e il piacere del bello contro la volgarità del presente a prescindere da ogni remora di tipo
morale, non riescono a realizzare fino in fondo tale ambizione: a) Des Esseintes (protagonista di
A rebour di Huysmans), malato di nevrosi (la cui causa è proprio la solitudine del ritiro volontario
dalla vita mondana di Parigi) e afflitto da allucinazioni sempre più frequenti, decide di tornare nel
mondo banale e volgare da cui era fuggito: il suo sogno di costruire un mondo alternativo a quello
presente fallisce miseramente, perché anche la bellezza artistica non riesce a colmare il suo vuoto
interiore; b) l’ideale di Dorian Gray (protagonista de Il ritratto di D. Gray) – sfuggire al
decadimento fisico e preservare intatta la giovinezza – ha un esito tragico, che definisce
l’impossibilità per l’uomo di condurre un’esistenza fondata sulla ricerca della perfezione estetica. Il
desiderio di privilegiare la bellezza fisica sacrificando ogni principio etico e ogni valore morale è
destinato a fallire; c) infine A. Sperelli (protagonista de Il piacere di D’Annunzio), mettendo in atto
l’insegnamento paterno della menzogna e della finzione per conseguire il massimo piacere dalla
vita, ma non avendo la stessa forza di volontà del padre, finisce per mentire a se stesso (finge
quello che non è; crede di amare una donna, ma in realtà è innamorato di un’altra) arrivando a
una forma di alienazione (non si riconosce più) che lo porta alla stasi, all’impossibilità di agire, a
non realizzare alcuno degli obiettivi ambiziosi che si è prefissato.
d) La dissoluzione dell’io nel romanzo moderno (Pirandello e Svevo). L’identità compromessa:
dalla paralisi (l’inetto) al riscatto (la follia)
Se c’è un fil rouge che attraversa l’opera di Pirandello (romanzi, novelle e drammi teatrali)
e di Italo Svevo (per lo più autore di romanzi e racconti), questo è senza ombra di dubbio la
riflessione sul dissidio dirompente e molto spesso irrisolto tra la vita (l’espressione libera di sé a
prescindere dal rispetto delle norme sociali e morali, dalle convenzioni del sistema borghese) e la
forma (l’insieme delle norme e delle convenzioni che regolano la vita sociale degli uomini dalla
famiglia all’ambiente di lavoro ecc.).
Ciò che accomuna i personaggi di Pirandello e di Svevo è un malessere profondo che
affonda le sue radici nella percezione dolorosa di una realtà sfuggente, disgregata, priva di punti
fermi e di certezze, nella coscienza che la vita è una specie di puzzle che non si può ricomporre. Il
relativismo assoluto che sta alla base di tale smarrimento investe due piani: il primo è la relazione
dell’individuo con la società e con la realtà (lo spazio, il tempo), il secondo è il rapporto dell’io con
la propria interiorità:
a) da una parte infatti il personaggio–tipo dei romanzi e delle novelle di Pirandello e di
Svevo intuisce la vacuità e l’inconsistenza delle norme e critica l’ipocrisia dei rapporti familiari e
sociali in genere, perché fondati su valori, su punti fermi e certezze che non esistono più; si sente
“stretto” in una maschera – quella della identità o meglio delle identità imposte dal vivere sociale che non gli appartiene e che gli impedisce di esprimere appieno se stesso, la propria pulsante
vitalità. Il personaggio entra dunque in conflitto con la società e prova a ribellarsi, spesso senza
arrivare a costruire un modello di vita veramente alternativo (la figura dell’inetto);
b) dall’altro il personaggio-tipo di cui abbiamo parlato capisce, per dirla con Pirandello, che
la vita “è una triste buffoneria” o “pupazzata” (cioè uno spettacolo di burattini), perché ciascuno
di noi, per poter vivere nella società, interpreta più parti, indossa una serie di maschere, ovvero le
“forme” che imbrigliano la vitalità inespressa e confusa dell’io in strutture rigide; per una ragione
oscura- nel caso di Pirandello - tendiamo a ingannare noi stessi e gli altri costruendoci realtà fittizie
o maschere ogni volta diverse a seconda dei contesti e delle persone; sempre per una ragione
oscura, che solo la psicanalisi può mettere a nudo ma fino a un certo punto – e siamo a Svevo –
mentiamo continuamente a noi stessi, ci illudiamo di essere guidati dalla volontà e dalla ragione
nelle nostre scelte, e poi scopriamo che non è così, che a guidarci è stato un impulso recondito e
primordiale che giace nella parte più riposta del nostro io, della nostra coscienza divisa e
frammentata.
La coscienza della tragica problematicità della realtà esteriore (rapporti sociali, identità
sociale) e interiore (l’io, la coscienza) e la critica più o meno corrosiva nei confronti
dell’inconsistenza delle norme e delle certezze del sistema di valori tradizionale (borghese,
ottocentesco) innescano un processo di “messa in discussione” di sé e del reale che porta –
volendo semplificare – a due esiti tra loro interrelati ma molto diversi: a) da una parte alla stasi
dell’inetto (il personaggio di cui si è detto intuisce la complessità del reale e del proprio io, critica
l’ipocrisia dei ruoli, delle maschere sociali, prova a liberarsi di tutto questo fardello ma non ci
riesce e rimane paralizzato, insofferente alle norme ma sostanzialmente incapace di liberarsene
fino in fondo); b) dall’altra a una forma di riscatto che può coincidere con la follia (come nel caso
del protagonista di Uno nessuno centomila, Vitangelo Moscarda) o con la rinuncia all’ideale in
nome di una propria felicità personale ed egoistica (come avviene per Zeno Cosini, il protagonista
del terzo romanzo di Svevo).
In sostanza, Pirandello, Svevo e altri autori europei che operano tra la fine dell’Ottocento e
i primi anni trenta del Novecento (l’irlandese James Joyce, le autrici inglesi Virginia Woolf e
Catherine Mansfield, l’inglese David Herbert Lawrence, Franz Kafka e R, Musil autori di lingua
tedesca) rappresentano nelle loro opere (romanzi, novelle e drammi) la crisi irreversibile della
coscienza dell’uomo moderno, il suo totale smarrimento di fronte alle “macerie dell’Ottocento”,
il secolo delle magnifiche sorti e progressive, con le sue certezze apparentemente incrollabili (la
centralità e l’unicità dell’io proprie dell’idealismo romantico e la pretesa – propria del Positivismo di poter indagare e spiegare la realtà da un punto di vista oggettiva per modificarla) che invece si
disgregano sotto i colpi della filosofia di Nietzsche, degli studi sulla psiche di S. Freud,
dell’intuizionismo e della soggettività del tempo del filosofo francese H. Bergson, di una nuova
visione della scienza e della realtà proposte dal fisico e matematico A. Einstein e da altri scienziati
dell’epoca.
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