RomanaDOTTRINA - Ordine Avvocati Roma

annuncio pubblicitario
Romana
temi
rassegna
di dottrina
e giurisprudenza
DIRETTORE RESPONSABILE
Avv. Alessandro Cassiani
DIRETTORE SCIENTIFICO
Avv. Giovanni Cipollone
REDATTORE CAPO
Avv. Andrea Melucco
a cura del
Consiglio dell’Ordine
degli Avvocati di Roma
COMITATO DI DIREZIONE
Avv. Goffredo Barbantini
Avv. Paolo Berruti
Avv. Fioravante Carletti
Avv. Domenico Condello
Avv. Antonio Conte
Avv. Giorgio Della Valle
quadrimestrale
anno LII n°1-3
Gennaio - Dicembre 2004
Avv. C. Ferdinando Emanuele
Avv. Sandro Fasciotti
Avv. Rosa Ierardi
Avv. Grazia Pirisi Camerlengo
Avv. Carlo Testa
Avv. Livia Rossi
PUBBLICAZIONE QUADRIMESTRALE • SPEDIZIONE IN ABBONAMENTO POSTALE, ARTICOLO 2, COMMA 20/C, LEGGE 662/96 D.C.I. DI ROMA
R
Temi romana è anche on line all’indirizzo
http://wwwordineavvocati.roma.it/
La Direzione e la redazione
sono presso il Consiglio dell’Ordine
degli Avvocati di Roma.
Segreteria di redazione:
Dott.ssa Daniela Bianchini
Avv. Luca Lobina
Avv. Bruno Tassone
Iscrizione Registro nazionale stampa
(Art. 11, legge 5 agosto 1981, n. 416)
n. 00023 vol.foglio 177 del 2 luglio 1982
Avv. Alessandro Cassiani responsabile
Ulisse Editore srl
Grafica: Stefano Navarrini
e Andrea Melucco
Romana
temi
quadrimestrale
anno LII n°1-3
Gennaio - Dicembre 2004
COMITATO SCIENTIFICO
Prof. Avv. Lucio Valerio MOSCARINI
Prof. Avv. Piero SANDULLI
Avv. Luciano REVEL †
Prof. Avv. Pietro NOCITA
Prof. Avv. Franco Gaetano SCOCA
Prof. Avv. Leonardo PERRONE
Prof. Avv. Pietro ADONNINO
Prof. Avv. Augusto SINAGRA
COORDINATORE
DI
SETTORE
Diritto civile e processuale civile
Avv. Carlo MARTUCCELLI
Diritto penale e processuale penale
Prof. Avv. Pietro NOCITA
Diritto commerciale e societario
Avv. Giorgio DELLA VALLE
Diritto fallimentare
Avv. Mario GUIDO
Diritto amministrativo
Avv. Piero D’AMELIO
Diritto costituzionale
Prof. Avv. Giuseppe MARAZZITA
Diritto tributario
Prof. Avv. Pietro ADONNINO
Prof. Avv. Leonardo PERRONE
Diritto del lavoro
Avv. Luciano TAMBURRO
Diritto internazionale
Prof. Avv. Augusto SINAGRA
Diritto comunitario
Prof. Avv. Riccardo CAPPELLO
RomanaGENNAIO
- DICEMBRE 2004
INDICE DEL FASCICOLO
temi
Avv. Alessandro CASSIANI
Avv. Giovanni CIPOLLONE
EDITORIALE: UN SALUTO ED UN AUSPICIO
TRA LE RIGHE DELLA TEMI ROMANA
1
2
DOTTRINA
Avv. Prof. Franco COPPI
Avv. Prof. Lucio
V. MOSCARINI
Avv. Prof. PIiero SANDULLI
Avv. Mattia COLONNELLI
DE GASPERIS
Avv. Vincenzo GRECO
Avv. Marco Valerio
SANTONOCITO
Avv. Prof. Piero SANDULLI
Avv. Alessandro COLAVOLPE
Avv. Mario RACCO
Avv. Marina BINDA
Avv. Fabio Maria GALIANI
Avv. Anna Lucia VALVO
Avv. Marina MILLI
Avv. Maria Teresa FONZI
Avv. Nicoletta CICCONETTI
Avv. Nicoletta SCATTONE
Dott. Matteo RUSSO
COMMEMORAZIONE DI LUCIANO REVEL
RIFLESSIONI SUL TEMA DEL "CONTRATTO GIUSTO".
LA CONCILIAZIONE NEL NUOVO PROCESSO SOCIETARIO
LA NUOVA DISCIPLINA CIVILISTICA E FISCALE DEI FONDI COMUNI
DI INVESTIMENTO IMMOBILIARE
LA RESPONSABILITÀ DEL CURATORE FALLIMENTARE (E DEI
RAPPRESENTANTI) DEI CONTRIBUENTI DIVERSI DALLE PERSONE
GIURIDICHE PER LE VIOLAZIONI TRIBUTARIE ALLA LUCE DEL DECRETO
LEGGE N. 269/2003
LA LEGGE 20/07/2004 N. 191 CONTENENTE MODIFICHE ULTERIORI
AL NUOVO CONDONO EDILIZIO
LA TUTELA DELLA “PRIVACY” DOPO IL DECRETO LEGISLATIVO
N. 196/2003.
LA DISCIPLINA DELLE CRISI DELLE BANCHE E DELLE SOCIETÀ DEL
GRUPPO BANCARIO: SINTESI DELLE MODIFICHE APPORTATE AL TESTO
UNICO BANCARIO DAL D. LGS. 6 FEBBRAIO 2004 N. 37
LA SENTENZA CORTE COSTITUZIONALE 27 LUGLIO 2004 N.272
RIAFFERMA LA PRIORITÀ DEL PRINCIPIO DELL’EVIDENZA PUBBLICA
COME PRESUPPOSTO DELLA TUTELA DELLA CONCORRENZA
L’AVVOCATO E LE NUOVE NORME SUL DIRITTO DI ACCESSO AGLI ATTI
DELLE IMPRESE DI ASSICURAZIONE: PRATICHE R.C. AUTO PIU’
TRASPARENTI
I DIRITTI DELLA DIFESA NEI PROCEDIMENTI PENALI EUROPEI
FORTEZZA EUROPA: SINDROME DA ASSEDIO E SCHIZOFRENIA DEL
SISTEMA COMUNITARIO IN MATERIA DI ASILO E IMMIGRAZIONE
IL GIUDIZIO DI APPELLO DINANZI LA CORTE DEI CONTI IN MATERIA
PENSIONISTICA
I POTERI DEL GIUDICE ORDINARIO IN MATERIA DI PUBBLICO IMPIEGO
PRIVATIZZATO: LA DISAPPLICAZIONE DELL’ATTO AMMINISTRATIVO
PRESUPPOSTO CONTRARIO ALLA LEGGE
IL NUOVO ORIENTAMENTO GIURISPRUDENZIALE IN MATERIA DI
RISARCIBILITA’ DEL DANNO NON PATRIMONIALE
LA FORMA DELLA PROCURA PER L’ATTO DI COSTITUZIONE IN MORA
4
16
28
54
72
76
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OSSERVATORIO COSTITUZIONALE A cura del Prof. Avv. Giuseppe Marazzita 168
CORTE DI CASSAZIONE
CORTE SUPREMA
DI CASSAZIONE
CORTE D’APPELLO
DI ROMA
TRIBUNALE DI ROMA
TRIBUNALE DI ROMA
GIURISPRUDENZA CIVILE
– II Sezione civile – sentenza 22 novembre 2004 n. 22026
Con commenti dell’Avv. Carlo MARTUCCELLI: La responsabilità
professionale: in particolare dell’avvocato
e dell’Avv. Claudio BERLIRI - Responsabilità professionale e risarcimento
del danno costituito da perdita di chance
– Sezioni Unite civili – Ordinanza 13 gennaio 2005
Con commento dell’Avv. Carlo MARTUCCELLI - Il nuovo orientamento
della Suprema Corte in tema di prova della notifica ex art.140 cpc
– Sezione Minori e Famiglia - Sentenza 11 maggio 2004 n. 2843
Con commento dell’Avv. Maria Giovanna DE TOMA: “Legittimazione della
prole: una sentenza innovativa dei Giudici di merito”
– Sezione terza - ordinanza 19 gennaio 2005
Con un commento dell’Avv. Andrea SCANDURRA – i provvedimenti
di estinzione del giudizio
– Terza Sezione – ordinanza 1 dicembre 2004
Con un commento dell’Avv. Andrea MELUCCO - Le questioni legate
alla proposizione non tempestiva dell’istanza di fissazione dell’udienza
ed i limiti della competenza presidenziale nel sub-procedimento di
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184
194
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197
199
199
203
TRIBUNALE DI ROMA
TRIBUNALE DI ROMA
e TRIBUNALE DI BARI
TRIBUNALE DI ROMA
e TRIBUNALE DI ROMA
TRIBUNALE DI ROMA
TRIBUNALE DI ROMA
TRIBUNALE DI ROMA
TRIBUNALE CIVILE
DI ROMA
TRIBUNALE DI ROMA
GIUDICE DI PACE
DI ROMA
CORTE DI ASSISE
DI APPELLO DI ROMA
CORTE DI APPELLO
DI ROMA
CORTE DI APPELLO
DI ROMA
TRIBUNALE DI ROMA
TRIBUNALE DI ROMA
TRIBUNALE DI ROMA
TRIBUNALE DI ROMA
TRIBUNALE DI ROMA
TRIBUNALE DI ROMA
TRIBUNALE DI
SORVEGLIANZA DI ROMA
inammissibilità nel rito societario
– III Sezione Civile – Ordinanza 17 novembre 2004
Con un commento dell’Avv. Francesca Romana ALESSANDRINI
La sospensione delle delibere societarie ex art. 2378 c.c.
– Ordinanza 19 ottobre 2004
– Seconda sezione civile – ordinanza 15 ottobre 2004
Con un commento dell’Avv. Vito AMENDOLAGINE, La competenza cautelare
ante causam in presenza di una clausola contrattuale derogativa degli ordinari
criteri di competenza: spostamento della competenza territoriale nel giudizio
cautelare ante causam per vis attrattiva a favore del giudice del merito?
– sezione lavoro – Sentenza 29 luglio 2004 n.14787
– sezione lavoro – sentenza 17 maggio 2004 n.10039
Con un commento del dott.Andrea CHIOSI - Gli elementi costitutivi
del mobbing
– sezione stralcio – sent. 23 luglio 2004, n. 22727
Con un commento dell’Avv. Barbara PANNUTI e dell’Avv. Aldo AREDDU
La tempestività della riserva in caso di sospensione illegittima dei lavori
– sezione lavoro – sentenza 25 giugno 2004 n.12891
Con un commento dell’Avv. Fabiana DI MARIO - La qualificazione
del rapporto di lavoro dell’istruttore di tennis
– sezione fallimentare – sentenza 8 giugno 2004
Con un commento dell’Avv. Mario GUIDO - Brevi osservazioni sulla
decorrenza dei termini prescrizionali dell'azione revocatoria fallimentare
nella liquidazione coatta amministrativa
– XIII sezione - Sent. 28 aprile 2004 n. 13887
Con un commento dell’Avv. Carla MARIANI - Brevi considerazioni
sull’Art. 20 T.U. sul credito fondiario approvato con r.d. 16 luglio 1905 n.646
in relazione all’accollo del mutuo
– sentenza 12 marzo 2004
Con un commento dell’Avv. Bruno TASSONE - La parabola del diritto
all’immagine al bivio: fra uso non autorizzato del ritratto e lesione
della privacy
– Secondo Ufficio - Sent. 19 novembre 2004
Con un commento del Dott. Pietro PULCINI - Brevi riflessioni sui
presupposti e sui limiti di applicabilità dell’art. 2051 cod.civ.
GIURISPRUDENZA PENALE
– Sezione I, sent. 3 febbraio 2004, n. 6
Con un commento del prof. Avv. Pietro NOCITA - Infermità e malattia
– Sezione I, sent. 17 novembre 2004, n. 7825
Con un commento dell’Avv. Sonia TIBERI - Giurisdizione penale
e giurisdizione civile: interdipendenza probatoria
– Sezione I, sent. 12 marzo 2004, n. 2129
Con un commento del prof. Avv. Pietro NOCITA - Poteri e doveri del Giudice
in ordine ai motivi rinunciati nel “patteggiamento in appello”
– Sezione G.I.P. , ordinanza 1 gennaio 2005
Con un commento dell’Avv. Sonia TIBERI - Note su un reato in “disuso”
– I sezione penale – Sent. 8 aprile 2004 n. 8525
Con un commento della dott.ssa Michela CINTI - La giurisprudenza
a confronto con la legge Bossi - Fini
– In composizione monocratica - Ssezione VIpenale – est. Dott. Ariolli –
sent. 26 gennaio 2004 n. 26500/03.
Con nota di riferimenti
– In composizione monocratica - Ssezione VIpenale – est. Dott. Ariolli –
sent. 11 febbraio 2004 n. 26285/03. Con nota di riferimenti
– Quinta Sezione Penale – Ordinanza 2 ottobre 2003
con nota dell’Avv. Giovanni Maria GIAQUINTO
– In composizione monocratica - Sezione X – Sentenza 4 luglio 2003,
con nota dell’Avv. Simone PACIFICI
– Ordinanza 17 novembre 2004
con nota di riferimenti
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RomanaGENNAIO
- DICEMBRE 2004
INDICE DEL FASCICOLO
temi
T.A.R. NAPOLI
TAR LAZIO
CORTE DEI CONTI
COMMISSIONE
TRIBUTARIA
REGIONALE LAZIO
GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA E TRIBUTARIA
– sezione VI – sentenza 8 Giugno 2004 n. 9277
Con nota dell’Avv. Marco Valerio SANTONOCITO
“Rivoluzione Copernicana” al TAR sui silenzi della P.A.
in materia di concessioni edilizie in sanatoria
- sezione II, decreto 22 novembre 2004, n. 13742
Con nota degli Avv.ti Emanuela CONTI e Filippo Maria SALVO
Il concetto di “stazione appaltante” nel Ministero per i beni e le attività
culturali e l’impossibilità di far salve capre e cavoli
- sezione Giurisdizionale per la Regione Lazio - sent. 25 giugno 2003 n. 1422,
Con commento dell’Avv. Maria Teresa FONZI
La pensionistica privilegiata e la costituzione di posizione
assicurativa INPS
- sezione trentatreesima – Sentenza 20 aprile 2004 n° 2
Con un commento dell’Avv.Alice Cogliati DEZZA
Rilevanza dell’avviso di ricevimento ai fini del perfezionamento della
notifica a mezzo del servizio postale
350
354
356
356
361
363
369
I CONVEGNI DEL FORO DI ROMA
“LA PROCREAZIONE MEDICALMENTE ASSISTITA: ASPETTI ETICI E GIURIDICI”
Roma, 12 luglio 2004 Aula Avvocati – Palazzo di Giustizia
“LA RESPONSABILITA’ DEGLI ENTI PER ILLECITI AMMINISTRATIVI DIPENDENTI DA REATO.
Roma - 5 Ottobre 2004 - Auditorium Cassa Nazionale di Previdenza
ed assistenza Avvocati
“DAI TRATTATI DI MAASTRICHT E DI AMSTERDAM ALLA COSTITUZIONE EUROPEA
NUOVE PROSPETTIVE”
Roma mercoledì 6 ottobre 2004 - Aula Occorsio del Tribunale di Roma
Prof. Avv. Lucio
V. MOSCARINI
Cons. Avv. Sandro
FASCIOTTI
Avv. Ferdinando CARBONE
Avv. Raffaele QUAGLIETTA
Dott. Gennaro CALABRESE
Recensioni a:
Angelo D’AURIA
Emmanuele F.M.
EMANUELE
Elisa SCOTTI
Guido BUTTI
e Mara CHILOSI
Paolo STANCATI
Edoardo CHITI
AA.VV
378
409
484
ATTUALITA’ E RECENSIONI
ATTUALITA’ DEL PENSIERO DI GIUSEPPE TAMBURRINO
492
L’AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO
DE ITALICA CONCILIATIONE
BREVI CENNI SULLA NUOVA NORMATIVA IN MATERIA DI PROTEZIONE
DEI DATI PERSONALI
LA COSTITUZIONE EUROPEA
497
500
IL MATRIMONIO NEL DIRITTO DELLA CHIESA, (a cura di Antonello Blasi)
EVOLUZIONE E VICENDE DELLE FONDAZIONI DI ORIGINE BANCARIA,
(a cura di Michele Pallottino)
IL PUBBLICO SERVIZIO TRA TRADIZIONE NAZIONALE E PROSPETTIVE
EUROPEE.
SERVIZI PUBBLICI LOCALI E GESTIONE IDRICA
(a cura di Michele Pallottino)
MANIFESTAZIONE DEL PENSIERO E INFORMAZIONE TRA LIBERTÀ E
FUNZIONE (a cura di Michele Pallottino)
CLAUDIO FRANCHINI, L’INTEGRAZIONE AMMINISTRATIVA EUROPEA
(a cura di Michele Pallottino)
FIABE SCRITTE DA GIURISTI, A CURA DI VITO TENORE
(a cura di Michele Pallottino)
516
509
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518
520
521
522
DIRITTO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE
CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL'UOMO (STRASBURGO), SENTENZA DEL 29 LUGLIO 2004
Con un commento dell’Avv. Fabio GULLOTTA 523
La misura dell’indennità da espropriazione legittima non supera l’esame della Corte
di Strasburgo: conddannata l’Italia per l’applicazione retroattiva dell’art.5 bis della
legge 359/92
536
LE ISTRUZIONI PRATICHE ALLE PARTI RELATIVE AI RICORSI DIRETTI E ALLE IMPUGNAZIONI
PROPOSTE AVANTI LA CORTE DI GIUSTIZIA DELLE COMUNITA’ EUROPEE
Con un commento dell’Avv. Anna Lucia VALVO
LA CONVENZIONE DEL 25 GENNAIO 1979 TRA L’UNIONE SOVIETICA E LA REPUBBLICA ITALIANA
SULL’ASSISTENZA GIUDIZIARIA IN MATERIA CIVILE
a cura dell’ Avv. Prof. Michele DE MEO
541
550
MASSIME
Appalto – Appalti e contratti della p.a. – beni culturali – regolamento di riorganizzazione del Ministero –
entrata in vigore – conseguenze
356
Appalto – Appalti e contratti della p.a. – beni culturali – stazione appaltante – nozione – conseguenze
356
Appalto di opere pubbliche – riserva – tempestività – sospensione dei lavori – iscrizione nel verbale di
ripresa – idoneità – condizione – percezione da parte dell’appaltatore secondo criteri di media diligenza e
buona fede dell’idoneità della sospensione a produrre maggiori oneri
245
Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo - articolo 6 § 1 - equo processo - Applicazione con effetto
retroattivo ai giudizi pendenti dei nuovi e peggiorativi criteri di determinazione dell’indennità di
espropriazione ex art.5 bis della legge italiana no 359 dell’ 8 agosto 1992 - Ingerenza del potere legislativo
523
sul funzionamento del potere giudiziario – Violazione – Sussistenza
Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo - articolo 6 § 1 - termine ragionevole di durata del processo processo civile durato otto anni per due gradi di giudizio – Violazione - Sussistenza
523
Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo - Protocollo no 1 - articolo 1 (rispetto dei beni) - Indennità di
espropriazione di un bene non ragionevolmente rapportabile al valore di mercato del bene espropriato ed
erogata con notevole ritardo – Violazione – Sussistenza
523
Danni in materia civile – Immagine – Dato personale – Utilizzazione non autorizzata –Prova liberatoria –
Risarcimento del danno non patrimoniale
274
Diffamazione – Critica nei confronti di decisione giudiziale – Legittimità – Condizioni – Rispetto della verità
331
e della continenza – Necessità
Edilizia ed urbanistica – Sanatoria – domanda - ricorso ex art. 13 L. 47/85 e 36 D.Lgs 380/01- termine di
sessanta giorni – superamento - silenzio della amministrazione – qualificazione – alla luce del T.U. 380/01 –
silenzio inadempimento – esclusione - silenzio diniego – sussistenza effetti
350
Evasione – Convincimento di adepiere ad un obbligo – Dubbio sulla scriminante - Punibilità - Esclusione Formula assolutoria
345
Fallimento e procedure concorsuali – Liquidazione coatta amministrativa – azioni revocatorie – Prescrizione
262
– Decorrenza – dall’accertamento dello stato di insolvenza – Legittimità
Famiglia e minori – Figli naturali – Legittimazione giudiziale – Ammissibilità – Condizioni – Necessario
riconoscimento da parte di entrambi i genitori – Necessità – Esclusione
195
Imposte e tributi - IRAP – Avvocato – Presupposti – Attività autonomamente organizzata – Verifica di fatto
– Necessità
363
Imputabilità - vizio parziale di mente - infermità idonea a diminuire la capacità di intendere o di volere –
nozione - disturbi della personalità - non integrano infermità di mente ai sensi dell’art. 89 C.p.
298
Lavoro (Rapporto di) – dequalificazione e assegnazione di condizioni di lavoro disagiate - mobbing –
sussistenza
225
Lavoro (rapporto di) – Discipline sportive – Tennis - Maestro federale – sottoscrizione di contratti di
collaborazione coordinata e continuativa succedutisi nel tempo - - nullità dei termini apposti ai contratti –
225
unicità di rapporto a tempo indeterminato – sussistenza
Lavoro (Rapporto di) – mobbing - determinazione automatica del danno – impossibilità – determinazione
presuntiva – ammissibilità – quantificazione del danno – criteri
225
Lavoro (Rapporto di) – mobbing – elementi fondanti – atti vessatori compiuti da altri dipendenti e per un
225
breve lasso di tempo – insussistenza
Notificazioni – Atti – Notifica a mezzo servizio postale - Ricevuta di ritorno - essenzialità – Costituzione in
giudizio controparte – Effetto sanante
363
Persona fisica e diritti della personalità – Immagine – Dato personale – Utilizzazione non autorizzata –
Forma del consenso – Illiceità
274
RomanaGENNAIO
- DICEMBRE 2004
INDICE DEL FASCICOLO
temi
Persona fisica e diritti della personalità – Immagine (di persona non nota) – Fatto svoltosi in pubblico –
Diffusione dell’immagine – Pertinenza con il fatto svoltosi in pubblico – Insussistenza
274
Previdenza ed assistenza obbligatoria - Pensionistica privilegiata – servizio presso l’amministrazione statale
– insufficienza dei requisiti temporali per il conseguimento della pensione ordinaria – D.P.R. 29.12.1973
n.1092 – L.322/1958 – Obbligatorietà della costituzione di posizione assicurativa INPS – Sussistenza
361
Procedimento civile - Giudice unico - Provvedimento di estinzione del processo - Reclamo al Collegio –
Inammissibilità
199
Procedimento civile – Notificazione – Art.140 cpc – Formalità – Perfezionamento – Avviso inviato
dall’Ufficiale giudiziario – prova della ricezione – Necessità – Conseguenze
184
Procedimento civile – Notificazione – Art.140 cpc – Formalità – Perfezionamento – Avviso inviato
dall’Ufficiale giudiziario – Ricezione – Termine – Computo – Dalla consegna all’ufficiale giudiziario –
Sussistenza
184
Procedimento civile – Ricorso per cassazione – Termine di costituzione del ricorrente – Decorso – Dalla data
184
di ricezione dell’ultima notifica – Sussistenza
Procedimento civile – Rito societario – Istanza di fissazione d’udienza – Sub-procedimento di inammissibilità
– Applicabilità – Condizioni – Tardività della fissazione – Declaratoria di inammissibilità – Competenza
203
Presidenziale – Esclusione
Procedimento civile – Sospensione delibera assembleare – Richiesta unitamente all’impugnativa di merito
ex art.2378 cc – Necessità – Sussistenza – Proposizione autonoma – in via cautelare urgente ex art.700 cpc –
207
Natura residuale – Sussistenza – Esclusione – Inammissibilità – Fattispecie
Procedimento civile – Tutela cautelare – ante causam – competenza – determinazione – Criteri - Fattispecie 212
Procedimento civile – Tutela cautelare – ante causam – competenza – determinazione – Fori concorrenti –
pendenza di altro giudizio di merito a seguito di provvedimento cautelare – irrilevanza – conseguenze
212
Procedimento penale - Appello – C.d. “patteggiamento in appello” – Omessa valutazione del giudice sulle
questioni rilevabili di ufficio – Effetti
307
Procedimento penale – Prova testimoniale – Teste – Incapacità – Difensore – Intervenuta rinuncia al
mandato – Incompatibilità – art.197 comma 1 lett.d cpp – Insussistenza
324
Procedimento penale - Provvedimento di ammissione al regime della semilibertà – Mancata sottoscrizione
delle prescrizioni – Inefficacia della misura – Revoca dell’ordinanza di ammissione al beneficio –
Applicabilità delle preclusioni dettate dall’art. 58 quater L. 354/75 – Esclusione
347
Procedimento penale – Rapporto con il giudizio civile – Cosa giudicata penale: prevalenza in sede civile –
Rapporto tra prove assunte nei due giudizi – Appello – rinnovazione del dibattimento per acquisizione
consulenza tecnica d’ufficio civile – Possibilità
301
Procedimento penale – trasmissione atti per competenza territoriale – avviso ex art. 415 bis c.p.p. –
rinnovazione – Necessità
344
Responsabilità civile - cose in custodia ex art.2051 cod.civ. – danni materiali e lesioni fisiche – obbligo di
custodia sulla cosa – conseguenze – fattispecie
294
Responsabilità civile - Responsabilità professionale – Accertamento – Valutazione prognostica – Ragionevole
possibilità di successo delle azioni omesse – Sufficienza – Sussistenza, pag.174
Responsabilità civile – Responsabilità professionale – Danno risarcibile – perdita di chances – Sussistenza –
174
fattispecie
Responsabilità civile – Responsabilità professionale - Effetti notifica vendita ex art. 20 T.U. n. 646/1905 –
azione esecutiva rivolta al successore a titolo particolare in luogo dell’originario debitore - Accollo mutuo
non frazionato – Limitazione responsabilità del subentrante all’importo del debito accollatosi - Necessità
dell’adesione del creditore all’accollo – responsabilità notaio – sussistenza – esclusione
269
Responsabilità civile – responsabilità professionale – Nesso causale – sussistenza – condizioni – fattispecie
174
Straniero – Situazione di non abbienza e di degrado – Violazione dell’ordine di abbandonare lo Stato
Italiano – Reato – Sussistenza - Esclusione
318
Violenza o minaccia ad un corpo politico, amministrativo o giudiziario – Condotta finalisticamente diretta
a turbare o impedirne l’attività – Necessità – Lesione ed ingiuria - irrilevanza finalità condotta
312
RomanaEDITORIALE
temi
Un saluto e un auspicio
C
ari Colleghi,
questo nuovo numero di Temi Romana costituisce il risultato di un
lavoro intenso ed appassionato. Il comitato scientifico, diretto da
Giovanni Cipollone e coordinato da Andrea Melucco, ha raccolto e
selezionato per mesi gli elaborati e le sentenze frutto della partecipe
collaborazione di tanti colleghi, nonché i pregevoli interventi tratti solo da
alcuni dei molteplici convegni organizzati dal Centro Studi del Consiglio. Il
risultato è un volume denso di contenuti che costituisce una “summa” della
giurisprudenza del territorio e testimonia la straordinaria vocazione culturale
dell’Avvocatura Romana e la sua costante volontà di migliorarsi e
specializzarsi.
Nell’esprimere un compiacimento che sconfina nell’orgoglio, auguro
alla nostra Rivista di essere sempre più strumento di conoscenza e di
aggiornamento. Ritengo che questa sia la strada che deve perseguire chi
voglia aiutare concretamente l’Avvocatura a vincere le sfide che l’attendono e
ad essere degna dei Grandi che l’hanno preceduta: come Luciano Revel, che
ci ha lasciato dopo aver impresso un segno indelebile a un’intera epoca e che
preferisco ricordare con le magnifiche parole di Franco Coppi che leggerete e
conserverete tra i ricordi più preziosi.
Questo numero, pur restando nel solco della tradizione della Rivista,
presenta alcune particolarità che ritengo doveroso rimarcare.
Innanzitutto, perché è particolarmente corposo e poi perché contiene
importanti decisioni.
Tra le altre, due della Cassazione civile: una in tema di responsabilità
professionale; l’altra, delle Sezioni Unite, in tema di perfezionamento della
notifica ex art.140 cpc.
Sono decisioni importanti, rese ancor più significative dal commento
autorevole che le accompagna.
Voglio inviare da questa pagina il mio più affettuoso ringraziamento ai
colleghi che hanno collaborato alla Rivista e che in futuro continueranno a
farlo. A tutti chiedo di vedere sempre più nel Consiglio dell’Ordine la casa
degli avvocati. E cioè il luogo ove, con il contributo di tutti gli iscritti, delle
Associazioni e delle Commissioni Consiliari, si discutono i tanti problemi che
ci affliggono: nel tentativo di migliorare il nostro futuro.
Mentre resto in trepida attesa di leggere il prossimo numero,
raccomando alla Redazione di non demordere e di fare in modo che la Nostra
Rivista sia sempre più palestra di idee e capace di costruire una Avvocatura
sempre più preparata e di stampo europeo.
Un saluto affettuoso dal Vostro
Alessandro Cassiani
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Romana
temi
Tra le righe di Temi Romana:
Appunti sulla responsabilità
professionale
D
opo mesi di impegno e faticoso lavoro, possiamo finalmente tirare
le somme, nel solco del “nuovo corso” della nostra rivista.
Certamente, non è stato agevole trovare un ideale filo conduttore
che coordinasse, in un vero e proprio concerto a più voci, gli
inquadramenti in cui collocare gli argomenti da trattare.
Ribadisco però che nostro principale scopo è stato quello di
agevolare lo studio e l’esame delle pronunce giurisprudenziali di merito,
molto utili per affrontare le quotidiane fatiche forensi.
Una prima considerazione: alle volte la forzatura di strumenti
processuali o esasperazioni dottrinarie, in un clima di perenne incertezza
dovuto anche a disordine legislativo, hanno potuto determinare distorsioni
nella interpretazione delle norme vigenti.
A tal proposito, merita un approfondimento la sentenza n. 22026 del
22 novembre 2004 emessa dalla Corte di cassazione - Sez. II Civile -, in
materia di responsabilità professionale.
I Giudici hanno preso in esame (sia pure, per ora nell’ambito del
procedimento tributario) gli sbagli commessi dal commercialista o dal
ragioniere che, ad esempio, commettano errori nella proposizione del
ricorso avanti la Commissione tributaria.
In tale sentenza, riconosciuta l’ovvia rilevanza del nesso causale tra
la condotta errata del professionista e il danno procurato al cliente, da cui
ne deriva una obbligazione risarcitoria a carico del professionista,
vengono evidenziati alcuni ulteriori aspetti della questione che consentono
alcune considerazioni di base.
Si può essere d’accordo sulla prospettazione che, ai fini del
riconoscimento del nesso causale tra la condotta errata del professionista
e il danno al cliente non occorra la certezza assoluta di un esito positivo
della lite, ma sia sufficiente una valutazione prognostica positiva circa la
sussistenza di un consistente “fumus boni iuris”.
Tale principio non può però essere esteso ad una valutazione
relativa alla apprezzabilità o meno dei motivi proposti a sostegno della tesi
difensiva.
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Infatti, diverso è il caso di responsabilità professionale (ad esempio
per mancato rispetto dei termini di impugnazione o irritualità di atti) che
sono causa di pronuncia di inammissibilità, da quella di formulazione di
motivi da ritenersi “non apprezzabili”.
Tale prospettazione deve ritenersi contraria ai principi e valori
inderogabili che sorreggono l’esercizio di una attività professionale di
natura intellettuale.
In tal modo, si avrebbe una invasione del campo di discrezionalità e
autonomia del professionista, il quale ha il diritto di seguire la condotta
processuale ritenuta più idonea, nell’interesse del proprio cliente.
Le obbligazioni inerenti all’esercizio di una attività professionale
costituiscono obbligazioni di mezzi e non di risultato e, ai fini del giudizio
di responsabilità del professionista, devono avere rilevanza soltanto i
parametri della “diligenza” del buon padre di famiglia, di cui all’art.
1176 comma 2° Codice Civile.
La dannosa “negligenza” o la evidente “imperizia” relative a
prestazione di attività professionale, configurabile come adempimento di
una obbligazione di mezzi, certamente non può essere ricollegata ad una
valutazione prognostica di apprezzabilità circa la esperibilità di una
azione giudiziaria ritenuta utile o la formulazione di prospettazioni
difensive nei diversi gradi di giudizio.
È significativa in proposito una sentenza della Corte Suprema di
Cassazione che ha così stabilito: “in tema di responsabilità professionale,
il difensore che non coltiva una procedura ritenuta inconcludente e
dannosa per il proprio cliente, non viola il mandato ricevuto né a titolo di
colpa né di illecito, ma tale condotta rientra nei comportamenti di etica
deontologica” (Cass. Civ. Sez. III, 14 settembre 2000 n. 12.158).
A tale pronuncia fa eco il pensiero del Carnelutti il quale, tra tante
opposte tesi, riteneva che l’errore dovuto a negligenza, da parte del
professionista forense, potesse essere solamente oggetto di sanzione
disciplinare, a parte i casi di dolo e colpa grave.
Giovanni Cipollone
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RomanaDOTTRINA
temi
Avv. Prof.
Franco COPPI
Commemorazione
di Luciano Revel*
I
o so bene che questa sera espongo me ad una brutta figura e condanno Voi ad una
delusione, anche se in qualche misura temperata dal fatto che è prevista ed annunciata.
Perché io sono consapevole, e Voi anche lo siete, che è difficile, anzi impossibile, commemorare una persona come Luciano Revel. E, soprattutto, commemorarla come lui ha certamente meritato e avrebbe desiderato.
D’altra parte, com’è possibile commemorare degnamente una persona la
quale aveva lasciato detto ai suoi allievi e ai suoi amici di volere sulla sua tomba
questo epitaffio: “Visse come un grande avvocato senza esserlo”. Fissando così Lui
stesso, come era Suo costume, nell’ennesimo paradosso, la Sua immagine più viva
e la Sua celebrazione più credibile.
Perché, in questo sta ovviamente il paradosso: Luciano Revel fu un grande
avvocato e ne era perfettamente conscio, ma non fece mai pesare nei Suoi rapporti
con i giudici, nei Suoi rapporti con i colleghi - specialmente con i colleghi più giovani - nei Suoi rapporti con i clienti, la sua grandezza di avvocato e la consapevolezza che Egli aveva del Suo valore. Ciò probabilmente anche grazie ad un pessimismo di fondo che, forse, non tutti quelli che meno lo hanno conosciuto probabilmente hanno colto, ma che certamente era in Lui presente e che gli faceva toccar
con mano, in definitiva, l’infinita vanità del tutto. Ma anche grazie, soprattutto, a
quella ironia e a quella autoironia che, a mio avviso, erano figlie di questo pessimismo e che tuttavia gli consentivano di prendere sempre la misura di ogni cosa, di
sorridere di tutto e, innanzitutto, di sorridere di se stesso, dissolvendo così con il
guizzo di una battuta quelle atmosfere che correvano il rischio di diventare troppo
solenni e troppo paludate e che, quando avevano Lui - come spesso capitava - come
protagonista, lo mettevano sovente a disagio, vittima come era - Lui così apparentemente esuberante ed estroverso - di un intimo virile pudore, che fu una componente essenziale e permanente della Sua personalità.
Da quel che ho appena detto voi comprendete che al mio posto, per un meraviglioso miracolo di reincarnazione, dovrebbe esserci un altro Luciano Revel, perché soltanto un oratore con le Sue stesse qualità saprebbe dipingere con lo stesso
garbo, con lo stesso gusto finissimo, con la stessa ironia, ma anche con la stessa
intensa lucidità di pensiero, con la stessa acutezza di analisi psicologica, con la stessa piacevolezza dell’eloquio, la figura del nostro Amico scomparso.
Anche perché chiunque vorrà, con la parola o con lo scritto, dipingere la Sua
personalità e trovarsi a disegnare e a descrivere lo stile di Luciano Revel dovrà fare
i conti con un problema quasi insormontabile e cioè con il fatto che lo stile di
Luciano Revel consisteva, paradossalmente, nel non avere uno stile. Cosicché
* il testo pubblicato rappresenta la trascrizione,
rivista dall’autore, della commemorazione tenuta il 5 gennaio
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2005 nell’Aula Occorsio del Tribunale penale di Roma in
occasione del trigesimo della scomparsa del compianto
improba, almeno a me, sembra l’opera di chi vorrà tentare di tracciare le caratteristiche di un’arte forense e di un’eloquenza, che non erano fissate in un modulo, seppure personale ma ormai consolidato e riconoscibile, e che si esprimevano invece,
di volta in volta, con una caleidoscopica varietà di forme.
Vi sono state, ed appartengono alla nostra leggenda, figure enormi di avvocati e di oratori; immense, inarrivabili nella loro solitaria grandezza, che tutti noi, e
Luciano per primo, abbiamo venerato come maestri. E tuttavia per quanto ciò possa
apparire paradossale, è più facile ricordare uno di loro che non una personalità come
Luciano Revel.
Quando Titta Madia senior – ormai queste precisazioni sono necessarie perché i Madia si riproducono con sistematicità, si trasmettono professione e nomi
egualmente con periodi cadenzati e quindi ormai bisogna cominciare a fissare nel
tempo il senior, lo junior e via dicendo – quando Titta Madia senior parlava di De
Marsico poteva servirsi di pochi tratti per tracciarne il ritratto. Madia parlava, a proposito di De Marsico, di una “monotonia del bello” o, ancora, diceva che se De
Marsico avesse parlato in latino avrebbe ricordato Cicerone pronunciare le sue orazioni nel Senato; o ancora, proprio sottolineando questa costanza nel bello in De
Marsico, gli rimproverava la imperfezione che la Scolastica rimprovera appunto
alla perfezione, cioè, appunto, quella di essere perfetti, di non commettere mai un
errrore.
Le sue arringhe – ricordava Madia – potevano essere trasmesse immediatamente alla tipografia per essere stampate per quanto esse erano impeccabilmente
belle. Ora, Madia poteva dire tutto questo perché aveva di fronte un modello enorme, certamente, ma che poteva rappresentare con sicurezza proprio grazie alla
monolitica compattezza dello stile e che, quindi, poteva consegnare ai suoi lettori
con la sicurezza di fornire un ritratto tanto veritiero quanto comprensibile. Questo
con Luciano non è possibile.
Perché la varietà del Suo stile, quel Suo non essere mai scontato, non si
lasciano ingabbiare da parte di chi li voglia descrivere nella felicità espressiva di
una sintesi fulminante, capace quindi di rappresentarlo con immediata compiutezza. Il fatto è che, a mio avviso, esistono due categorie di avvocati: quelli che,
immensi, impongono il loro stile alla causa, cosicché ogni causa è immersa nello
stesso immenso, ma sempre eguale crogiuolo, che eleva la materia della discussione a livelli altissimi, di un sublime sempre uguale; e quelli che, invece, altrettanto
grandi, di volta in volta plasmano lo stile dell’arringa da pronunziare secondo le
peculiarità del singolo caso adattandolo come cera malleabile ai profili del fatto che
la sensibilità e l’esperienza del patrono ritengono essere i più significativi della
vicenda sottoposta a giudizio. Ora, Luciano Revel apparteneva – a mio avviso – a
questa seconda categoria di cui, come ho detto, lo stile caratteristico è quello di non
avere uno stile.
In realtà, e uscendo adesso dal paradosso, Luciano sapeva mirabilmente adattare il tono stesso del Suo eloquio e, dunque, lo stile dell’arringa alla natura della
causa e quindi, di volta in volta, tanto nel linguaggio quanto nelle cadenze argomentative, Egli sapeva essere tecnico e rigoroso, quando doveva affrontare un pro-
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RomanaDOTTRINA
temi
blema di bancarotta; sapeva essere psicologo acuto e scienziato rigoroso, laddove
la causa sollevava problemi di psichiatria; sapeva essere – come tutti certamente
ricorderete – brillante, ironico, sarcastico, ma anche spesso ripiegato su se stesso,
in una dolente riflessione sul mistero della vita e della nostra avventura nel mondo
in tutte quelle cause – quelle che lui probabilmente prediligeva – nelle quali si
imponeva la valutazione e la esplorazione dell’uomo.
Ma se questo è il personaggio e se enormi sono le difficoltà nel descriverlo,
qualcuno potrebbe ora chiedermi perché mi trovo qui in questo posto. E qualcuno
potrebbe domandarmi, ancora più impietosamente, per quale atto di superbia mi
sono indotto ad accettare l’onore, ma anche la responsabilità, di questa commemorazione e a farmi carico, più del rischio, della certezza di ridurla ad una piccola
cosa.
Io sono qui con molta umiltà e con la certezza di essere impari rispetto alla
celebrazione che tutti vorremmo, per adempiere ad un impegno di amicizia, per un
patto che - come molti di voi forse sanno - legava Luciano e me, secondo il quale
chi fosse sopravvissuto all’altro lo avrebbe commemorato, se qualcuno - come era
certo per Luciano e come questa cerimonia dimostra - avesse ritenuto di celebrarlo dopo la sua morte.
Ricordo come fosse oggi il giorno, l’occasione, il motivo di quel patto. Voi
mi consentirete di abbandonarmi un istante a quel ricordo che costituisce del resto
la giustificazione della mia presenza questa sera in questo posto e che serve peraltro a cogliere profili singolari della personalità del nostro amico.
Eravamo nel 1991 e Luciano aveva commemorato, proprio in questa stessa
aula, Nicola Madia nel trigesimo della sua morte ed aveva pronunziato una orazione di struggente bellezza, disegnando come soltanto Lui sapeva fare la figura del
Suo grande amico da poco scomparso.
Egli aveva trovato accenti tali, da riuscire a far rivivere tra noi, come fosse
ancora attivo ed operante, quell’autentica gloria della toga, facendolo sentire e
vedere impegnato nel fuoco divorante dell’arringa. Attraverso i Suoi ricordi personali, e addirittura attraverso i Suoi ricordi intimi, tratti da una lunga consuetudine
di vita e generosamente rivelati in quella magistrale rievocazione, Luciano aveva
consentito a tanti di noi, che pure avevamo avuto il privilegio di frequentare Nicola
Madia e di essergli amici, di conoscerlo ancora di più e di scoprire profili nascosti
della sua personalità.
Quella sera, dopo la commemorazione, Luciano era circondato da tante persone che volevano esprimergli la loro commozione, la loro ammirazione per quanto Egli aveva detto e così io riuscii soltanto a stringergli la mano; ma la sera, tornato a casa, di getto gli scrissi una lettera - noi avevamo questa abitudine di scriverci lettere, biglietti, di prenderci in giro in questa maniera, ma quella volta c’era
poco da prendere in giro - gli scrissi una lettera, nella quale esprimevo tutta la mia
ammirazione e tutta la mia gratitudine per ciò che egli aveva detto in onore dell’amico scomparso, ed espressi la speranza che la tradizione del nostro foro di rievocare grandi al momento della loro scomparsa venisse mantenuta in vita, venisse
anzi rinverdita attraverso l’esempio di ciò che Egli aveva fatto.
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In definitiva la nostra professione, se volete la nostra arte, ha questo di caratteristico, che la rende del resto unica. E’ un’arte che muore nel momento stesso in
cui nasce; la nostra arringa si dissolve nel momento stesso in cui la pronunziamo e
quindi era giusto – scrivevo a Luciano - che si tramandassero alle generazioni a
venire le figure di quei grandi che hanno onorato la toga, perché solo attraverso il
ricordo si può conservare una immagine della loro grandezza.
Luciano mi telefonò subito dopo e mi chiese se ci potevamo incontrare, come
capitava quasi tutti i giorni per i corridoi di questo palazzo, e così ci vedemmo.
Luciano esordì in un modo strano, perché mi disse che doveva fare un discorso serio
e naturalmente io mi misi subito a ridere perché non era questo l’esordio tipico di
Luciano. Luciano, non che non sapesse dire cose serie, ma non aveva certo bisogno
di avvertire l’interlocutore che stava per dire una cosa seria. E quindi questo esordio
così strano mi fece ridere, ma venni subito rimbrottato da Lui, il quale ribadì che mi
stava per fare un discorso serio e mi chiese di promettere: “Prometti!”. “Prometto
cosa?”. “Devi promettere, devi promettere e basta!”. “E va bene, prometto… siamo
amici, non mi chiederai certamente cose impossibili”. E così lui mi disse che quando non ci fosse più stato io avrei dovuto fare la Sua commemorazione.
Era la prima volta che Luciano faceva riferimento alla Sua morte e questo
fatto mi colpì immediatamente, fece scendere in me un momento di tristezza e
quindi, forse anche per dissipare questo attimo di dolore, gli dissi che accettavo
però ad una condizione: e cioè che se fossi morto prima io, sarebbe stato Lui a dover
fare la mia commemorazione.
Luciano fece una riflessione che mi toccò moltissimo; Lui disse che aveva
promesso a se stesso dopo la commemorazione di Nicola Madia di non fare più
commemorazioni, perché - disse - quando si commemora una persona a cui si è
voluto bene, ogni parola che viene detta è un pezzetto del proprio cuore che se ne
va. E mi disse anche: “se tu mi commemorerai, ti accorgerai di questo e ti accorgerai di quanto sia dolorosa ed impegnativa, di quanto costi, la commemorazione di
un amico. E poi anche Lui, proprio per voler uscire subito, come era suo costume,
dalla eccessiva serietà di questo discorso aggiunse con il consueto guizzo: “Va
bene; comunque io prometto, tanto a me che mi costa? Muoio prima io; quindi sono
cavoli tuoi”. E così finì questo discorso e venne suggellato questo patto.
Naturalmente poi su questa storia della commemorazione siamo tornati una
infinità di volte. Una volta mi disse: “Guarda non vorrei che tu ti montassi la testa
pensando che sei tu che mi devi fare la commemorazione. In realtà c’è un motivo
negativo per il quale devi essere tu a fare la commemorazione: siccome tu ti vergogni degli eccessi, tu sei la persona più indicata. Perché, vedi, di recente io ho assistito ad una orazione funebre e ho visto l’oratore che si buttava sulla bara del morto
e la prendeva quasi a pugni invocandolo per nome, chiedendogli perché era morto”.
Dice: “Figurati se succede a me; con uno che comincia a prendere a pugni la mia
bara, che comincia a urlare “Luciano, Luciano perché sei morto?”. Io non so neanche per quale motivo sono venuto al mondo, pensa un po’ se gli posso rispondere e
che cosa gli posso dire… Quindi, mi raccomando, la commemorazione me la devi
fare tu, perché non voglio che si vada oltre misura ”.
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RomanaDOTTRINA
temi
E così il patto venne suggellato e questa sera io cerco di mantenerlo. Un patto
che suggellava un’amicizia che aveva radici lontane. Io ho conosciuto Luciano
Revel agli inizi degli anni ’60 come molti di noi, dei nostri amici qui miei coetanei,
quando, fresco di laurea e munito di un tesserino rosso - a quell’epoca era rosso il
tesserino dei praticanti procuratori - ultimo dei praticanti dello studio di Remo
Pannain, misi piede per la prima volta nel Palazzaccio di Piazza Cavour. Luciano,
che era nato nel 1923, stava per raggiungere la soglia dei quarant’anni, era nel pieno
della sua maturità professionale e aveva ormai conseguito un sicuro, consolidato
successo; era lanciato in una carriera prestigiosa, era presente nei processi più
importanti, completo nella formazione professionale, capace quindi di trascorrere
dalla Pretura alla Corte di Assise, alla Corte di Cassazione, dotato di una tecnica
argomentativa invidiabile ed era poi in possesso di quel dono divino della eloquenza, di cui tutti vorremmo godere, e che, in parte dote regalata dalla natura ai privilegiati, in parte conquista raggiunta con lo studio e con la fatica, è privilegio soltanto dei grandi.
Eppure non era facile in quegli anni affermarsi nel Foro romano. Roma
conobbe in quel periodo un fiorire strabocchevole di penalisti insigni, di avvocati di
eccezionale statura, di oratori di inarrivabile talento. Personaggi accanto ai quali, di
fronte ai quali, era certamente più facile naufragare che non emergere. Non vi era
un’aula del Tribunale, della Corte di Assise, della Corte di Appello, della Corte di
Cassazione nella quale ogni giorno non risuonasse la parola di un grande patrono e
nella quale non corressero avvocati già affermati, magistrati - allora i magistrati
ritenevano di poter imparare qualche cosa anche da qualche grande avvocato e
quindi anche loro accorrevano ad ascoltarli – giovani alle prime armi, anche loro lì
per ascoltare, per apprendere o anche soltanto per assistere al miracolo di una intelligenza che si esprime con la parola e che, con la parola, cerca di convincere.
Erano familiari in quelle aule, in quegli anni, le figure leggendarie di due
mostri sacri dell’avvocatura, Francesco Carnelutti ed Alfredo De Marsico, forse i
più grandi che io abbia mai conosciuto, i quali proponevano due stili assolutamente diversi e quasi opposti di oratoria forense, tra i quali era tuttavia impossibile scegliere il più entusiasmante, tanto essi si identificavano con la perfezione. Ma accanto a loro tenevano validamente il campo quelli che potremmo chiamare i “romani”,
o perché erano nati addirittura in questa città o perché di Roma avevano fatto la
sede abituale del loro lavoro e del Palazzaccio la palestra abituale delle loro gesta.
E così, pure tra le ombre del tramonto e le incipienti oscurità della notte, lanciava ancora bagliori la stella di Bruno Cassinelli, il maestro venerato da Luciano
Revel, da lui amato ed ammirato e ricordato per tutta la sua vita, capace ancora nei
suoi ultimi anni di arringhe di guizzante vivacità. A lui Luciano, negli anni giovanili, sperava un giorno di potere assomigliare, anche se naturalmente, con il consueto senso della misura e con quell’ironia che gli consentiva di cogliere qualche
aspetto perlomeno singolare nelle persone (anche nelle persone amate), Luciano,
augurandosi di assomigliare al maestro, si augurava anche di essere di lui un po’ più
pettinato e un po’ più ordinato, visto che Cassinelli era, come lui stesso disse, il
genio sistematizzato del disordine e della confusione.
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Filippo Ungaro, chiamato alla presidenza del nostro ordine, divideva la sua
placida autorevolezza tra gli impegni della sua carica e gli oneri di processi gravissimi, nei quali lasciava sempre il segno della sua esperienza e della sua sensibilità
forense quasi fisiologica.
Giuseppe Sotgiu, una delle più straordinarie figure di avvocato che abbia
conosciuto, nei suoi giorni migliori non sfigurava accanto ad Alfredo De Marsico,
riuscendo a trasformare in motivo di suggestione perfino la sua voce, che avresti
detto quasi sfiatata nella normalità di una conversazione. Audace nel giocare la
sorte del proprio assistito ammettendo prima la possibilità della sua colpevolezza
per dissolvere poi l’ipotesi da lui stesso creata nella irriducibilità del dubbio.
Remo Pannain e Giuseppe Sabatini portavano in ogni processo il tesoro
cospicuo della loro cultura giuridica, che, indossata la toga del difensore, non costituiva ingombrante e controproducente orpello, come accade oggi a qualche giovane professorino che scambia la vittoria in un concorso universitario con l’alloro che
il Foro invece riconosce soltanto ai suoi principi e che soltanto sul terreno delle battaglie forensi viene conquistato. Maestri, quelli, la cui cultura costituiva linfa vitale da cui attingere ragioni in difesa del proprio assistito, maestri capaci di vivere l’emozione di un processo con la trepidante emozione di un esordiente.
Mi ricordo Remo Pannain, teso durante la lettura di un dispositivo in un processo di Corte di Assise nel quale aveva versato tutta la sua umanità e tutta la sua
generosità, stringere, senza accorgersene, il braccio di chi vi sta parlando e che gli
era accanto, fino al termine della lettura del dispositivo; io portai poi per qualche
giorno i lividi di questa stretta che Remo Pannain, inconsapevole, mi aveva inferto.
Ricordo Giuseppe Sabatini partecipare sofferente alla sorte del prof. Felice
Ippolito in un drammatico e storico processo nel quale egli appunto difese questo
imputato insieme ad Adolfo Gatti.
Ricordo ancora Ferdinando Giovannini, che rammento primeggiare in un
Collegio nel quale erano Remo Pannain e De Marsico, e che ricordo replicare ad un
Presidente del Tribunale, che si complimentava con lui dopo l’arringa per il contributo portato al Tribunale: “Allora Presidente vuol dire che ho sbagliato tutto!”.
Alfonso Favino, un logico inesorabile nell’analisi del fatto, a cui giustamente è stata dedicata un’aula qui a fianco. Maria Bassino, una leonessa fiammeggiante che Bruno Cassinelli divorava con gli occhi mentre pronunciava arringhe di rara
incisività (Cassinelli si vantava di essere un intenditore perché sosteneva di aver
capito tutto della vita già a sette anni, perché a sette anni aveva scoperto il violino
e le donne e quindi dobbiamo ritenere che la sua ammirazione per la Maria Bassino
fosse ampiamente giustificata dalla sua esperienza).
Giovanni Leone che, finalmente libero dalle incompatibilità parlamentari,
accompagnato da Umberto Gualtieri, altra figura enorme di avvocato, tornava ad
indossare la toga con l’entusiasmo di un principiante e l’autorevolezza di un maestro. A tutti mostrando i segni di una scuola che risaliva ad Enrico De Nicola e ad
Edoardo Massari.
Girolamo Bellavista, che aveva espresso la sua gratitudine – stavo per dire
accompagnato da Giovanni Cipollone ma siccome Giovanni non può aspettare che
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RomanaDOTTRINA
temi
uno arrivi al punto già mi sta facendo segno con la mano – dunque, dicevo,
Girolamo Bellavista, che aveva espresso la sua gratitudine alla professione forense
per ciò che essa può offrire anche sul piano pratico, facendo scolpire sul portale
della sua villa siciliana la scritta “verba manent” e che si divideva fra Palermo e
Roma, assistito appunto dall’entusiasmo di Giovanni Cipollone che lo amava e lo
venerava, pronunciava arringhe dense di argomenti, illuminate da quella intelligenza sottile di cui la Sicilia fa spesso dono ai suoi figli.
Ecco, in questo firmamento, quattro stelle riescono egualmente ad affacciarsi e a brillare di luce propria: quelle di Adolfo Gatti, di Nicola Madia, di Franco De
Cataldo e, appunto, di Luciano Revel.
Per noi, allora giovani di belle speranze, Giovanni Cipollone, Alessandro
Cassiani, Paolo Appella, Marcello Petrelli, Giorgio Fini, Patrizio Spinelli, Ezio
Zaino, Ugo Longo, Marcello Di Stante, erano questi i punti di riferimento, i maestri da studiare. Certo, non erano gli unici ad eccellere: come potremmo dimenticare, ad esempio, la forza robusta di un Vinicio De Matteis o l’eleganza e l’ingegno
sottile di Carlo D’Agostino o ancora quel formidabile combattente che fu appunto
Umberto Gualtieri?
Ma i quattro che ho prima ricordato possedevano in più rispetto agli altri
quella qualità che potremmo chiamare “fascino” e che è una specie di valore
aggiunto alla bravura e che concorre a delineare il carisma individuale ed irripetibile di chi ha la fortuna di possederlo.
Adolfo Gatti era di tutti, secondo me, il più austero; sembrava quasi voler trasferire nell’arringa la sua asciutta ed elegante posizione di modi, la sua abitudine
nel vestire, maniacale però nella preparazione della causa, come possono testimoniare coloro che lo hanno sentito o coloro che hanno avuto la fortuna di sbirciare
nella scaletta della sue arringhe; scalette caratteristiche, perché redatte su enormi
“lenzuoli protocollo” e tutte sottolineate con pennarelli di vario colore che evidentemente dovevano servire a cadenzare per lui il trascorrere dei vari argomenti.
Egli intese la professione e quindi la difesa nei processi come momenti di un
alto impegno civile. Ed ecco perché Adolfo Gatti viene da noi ricordato soprattutto
per le battaglie che egli ha condotto in favore dei diritti della difesa, ecco perché lo
ricordiamo soprattutto impegnato in delicate cause di diffamazione.
Nicola Madia viveva invece il processo e quel momento supremo ed inebriante dell’arringa con il duplice travaglio del patrono che si impegna per le ragioni del cliente e dell’artista che, ogni volta, vuole consegnare agli ascoltatori un prodotto perfetto della sua arte. Erede di una grande tradizione familiare e allievo
anche lui di Bruno Cassinelli appariva dominato e, direi, quasi divorato da un programma tenacemente inseguito: quello di innovare l’arte forense nel solco di una
linea tracciata dai grandi maestri.
Se dovessimo definire in termini calcistici Franco De Cataldo potremmo parlare di “un pressing a tutto campo”. Per De Cataldo la causa era sempre una guerra. Una guerra fatta di battaglie dall’inizio alla fine perché la vittoria, secondo lui,
doveva essere conquistata palmo a palmo. L’avversario, fosse il Pubblico Ministero,
la Parte Civile o il difensore dell’imputato quand’era lui Parte Civile, era un obiet-
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tivo da braccare, da inseguire continuamente senza lasciargli un attimo di respiro.
Non appena Franco entrava in un’aula, la tensione saliva immediatamente anche
perché non accettava di passare inosservato. E qualche volta la tensione esplodeva
anche: era il suo limite e nello stesso tempo la sua grandezza. Lo ricordo proprio
fuori da una di queste aule, mentre passavamo con Luciano Revel, salutarci e dire:
“A Lucia’ ma lo sai che m’ha fatto il Presidente? Me voleva sbatte fuori”; e Luciano
allora: “Ma tu che gli hai fatto?” E Franco raccontò e Luciano allora rispose: “Ma
ha fatto bene … il Presidente … Ti doveva cacciare fuori!”
Tra questi moschettieri si inserisce Luciano Revel. Degli altri tre non può
dirsi che andassero tutti d’accordo tra loro e che tutti si amassero fra loro nella stessa misura. Ma Luciano, invece, andava d’accordo con tutti e da tutti era stimato,
benvoluto, rispettato ed amato.
Ma questo non era segno di un carattere debole o di una personalità priva di
nerbo. Quanto piuttosto frutto di una superiore capacità di comprendere ed accettare le varie diversità e trovare in ognuna di esse sempre stampata la sua stessa inestinguibile passione: la toga.
La toga, questa corazza che ci protegge e ci esalta, questo cilicio che ci vincola all’osservanza del più sacro dei doveri: la difesa di chi ha bisogno di noi, specialmente quando chi chiede questo aiuto è un debole che la prepotenza del più forte
sta per travolgere.
Un dovere che ben possiamo definire sacro e che Luciano Revel sentiva come
sacro perché solo il suo rispetto può dare significato e contenuto a quel diritto che
la nostra Costituzione definisce come inviolabile, e cioè il diritto di difesa.
Non amava forse Luciano ripetere spesso la frase con la quale Enrico De
Nicola, dismessa la carica di Capo provvisorio dello Stato, chiedeva di essere nuovamente iscritto all’Ordine degli Avvocati? Egli, rivolgendosi al Presidente
dell’Ordine degli Avvocati di Napoli così diceva: “Le chiedo di accogliermi in quell’albo dal quale uscendo mai ci si innalza e nel quale rientrando mai si scende”.
In quella frase di De Nicola, Luciano Revel amava rispecchiarsi. Non aveva
del resto immaginato, Luciano, la nascita dell’Avvocatura e della difesa come una
sfida, come un atto di coraggio, come una esplosione di generosità, uno slancio di
solidarietà? E nel suo volumetto di memorie, di ricordi, di racconti di se stesso, in
quella Sua autobiografia in nuce, Luciano aveva immaginato la prima difesa nella
storia dell’umanità. Egli aveva immaginato un individuo braccato da una folla
urlante, che ne voleva fare giustizia sommaria. E, fuggendo, questo individuo terrorizzato si imbatte in un individuo ammantato da un grande mantello, forse la
prima toga nella storia dell’umanità. E questo individuo accoglie sotto il suo mantello il fuggitivo e ferma la folla e dice: “non giudicherete quest’uomo senza averne prima ascoltato la difesa”.
Così a Luciano piaceva immaginare la nascita dell’Avvocatura e la prima
difesa nella storia dell’umanità.
Ora in quella frase di De Nicola, che addirittura in questo libretto è ripetuta
ben due volte, in quella fantasia sulla nascita dell’Avvocatura, a mio avviso, è
splendidamente raffigurata l’alta concezione che Luciano aveva della Sua e della
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RomanaDOTTRINA
temi
nostra professione.
In uno scritto giovanile pubblicato su quella rivista che gli era tanto cara, “Gli
oratori del giorno”, Luciano immagina un suo incontro notturno, sul Lungotevere,
alle spalle del Palazzo di Giustizia, con la Giustizia: una vecchia signora che era
uscita dal Palazzaccio per prendere una boccata d’aria pura perché “la dentro tira
un’ariaccia”. La Giustizia sta là, seduta sulla spalletta e si informa sui programmi
del giovanotto appena uscito dallo studio e che non osa, non osa confessare a questa vecchia signora di essere già un avvocato. E quindi si limita a dire che attualmente, non sapendo dire niente di meglio, commercia in candele. Una professione
che desta pietà nella giustizia, visto che la luce elettrica era stata già scoperta da
tanto tempo ed allora finalmente Luciano osa confessare che però in un prossimo
futuro lui spera di fare l’avvocato. A questo punto riceve la compassionevole esortazione della Giustizia a continuare ad occuparsi di candele e a lasciar perdere questa professione. La Giustizia se ne va da una parte e rientra nel Palazzo di Giustizia
– perché comunque è sempre meglio dare una guardata a quel che succede là dentro – e Luciano continua la Sua strada per il Lungotevere.
Era il modo con il quale Luciano nascondeva il suo amore per la toga, ma
anche il suo grande rispetto per la Giustizia.
Quel modo, come ho già detto, lo induceva spesso a sorridere di se stesso e a
prendersi in giro. E come riuscisse benissimo in quest’arte risulta dal resoconto che
Lui stesso fece di un clamoroso processo indiziario da lui vissuto e vinto insieme a
Nicola Madia. Un resoconto che allo scopo di evitare che qualcuno potesse pensare ad una Sua autoesaltazione, egli concludeva rammentando un Suo straordinario
qui pro quo che val la pena di essere letto. Si trattava, appunto, come vi dicevo, di
un processo indiziario e Luciano aveva avuto la malaugurata idea di attingere a
Bentham degli spunti circa il problema dell’indizio e della prova.
“Aveva ragione Geremia Bentham – scrive Luciano - quando diceva che
cento indizi non fanno una prova, così come cento conigli non fanno un cavallo. Ma
chi volesse ripetere in occasione di un processo indiziario questa sacrosanta verità
ponga attenzione a non invertire i termini dell’aforisma. Spiacevole incidente accaduto a chi scrive, in una affollatissima aula di udienza, dove a testa alta sostenne
che cento indizi non fanno un cavallo, così come cento conigli non fanno una
prova”. Concludeva Luciano: “la quale affermazione, sebbene giudiziariamente e
zoologicamente verissima non sembrava del tutto pertinente alla causa che si stava
patrocinando”.
Luciano, naturalmente, ha poi ricordato anche in tempi recenti questo Suo
antico qui pro quo e aggiunse che era doveroso ricordarlo perché gli avvocati hanno
questo straordinario vizio: che parlano sempre delle cause che vincono, non parlano mai invece delle cause che perdono.
Luciano è stato veramente un grande avvocato, allievo come ho già detto di
Bruno Cassinelli, ha dominato in Corte di Assise. Lo studio della psiche, la ricerca
della causale, l’analisi del movente della condotta di un uomo, i rapporti tra l’ambiente e l’autore del delitto, lo studio di quel determinismo che sembra talvolta irresistibilmente travolgere un uomo e portarlo al delitto, hanno avuto in Luciano un
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interprete insuperabile.
Io lo ricordo così nella difesa di Guido, uno degli autori di quell’atroce delitto che venne definito la “strage del Circeo” – i più anziani di noi lo ricordano, si
trattava di due giovani a cui poi se ne aggiunse un terzo che, con un pretesto, avevano portato in una villa isolata due ragazze e ne avevano poi uccisa una seviziandola e ridotto in fin di vita l’altra –; l’arringa di Luciano che, in grado di appello,
aveva assunto la difesa di uno degli imputati, l’altro era assistito da Alfredo De
Marsico, ma certo Luciano non sfigurò accanto a quel gigante, era tutta tesa ad ottenere una perizia psichiatrica, convinto come era Luciano, che in realtà il suo imputato avesse una personalità tarata dal male e non fosse capace o perlomeno non fosse
pienamente capace di intendere e di volere e, in linea subordinata, le attenuanti generiche e il riconoscimento del risarcimento del danno.
E’ un’arringa mirabile che si sviluppa attraverso un contrappunto continuo tra
la fragilità della materia umana esplorata da Luciano con grande attenzione ed il
dovere del giudice che, diceva Luciano, non è quello di pronunciare sentenze esemplari, non è di rispondere con durezza anche all’atrocità del delitto più grave, ma di
ispirarsi al più alto precetto della patristica: “misericordia che punisce, severità che
perdona”.
Esistono tanti tipi di difensori, ma Luciano dichiarava che a Lui ne interessava uno solo: quello che sa soffrire. Egli in definitiva conservava e praticava l’insegnamento di un vecchio magistrato - anche i magistrati qualche volta possono insegnare qualche cosa agli avvocati – “impara a stringere la mano sudata del fratello
colpevole e miserabile”.
E così interpretando in questo modo la figura del difensore, il compito del
difensore, pur sullo scenario di un fatto orrendo, egli riuscì a sottrarre l’imputato alle
erinni che lo volevano condannato senza processo. Addirittura in quell’epoca si diceva che questi imputati non meritavano un difensore di fiducia, nessuno avrebbe
dovuto assumere la loro difesa, avrebbero dovuto essere affidati al difensore d’ufficio che si sarebbe dovuto rimettere alla giustizia. Luciano ebbe il coraggio di assumere quella difesa e riuscì a restituire l’imputato ad un giudizio sereno e proprio perché in questo modo interpretò – lo possiamo ben dire – la sua missione di difensore,
riuscì a perorare la causa delle attenuanti generiche e a nobilitare addirittura l’argomento del risarcimento del danno in un processo per fatti di una atrocità inusitata.
Ma Luciano aveva il dono di una eccezionale versatilità e sarebbe quindi riduttivo considerarlo soltanto un avvocato di Corte di Assise. Veloce nell’esposizione,
lucido nell’argomentare, forte di solidi studi giuridici, - ancora oggi potrebbe essere
letta con interesse l’arringa che egli ha pronunciato in difesa del prof. Iorio, che
aveva per oggetto i rapporti fra arte ed osceno – padrone di tutte le risorse dell’arte
forense, prime fra tutte l’ironia e il senso del ridicolo con il quale sapeva sdrammatizzare ogni situazione, ma anche travolgere l’avversario, Luciano, di questo Foro
eccezionale, è stato un principe riconosciuto.
La vita ed il destino non hanno consentito a Franco De Cataldo e Nicola Madia
di misurarsi con il nuovo codice. Adolfo Gatti si è ritirato quando ancora avrebbe
potuto dare molto, non so se per l’orgoglio di chi teme la tristezza del tramonto o
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RomanaDOTTRINA
temi
forse, molto più probabilmente, perché non si riconosceva più in un mondo che non
era quello di Carnelutti con il quale egli si era confrontato vittorioso nel processo
Fenaroli.
Luciano, che pur certamente non amava il nuovo processo, si era tuttavia
impadronito dei nuovi meccanismi, riuscendo a superare – data la diversità di questo processo rispetto al vecchio – una Sua naturale inclinazione a scomparire dalla
scena del dibattimento, fino quasi ad ottenere il risultato che del suo imputato più
non si parlasse. Questo nuovo processo che impone ritmi, cadenze, interventi diversi lo ha visto egualmente però mirabile protagonista grazie alla sua eccezionale
capacità di leggere i processi, capacità che è soltanto dei grandi, e di saper ricavare
anche dalla fonte più avversa sempre almeno una briciola in favore del proprio
imputato.
Di questa sua capacità potrei fornire innumerevoli esempi: ricordo un processo, ahimè, non ancora finito nel quale io avevo esaminato un testimone che doveva
essere favorevole alla parte da me rappresentata. Poi il testimone purtroppo finì nelle
mani di Luciano Revel, mio avversario, per il controesame. Lo distrusse! E poi guardandomi con quel suo sorriso inconfondibile mi disse pure: “Mi devi anche ringraziare, perché siccome siamo amici mi sono fermato qui, sennò te lo ammazzavo!”.
Ed io, naturalmente, dovendo stare al gioco gli disse: “Ma come sei buono! Figurati
cosa sarebbe successo se avessi avuto per avversario un altro avvocato!”.
Lo ricordo ancora in un’altra causa nella quale difendeva un indagato, divenuto poi imputato, che era stato raggiunto dalle accuse calunniose di un pentito e
che, raggiunto e travolto dalla gravità di queste accuse, si era difeso coinvolgendo
ingiustamente altre persone. E per questo imputato era diventato un motivo di vergogna, di umiliazione profonda questo suo momento di debolezza. Luciano seppe
interpretare mirabilmente lo stato d’animo di questo imputato, cui sembrava più
interessare un suo riscatto sul piano morale che non la sorte del processo. Luciano
vinse il processo, ma soprattutto riuscì a rendersi cosi profondo e sensibile interprete del travaglio umano del suo assistito da consentire a quest’ultimo di sentirsi
riscattato di fronte a tutti coloro che avevano conosciuto la vicenda nella quale egli
era stato coinvolto.
Se il tempo lo consentisse, dovrei ricordare ancora il Revel conferenziere,
anche se su questo naturalmente Luciano rammenterebbe che le conferenze sono
quelle straordinarie cose nelle quali il conferenziere parla ad un pubblico nel quale
pochi lo ascoltano discettar di cose che a nessuno interessano.
Lo potrei ricordare come saggista, lo potrei ricordare come generoso presentatore di libri, ogni volta che Egli veniva richiesto di una presentazione. Come
dimenticare le serate nelle quali egli ha presentato i libri di un nostro altro infelice
amico scomparso, Goffredo Giorgi? Veramente non si sapeva se ammirare di più le
bellissime poesie di Goffredo o la presentazione che ne faceva Luciano.
Potremmo ricordarlo come difensore di personaggi storici, travolti dal destino: Paolo e Francesca come dicevano prima, ma anche la Monaca di Monza. Io
ricordo quando a Menotti venne in mente di simulare questi processi per il Festival
dei Due Mondi. Mi aveva telefonato e mi aveva chiesto di recitare una parte, ma
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io ero molto indeciso se accettare perché non mi ritenevo capace di farlo, come in
genere mi ritengo incapace di fare tante cose. Ma il colpo di grazia che mi fece decidere per il no fu quando Menotti, pensando di convincermi, mi disse che la controparte sarebbe stata Luciano Revel. Io dissi che non ero matto; non mi potevo far
distruggere così davanti al pubblico del Festival dei Due Mondi… E però Luciano
ogni volta, ogni anno ci riprovava e anche di recente mi aveva detto che aveva avuto
l’incarico di difendere la Monaca di Monza. Io gli dissi: “Luciano, ma come, alla
tua età ti metti a difendere queste puttanone” E lui: “Ma perché, secondo te, era una
puttana?”. “Bè forse, poveretta non lo era, però del suo ce ne ha messo”. “Sai – mi
disse – questa è un’idea. Mi sa che ci devo lavorare intorno”.
Ora però dicevo, se fosse qui presente - e lo è, e forse ci sta guardando da
lassù – Luciano stesso mi avrebbe con un gesto presidenziale fatto segno che è il
momento di chiudere. Del resto questo sarebbe il momento in cui dovrei cominciare a parlarvi di Luciano e di me – oddio forse già l’ho fatto – ma forse dovrei scendere nella riesumazione di ricordi più intimi, e di questo non sarei capace perché ho
già resistito molto all’emozione.
Posso soltanto ricordare i tanti biglietti che ci siamo scambiati; potrei ricordare la dedica che a Lui ho fatto su un libro che io avevo scritto e che era la dedica
che più gli piaceva si congiungeva a quella sua idea di avere vissuto come un grande avvocato senza esserlo. Era una dedica nella quale lo ringraziavo per il fatto di
essere stato maestro di tanti di noi senza neppure rendersene conto. Questa idea del
maestro inconsapevole gli era molto piaciuta.
E dovrei ricordare il regalo più bello che Luciano mi ha fatto. Questo codice
curato da Bruno Cassinelli e che Bruno Cassinelli gli regalò beneaugurandogli l’avvenire e che Luciano qualche anno fa ha voluto poi girare a me a testimonianza dell’affetto e dell’amicizia che ci legavano. Ricordi che qui evoco solo perché non
saprei come meglio rammentare il Suo calore umano e il Suo culto per l’amicizia.
Ecco, così ho adempiuto a un triste dovere. E, come dicevo all’inizio, ho solo
assolto ad un impegno di amicizia e chiedo scusa a tutti. Chiedo scusa in particolare a Milena, ai suoi familiari, agli allievi, a Paola che ci ha raccomandato ancora sul
suo letto di morte, perché era la sua “Cucciola”. Chiedo scusa a tutti coloro che,
avendo conosciuto Luciano, sono in grado di misurare la sproporzione fra la Sua
grandezza e la povertà di questa commemorazione.
Ma Luciano la voleva e mi ricordò l’impegno, più volte richiesto e rinnovato, anche nell’ultima conversazione che avemmo pochi giorni prima della sua
morte. Naturalmente mi ricordò l’impegno a modo suo. “Ricordati della commemorazione” – mi disse – “ma aspetta, aspetta a prepararla… Sai, così, per scaramanzia….“.
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RomanaDOTTRINA
temi
Avv. Prof.
Lucio V. MOSCARINI*
Riflessioni sul tema del
"Contratto giusto"**.
Sommario
1. Dicatio ad honorem e oggetto della ricerca. 2. Libertà di contratto e principio di solidarietà.
3. Equità contrattuale, principio di buona fede e "giusto prezzo" 4. Il tema del "contratto giusto"
e la figura generale della rescissione. 5. Il tema del "contratto giusto" nelle fasi storiche della
"costituzionalizzazione" e della "decodificazione" del diritto privato.
6. Contratto "giusto" e rapporti di lavoro. 7. Il problema del "contratto giusto"
nella fase della "europeizzazione" del diritto privato. 8. Altre espressioni di una linea
di tendenza verso l’introduzione di un principio di equità dei contratti 9. Perdurante attualità
del problema del "contratto giusto". 10. Possibili riscontri della perdurante operatività
del principio di libertà contrattuale
1. Dicatio ad honorem e oggetto della ricerca
e pagine che seguono sono dedicate alla raccolta di scritti in onore di C. Massimo
Bianca. La quale dedica, lungi dal porsi come orpello solo formale, intende esprimere il riconoscimento dovuto ad un professore che ha profuso la sua intensa ed
operosissima vita di studioso, oltre che in altri temi centrali del diritto privato, principalmente nella materia del contratto, approfondita non solo nelle sue linee tradizionali segnate dalla tradizione codicistica ma anche e soprattutto nei valori assorbiti attraverso un’attenzione costantemente rivolta al diritto europeo.
In verità il problema del "contratto giusto", spesso riassunto nella sintesi verbale dell’"equità nel contratto", si propone nella civilistica italiana come interrogativo ricorrente, che ha stimolato l’interesse degli studiosi soprattutto a decorrere dall’entrata in vigore della codificazione del 1940-42.
La dottrina italiana che aveva vissuto negli anni trenta e quaranta, a cavallo
appunto della nuova codificazione, la sua stagione più raffinata, svincolandosi prima
dal peso della scuola dell’esegesi e successivamente rendendosi concettualmente
autonoma anche rispetto alla pandettistica tedesca, si era trovata a doversi misurare,
di fronte al nuovo codice, con alcuni istituti i quali, pur nel quadro di un sistema
volto ad esaltare il valore della libertà contrattuale inteso quale modello di espressione della libertà economica, ponevano l’interrogativo se non si potesse invece ravvisare alla base del nuovo diritto, un qualche profilo di rilevanza dell’equità, vale a
dire di una sorta di calmierizzazione della libertà del privato di stabilire con lo strumento dell’autonomia contrattuale, il contenuto economico delle negoziazioni.
L
2. Libertà di contratto e principio di solidarietà
Diffusa e analiticamente supportata anche da ponderose indagini monografiche è stata l’idea che la nuova codificazione avesse attuato un contemperamento tra
* EMERITO DI DIRITTO CIVILE DELL’UNIV. “L.U.I.S.S. GUIDO CARLI
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** Il saggio, come del resto è indicato nel testo, è destinato agli
Studi in onore di C.M. Bianca”
la posizione individualistica della tradizione liberale, che aveva ispirato la prima
codificazione dell’Italia unificata, e il valore della solidarietà1 emerso soprattutto
con riferimento alla disciplina della proprietà e, in generale, dei diritti reali, ma non
assente del tutto neppure dalla normativa sul contratto.
Momenti di emersione di tale contemperamento tra il principio della libertà
contrattuale e il valore della solidarietà venivano ravvisati innanzitutto nella disciplina della sopravvenienza, che tendeva a vincolare l’equilibrio tra prestazioni al
momento storico della stipulazione del contratto, riducendo l’area della irrilevanza
di fatti successivi a tale momento che detto equilibrio potessero avere modificato2:
della quale idea il nuovo codice si era reso interprete attraverso la generalizzazione dell’istituto della onerosità sopravvenuta, che ricollegava appunto alla sopravvenienza il fondamento del rimedio risolutorio3.
3. Equità contrattuale, principio di buona fede e "giusto prezzo".
Accanto alla rilevanza del profilo della sopravvenienza, spiccata incidenza
sul problema dell’equità nel contratto era stata assunta dal rilievo attribuito, nella
nuova codificazione, al principio di buona fede, disciplinato anch’esso a livello di
criterio generale emergente in tutti i momenti della disciplina dell’autonomia negoziale: da quello della conclusione del contratto (art. 1337 c.c.), a quello della sua
interpretazione (art. 1366), completato dalla norma sulla cd. integrazione degli
effetti del contratto(art. 1374), a quello infine dell’esecuzione (art. 1375).
Ad esse si aggiungevano talune norme, sparse qua e la nel tessuto del codice, che facevano addirittura riferimento esplicito ad un principio di "giusto prezzo",
quale ad esempio l’art. 2923 co. 3° che, disciplinando gli effetti della vendita forzata sui preesistenti rapporti di locazione, stabilisce che l’acquirente non è tenuto a
rispettare la locazione qualora il prezzo convenuto sia inferiore di un terzo rispetto
ad un parametro costituito solo in linea sussidiaria dal prezzo risultante da precedenti locazioni ma, in via primaria, da un concetto di "giusto prezzo"4.
Ma il nodo principale cui si riferivano i dubbi ricorrenti circa la sostituzione,
ad un principio di libertà dell’autonomia contrattuale, di un vero e proprio principio altrettanto generale di "contratto giusto" traevano spunto dalla nuova disciplina della rescissione.
1 Si veda in proposito P. GALLO, Sopravvenienza contrattuale
e problemi di gestione del contratto, Milano, 1992, pp. 116 ss.
2 Sull’argomento si veda diffusamente M. ANDREOLI,
Revisione delle dottrine sulla sopravvenienza contrattuale, in
Riv. dir. civ., 1938, pp. 309 ss., nonché P. GALLO,
Sopravvenienza, cit., spec. pp. 73 ss.
3 Cfr. P. GALLO, Sopravvenienza, cit., p. 112 pone in evidenza
le convergenze tra la disciplina dell’eccessiva onerosità
sopravvenuta e quella della rescissione, tanto che "già sotto il
profilo storico si nota come l’evoluzione di questi due istituti
abbia avuto un andamento parallelo". A sostegno di tale
prospettiva osserva come la mancanza originaria di equilibrio
tra le prestazioni apra la strada alla rescissione del contratto
per lesione e come il venire meno dell’equilibrio per
mutamento delle circostanze apra la strada al rimedio della
risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta.
Del resto, la risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta
non serve ad assicurare che il contratto sia in ogni caso
vantaggioso per le parti, ma costituisce un rimedio per il caso
dell’inattuabilità del rapporto non imputabile alle parti,
perché dovuta a fatti non solo non previsti, ma addirittura
imprevedibili (D. RUSSO, Sull’equità dei contratti, Napoli,
2001, pp. 41 ss.).
4 Sull’argomento si veda S. MAZZAMUTO, L’esecuzione forzata,
in Tratt. Rescigno, XX, Torino, 1985, pp. 240 s.; R.
BONSIGNORI, Effetti della vendita e dell’assegnazione, in Il
Codice civile – Commentario diretto da P. Schlesinger, sub artt.
2919-2929, Milano, 1988, pp. 150 ss. Cfr.altresì L.V.
MOSCARINI, La tutela dei diritti, II ed., Napoli, 2003, pp. 158 s
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temi
4-Il tema del "contratto giusto" e la figura generale della rescissione.
Il codice del 1940-42, elevando tale istituto dal rango di figura afferente al contratto
speciale di compravendita, invero già costituente il modello emblematico dei contratti di
scambio e come tale già idoneo a supportare l’idea di una generalizzazione del rimedio rescissorio, a quello di figura propria della disciplina generale dei contratti, aveva però attuato una
duplice innovazione. Da una parte aveva previsto, accanto alla figura generale della rescissione dei contratti a prestazioni corrispettive, la figura speciale della rescissione delle divisioni, svincolata dai profili di rilevanza dei momenti soggettivi dello stato di pericolo e dello stato
di bisogno concomitanti con gli speculari presupposti della consapevolezza o addirittura del
doloso approfittamento dell’altro contraente, caratterizzanti invece la figura generale. Nel
contempo aveva introdotto come momenti cardine della disciplina generale quelli della rilevanza dei presupposti soggettivi dello stato di bisogno e dell’approfittamento, tanto da offrire
spunto a chi aveva preso in considerazione l’idea di costruire il vizio rescissorio come un quarto modello di vizio della volontà5, accanto ai tre modelli tradizionali dell’errore, della violenza e del dolo, riconducibili in realtà a due se si assume la figura del dolo come un’ipotesi particolare di errore.
Era proprio il raffronto tra la normativa della rescissione delle divisioni, nella quale la
rilevanza oggettiva dello squilibrio tra valore della quota e valore della porzione trovava fondamento nella speciale funzione di tale tipo negoziale, e la nuova figura della rescissione così
come disegnata nella disciplina dei contratti in generale dagli artt. 1447 e 1448 ss., che induceva gli studiosi a continuare a considerare eccezionale un rimedio tendente a privare di efficacia il vincolo contrattuale rispetto al principio generale della libertà di determinazione dei
corrispettivi.
La veduta prevalente considerava cioè la rescissione come un rimedio di carattere
appunto eccezionale fondato su due ipotesi, aggiuntive rispetto alle figure tradizionali dei vizi
del volere, di non libera formazione delle scelte negoziali dell’autonomia privata, rilevante
solo in quanto concomitante con un profilo di oggettivo squilibrio tra prestazione e controprestazione assunto come presupposto generico nella fattispecie dello stato di pericolo e delimitato dal profilo dimensionale dell’ultra dimidium nella fattispecie, considerata di meno
grave turbativa della formazione del volere del soggetto in peius, dello stato di bisogno6.
5 M. ALLARA, Teoria generale del contratto, 2° ed, Torino,
1955, pp. 205 ss. (ma già nella I ed., Torino, 1945, pp.
179 s.);
G. MIRABELLI, La rescissione del contratto, Napoli, 1962,
pp. 97 ss.; G. SCALFI, Il fondamento dell’azione di
rescissione, in Temi, 1949, pp. 39 ss.; A. GAMBOGI,
Ancora sul fondamento dell’azione di rescissione dei
contratti, in Giurispr. compl. cass. sez. civ., 1951, III, pp.
462 ss.; E. LECCESE, Sullo stato di bisogno come requisito
soggettivo, di natura patrimoniale, della rescissione per
lesione, in Rass. dir. civ., 1987, pp. 503 ss. Su tale
costruzione si veda anche S. ORRÙ, La rescissione del
contratto, Padova, 1997, pp. 6 ss., nonché B. CARPINO, La
rescissione del contratto, in Il Codice civile –
Commentario diretto da P. Schlesinger, sub artt. 14471452, Milano, 2000, pp. 9 s.
6 Per la verità, insegnando che "la rescissione per motivo
della lesione è indipendente dalla buona o cattiva fede
del compratore" (J. DOMAT, Le leggi civili, Napoli, Libro
II, Tit. II, 1819, p. 231), era stata costruita autorevolmente
18
anche una nozione meramente oggettiva della
rescissione, accolta in tutto o in parte in Italia, tra gli
altri, da L. MOSCO, La conversione del negozio giuridico,
Napoli, 1947, p. 196; L. CARIOTA FERRARA, Il negozio
giuridico nel diritto privato italiano, Napoli, 1952, p. 574;
F. SANTORO-PASSARELLI, Dottrine generali del diritto
civile, IX ed., Napoli 1989, pp. 169 e 184; S. GATTI,
L’adeguatezza delle prestazioni nei contratti con
prestazioni corrispettive, in Riv. dir. comm, 1963, I, pp.
424 ss.. Non meno autorevolmente, peraltro, Pothier
aveva precisato che non solo l’equità deve essere
rispettata in tutte le convenzioni, ma anche che ogni
volta che si pattuisce un corrispettivo iniquo il consenso
della parte lesa deve ritenersi imperfetto, perché la
stessa ha falsamente ritenuto di dare l’equivalente di
quanto ha ricevuto. Pertanto, mentre sul piano oggettivo
il contratto deve essere equo, su quello soggettivo il
negozio iniquo è viziato per il fatto che una delle due
parti ha commesso un errore. In ogni caso, la valutazione
dell’equità deve tenere conto del fatto che il rapporto
tra i valori delle prestazioni reciproche – e più
La presenza, nella nuova disciplina generale dei contratti, di un rimedio di
questo tipo, anche se unita alle sporadiche affermazioni esplicite di un concetto di
"giusto prezzo" e alla rilevanza attribuita al principio di buona fede affiorante nei
tre momenti della conclusione, dell’interpretazione e della esecuzione del contratto, e considerato anche quale possibile supporto per l’integrazione dei suoi effetti,
come nell’esempio scolastico della locazione dell’uso di un balcone pattuita, ma
solo come presupposto tacito, in vista di una manifestazione che non avesse più
avuto luogo, non era apparsa sufficiente a far ritenere scalfito il principio di libertà di determinazione dei corrispettivi, che costituiva poi il punto nodale della libertà contrattuale. Al di fuori cioè delle situazioni patologiche di non libera formazione della volontà del privato7, considerate nella nuova disciplina della rescissione
del contratto concluso in stato di bisogno o addirittura in stato di pericolo, il valore di fondo riconosciuto dalla nuova codificazione restava quello, proprio del pensiero liberale, della libera determinazione degli equilibri economici tra prestazione
e controprestazione8.
5. Il tema del "contratto giusto" nelle fasi storiche
della "costituzionalizzazione" e della "decodificazione"
del diritto privato.
Se questo restava il valore di fondo espresso dalla codificazione del 1940-42,
nuovi, più consistenti spunti per la riproposizione di un problema del contratto giusto sono emersi nelle varie fasi in cui si è sviluppata l’evoluzione dell’ordinamento italiano dopo la nuova codificazione.
Innanzitutto la fase storica della costituzionalizzazione del diritto privato,
attuata attraverso la penetrazione nell’esperienza giuridica italiana dei valori sanciti dalla Carta costituzionale del 1947-489. In secondo luogo la fase definita della
"decodificazione", costituita cioè dalla sottrazione dal tessuto del codice di alcuni
importanti settori dell’autonomia contrattuale, quali, esempi più significativi, i contratti di conduzione agraria e le locazioni urbane, regolati da nuove, apposite leggi
organiche ritenute idonee ad esprimere veri e propri principi di diritto speciale10. In
terzo luogo la fase, non ancora compiuta, della "europeizzazione" del diritto privato, caratterizzata dal giustapporsi alla disciplina codicistica di una vera e propria
alluvione di norme di fonte sovranazionale o addirittura concepite come regole di
precisamente il prezzo dei beni venduti –
è soggetto ad un naturale margine di oscillazione,
in ragione del quale la lesione sussiste solo
se una parte riceve un prezzo maggiore di quello
più alto (o minore di quello più basso) al quale la cosa
che ha dato può essere venduta. Per tali ragioni, il vizio
del consenso può sempre essere fatto valere nel foro
interno per supplire al giusto prezzo, mentre nel foro
esterno può essere fatto valere solo se la lesione eccede
la metà del giusto prezzo (cfr. R.J. POTHIER,
Obbligazioni, Livorno, 1835, pp. 66 ss). Su tali
orientamenti si veda diffusamente B. CARPINO, La
rescissione, cit., pp. 6 ss.
7 C.M. BIANCA, Il contratto, II ed., Milano, 2000, p. 682,
osserva che "l’irregolarità del contratto non è data
dall’iniquità in sè considerata, ma dall’iniquità risultante
dall’approfittamento di una situazione di anomala
alterazione della libertà negoziale".
Cfr. G. MIRABELLI, op. loc. cit.
8 Cfr. D. RUSSO, Sull’equità, cit., pp. 34 ss.
9 Sull’argomento si veda F. GALGANO, Il diritto privato tra
codice e costituzione, II ed. accresciuta, Bologna, 1983
(anche in rist., Milano, 1999).
10 Il fenomeno, com’è noto, è ampiamente descritto
nell’opera di N. IRTI, L’età della decodificazione, Milano,
1999.
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RomanaDOTTRINA
temi
diritto uniforme per soddisfare le esigenze della mondializzazione dell’economia11.
Nelle prime due fasi storiche, della costituzionalizzazione e della decodificazione del diritto privato, il principio di libertà di determinazione dei corrispettivi
aveva sicuramente conservato il rango e la portata di principio generale.
In forza di esso il privato, così com’è libero di vendere o di non vendere i
suoi beni o i servizi assicurati dalle sue prestazioni, è altrettanto libero di venderli
a prezzo anche di molto inferiore al loro valore, per attuare attraverso la vendita
un’attribuzione patrimoniale gratuita del plus-valore, come nella fattispecie del
negotium mixtum cum donatione, nella quale il profilo di parziale liberalità può
semmai offrire spunto di rilevanza per altri valori afferenti alla disciplina delle successioni. In tali ipotesi il problema generale del contratto giusto si incrocia con
quello altrettanto generale del contratto misto, e della possibile rilevanza, appunto
nell’ipotesi di commistione di causa gratuita e causa di liberalità, di un profilo di
prevalenza di quest’ultima in quanto ritenuta assorbente di valori attinti ad una differente disciplina speciale quale quella delle successioni, in un’ottica che attribuisce appunto peso prevalente a un determinato profilo causale quale quello di liberalità, in modo simile alla prevalenza riconosciuta dalla legge ad altri profili causali suscettibili di commistione con la normale causa di corrispettività, quale la
causa transatttiva (art. 1965 co. 2 c.c.).
Analogamente il privato resta, secondo il codice pur incrementato delle addizioni "costituzionali" e integrato dalla "decodificazione", libero di scambiare i suoi
beni con un corrispettivo soltanto simbolico, come nel classico esempio scolastico
della vendita nummo uno, nella quale l’esiguità del corrispettivo può semmai offrire spunto di fatto per la configurabilità di un profilo di simulazione.
Analogamente ancora il privato, in forza del principio di libertà dell’autonomia contrattuale, ha sicuramente facoltà di acquistare un bene che particolarmente
corrisponde ai suoi interessi, per le sue caratteristiche o, se si tratta di un bene
immobile, per la sua peculiare ubicazione, pagando un corrispettivo anche di molto
maggiore del suo valore oggettivo, così come, in tali ipotesi, il privato proprietario
ha pieno diritto di trar profitto dal particolare valore "affettivo" che quel determinato bene assume per l’acquirente, senza che la libertà contrattuale dell’uno e dell’altro possano ritenersi compromesse da un principio di equità.
6. Contratto "giusto" e rapporti di lavoro.
La piena libertà dell’autonomia privata incontrava però, già nella stessa codificazione, una incisiva limitazione nella disciplina di tutti i rapporti negoziali aventi ad
oggetto prestazioni comprensive di lavoro dell’uomo, in tutte le sue forme, dal lavoro
subordinato, a quello autonomo tout court, al lavoro autonomo libero professionale costi11 Una prima considerazione sistematica del fenomeno –
che evidenzia l’influsso del diritto comunitario
sull’ordinamento interno con considerazione specifica
del diritto costituzionale, del diritto civile, del diritto
commerciale, del diritto internazionale privato, del diritto
processuale civile, del diritto processuale penale e del
diritto penale - è contenuta nella raccolta di scritti su
20
L’influenza del diritto europeo sul diritto italiano, a cura di
M. Cappelletti e A. Pizzorusso, Milano, 1982,
rispettivamente pp. 3 ss., pp. 107 ss., pp. 283 ss., pp. 389
ss., pp. 433 ss., pp. 565 ss e pp. 609 ss. Per un
inquadramento più recente della materia di vedano i due
tomi della raccolta di scritti Diritto privato europeo, a cura
di N. Lipari, Padova, 1997.
tuente cioè esercizio delle professioni intellettuali, all’appalto in quanto schema negoziale comprendente nel suo oggetto non solo l’apporto di capitali ma anche e soprattutto l’attività di coordinamento dell’imprenditore.
Limite generale operante in tutte tali figure era, già nell’impostazione codicistica,
quello basato sulla considerazione elementare che l’attività lavorativa dell’uomo, una
volta sviluppata, dà diritto comunque ad un compenso che, in assenza di una valida pattuizione interprivata, dev’essere comunque "giusto" e, in mancanza di accordo, dev’essere stabilito dal giudice.
Tale criterio si traduce in un’importante deroga alla regola generale secondo la
quale la mancata determinazione convenzionale di una delle componenti essenziali dei
rapporti sinallagmatici non determina, come invece nei rapporti contrattuali aventi ad
oggetto solo cose, la nullità del vincolo negoziale per mancanza del requisito della determinatezza o determinabilità dell’oggetto, in quanto alla mancanza sopperisce comunque
la determinazione giudiziale: fondamento di tale deroga risiede nella considerazione di
elementare giustizia secondo la quale l’attività lavorativa dell’uomo dev’essere comunque compensata
Tale deroga, sancita nel codice a livello di principio generale valido per tutti i rapporti contrattuali comunque comprendenti nel proprio oggetto l’impiego di attività lavorativa dell’uomo, assorbiva il problema dell’equità del contratto, poiché in via generale,
la misura del corrispettivo era lasciata all’autonomia negoziale delle parti, alla quale
però, occorrendo, sopperiva il potere determinativo del giudice, che la stessa legge commisurava ad un criterio di equità: così nella disciplina del lavoro autonomo12 e in quella
delle professioni intellettuali13, nelle quali la mancata previsione negoziale del corrispettivo lasciava spazio alla determinazione equitativa del giudice. Analogamente nel
rapporto di appalto14, che come si è detto comprendeva nel suo oggetto, oltre all’apporto di capitali, anche l’impiego delle energie umane dell’imprenditore.
12 L’art. 2225 cod. civ. notoriamente dispone che il corrispettivo
è stabilito dal giudice in relazione al risultato ottenuto ed al
lavoro normalmente necessario per ottenerlo, se esso, da una
parte, non è convenuto dalle parti e, dall’altra, non può
essere determinato secondo le tariffe professionali o gli usi. In
dottrina si è sostenuto che il riferimento alla nozione di
"corrispettivo" contenuto in tale disposizione sottolinei
l’equivalenza che dovrebbe caratterizzare il rapporto tra
prestazione e controprestazione nel rapporto d’opera
professionale (cfr. G. GIACOBBE, Professioni intellettuali, in
Enc. Dir., vol. XXXVI, Milano, 1987, p. 1077).
13 Com’è noto, a proposito della prestazione d’opera
intellettuale l’art. 2233 cod. civ. dispone che, se il corrispettivo
non è convenuto dalle parti e non può essere determinato
secondo le tariffe o gli usi, esso è stabilito dal giudice, previo
parere dell’associazione professionale cui il professionista
appartiene. Si è rilevato che, a differenza della disciplina della
prestazione d’opera professionale, ma in tale disposizione non
si fa riferimento alla nozione di corrispettivo, bensì a quella di
"compenso". Ciò sarebbe dovuto alla "particolare posizione
che assume, per sua natura, l’opera intellettuale nei confronti
della prestazione del cliente" (F. SANTORO PASSARELLI,
Professioni intellettuali, in Noviss. Dig., Torino, vol. XIV, 1967,
p. 26), che non consentirebbe la definizione di una specifica
corrispondenza economica tra le due prestazioni. Infatti, a
differenza della prestazione d’opera professionale
contemplata dall’art. 2225 cod. civ., la prestazione d’opera
intellettuale non potrebbe essere valutata secondo criteri
strettamente economici (cfr. G. GIACOBBBE, op. loc. cit.).
14 Com’è noto, infatti, se nell’ambito di un contratto di appalto
le parti non hanno determinato la misura del corrispettivo,
soccorre l’art. 1657 cod. civ., il quale dispone che detta misura
deve essere calcolata, in primo luogo, con riferimento alle
tariffe esistenti o agli usi; in mancanza, tuttavia, essa è
determinata dal giudice (cfr. RUBINO - G. IUDICA,
Dell’appalto, in Comm. Scialoja-Branca, sub artt. 1655-1677,
Bologna-Roma, 1992, p. 219). Proprio a tale proposito la
Suprema Corte ha affermato che "nel contratto d'appalto
l'art. 1657 c.c. deroga alla disposizione generale dell'art. 1346,
nel senso che la mancata determinazione del corrispettivo
non è causa di nullità del contratto, potendo la
determinazione avvenire a posteriori in base alle tariffe
esistenti, ovvero agli usi o da parte del giudice" ed ha chiarito
altresì che "detta norma trova applicazione anche nell'ipotesi
in cui le parti, pur avendo pattuito il corrispettivo
dell'appalto, non ne hanno provato la differente misura,
rispettivamente dedotta" (si veda, tra le altre, Cass. civ., sez. II,
sent. 28 agosto 1993, n. 9129, in Giust. civ. Mass., 1993, n.
1342; Cass. civ., sez. II, sent. 28 luglio 2000, n. 9926, in Giur.
bollettino legisl. tecnica, 2000, p. 453).
21
RomanaDOTTRINA
temi
La deroga includeva già nell’impostazione del codice, anche e soprattutto il lavoro subordinato, vale a dire quel fenomeno centrale della vita del paese sul quale la successiva carta costituzionale avrebbe, con il suo articolo 1, enunciato solennemente addirittura il fondamento della repubblica15.
Ma anche a prescindere da tale enunciazione solenne, la stessa Carta costituzionale avrebbe presto introdotto la duplice regola relativa alla misura della retribuzione del
lavoro subordinato, agganciando tale misura ai due distinti parametri: il primo indicato
nell’adeguatezza del corrispettivo alla quantità e qualità del lavoro, in verità già equivalente al criterio dell’equo apprezzamento sancito dal codice anche per gli altri tipi contrattuali comprendenti il lavoro dell’uomo, quali le ricordate figure del contratto d’opera ossia di lavoro autonomo non altrimenti qualificato, del lavoro nelle professioni intellettuali e del lavoro prestato dall’imprenditore nei rapporti di appalto; il secondo enunciato come criterio di sufficienza della retribuzione a garantire al lavoratore dipendente
ed ai suoi familiari un’esistenza libera e dignitosa, che rappresenta forse la più significativa novità della Carta costituzionale del 1947-48 e inserisce in tale legge fondamentale della repubblica una delle più rilevanti espressioni del principio di solidarietà16.
La norma costituzionale che agganciava la misura della retribuzione del lavoro
dipendente ai due distinti parametri dell’adeguatezza e della sufficienza avrebbe presto
offerto alla giurisprudenza lo spunto per risolvere il problema politico dell’efficacia erga
omnes dei contratti collettivi di lavoro lasciato aperto dalla mai attuata previsione dell’art. 39 Cost. e risolto appunto dall’interpretazione giurisprudenziale che, utilizzando
congiuntamente la regola sostanziale sancita dall’art. 36 e, per considerare nulle le pattuizioni, individuali e collettive, di tale regola non rispettose, lo strumento dell’integrazione del contratto nullo sancito dall’art. 2099 cod. civ., avrebbe assunto come indice di
adeguatezza il metro retributivo fissato dalla contrattazione collettiva libera, ancorchè
lasciata priva di efficacia generalizzata ma ritenuta valido indice socio-economico idoneo ad offrire al giudice un metro per il suo equo apprezzamento17.
15 Notoriamente, è l’art. 2099, secondo comma, cod. civ.
a stabilire che, in mancanza di accordo tra le parti, la
retribuzione del prestatore di lavoro è determinata dal
giudice, il quale deve fare in modo che essa sia
proporzionata alla quantità e qualità del lavoro e sia
sufficiente ad assicurare al lavoratore ed alla sua
famiglia un esistenza libera e dignitosa (art. 36 Cost.). La
nozione di "retribuzione" non coincide né con quella di
corrispettivo cui allude l’art. 2225 cod. civ., né con quella
di compenso cui allude l’art. 2233 cod. civ., ma definisce
ciò che spetta al lavoratore, per un verso, come
corrispettivo delle energie lavorative erogate e, per
l’altro, come compenso per "essere a disposizione" del
datore di lavoro secondo l’obbligazione assunta con il
contratto individuale (F. MORTILLARO, Retribuzione, in
Enc. giur., vol. XVII, Roma, 1991, p. 2).
16 A tale proposito la Suprema Corte ha chiarito che
"il principio della retribuzione sufficiente di cui all'art.
36 Cost. riguarda esclusivamente il lavoro subordinato
e non può essere invocato in tema di compenso per
prestazioni lavorative autonome, ancorché rese,
con carattere di continuità e coordinazione,
nell'ambito di un rapporto di collaborazione,
assimilabile a quelle svolte in regime di subordinazione.
(In applicazione di tale principio la S.C. ha confermato
22
la sentenza con cui era stata rigettata la domanda
di un tecnico comunale, cui l'incarico era stato affidato,
in forza di delibere comunali, con un compenso
forfetario mensile fisso per alcune prestazioni
e con un compenso parametrato alla tariffa
professionale scontata per altre attività, volta a
lamentare l'iniquità del trattamento retributivo)"
(Cass. civ., sez. lav., sent. 25 ottobre 2003, n. 16059).
17 La Corte di cassazione ha chiarito anche che
"la determinazione da parte del giudice della
retribuzione adeguata a norma dell'art. 36 cost. al quale scopo le tariffe retributive previste dai contratti
collettivi post - corporativi offrono il primario criterio
di riferimento - non è preclusa né dall'art. 43 d.lg.lt. 23
novembre 1944 n. 369 che ha transitoriamente
conservato efficacia normativa ai contratti collettivi
corporativi, poiché le disposizioni di questi ultimi
possono essere disapplicate dal giudice ordinario
se contrastano con disposizioni imperative appartenenti
ad un livello superiore della gerarchia delle fonti
del diritto e, in primo luogo, con precetti
costituzionali, né con l'attribuzione di efficacia "erga
omnes" a determinati contratti collettivi
di diritto comune mediante decreti presidenziali
emanati in base alla delega di cui agli art. 1 e 7 l. 14
Tale soluzione creativa della giurisprudenza che, sopperendo ai problemi
suscitati dalla mancata attuazione dell’art. 39 e colmando il vuoto creatosi con l’abrogazione del diritto corporativo che disciplinava i rapporti di lavoro in chiave
giuspubblicistica, poneva le basi di tutto il nuovo diritto del lavoro, assorbiva e
quindi risolveva alla radice, per tutta la materia dei rapporti contrattuali concernenti
l’attività lavorativa dell’uomo, il problema teorico-generale del "contratto giusto",
che restava invece aperto per tutta la materia dei rapporti contrattuali aventi ad
oggetto il trasferimento di beni, rispetto ai quali neppure le altre norme costituzionali che avevano introdotto il valore della solidarietà nella disciplina dell’impresa
e in quella della proprietà erano in grado comunque di superare il principio, sancito dalle codificazioni liberali fin dai due secoli precedenti, della libertà di determinazione dei corrispettivi.
7. Il problema del "contratto giusto" nella fase
della "europeizzazione" del diritto privato
Tali conclusioni sicure sullo stato del nostro ordinamento, certamente sopravvissute alle fasi storiche della costituzionalizzazione e della decodificazione, sono
state di nuovo messe in discussione nella fase, ancora in corso di svolgimento, della
internazionalizzazione, e specialmente della europeizzazione, del nostro diritto privato.
In questa fase sono emerse, ed hanno assunto peso sempre più rilevante, alcune discipline speciali, alle quali, secondo un’antica e suggestiva opinione, dovrebbe
restringersi l’area del diritto civile inteso, quale partizione della più ampia branca
del diritto privato, come diritto dell’homo cives contrapposto al diritto dell’homo
oeconomicus, rimasto protagonista unico del diritto dell’impresa unificato, dalla
codificazione del 1940-42, attraverso l’abrogazione del codice di commercio.
Il primo, e più significativo, filone di normative speciali si riassume nella
categoria del cd. diritto dei consumatori, trasfuso nell’esperienza giuridica prima
comunitaria e poi nazionale dagli ordinamenti anglofoni e recepito anche in un’importante novella del codice civile.
Ad esso si è affiancato, sempre nell’ordinamento comunitario poi recepito
dalla legislazione nazionale, e quindi, in una visione di insieme, nel diritto privato
europeo, il diverso filone della tutela del risparmio, nel quale la figura dell’homo
cives forma oggetto di tutela rafforzata in quanto semplice accumulatore di risorse
patrimoniali investite in strumenti mobiliari e non utilizzate per l’esercizio di un’attività imprenditoriale autonoma.
A quest’ultimo filone può infine affiancarsi quello della tutela rafforzata del
privato in quanto soggetto, non importa se "professionista", consumatore o risparmiatore, che ha necessità di ricorrere al credito degli istituti bancari o degli altri sogluglio 1959 n. 741, poiché la Corte costituzionale
ha dichiarato l'illegittimità costituzionale
di tutti tali atti aventi forza di legge nella parte in cui
non consentono che la sopravvenuta non
corrispondenza dei minimi economici da essi previsti
alla retribuzione adeguata conferisca al giudice
l'esercizio del potere attribuitogli dall'art. 36 cost.
(Corte cost. 6 luglio 1971 n. 156)" (Cass. Civ., sez. lav.,
sent. 8 agosto 2000, n. 10434, in Giust. civ. Mass., 2000,
n. 1743).
23
RomanaDOTTRINA
temi
getti autorizzati a svolgere attività di finanziamento.
Tutti e tre tali filoni sono connotati da un rafforzamento, rispetto al diritto privato comune, della tutela di una delle due posizioni contrattuali ritenuta emblematicamente più debole di quella, più forte, dell’altro contraente, quale l’operatore professionale che fornisce al consumatore beni appunto destinati a soddisfare le sue
esigenze di consumo, l’operatore bancario o della borsa che coopera con il privato
per il più vantaggioso impiego fruttifero delle risorse accumulate con il risparmio, o
infine l’azienda esercente l’attività bancaria che sopperisce ad esigenze, di breve o
di lungo periodo, del privato di far ricorso al credito.
La visione d’insieme di tali tre filoni di tutela rafforzata, che come si è detto
offrono spunto a chi intende dare nuovo significato alla nozione di diritto civile,
distinto dal diritto commerciale, è connotato da una molteplicità di interventi del
legislatore, prima comunitario e poi nazionale, sul contenuto economico degli atti di
autonomia privata.
Mentre però le discipline di derivazione comunitaria concernenti la tutela rafforzata di determinate categorie di soggetti quali i consumatori, i risparmiatori e
coloro che ricorrono al credito, pur comprendendo un’ampia gamma di ipotesi che
restringono sempre di più lo spazio del diritto "civile" fondato sul principio di libertà contrattuale hanno sempre portata settorialmente circoscritta a sia pur ampi segmenti del diritto privato, le aperture a favore di un principio di equità nel contratto
sancite da norme inserite nel tessuto del codice, prescindendo sempre dalla materia
del lavoro oggetto di una branca sempre più autonoma dell’ordinamento, operano al
livello istituzionalmente proprio di tale lex generalis.
8. Altre espressioni di una linea di tendenza verso l’introduzione
di un principio di equità dei contratti
Tale è ad esempio la regola generale (art. 1349) relativa alla determinazione
dell’oggetto del contratto affidata dalle parti ad un terzo, il quale, al di fuori dell’ipotesi in cui le parti si siano esplicitamente rimesse all’arbitrium merum dell’arbitratore, indica come criterio guida del suo operare quella dell’equo apprezzamento18.
Fattispecie, questa, nella quale però un concetto di "contratto giusto" emerge ancora come ipotesi eccezionale basata sul presupposto che i contraenti, rimettendo ad
un terzo la determinazione dell’oggetto del contratto, si siano volontariamente spogliate di una loro prerogativa.
Analoga riflessione può ripetersi per il già ricordato, ma invero poco conosciuto e per quanto consta assai poco applicato, art. 2923 co. 3° che, regolando l’effetto cd. "purgativo" della vendita forzata sui preesistenti rapporti di locazione19, stabilisce che l’acquirente non è tenuto a rispettare la locazione qualora il prezzo convenuto sia inferiore di un terzo rispetto ad un parametro costituito solo in linea sus18 In tal caso, la determinazione compiuta dal terzo è nulla
se è manifestamente iniqua o erronea. L’iniquità è manifesta
quando è così notevole da risultare evidente. L’iniquità di
scarsa entità, invece, causa la nullità della determinazione
compiuta dal terzo equo arbitratore. L’errore, invece, è causa
di nullità di quella determinazine indipendentemente dalla
24
sua entità (C.M. BIANCA, Il contratto, II ed., Milano, 2000, pp.
336 s.).
19 Per indicazioni più ampie sull’argomento rinviamo
nuovamente a L.V. MOSCARINI, La tutela, cit. pp. 156 ss., spec.
p. 157.
sidiaria dal prezzo risultante da precedenti locazioni ma, in via primaria, da un concetto di "giusto prezzo".
Anche questa norma è dotata di un ambito di applicabilità circoscritto ad un
determinato settore, quello delle locazioni, che implicitamente presuppone come
principio generale ispiratore del codice quello della libertà dei privati nella quantificazione del corrispettivo.
La norma da ultimo richiamata anticipa di alcuni lustri la nozione di "equo
canone" emersa nelle successive leggi decodificanti in materia prima di affitto agrario e poi di locazioni di fondi urbani20, e contribuisce a indicare con esse non tanto
un principio quanto piuttosto una linea di tendenza attraverso la quale la codificazione del 1942, pur restando legata, come valore di base a quello della libertà contrattuale, non respinge in via di principio un concetto di giustizia contrattuale meno
lontano dai valori solidaristici che come si è già detto, emergono in modo più marcato nella disciplina della proprietà e dei diritti reali.
9. Perdurante attualità del problema del "contratto giusto".
Le aperture inserite nel codice fin dalla sua originaria tessitura, unite a quelle
di maggiore rilievo introdotte prima nella legislazione speciale emanata nell’età
della decodificazione, e successivamente in quella di matrice europeistica articolata
in altre, non meno importanti, leggi speciali decodificanti, e in parte, con la tecnica
della novellazione, direttamente nel testo dello stesso codice, costituiscono, viste nel
loro insieme, un sistema di norme che sembra quasi soverchiare l’originaria ispirazione liberale della codificazione del 1940-42, tanto da rinnovare lo spunto per l’interrogativo se il principio della libertà negoziale di determinazione dei corrispettivi
rappresenti ancora un principio cardine dell’ordinamento o se invece debba ritenersi ad esso sostituito un principio costruibile intorno al concetto di "contratto giusto".
A ben riflettere però, per quanto ristretto sia rimasto lo spazio residuale lasciato al principio di libera determinazione dei corrispettivi, questo conserva sul piano
formale ancora il rango di principio generale rispetto al quale, sia le aperture segnate dalla disciplina codicistica, arricchita dalle varie novelle aggiuntesi nel tempo, sia
le deroghe introdotte prima dalla legislazione decodificante propria della fase di
costituzionalizzazione del diritto privato, sia infine le ancor più vistose e cospicue
novità di derivazione comunitaria, continuano a porsi come deroghe, e quindi come
eccezioni le quali, malgrado l’ampiezza dello spazio applicativo da esse ricoperto,
consentono di considerare ancora il principio di libertà contrattuale dei privati come
il valore di fondo recepito dall’ordine giuridico positivo.
Tale conclusione, in un momento storico di vigilia dell’entrata in vigore della
costituzione europea, nel quale l’interprete del diritto comunitario sarà chiamato ad
operare una scelta tra i valori solidaristici che la carta costituzionale del 1948 aveva
20 Si è detto in proposito che, per ciò che attiene agli immobili
urbani, al fine di determinare il giusto prezzo di riferimento
per l’applicazione dell’art. 2923 cod. civ. si deve fare
riferimento proprio al prezzo calmierato stabilito dalla l. 27
luglio 1972, n. 392, a meno che non si tratti di contratti di
locazione stipulati dopo l’entrata in vigore della l. 11 luglio
1992, n. 333 ed aventi ad oggetto immobili per i quali alla
predetta data non sia stata presentata la dichiarazione di
ultimazione dei lavori, perché a tali contratti non si applicano
gli artt. 12 ss. della legge sull’equo canone (S. MAZZAMUTO,
L’esecuzione forzata, cit., pp. 240 s.; R. BONSIGNORI, Effetti
della vendita e dell’assegnazione, cit., pp. 150 ss.).
25
RomanaDOTTRINA
temi
sicuramente rafforzato ed esaltato ed i principi già propri delle codificazioni ottocentesche di matrice liberale, esaltati dai valori del mercato e della globalizzazione
dell’economia ai quali la normativa ed anche la nuova Costituzione comunitaria
sembrano più marcatamente ispirarsi, consente di riconoscere ancora al principio
della libertà dei privati di quantificazione dei corrispettivi nei contratti di scambio il
rango e la portata di principio generale, utilizzabile come regola cardine in tutte le
ipotesi non coperte dai pur sempre più ampi spazi occupati dal "nuovo diritto dei
contratti"21.
10. Possibili riscontri della perdurante operatività del principio
di libertà contrattuale.
Non manca, del resto, all’interprete dello jus conditum continuo recondendum
la possibilità di immaginare fattispecie in cui, al di fuori delle materie invase dalla
nuova normazione, la regola della libertà contrattuale conserva la sua valenza di
principio.
Si pensi alle ipotesi di compravendite immobiliari, di immobili urbani o anche
di fondi rustici, nelle quali l’acquirente sia attratto da un particolare profilo di interesse personale all’acquisto di quel determinato immobile, perché, ad esempio, si
tratti di un appartamento contiguo ad uno già in suo dominio ed idoneo quindi, con
l’accorpamento, ad aumentarne la godibilità o anche soltanto ad incrementarne il
valore, o perché si tratti di una collinetta con vista panoramica ubicata in un territorio cui lo stesso acquirente sia legato da valori affettivi.
In ipotesi di questo tipo è possibile che il proprietario, del tutto privo dell’intenzione di vendere, e magari anzi suggestionato in senso contrario dal convincimento condiviso ab antiquo dalla media e piccola borghesia secondo il quale chi
vende la propria casa o la propria terra “vende l’anima”, venga fatto oggetto di insistenti pressioni da un aspirante acquirente, dotato di rilevanti mezzi patrimoniali,
interessato ad investire i suoi risparmi nell’acquisto di quel determinato immobile.
E che alla fine, per sottrarsi a tali pressioni, magari ripetute con modi suadenti e
assai cortesi tanto da rendere difficile un brusco rifiuto, concepisca l’idea di “sparare” una richiesta di prezzo nettamente superiore all’oggettivo valore di mercato dell’immobile al solo scopo di sottrarsi alle insistenze senza ricorrere ad un rifiuto netto
e sgarbato. Alla quale richiesta l’aspirante acquirente, mosso da spinte psicologiche
riassumibili nel concetto di valutazioni “affettive”, reagisca anziché, come il proprietario si sarebbe aspettato, desistendo definitivamente dalle sue pressioni bensì,
tutt’al contrario, dichiarando di accettare la proposta, così da condizionare il proprietario, in un clima di “gentlements agreement” che talvolta caratterizza le trattative immobiliari, costringendolo a non tirarsi più indietro e ad accettare la proposta
di acquisto per un prezzo che egli aveva richiesto nel convincimento che attraverso
la sua indicazione gli fosse possibile sottrarsi alle insistenti pressioni dell’aspirante
acquirente senza dover ricorrere ad un rifiuto scortese.
21 Su tali nuove discipline si veda diffusamente la raccolta
Materiali e commenti sul nuovo diritto dei contratti, a cura di
26
G. Vettori, Milano, 1999 e successivamente, a cura dello stesso
A., Squilibrio e usura nei contratti, Padova, 2002.
In ipotesi di questo tipo si potrebbe supporre che un contratto di compravendita così concluso, secondo i valori del “contratto giusto”, sia in qualche modo
impugnabile. Ed esempi di questo tipo potrebbero essere agevolmente immaginati
in tutte le trattative, di compravendita o magari di semplice divisione, sempre assumendo come base logica quello del peculiare valore affettivo che un determinato
immobile presenta per l’aspirante acquirente in ragione della sua ubicazione o
comunque di una sua caratteristica di infungibilità.
A tali esempi sarebbe facile affiancare quelli di compravendite di compendi
azionari scambiati per un prezzo molto superiore al valore patrimoniale oggettivo
desumibile dai bilanci, cui la parte acquirente sia indotta dalla possibilità di ottenere, attraverso l’acquisto di quelle azioni, una posizione maggioritaria idonea a sovvertire, magari per poche unità, gli equilibri interni della compagine societaria.
Ma in esempi di questo tipo l’impugnabilità della contrattazione è sicuramente da escludere, non potendo invocarsi né il rimedio rescissorio, in quanto all’involontario approfittamento da parte del venditore del particolare interesse personale
del compratore a possedere quel determinato, non fungibile, bene immobile o a conquistare una posizione di maggioranza societaria non corrisponde certo una situazione ascrivibile alla categoria dello “stato di bisogno”; né, meno ancora, i rimedi
correttivi sanciti dalla pluriarticolata normativa di tutela dei consumatori, dei risparmiatori e di coloro che ricorrono al credito
L’inoppugnabilità della libera espressione dell’autonomia contrattuale riassume quindi il rango di principio generale al quale il vigente ordinamento, sia nazionale sia comunitario, illuminato dalla nuova Costituzione europea, continuano ad
essere fondati anche se, come si è già detto, il concetto di “contratto giusto” appare
destinato a sempre più penetranti sviluppi.
27
RomanaDOTTRINA
temi
Avv. Prof.
Piero SANDULLI
La conciliazione
nel nuovo processo
societario
Sommario
1. L’ambito dell’indagine. – 2. La materia – 3. Le soluzioni alternative alla lite e le soluzioni
alternative della lite. - 4. L’arbitraggio. - 5. La conciliazione stragiudiziale - Natura. 6. La conciliazione pre-processuale nel giudizio societario: a) la clausola di conciliazione;
7. segue: b) Il procedimento; 8. segue: c) La domanda di conciliazione;
9. segue: d) la riservatezza del procedimento; 10. segue: e) rapporti tra il procedimento
di conciliazione e processo; 11. segue: f) il verbale di conciliazione: 1) di segno positivo;
2) di segno negativo; 12. Gli organismi di conciliazione ed il regolamento n. 222 del 23 luglio
2004; 13. Le agevolazioni e la tariffazione prevista dal regolamento n. 223 del 23 luglio 2004;
14. Conciliazione pre-processuale e conciliazione endoprocessuale; 15. Conclusioni.
1. L’ambito dell’indagine.
rima di entrare nel merito della trattazione del tema in esame è necessario
tracciare i confini della indagine, sia al fine di individuare esattamente i
limiti della materia su cui le norme in commento sono destinate ad operare, che per
segnalare alcune diverse regolamentazioni, che il legislatore ha voluto assegnare a
materie, tutto sommato, contigue al tema in esame.
Ancor prima di compiere tale analisi è, però, necessario ricordare che le
norme contenute nel decreto legislativo n. 5 del 17 gennaio 20031, in materia di processo societario, costituiscono una anticipazione del più ampio disegno di legge di
delega al Governo per l’attuazione della riforma organica del processo civile,
approvato, in data 23 ottobre 2003, dal Consiglio dei Ministri; detto disegno di
legge (composto da 63 articoli, divisi in 18 capi) è finalizzato a riformare, entro 12
mesi dall’entrata in vigore della legge di delega2, l’intero codice di rito civile in
modo organico e non più con la tecnica della novellazione che è stata seguita nei
precedenti casi di riforma3.
1-P
1 In Gazzetta Ufficiale del 22 gennaio 2003,
n. 17, suppl. ord., n. 8/L. Accanto alle norme che regolano la
parte processuale sono state dettate in base alla stessa delega,
contenuta nella legge n. 366 del 2001, anche le norme di
carattere sostanziale contenute nel decreto legislativo n.6,
sempre del 17 gennaio 2003. Sul punto vedi, in dottrina, D.U.
SANTOSUOSSO, La riforma del diritto societario, Milano 2003;
G. RAGUSA MAGGIORE, Nuovo diritto societario, in Trattato
delle società, Vol. II, Padova 2003. Per una analisi più
approfondita del decreto legislativo 6/03, vedi il commentario:
Il nuovo diritto societario, a cura di G. COTTINO,
G. BONFANTE, D. CAGNASSO, P. MONTALENTI, Bologna 2004.
2 Cfr. C. DE PASCALE, Un nuovo ruolo delle parti per rendere
ragionevoli i tempi dei processi, in Guida al diritto 2004,
fascicolo 3, p. 96.
28
3 Vedi la legge del 16 luglio 1950, n. 581, integrante la c.d.
novella del 1950, che ha inciso, in modo rilevante, fino a
stravolgerlo, il sistema delle preclusioni dettate con il testo
originario del codice di rito civile; la legge dell’11 agosto 1973,
n. 533, che ha riformato la parte del secondo libro del codice
di procedura civile relativa al processo del lavoro; la legge del
26 novembre 1990, n. 353, che ha dettato le norme della
seconda novella al codice di rito civile, norme ulteriormente
integrate e corrette dalle successive leggi del 6 dicembre 1994,
n. 673 e del 20 dicembre 1995, n. 534; il decreto legge
n. 51 del 19 febbraio 1998, che ha dettato le norme relative al
giudizio civile monocratico in primo grado facendo venir meno
la figura del pretore, senza voler, in questa sede, ricordare le
norme sul giudice di pace, sul diritto internazionale e
sull’arbitrato. Sul punto vedi A. CARRATTA, Premessa
al Commentario, in Il Nuovo processo societario,
a cura di S. CHIARLONI, Bologna 2004, p. 31.
In attesa, dunque, di quella organica e già discussa4 riforma del processo il
legislatore delegato ha varato, all’inizio del 20035, le norme processuali che regolano la materia societaria6.
2. La materia.
Inquadrato, in tal modo, l’ambito in cui deve collocarsi il nuovo testo nel processo societario è a questo punto opportuno definire, sia pure per larghe linee, la materia da esso regolata e tracciare i confini rispetto alle tematiche disciplinate da altre
norme, che potrebbero avere ricadute, sotto il profilo delle individuazioni della competenza ed anche della giurisdizione, rispetto alla materia oggetto della presente indagine.
Chiarisce l’articolo 1, del decreto legislativo n. 5 del 2003, che le disposizioni
dello stesso trovano applicazione per la risoluzione di tutte le controversie che abbiano
ad oggetto:
“a) rapporti societari, ivi compresi quelli concernenti le società di fatto, l’accertamento, la costituzione, la modificazione o l’estinzione di un rapporto societario,
le azioni di responsabilità da chiunque promosse contro gli organi amministrativi e di controllo, i liquidatori e i direttori generali delle società, delle mutue
assicuratrici e delle società cooperative; nonché contro il soggetto incaricato
della revisione contabile per i danni derivanti da propri inadempimenti o da fatti
illeciti connessi nei confronti della società che ha conferito l’incarico e nei confronti dei terzi danneggiati7;
b) trasferimento delle partecipazioni sociali, nonché ogni altro negozio avente ad
oggetto le partecipazioni sociali o i diritti inerenti;
c) patti parasociali, anche diversi da quelli disciplinati dall’articolo 2341-bis del codice civile, e accordi di collaborazione di cui all’articolo 2341-bis, ultimo comma,
del codice civile;
d) rapporti in materia di intermediazione mobiliare da chiunque gestita, servizi e contratti di investimento, ivi compresi i servizi accessori, fondi di investimento,
gestione collettiva del risparmio e gestione accentrata di strumenti finanziari,
vendita di prodotti finanziari, ivi compresa la cartolarizzazione dei crediti, offerte pubbliche di acquisto e di scambio, contratti di borsa;
e) materie di cui al decreto legislativo 1 settembre 1993, n. 385, quando la relativa con4 Cfr. C. CONSOLO, Esercizi imminenti nel c.p.
c.: metodi asistematici e penombre, in Corr. Giur. 2002,
p. 1541; L. LANFRANCHI, “Giusto processo civile”
e riforme incosituzionali, in La roccia non incrinata,
Torino 2004, p. 588.
5 Le norme dettate dal decreto legge n. 5 del 2003
sono operative del primo gennaio 2004. Deve essere
ricordato, al riguardo, che il 6 febbraio 2004,
con il decreto legislativo n. 37, sono state dettate alcune
modifiche ed integrazioni al decreto legislativo n. 5
del 2003. Dette modifiche hanno riguardato, in virtù di
quanto disposto dall’art. 4, comma 2, lettere r), s) e t)
anche la materia dell’arbitrato, dell’arbitraggio e della
conciliazione.
6 Vedi C. PUNZI, Lineamenti del nuovo processo in materia
societaria. Il processo ordinario, in Riv. Trim Dir.
e Proc. Civ. 2004, p. 73; A. PROTO PISANI, La nuova
disciplina del processo societario (note a prima lettura),
in Foro It. 2003, V, c. 1; G. COSTATINO, Il nuovo processo
commerciale: la cognizione ordinaria in primo grado,
in Riv. dir. proc. 2003, p. 387; L. LANFRANCHI, “Giusto
processo civile” e riforme incostituzionali, cit., p. 594;
A. CARRATTA, Premessa al Commentario, in Il nuovo
processo societario, a cura di S. CHIARLONI, cit., p. 34.
7 Le parole “nonché contro il soggetto incaricato della
revisione contabile per i danni derivanti da propri
inadempimenti o da fatti illeciti commessi nei confronti
della società che ha conferito l’incarico e nei confronti
dei terzi danneggiati” sono state aggiunte in fine al c. 1,
con decorrenza dal 29 febbraio 2004, dall’art. 4, lett. a), 1,
d. lg. 6 febbraio 2004, n. 37.
29
RomanaDOTTRINA
temi
troversia è promossa da una banca nei confronti di altra banca ovvero da o contro
associazioni rappresentative di consumatori o camere di commercio;
f) credito per le opere pubbliche”8.
Il secondo comma dell’articolo 1 precisa che: “restano ferme tutte le norme sulla
giurisdizione”, dal che si deduce che sono pienamente operative di effetti le norme dettate, in tema di giurisdizione esclusiva dall’articolo 33 del decreto legislativo n. 80 del
1998, recepito, con lievi modifiche, dal dettato dell’articolo 7 lettera a) della legge n.
205 del 21 luglio 20009, avente ad oggetto la materia dei servizi pubblici, attribuita –
come è noto – alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, quando allo stesso giudice è stata sottratta la materia del pubblico impiego10.
Va, pertanto, prestata attenzione ai limiti di applicazione delle norme del processo societario, con particolare riguardo alle controversie in materia di vigilanza
sul credito, sulle assicurazioni e sul mercato mobiliare, che – come detto – rientrano nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.
Inoltre, è necessario coordinare la materia in esame con le normative che
regolano le diverse autorità indipendenti11 e con alcuni specifici settori del nostro
ordinamento, disciplinati da leggi speciali, come il settore delle società sportive12
per le quali, recentemente, il legislatore ha dettato norme integranti una sorta di
nuova “giurisdizione esclusiva”, preceduta dal “filtro” per l’accesso alla giustizia
“statale”, costituito dalla necessità di proporre l’azione, innanzi alla Camera di conciliazione ed arbitrale del C.O.N.I.13.
Infine, è necessario ricordare alcune norme che regolamentano settori specifici della materia societaria, come la legge n. 142 del 3 aprile 200114, che regola i
rapporti, nell’ambito delle società cooperative, tra i soci delle stesse e le società, la
quale prevede una specifica ipotesi di conciliazione, dettata dall’articolo 515, modulata sul procedimento che regola la conciliazione nel pubblico impiego16.
Sgombrato così il campo dalle ipotesi che non rientrano nella nostra analisi
ed individuato, invece, l’ambito della materia interessata alla trattazione è ora possibile iniziare a riflettere sulla tematica oggetto del presente studio.
8 Sul punto vedi A. CARRATTA, Commento all’art. 1, l’ambito
di applicazione, in Il nuovo processo societario, a cura di S.
CHIARLONI, cit., p. 43, A. BUCCI, Manuale pratico dei
procedimenti societari, Padova 2004, p. 6.
9 Anche dopo la pubblicazione della sentenza della Corte
Costituzionale n. 204 del 6 luglio 2004, che ha
parzialmente abrogato il primo comma dell’articolo 33 e
totalmente abrogato il secondo, queste norme continuano
ad essere operative di effetti. Vedi il testo della sentenza in
Urbanistica e appalti 2004, p.1031. Inoltre, vedi i commenti
a detta decisione della Corte Costituzionale, C. CONSOLO,
A. DI MAJO, in Corriere Giuridico 2004, p. 1125
10 Cfr. P. SANDULLI, La tutela dei diritti dalla giurisdizione
esclusiva alla giurisdizione per materia, Milano 2004, p. 93.
11 Sul punto vedi: P. SANDULLI, Autorità indipendenti e
controllo giurisdizionale, in Giusto processo civile e
procedimenti decisori sommari, a cura di L. LANFRANCHI,
30
Torino 2001, p. 223.
12 Cfr. la legge n. 91 del 23 marzo 1981 e successive
modificazioni.
13 Cfr. La legge n. 280 del 17 ottobre 2003, in Gazzetta
Ufficiale 18 ottobre 2003, n. 243. Sul punto vedi P.
SANDULLI, La tutela dei diritti dalla giurisdizione esclusiva
alla giurisdizione per materia, cit., p. 167.
14 In Gazzetta Ufficiale del 23 aprile 2001, n. 94
15 Cfr.: P. SANDULLI, I metodi di risoluzione alternativa alle
controversie tra società e soci lavoratori delle medesime, in
Temi Romana 2001, fasc. 3, p. 164.
16 Il procedimento di conciliazione per il pubblico impiego
è regolato dall’art. 65 del decreto legislativo del 30 marzo
2001, n. 165, in Gazzetta Ufficiale 9 maggio 2001, n. 106,
suppl. ord., n. 112/L.
3. Le soluzioni alternative alla lite e le soluzioni alternative della lite.
Passando all’analisi specifica dell’istituto oggetto di esame, è necessario operare una prima distinzione, nell’ambito di una materia che viene spesso indistintamente definita, con terminologia anglosassone: alternative dispute resolution
(ADR)17, ma che al suo interno contiene istituti notevolmente diversi tra loro.
Invero, la necessità di distinguere tra conciliazione ed arbitrato nasce dal fatto
che assai spesso (e ciò accade, in parte, anche nella legge di delega al Governo per
la emanazione delle norme regolatrici del diritto societario e del processo commerciale18, la legge n. 366 del 3 ottobre 200119) si tende a confondere i due istituti processuali, che non vengono quasi mai trattati separatamente, ma confusi in un unico
contesto, spesso neppure cronologizzato, che non sempre consente di porre in luce
le differenti peculiarità degli istituti.
Al riguardo, va ricordato che la conciliazione è prevista dal legislatore come
fattispecie pienamente alternativa alla lite, che non presuppone, pertanto, né un
vinto, né un vincitore, ma soltanto due parti che pervengono, sulla scorta di un suggerimento di un terzo, il consilium, all’espressione di una volontà comune di segno
negoziale. L’arbitrato, invece, costituisce una ipotesi di risoluzione della controversia di carattere contenzioso, alternativa al processo, ma che attraverso la pronuncia
del lodo determina un vinto ed un vincitore rispetto alla vertenza insorta tra le
parti20. Il nostro studio si limiterà all’esame della conciliazione tralasciando le altre
ipotesi che, pure, sono ricompresse nel più ampio contesto dell’A.D.R.
4. L’arbitraggio.
Nel campo delle distinzioni, nell’ambito degli istituti sussunti sotto la terminologia generale dell’ADR, è necessario, alla luce del dettato dell’articolo 37, del
d. lg. n. 5 del 2003, che norma le regole per la risoluzione dei contrasti per la gestione di società, individuando per la soluzione di detti contrasti un arbitratore21 (che
può – a detta del primo comma dell’articolo 37 – essere anche un organismo plurimo) regolato in base ai principi generali contenuti nell’articolo 1349 c.c.
Le decisioni di detto arbitratore potranno essere reclamate, innanzi ad un
organismo collegiale, con le modalità stabilite nello statuto delle singole società,
che prevedono tale ipotesi di soluzione delle controversie. Le decisioni di quest’ul17 Sul tema della A.D.R. vedi G. CABRAS,
D. CHIANESE, E. MERLINO, D. NOVIELLO, Mediazione
e conciliazione per le imprese, Torino 2003, p. 45.
Sul punto vedi anche G. DE PALO, G. GUIDI, Risoluzione
alternativa delle controversie – ADR Nelle corti federali
degli Stati Uniti, Milano 1999, p. 125.
18 Questa è, infatti, la terminologia indicata
da C. PUNZI (in Riv. trim. dir. e proc. civ. 2004, p. 74)
che ne ha mutuato il termine da G. COSTATINO
il quale lo aveva utilizzato per intitolare il suo scritto:
Il nuovo processo commerciale, in Riv. dir. proc. 2003,
p. 387. Le materie comprese nell’articolo 1 del decreto
legislativo n. 5 del 2003 non hanno ad oggetto
esclusivamente tematiche che rientrano nel diritto
societario, ma anche i rapporti di intermediazione
mobiliare, le controversie tra banche, o tra associazioni
rappresentative dei consumatori, o tra camere di
commercio.
19 In Gazzetta Ufficiale 8 ottobre 2001, n. 234,
serie generale. Vedi, sul punto, il dettato
del terzo e del quarto comma dell’art. 12
della legge delega.Sull’arbitrato nel processo societario
vedi G. RUFFINI, Il nuovo arbitrato per le controversie
societarie, in Riv. Trim. dir. proc. civ. 2004,
p. 495.
20 Sull’arbitrato nel processo societario vedi G. RUFFINI,
Il nuovo arbitrato per le controversie societarie, in Riv.
Trim. dir. proc. civ. 2004, p. 495.
21 Cfr. A. CATRICALA’, v. Arbitraggio, in Enc. Giur.,
vol. II, Roma 1988.
31
RomanaDOTTRINA
temi
timo organismo, o in mancanza di possibilità di reclamo, le decisioni rese dall’arbitratore (o degli arbitratori) possono essere impugnate esclusivamente dimostrando la mala fede di esso (o di essi)22.
L’istituto dell’arbitraggio, richiamato dall’articolo 37, pur essendo finalizzato
a dare una soluzione ad una vertenza insorta all’interno del contesto societario e
relativa alla gestione della società, non dà, però, vita né ad un procedimento di conciliazione, perchè non vi è alcun incontro della volontà delle parti, che anzi subiscono la decisione dell’arbitratore e la possono reclamare o impugnare (sia pure
con i limiti previsti dal secondo comma dell’art. 1349 c.c.), né ad un giudizio arbitrale, in quanto non vi è un giudizio tra le posizioni antitetiche delle parti in conflitto, ma, nel caso di specie, si assiste ad una integrazione della volontà delle parti, che
non hanno raggiunto un accordo sulla gestione della società, attraverso la volizione
del terzo (o dei terzi) chiamati ad integrare quella volontà mancante o non perfetta.
Operata, in tal modo, la distinzione tra l’istituto giuridico dell’arbitraggio e
quelli della conciliazione e dell’arbitrato, prima di staccarci dall’analisi del primo,
che non rientra specificamente nella tematica oggetto del nostro esame, è necessario tentare di risolvere alcune perplessità che derivano dalla ultima considerazione
cui si è pervenuti: quella che la determinazione dell’arbitratore si sostituisce, nella
gestione della società, alla carente volizione dei soci della stessa.
Al riguardo, si è avanzato il dubbio23 circa la natura di tale integrazione di
volontà ed in merito alla responsabilità delle scelte gestionali operate dalla società,
quando queste sono frutto dell’attività del terzo arbitratore. Un primo tentativo di
risposta è stato dato da parte della dottrina24 che ha sostenuto che la decisione degli
arbitratori non integra un atto di gestione societaria, e pertanto, essi non sarebbero
chiamati a risponderne, né i soci potrebbero attenersi responsabili delle decisioni
degli arbitratori.
Tale tesi, non appare, però, condivisibile in quanto la decisione degli arbitratori, venendo ad integrare una carente volontà dei soci circa le attività gestionali
della società, è necessariamente idonea a dar vita ad un atto di gestione della società medesima, del quale gli stessi soci potrebbero essere chiamati a rispondere, avendo con il loro contrasto legittimato l’intervento dell’arbitratore, il quale ultimo, a
meno che non sia in malafede, non risponde, invece, delle conseguenze della sua
decisione.
5. La conciliazione stragiudiziale - natura.
Premesse queste prime necessarie notazioni, è ora possibile, sgombrato il
campo dalla tematica dell'arbitraggio e/o dell'arbitrato di carattere economico, come
altri autori hanno inteso definirlo25, cioè quello dell'articolo 37, e delimitata l’indagine alla sola conciliazione, tralasciando, ai fini del presente studio, l’analisi del22 Cfr. F. CORSINI, Risoluzione di contrasti sulla gestione di società,
in Nuovo processo societario, a cura di S. CHIARLONI, cit., p.
1013.
23 Cfr. E. F. RICCI, Il nuovo arbitrato societario, in Riv. trim. dir. proc.
civ. 2003, p. 517.
32
24 Vedi G. ARIETA – F. DE SANTIS Diritto processuale societario,
Padova 2004, p. 702.
25 Vedi G. ARIETA – F. DE SANTIS Diritto processuale
societario, Padova 2004, p. 702.
l’arbitrato, è necessario comprendere di quali elementi la conciliazione ha necessità per essere eseguita nel contesto societario e soprattutto quale è il portato del procedimento di conciliazione nell’ambito del processo societario.
Prima di esaminare partitamente questi temi è necessario inquadrare, sia pur
brevemente, l’istituto della conciliazione, al fine di trarre da tale studio utili chiarimenti che ci consentano una più puntuale analisi dello specifico tema dell’istituto
della conciliazione nel processo commerciale26.
Si è, a lungo, discusso, in dottrina27, circa la natura della conciliazione, alcuni
28
autori hanno ritenuto di individuare in essa funzioni giurisdizionali, altri29 hanno,
invece, ritenuto che si fosse in presenza di un istituto squisitamente privatistico.
Queste tesi, pur apportando, all’analisi del tema, utili elementi, non possono
essere condivise in quanto in entrambe si offre una lettura riduttiva e non soddisfacente dell’istituto in esame30.
Certamente il conciliatore non esplica funzioni giurisdizionali, anche se la conciliazione, cui le parti pervengono recependo il suo concilium, può ricevere dall’ordinamento valenza di titolo esecutivo, idoneo, a dar vita ad un procedimento di esecuzione forzata.
Il conciliatore non ha funzioni giurisdizionali perché non pone in essere (a differenza dell’arbitro) alcuna decisione su diritti soggettivi altrui, ma guida, autorevolmente, le parti ad individuare una soluzione della vertenza, soluzione alla quale le
parti perverranno attraverso l’incontro delle loro volontà, che si tradurrà, all’atto del
raggiungimento della conciliazione, in un negozio transattivo.
D’altro canto appare limitativa la qualificazione soltanto negoziale della conciliazione, in quanto un siffatto inquadramento non pone, in alcun modo, in evidenza l’attività ed il ruolo del conciliatore nell’ambito del procedimento conciliativo.
Invero, essendo la conciliazione un’attività al cui perseguimento concorrono tre soggetti (le parti in lite tra loro ed il conciliatore) è necessario mettere nella giusta luce
ciascuna di dette parti. Un inquadramento di carattere negoziale della conciliazione,
mentre segnala la fase finale del procedimento: quella del negozio transattivo, non
riesce a porre in luce le attività del conciliatore ed il suo rilevante sforzo per consentire alle parti di realizzare quell’incontro di volontà. Attività attuata dal conciliatore
operando attraverso la tecnica della conciliazione facilitativa (facilitando il dialogo
tra le parti, anche attraverso incontri separati con esse) o quella della conciliazione
valutativa (offrendo alle parti una proposta idonea a risolvere i contrasti dopo aver
ponderato con essa le cause che hanno dato vita alla vertenza. Oppure utilizzando le
tecniche della mediazione e ciò, in particolare, per il diritto di famiglia31.
26 Cfr. G. ARIETA-F. DE SANTIS, Diritto processuale
societario, cit., p. 687.
29 Vedi G. DE STEFANO, Contributo alla dottrina
del componimento processuale, Milano 1959, p. 43.
27 Al riguardo vedi la ricostruzione operata da A. CARRATO,
Le attività conciliative nel contenzioso civile, Milano 1993, p.
13, vedi inoltre, N. PICARDI, Appunti di diritto processuale
civile, Milano 2002, p. 73, dove è riportata una ampia
bibliografia relativa alla conciliazione.
30 Per una analisi generale dell’istituto della conciliazione
vedi, per tutti, C. PUNZI, Conciliazione e tentativo di
conciliazione, in Enc. Dir., aggiornamento, Milano 2000, p. 327.
28 Cfr. C. A. NICOLETTI (La conciliazione nel processo civile, Milano
1963, p. 17) che la definisce “giurisdizione conciliatrice”.
31 Cfr. al riguardo A. D’ANGELO, Un contributo per un approccio
giuridico allo studio della mediazione familiare, in Familia 2004,
I, p. 533.
33
RomanaDOTTRINA
temi
La conciliazione è una attività posta in essere da tre soggetti, finalizzata ad
individuare una soluzione transattiva della lite, nella quale tutti i soggetti concorrono al perseguimento del risultato al quale conduce l’attività “autorevole” del conciliatore che esplica, nel procedimento conciliativo, opera di convincimento e di supporto per consentire alle parti di giungere, in via totalmente alternativa alla lite
(anche se sono possibili ipotesi di conciliazione parziale), ad una soluzione della
vertenza attraverso una formulazione congiunta della loro volontà, volontà che componendosi in un unico atto di natura transattiva e negoziale determina il superamento della lite e la ripresa “fisiologica” dei rapporti tra i soggetti della lite.
Cosa è, dunque, la conciliazione e quale importanza essa riveste nel contesto
allargato dell’“ordinamento giudiziario”, intendendo per ordinamento giudiziario, in
senso lato, tutti quei procedimenti che concorrono o alla risoluzione delle liti o al
superamento delle stesse, anche senza far ricorso all’azione processuale.
La Corte Costituzionale, adita al fine di valutare l’eventuale incostituzionalità del tentativo obbligatorio di conciliazione pre processuale, inserito nella normativa per le cause di lavoro dal d. lg. n. 80 del 1998, con la sentenza n. 276 del 13 luglio
200032 ha, tra l’altro, affermato - nel rilevare l’insussistenza della lamentata incostituzionalità - che il tentativo obbligatorio di conciliazione tende a soddisfare l’interesse generale sotto un duplice profilo: da un lato, evitando che l’aumento delle controversie attribuite al giudice ordinario in materia di lavoro provochi un sovraccarico dell’apparato giudiziario, con conseguenti difficoltà per il suo funzionamento,
dall’altro favorendo la composizione preventiva della lite, che assicura alle situazioni sostanziali un soddisfacimento più immediato rispetto a quello conseguito
attraverso il processo”33.
Questa asserzione della Consulta, al di là del riferimento concreto rispetto al
quale è stata fatta (cioè il riferimento al “filtro” all’azione presente nei giudizi di
pubblico e privato impiego34), appare particolarmente importante poiché consente di
individuare l’esistenza di un pubblico interesse rispetto all’istituto della conciliazione, chiamato a “salvaguardare interessi generali” quali quelli che tendono ad inserire nel nostro sistema di giustizia procedimentale improntati alla “cultura della
pacificazione”, che trovano la loro fonte nel dettato dell’articolo 2 della Carta costituzionale, in relazione agli istituti che riconoscono e garantiscono la solidarietà35.
Alla luce di queste considerazioni è possibile affermare che sussiste un interesse generale alla realizzazione di procedimenti conciliativi, attuati da soggetti pubblici o anche da soggetti privati, purchè muniti di determinati requisiti, che svolga32 Vedila in Riv. dir. proc. 2000, p. 1219,
con nota di R. CONTE
33 Cfr. il paragrafo 3.4 della decisione n. 276
del 2000 della Consulta, in Riv. dir. proc. 2000, p. 1223.
34 Oltre che da tempo, nel processo agrario
(L. 203/82) e nei giudizi per l’impugnazione
del licenziamento individuale (L. 108/90).
Vedi, al riguardo, G. VERDE, La conciliazione come
“filtro” nelle controversie agrarie,
in Riv. dir. proc. 1994, p. 671.
34
35 E’ bene ricordare che già in precedenza
la Corte Costituzionale si era occupata
di esaminare la costituzionalità del “filtro” rispetto
all’accesso alla giustizia in relazione al dettato
dell’articolo 5 della legge n. 108 del 1990.
In quella occasione, con la decisione n. 82 del 4 marzo
1992 (in Foro It. 1992, I c. 1023, con nota di
G. COSTATINO) la Consulta, nel ritenere infondata
la questione di incostituzionalità, ha precisato
che il rigore con cui è tutelato, dall’art. 24
della Costituzione, il diritto di azione non comporta
la assoluta immediatezza del suo esperimento.
no una attività finalizzata alla realizzazione, nel nostro Paese, di una efficace cultura della pacificazione e della mediazione, basata sulle regole del giusto procedimento, in cui sia garantita la terzietà del conciliatore (o dei conciliatori) ed una effettiva eguaglianza delle parti; come raccomanda, in proposito, anche l’Unione
Europea nel suo “libro verde” sulla conciliazione pubblicato il 19 aprile 200236.
In definitiva possiamo ascrivere l’istituto della conciliazione tra quelle funzioni neutrali della pubblica Amministrazione37, che possono essere svolte da soggetti pubblici o privati, alle quali lo Stato assegna particolare rilievo ed importanza.
Nel caso di specie, la funzione svolta dagli “uffici di conciliazione” è quella
– ricordata dalla Consulta – di assicurare il soddisfacimento di talune situazioni
sostanziali “più immediato rispetto a quello conseguito attraverso il processo”. A
questo obiettivo, precisa la Corte Costituzionale, può anche sacrificarsi un certo
lasso di tempo, poiché l’importanza di una sollecita e definitiva conclusione della
vertenza ed il recupero delle relazioni commerciali sono elementi di “interesse
generale” , che non possono, in alcun modo, collidere con il precetto costituzionale, contenuto nel novellato articolo 111, della ragionevole durata del giudizio38.
Premessi questi cenni di carattere generale sull’istituto della conciliazione è
ora possibile affrontare la tematica, più specifica, della conciliazione nell’ambito
del processo societario.
6. La conciliazione pre-processuale
nel giudizio societario.
a) la clausola di conciliazione.
La normativa che regola la conciliazione stragiudiziale nel processo societario è contenuta nel penultimo titolo, il sesto, del decreto legislativo n. 5 del 2003
ed è composta da tre articoli che vanno dal 38 al 40 di cui soltanto quest’ultimo
riguarda effettivamente il tema della conciliazione, regolamentando il procedimento di essa, mentre i primi due sono relativi agli organismi di conciliazione (pubblici e/o privati) (art. 38) ed alle imposte e spese del procedimento, nonché alla previsione di esclusione di oneri fiscali per esso (l’art. 39).
Appare opportuno, ai fini del presente studio, partire dall’analisi del contenuto dell’articolo 40, in quanto gli altri due articoli, pur regolamentando aspetti
importanti del tema, finiscono, comunque, per prestare maggiore attenzione a profili organizzativi (pure particolarmente importanti, nel caso di specie, poiché l’istituto della conciliazione ha spesso fallito la sua finalità per carenza di strutture) o
profili applicativi di carattere fiscale, certamente rilevanti, ma di secondaria importanza ai fini di una analisi prettamente processualistica dell’istituto.
La fonte delle norme sulla conciliazione pre-processuale va ricercata nel
comma 4 dell’articolo 12 della legge di delega emanata il 3 ottobre 2001, n. 36639,
36 Vedi il “libro verde” relativo ai modi alternativi
di risoluzione della controversia in materia civile
e commerciale, della Commissione
delle comunità europee, in: www.europa.un.int.
37 Cfr., sul punto: A.M. SANDULLI, Le funzioni neutrali
della pubblica amministrazione, in Studi in onore di
A. SEGNI, Milano 1962
38 Cfr. Corte Cost., decisione n. 276 del 2000, paragrafo 3.5.
35
RomanaDOTTRINA
temi
che espressamente delegava il Governo “a prevedere forme di conciliazione delle
controversie civili in materia societaria, anche dinanzi ad organismi istituiti da enti
privati, che diano garanzia di serietà ed efficienza e che siano iscritti in un apposito registro tenuto presso il Ministero della giustizia”.
Accanto a questa ipotesi di conciliazione pre-processuale non deve essere
dimenticato che l’art. 16 del decreto legislativo n. 5 del 2003, a ciò invitato da
quanto disposto dalla lettera e), del secondo comma, dell’articolo 12 della legge
delega, ha previsto anche una ipotesi di conciliazione endoprocessuale affidata al
presidente del collegio adito, cui pure competono proposte di “equa composizione
della controversia”.
Detta ipotesi di conciliazione, collocandosi all’interno del processo e non
essendo affidata ad un organismo terzo, bensì al presidente del collegio chiamato a
decidere della lite non rientra, se non marginalmente, nella nostra analisi che, come
detto, approfondirà l’esame della conciliazione pre-processuale, alternativa alla
soluzione litigiose delle controversie (rectius: allo stesso insorgere di esse).
La conciliazione pre-processuale è, dunque, introdotta, nel rito societario, dai
richiami ad essa, contenuti nello statuto e/o nell’atto costitutivo, che possono prevedere un “filtro” all’azione ordinaria, da esperirsi necessariamente prima di adire
il giudice ordinario, secondo le norme processuali dettate dal decreto legislativo n.
5 del 2003.
Va rilevato che, trattandosi di diritti disponibili, nulla vieta alle parti di giungere all’accordo di portare la vertenza all’analisi del conciliatore anche in assenza
di specifiche pattuizioni al riguardo ed anche al di fuori del procedimento regolato
dal decreto legislativo n. 5/03.
E’ necessario, altresì, ricordare che in caso di contrasto tra le norme contenute nello statuto e quelle previste dall’atto costitutivo della società sono le norme
contenute nello statuto che prevalgono, in quanto esse dettano regole a cui tutti i
soci debbono conformarsi, mentre le seconde implicano soltanto pattuizioni di
carattere negoziale.
Per quanto riguarda, invece, i patti parasociali, eventualmente sottoscritti da
alcuni soci, essi non debbono, di regola, contenere clausole conciliative, in quanto
gli stessi non sono vincolati per la società e per la collettività dei soci, ma soltanto
per i sottoscrittori di essi. Riguardo a quest’ultimo aspetto, dunque, l’eventuale
inserimento nei patti parasociali di una clausola che contenga l’obbligo di fare precedere il giudizio ordinario da una conciliazione “filtro” pre-processuale vincolerebbe solo le parti del patto parasociale, mentre non avrebbe alcun effetto per tutti
gli altri soci.
Ne consegue che il giudice adito dovrà sospendere il giudizio, facendo esperire alle parti il procedimento di conciliazione pre-processuale, esclusivamente
quando rilevi che la causa pende tra due parti che hanno entrambe sottoscritto il
patto parasociale in cui è contenuta la clausola e che per essa è vincolante.
In conclusione, quindi, tutte le volte che gli statuti o gli atti costitutivi pre39 In Gazzetta Ufficiale 8 ottobre 2001, n. 234, serie generale.
36
vedono la necessità dell’esperimento della conciliazione pre-processuale, il giudice
adito, quando rilevi che la causa è insorta nell’ambito delle ipotesi previste dall’art.
1 del decreto legislativo n. 5 del 200340, deve sospendere il giudizio ed invitare, a
norma del sesto comma dell’art. 40, le parti ad esperire il tentativo di conciliazione. Tale attività non è però esperibile d’ufficio dal giudice, come sarebbe stato più
logico aspettarsi e come accade, a norma dell’art. 412 bis c.p.c., per il rito del lavoro, ma deve essere eccepita dalla parte, che vi abbia interesse, nella sua prima difesa, il che dovrebbe lasciarci supporre che, in caso di mancata eccezione, il giudizio
deve necessariamente proseguire. Tale circostanza pur non dando luogo ad una ipotesi di nullità, che può essere prevista solo dalla legge, dà, comunque, luogo ad una
doglianza che può farsi valere successivamente ai fini risarcitori, in quanto l’assenza della fase di filtro, che è condizione di proseguibilità dell’azione, dà luogo ad
un vizio procedimentale, attenendo alla corretta istaurazione del giudizio41.
Al riguardo si è sostenuto42 che essendo, nel caso di specie, la fonte della
clausola conciliativa di carattere negoziale e non derivando, come nel processo del
lavoro, da un obbligo imposto dalla legge, la stessa non può definirsi vincolante e
conseguentemente non è possibile ottenre il risarcimento dei danni derivanti dalla
mancata attivazione del “filtro”.
Tale tesi non è, però, condivisibile in quanto anche la clausola compromissoria e lo stesso compromesso (art. 806 c.p.c.) hanno origine negoziale e sono, una
volta sottoscritti, pienamente vincolanti (art. 808 c.p.c.) per le parti, che derogano
con essi alla giurisdizione del giudice ordinario in modo precettivo non solo per
esse, ma per lo stesso giudice che, se adito, dovrà declinare la propria giurisdizione in presenza di un compromesso o di una clausola compromissoria che devolvono agli arbitri la cognizione nella lite.
Neppure soddisfacente appare la tesi di chi sostiene che il mancato esperimento della conciliazione sarà rilevante ai soli fini delle spese del giudizio43, in
quanto, in tal modo, non solo si impedisce alla conciliazione di perseguire le finalità di carattere deflativo, definite dalla Corte Costituzionale di “interesse pubblico”, ma si disattende l’efficacia di una pattuizione che, per essere contenuta nello
statuto societario (o nell’atto costitutivo della società), ha carattere vincolante per
la società e per l’intera comunità dei soci.
Al riguardo è possibile far valutare la questione dal giudice ai fini di una con40 Va ricordato che accanto alla materia prevista
dall’articolo 1 del d. lg. n. 5 del 2003,
l’articolo 7 della legge del 6 maggio 2004, n. 129
(in Gazzetta Ufficiale del 24.5.2004, n. 120, serie
generale) prevede che “per le controversie relative
ai contratti di affiliazione commerciale (franchising)
le parti possono convenire che, prima di adire l’autorità
giudiziaria o ricorrere all’arbitrato, dovrà essere
fatto un tentativo di conciliazione presso la camera
di commercio, industria, artigianato e agricoltura,
nel cui territorio ha sede l’affiliato. Al procedimento
di conciliazione si applicano, in quanto compatibili,
le disposizioni di cui agli articoli 38, 39 e 40
del decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5
e successive modificazioni”.
Al riguardo è auspicabile l’estensione di tale procedura
da esperirsi anche presso gli organismi
di conciliazione privata.
41 Va, però, ricordato che la Corte di Cassazione
con la sentenza del 3 dicembre 1987, n. 8983,
in Foro It., Rep. 1987, v. arbitrato, n. 94, ha ritenuto che
il mancato esperimento del tentativo di conciliazione,
non è di ostacolo alla proponibilità ed alla procedibilità
dell’azione giudiziaria, ma viene in rilievo soltanto ai
fini della valutazione del risarcimento del danno.
42 Cfr. G. ARIETA – F. DE SANTIS, Diritto processuale
societario, cit., p. 719.
43 Vedi, sul punto, Tribunale di San Remo 27 agosto 1998,
in Foro Padano 1999, I, c. 234, con nota di M. CURTI.
37
RomanaDOTTRINA
temi
danna al risarcimento dei danni sulla base del dettato dell’art. 96 c.p.c.
Sul punto va ancora ricordato come desti perplessità la scelta del legislatore
di avere lasciato che il rilievo del mancato esperimento della conciliazione operi
nel processo come eccezione in senso stretto e non sia, come nel processo del lavoro, affidato al potere d’ufficio del giudice.
Detta scelta, certamente, appare limitante per la stessa finalità cui la conciliazione pre-processuale è preposta.
Inoltre, non può non segnalarsi un evidente difetto di coordinamento tra l’eccezione prevista nel sesto comma dell’art. 40, che la parte deve far valere nella sua
prima difesa ed il regime delle preclusioni previsto, nell’art. 10 del decreto legislativo n. 5 del 2003, per il processo cognitivo societario44. Analogo potere di sospensione del procedimento in attesa della attuazione della conciliazione pre-processuale è data anche agli arbitri quando la conciliazione “filtro” prevista dallo statuto o dal contratto costitutivo p prodromica ad un arbitrato.
7. Segue:
b) il procedimento
I primi due commi dell’articolo 40 del decreto legislativo n. 5 del 2003 dettano le regole del “giusto procedimento” di conciliazione.
In particolare il legislatore delegato, pur rinviando, per la piena attuazione di
detti principi, al regolamento che, a norma dell’art. 38, secondo comma, dovrà
essere emanato dal Ministro di giustizia (regolamento che è stato effettivamente
emanato il 23 luglio 2004 e del quale ci occuperemo espressamente nel paragrafo
12 del presente studio), individua come punto fondante del procedimento di conciliazione “l’imparzialità” del conciliatore, che dovrà essere in posizione di perfetta
equidistanza rispetto alle parti, ma che dovrà anche avere “l’idoneità” ad esercitare, in concreto, funzioni di conciliazione lasciando presupporre, quindi, che queste
attitudini debbano essere precedentemente verificate e che specifici corsi di formazione possano concorrere a sviluppare i profili di idoneità alle funzioni ed alle
tecniche di conciliazione, corsi che vanno frequentati prima di tale verifica, ne consegue che anche tali corsi finalizzati a formare i conciliatori debbano essere svolti
con il controllo del Ministero di giustizia.
Come è agevole rilevare la scelta operata dal conciliatore lascia trasparire
una preferenza in favore di un conciliatore a composizione monocratica, anche se
non vi è alcuna norma dell’ordinamento in esame che vieti, espressamente, il ricorso al conciliatore collegiale.
Infine, il primo comma, dell’articolo 40, fa riferimento al sollecito espletamento della conciliazione e ciò al fine di consentire o una rapida definizione, transattiva, della vertenza, o di dare sbocco, in tempi brevi alla fase contenziosa attraverso la proposizione dell’azione.
In conclusione, il perseguimento delle finalità che il procedimento di conci44 Sul punto vedi A. CARRATTA, Effetti della notificazione
dell’istanza di fissazione di udienza, in Il Nuovo processo
38
societario, a cura di S. CHIARLONI, cit., p. 282.
liazione intende perseguire si avrà se oltre all’autorevolezza ed alla competenza del
conciliatore sarà possibile un espletamento sollecito della procedura conciliativa.
8. Segue:
c) – la domanda di conciliazione
Il comma quarto dell’articolo 40 assegna alle domande di conciliazione gli
stessi effetti sostanziali dell’atto che introduce il processo.
Detta domanda, dunque, impedisce la decadenza ed interrompe la prescrizione, a norma del primo comma dell’articolo 2943 c.c.
Chiarisce, altresì, il comma in esame che detti effetti si verificano al momento della comunicazione della domanda, comunicazione (rectius: notificazione)
della quale è lasciata libertà di forme, ma che deve avvenire con mezzi idonei a provare l’avvenuta ricezione dell’atto introduttivo della conciliazione da parte del
destinatario.
In attesa di una più specifica regolamentazione della materia, che si avrà con
i regolamenti, dettati dai singoli organismi preposti alla conciliazione, è opportuno,
sin da ora, suggerire alla parte che intenda proporre la istanza di conciliazione di
darne contestualmente notizia (rectius: operarne la notificazione) sia alla controparte, che “all’ufficio di conciliazione”.
La domanda, anche se ciò non è stato specificamente regolato dal decreto
legislativo, deve contenere tutti gli elementi che dovranno poi essere, eventualmente, presenti nell’atto introduttivo del giudizio.
Essa, dunque, non potrà limitarsi ad una generica esposizione delle doglianze, ma dovrà essere modulata sul disposto dell’articolo 2, lettera a) del decreto
legislativo e contenere gli elementi previsti dai numeri 2,3 e 4 dell’articolo 163
c.p.c.45, in sostanza deve esservi piena coincidenza tra le doglianze che si intendono portare all’attenzione del conciliatore e le domande che, eventualmente, formeranno oggetto del successivo giudizio, in caso di mancata realizzazione della conciliazione, solo, in tal modo, sarà possibile consentire al (successivo) giudice una
corretta verifica dell’instaurazione del procedimento ed egli sarà messo in condizione di attuare il dettato del sesto comma dell’art. 40. Analogamente, come detto
in precedenza, dovrà comportarsi il collegio arbitrale nel verificare la coincidenza
tra le doglianze proposte in fase di conciliazione ed i quesiti formulati nella procedura arbitrale.
In sostanza la domanda introduttiva del procedimento di conciliazione dovrà
coincidere con quella dell’eventuale giudizio, (o con i quesiti del procedimento
arbitrale), o essere più ampia di essa, mentre non è consentito che vi siano domande, nell’atto di citazione introduttivo del giudizio, che non siano state già, in pre45 Non trovano, infatti, applicazione il punto 1
dell’art. 163 c.p.c., che ha ad oggetto l’indicazione del
Tribunale innanzi al quale la domanda è proposta,
nonché i punti 5 (indicazione delle prove), 6
(individuazione del procuratore) e 7 (vocatio in ius della
controparte ed ammonizione). Per quanto attiene alla
assistenza di un legale nella fase di conciliazione la stessa
– come già ricordato in precedenza – non è obbligatoria,
anche se appare opportuno ricorrere ad una assistenza
tecnica al fine di essere meglio tutelati sia nella
formulazione della istanza di conciliazione, che nelle
successive fasi del procedimento, improntato,
come detto, alle regole della terzietà e del
contraddittorio.
39
RomanaDOTTRINA
temi
cedenza, contenute nell’atto introduttivo del procedimento di conciliazione.
Anche in questa ipotesi il Tribunale dovrà, all’atto dell’udienza prevista dall’art. 16, sospendere il giudizio ed invitare le parti ad esperire il tentativo di conciliazione, a meno che la parte attrice non intenda rinunciare a quelle domande che
non siano state oggetto della richiesta di conciliazione.
Se la conciliazione ha esito solo parziale la parte rimasta insoddisfatta potrà
agire in giudizio per la tutela del suo diritto rimasto estraneo alla materia conciliata.
Per quanto riguarda, invece, una eventuale domanda riconvenzionale, proponibile nel processo societario con le modalità previste dall’art. 4 del d. lg. n. 5/02
anche la proposizione di essa va sottoposta al preventivo tentativo di conciliazione
se la clausola che lo prevede è vincolante per le parti.
Anche in questo caso il presidente dovrà sospendere il giudizio ed invitare le
parti ad esperire, sul tema della domanda riconvenzionale, il procedimento di conciliazione innanzi alla stessa organizzazione sindacale che ha già tentato la conciliazione sulla domanda principale.
Invero, ai casi che prevedono l’esperimento vincolante per le parti del procedimento di conciliazione, l’unica possibile eccezione è data dalle misure cautelari ante causam (art. 23), che non possono trovare alcun “filtro” per la loro attuazione.
Oltre ai due prescritti requisiti, della comunicazione e del contenuto, la normativa non detta altre specifiche forme per la domanda di conciliazione, che viene
lasciata dal legislatore libera e deformalizzata, lasciando lo spazio per la individuazione degli altri requisiti ai regolamenti dei singoli organismi di conciliazione.
Non è prevista l’assistenza di un legale in questo procedimento, anche se
appare evidente che soltanto la presenza di una “difesa tecnica” assicura la corretta
attuazione delle regole del giusto procedimento di conciliazione e garantisce, in
modo più efficace, che non abbiano a verificarsi quelle commistioni tra il procedimento di conciliazione ed il successivo giudizio di merito, che la normativa in esame
limita a poche eccezioni (art. 40, comma 3) di cui ci occuperemo in seguito.
9. Segue:
d) – la riservatezza del procedimento
Prendendo le mosse da quanto contenuto nel libro verde del 19 aprile 200246
della Comunità Europea, relativo ai modi alternativi di risoluzione delle controversie in materia civile e commerciale, il primo comma dell’art. 40 del d. lg. n. 5 pone
tra i requisiti essenziali del procedimento di conciliazione quello della sua riservatezza.
La particolare attenzione dedicata al tema è rivolta prevalentemente al conciliatore il quale, pur nel rispetto delle regole che garantiscono il contraddittorio,
può sentire separatamente le parti, al fine di facilitare il dialogo e di poter rendere
una proposta conciliativa condivisibile da entrambe, in questa fase egli potrebbe
46 Vedilo sul sito internet dell’Unione Europea
www.europa.un.int.. Va ricordato che, in precedenza,
la Commissione Europea il 4 aprile 2001 aveva
40
raccomandato detto requisito ricomprendendolo
nel capitolo dedicato all’equità; vedi, Gazzetta Ufficiale
del 19.4.2001, n. 109, p. 56.
acquisire informazioni riservate, particolarmente delicate, nel contesto della materia
trattata, che non deve, in alcun modo, divulgare, né comunicare alla controparte.
Appare evidente che il conciliatore può essere chiamato a risarcire i danni
che dovesse aver prodotto, con il suo comportamento, poco rispettoso della riservatezza a lui richiesta; alla stessa stregua potrebbe essere chiamata a rispondere dei
danni prodotti dal conciliatore, anche l’organizzazione di conciliazione, nell’ambito della quale questo opera. Va chiarito, però, che detta responsabilità rientra tra
quelle di natura contrattuale e, pertanto, incombe sulla parte che agisce per ottenere il risarcimento del danno fornire la prova di averlo patito.
Appare, altresì, evidente che, in virtù del principio generale di buona fede
contrattuale, l’obbligo di riservatezza grava anche sulle parti (e sui loro difensori)
che sono tenute, in ogni caso, nel corso del procedimento di conciliazione, a mantenere un comportamento improntato ai principi di buona fede.
Un altro momento rilevante, con cui si può misurare la riservatezza del conciliatore, è costituito dalla equidistanza da questi dimostrata nel formulare la sua
proposta conciliativa.
Agli avvocati chiamati ad assistere le parti nel procedimento di conciliazione si estende la regola della lealtà e della probità, contenuta nel secondo comma
dell’art. 88 c.p.c., trattandosi, comunque, di attività defenzionale. Va ricordato, infine, che sia il conciliatore, che i difensori possono rispondere, sotto il profilo deontologico, al loro ordine di appartenenza, ad esempio gli iscritti all’albo degli avvocati rispondono in virtù di quanto previsto dal dettato degli articoli 54 e 55 del
codice deontologico forense47.
10. Segue:
e) – rapporti tra il procedimento di conciliazione e processo.
Si è già detto, nel paragrafo n. 8, della necessaria coincidenza tra la domanda che introduce il procedimento conciliativo e la citazione introduttiva del successivo (eventuale) giudizio di cognizione è, quindi, necessario esaminare ora gli
altri profili che legano il procedimento di cognizione al successivo giudizio.
Il terzo comma dell’articolo 40 chiarisce che “le dichiarazioni rese dalle parti
nel corso del procedimento (di conciliazione) non possono essere utilizzate, salvo
quanto eccezionalmente previsto dal comma 5, nel giudizio promosso a seguito
dell’insuccesso del tentativo di conciliazione, né possono essere oggetto di prova
testimoniale”.
Il successivo quinto comma pone, quale eccezione, la possibilità che il giudice valuti, ai fini delle spese, anche ai sensi dell’articolo 96 c.p.c., la mancata “colpevole” comparizione di una delle parti nel procedimento di conciliazione o l’atteggiamento ostruzionistico assunto innanzi al conciliatore, potendo decidere
anche in deroga al principio generale (art. 91 c.p.c.), secondo cui le spese seguono
la soccombenza, cioè ponendo le spese del giudizio in capo alla parte vittoriosa.
47 Cfr. R. DANOVI, Commentario del codice deontologico
forense, Milano 2004, p. 778 e p. 781. Invero, la disposizione
dettata dall’articolo 55 riguarda le funzioni di arbitro, ma è
ipotizzabile che essa possa estendersi anche a quelle di
conciliatore.
41
RomanaDOTTRINA
temi
E’ importante rilevare come, giustamente, il legislatore delegato abbia voluto separare il più possibile le sorti della conciliazione rispetto a quelle del successivo (eventuale) giudizio di cognizione.
L’esperienza di altri procedimenti conciliativi ha, infatti, insegnato che la
possibilità di giungere ad un risultato positivo della conciliazione è spesso il prodotto di una totale indipendenza del procedimento di conciliazione rispetto al successivo eventuale giudizio.
L’aver tenuto separate le due fasi impedisce, quindi, alle parti di utilizzare il
procedimento di conciliazione per procurarsi situazioni di vantaggio nel successivo giudizio.
A tal fine, è importante la piena indipendenza del conciliatore, che non essendo chiamato successivamente a risolvere la lite, può formulare ipotesi di conciliazione in piena autonomia e la sua attività non sarà recepita dalle parti con la riserva mentale di cercare di ipotizzare i retro pensieri del conciliatore, al solo fine di
poterne desumere l’orientamento rispetto al successivo giudizio, come accade,
assai spesso, per la conciliazione tentata dal giudice all’inizio del giudizio, conciliazione della quale, per ciò che concerne la materia societaria, ci occuperemo, in
un successivo paragrafo48, limitatamente ai rapporti con la conciliazione pre-processuale.
Inoltre il limite all’ammissione della prova testimoniale, proposto dal terzo
comma dell’articolo 40, impedendo che il conciliatore possa essere chiamato a
testimoniare garantisce ulteriormente la sua riservatezza enfatizzandone la posizione di terzietà.
L’unica eccezione a detto principio di separatezza delle procedure è data,
come detto, dalla valutazione del comportamento della parte che o non si è assoggetta al procedimento conciliativo o lo ha utilizzato con finalità dilatorie, in questo
caso tale atteggiamento sarà valutato dal giudice adito, che, per far ciò, potrà anche
accedere al “fascicolo” del procedimento conciliativo.
E’ chiaro che le limitazioni alla utilizzazione dei documenti della conciliazione riguardano (con le distinzioni operate dall’articolo 7, comma 5, del regolamento n. 222/04) solo i casi in cui la conciliazione non sia riuscita, o sia riuscita
solo parzialmente; nelle ipotesi di conclusione positiva della conciliazione i documenti prodotti dalle parti saranno, infatti, necessari ai fini della dichiarazione di
esecutorietà di essa, essendo il verbale di conciliazione, a norma dell’ottavo comma
dell’art. 40, titolo esecutivo e previa valutazione della regolarità formale, per cui
tutti i documenti prodotti nella fase di conciliazione concorrono alla verificazione
di tale “regolarità” del procedimento.
Il limite previsto dal legislatore, del resto, non può impedire alle parti che nel
procedimento di conciliazione hanno prodotto alcuni documenti, di riproporli
anche nel successivo giudizio di cognizione, se così fosse la conciliazione imporrebbe limiti al diritto alla difesa tali da farla apparire certamente incostituzionale,
in quanto lesiva del dettato dell’art. 24 Cost..
48 Cfr. infra paragrafo 14.
42
11. Segue:
f) – il verbale di conciliazione
1. di segno positivo
Alla stessa stregua di quanto previsto per altri riti, come ad esempio per il
processo del lavoro (art. 411 c.p.c.), il legislatore delegato ha inteso attribuire, in
virtù del dettato dell’ultimo comma dell’art. 40, al verbale di conciliazione, sottoscritto dalle parti e dal conciliatore, valenza di titolo esecutivo.
L’acquisizione di tale valore, come si legge nell’ottavo comma dell’articolo
40, è subordinata ad un controllo sulla regolarità formale del procedimento, che
deve essere disposto dal Presidente del Tribunale del luogo dove ha sede l’organismo di conciliazione, egli decide in merito alla regolarità con decreto, inaudita
altera parte. Chiarisce la normativa, in esame, che il verbale, munito dell’omologazione, costituisce “titolo esecutivo per l’espropriazione forzata, per l’esecuzione
in forma specifica e per l’iscrizione di ipoteca giudiziale”.
In relazione al procedimento da seguire per ottenere detta omologazione,
però, non viene dettata alcuna specifica prescrizione, al riguardo è ipotizzabile il
riferimento alla procedura prevista per l’omologazione del lodo arbitrale, regolata
dall’art. 825 del codice di rito civile.
Invero, rilevanti sono le analogie, desumibili dalla lettura dell’articolo 825,
che suggeriscono detta applicazione, in quanto anche nell’articolo che regola il
deposito del lodo arbitrale è previsto un controllo relativo alla regolarità formale
del procedimento ed una dichiarazione di esecutorietà da ottenersi mediante decreto emesso dal Tribunale.
Le regole relative al procedimento di “omologazione” del verbale di conciliazione, non contenuta nel decreto legislativo n. 5/03, sono state, successivamente,
dettate dal regolamento ministeriale n. 222/04, di cui ci occuperemo nel paragrafo
12, che ha previsto con l’art. 8, comma 2, la trasmissione, senza ritardo, ad opera
dell’organismo di conciliazione o dello stesso conciliatore al responsabile del registro, il quale su istanza di parte (è ipotizzabile anche l’istanza congiunta) lo trasmette al Presidente del Tribunale per l’omologazione.
E’ competente il Tribunale del luogo ove ha sede l’organismo di conciliazione che ha espletato la procedura, luogo che deve essere precisato, unitamente agli
estremi dell’iscrizione del medesimo organismo di conciliazione, come previsto
dall’art. 38 d. lg. n. 5 del 2003, nel verbale stesso.
L’istanza, da proporsi al responsabile del registro nella forma del ricorso,
deve contenere la richiesta di apposizione della esecutorietà e fornire tutti gli elementi che consentano al Presidente del Tribunale l’esercizio del controllo formale
sul verbale, che, quindi, dovrà essere depositato, del responsabile del registro dall’organismo di conciliazione, su istanza di parte, come prescrive l’articolo 8,
comma 2, del D.M. 222 del 2004, in originale o in copia conforme, al fine di consentire: 1) la verifica dell’esistenza delle richieste sottoscrizioni delle parti e del
conciliatore; 2) la circostanza che la vertenza conciliativa abbia ad oggetto una delle
materie previste dall’art. 1 del d. lg. n. 5 del 2003 e ricordate nel precedente paragrafo 2 del presente studio. Altro importante profilo su cui deve attuarsi il control-
43
RomanaDOTTRINA
temi
lo di regolarità formale è quello della verifica dei requisiti dell’organismo di conciliazione da cui proviene il verbale, che, come detto in precedenza, deve avere le
caratteristiche previste dall’art. 38 del d. lg. n. 5, i cui estremi debbono essere indicati (a norma del settimo comma dell’art. 40) nel medesimo verbale che contiene
la avvenuta conciliazione.
In analogia con il già ricordato articolo 825 c.p.c., il provvedimento reso dal
Presidente del Tribunale, se di segno negativo, rispetto alla richiesta di omologazione, può essere reclamato al collegio del Tribunale, a norma dell’art. 27 del d. lg.
5/03, che nella sua composizione non deve avere tra i membri il Presidente che ha
negato l’omologazione (comma 2 dell’art. 27).
Ci si è chiesti se il procedimento di rigetto del reclamo possa essere comunque impugnato, ex art. 111, settimo comma, della Costituzione, innanzi alla Corte
di Cassazione49, malgrado l’espresso richiamo alla non impugnabilità contenuto nel
terzo comma dell’art. 27.
A tale quesito deve rispondersi negativamente sia perché non rientra nei dettami formali previsti dall’art. 111 Cost., sia perché con tale provvedimento non dispone di diritti, i quali sono già stati regolati dalle parti con la sottoscrizione della
conciliazione, nel caso di specie, si discute soltanto dall’esecutorietà del verbale di
conciliazione, quindi del solo modo di esercizio di quei diritti. Al riguardo va,
comunque, ricordato che il verbale di attuazione, che non sia dichiarato esecutivo,
conserva, in ogni caso, la sua vincolatività negoziale tra le parti (vedi anche il dettato dell’art. 322 c.p.c., ultimo comma).
2. di segno negativo
Se, invece, la conciliazione non riesce, o se riesce solo parzialmente50, il conciliatore, a norma del secondo comma dell’art. 40, darà atto dell’esito negativo del
tentativo di conciliazione e di tale verbale rilascia copia alle parti, che ne facciano
richiesta. Analogamente il conciliatore deve dare atto a verbale della mancata presenza di una parte al procedimento di conciliazione. Inoltre, a norma di quanto contenuto nel quinto comma dello stesso articolo 40, dovrà operare una descrizione ed
una valutazione delle posizioni assunte dalle parti nel corso del procedimento di
conciliazione.
Se le parti congiuntamente51 lo richiedono il conciliatore è tenuto a formulare una propria proposta di conciliazione “rispetto alla quale ciascuna delle parti, se
la conciliazione non ha luogo, indica la propria definitiva posizione, ovvero le condizioni alle quali è disposta a conciliare”.
Ci si chiede quale utilizzo possa essere fatto di tale proposta e della successiva verbalizzazione delle posizioni delle parti, nel successivo giudizio. In virtù di
49 Cfr. G. ARIETA – F. DE SANTIS, Diritto processuale societario,
cit., p. 745, in particolare con la nota 66.
50 Va ricordato che per la conciliazione parziale è possibile
chiedere l’omologazione del verbale per la parte relativa alla
materia coperta dalla conciliazione, mentre per la parte che non
è stata regolata dalla conciliazione sarà possibile agire in
44
giudizio.
51 Modificato in tal senso dal decreto legislativo n. 37
del 6 febbraio 2004, in precedenza l’iniziativa poteva essere di
una sola parte. Non si comprendono le ragioni di tale
correzione in quanto appare molto più logica la formulazione
iniziale che lasciava quale potere ad una sola parte.
quanto ricordato in precedenza, il disposto del terzo comma dell’art. 40 tende a perseguire la piena autonomia del procedimento di conciliazione rispetto al processo,
con le sole eccezioni in precedenza ricordate, tuttavia essendo il verbale di mancata conciliazione e le sue conclusioni nella piena disponibilità delle parti, come ricorda lo stesso secondo comma dell’articolo 40, non può essere vietato alle stesse di
produrlo in giudizio, anche se il giudice non potrà tenerne conto ai fini del decidere, salvo che non ci si trovi in presenza di comportamenti valutabili a norma del
comma 5 dell’articolo 40 ai fini delle spese.
E’, però, ipotizzabile che il giudice possa utilizzare le risultanze della mancata conciliazione, ivi comprese le posizioni delle parti, ai fini della formulazione
della sua ipotesi conciliativa, da esperirsi all’interno del giudizio, come previsto
dall’articolo 16 del decreto legislativo in esame.
E’ necessario chiarire, ulteriormente, che la valutazione del rifiuto della parte
a presentarsi alla procedura di conciliazione può avere rilevanza, ai fini della condanna alle spese nel successivo giudizio di cognizione, solo se il ricorso alla conciliazione era previsto dallo statuto societario e/o nell’atto costitutivo, mentre nessuna valutazione può essere fatta del comportamento omissivo della parte assente nel
procedimento di conciliazione se il ricorso alla conciliazione non era contenuto
negli atti societari, ma soltanto frutto dell’iniziativa di una parte
12. Gli organismi di conciliazione ed il regolamento
n. 222 del 23 luglio 2004
L’articolo 38, del decreto legislativo in esame, si pone il problema di individuare gli organismi che possano essere chiamati a svolgere le attività di conciliazione e che siano in grado di garantire non solo l’imparzialità e la competenza nell’attuazione e nella direzione del procedimento, ma anche il corretto rispetto delle
regole che garantiscano la piena equidistanza tra le parti ed il giusto contemperamento degli interessi contrapposti.
Con la individuazione di appositi organismi di conciliazione il legislatore
delegato, opportunamente, si è preoccupato di garantire la funzionalità del procedimento.
A differenza di ciò che era accaduto in precedenti ipotesi52, nelle quali il
legislatore aveva previsto il ricorso alla conciliazione come filtro all’azione, questa
volta oltre a prevedere astrattamente la necessità (o la opportunità) di far precedere
il giudizio dall’esperimento del tentativo di conciliazione, il legislatore delegato si
è preoccupato anche di invidiare e qualificare specifici organismi ai quali delegare
lo svolgimento di queste funzioni da attuarsi con “serietà ed efficacia” e sotto il controllo, in quanto tali organismi sono “iscritti in un apposito registro”, del Ministero
di giustizia.
E’ interessante rilevare come il legislatore abbia inteso porre sullo stesso
52 Si pensi, ad esempio, alla normativa sul pubblico e sul privato
impiego, dove il procedimento di conciliazione costituisce un
“filtro” per la proposizione dell’azione e pertanto dovrebbe
essere garantito da organismi che offrano la massima
funzionalità di tale procedimento, anche per poter enfatizzare
la funzione deflativa di esso. Analogo discorso potrebbe farsi per
il processo agrario.
45
RomanaDOTTRINA
temi
piano soggetti pubblici e privati per gestire le procedure di conciliazione, assegnando ai primi una maggiore credibilità in quanto per le camere di commercio,
che abbiano già costituito, al momento della entrata in vigore della legge, organismi di conciliazione ai sensi dell’articolo 4 della legge del 29 dicembre 1993, n.
58053, è prevista una iscrizione “automatica” nel registro tenuto dal Ministero di
giustizia, mentre per gli altri organismi pubblici o privati che siano il Ministero si
riserva una valutazione circa il loro inserimento o no, nello stesso registro.
La utilizzazione di soggetti privati, accanto ad organismi pubblici, costituisce la importante novità che la normativa in esame ha inteso pienamente legittimare. Tale indicazione si colloca nell’alveo di scelte, già in precedenza attuate dal
legislatore, che ha legittimato l’esercizio, anche ad opera di privati, di servizi, se
non propriamente definibili pubblici54, quantomeno individuabili come istituti di
“interesse pubblico” sui quali lo Stato assicura una certa vigilanza e nei limiti del
possibile attua su di essi una attività atta a calmierare i costi dei servizi da essi resi,
oltre a fornire a tutti gli organismi di conciliazione adeguati mezzi di formazione,
attraverso la validazione di corsi.
Per dar piena attuazione a dette attività il 23 luglio 2004 sono intervenuti due
distinti decreti ministeriali recanti i numeri 222 e 22355, che hanno inteso regolare
sia i criteri relativi alle modalità di iscrizione nel registro e di tenuta del medesimo
(il D.M. 222/04), che le indennità spettanti agli organismi di conciliazione (il D.M.
223/04).
Con l’articolo 3 del decreto ministeriale n. 222/04 viene istituito presso il
Ministero di giustizia, nell’ambito della direzione risorse umane del dipartimento
per gli affari di giustizia, il registro degli “organismi autorizzati alla gestione dei
tentativi di conciliazione” sotto la responsabilità del direttore generale della giustizia civile, che può avvalersi, con compiti consultivi, “di un comitato di tre giuristi
esperti nella materia della risoluzione alternativa delle controversie (A.D.R.)”.
Il registro è articolato in due parti la prima dedicata agli enti pubblici e la
seconda, nella quale vengono indicati i soggetti privati, in cui pure debbono essere
contenute anche le indicazioni dei soci, degli associati, dei dipendenti, degli amministratori e dei rappresentanti di detti soggetti privati.
In entrambe le parti del registro è contenuto un differente elenco dei conciliatori, i due elenchi sono pubblici e tenuti con modalità informatiche, per garantire il massimo dell’accesso di essi.
Il decreto ministeriale dopo avere individuato, con l’art. 456, i criteri per l’iscrizione nel registro, si sofferma ad esaminare il procedimento di iscrizione dei
soggetti pubblici e/o privati (art. 5) ed ad individuare i limiti soggettivi all’eserci53 La legge ha ad oggetto il riordino della camera
di commercio, industria, artigianato e agricoltura
e nell’art. 4 si fa riferimento alla vigilanza esercitata dal
Ministero delle attività produttive su di esse. Vedi il testo
della legge in Gazzetta Ufficiale 11 gennaio 1994,
n. 7, suppl. ord.
54 Per una analisi relativa ad una possibile qualificazione
dei servizi pubblici vedi le risultanze dei lavori della
46
Commissione mista tra magistrati della Corte di Cassazione
e del Consiglio di Stato, che ha svolto i suoi lavori nel
periodo maggio – dicembre 2003, in Foro It. 2004, V, c. 18.
55 I due decreti del Ministro della giustizia sono stati
pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale del 23 agosto 2004, n.
197. Gli stessi sono, inoltre, contenuti in Guida al diritto
2004, fasc. 36,p. 14 e p. 21, con nota di A. BUSANI
zio delle funzioni di conciliatore, per i quali prevede un numero massimo di appartenenza agli elenchi dei conciliatori (non possono svolgersi le funzioni di conciliatore per più di tre organismi di conciliazione) per poi passare all’esame del regolamento di procedura sul quale, ai fini del nostro studio, è opportuno fermare l’attenzione.
Il regolamento – chiarisce il decreto ministeriale – si ispira ai principi di
informalità, rapidità e riservatezza, nonché ai principi indicati nell’art. 40 del d. lg.
5 del 2003, vale a dire quelli dell’idoneità del conciliatore a svolgere le sue funzioni, quelli della separazione (salvo le già viste eccezioni) tra il procedimento conciliativo ed il successivo giudizio di merito, ed infine le regole disposte a garanzia
del principio del contraddittorio. A tutela di tali principi il decreto detta due punti
fondamentali: il primo, previsto dal comma 4, in base al quale il procedimento di
conciliazione può avere inizio solo dopo che il conciliatore designato abbia sottoscritto la dichiarazione di imparzialità prevista dal terzo comma, lettera a), dello
stesso regolamento, a detta dichiarazione (i regolamenti dei singoli organismi di
conciliazione possono prevederlo) sarebbe opportuno aggiungere una ulteriore
attestazione, nella quale deve essere contenuta anche una dichiarazione di indifferenza rispetto alle parti ed opportunamente anche in una dichiarazione di non avere
avuto alcun rapporto con i litiganti in precedenza, neppure in relazione a fattispecie diverse, garantendo così la piena terzietà del conciliatore57.
Il secondo, contenuto nel quinto comma, attestante il diritto d’accesso agli
atti del procedimento, circostanza questa che dovrebbe fugare taluni dubbi interpretativi, circa la condivisione del fascicolo, nati dalla lettura del quinto comma
dell’articolo 40 del d. lg. n. 5/0358 .
56 Invero, detti criteri non necessitano di alcuna discussione,
in questa sede, anche se appare opportuno, per completezza
di esame, riportare di seguito il testo dell’articolo 4. Unico
rilievo che è necessario muovere riguarda gli anni di iscrizione
all’albo richiesto agli avvocati (15) che sembra effettivamente
eccessivo, così come non può condividersi l’estremo rigore del
punto 5 della parte b) del quarto comma dell’art. 4: “non
avere riportato sanzioni disciplinari diverse
dall’avvertimento”, dimentica, infatti, il regolamento che
nemmeno la censura costituisce sanzione disciplinale affittiva
e pertanto anche ad essa era opportuno estendere la deroga.
1. Nel registro sono iscritti, a domanda gli organismi di
conciliazione costituiti da enti pubblici e privati o che
costituiscono autonomi soggetti di diritto pubblico o di
diritto privato. 2. Gli organismi di conciliazione costituiti,
anche in forma associata dalle CCIAA sono iscritti su semplice
domanda. 3. Il responsabile verifica la professionalità e
l’efficienza dei richiedenti diversi
da quelli indicati al comma 2 e, in particolare: a) la forma
giuridica dell’ente o dell’organismo, il suo grado di
autonomia, nonché la compatibilità della sua attività con
l’oggetto sociale o lo scopo associativo; b) la consistenza
dell’organizzazione di persone e mezzi, e il suo grado di
adeguatezza, anche sotto il profilo patrimoniale; l’istante, in
ogni caso, deve produrre polizza assicurativa di importo non
inferiore a 500.000 euro per le conseguenze patrimoniali
comunque derivanti dallo svolgimento del servizio di
conciliazione; c) i requisiti di onorabilità dei soci, associati,
amministratori o rappresentanti dei predetti enti, non
inferiori a quelli fissati a norma dell’articolo 13 del decreto
legislativo 24 febbraio 1998, n. 58; d) la trasparenza
amministrativa e contabile dell’ente, ivi compreso il rapporto
giuridico ed economico tra l’ente e i singoli conciliatori; e) le
garanzie di indipendenza, imparzialità
e riservatezza nello svolgimento del servizio, nonché
la conformità del regolamento di procedura di conciliazione
alla legge e della tabella delle indennità ai criteri stabiliti dal
regolamento emanato a norma dell’articolo 39 del decreto; f)
il numero dei conciliatori non inferiore a sette che abbiano
dichiarato la disponibilità a svolgere le funzioni di
conciliazione in via esclusiva per il richiedente; g) la sede
dell’organismo di conciliazione. 4. Il responsabile verifica in
ogni caso: a) i requisiti di qualificazione professionale dei
conciliatori per i quali, ove non siano professori universitari in
discipline economiche o giuridiche, o professionisti iscritti ad
albi professionali nelle medesime materie con anzianità di
iscrizione di almeno quindici anni, ovvero magistrati in
quiescenza, deve risultare provato il possesso di una specifica
formazione acquisita tramite
la partecipazione a corsi di formazione tenuti da enti
pubblici, università o enti privati accreditati presso il
responsabile in base ai criteri fissati a norma dell’articolo 10,
comma 5; b) il possesso, da parte dei conciliatori, dei seguenti
requisiti di onorabilità: 1. Non avere riportato condanne
definitive per delitti non colposi o pena detentiva, anche per
contravvenzione; 2. non avere riportato condanne a pena
detentiva, applicata su richiesta delle parti, non inferiore a sei
mesi; 3. non essere incorso nell’interdizione perpetua o
temporanea dai pubblici uffici; 4. non essere stato sottoposto
a misure di prevenzione
segue
47
RomanaDOTTRINA
temi
Ricorda, comunque, il decreto ministeriale che detto accesso deve essere
garantito, ad entrambe le parti, nel rispetto delle norme sulla riservatezza dei dati
personali59.
E’ importante rilevare come, malgrado siano state predisposte due diverse
sezioni del registro in sostanza si è accordata pari dignità ed identici doveri (vedi
art. 14 del D.M. 222/04) sia agli organismi pubblici, che a quelli privati, e nei confronti di entrambi ha garantito il diritto di accesso agli atti60.
Così come i rapporti con l’autorità giudiziaria, competente per l’omologazione, sono regolati in modo analogo (cfr. art. 13 del D.M. 222/04) per gli organismi pubblici e per quelli privati.
Ancora due considerazioni di carattere generale debbono essere svolte in
relazione al decreto ministeriale che detta i criteri per l’individuazione e la tenuta
del registro degli organismi di conciliazione.
La prima, di segno positivo, in quanto la procedura dettata dall’articolo 8
chiarisce efficacemente la dinamica del procedimento relativo alla fase di omologazione del verbale di conciliazione, innanzi al Tribunale, ponendo – come detto in capo all’organismo di conciliazione l’onere di trasmettere “senza ritardo”, al
responsabile del registro, il verbale contenente l’esito positivo della conciliazione,
il quale su istanza di parte (della parte che ne ha interesse, ma è ipotizzabile anche
una istanza congiunta) lo trasmette al Presidente del Tribunale per l’omologazione.
In virtù di questa procedura, invero un po’ macchinosa, si risolve il quesito
relativo alla fase di impulso della omologazione, che aveva fatto discutere, in precedenza, la dottrina61.
La seconda, di segno dubitativo, legata alla esclusione dei giudici di pace dal
novero dei conciliatori, prevista dall’art. 7, comma 4, anche se il testo stesso dell’articolo non appare, al riguardo, chiarissimo, potendo anche ipotizzarsi che i giudici di pace possano presiedere ai procedimenti di conciliazione, anche in materia
societaria, ma esclusivamente con la procedura prevista dall’articolo 322 c.p.c., il
che ci porta a concludere che alle conciliazioni operate dai giudici di pace non può
essere attribuita la omologazione e quindi il processo verbale avrà solo valenza
negoziale, come previsto dall’ultimo comma dell’art. 322 c.p.c., nel caso di specie,
infatti, è esclusa la applicazione del secondo comma dell’art. 322 c.p.c. non essendo in presenza di materie attribuite alla competenza del giudice di pace.
o di sicurezza; 5. non avere riportato sanzioni disciplinari
diverse dall’avvertimento. 5. Qualora l’ente sia
un’associazione tra professionisti o una società tra avvocati,
all’organismo devono essere destinati, anche in via non
esclusiva, almeno due prestatori di lavoro subordinato, con
prevalenti compiti di segreteria, ai quali risulti applicato il
trattamento retributivo e previdenziale previsto dal rispettivo
contratto collettivo nazionale di lavoro; in ogni altro caso i
compiti suddetti devono essere svolti da almeno due persone
nominativamente indicati con riferimento anche al tipo di
trattamento giuridico ed economico applicato. 6. I predetti
compiti non possono essere svolti dalle persone indicate alle
lettere c) ed f) del comma 3”.
57 E’ interessante ricordare la estrema importanza che la
48
raccomandazione della Commissione Europea del 4 aprile 2001
dà alle regole che preservano l’indipendenza e la terzietà del
giudice.
58 Cfr. L. NEGRINI, Organismi di conciliazione, in Il nuovo
processo societario, a cura di S. CHIARLONI, cit. p. 1052.
59 Cfr. il codice in materia dei dati personali di cui
al decreto legislativo del 30 giugno 2003, n. 196, in Gazzetta
Ufficiale 29 luglio 2003, n. 174.
60 Circa la natura del diritto di accesso vedi
P. SANDULLI, La tutela dei diritti, cit., p. 197.
61 Cfr. sul punto: L. NEGRINI, op. cit., p. 1067.
13. Le agevolazioni e la tariffazione prevista dal regolamento
n. 223 del 23 luglio 2004.
L’articolo 39 del decreto legislativo n. 5 del 2003 contiene una serie di norme
che il legislatore delegato ha dettato per rendere attuante, sotto il profilo dei costi
e delle spese, il procedimento conciliativo.
Collocando l’istituto della conciliazione tra i servizi definiti di pubblico interesse, in quanto destinati a diffondere la “cultura della partecipazione”, al fine di
provocare il conseguente effetto deflativo, che la stessa Corte Costituzionale62 ha
ritenuto di rilevante interesse nel contesto allargato dalla amministrazione della
giustizia o per meglio dire della possibilità di esercitare i propri diritti, tanto da
sacrificare ad esso una sia pur breve parte di quella ragionevole durata del processo teorizzata dall’articolo 111 della Costituzione, il legislatore delegato ha ritenuto di dovere alleggerire ogni carico anche di carattere fiscale per rendere appetibile il ricorso alla conciliazione.
Lo sforzo è certamente meritorio anche se, in passato, si è potuto costatare
che il ricorso alla conciliazione è stato stimolato non tanto della gratuità del procedimento, quanto dalla funzionalità delle strutture e della competenza e rapidità
nel decidere che i conciliatori hanno saputo offrire; in questo contesto vanno
inquadrate non soltanto le norme contenute nell’art. 39 del decreto legislativo in
esame, ma anche quella contenuta nel decreto ministeriale n. 223, coevo al precedente, che ha inteso regolamentare, sotto il profilo della tariffazione63, le indennità spettanti agli organismi di conciliazione.
Il primo comma dell’articolo 39 chiarisce che “tutti gli atti, documenti e
provvedimenti relativi al procedimento di conciliazione sono esenti da imposta di
bollo e da ogni spesa, tassa o diritto di qualsiasi specie e natura”. Il secondo comma
puntualizza inoltre, che il verbale di conciliazione è esente dall’imposta di registro
entro il limite di valore di venticinquemila euro.
Da tali previsioni è possibile riscontrare che tutti gli atti del procedimento di
conciliazione, compresi quelli relativi all’omologazione, che essendo fase prodromica della esecuzione può essere considerata come momento dell’esercizio del
diritto, sono esenti da imposta di bollo e da ogni spese e/o diritto.
Considerazioni di segno diverso debbono essere fatte nell’esaminare il
secondo comma dell’articolo 39 del d. lg. 5/03.
Esso chiarisce che sono esenti dall’imposta di registro tutte le conciliazioni
entro il limite di valore di 25.000 euro.
E’ quindi necessario comprendere concretamente come operi detta esenzione, se cioè essa si applichi solo per le conciliazioni di valore inferiore ai 25.000,00
Euro o se invece essa dia luogo ad una esenzione dell’imposta per tutte le conciliazioni fino alla concorrenza di 25.000,00 Euro.
La terminologia usata dal legislatore “entro il limite” ci induce a propende62 Cfr. la decisione n. 276 del 13 luglio 2000, cit., paragrafo 3.5.
63 Si ricorda che il controllo sulla tariffazione
costituisce uno dei coefficienti che caratterizzano
il servizio pubblico. Cfr. Cass. S.U. civ., 30 marzo 2000,
n. 72, in Corr. Giur. 2000, p. 592.
49
RomanaDOTTRINA
temi
re per questa seconda ipotesi, che meglio si colloca nella logica di voler rendere
“attraente” l’istituto della conciliazione64.
E’ necessario chiedersi se per procedere alla richiesta di omologazione di una
conciliazione, eccedente i 25.000 euro, sia necessaria la preventiva registrazione
del verbale di conciliazione.
Al riguardo va ricordato come la Corte Costituzionale con la sentenza del 6
dicembre 2002, n. 52265 ha dichiarato la parziale illegittimità costituzionale dell’articolo 66 del d.P.R. del 26 aprile 1986, n. 131, sul presupposto che “la situazione di inadempimento dell’obbligazione relativa all’imposta di registro, emergente in occasione del processo di cognizione, non può avere l’effetto di precluderne lo svolgimento e la conclusione”.
La decisione della Consulta, pur riguardando direttamente il processo di
cognizione ed i titoli esecutivi di produzione giudiziale (art. 474, n. 1 c.p.c.), offre
alcuni interessanti spunti di riflessione: il primo, che la tutela del diritto azionato
non si conclude con il giudizio di cognizione, ma è garantita anche dalla procedura esecutiva che ne concreta l’efficacia e l’effettiva attuazione; il secondo che
assoggettare la esecuzione di un provvedimento di condanna reso, da un giudice,
al pagamento di una imposta in contrasto con il principio di eguaglianza previsto
dall’art. 3 della Cost. in quanto discrimina tra chi è economicamente in grado di
corrispondere immediatamente l’imposta di registro e la parte (anche essa vincitrice) priva dei mezzi necessari per tale pagamento. Chiarisce, altresì, la Corte che
l’art. 66 del d. P.R. n. 131/86 è in contrasto anche con “l’articolo 24 della
Costituzione in quanto il diritto di agire in giudizio non può essere condizionato al
pagamento di un’imposta”.
Le argomentazioni della Corte Costituzionale se non lette in modo limitativo (e limitante), ma estese a tutti i titoli, che consentono attraverso l’esperimento
della procedura esecutiva la piena soddisfazione (sia pure talvolta per equivalenti)
di un diritto, ci mette in grado di affermare che anche per il verbale di conciliazione, potenzialmente titolo esecutivo, non è necessario, prima di chiederne la omologazione, nelle forme previste dall’articolo 8 del D.M. n. 222/04, procedere alla
sua registrazione.
Ai fini del nostro studio è opportuno ricordare ulteriormente che il regolamento dettato con il D.M. n. 223 del 2004, ha predisposto la tabella delle indennità spettanti agli organismi di conciliazione costituiti da enti pubblici di diritto
interno, nonché i criteri per l’approvazione delle tabelle delle indennità che
dovranno essere proposte dagli organismi privati (art. 2).
L’articolo 3 ha dettato i criteri di composizione delle indennità suddivisi in
spese di avvio del procedimento ed in spese di conciliazione66, nonché quelli per
individuare il valore della lite al fine di realizzare tali calcoli (art. 3, comma 8).
64 Nello stesso senso vedi G. ARIETA – F. DE SANTIS,
Diritto processuale societario, cit., p. 717. Contra L.
NEGRINI, Imposte e spese. Esenzione fiscale, in Nuovo
processo societario, a cura di S. CHIARLONI, cit., p. 1059.
50
65 In Temi Romana 2002, p. 120, con nota di P. SANDULLI,i
n Tema di rilascio della copia esecutiva di una sentenza
di altro provvedimento di condanna, p. 126.
14. Conciliazione pre-processuale e conciliazione endoprocessuale.
L’articolo 16 del decreto legislativo n. 5 del 2003, nel dettare le regole e le
modalità di svolgimento dell’udienza di discussione della causa, prescrive, al
secondo comma, la possibilità di esperimento del tentativo di conciliazione, subordinandola a due distinte condizioni: la prima legata alla circostanza che nel decreto, previsto dall’articolo 12 punto d), sia contenuto l’invito alle parti a comparire
personalmente, invito che, lo si ricorda, è subordinato ad un potere discrezionale
del giudice relatore; la seconda che “la natura della causa lo consenta” (quindi si
verta su diritti disponibili).
Chiarisce, inoltre, il secondo comma che il presidente possa proporre soluzioni di equa composizione della controversia, se lo ritiene. Tale potere deve ritenersi esteso all’intero organismo collegiale, poiché anche se il Presidente dirige la
fase dello interrogatorio libero e stimola la conciliazione, tale fase si svolge innanzi all’organo collegiale.
Dalla analisi di tali regole emergono alcuni profili di riflessione che debbono essere chiariti avendo, come si è in precedenza detto, particolare attenzione
all’analisi dei rapporti tra la conciliazione pre-processuale e quella interna al giudizio67.
Il primo rilievo è dato dalla considerazione che mentre la conciliazione preprocessuale trova ingresso nel processo esclusivamente se lo statuto o l’atto costitutivo contengono una clausola di conciliazione, o se le parti (anche senza la sussistenza della clausola) ne facciano congiunta richiesta, invece, la conciliazione endoprocessuale è lasciata ad una valutazione discrezionale del giudice relatore che,
all’atto della emissione del decreto, può ritenere opportuno convocare personalmen66 Al fine di comprendere esattamente quali sono
i criteri dettati dal Ministero, appare opportuno
ricordare, di seguito, il testo dell’articolo 3 del D.M. n.
223 del 2004: “1. L’indennità comprende le spese
di avvio del procedimento e le spese di conciliazione.
2. Per le spese di avvio del procedimento è dovuto
da ciascuna parte un importo di 30,00 che deve essere
versato dalla parte istante al momento del deposito
della domanda di conciliazione e dalla parte aderente
alla procedura al momento del deposito della risposta.
3. Le spese di avvio non sono dovute qualora le parti
depositano una domanda di conciliazione congiunta.
4. Per le spese di conciliazione è dovuto da ciascuna
parte l’importo indicato nella tabella A allegata al
presente decreto. 5. L’importo massimo delle spese
di conciliazione per ciascun scaglione di riferimento,
come determinato a norma della tabella A allegata l
presente decreto, può essere aumentato in misura
non superiore al 5 % tenuto conto della particolare
importanza, complessità o difficoltà dell’affare.
6.Si considerano importi minimi quelli dovuti come
massimi per il valore della lite ricompresso nello
scaglione immediatamente precedente a quello
effettivamente applicabile; l’importo minimo relativo
al primo scaglione è liberamente determinato.
7. Gli importi dovuti per il singolo scaglione non si
sommano in nessun caso tra loro. 8. Il valore della lite
è indicato nella domanda di conciliazione a norma
del codice di procedura civile. 9. Qualora il valore risulti
indeterminato, indeterminabile o vi sia una notevole
divergenza tra le parti sulla stima, l’organismo decide
il valore di riferimento e le comunica alle parti.
10. Le spese di conciliazione devono essere corrisposte
prima dell’inizio dell’incontro di conciliazione in misura
non inferiore alla metà; in caso contrario, l’organismo
comunica la sospensione del procedimento; intervenuto
il pagamento, il procedimento è riassunto secondo le
modalità disciplinate dal regolamento di procedura
dell’organismo. 11. Le spese di conciliazione
comprendono anche l’onorario del conciliatore per
l’intero procedimento di conciliazione,
indipendentemente dal numero di incontri svolti. Esse
rimangono fisse anche nel caso in cui il procedimento
prosegua a cura di un collegio di conciliatori. 12. Le
spese di conciliazione indicate sono dovute in solido
da ciascuna parte che abbia aderito al procedimento.
13. Ferma ogni altra disposizione di cui
al presente articolo, gli organismi diversi
da quelli costituiti dagli enti di diritto pubblico interno
possono liberamente stabilire gli importi di cui
al comma 4”.
67 Non può, comunque, tecersi una perplessità, di ordine
generale, dettata dalla evidente dictomia che si realizza,
nel processo societario, tra le funzioni svolte dal giudice
relatore (art. 12) e la direzione della udienza (art. 16)
affidata al presidente. Unica eccezione al riguardo è data
dall’art. 18, che prevede l’unico caso di competenza
monocratica del Tribunale, quello relativo alle liti tra
banche in materia bancaria e creditizia.
51
RomanaDOTTRINA
temi
te le parti e ciò sia che vi sia stata una fase di conciliazione pre-processuale, sia che
la stessa non si sia svolta in quanto non prevista, né concordata, o a causa del comportamento omissivo di una delle due parti.
Ci si è chiesti68 se, al di là, del richiamo contenuto nel secondo comma dell’art.
16 al decreto, previsto dall’art. 12, sia possibile al collegio ammettere, comunque, la
conciliazione se lo stesso ne ravvisasse la opportunità, anche senza che le parti siano
state invitate a comparire all’udienza, dal giudice relatore.
Invero, trattandosi di valutazioni assegnate ad organismi diversi il giudice relatore ed il collegio, e continuando ad essere operativo di effetti, il dettato dell’articolo 185 c.p.c., che trova applicazione anche nel rito societario (art. 18), nulla vieta al
collegio di ordinare la comparizione delle parti (anche contumaci69) al fine di rendere l’interrogatorio libero ad esperire il tentativo di conciliazione.
La seconda considerazione è legata alla natura della conciliazione, che nel
procedimento conciliativo, innanzi alle organizzazioni di conciliazione, riveste caratteri prevalentementi della conciliazione facilitativa70 (anche se non mancano profili
procedimentali che possano far pensare anche ad una conciliazione valutativa71),
mentre nel procedimento che si svolge innanzi al Tribunale, secondo il rito commerciale, la conciliazione riveste i caratteri prevalenti di quella valutativa. Anche per la
conciliazione che si ottiene innanzi al Tribunale è prevista la valenza di titolo esecutivo, ma per essa non è necessario un procedimento di omologazione, in quanto essa
acquista la immediata valenza esecutiva propria poiché è il prodotto della attività di
mediazione del giudice togato.
15. Conclusioni.
Il dato positivo, più rilevante,c he emerge dalla presente analisi è costituito
dalla circostanza che, forse per la prima volta il legislatore, dopo avere teorizzato l’utilità della conciliazione, si preoccupa di individuare anche gli organismi presso i
quali detto procedimento di conciliazione deve attuarsi; inoltre, per garantire una
sostanziale parità di trattamento presso ogni organismo di conciliazione prevede l’inserimento di essi in un apposito registro che attraverso il controllo del Ministero della
giustizia ne verifichi l’idoneità e la competenza nello svolgimento di detta attività.
Alcune perplessità sono state avanzate a causa della parificazione che il
decreto legislativo ha voluto operare tre organismi di conciliazione pubblici e privati, tale circostanza no deve rappresentare una preoccupazione se saranno ottimizzate le procedure di validazione di detti organismi e se sarà adeguatamente attivato un sistema di formazione dei conciliatori basato non soltanto sulla teorica
68 Cfr. F. VIVALDI, Commento all’art. 16, in La riforma
del diritto societario, a cura di G. LO CASCIO,
Milano 2003,p. 174.
69 Vedi sul punto A. CARRATTA, Udienza di discussione, in Nuovo
processo societario, a cura di S. CHIARLONI, cit., p. 456.
70 La conciliazione facilitativa è finalizzata a “facilitare”
i rapporti tra le parti, pertanto l’attività del conciliatore sarà il
più possibile indirizzata a perseguire l’obiettivo di far
52
comprendere le posizioni contrapposte di esse al fine
di determinare una soluzione transattiva della vicenda.
71 La conciliazione valutativa, consente al conciliatore,
dopo essersi fatto una idea della vincenda litigiosa,
di “rendere delle valutazioni” offrendo, alla luce di esse,
un’ipotesi di definizione della lite. In merito alle classificazioni
di conciliazione valutativa e facilitativa vedi:
G. DE PALO, G. GUIDI, Risoluzione alternativa delle
controversie, cit., p.46
conoscenza delle norme, ma anche su di una efficace conoscenza delle tecniche di
conciliazione.
Del resto la parificazione delle funzioni (rectiust: dei compiti) in un settore
inquadrabile in senso lato come di pubblico interesse non costituisce oggetto di
novità, né può suscitare preoccupazioni è, invece, importante attivare un efficace
sistema di controllo delle attività degli organismi di conciliazione.
E’, invece, auspicabile che il sistema adottato per la conciliazione nel rito
societario venga esteso anche agli altri processi per i quali è prevista un’ipotesi di
conciliazione “filtro” di carattere vincolante, quale condizione di proseguibilità del
giudizio, per far sì che il procedimento di conciliazione possa effettivamente esperirsi ed essere svolto innanzi ad un conciliatore concretamente indipendente. In particolare appare auspicabile il recepimento del descritto procedimento, nonchè degli
organismi chiamati ad attuarlo nelle vertenze tra soci dipendenti di società cooperative e le stese, oggi regolate dalle norme dettate dall’art. 5 della legge n. 142/01,
che lascia notevoli perplessità circa la effettiva terzietà di un conciliatore, in parte,
indicato dai litiganti.
53
RomanaDOTTRINA
temi
Avv.
Mattia COLONNELLI
de GASPERIS*
La nuova disciplina
civilistica e fiscale
dei fondi comuni di
investimento immobiliare
Sommario
I.1. Le norme sui fondi immobiliari – I.2. Costituzione e disciplina delle SGR – I.3. Istituzione del
fondo – I.4. Il regolamento del fondo – I.5. Operazioni in conflitto di interessi – I.6. Il patrimonio
del fondo – I.7. Leva Finanziaria – II.1. La nuova normativa fiscale dei fondi immobiliari –
II.2. Il nuovo regime di tassazione dei fondi immobiliari: imposte dirette – II.3. Il nuovo regime di
tassazione dei fondi immobiliari: imposte indirette – II.4. Il regime di tassazione degli apporti ai
fondi immobiliari: imposte dirette – II.5. Il regime di tassazione degli apporti ai fondi
immobiliari: imposte indirette – II.6. Regime fiscale dei proventi del fondo immobiliare II.7. Decorrenza del nuovo regime di imposizione e regime transitorio
I La nuova disciplina civilistica dei fondi immobiliari
nell’ordinamento italiano
I.1. Le norme sui fondi immobiliari
l fondo comune di investimento è definito quale patrimonio autonomo, suddiviso in quote,
di pertinenza di una pluralità di partecipanti, gestito in monte; il patrimonio del fondo
comune può essere raccolto mediante una o più emissioni di quote (art. 1, comma 1, lettera
j) del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, come successivamente integrato e modificato, il c.d. testo unico della finanza (“TUF”).
In particolare, i fondi immobiliari sono definiti quali fondi che investono il proprio
patrimonio esclusivamente o prevalentemente in beni immobili, in diritti reali immobiliari e
in partecipazioni in società immobiliari (art. 37, comma 1, lettera d-bis del TUF). Inoltre, il
legislatore ha previsto un’altra tipologia di fondi immobiliari, istituiti con apporto di beni
immobili o diritti reali immobiliari per almeno il 51 per cento da parte dello Stato e degli
altri enti pubblici, c.d. fondi immobiliari ad apporto pubblico (art. 14-bis della legge 25 gennaio 1994, n. 86 (la “Legge 86/94”)).
La disciplina dei fondi immobiliari è contenuta nel decreto ministeriale 24 maggio
1999, n. 228, come modificato dal decreto ministeriale 31 gennaio 2003, n. 47 (il “Decreto
228/99”), attuativo dell’art. 37, comma 1 del TUF.
L’obiettivo principale della recente riforma normativa è di dare impulso, sul modello
delle esperienze di altri Paesi, finanziariamente più evoluti, al mercato dei fondi immobiliari, mantenendo il carattere chiuso degli stessi, ma introducendo elementi di flessibilità sia
per ciò che concerne l’entrata, consentendo un frazionamento in più emissioni della sottoscrizione delle quote del fondo e una più ampia possibilità a chi abbia un patrimonio immobiliare di offrirlo al mercato, sia in relazione all’uscita, fornendo alla normativa secondaria
I
* Avvocato del Foro di Roma e dello Stato di New York.
LL.M.presso la Columbia University
(Harlan Fiske Stone Scholar).Fulbright Fellow. Membro
54
dell’American Bar Association,International Bar
Association, New York State Bar Association.
del Ministero dell’economia e delle finanze la possibilità di rendere più elastica, e dunque
conveniente in primo luogo per i piccoli risparmiatori, l’uscita dal fondo mediante la negoziazione della quota e il rimborso anticipato della stessa.
Le altre norme primarie e secondarie che disciplinano i fondi immobiliari sono il
decreto legge 25 settembre 2001, n. 351, convertito nella legge 23 novembre 2001, n. 410
(il “Decreto 351/01”), che ha riformato il regime civilistico e fiscale dei fondi immobiliari,
introducendo, inter alia, la possibilità di conferimento di immobili anche da parte di membri del gruppo della società di gestione del risparmio (“SGR”) promotrice; la legge 15 giugno 2002, n. 112, che ha soppresso l’obbligo di quotazione per i fondi immobiliari; i
Provvedimenti Banca d’Italia 1° luglio 1998 (“Provvedimento Luglio 98”), 20 settembre
1999 (“Provvedimento Settembre 99”) e 27 agosto 2003 (“Provvedimento Agosto 03”),
contenenti la disciplina generale delle SGR e della loro attività gestionale in materia, inter
alia, di limiti agli investimenti, criteri di valutazione del patrimonio dei fondi ed attività
degli esperti indipendenti.
I.2. Costituzione e disciplina delle SGR
Il fondo comune di investimento può essere costituito esclusivamente da una SGR, la
quale svolge attività istituzionale di gestione del fondo immobiliare (art. 33 del TUF) ed è
iscritta in un albo tenuto dalla Banca d’Italia (art. 35 del TUF).
Ai sensi dell’art. 34 del TUF, la domanda di autorizzazione all’esercizio del servizio
di gestione collettiva del risparmio va inviata dalla SGR alla Banca d’Italia, la quale, sentita la CONSOB, autorizza la SGR all’esercizio del servizio quando ricorrono cumulativamente i seguenti requisiti:
(a) forma di società per azioni;
(b) sede legale e direzione generale in Italia;
(c) capitale sociale interamente versato non inferiore a Euro 1.000.000,00
(unmilione/00)1;
(d) possesso da parte dei soggetti che svolgono funzioni di amministrazione, direzione e
controllo dei requisiti di professionalità, indipendenza e onorabilità indicati dall’art. 13 del
TUF e specificati nel decreto ministeriale 11 novembre 1998, n. 468;
(e) possesso da parte degli azionisti che detengono una partecipazione qualificata dei
requisiti di onorabilità indicati dall’art. 14 del TUF e specificati nel decreto ministeriale 11 novembre 1998, n. 469;
(f) struttura del gruppo di cui è parte la SGR non tale da pregiudicare l’effettivo esercizio
della vigilanza sulla SGR e la fornitura delle informazioni sulla partecipazione al capitale
richieste da Banca d’Italia2;
(g) deposito, unitamente all’atto costitutivo e allo statuto, di un programma concernente l’attività iniziale e le sue linee di sviluppo, gli obiettivi perseguiti, le strategie
imprenditoriali che la SGR intende seguire per la loro realizzazione, i bilanci previ1 Si veda il Provvedimento Luglio 98.
2 Per le informazioni sulle partecipazioni al capitale
sociale della SGR, si veda l’art. 15, comma 5 del TUF
unitamente al Provvedimento Luglio 98 e al
Provvedimento Banca d’Italia 4 agosto 2000; in
particolare, il superamento di partecipazioni pari a 5 per
cento, 10 per cento, 20 per cento, 33 per cento e 50 per
cento del capitale sociale della SGR devono essere
comunicate alla Banca d’Italia.
55
RomanaDOTTRINA
temi
sionali dei primi tre esercizi, nonché una relazione sulla struttura organizzativa e
tecnica, redatta secondo lo schema predisposto da Banca d’Italia; e
(h) presenza delle parole società di gestione del risparmio nella denominazione sociale.
L’autorizzazione è negata quando, dalla verifica dei requisiti di cui sopra, non risulta garantita la sana e prudente gestione.
La Banca d’Italia rilascia l’autorizzazione entro 90 giorni dalla data di ricevimento
della domanda. Il termine è interrotto se la documentazione risulta incompleta, mentre è
sospeso qualora la Banca d’Italia chieda ulteriori informazioni a integrazione della documentazione prodotta o debba interessare autorità di vigilanza estere.
Decorso un anno dal rilascio dell’autorizzazione senza che la SGR abbia iniziato
l’attività di gestione, l’autorizzazione decade automaticamente.
La vigilanza sulle SGR è affidata alla Banca d’Italia, in relazione ai profili di stabilità, e alla CONSOB, in relazione ai profili di correttezza dei rapporti con la clientela.
Sia nell’ipotesi che l’istituzione e la gestione collettiva dei fondi comuni competano alla medesima SGR sia nell’ipotesi che le due funzioni competano a due SGR distinte
(la società promotrice e il gestore), ai sensi dell’art. 40, comma 1 del TUF, le SGR devono operare con diligenza, correttezza e trasparenza nell’interesse dei partecipanti ai fondi
(si tratta di una specificazione, per quanto riguarda la trasparenza, degli obblighi di diligenza di ogni mandatario, a cui le SGR sono assimilate anche per quanto riguarda la loro
responsabilità verso i partecipanti, azione di responsabilità che si ritiene può essere esercitata da ciascun partecipante); devono organizzarsi in modo tale da ridurre al minimo il
rischio di interesse anche tra i patrimoni gestiti e devono adottare misure idonee a salvaguardare i diritti dei partecipanti ai fondi.
Alla Banca d’Italia, nell’esercizio dei suoi poteri di vigilanza regolamentare, è
attribuita la competenza a disciplinare i criteri e i divieti relativi all’attività di investimento, avuto riguardo anche ai rapporti di gruppo, indicando altresì le norme prudenziali di contenimento e frazionamento del rischio, ai sensi dell’art. 6, comma 1, lett. c, nn.
1 e 2 del TUF; nei regolamenti dei fondi, approvati dalla Banca d’Italia, devono essere
indicati gli organi competenti per la scelta degli investimenti, i criteri di ripartizione degli
investimenti, il tipo dei beni oggetto dell’investimento, ai sensi dell’art. 39, comma 2 del
TUF.
La Consob, a sua volta, ha prescritto che, in caso di appello al pubblico risparmio,
le SGR nel prospetto informativo devono indicare gli obiettivi di investimento, comunicando altresì il parametro oggettivo di riferimento, c.d. benchmark, adeguatamente diffuso ed accessibile ai risparmiatori, costruito facendo riferimento ad indicatori finanziari elaborati da soggetti terzi e di comune utilizzo, al quale confrontare il rendimento del
fondo3.
Infine, alle SGR spetta, nell’interesse dei partecipanti, l’esercizio dei diritti di voto
inerenti agli strumenti finanziari di pertinenza dei fondi gestiti; nel caso in cui il gestore
è diverso dalla società promotrice, l’esercizio dei diritti di voto spetta al gestore, salvo
patto contrario, ai sensi dell’art. 40, commi 2 e 3 del TUF; il patto contrario è solitamente
contenuto nella convenzione stipulata tra le due SGR.
3 Si veda l’art. 50 del regolamento CONSOB primo luglio 1998, n. 11522, come successivamente integrato e modificato.
56
I.3. Istituzione del fondo
Il Decreto 228/99 prevede quattro distinti tipi di fondi comuni di investimento: aperti, chiusi, speculativi e riservati.
Ciascun fondo di investimento costituisce un patrimonio distinto e separato da quello della SGR e da quello dei partecipanti. Pertanto, non sono ammesse azioni di rivalsa sul
patrimonio del fondo da parte dei creditori della SGR e le azioni dei creditori dei singoli partecipanti sono ammesse esclusivamente e limitatamente alle quote di partecipazione dei
medesimi.
Un fondo di investimento immobiliare deve essere costituito come fondo chiuso. Il
fondo è istituito con delibera dell’assemblea ordinaria della SGR, la quale contestualmente
approva il regolamento. Non è più previsto un capitale minimo per costituire un fondo
immobiliare, sebbene il capitale del fondo deve essere indicato nel regolamento4.
A differenza di quanto previsto per i fondi aperti, l’ammontare del fondo chiuso è
fisso, nel senso che la sua misura, la quale deve essere indicata nel regolamento del fondo,
non può variare per tutta la durata del fondo medesimo (salvo quanto previsto di seguito in
caso di apporti al fondo), durata anch’essa predeterminata nel regolamento. Ai sensi dell’art.
6 del Decreto 228/99, la durata del fondo deve essere coerente con l’operazione di investimento e, comunque, non può essere superiore a trenta anni.
A differenza dei fondi aperti (la cui costituzione avviene già con la prima sottoscrizione ed il contestuale versamento delle quote di partecipazione), la costituzione del fondo
chiuso si verifica solo con la sottoscrizione, ed il successivo versamento, dell’intero fondo;
quando rivolta al pubblico, si tratta di un’operazione di sollecitazione all’investimento e
tutte le quote devono essere sottoscritte entro il termine massimo di diciotto mesi dalla pubblicazione del prospetto informativo; se le quote non sono offerte al pubblico, il termine di
diciotto mesi decorre dalla data di approvazione del regolamento del fondo da parte della
Banca d’Italia, ai sensi dell’art. 14, comma 2 del Decreto 228/99. I versamenti relativi alle
quote sottoscritte devono essere effettuati entro il termine stabilito nel regolamento del
fondo (c.d. periodo di richiamo degli impegni).
Alla data della chiusura delle sottoscrizioni possono verificarsi tre ipotesi: 1) il fondo
è stato sottoscritto nella misura predeterminata ed allora la SGR provvederà al richiamo
degli impegni e ad iniziare l’attività di investimento; 2) le sottoscrizioni sono in eccesso,
cioè superiori all’offerta delle quote, ed allora la SGR può aumentarne il patrimonio, se così
è previsto nel regolamento del fondo (in mancanza, nel regolamento devono essere previste
altre soluzioni: ad esempio, il riparto proporzionale tra i sottoscrittori); o 3) le sottoscrizioni, pur inferiori all’offerta, hanno raggiunto l’ammontare minimo eventualmente indicato
nel regolamento del fondo (ammontare minimo considerato adeguato alla realizzazione del
programma di investimento) ed allora la SGR deve procedere al c.d. ridimensionamento del
fondo, dandone comunicazione alla Banca d’Italia. Nel caso in cui nel regolamento non è
previsto il ridimensionamento del fondo, ovvero se le sottoscrizioni non raggiungono l’ammontare minimo richiesto per il ridimensionamento, la SGR deve rinunciare alla costituzio4 In tal senso Fabio Gallio, La disciplina civilistica e fiscale
dei fondi comuni di investimento immobiliari, in Il Fisco,
n. 33, 2004, pagg. 12346 e ss.; contra Andrea Mifsud,
Marco Mariano, I fondi comuni di investimento
immobiliari chiusi: la nuova disciplina alla luce delle
ultime modifiche normative, in Impresa c.i., n. 5, 2003,
pag. 811, che affermano che tale importo dovrebbe
essere di Euro 103.291.370,00.
57
RomanaDOTTRINA
temi
ne del fondo, liberando i sottoscrittori dagli impegni assunti.
Ne consegue che i risparmiatori dei fondi chiusi, a differenza di quanto accade nei
fondi aperti, non hanno né il diritto di sottoscrivere le quote di partecipazione durante la vita
del fondo, né il diritto di recedere dal fondo. I partecipanti ad un fondo chiuso, pertanto, percepiscono i frutti del loro investimento soltanto alla scadenza della durata del fondo (è a tale
data, cioè, che si realizza la loro operazione di disinvestimento). Tuttavia nel caso in cui la
durata del fondo comporta una immobilizzazione troppo lunga dell’investimento, per agevolare la sottoscrizione delle quote di partecipazione, il regolamento può prevedere, se non
ostacola la realizzazione dell’operazione di investimento collettivo, casi di rimborso anticipato delle quote.
In particolare, l’art. 12-bis del Decreto 228/99 prevede che i fondi immobiliari possono essere costituiti mediante una delle seguenti modalità: costituzione per cassa, costituzione
mediante apporto.
Quando la costituzione del fondo avviene per cassa, le quote del fondo vengono inizialmente collocate sul mercato per permettere la raccolta della liquidità, che, successivamente, può essere utilizzata per l’acquisto dei beni di cui all’art. 4, comma 2, lett. d) del
Decreto 228/99 (beni immobili, diritti reali immobiliari e partecipazioni in società immobiliari).
Nel caso di costituzione mediante apporto, la sottoscrizione delle quote del fondo
avviene mediante l’apporto, prevalente ma non esclusivo, di beni immobili, diritti reali
immobiliari e partecipazioni in società immobiliari. In tale ipotesi, ed a condizione che il
regolamento del fondo lo preveda espressamente, la sottoscrizione delle quote può essere
effettuata sia in fase costitutiva che in fase successiva alla costituzione del fondo e il fondo
deve acquisire (a) ove non si tratti di beni negoziati in mercati regolamentati, una relazione
di stima elaborata, in data non anteriore a trenta giorni dalla stipula dell’atto di conferimento, da esperti indipendenti; e (b) la valutazione di un intermediario finanziario incaricato di
accertare la compatibilità e redditività dei conferimenti rispetto alla politica di gestione del
fondo, ai sensi dell’art. 12-bis del Decreto 228/99.
In particolare, lo schema operativo del conferimento è costituito dai seguenti atti: 1) il
conferente trasferisce propri immobili, ad un valore soggetto a perizia, al fondo; 2) il fondo
conferitario emette quote, attribuendole al conferente; 3) il conferente, entrato in possesso
delle quote, può collocarle in tutto o in parte presso terzi. È possibile prevedere anche conferimenti successivi a quello iniziale, posto che la raccolta del patrimonio può avvenire anche
mediante emissioni di tranche successive (le differenti fasi delle sottoscrizioni possono prevedere sottoscrizioni in natura (conferimenti) e sottoscrizioni per contante).
È importante rilevare che il fondo a conferimento presenta un’elevata compatibilità
con l’obiettivo di valorizzare gli asset immobiliari di banche, fondazioni, enti perché offre la
possibilità di a) disporre di un veicolo che ha come unico oggetto la gestione e valorizzazione degli immobili conferiti; b) definire liberamente, e con possibili variazioni nel tempo, la
quota eventualmente detenibile da parte del conferente; c) minimizzare gli oneri gestionali,
beneficiando di economie di scala; d) fruire di un regime fiscale favorevole; e) utilizzare le
competenze di un management specializzato nel settore immobiliare. Il fondo a conferimento permette, quindi, di trasformare un’immobilizzazione in un investimento di natura finanziaria, cedibile in tutto o in parte.
58
Le quote di partecipazione ai fondi comuni sono rappresentate da certificati nominativi o al portatore. I certificati di partecipazione ai fondi hanno natura di strumenti finanziari.
Ai sensi dell’art. 5, comma 2 del Decreto 228/99, la richiesta di quotazione delle
quote di partecipazione al fondo è obbligatoria esclusivamente per i fondi chiusi i quali
prevedono che l’ammontare minimo per la sottoscrizione di ciascuna quota sia inferiore
a 25.000,00 (venticinquemila/00).
Ai sensi dell’art. 15, comma 1 del Decreto 228/99, le SGR possono istituire fondi
aperti e chiusi la cui partecipazione è riservata, c.d. fondi riservati, ad investitori qualificati specificando le categorie di investitori alle quali il fondo è riservato. Ai sensi dell’art.
1, comma 1, lett. h) del Decreto 228/99, per investitori qualificati si intendono le seguenti categorie di soggetti:
a) le imprese di investimento, le banche, gli agenti di cambio, le società di gestione del risparmio, le società di investimento a capitale variabile, i fondi pensione,
le imprese di assicurazione, le società finanziarie capogruppo di gruppi bancari e
i soggetti iscritti negli elenchi previsti dagli artt. 106, 107 e 113 del Decreto
385/93;
b) i soggetti esteri autorizzati a svolgere, in forza della normativa in vigore nel proprio
Paese di origine, le medesime attività svolte dai soggetti di cui alla lettera a);
c) le fondazioni bancarie;
d) le persone fisiche e giuridiche e gli altri enti in possesso di specifica competenza ed
esperienza in operazioni in strumenti finanziari espressamente dichiarata per iscritto dalla
persona fisica o dal legale rappresentante della persona giuridica o dell’ente.
Nel caso in cui il fondo sia riservato, la SGR non è tenuta ad acquisire in proprio
una quota almeno pari al 2 per cento del patrimonio del fondo5. Inoltre, nel caso in cui il
fondo sia riservato, i versamenti possono essere corrisposti in diverse rate, posto che il
partecipante abbia assunto l’obbligazione di effettuare i versamenti a richiesta della SGR
sulla base delle necessità del fondo di investimento.
Nel caso in cui l’ammontare minimo per la sottoscrizione di ciascuna quota non è
inferiore ad Euro 500.000,00 (cinquecentomila/00) e non vi sono più di 200 (duecento)
partecipanti, il fondo si qualifica come fondo speculativo, al quale non si applicano alcune restrizioni sulla gestione previste per i fondi chiusi. In particolare, essi non sono sottoposti a predefiniti vincoli di investimento. Ai sensi dell’art. 16, comma 5 del Decreto
228/99, il regolamento del fondo speculativo deve menzionare la rischiosità dell’investimento e la circostanza che esso avviene in deroga ai divieti e alle norme prudenziali di
contenimento e frazionamento del rischio stabilite dalla Banca d’Italia.
Come anticipato, è possibile separare l’attività di promozione e costituzione del
fondo dall’attività di gestione del medesimo. Ne consegue che un fondo può essere promosso e costituito da una SGR e gestito da un’altra. In tal caso, entrambe le SGR sono
solidalmente responsabili nei confronti dei partecipanti del fondo.
5 Ai sensi del Provvedimento Luglio 98 “le SGR che gestiscono
fondi di investimento di tipo chiuso non destinati a particolari
categorie di investitori, come definite ai sensi dell’art. 37,
comma 1, lett. b) del TUF, sono tenute ad acquisire
in proprio una quota almeno pari al 2 per cento del
patrimonio di ciascun fondo. Ove l’attività di gestione
e quella di promozione del fondo siano svolte
da SGR distinte, ciascuna società deve acquisire
in proprio una quota pari all’1 per cento del patrimonio
del fondo medesimo.”
59
RomanaDOTTRINA
temi
La SGR deve gestire il fondo chiuso rispettando le disposizioni previste dalla normativa primaria e secondaria. In particolare, ai sensi del Provvedimento Settembre 99,
nella gestione del fondo chiuso non è consentito, inter alia: a) concedere prestiti in forme
diverse dalle operazioni a termine su strumenti finanziari; b) vendere allo scoperto strumenti finanziari ed altri beni; c) investire in strumenti finanziari emessi dalla SGR medesima; d) investire in strumenti finanziari non quotati emessi da società del gruppo al quale
appartiene la SGR; e) svolgere attività diretta di costruzione di beni immobili.
I.4. Il regolamento del fondo
Il regolamento è lo strumento basilare su cui si fonda il sistema dei fondi comuni di
investimento, sia nella disciplina riservata ai rapporti contrattuali con i partecipanti del fondo,
sia con riferimento alla corporate governance, sia come primo punto di collegamento con gli
organi di vigilanza.
Ai sensi dell’art. 39, comma 3-bis del Decreto 58/98, il regolamento si intende approvato se, trascorsi tre mesi dalla presentazione della domanda, la Banca d’Italia non ha comunicato il rifiuto della stessa.
Il regolamento individua le caratteristiche del fondo, ne disciplina il funzionamento,
indica la società promotrice, il gestore, se diverso dalla società promotrice, e la banca depositaria, definisce la ripartizione dei compiti tra tali soggetti, regola i rapporti intercorrenti tra
tali soggetti e i partecipanti al fondo.
In particolare, alla banca depositaria è affidata la custodia degli strumenti finanziari e
delle disponibilità liquide del fondo (ai sensi del contratto di deposito bancario che il fondo
deve stipulare e che ha per oggetto sia il denaro, sia i titoli del fondo). Alla banca depositaria, inoltre, sono attribuite importanti funzioni di controllo: non solo essa deve accertare la
legittimità delle operazioni di emissione e rimborso delle quote del fondo, il calcolo del loro
valore e la destinazione dei redditi del fondo (art. 38, comma 1, lett. a) del TUF), controllando se sono stati rispettati i metodi di calcolo del valore delle quote o delle azioni indicati nel
regolamento della Banca d’Italia (art. 6, comma 1, lett. c, n. 4 del TUF); ma, più in generale,
la banca deve eseguire le istruzioni della SGR soltanto se esse non sono contrarie alla legge,
al regolamento del fondo, o alle prescrizioni degli organi di vigilanza (art. 38, comma 1, lett.
c del TUF). L’adempimento dei suddetti obblighi di controllo è prescritto fondamentalmente
nell’interesse degli investitori ma anche nell’interesse dei soci della società di gestione del
fondo. Posto che l’indipendenza dell’esercizio delle reciproche funzioni del gestore e della
banca depositaria può essere messa a rischio quando gli amministratori operativi e i direttori
generali delle SGR svolgono analoghe funzioni in una banca, questa non può assumere l’incarico di banca depositaria.
Il regolamento deve specificare i beni oggetto di investimento, fornire informazioni,
inter alia, su partecipanti, strategie imprenditoriali, ammontare del capitale sociale, disciplina delle quote di partecipazione al fondo, tutte di uguale valore e uguali diritti (tra cui, valore nominale, ammontare minimo, procedura di sottoscrizione, mezzi di pagamento, casi di
riscatto, modalità con cui si potrà procedere al rimborso anticipato delle quote del fondo a
fronte di nuove emissioni, modalità di emissioni di quote successive alla prima, fermo restando che non si può dar luogo a nuove emissioni prima che sia stato effettuato il richiamo di
tutti gli impegni relativi a emissioni precedenti), costi e commissioni di gestione, casi e pro-
60
cedura di liquidazione, eventuale intenzione di effettuare operazioni con i soci della SGR o
con soggetti appartenenti al loro gruppo ovvero con società facenti parte del gruppo della
SGR, modalità con le quali i soggetti in conflitto di interessi si impegnano a rispettare l’obbligo di detenere (per un ammontare non inferiore al 30 per cento del valore della sottoscrizione e per un periodo di almeno 2 anni dalla data del conferimento) le quote del fondo sottoscritte a fronte dei conferimenti, forme di pubblicità delle relazioni di stima, atti di conferimento, acquisto o cessione dei beni, l’intenzione di avvalersi o meno della facoltà di investire il fondo in partecipazioni di controllo in società immobiliari, la possibilità di derogare alle
norme di frazionamento del rischio e di conflitto di interessi relativamente agli investimenti
del fondo in attività direttamente o indirettamente cedute dallo Stato, enti previdenziali pubblici, Regioni, enti locali o loro consorzi, nonché da società interamente possedute, anche
indirettamente, dagli stessi soggetti.
Il regolamento fissa la politica di gestione del fondo, la sua durata nonché gli oneri a
carico del fondo e dei sottoscrittori. La gestione amministrativa e quella tecnica degli immobili conferiti al fondo può, alternativamente, essere svolta direttamente dalla struttura della
SGR oppure essere affidata a terzi. Analoga flessibilità di allocazione caratterizza l’attività di
gestione dei titoli del patrimonio del fondo.
Il rendiconto del fondo immobiliare si suddivide in situazione patrimoniale, situazione reddituale e nota integrativa, secondo gli schemi approvati dal Provvedimento della Banca
d’Italia 24 dicembre 1999.
Nel fondo costituito mediante conferimento, particolare rilievo assume la corporate
governance, posto che il conferente potrebbe voler mantenere l’uso degli immobili conferiti
(sale and lease back) o avere la possibilità di rientrarne in possesso alla scadenza del periodo di locazione. A tale scopo, senza ledere il principio che attribuisce la responsabilità ultima
della gestione alla SGR ed oltre a quanto disciplinabile nei contratti di locazione, è comunque possibile introdurre nel regolamento del fondo norme specifiche circa la politica di
gestione e prevedere che determinate categorie di decisioni aventi rilievo strutturale debbano
essere sottoposte al preventivo consenso dell’assemblea dei partecipanti o di un suo organo.
Il regolamento del fondo deve assicurare la tutela degli investitori anche tramite una
corporate governance del fondo che assicuri il massimo allineamento di interessi con il mercato per mezzo di regole chiare e precise. In particolare, il legislatore è intervenuto sulla composizione del consiglio di amministrazione della SGR, natura dei consiglieri, profilo professionale dei medesimi e loro indipendenza, modalità di nomina e definizione degli organi di
garanzia, rapporti tra la SGR e fondo immobiliare, natura dei contratti di gestione e loro durata, forme di remunerazione collegate al rendimento del fondo e clausole di rescissione in caso
di inadempimento.
L’importanza di una corretta corporate governance dei fondi italiani (in cui la struttura della SGR ed il suo consiglio di amministrazione sono gli unici garanti del rendimento del
fondo nei confronti degli investitori) è, inoltre, incrementata dal fatto che i sottoscrittori del
fondo immobiliare, siano essi investitori istituzionali o privati, sono investitori puramente
finanziari, cioè non hanno alcuna voce in capitolo sulla gestione del fondo, a differenza di ciò
che avviene negli Stati Uniti, dove i real estate investment trusts sono assimilabili ad una
nostra società di capitali, in cui gli investitori hanno tutti i diritti di voto tipici della società di
capitali ed il management risponde del proprio operato direttamente agli investitori.
61
RomanaDOTTRINA
temi
I.5. Operazioni in conflitto di interessi
La disciplina delle operazioni in conflitto di interessi dei fondi comuni di investimento è diretta a tutelare i partecipanti in relazione a qualsiasi conflitto che possa nascere
tra la SGR che gestisce il patrimonio del fondo e il gruppo societario di cui fa parte la SGR.
In generale, è importante rilevare che il fondo costituito mediante apporto, da un lato,
garantisce maggiore trasparenza al mercato rispetto al fondo costituito per cassa, in quanto
consente ai risparmiatori di effettuare preventivamente, già al momento dell’acquisto delle
quote, una valutazione del portafoglio immobiliare detenuto dal fondo stesso e del rendimento ottenuto sino a quel momento e quello prospettico, dall’altro lato, pone la tematica
del conflitto di interesse in caso di coincidenza tra soggetto apportante immobili al fondo e
gestore del fondo medesimo. A ciò si aggiunga che la cessione di un bene a titolo di conferimento (ossia in cambio di quote di partecipazione) può presentare profili maggiori di pericolosità rispetto a un acquisto a titolo di vendita, dal punto di vista dei partecipanti al fondo.
In effetti, nel caso della vendita uno dei due elementi dello scambio (il prezzo) è facilmente valutabile, mentre nel caso del conferimento si scambiano due beni entrambi di difficile
valutazione. È, dunque, potenzialmente una forma più efficace per realizzare operazioni a
condizioni inique, ossia a danno dei partecipanti, rendendone più difficile la scoperta e la
repressione.
Tuttavia, in fase di costituzione e collocamento del fondo la trasparenza e la tutela
degli interessi dei sottoscrittori possono essere garantiti mediante la regolamentazione della
comunicazione e dell’informativa sul patrimonio e sulla politica di gestione, alla stregua di
un processo di offerta pubblica e quotazione in borsa. Così, il legislatore ha previsto la
necessità di presentare valutazioni da parte di esperti indipendenti e la separazione tra la
banca o l’intermediario finanziario incaricato del collocamento e la SGR, con l’individuazione di un ruolo di sponsor anch’esso in analogia al processo di offerta pubblica e quotazione in borsa. Altro presidio del conflitto d’interesse è l’imposizione di una quota di lockin per il socio gestore per assicurare la condivisione nel tempo dell’andamento delle quotazioni del fondo.
In particolare, l’art. 12-bis del Decreto 228/99 ha ampliato i margini di operatività
della gestione di un fondo immobiliare nell’ipotesi in cui le operazioni di gestione poste in
essere dalla SGR possano rivelarsi in conflitto di interesse con la posizione dei soci della
SGR6.
Il principio generale, ai sensi dell’art. 12, comma 3 del Decreto 228/99, prevede che
“il patrimonio del fondo non può essere investito in beni direttamente o indirettamente ceduti o conferiti da un socio, amministratore, direttore generale o sindaco della SGR, o da una
società del gruppo, e che tali beni non possono essere direttamente o indirettamente ceduti
ai medesimi soggetti. Il patrimonio del fondo non può essere altresì investito in strumenti
finanziari rappresentativi di operazioni di cartolarizzazione aventi ad oggetto crediti ceduti da soci della SGR, o da soggetti appartenenti al loro gruppo, in misura superiore al 3 per
cento del valore del fondo.”
Tuttavia, ai sensi dell’art. 12-bis, comma 4 del Decreto 228/99, tale divieto non trova
6 Si veda Andrea Mifsud, Marco Mariano, I fondi comuni
di investimento immobiliari chiusi: la nuova disciplina alla
62
luce delle ultime modifiche normative, in De Agostini
Professionale, maggio 2003.
applicazione nei confronti dei soci della SGR o delle società facenti parte del gruppo rilevante cui essa appartiene subordinatamente al rispetto delle seguenti cautele:
“a) il valore del singolo bene oggetto di cessione, acquisto o conferimento non può
superare il 10 per cento del valore del fondo; il totale delle operazioni effettuate,
anche indirettamente, con i soci della SGR non può superare il 40 per cento del valore del fondo; il totale delle operazioni effettuate, anche indirettamente, con soci e con
soggetti appartenenti al loro gruppo rilevante non può superare il 60 per cento del
valore del fondo;
b) dopo la prima emissione di quote, il valore del singolo bene oggetto di cessione, acquisto o conferimento e in ogni caso il totale delle operazioni effettuate, anche indirettamente,
con soci della SGR e con i soggetti appartenenti al loro gruppo rilevante non può superare
il 10 per cento del valore complessivo del fondo su base annua;
c) i beni acquistati o venduti dal fondo devono costituire oggetto di relazione di stima
elaborata da esperti aventi i requisiti previsti dall’art. 17 (esperti indipendenti) del
presente regolamento;
d) le quote del fondo sottoscritte a fronte dei conferimenti devono essere detenute dal conferente per un ammontare non inferiore al 30 per cento del valore della sottoscrizione per
un periodo di almeno due anni dalla data di conferimento (lock-in);
e) l’intermediario finanziario di cui al comma 3, lettera b) (incaricato di accertare la
compatibilità e la redditività dei conferimenti), non deve appartenere al gruppo del
soggetto conferente;
f) la delibera dell’organo di amministrazione della SGR deve illustrare l’interesse del fondo
e dei suoi sottoscrittori all’operazione e va assunta su conforme parere favorevole dell’organo di controllo.”
Inoltre, (i) ai sensi dell’art. 12-bis, comma 5 del Decreto 228/99, ai fondi riservati e
ai fondi speculativi non sono applicabili le cautele di cui alle lettere a), b) e c), e (ii) ai sensi
del comma 6 del medesimo articolo, le cautele di cui alle lettere a) e b) non si applicano ai
fondi le cui quote sono uguali o superiori a 250.000,00 (duecentocinquantamila/00) euro.
I.6. Il patrimonio del fondo
Il patrimonio del fondo deve essere investito in beni immobili, diritti reali immobiliari e partecipazioni in società immobiliari in misura non inferiore ai 2/3 del valore complessivo del fondo, ridotta al 51 per cento qualora il patrimonio del fondo sia investito in
misura non inferiore al 20 per cento del suo valore in strumenti finanziari rappresentativi di
operazioni di cartolarizzazione aventi ad oggetto beni immobili, diritti reali immobiliari o
crediti garantiti da ipoteca. Tali limiti di investimento devono essere raggiunti entro 24 mesi
dall’avvio dell’operatività.
Il fondo immobiliare può, inoltre, investire in depositi bancari ed in strumenti finanziari solamente per importi limitati, mentre non può svolgere l’attività diretta di costruzione
ed investire in misura superiore ad un terzo delle proprie attività in un unico bene immobile avente caratteristiche urbanistiche e funzionali unitarie7. Si sostiene che il fine di quest’ultima norma è l’ottenimento di una eterogeneità dei cespiti immobiliari presenti nel patri7 Provvedimento Settembre 99.
63
RomanaDOTTRINA
temi
monio del fondo, funzionale alla limitazione dei rischi di svalutazioni immobiliari di aree
geografiche. Lo stesso limite si applica nel caso in cui un immobile, sebbene strutturalmente composto da più unità immobiliari, presenti una destinazione edilizia prevalente (residenziale, commerciale, turistica, industriale, direzionale), rispetto alle destinazioni, edilizie
o d’uso, delle parti rimanenti, cosicché queste ultime risultino in un rapporto meramente
funzionale rispetto alla prima8.
È importante rilevare che, ai sensi del capitolo II, sezione I (disposizioni di carattere
generale), art. 1 del Provvedimento Settembre 99, nel caso di fondi riservati “nel regolamento del fondo possono essere fissate norme prudenziali diverse da quelle stabilite in via
generale dalle presenti disposizioni” e “nel caso di fondi riservati a investitori qualificati e
di fondi speculativi, le disposizioni che seguono possono essere derogate in tutto o in parte,
fermo restando che il regolamento dovrà chiaramente indicare la particolare natura del
fondo e definire nel dettaglio la politica di investimento perseguita e gli eventuali limiti o
divieti posti all’attività di investimento.”
Ne consegue che, con il consenso della Banca d’Italia, inter alia, il fondo potrebbe
investire in un unico complesso immobiliare i cui singoli beni hanno destinazioni edilizie
diverse.
Altra rilevante novità introdotta dalla recente riforma consiste nel consentire al fondo
di investire in partecipazioni in società immobiliari definite, ai sensi dell’art. 1, comma 1,
lett. g-bis del Decreto 228/99, come “partecipazioni in società di capitali che svolgono attività di costruzione, valorizzazione, acquisto, alienazione e gestione di immobili.”
Successivamente, il Provvedimento Agosto 03 ha aggiunto il seguente paragrafo 3.6
al capitolo II, sezione III, del Provvedimento Settembre 99: “Società di costruzione. Il fondo
immobiliare non può essere investito, direttamente o attraverso società controllate, in misura superiore al 10 per cento delle proprie attività in società immobiliari che prevedano nel
proprio oggetto sociale la possibilità di svolgere attività di costruzione.”
L’aspetto più discusso è notoriamente quello dell’attività di costruzione. A questo
riguardo, il Provvedimento Settembre 99 dispone che nella gestione del fondo chiuso non è
consentito svolgere attività diretta di costruzione di beni immobili. Tale norma (a prescindere del successivo Provvedimento Agosto 03), letta a contrario, consente ai fondi chiusi lo
svolgimento indiretto dell’attività di costruzione di beni immobili, ossia la detenzione di
partecipazioni in società aventi ad oggetto la costruzione di ben immobili.
In ogni caso, oggi, ai sensi del Provvedimento Agosto 03, ai fondi immobiliari non è
precluso l’acquisto di partecipazioni in società di costruzione. Ferma la possibilità per i
fondi immobiliari di investire il proprio patrimonio anche in società di costruzione, si tratta
di stabilire se queste possano ritenersi anche società immobiliari e dunque essere computate ai fini del calcolo di prevalenza. È chiaro che una soluzione estensiva porta ad assimilare
ad attività tipicamente immobiliari anche attività dal profilo di rischio indubbiamente più
elevato, come quella di costruzione.
Inoltre, l’inclusione o meno di un dato strumento finanziario tra le partecipazioni in
società immobiliari rileva non soltanto ai fini del calcolo di prevalenza e, dunque, della qua8 Andrea Mifsud, Marco Mariano, I fondi comuni
di investimento immobiliari chiusi: la nuova disciplina alla
64
luce delle ultime modifiche normative, in De Agostini
Professionale, maggio 2003.
lificazione in termini di fondo immobiliare, per l’applicazione della relativa disciplina, ma
anche ai fini della determinazione del limite massimo all’assunzione di prestiti. Si veda l’art.
12-bis, commi 2 (concetto di prevalenza) e 7 (limiti di indebitamento) del Decreto 228/99.
I.7. Leva Finanziaria
Ai sensi dell’art. 12-bis, comma 7 del Decreto 228/99, “i fondi immobiliari possono
assumere prestiti sino ad un valore del 60 per cento del valore degli immobili, dei diritti reali
immobiliari e delle partecipazioni in società immobiliari e del 20 per cento degli altri beni.
Detti prestiti possono essere assunti anche al fine di effettuare operazioni di valorizzazione
dei beni in cui è investito il fondo per tali operazioni intendendosi anche il mutamento della
destinazione d’uso ed il frazionamento dell’immobile.
I fondi immobiliari possono assumere prestiti per i rimborsi anticipati delle quote, nei
limiti indicati al comma 7 e comunque per un ammontare non superiore al 10 per cento del
valore del fondo.”
II. La nuova disciplina fiscale dei fondi immobiliari
nell’ordinamento italiano
II.1. La nuova normativa fiscale dei fondi immobiliari
Il decreto legge 30 settembre 2003, n. 269, convertito nella legge 24 novembre 2003,
n. 326 (il “Decreto 269/03”) (c.d. collegato alla legge finanziaria 2004), oltre a modificare
il TUF, prevedendo quale strumento di governance dei fondi l’assemblea dei partecipanti,
ha introdotto un nuovo regime fiscale dei fondi immobiliari.
In sintesi, è stata abolita l’imposta sostitutiva dell’uno per cento sul patrimonio dei
fondi, introdotta dal Decreto 351/01, ed il relativo credito d’imposta riconosciuto ai percettori che esercitano attività d’impresa. Inoltre, è stata introdotta una ritenuta alla fonte del
12,5 per cento operata dalla SGR sui proventi distribuiti e sulle plusvalenze realizzate tramite la negoziazione delle quote di partecipazione al fondo (a titolo di acconto per i soggetti che esercitano attività d’impresa e a titolo d’imposta per gli altri soggetti), fermo restando che i proventi percepiti da soggetti non residenti sono esenti da imposta.
L’art. 41-bis del Decreto 269/03, recependo i principi ispiratori della riforma del regime fiscale degli organismi di investimento collettivo del risparmio (“OICR”) contenuti nella
legge delega 7 aprile 2003, n. 80, ha invertito la prospettiva di tassazione dei fondi immobiliari. Da un sistema fiscale incentrato sulla tassazione del veicolo (il fondo), si è passati ad
un sistema incentrato sulla tassazione degli investitori (i partecipanti al fondo).
Le maggiori novità che emergono dal confronto della disciplina fiscale ante-riforma
e quella post-riforma medesima sono le seguenti. In primo luogo, la prima prevedeva una
tassazione in monte in capo al fondo esaustiva del prelievo tributario, con corrispondente
successiva esenzione in capo agli investitori, mentre la seconda non prevede alcuna tassazione in capo al fondo, ma soltanto in capo agli investitori, qualificando il fondo come una
pass-through entity.
In secondo luogo, la disciplina ante-riforma prevedeva una tassazione di tipo patrimoniale, costituita da un’imposta pari all’uno per cento del valore netto del fondo, mentre il
nuovo regime prevede una tassazione di tipo reddituale, che viene applicata dal fondo tramite una ritenuta alla fonte.
65
RomanaDOTTRINA
temi
Infine, in passato la tassazione veniva periodicamente applicata sul c.d. maturato,
ossia sul valore netto del fondo esistente al termine di ogni periodo di imposta, mentre oggi
la tassazione si applica sul c.d. realizzato.
La nuova disciplina fiscale dei fondi immobiliari, dunque, ha il pregio di rendere tale
veicolo concorrenziale rispetto a quelli costituiti e gestiti negli altri Paesi Comunitari ed
Extracomunitari. Ciò in ragione (a) della bassa aliquota di tassazione, pari al 12,5 per cento,
(b) del differimento della tassazione, in quanto essa avviene esclusivamente al momento
della distribuzione dei proventi, (c) del trattamento di favore riconosciuto ai non residenti.
Si aggiunga che, a differenza di altri veicoli esteri, come, ad esempio, i fondi francesi, quelli statunitensi e quelli inglesi (in relazione a questi ultimi, il disegno di legge è in fase
di discussione davanti ai competenti organi legislativi), non sussiste per i fondi italiani alcun
obbligo di distribuzione periodica dei proventi accumulati. Ne consegue che i fondi italiani
possono differire ad libitum il momento della tassazione.
II.2 il nuovo regime di tassazione dei fondi immobiliari:
imposte dirette
Ai sensi dell’art. 6 del Decreto 351/01, prima della riforma al fondo si applicava una tassazione di tipo patrimoniale pari all’uno per cento del valore netto del fondo, indipendentemente dalla distribuzione o meno dei proventi.
A decorrere dal primo gennaio 2004, l’imposta patrimoniale dell’uno per cento è stata
abolita; tuttavia, è stato mantenuto in vigore il precedente sistema di imposte dirette. I fondi
immobiliari continuano a non essere assoggettati né all’imposta sul reddito delle società
(“IRES”), né all’imposta regionale sulle attività produttive (“IRAP”), ai sensi dell’art. 6,
comma 1 del Decreto 351/019.
La nuova disciplina conferma i vantaggi tributari accordati ai redditi finanziari conseguiti dal fondo attraverso una gestione dinamica delle eccedenze di liquidità. Il fondo ha
diritto di percepire al lordo delle ritenute applicabili determinati redditi di capitale (c.d. lordista): può reinvestire nell’attività immobiliare i redditi finanziari generati dalla tesoreria dei
lordi di ritenute alla fonte e imposte sostitutive10.
In particolare, non si applicano al fondo la ritenuta del 27 per cento su interessi derivanti da conti correnti e depositi bancari, la ritenuta del 12,5 per cento su proventi delle operazioni di riporto e pronti contro termine su titoli, la ritenuta del 12,5 per cento sui proventi
derivanti dalla partecipazione ad organismi di investimento collettivo in valori mobiliari di
diritto estero (“OICVM”) (armonizzati e non armonizzati), la ritenuta del 12,5 o 27 per cento
sugli altri redditi di capitale di cui all’art. 26, comma 5 del decreto del Presidente della
Repubblica 29 settembre 1973, n. 600 (“DPR 600/73”), la ritenuta o imposta sostitutiva
sugli utili distribuiti da società ed enti residenti e non residenti, l’imposta sostitutiva del 12,5
o 27 per cento sugli interessi, premi ed altri frutti delle obbligazioni e titoli similari di cui al
decreto legislativo 1 aprile 1996, n. 239 (“Decreto 239/96”).
Viceversa, continuano ad applicarsi a titolo di imposta la ritenuta del 12,5 o 27 per
cento sugli interessi e altri proventi delle obbligazioni e titoli similari emessi da società con
9 Si veda la circolare dell’Agenzia delle Entrate 8 agosto 2003,
n. 47/E (la “Circolare 47/E”).
66
10 Si veda Giovanni Ossola e Guido Giovando, Il trattamento
fiscale dei fondi immobiliari, in Il Fisco, n. 20, 2004,
pagg. 3027 e ss..
azioni non negoziate nei mercati regolamentati italiani, la ritenuta del 12,5 per cento sui proventi delle cambiali finanziarie, la ritenuta del 27 per cento sui proventi dei titoli atipici.
La SGR, invece, è soggetta sia all’IRES che all’IRAP. Il reddito della SGR è costituito, principalmente, dalle commissioni relative alla gestione del fondo immobiliare. La
SGR non è, comunque, soggetta all’IRES e all’IRAP in relazione ai redditi da locazione o
capital gains relativi agli immobili di proprietà del fondo.
Infine, la SGR è soggetta all’imposta comunale sugli immobili (“ICI”) in relazione ai
beni immobili di proprietà del fondo, ai sensi del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n.
504. La SGR addebita i relativi versamenti al fondo. L’ICI si applica sul valore dell’immobile, generalmente determinato sulla base della rendita catastale dell’immobile, e può variare dallo 0,4 allo 0,7 per cento a seconda del Comune dove l’immobile è situato.
II.3. Il nuovo regime di tassazione dei fondi immobiliari:
imposte indirette
Ai sensi dell’art. 8, comma 1 del Decreto 351/01, la SGR è soggetto passivo ai fini
dell’IVA per le cessioni di beni e le prestazioni di servizi relative alle operazioni poste in essere dai fondi immobiliari.
L’IVA è determinata e liquidata dalla SGR distintamente rispetto all’imposta dovuta
dalla SGR medesima in relazione alla propria attività e rispetto a quella relativa agli altri fondi
eventualmente gestiti. In particolare, la SGR presenta un’unica dichiarazione effettuando un
versamento cumulativo per l’imposta dovuta sia dalla società sia dal fondo previa compensazione dei saldi IVA rilevati in ciascuna separata contabilità11.
Inoltre, il medesimo art. 8, comma 1 del Decreto 351/01 rende più agevole il rimborso di eventuali crediti IVA vantati dalla SGR. Gli immobili compresi nel patrimonio del fondo
e le spese di manutenzione sono considerati beni ammortizzabili ai fini della procedura di
rimborso infrannuale dei crediti IVA; i crediti IVA possono essere compensati con le imposte
ed i contributi, anche oltre i limiti di Euro 516.456,90; i crediti IVA indicati nella dichiarazione annuale possono essere ceduti a terzi con le modalità stabilite dagli artt. 43-bis e 43-ter
del DPR 600/73.
II.4. Il regime di tassazione degli apporti ai fondi immobiliari:
imposte dirette
L’apporto in natura al fondo immobiliare è equiparato al conferimento in società. Ai
fini delle imposte sui redditi, gli apporti ai fondi immobiliari sono equiparati alle cessioni a
titolo oneroso.
Il regime tributario degli apporti al fondo immobiliare varia in funzione (i) dei beni
apportati (immobili, partecipazioni) e (ii) della qualifica soggettiva del soggetto apportante
(imprenditore, non imprenditore)12.
Non è previsto alcun regime agevolato che consenta di sterilizzare le plusvalenze
latenti in occasione del trasferimento dei beni oggetto degli apporti ai fondi immobiliari.
Unica eccezione è costituita dallo speciale regime per i fondi ad apporto pubblico previsto
11 Si veda la Circolare 47/E.
12 Si veda Fabio Gallio, La disciplina civilistica e fiscale dei fondi
comuni di investimento immobiliari, in Il Fisco, n. 33, 2004,
pagg. 12346 e ss..
67
RomanaDOTTRINA
temi
dall’art. 14-bis della Legge 86/94 (nell’ambito delle misure volte ad agevolare le dismissioni
del patrimonio immobiliare pubblico, l’art. 4 del Decreto 351/01 prevede, in alternativa alle
operazioni di cartolarizzazione, il conferimento di beni immobili ai fondi immobiliari ad
apporto pubblico). Ai sensi di tale norma, nell’ipotesi in cui il beneficiario dell’apporto sia un
fondo istituito mediante apporto di immobili o diritti reali immobiliari per almeno il 51 per
cento da parte dello Stato e altri enti pubblici è previsto un regime di neutralità fiscale a favore di tutti i soggetti pubblici e privati che intervengono nell’apporto, a condizione che i beni
apportati dagli enti pubblici abbiano un valore prevalente rispetto al complesso dei beni
apportati dai privati.
In particolare, il regime di neutralità previsto dall’art. 14-bis, comma 10 della
Legge 86/94 si sostanzia come segue: gli apporti non danno luogo a redditi imponibili
ovvero a perdite deducibili in capo all’apportante, indipendentemente dalla sua natura
giuridica e dalla tipologia di attività svolta; e, corrispondentemente, le quote del fondo
ricevute dall’apportante mantengono il medesimo valore fiscale riconosciuto ai beni anteriormente all’apporto stesso.
Nel caso in cui l’apportante sia un imprenditore, (i) qualora venga apportato un
bene immobile e l’imprenditore svolga professionalmente l’attività di negoziazione di
immobili, sul ricavo si applica l’IRES ordinaria, mentre qualora venga apportato un
immobile qualificabile come strumentale all’attività imprenditoriale, sulla plusvalenza si
applica l’IRES ordinaria o rateizzata; (ii) qualora venga apportata una partecipazione qualificabile come circolante, sul ricavo si applica la tassazione IRES ordinaria, mentre qualora venga apportata un partecipazione qualificabile come immobilizzazione, la plusvalenza beneficia della participation exemption, se ne ricorrono i presupposti, oppure si
applica l’IRES ordinaria o rateizzata.
Viceversa, nel caso in cui l’apportante non sia un imprenditore, (i) qualora venga
apportato un fabbricato, sulla plusvalenza si applica l’IRPEF ordinaria, mentre qualora venga
apportato un terreno edificabile, sulla plusvalenza si applica l’IRPEF odinaria o rateizzata; (ii)
qualora venga apportata una partecipazione qualificata, sulla plusvalenza si applica la tassazione IRPEF pari al 40 per cento della plusvalenza, mentre qualora venga apportata un partecipazione non qualificata, sulla plusvalenza si applica l’imposta sostitutiva del 12,5 per
cento.
Nel caso in cui le quote del fondo siano negoziate su mercati regolamentati, il corrispettivo da confrontare al costo di acquisizione per calcolare la plusvalenza è costituito dal
valore normale dei titoli ricevuti calcolato in base alla media aritmetica dei prezzi rilevati nell’ultimo mese; viceversa, nel caso in cui le quote del fondo non fossero negoziate su mercati regolamentati, il corrispettivo dell’apporto si determina in base al valore normale dei beni
conferiti.
Infine, è importante rilevare che la clausola generale antielusiva di cui all’art. 37-bis
del DPR 600/73 si applica alle cessioni e ai conferimenti ai fondi immobiliari istituiti ai sensi
degli artt. 37 del TUF e 14-bis della Legge 86/94.
II.5. Il regime di tassazione degli apporti ai fondi immobiliari:
imposte indirette
Il trattamento fiscale varia in funzione (i) della tipologia dei beni apportati (immobi-
68
li o partecipazioni) e (ii) della qualifica soggettiva dell’apportante. In particolare, nel caso in
cui il bene apportato sia un fabbricato non destinato ad uso civile di abitazione o sia un terreno edificabile, l’operazione è soggetta ad IVA al 20 per cento; nel caso in cui il bene apportato sia un fabbricato destinato ad uso civile di abitazione, l’operazione è soggetta ad IVA al
20 per cento se l’apportante è un’impresa costruttrice o un’impresa che ha effettuato interventi di restauro o ristrutturazione o un’impresa che ha come oggetto esclusivo o principale la rivendita di immobili; mentre, in tutte le altre ipotesi, è esente da IVA. L’apporto di una
partecipazione, invece, è esente da IVA13.
La novità introdotta dal decreto legge 3 agosto 2004, n. 220, convertito nella legge
10 ottobre 2004, n. 257, è costituita dall’esclusione da IVA degli apporti di pluralità di beni
immobili prevalentemente locati. In tal caso le imposte ipotecarie e catastali sono in misura
fissa.
In relazione all’imposta ipotecaria e catastale, nel caso in cui il conferimento è soggetto ad IVA, trovano applicazione le imposte in misura fissa (Euro 129,11); nel caso in cui
il conferimento non è soggetto ad IVA, le imposte sono dovute in misura pari rispettivamente al 2 per cento e all’uno per cento.
Relativamente all’imposta di registro, gli atti relativi alla istituzione e sottoscrizione
di quote di fondi immobiliari non sono soggetti all’obbligo di registrazione ed all’assolvimento della relativa imposta; tuttavia, nel caso in cui oggetto del conferimento fossero beni
immobili o in caso di registrazione volontaria, è dovuta l’imposta in misura fissa (Euro
129,11).
Dal punto di vista operativo, è importante rilevare che è stato introdotto per gli apporti di beni immobili a fondi immobiliari istituiti in Italia, sempre che si tratti di operazioni
imponibili ai fini del tributo, il meccanismo di applicazione dell’IVA secondo la tecnica del
c.d. reverse charge.
Il soggetto che apporta il bene, per ogni operazione imponibile ai fini dell’applicazione del tributo, deve emettere la relativa fattura senza addebito di IVA e con l’indicazione
della disposizione di cui all’art. 8, comma 1-bis del Decreto 351/01. Detta operazione, anche
se non determina applicazione dell’imposta in capo al soggetto apportante, è pur sempre
un’operazione imponibile (attraverso il meccanismo peculiare del reverse charge) e, quindi,
non limita il diritto alla detrazione dell’imposta assolta dall’apportante sugli acquisti.
La predetta fattura deve poi essere integrata dalla SGR con l’indicazione dell’aliquota e dell’imposta e deve essere annotata nel registro delle fatture emesse di cui agli artt. 23
e 24 del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633 (“Decreto 633/72”),
entro il mese di ricevimento ovvero anche successivamente, ma comunque entro quindici
giorni dal ricevimento e con riferimento al relativo mese.
Lo stesso documento, ai fini della detrazione, deve essere annotato nel registro degli
acquisti di cui all’art. 25 del Decreto 633/72.
In tal modo l’operazione di apporto fa sorgere in capo al fondo un debito d’imposta
per IVA dovuta all’erario e, nello stesso tempo, un credito di IVA di pari ammontare, immediatamente detraibile all’atto della liquidazione periodica del tributo (sempre che, ovviamente, in relazione al bene apportato e alla tipologia delle operazioni attive poste in essere
13 Si veda Carlo Cugnasca, Fondi comuni di investimento immobiliare, in Il Fisco, n. 35, 2004, pagg. 6027 e ss..
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RomanaDOTTRINA
temi
dal fondo, il diritto alla detrazione dell’IVA assolta sugli acquisti competa in misura piena).
La stessa norma stabilisce, inoltre, che agli effetti della limitazione contenuta nell’art.
30, comma 3 del Decreto 633/72 – ossia ai fini della verifica delle condizioni necessarie per
poter richiedere il rimborso dell’eccedenza di imposta detraibile risultante dalla dichiarazione annuale dell’IVA – le cessioni sono considerate operazioni imponibili.
II.6. Regime fiscale dei proventi del fondo immobiliare
I redditi di capitale costituiti dai proventi periodici distribuiti dal fondo immobiliare nonché dai proventi rappresentati dalla differenza tra il valore di riscatto o di liquidazione delle quote ed il costo di sottoscrizione o acquisto delle stesse, con obbligo dell’investitore di comunicare il costo di acquisto alla SGR, sono soggetti ad una ritenuta alla
fonte del 12,5 per cento applicata direttamente dalla SGR, a titolo di imposta, se l’investitore non esercita l’attività di impresa, a titolo di acconto, se l’investitore esercita attività di
impresa14.
I presupposti di applicazione della ritenuta sono la distribuzione dei proventi in
costanza di partecipazione al fondo ed il rimborso delle quote di partecipazione al fondo
conseguente al riscatto ovvero alla liquidazione. Non costituisce, invece, presupposto di
applicabilità della ritenuta la cessione a titolo oneroso delle quote di partecipazione al
fondo nei confronti della quale restano applicabili le norme generali in tema di capital
gain, previste dal decreto legislativo 21 novembre 1997, n. 461 (“Decreto 461/97”).
Nel caso l’investitore sia un soggetto esercente l’attività di impresa, la distribuzione effettuata dal fondo in costanza di partecipazione a favore dell’investitore e il riscatto
e liquidazione delle quote di partecipazione sono considerate reddito di impresa (reddito
di capitale) e su di essi si applica una ritenuta di acconto del 12,5 per cento e l’IRES ordinaria nell’esercizio di competenza. In caso di negoziazione della partecipazione, il provento è considerato reddito di impresa (ricavo/plusvalenza) ed è soggetto all’IRES ordinaria (ordinaria o rateizzata).
Nel caso in cui i proventi siano percepiti da (i) persone fisiche al di fuori dell’esercizio di impresa, (ii) società semplici, (iii) enti non commerciali e (iv) soggetti esenti o
esclusi da IRES, tali proventi sono soggetti a ritenuta a titolo di imposta del 12,5 per cento
e sono esclusi dalla formazione del reddito assoggettato ad IRPEF e IRES15.
A seguito di riscatto o liquidazione delle quote del fondo immobiliare, l’investitore
può ottenere un rendimento positivo (redditi di capitale soggetti a ritenuta alla fonte a titolo di imposta del 12,5 per cento) o negativo (perdite che configurano redditi diversi di
natura finanziaria) (art. 67 c-ter, del decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre
1986, n. 917).
Le plusvalenze o minusvalenze che l’investitore può ritrarre dalla negoziazione
delle quote sono assoggettate alla imposizione prevista dal Decreto 461/97 in tema di capital gain.
Sui redditi di capitale è esclusa l’applicabilità della ritenuta nei confronti dei sog14 Si veda la circolare dell’Agenzia delle Entrate 5 agosto
2004, n. 38/E (la “Circolare 38/E”).
70
15 Si veda Diego Avorio e Francesco Capitta, Il nuovo
regime fiscale dei fondi immobiliari, in Corriere Tributario
n. 37, 2004, pagg. 2951 e ss..
getti non residenti, come individuati dall’art. 6 del Decreto 239/96. Trattasi di soggetti
residenti in Paesi che consentono un adeguato scambio di informazioni (la lista dei Paesi
che assicurano un adeguato scambio di informazioni con l’Italia, c.d. white list, è contenuta nel Decreto 239/96, come successivamente integrato e modificato), enti od organismi
internazionali costituiti in base ad accordi internazionali resi esecutivi in Italia, investitori
istituzionali esteri benché privi di soggettività tributaria costituiti in Paesi che consentono
un adeguato scambio di informazioni e banche centrali16.
Al fine di evitare l’applicazione della ritenuta alla fonte del 12,5 per cento, i soggetti non residenti devono produrre alla SGR il modello di certificazione (modello di cui
al decreto ministeriale 12 dicembre 2001, n. 281) e produrre alla SGR l’autocertificazione del periodo di possesso.
Dunque, i capital gain che l’investitore può ottenere dalla negoziazione delle quote
del fondo sono (i) esclusi da imposizione fiscale se manca il presupposto territoriale; (ii)
esenti se sussiste il presupposto territoriale, ma il beneficiario risiede in un Paese appartenente alla white list; (iii) in tutti gli altri casi, soggetti all’imposta sostitutiva del 12,5 per
cento.
Infine, nel caso in cui i percettori siano fondi pensione od OICR di diritto italiano,
non si applica alcuna ritenuta sui proventi; questi ultimi concorrono a formare il risultato
maturato di gestione assoggettato ad imposta sostitutiva rispettivamente dell’11 per cento
e del 12,5 per cento.
Invece, a causa di un mancato coordinamento legislativo, non è stata prevista alcuna esclusione per i proventi percepiti nell’ambito di gestioni patrimoniali; dunque, i proventi distribuiti dal fondo immobiliare vengono assoggettati a ritenuta alla fonte e concorrono a formare il risultato maturato di gestione assoggettato ad imposta sostitutiva del
12,5 per cento.
II.7. Decorrenza del nuovo regime di imposizione
e regime transitorio
Le nuove modalità di imposizione si applicano a decorrere dal primo gennaio 2004
purché i proventi si riferiscano a periodi di attività dei fondi che hanno avuto inizio successivamente al 31 dicembre 2003.
Per i proventi riferiti a periodi di attività precedenti a tale data, continuano ad applicarsi le precedenti disposizioni.
Dunque, poiché i proventi sono già stati assoggettati in monte all’imposta patrimoniale dell’uno per cento, la successiva distribuzione risulterà (i) del tutto esente da imposizione, nel caso in cui il provento viene percepito al di fuori dell’esercizio di impresa; o
(ii) soggetta a imposizione IRES, nel caso in cui il provento viene percepito nell’esercizio
di una attività di impresa, salvo poter beneficiare di un credito di imposta pari all’uno per
cento del provento mede
16 Si veda la Circolare 38/E.
71
RomanaDOTTRINA
temi
Avv.
Vincenzo GRECO
La responsabilità
del curatore fallimentare
(e dei rappresentanti)
dei contribuenti diversi
dalle persone giuridiche
per le violazioni
tributarie alla luce
del Decreto Legge
n. 269/2003
L
a storia della responsabilità personale per le sanzioni tributarie è lunga e travagliata ed ha destato notevoli preoccupazioni in coloro che per ragioni del loro
ufficio sono tenuti ad effettuare adempimenti per conto e nell’interesse di terzi.
In questo scritto l’attenzione si soffermerà in particolare sulla responsabilità
del curatore fallimentare, divenuto, dopo la riforma tributaria del 1973, destinatario di una molteplicità di adempimenti, inutilmente costosi per la procedura.
Infatti, e mi sia consentita la digressione, nel tentativo di assoggettare a tassazione le plusvalenze realizzate dalla procedura e nella difficoltà di individuarle, il
legislatore è intervenuto con il TUIR del 1986 costruendo il reddito di impresa prodotto dal fallimento nella differenza fra il residuo attivo ed il patrimonio netto iniziale (art. 125, 2 co, d.p.r. n. 917/86), con un criterio rozzo, che individua come componenti negative del reddito anche i debiti estranei all’impresa e solo se insinuati, ma
di semplice applicazione, con il che non ha avvertito di avere non solo detassato i
fallimenti, ma reso i curatori creditori delle ritenute in acconto sugli interessi dei
depositi fallimentari1. Ovvero, per assoggettare ad Iva le vendite fallimentari e penalizzare i creditori in rivalsa che hanno diritto al rimborso, al fine di rinviarne il
momento a quello della esecutorietà del riparto finale - e quindi di molti anni - ha di
fatto consentito al curatore di portare in detrazione il credito Iva formatosi con quelle risorse che l’Amministrazione finanziaria è tenuta a rimborsare all’esito della procedura2 .
1 Il primo scritto con il quale si evidenziava che il fallimento
fosse creditore di imposta per le ritenute è stato pubblicato
proprio su questa rivista da chi scrive ( V. GRECO, La cessione
de crediti ed il riparto fra i creditori di imposta derivante dalle
ritenute in acconto operate sugli interessi corrisposti al
curatore fallimentare, in Diritto fallimentare e delle società
commerciali, 2002, II,683, al quale è poi seguito la Circolare
della Agenzia delle Entrate , in Boll. trib. , 517, 2000 e la
Risoluzione ministeriale n. 154/e del 24 maggio 2002, in Dir.
prat. soc. n. 11/2002,1258), e poi ( sempre sulla di cui sopra
rivista, La funzione del trust nel fallimento, 2004, 274 ss.)
72
si proponeva di conservare queste risorse alla massa
segregandole in un trust – atteso che si tratta di crediti esigibili
dopo la chiusura del fallimento-.
2 Se al creditore fosse stato consentito di emettere la nota di
variazione di cui all’art. 26 d.p.r. n. 636/73 all’avvio
della procedura, come inizialmente previsto dal d.l.
31 dicembre 1996 n.669 emanato in attuazione della direttiva
comunitaria, il curatore avrebbe dovuto decurtarla
dai crediti del fallito e non avrebbe potuto utilizzarla
nel corso della procedura.
In questo contesto è lecito chiedersi se in sede di riforma della legge fallimentare non sarebbe stata utile la riflessione sull’attuale regime fiscale del fallimento, liberandolo almeno da quelle formalità che non sono produttive per l’erario.
Esaurito questo inciso e tornando al tema specifico del presente lavoro, è
opportuno ricordare che, almeno sino al 1997, il curatore , al pari dei rappresentanti dei contribuenti, non era responsabile delle sanzioni tributarie - eccezion fatta
che per i mancati cd. versamenti diretti (art 98 d.p.r n. 602/78), che fanno carico
esclusivamente sul debitore d’imposta -.
Infatti, se ai sensi degli artt. 1 ss. della l. 24 novembre 1981 n. 689 le sanzioni amministrative fanno carico alla persona fisica autrice della violazione, il
successivo art. 39, rinviava alla l. 7 gennaio 1929 n.4, per la disciplina di quelle tributarie e, detta ultima legge, secondo l’interpretazione della giurisprudenza di legittimità (SS.UU., 8 gennaio 1993 n 125), pone le relative sanzioni esclusivamente sul
contribuente, onde l’autore materiale della violazione era responsabile solo per i
mancati cd versamenti diretti, ai sensi del citato art. 98 o per avere esercitato poteri estranei alla funzione - nel primo caso la responsabilità del contribuente sarebbe
stata sussidiaria, nel secondo solidale (v. da ultimo Cass., sez. trib. 1 febbraio 2002
n. 1.324, in Boll. trib, 2002, 710) -.
Questa invero non sembrava essere la lettera della legge del 1929, ma la giurisprudenza si era fatta carico di mitigarne il rigore, nella consapevolezza che l’agente non poteva sopportare un così rilevante rischio, attesa la complessità ed il
numero degli adempimenti, l’incertezza della disciplina e il comportamento troppe
volte vessatorio dell’Amministrazione.
Sul finire del secolo passato, a seguito dell’emergere dei fenomeni di criminalità economica, si ravvisò l’esigenza di creare un deterrente anche nei confronti
dell’autore materiale della violazione, onde si introdusse il principio della responsabilità personale anche per gli illeciti tributari (art. 2 del d.lgs. 18 dicembre n. 472),
ma per non disincentivare i manager venne limitata la loro responsabilità a 100
milioni di vecchie lire (art. 11 , 5° co), riducibile a 25 milioni in sede di definizione
agevolata (art. 16), salvo che l’agente avesse tratto vantaggio dalla violazione o
agito con dolo o colpa grave; e per attenuarla ulteriormente venne consentito al
manager di trasferire la sua quota di rischio al contribuente, che avrebbe potuto
accollarsi o il costo della intera sanzione (art. 11 , 6° co, c.c.) o del relativo premio
assicurativo (il che suscitava qualche perplessità, per la natura afflittiva e non risarcitoria dell’ obbligazione3).
Si trattava di un compromesso che privilegiava i manager delle grandi imprese, per i quali il rischio di 25 milioni di vecchie lire era sopportabile ed avevano in
concreto la possibilità di trasferirlo all’impresa, ma non privilegiava gli operatori
delle imprese medio piccole per i quali anche il rischio di 100/25 milioni era rilevante, e per il curatore fallimentare che non avrebbe potuto trasferirlo alla massa.
Il sistema era quindi sospetto di incostituzionalità, il che fu scarsamente
3 V. V. GRECO , La natura giuridica della sanzione tributaria,
in Boll. trib., 1998 n.10.
73
RomanaDOTTRINA
temi
avvertito, anche perché il legislatore si mise immediatamente all’opera per abrogare il principio appena introdotto.
Iniziò con l’art. 19 del d. lgs. 1 marzo 2000 n. 74, emanato in attuazione della
legge delega 25 giugno 1999 n 205, che introduceva anche per le sanzioni amministrative tributarie il principio di specialità, disponendo che se lo stesso fatto é punito con una sanzione penale e con una sanzione amministrativa si applica solo la
prima, ferma la responsabilità amministrativa dei concorrenti nell’illecito che non
siano concorrenti nel reato. Detto principio che già vigeva per le violazioni comuni (art. 9 l. n. 689/81), non operava per quelle tributarie in virtù dell’art. 10 della l.
n. 516/82 ( la cd. legge delle manette, agli evasori ); applicato anche a queste ultime
ha molto alleggerito il peso del responsabile, in quanto molte volte le sanzioni pecuniarie penali sono meno costose di quelle amministrative.
Proseguì con l’art. 27 del d.lgs. n.231/01 (sulla cd. responsabilità penale
degli enti), che addossava il costo delle sanzioni pecuniarie derivanti da reato sul
contribuente (nello stesso si legge che dell’obbligazione per il pagamento della
sanzione pecuniaria derivante da reato ne risponda soltanto l’ente con il suo patrimonio o con il fondo comune).
Ed infine l’art. 2, 1° co lett. l) della legge 7.4.2003, n. 80 di delega al Governo
per la riforma del sistema fiscale statale prevedeva che la sanzione amministrativa
tributaria fosse esclusivamente a carico del soggetto che ha tratto effettivo beneficio
dalla violazione .
Il cerchio sembrava essersi quindi chiuso con l’affermazione piena del principio della responsabilità del contribuente quando, ancor prima che la legge delegata
fosse emanata, l’art. 7 del d.lgs. n. 269/2003, convertito con la legge n. 326/2003,
anticipandone i contenuti, prevedeva che le sanzioni amministrative relative al rapporto fiscale proprio di società o enti con personalità giuridica sono esclusivamente a carico della persona giuridica, continuandosi ad applicare, per quanto compatibile il d.lgs. 472/97 (l’art. 7).
Secondo la lettera di questa disposizione i rappresentanti dell’ente-persona
giuridica non risponderebbero della violazioni amministrativo-tributarie, a differenza dei rappresentanti delle persona fisica o delle società di persone.
2. Il legislatore ha giustificato l’abrogazione del principio della responsabilità personale dell’autore della violazione tributaria con l'esigenza di creare una connessione tra punizione e indebiti vantaggi connessi all'evasione fiscale, con la difficoltà applicativa della riforma che nel 1997 in ordine all’individuazione dell’ autore della violazione, con lo spiazzamento competitivo negativo del nostro Paese, a
vantaggio dei Paesi competitori, che non conoscono norme simili…, ma non sarebbe stato coerente, in particolare per quel che concerne la connessione fra punizione
e vantaggi, se avesse conservato la responsabilità dei soggetti che non rappresentano persone giuridiche. E non si comprenderebbe la ragione, per affrontare più da
vicino il nostro tema, per la quale il curatore fallimentare di un imprenditore persona fisica o di una società di persone sia personalmente responsabile, mentre quello di una società capitali non lo è. In linea di principio avrebbe meritato maggior
tutela il rappresentante di un operatore dotato di minori potenzialità economiche,
74
che non può avvalersi di adeguati collaboratori o non può delegare le funzioni, che
il rappresentante di un grande organismo.
Il vero è che la norma va letta nel più ampio contesto normativo, alla luce dei
suoi precedenti e della legge delega, e se letta in questo quadro deve ritenersi che il
legislatore abbia completato il cammino, affermando il principio della responsabilità esclusiva del contribuente, e che ogni diversa lettura sarebbe erronea.
E leggendola in questa ottica si dovrebbe ritenere che l’espressione enti con
personalità giuridica, contrapposta a quella di società con personalità giuridica, comprenda non solo gli enti non personificati, ma tutti i soggetti di diritto dotati di autonomia patrimoniale perfetta, ivi comprese le persone fisiche; quindi, in applicazione dei principi comuni, la norma avrebbe ritenuto responsabile della sanzione gli
amministratori - soci delle società personali e coloro che agiscono per conto delle
associazioni prive di personalità, in quanto rispondono del debito d’imposta. E ciò
si dovrebbe dedurre dal fatto che l’espressione personalità giuridica non è contrapposta a quella di personalità fisica, peraltro ignota al linguaggio giuridico, ed individuerebbe il soggetto di diritto con autonomia patrimoniale perfetta.
Questa interpretazione sarebbe anche conforme al testo costituzionale al
quale, nel dubbio, l’ermeneuta è tenuto ad adeguarsi. Diversamente la norma
cadrebbe sotto la scure dei Giudici della Consulta, che con una sentenza cd. additiva eliminerebbe dal sistema quella parte che prevede l’irrazionale discriminazione.
Per cui, e concludendo, ritengo che anche il curatore fallimentare dell’imprenditore persona fisica, grazie all’ l’ art. 7 del d.lgs. n. 269/2003, oggi non sia personalmente responsabile della sanzioni tributarie, delle quali risponde civilmente e
secondo i principi comuni, nei confronti dell’ente che amministra per il danno che
ha provocato e se colpevole.
75
RomanaDOTTRINA
temi
Avv.
Marco Valerio
SANTONOCITO
La legge 20 luglio 2004
n. 191 contenente
modifiche ulteriori
al nuovo condono
edilizio.
I
l 31/07/04 è stato pubblicato il testo definitivo contenente i nuovi termini decadenziali di presentazione delle domande e dei documenti da allegare alla domanda di condono.
Si osserva che tale nuova normativa, entrata in vigore con lo scorso mese di
agosto, venga a sostituire INTEGRALMENTE le previsioni della precedente L.
24/11/03 n.326, sicchè tutte le precedenti disposizioni in materia si devono ritenere esplicitamente abolite.
In particolare il regime attuale della regolamentazione sul nuovo condono
edilizio può essere riassunto nei seguenti principi:
1) la nuova normativa riapre tutti i termini di sanatoria precedentemente scaduti;
2) possono essere sanate anche le opere realizzate su suolo pubblico, ma la concessione di sanatoria è subordinata al parere della P.A.;
3) la domanda di cessione del suolo pubblico dovrà essere presentata tra
l’11/11/04 ed il 10/12/04 all’Agenzia del Territorio competente per luogo.
Inoltre entro il 30/04/05 dovrà essere allegata copia della denuncia del relativo accatastamento;
4) nel caso di aree ricadenti su terreni ove esista un vincolo di qualsivoglia genere, il rilascio della sanatoria è subordinata al parere favorevole (e vincolante) della
competente Amministrazione preposta al vincolo;
5) se la costruzione abusiva sananda è sita, invece, su aree incluse nel patrimonio disponibile, si dovrà richiedere all’Agenzia del Demanio competente
per territorio di acquistare l’area su cui insiste l’abuso;
6) il prezzo di vendita delle suddette aree c.d. “patrimonialmente disponibili”
dovrà essere corrisposto in 2 rate: 30/6/05 e 31/12/05;
7) le aree così acquistate sono inalienabili per 5 anni (è una norma per impedire speculazione sul territorio);
8) per le aree che invece sono rientrati nel vero e proprio demanio pubblico (che è
notoriamente incedibile, ma che possono essere oggetto di concessione), occorrerà
presentare una domanda a parte, sempre alla competente Agenzia del Demanio, che
esprimerà il proprio parere definitivo entro il 31/12/06;
9) come già noto, la domanda di sanatoria edilizia, riguarda solo le opere
completate entro il 31/03/03, la cui volumetria non sia superiore a 750 mc per
ogni singola domanda di sanatoria presentata ed in ogni caso la nuova costruzione sananda non potrà superare i 3000 mc complessivi;
76
10) le 3 rate del condono devono essere versate entro il:
I – 10/12/04
II – 20/12/04
III- 30/12/04
11) in ogni caso restano insuscettibili di sanatoria le opere:
a) eseguite da proprietario condannato con sentenza definitiva per i reatidi
cui agli artt. 416 bis, 648 bis, 648 ter c.p.;
b) in zone sismiche (con impossibilità d’adeguamento);
c) su area pubblica di cui non sia stata disponibilità;
d) realizzate su aree vincolate idrogeologiche, falde acquifere, aree protette
ambientali;
e) su immobili dichiarati monumento nazionale;
f) realizzate su aree agricole o pascoli interessati da incendio doloso;
g) realizzati su porti od aree di porti o del Demanio marittimo di primaria
importanza;
11) il procedimento di sanatoria è sospeso nel caso in cui il richiedente sia inquisito per i reati previsti dagli artt. 416 bis, 648 bis e 648 ter c.p. e fino al passaggio
in giudicato della sentenza;
15) la domada di condono dovrà essere presentata tra l’11/11/04 –10/12/04;
13) la domanda dovrà essere completa di fotografie e documentazione descrivente le opere, nonché ulteriore documentazione regionale, ove stabilito dalla singola
Regione ove è situato l’abuso;
14) entro 36 mesi dalla presentazione della domanda di condono si forma il
silenzio assenso;
15) entro il 30/6/05 occorre allegare alla domanda:
- denuncia al catasto;
- denuncia I.C.I.;
- denuncia TARSU e/o TOSAP;
dalla suddetta data decorrono 24 mesi per il perfezionamento del silenzio-assenso;
16) per le aree sottoposte a vincolo, il richiedente dovrà domandare il rilascio del Nulla osta alla P.A. preposta al vincolo e – dopo 180 gg dalla richiesta, in caso di omessa risposta esplicita, si formerà il silenzio rifiuto, che
potrà essere impugnato al TAR.
17) Il rilascio del parere estingue il reato ambientale.
18) Il parere non è richiesto per violazioni inerenti altezza,distacchi, cubature o superfici coperte non eccedenti il 2%.
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RomanaDOTTRINA
temi
Avv.
Piero SANDULLI
La tutela della “privacy”
dopo il decreto
legislativo n. 196/2003.
Sommario
1. Posizione del problema. – 2. La tutela secondo la normativa prevista dall’art. 29 della legge
675/96. – a) La tutela ordinaria. - b) La tutela avverso il provvedimento del Garante. 3. La tutela prevista dal decreto legislativo del 30 giugno 2003, n. 196. – a) La tutela ordinaria. b) La tutela avverso i provvedimenti resi dal garante. – b1) il reclamo e la segnalazione. b2) Il ricorso. – b3) Il giudizio di opposizione. - 4. Considerazioni finali.
1. Posizione del problema.
l decreto legislativo numero 196 del 30 giugno 20031, nel dare corpo al Codice in
materia di protezione dei dati personali, sulla base della delega dettata con la legge
n. 676 del 31 dicembre 1996, prorogata dalla legge n. 127 del 24 marzo 20012, ha
riscritto con la parte terza (tutela dell’interessato e sanzioni), al titolo primo (tutela
amministrativa e giurisdizionale), le regole preposte alla tutela dei dati personali3,
innovando, in tal modo, la precedente regolamentazione dettata dall’articolo 29 della
legge del 31 dicembre 1996, n. 6754, che non poche perplessità aveva suscitato in
dottrina5.
I
2. La tutela secondo la normativa prevista
dall’art. 29 della legge 675/96.
Prima di affrontare l’analisi del nuovo testo normativo, è necessario ricordare
la tipologia della tutela accordata alla riservatezza dei dati personali dalla precedente normativa del 1996, che a detta dello stesso legislatore6 - ha avuto modo di “cam1 In Gazzetta Ufficiale del 29 luglio 2003, n. 174.
Va ricordato che, in base al dettato dell’art. 186
del decreto legislativo in esame, le norme contenute
nel codice sono entrate in vigore il primo gennaio 2004.
E’ necessario ricordare che con il decreto legge n. 158
del 24 giugno 2004 (in Gazzetta Ufficiale n. 147 del 25
giugno 2004) sono stati prorogati i termini per l’entrata
in vigore di alcuni istituti contenuti nel Codice per i dati
personali (artt. 180 e 181), detto decreto legge è stato
convertito il 27 luglio 2004 con la legge n. 188 (in
Gazzetta Ufficiale n. 177 del 30 luglio 2004),
ma ciò non ha fatto slittare l’entrata in vigore delle
norme relative alla tutela. Infine, va ricordato che con
l’art. 6 del decreto legge n. 266 del 9 novembre 2004, i
n Gazzetta Ufficiale n. 264 del 10 novembre 2004, sono
stati ulteriormente prorogati i termini dell’articolo 180
(commi 1 e 3) al 30 giugno 2005, per ciò che concerne
le misure minime di sicurezza relative a dati trattati
con, o senza, l’ausilio di strumenti elettronici
(artt. 33 – 35) ed al 30 settembre 2005 per quanto
riguarda gli obblighi di trattamento dei dati,
relativamente all’adozione delle misure di sicurezza
previste dall’art. 31 del Codice.
2 In Gazzetta Ufficiale 19 aprile 2001, n. 9. Invero,
78
la legge n. 127 del 2001 ha dettato il differimento
del termine previsto dalla legge n. 676 del 31 dicembre
1996 (Gazzetta Ufficiale dell’8 gennaio 1997, n. 5)
prorogandolo di 18 mesi rispetto alla scadenza
originariamente fissata per il 31 dicembre 2001.
3 Una recentissima pronuncia della prima sezione civile
della Suprema Corte (Cass. 25 giugno 2004, n. 11864,
in Corriere Giuridico 2004, p. 1282) si è occupata
della Tutela della riservatezza ricostruendo il tema
anche alla luce della nuova normativa, che non ha
poi applicato ratione temporis.
4 In Gazzetta Ufficiale dell’8 gennaio 1997, n. 5.
5 Vedi G. ARIETA, Commento all’art. 29 della legge
n. 675/96, in La tutela dei dati personali, a cura di
E. GIANNANTONIO, M. LOSANO, V. ZENO-ZENCOVICH,
Padova 1997, p. 279; F.P. LUISO, Commento
all’art. 29 della legge 675/96, in Le nuove leggi civili
commentate 1999, p. 663.
6 Vedi la relazione del Ministro Guardasigilli
alla Commissione giustizia del Senato il giorno
8 ottobre 1996.
biare in parte il costume del Paese”7.
Dal combinato disposto dell’articolo 29, della legge n. 675 del 1996 e dell’art.
13 della medesima normativa, sono desumibili i diritti soggettivi azionabili e la tutela ad essi accordati; da detta analisi era agevolmente individuabile, per l’interessato
o per il titolare del trattamento8 una duplice ipotesi di tutela; invero, quando l’interessato rilevi che sono state raccolte informazioni in modo non consentito dalla normativa, ovvero inesatte o incomplete, egli può chiederne la cancellazione, l’integrazione o la correzione, agendo in giudizio o rivolgendosi al Garante9. Da ciò la dottrina10 ha ritenuto di affermare che per gli altri diritti legati alla riservatezza, non previsti dalla legge n. 675 del 1996, si dovesse agire in giudizio esperendo l’azione
ordinaria11.
Inoltre, il soggetto interessato può opporsi al trattamento dei dati personali nei
casi in cui essi siano stati raccolti a fini commerciali o per consentire la spedizione
di materiale pubblicitario.
Chiarisce lo stesso articolo 13 che il soggetto interessato12 al quale non venga
fornita risposta o a cui non sia data attuazione alle sue istanze “senza ritardo”13 ha
7 Invero, anche se il diritto alla riservatezza trovava
la sua fonte costituzionale nell’articolo 15 Cost. la tutela di essa
era stata, fino a quel momento, scarsamente protetta; furono le
influenze Comunitarie a determinare una nuova riflessione al
riguardo. Attualmente la Costituzione Europea, firmata a Roma
il 29 ottobre 2004, all’articolo II-68, prevede la protezione dei
dati di carattere personale ed il controllo su tale protezione che
è affidato ad una Autorità indipendente dell’Unione Europea.
Sul punto vedi: F. BILOTTA, L’emersione del diritto alla privacy, in
Privacy, a cura di A. CLEMENTE, in Enciclopedia, collana diretta
da P. CENDON, Padova 1999, p. 21.
8 Vedi, il comunicato stampa dello Ufficio del Garante
del 7 maggio 1997 e la risposta ad una istanza pervenuta al
medesimo ufficio, resa in data 2 agosto 1997. Sul punto
confronta le definizioni contenute nell’art. 1 della legge n.
675/96, nonché il Commento all’articolo di E. GIANNANTONIO,
in Tutela dei dati personali, a cura di E. GIANNANTONIO – M.
LOSANO – V. ZENO – ZENCOVICH, cit., p. 2.
9 Con la legge del 31 dicembre 1996, n. 675 per la protezione
dei dati personali e, più in generale per tutelare il diritto dei
cittadini alla riservatezza, è istituito il Garante, organo
collegiale che oper in piena autonomia e con indipendenza di
giudizio e di valutazione. Le principali funzioni attribuite al
Garante sono le seguenti: a) istituire e tenere un registro
generale dei trattamenti dei dati; b) controllare il corretto
trattamento dei dati: in particolare il Garante può vietare, in
tutto o in parte, il trattamento dei dati o disporne il blocco
quando, in tutto o in parte, il trattamento deid ati o disporne
il blocco quando, in considerazione della natura dei dati o,
comunque, delle modalità del trattamento o degli effetti che
esso può determinare, vi è il concreto rischio del verificarsi di
un pregiudizio rilevante per uno o più interessati; c) segnalare
le modificazioni opportune al trattamento dei dati conforme
alle disposizioni vigenti; d) ricevere le segnalazioni ed i reclami
degli interessati o della associazioni che li rappresentano; e)
adottare i provvedimenti previsti dalla legge o dai
regolamenti; f) vigilare sui casi di cessazione, per qualsiasi
causa, di un trattamento; g) denunciare i fatti configurabili
come reati perseguibili d’ufficio; h) promuovere la
sottoscrizione di codici deontologici; i) curare l’attività di
assistenza indicata dalla Convenzione n. 108 sulla protezione
delle persone rispetto al trattamento automatizzato di dati di
carattere personale, adottata a Strasburgo e ratificata con L.
21 febbraio 1989, n. 98. Il Garante dispone di ampi poteri
istruttori, comprensivi oltre che dal potere di richiesta di
informazioni anche di quello ispettivo e di accesso alle banche
dati. Il sistema di garanzia delineato dalla L. 675/96 prevede il
ricorso alternativo all’Autorità giudiziaria o al Garante:
quest’ultimo infatti non può essere adito, se per il medesimo
oggetto e le stesse parti, sia stato già presentato ricorso
all’Autorità giudiziaria; viceversa, la presentazione del ricorso
al Garante rende improponibile l’ulteriore domanda
all’Autorità giudiziaria. Il Garante è organo collegiale costituito
da un Presidente e tre membri. I quattro membri vengono
eletti per metà dal Senato della Repubblica con voto limitato.
Il Presidente viene eletto nel loro ambito, l’Ufficio del Garante
dura in carica per quattro anni. I membri sono scelti tra
persone che assicurino indipendenza e che siano esperti di
riconoscuta competenza nelle materie del diritto o
dell’informatica. Deve essere garantita la presenza di entrambe
le qualificazioni.
10 Vedi, sul punto, F. P. LUISO, Commento, cit., p. 681.
11 Cfr. F. GUERRA, Gli strumenti di tutela, in La disciplina
del trattamento dei dati personali, a cura di V. CUFFARO – V.
RICCIUTO, Torino, 1997, p. 347, senza tenere conto della
indicazione della competenza contenuta dalla legge 675/96.
12 L’accezione di soggetto interessato, legittimato all’azione
è necessariamente ampia in quanto il punto f) dell’articolo 1
della legge n. 675/96 definisce con il termine di interessato “la
persona fisica, la persona giuridica, l’ente o l’associazione cui si
riferiscono i dati personali”. Inoltre, il terzo comma dell’art. 13
ricorda che “i diritti riferiti ai dati personali concernenti la
persona deceduta possono essere esercitati da chiunque vi
abbia interesse”.
13 Chiarirà poi l’Autorità garante che detta risposta
deve intervenire entro 5 giorni (cfr. circolare del 2 agosto
1997), così come disposto dal secondo comma dell’articolo 29
della legge n. 675/96, salvi i casi di maggior urgenza
individuati con l’insorgere di un pregiudizio “imminente e
irreparabile”.
79
RomanaDOTTRINA
temi
la possibilità di ricorrere al Garante o di richiedere tutela alla autorità giudiziaria
ordinaria. Il primo comma dell’articolo 29 chiariva, inoltre, che “il ricorso al
Garante non può essere proposto qualora, per il medesimo oggetto e tra le stesse
parti, sia stata adita l’autorità giudiziaria”.
L’articolo 29 dettava, dunque, una duplice ipotesi di tutela per i diritti previsti dalla legge n. 675/96, che si coniugava in modo differente, a seconda che si intendesse agire in via giurisdizionale o in via amministrativa. Quanto agli effetti, di tale
doppia ipotesi di tutela, va ricordato, infatti, che l’azione proposta innanzi all’autorità giudiziaria era preclusiva di qualsiasi ulteriore ricorso (tra le stesse parti e sullo
stesso oggetto) al Garante, mentre il ricorso proposto al Garante consentiva sempre
l’eventuale opposizione al provvedimento da questi reso, innanzi al giudice ordinario (art. 29, comma 6). Occorre, dunque, operare alcuni ulteriori approfondimenti in
relazione alle norme per la tutela dettate dall’articolo 29 della legge n. 675/96.
a) La tutela ordinaria.
Il primo comma dell’articolo 29, in ordine alla violazione dei diritti soggettivi, elencati nell’articolo 13 della legge sulla “privacy”14, prevedeva la possibilità di
agire innanzi all’autorità giudiziaria ordinaria, con un’indicazione apparentemente
pleonastica, trattandosi, comunque, di diritti soggettivi inerenti alla personalità. E’
ipotizzabile che essa sia stata inserita nel testo normativo per esplicitare l’intenzione del legislatore di non creare alcuna giurisdizione esclusiva, anche nell’ipotesi in
cui l’azione avesse ad oggetto l’annullamento degli atti del Garante, come dimostra
anche la deroga, contenuta nel settimo comma, rispetto al divieto di annullamento
degli atti amministrativi, previsto dall’art. 4 della legge abolitrice del contenzioso
amministrativo (L. 2248/1865, All. E).
A ben vedere l’articolo in esame non dettava specifiche regole per la tutela
giurisdizionale, ponendo in essere un “implicito rinvio” al codice di rito civile, le cui
norme trovavano piena e totale applicazione nel caso di specie.
L’unica precisazione, operata in via specifica, era contenuta – come detto - nel
secondo comma, in cui si chiariva che l’intervenuto ricorso al Garante era preclusivo (tra le stesse parti e per il medesimo oggetto) della proposizione dell’azione ordinaria.
Pertanto, l’azione prevista dall’articolo 29, a tutela dei diritti contenuti nella
legge n. 675/96, introduceva il rinvio al giudizio civile previsto dal codice di rito,
azionato mediante la notifica di un atto di citazione, redatto sulla base dei dettami
contenuti negli articoli 163 e seguenti del codice di procedura civile. L’azione a tutela dei diritti sulla riservatezza, previsti dalla legge n. 675 del 1996, è, dunque, una
azione ordinaria che si colloca nel contesto di un processo civile dispositivo quale
quello civile15 e si pone accanto alle altre ipotesi di tutela dei diritti della persona
garantiti sulla base di una azione ordinaria. Il processo che ne scaturisce è articola14 Vedi, sul punto il Commento all’articolo 13
(diritti dell’interessato) di E. BARGELLI, in Le nuove leggi civili
commentate 1999, p. 393.
80
15 Cfr. F.P. LUISO, Commento all’art. 29, in Le nuove leggi civili
commentate 1999, p. 681.
to sullo schema classico del giudizio civile in due gradi di giudizio di merito, con il possibile ricorso alla Suprema Corte in base ai motivi dettati dall’art. 360 c.p.c.
b) La tutela avverso il provvedimento del Garante.
Diversa è la tutela che il legislatore del 1996 ha inteso assegnare nei confronti dei
provvedimenti emessi dal Garante, a seguito del ricorso proposto dagli aventi diritto.
E’ necessario premettere che l’attività svolta dal Garante non ha, né può avere,
alcuna valenza giurisdizionale16; essa si limita, infatti, a porre in essere una attività di
carattere amministrativo, anche se incidente su diritti, nell’ambito della quale è necessario che vengano rispettate le garanzie del contraddittorio, sulla base delle regole del
“giusto procedimento” sancite dalla legge n. 241 del 199017 e ricordate nei commi 3 e 4
dell’art. 29 della legge n. 675/96.
Avverso il provvedimento emesso dal Garante, o nei confronti del tacito rigetto
del ricorso ad esso proposto, a causa della mancata pronuncia nei venti giorni successivi alla presentazione dell’istanza(art. 29, comma 4, ultima parte), è ammessa l’opposizione al Tribunale del luogo ove risiede il titolare dei dati, nel termine di 30 giorni dalla
data della comunicazione del provvedimento o dalla data in cui si è formato il “rigetto
tacito”.
Al riguardo, chiariva il settimo comma, il Tribunale decide in camera di consiglio
“nei modi di cui agli articoli 737 c.p.c. e seguenti del codice di procedura civile, anche
in deroga all’articolo 4 della legge del 20 marzo 1865, n. 2248, all. E), e può sospendere, a richiesta della parte interessata, la esecuzione del provvedimento. L’ultima parte
dello stesso comma affermava che “avverso il decreto del Tribunale è ammesso unicamente il ricorso per cassazione”.
Al di là di valutazioni critiche sulla procedura dettata dalla legge n. 675 del 1996,
che non è opportuno ricordare in questa sede, è necessario compiere alcune considerazioni di sistema in base alle quali intraprendere l’analisi del decreto legislativo del 2003.
La prima, è legata alla tutela azionata innanzi al giudice ordinario che, se esperita per prima, esclude la possibilità del ricorso al Garante, lasciando al solo giudizio civile ordinario ogni garanzia di tutela senza limitazioni, in relazione a tale fattispecie non
appare chiara la preclusione nei confronti del ricorso al Garante, che operava esclusivamente in relazione agli stessi soggetti ed all’identico oggetto, mentre essa non risultava
applicabile, pur in presenza di identiche vertenze, ma tra soggetti diversi o nell’ipotesi in
cui tra i medesimi soggetti processuali fossero state azionate domande diverse, anche se
queste erano tra loro in rapporto di continenza.
Tutto ciò con il possibile rischio di giungere, in fase di opposizione, a giudizi in
contrasto tra loro su fattispecie processuali pressocchè simili.
Considerazione analoga, ma rovesciata, era operabile per le doglianze proposte
16 Va ricordato che una corrente dottrinaria tende ad equiparare
l’attività delle autorità indipendenti (tra cui è collocabile quella
del Garante per la riservatezza) alle attività giurisdizionali, ma
tale tesi non può essere condivisa in quanto contraria
all’impianto costituzionale, che impedisce la “creazione” di
nuovi giudici speciali.
Sul punto, sia consentito il rinvio all’analisi da me effettuata, al
riguardo: Autorità indipendenti e controllo giurisdizionale, in
Giusto processo civile e procedimenti decisori sommari, a cura
di L. LANFRANCHI, Torino 2001, p. 240.
17 Vedi, sul punto, A. SANDULLI, Il procedimento, in Trattato
di diritto amministrativo, a cura di S. CASSESE, Milano 2000,
vol. II, p. 955.
81
RomanaDOTTRINA
temi
con ricorso al Garante che precludevano – con i limiti di cui si è detto in precedenza –
la proposizione dell’azione innanzi al giudice ordinario, salvo poterla azionare, con i
limiti del giudizio camerale, in fase di opposizione.
Un’ulteriore considerazione, di natura critica, può essere svolta in relazione a tale
giudizio di opposizione, individuato dal legislatore per “impugnare” i provvedimenti del
Garante. Detto giudizio, come ricordato, si proponeva “con i modi” di cui agli articoli
737 e seguenti del codice di rito civile, vale a dire con le modalità e le regole dettate per
i procedimenti in Camera di consiglio18.
Il richiamo alle modalità e non soltanto alle forme, come è avvenuto in altre circostanze19, è evidentemente collegato alla volontà del legislatore di dare attuazione piena
alle regole dettate per il giudizio in Camera di consiglio, non costituendo, un mero riferimento alla sola forma di quel tipo di rito, con la ulteriore garanzia di una “sostanza”
processuale, rispettosa dei requisiti del dovuto processo. Tale riferimento ha suscitato le
giuste perplessità e preoccupazioni della dottrina20 anche in relazione alla dubbia costituzionalità di norme che finiscono per legittimare un giudizio in grado di rendere un giudicato su diritti, non nel rispetto del dettato dagli articoli 3, 24 e 111 della Carta costituzionale, in quanto reso nei “modi” di un procedimento di natura sommaria, quale quello
camerale21, “modi” che necessariamente finiscono per limitare il diritto alla difesa, sia
sotto l’aspetto del contraddittorio, che della parità delle “armi” nel giudizio22.
Considerazione conclusiva è legata alla circostanza che dalla lettura dell’art. 29
della legge 675 del 1996 emergono due diversi giudizi finalizzati alla tutela dei diritti
relativi alla riservatezza, giudizi che offrivano garanzie di tutela assai diverse tra loro e
che potevano trovarsi a rendere decisioni tra loro contrastanti.
3. La tutela prevista dal decreto legislativo
del 30 giugno 2003, n. 196.
Il decreto legislativo numero 196 del 2003, sulla base delle direttive ricevute
con la delega23, si è posto l’obiettivo di rivisitare completamente le norme relative
18 Cfr. L. LANFRANCHI, La roccia non incrinata, Torino 2004,
p. 170; E. FAZZALARI, Istituzioni di diritto processuale,
Padova 1996, p. 566; A. PROTO PISANI, Usi e abusi della
procedura camerale ex art. 737 ss. c.p.c.: appunti sulla
tutela giurisdizionale dei diritti e sulla gestione di
interessi devoluta al giudice, in Riv. dir. civ. 1990, p. 393.
procedure concorsuali e nel sistema della tutela
giurisdizionale dei diritti), per l’approfondita analisi e per
le conclusioni cui perviene lamentando “la perdita del
ruolo del giudizio ordinario a favore della proliferazione
dei riti speciali”, atta ad integrare “pericolosissime fughe
in avanti” p. 150.
19 Vedi sul punto il testo dell’art. 710 c.p.c., novellato
dalla legge n. 331 del 29 luglio 1988. In dottrina, vedi C.
PUNZI, La modifica dei provvedimenti relativi alla
separazione dei coniugi, in Riv. dir. proc. 1989, p. 639.
22 Alle numerose critiche che la dottrina sollevò al riguardo
(il ricorso all’art. 737 era già contenuto nel disegno di
legge n. 1586-S del 1996), la relazione di
accompagnamento alla legge, rispondeva che essendo la
fase giurisdizionale preceduta da una fase
amministrativa, caratterizzata dalla tutela piena dei
diritti, non era necessario duplicare detta tutela. A ben
vedere la risposta del legislatore è sintomo dell’evidente
confusione con cui lo stesso ha inteso approcciare il tema
della tutela della riservatezza, nonché della scarsa
attenzione, da questi prestata, alla tripartizione dei
poteri presente nella nostra Carta costituzionale.
20 Cfr. L. LANFRANCHI, La roccia non incrinata, cit., p. 139;
L. MONTESANO “Dovuto processo” su diritti incisi da
giudizi camerali e sommari, in Riv. dir. proc. 1989, p. 5.
21 Vedi gli atti del XVII Convegno Nazionale
dell’Associazione fra gli Studiosi del Processo Civile,
Milano 1991; in particolare la relazione di E. FAZZALARI,
Uno sguardo storico e sistematico, p. 41; e la relazione di
E. GRASSO, I procedimenti camerali e l’oggetto della
tutela, p 79. Anche se dedicata alle procedure
concorsuali, di estrema importanza è la relazione di L.
LANFRANCHI (I procedimenti camerali decisori nelle
82
23 Vedi art. 2 della legge del 31 dicembre 1996, n. 676.
Sul punto vedi, anche, il Massimario 1997 – 2001, redatto
dall’Ufficio del Garante, a cura di L. PECORA – G. STAGLIANO’,
Roma 2003, p. 241.
alla tutela del diritto alla riservatezza, sia al fine di sopire le non poche perplessità
di ordine costituzionale sollevate dalla dottrina24 ed in parte recepite dalla giurisprudenza25, che con l’intento di armonizzare il rito relativo a detta materia con il
sopravvenuto avvento del giudice unico in primo grado, intervenuto a seguito della
entrata in vigore del decreto legislativo n. 51 del 199826.
Seguendo, anche in questa ipotesi di lavoro, lo schema già utilizzato nell’emanare la precedente normativa il legislatore delegato individua due possibili ipotetici “luoghi” in cui sollevare le doglianze relative alla violazione delle norme sulla
riservatezza dei dati personali (art. 7 del d. lg. 196/03), ovvero, quello offerto dal
giudice ordinario, previsto dall’articolo 152, e quello del Garante, definito dall’articolo 145, come “tutela alternativa a quella giurisdizionale”. Invero, anche nel decreto legislativo n. 196, come era già avvenuto in precedenza con la legge n. 675/96, è
prevista una regola di alternatività, in base alla quale electa una via non datur recursus ad alteram, anche se tale divieto (come accadeva anche per la precedente normativa) desta alcune perplessità a causa della genericità dell’enunciato (invero assai
simile, se non identico, a quello dell’articolo 29) in base al quale detto limite è stato
dettato.
Seguendo, anche nell’esame del decreto legislativo n. 196/03, lo stesso metodo di analisi, già attuato per la legge n. 675/96, è opportuno partire dalla lettura delle
norme processuali da far valere per le azioni che si presentano al giudice ordinario,
a norma dell’art. 152 del decreto legislativo, prima di esaminare la tutela giustiziale richiesta al garante.
a) La tutela ordinaria.
In modo più esteso, di quanto avesse fatto in precedenza l’articolo 29 della
legge n. 675/96, l’articolo 152, del Codice in materia di protezione dei dati personali, chiarisce che “tutte le controversie che riguardano, comunque, l’applicazione
delle disposizioni del presente codice, comprese quelle inerenti ai provvedimenti del
Garante in materia di protezione dei dati personali o della loro mancata adozione,
sono attribuite alla autorità giudiziaria ordinaria”, individuando, ad un tempo, una
sorta di “giurisdizione esclusiva”27 del giudice ordinario, su tutte dette materie, autorizzandolo, altresì, ad operare anche in deroga (come aveva già chiarito l’art. 29
della legge n. 675/96) al divieto di annullamento dell’atto amministrativo (art. 152,
comma 12), sancito dal dettato dell’articolo 4 della legge abolitrice del contenzioso
amministrativo (la legge n. 2248 del 1865, all E), ad un tempo (a differenza di quanto veniva disposto dall’art. 29), individuando un unico rito per tutte le controversie
24 Cfr. G. SANTANIELLO, La tutela della riservatezza, Padova 2001.
25 Cfr. Tribunale di Bari 12 luglio 2000, in Foro It. 2000, I, c. 2989,
con nota di A. PALMIERI.
26 La legge di delega del 16 luglio 1997, n. 254, aveva delegato
al Governo l’istituzione del giudice unico in primo grado, con il
conseguente trasferimento alla Amministrazione delle funzioni
amministrative affidate, sino a quel momento, al potere
giurisdizionale e prive di collegamento con la funzione di
amministrazione della giustizia. Per un commento alla
normativa vedi F. GRASSO, L’istituzione del giudice unico in
primo grado. Prime osservazioni sulle disposizioni relative al
processo civile, in Riv.dir. proc. 1998, p. 650; vedi, inoltre, il
Commento al decreto legislativo n. 51/1998, a cura di F.
CIPRIANI, in Le nuove leggi civili commentate 2000, p. 173.
27 Il termine, usato impropriamente, sottende la necessità
di far conoscere al giudice ordinario anche ogni eventuale
“atto presupposto” del Garante.
83
RomanaDOTTRINA
temi
regolate dal Codice sulla “privacy” (art. 152, comma 2) anche oltre i casi previsti
dall’art. 13 della legge n. 675/96.
Nel rito, così previsto, l’azione si promuove sempre con ricorso, da chi ne
abbia interesse, come ricorda il combinato disposto dell’articolo 4 e dell’art. 141,
prevedendo altresì che competente a decidere è il giudice del luogo “ove risiede il
titolare del trattamento” (vedi al riguardo la definizione resa dall’art. 4 del d. lg. n.
196), specificando che si tratta di un giudice in composizione monocratica.
Ferma restando la possibilità, per il giudice (“quando sussiste un pericolo
immediato di un danno grave ed irreparabile28”), di rendere con decreto, inaudita
altera parte, gli eventuali provvedimenti cautelari (da confermare, o revocare, con
ordinanza, resa in contraddittorio, entro 15 giorni dalla emanazione del decreto, art.
152, comma 6), il giudice, preso atto del ricorso depositato presso la sua cancelleria, fissa l’udienza di comparizione delle parti, con decreto, nell’ambito del quale
assegna al ricorrente un termine, di natura perentoria, entro cui il ricorso e conseguentemente il pedissequo decreto di fissazione dell’udienza debbono essere notificati alle altre parti ed al Garante, ponendo in essere una fase introduttiva del giudizio (edixio actionis e vocatio in ius) analoga a quella dettata, dall’art. 415 c.p.c., per
il rito del lavoro29. Dall’analisi di essa si dovrebbe desumere che il ricorso (anche se
ciò non è stato espressamente precisato) debba avere gli stessi requisiti e contenuti
previsti dall’articolo 414 c.p.c. per l’atto introduttivo del processo del lavoro.
L’assenza ingiustificata del ricorrente30, all’udienza fissata dal giudice produce, a norma del comma 8, dell’art. 152, la cancellazione della causa dal ruolo e la
conseguente dichiarazione di estinzione del giudizio, con l’accollo delle spese di
esso in capo al ricorrente.
Tale provvedimento non preclude la possibilità di riproporre il ricorso.
Per quanto riguarda, invece, la mancata notificazione del ricorso e dell’atto di
fissazione d’udienza, reso con decreto del giudice, è ipotizzabile che si applichino,
per analogia, le disposizioni rese per il rito del lavoro, le quali prescrivono che, in
tal caso, il decreto diviene inefficace ed il processo si estingue31.
In analogia con il disposto degli articoli 421 c.p.c. e 281 ter c.p.c., il nono
comma dell’art. 152 prescrive che “nel corso del giudizio il giudice dispone, anche
d’ufficio, omettendo ogni formalità non necessaria al contraddittorio32, i mezzi di
prova, che ritiene necessari e può disporre la citazione di testimoni, anche senza formulazione di capitoli”.
Il comma in esame richiama, all’interno del rito individuato per la tutela della
28 La formula utilizzata dal legislatore delegato tende
evidentemente a restringere il tradizionale ambito di
emanazione dei provvedimenti cautelari, resi con
decreto, più ampio, infatti, appare il concetto di cautela
desumibile dalla lettura del coordianto disposto degli
articolo 669 sexies e 700 del codice di rito civile.
29 Sul punto vedi F. P. LUISO, Il processo del lavoro,
Torino 1992, p. 114.
30 Appare evidente che, nel caso di specie, non ci si riferisce
84
alla presenza fisica della parte, ma alla mancata presenza
del suo difensore.
31 Cfr., in dottrina: G. TARZIA, Manuale del processo
del lavoro, Milano 1999, p. 94. In giurisprudenza cfr.
Cass. 1 febbraio 1994, n. 989, in Foro It. 1994, I, c. 1389.
32 L’espressione appare mutuata dal dettato dell’articolo
669 sexies, primo comma, anche se utilizzata in un
contesto diverso, trattandosi, nel caso di specie, di un
giudizio a cognizione piena.
privacy, il potere d’ufficio del giudice di ammettere i mezzi di prova le cui fonti
siano, comunque, presenti negli atti delle parti e ciò senza il ricorso alle formalità
che non siano necessarie al rispetto del principio del contraddittorio.
Sul punto, la Corte Costituzionale, con una recente decisione33, ha avuto
modo di pronunciarsi ribadendo la legittimità costituzionale di un siffatto principio,
nell’ipotesi in cui si sia in presenza di un processo dispositivo, con preclusioni, da
svolgersi innanzi ad un giudice monocratico34.
Al riguardo, da tempo, la dottrina35 ha insegnato a distinguere, nel corretto
inquadramento del tema dell’onere della prova, tra fonti e mezzi di prova, nell’ambito del quale ultimo soltanto può intervenire il potere d’ufficio del giudice, mentre
le fonti di prova sono sempre e, comunque, regolate dalle parti del processo, rientrando pienamente nel potere dispositivo delle parti, cui viene fatto risalire l’onere
della prova.
Come ricordato in precedenza, anche nel processo dettato a tutela dei dati personali è stato inserito detto potere “officioso” del giudice, collegandolo ad esigenze
di particolare celerità di questo specifico processo (“senza il ricorso alle formalità
che non siano necessarie al rispetto del principio del contraddittorio”) ed alle peculiarità dei diritti protetti.
Resta il dubbio circa la possibilità di ammettere d’ufficio anche le prove precostituite. Va ricordato, al riguardo, il contrasto normativo tra il dettato dell’articolo
421, secondo comma, c.p.c., che, apparentemente, non pone alcun limite ai mezzi di
prova ammissibili d’ufficio e quanto disposto dall’articolo 281 ter c.p.c., che limita
detta ammissibilità alle sole prove costituende. Il testo del dodicesimo comma dell’art. 152 sembrerebbe consentire l’ammissione di ogni mezzo di prova, poiché in
esso si fa riferimento, in modo generico, ai “mezzi di prova che si ritengono necessari”, non limitandosi alla sola prova testimoniale, ricordata, invece, in modo isolato, dalla sola seconda parte del comma in esame. Tale soluzione, basata sul solo elemento letterale, può agevolmente collocarsi nel contesto tracciato dalla dottrina36,
che ha inteso – nel corretto rispetto dell’onere della prova – distinguere tra fonti e
mezzi di prova: va, infatti, ricordato che, almeno in astratto, appare possibile riscontrare negli atti delle parti anche fonti di prove pre-costituite non prodotte, tempestivamente, dalle stesse parti nel giudizio37.
Invero, una interpretazione di tal genere appare coerente anche con la lettura
data da Autorevole dottrina38 al dettato dell’articolo 437 c.p.c. e del novellato arti33 Vedi l’ordinanza della Corte Costituzionale n. 69
del 14 marzo 2003, in Foro It. 2003, I, c. 1631, con nota
di C.M. CEA: L’art. 281 ter c.p.c. e il “non liquet” della
Corte Costituzionale. Sulla medesima sentenza vedi
anche le osservazioni di S. CHIARLONI, Poteri istruttori
d’ufficio del giudice civile, in Giur. It. 2003, I, c. 1330.
34 Sul punto vedi A. CARRATTA, Poteri istruttori del
tribunale in composizione monocratica, in Giur. It. 2000, I,
c. 663.
35 Vedi L. MONTESANO – R. VACCARELLA, Manuale di
diritto
processuale del lavoro, Napoli 1996, p. 188; L.
MONTESANO, La prova officiosa nel processo del lavoro,
coordinata all’oralità, alle preclusioni ed alle paritarie
difese, in Mass. Giur. lav. 1976, p. 437.
36 Vedi sul punto G.P. BALENA, Le preclusioni nel processo
di primo grado, in Giur. It. 1996, IV, c. 265.
37 Cfr. Cass. S.U. 13 gennaio 1997, n. 264, in Giur. It., 1998,
I, c. 1399.
38 Cfr. G. RUFFINI, La prova nel giudizio civile d’appello,
Padova 1997, p. 214; A. PROTO-PISANI, Appunti
sull’appello civile, in Foro It. 1994, V, c. 193.
85
RomanaDOTTRINA
temi
colo 345 c.p.c., relativo alla proposizione delle prove nel giudizio d’appello.
Pertanto, anche nel contesto di un processo dispositivo, retto dall’onere della prova,
sono ammissibili poteri d’ufficio del giudice, purché collocati nella corretta dinamica del limite che la domanda pone all’attività del giudice (sintetizzata dal brocardo
latino: narra mihi factum dabo tibi ius), anche per quanto riguarda la prova precostituita.
Va ricordato che, la fase decisoria del giudizio, puntualizzata dai commi decimo, undicesimo e dodicesimo dell’art. 152, è evidentemente modulata sul rito del
lavoro anche se, come detto, ad esso non si fa espresso richiamo ad opera del legislatore delegato, in merito alle eventuali note difensive, alla discussione della causa,
alla lettura del dispositivo, al termine dell’udienza di discussione, al deposito della
sentenza, unica variante è rappresentata dalla possibilità (ignota nel rito del lavoro)39
del deposito della sentenza nella sua interezza (dispositivo e parte motiva) al termine dell’udienza di discussione, ma tale diversità è di limitato rilievo e presumibilmente l’istituto troverà, nella pratica, scarsa applicazione.
Il comma dodicesimo chiarisce, altresì, che il giudice ordinario può decidere,
in deroga al divieto di annullamento dell’atto amministrativo, condannando al risarcimento del danno (anche nei confronti dell’Amministrazione) e disponendo circa le
spese del giudizio, anche a norma dell’art. 96 cpc.
Il profilo del risarcimento del danno nei confronti della pubblica
Amministrazione, potrebbe dar luogo ad alcune perplessità, sotto il profilo del riparto di giurisdizione; invero, alla luce del disposto dell’articolo 35 del decreto legislativo n. 80 del 1998, successivamente recepito all’interno della legge n. 205 del 2000
(art. 7, punto c) e pienamente “costituzionalizzato” dalla sentenza n. 204 del 2004
della Corte Costituzionale40 “competente” al riguardo è il giudice amministrativo.
Sul punto del risarcimento del danno, anche a seguito della decisione delle Sezioni
Unite civili della Corte di Cassazione n. 500 del 199941, è ancora in essere un evidente contrasto di indirizzi tra la Corte Costituzionale e la Suprema Corte, che, con
una recentissima sentenza42 ha ribadito, invece, la giurisdizione del giudice ordinario in materia di risarcimento del danno anche se detto danno è scaturente dalla
lesione di un interesse legittimo43.
Infine, il tredicesimo comma ha chiarito che la sentenza, resa dal giudice
monocratico, non è impugnabile in appello, ma può soltanto essere oggetto di ricorso per cassazione, per tutti i motivi previsti dall’articolo 360 cpc. Si è discusso sulla
legittimità costituzionale di siffatto principio, giungendo alla conclusione che tale
norma appare pienamente in linea con il dettato costituzionale, relativo alla tutela
40 Vedila in Giust. civ. 2004, I, p. , con nota di P. SANDULLI.
Sul punto vedi anche M. SANINO, Il nuovo riparto delle
giurisdizioni “voluto” dalla Corte Costituzionale, Roma,
2004.
41 Cfr. al riguardo la decisione in Foro It. 1999, I, c. 2487,
con note di A. PALMIERI e R. PARDOLESI. Sul tema vedi le
importanti riflessioni di A. PROTO PISANI, Intervento breve
per il superamento della giurisdizione amministrativa, in
Riv. dir. civ. 2000, p. 775.
86
42 Vedi la sentenza del 24 settembre 2004, n. 19200 delle
Sezioni Unite civili della Corte di Cassazione, in Diritto e
Giustizia 2004, n. 39, p. 30, con nota di R. PROIETTI.
43 In relazione al tema del risarcimento del danno
determinato dalla pubblica Amministrazione vedi G. P.
CIRILLO, Il danno da illegittimità dell’azione
amministrativa e il giudizio risarcitorio, Padova 2001, p.
307.
dei diritti, che prevede l’esistenza di (almeno) un grado di giudizio di merito, a
cognizione piena, in cui sia pienamente rispettato il contraddittorio, e il possibile
ricorso per cassazione, come è desumibile dalla lettura degli articoli 24 e 111 della
Carta costituzionale. Sul punto è evidente, peraltro, la diversità di tutela accordata
dalla presente normativa, rispetto al precedente testo dell’articolo 29 della legge n.
675 del 1996, su cui torneremo nei successivi paragrafi di questo studio.
Prima di chiudere queste brevi riflessioni sulla tutela ordinaria, accordata dal
legislatore delegato alla “privacy”, è opportuno operare alcune valutazioni relative
al ruolo del Garante nel giudizio di tutela ordinaria della riservatezza, il cui rito –
come ricordato - è ispirato, sia pure soltanto implicitamente, alla normativa (artt.
409 e seugenti c.p.c.), che regola il processo del lavoro.
Ricorda il settimo comma dell’articolo 152, del decreto legislativo n. 196 del
2003, che “il giudice fissa l’udienza di comparizione delle parti (si tratta, quindi, di
una unica udienza di comparizione e di trattazione, così come previsto all’articolo
420 c.p.c. e non di una duplice udienza come prevedono, invece, per il rito ordinario, gli articoli 180 e 183 c.p.c.) con decreto con il quale assegna al ricorrente il termine perentorio entro cui notificarlo alle altre parti ed al Garante”.
Il decreto di fissazione dell’udienza, unitamente al ricorso introduttivo del
giudizio, deve essere, dunque, notificato alle altre parti ed anche al Garante, che, dal
decreto legislativo n. 196 del 2003 non è considerato parte, o almeno non è parte per
ciò che concerne il giudizio istaurato immediatamente innanzi al giudice ordinario,
a quale fine, quindi è disposta la notifica al Garante?
Appare evidente che attraverso tale notificazione il Garante non acquista
comunque la qualità di parte, né la notifica dell’atto lo legittima ad intervenire in
giudizio; può ritenersi, dunque, che la notificazione dell’avvio del procedimento
giurisdizionale sia dovuta come pubblicità – notizia al fine di dare comunicazione
all’Autorità dell’istaurazione di un’azione innanzi al giudice ordinario, azione che
preclude, a norma del secondo comma dell’articolo 145 del codice, il ricorso al
Garante.
Considerazione che ne discende è che la mancata notificazione del decreto al
Garante (che come si è visto non è parte, né può diventarlo, nel processo) non comporta alcun vizio di natura processuale, non essendo a tale mancata comunicazione
applicabile alcuna sanzione discendente dalla violazione del termine, definito perentorio, previsto dal settimo comma dell’art. 152, sopra ricordato.
Del resto se, come si è visto, il procedimento partecipativo dell’esistenza di
una azione a tutela della riservatezza, proposta innanzi al giudice ordinario, è effettuato al solo fine di dare notizia dell’esistenza di una attività ostativa alla proposizione del ricorso agli uffici del Garante, interesse a tale “notizia” potrebbe avere
anche la parte (cioè il titolare del trattamento) effettivamente destinataria dell’azione, che ove rilevasse la mancata notificazione del decreto e del ricorso al Garante
potrebbe avere tutto l’interesse a realizzare essa stessa detta notificazione. Un ulteriore ipotesi di possibile lettura della prescrizione di notifica al Garante si potrebbe
avere limitatamente all’ipotesi, prevista dall’articolo 151 del d. lg. 196/03, di giudizio di opposizione al provvedimento reso dal Garante, giudizio nel quale il titolare
87
RomanaDOTTRINA
temi
del trattamento assumerebbe, invece, il ruolo di “controinteressato”, ruolo che nel
giudizio civile ordinario potremmo far coincidere con quello del litisconsorte necessario. Tale seconda ipotesi, però, non appare soddisfacente e risulterebbe contraria
alla lettura della norma poiché alla luce di tale lettura, dunque, per il giudizio ordinario, al Garante non dovrebbe essere fatta alcuna notifica del ricorso e dell’atto
introduttivo, ma ciò non è desumibile dal testo.
b) La tutela avverso i provvedimenti resi dal Garante.
Dal combinato disposto degli articoli 141 (forma di tutela), 145 (ricorsi) e 151
(opposizioni), del decreto legislativo n. 196 del 2003, emerge un sistema di tutela
giustiziale amministrativa, che offre la possibilità di adire il Garante mediante un
reclamo (art. 141, comma 1, lettera a), attraverso una segnalazione (art. 141, comma
1, lettera b) o in virtù di un ricorso (art. 141, comma 1, lettera c), ma solo questa ultima ipotesi è finalizzata alla tutela di un diritto ed opera in via alternativa all’azione
innanzi al giudice ordinario (art. 145, comma 2), anche se avverso i provvedimenti resi in sede di ricorso dal Garante è ammesso, in via di opposizione, un ricorso ai
sensi dell’articolo 152 del decreto in esame, così come prescrive il precedente articolo 151 del codice.
b1) il reclamo e la segnalazione.
Prima di affrontare l’analisi del ricorso, che costituisce – come detto – il
mezzo principe44 di tutela giustiziale offerta al cittadino per la difesa dei propri diritti in materia, è necessario esaminare, in estrema sintesi, gli altri due istituti dettati
dall’articolo 141 del Codice, vale a dire l’istituto del reclamo e quello della segnalazione, rispettivamente contenuti nelle lettere a) e b) dell’articolo in esame.
E’ importante ricordare, al riguardo, che mentre il ricorso trova quale legittimato attivo esclusivamente l’interessato, per queste due altre forme di tutela la legittimazione, a norma del secondo comma dell’art. 142, compete anche “alle associazioni che rappresentano l’interessato”, in base a quanto disposto anche dal dettato
del secondo comma dell’articolo 9, il quale prevede che “l’interessato può conferire, per iscritto, delega o procura a persone fisiche, enti, associazioni od organismi”.
Il reclamo e la segnalazione, pur avendo identica finalità, quella di attivare il
controllo del Garante, si caratterizzano in modo diverso in quanto il primo deve
essere sorretto da una dettagliata esposizione dei fatti e delle circostanze su cui si
fonda, nonché dall’indicazione delle disposizioni che si presumono violate. Se ne
deduce che esso presupponga la forma scritta, come è facile arguire della lettura dell’articolo 142, che prevede la sottoscrizione di esso, anche se manca una espressa
specificazione al riguardo45 nella normativa in esame.
Più generica e meno dettagliata è la segnalazione, per la quale può essere ipotizzata anche una semplice esposizione orale della fattispecie lamentata, meramen44 Vedi, su punto: G. RUGGERI, Commento all’art. 141,
in Codice della Privacy, a cura di AA.VV, Milano 2004,
tomo 2, p. 1768.
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45 Cfr, sul punto, G. RUGGERI, cit., p. 1769. Vedi, inoltre,
E. BASSOLI, Commento all’art. 141, in Codice in materia
di protezione dei dati personali, a cura di G. CASSANOS. FADDA, Milano 2004, p. 641
te sorretta da ipotetiche, non specificate, violazioni della normativa (art. 144).
Per entrambe le ipotesi il Codice della Privacy detta uno specifico analogo
procedimento, regolato dall’articolo 143, esso trova applicazione – come detto - sia
per i reclami, cui espressamente è riferito dalla rubrica, che per le segnalazioni, a
condizione che quest’ultime non si siano dimostrate palesemente infondate, tanto da
non dar luogo neppure all’avvio dell’istruttoria preliminare (art. 144, ultima parte).
Seguendo parzialmente le regole del giusto procedimento, il dettato dell’articolo 143 ipotizza alcuni provvedimenti che, in base all’urgenza ed all’entità della
violazione, il Garante è tenuto ad attuare, facendo salvo, quando possibile, il principio della partecipazione del titolare del trattamento, anche se al riguardo è necessario segnalare, in modo critico, l’eccessivo potere discrezionale assegnato al Garante
dal dettato del primo comma, lettera a), dell’articolo 143, che prescrive che il
Garante “può invitare il titolare, anche in contraddittorio con l’interessato, ad effettuare il blocco spontaneamente”, sarebbe stata auspicabile una maggior dose di vincolatività di tale norma, attraverso una più specifica indicazione delle circostanze
per le quali il Garante deve obbligatoriamente stimolare il contraddittorio tra le parti,
in ossequio al principio di partecipazione, previsto dall’art. 11 della legge n. 241 del
199046.
Va, però, ricordato che, ai fini del presente studio, ciò che si segnala di maggior interesse è il dettato del secondo comma dell’articolo 143, che prescrive che “i
provvedimenti di cui al primo comma (cioè: di adeguamento, di parziale limitazione o di divieto) sono pubblicati nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana, se
i relativi destinatari non sono facilmente identificabili per il numero o per la complessità di accertamenti”, altrimenti agli stessi va data diretta comunicazione.
Ne discende che entro 30 giorni dalla data di restituzione del provvedimento,
alle parti facilmente raggiungibili, o dalla data di pubblicazione sulla Gazzetta
Ufficiale, nei casi di interminatezza dei destinatari, è possibile l’impugnazione, a
norma dell’articolo 152, al giudice ordinario, come si desume dalla lettura del quarto comma di quell’articolo , il quale prescrive che se il ricorso è proposto avverso
un provvedimento reso a norma dell’articolo 143, tale ricorso va proposto –come
detto - entro il termine perentorio di trenta giorni dalla pubblicazione del procedimento o dalla data del rigetto tacito (rectius: silenzio) del Garante, a pena di inammissibilità, quest’ultima sancita con un’ordinanza che può essere ricorribile per
Cassazione47, come prescrive l’ultima parte dell’art. 152.
Dal dettato del quarto comma dell’art. 152, infine si deduce che vengono
regolati nella identica maniera il giudizio di opposizione al provvedimento reso nel
procedimento proposto al Garante con il ricorso, a norma dell’art. 145 del Codice,
nonché l’impugnazione al provvedimento reso dal Garante, a norma dell’art. 143, in
un procedimento attivato da un reclamo o da una segnalazione.
Alla luce di quanto sopra, sia pure a seguito di uno schematico esame degli
46 Vedi al riguardo: T. DI NITTO, La partecipazione
al procedimento amministrativo, in Riv. trim. dir. pubbl.
1999, p. 731.
47 Cfr. G. RUGGERI, Commento all’art. 152, in Codice della
Privacy, cit., p. 1943.
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RomanaDOTTRINA
temi
istituti del reclamo e della segnalazione, è possibile affermare la loro rilevanza sotto
il profilo della tutela, in quanto da tali differenti fasi di impulso derivano provvedimenti giustiziali del Garante assoggettati in sede di opposizione al controllo giurisdizionale del giudice ordinario, in base alla procedura dettata dall’articolo 152 del
Codice della privacy.
b2) il ricorso.
Il coordinato disposto dagli articoli 141, lettera c) e 145 consente di individuare i caratteri essenziali dell’istituto del ricorso al Garante, così come teorizzato
dal decreto legislativo n. 196 del 200348.
I successivi articoli, che vanno dal 146 al 151 del Codice della privacy, dettano, invece, le regole che presiedono al procedimento azionato con il ricorso e che
regolamentano la eventuale fase di opposizione al provvedimento reso dal Garante,
innanzi al giudice ordinario.
Pertanto, prima di affrontare l’analisi delle varie fasi del procedimento e dei
rapporti tra il procedimento giustiziale, che si svolge innanzi al Garante, e della successiva, eventuale, fase di controllo giurisdizionale, posta in essere davanti al giudice ordinario, è necessario soffermarsi, in breve, sulla natura del procedimento che si
svolge innanzi al Garante.
Si è già ricordato, in precedenza, come l’attività del Garante, pur incidendo su
diritti soggettivi, integra esclusivamente una fattispecie di carattere amministrativo,
di natura giustiziale, che non può, in alcun modo, essere considerata quale attività
giurisdizionale49, ma essa implica una mera regolamentazione autoritativa relativa
alle modalità della raccolta e del trattamento dei dati personali, in modo da esercitare un corretto bilanciamento tra le due contrapposte esigenze50 insorgenti dalle
norme del Codice sulla privacy: quella della possibilità di accedere ai dati personali dell’interessato, per effettuarne il trattamento secondo le regole e le modalità del
codice; e quella di tutelare la riservatezza dei dati ai quali non può essere consentito alcun accesso, al di fuori delle ipotesi regolamentate dalle norme del Codice e per
le finalità esclusive da esso previste51.
L’articolo 146 del Codice della privacy inserisce una condizione di procedibilità rispetto al ricorso al Garante, costituita dall’interpello preventivo.
Detto interpello sostituisce l’ipotesi contenuta nella legge n. 675 del 1996, che
aveva previsto - al secondo comma dell’articolo 29 - che il ricorso al Garante poteva essere proposto solo dopo che fossero trascorsi 5 giorni dalla richiesta operata sul
“medesimo oggetto”, quindi con le stesse finalità, al responsabile del trattamento.
L’istituto, pur dando luogo ad un filtro all’azione non poteva essere accostato
48 Sul punto vedi F. GARRI, Commento all’art. 145
in Codice della Privacy, cit., tomo II, p. 1796.
49 Vedi sul punto, M. CUNIBERTI, Autorità indipendenti
e libertà costituzionali, in Amministrare 2000, p. 103. In
tale scritto si fa ampio e diffuso riferimento all’attività
“paragiurisdizionale” delle autorità indipendenti.
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50 Cfr. V. ITALIA, Il sistema dell’accesso ai documenti,
in Privacy e accesso a documenti amministrativi, a cura di
V. ITALIA – M. DELLA TORRE – G. PERULLI – A.
ZUCCHETTI, Milano 1999, p. 43.
51 Sul punto vedi P. VIRGA, La tutela giurisdizionale nei
confronti della pubblica Amministrazione, Milano 1982,
p. 57.
ad “una sorta di tentativo di conciliazione”52, piuttosto per la sua evidente finalità di
evitare l’insorgere di una vertenza innanzi al Garante su di una richiesta che il
responsabile era pronto ad accogliere, appariva modulato sullo “spatium deliberandi” previsto dall’art. 22 della legge n. 990 del 1969, in materia di assicurazione
obbligatoria di veicoli e natanti53.
L’intervento operato dal legislatore delegato del 2003 dà luogo ad una migliore e più ampia regolamentazione della condizione di ammissibilità del procedimento giustiziale; chiarisce, infatti, efficacemente l’art. 148 che il mancato rispetto
“delle disposizione di cui agli articoli 145 e 146” produce l’inammissibilità del
ricorso54. Detta inammissibilità non preclude, però, la possibilità di riproporre il
ricorso dopo avere esperito la procedura dell’interpello.
Tra le altre regole previste dal legislatore delegato vi sono i casi in cui la procedura di interpello è esclusa nell’ipotesi di “un pregiudizio imminente ed irreparabile” (art. 146, comma 1) e la circostanza che in caso di risposta di segno negativo
o di mancato riscontro nel termine di 15 (comma 2) o di 30 giorni (comma 3) l’interessato può utilmente adire il Garante.
Appare evidente che aver voluto, più efficacemente, regolamentare la procedura d’interpello, ha palesi finalità deflative derivanti dalla volontà di facilitare il
dialogo tra l’interessato ed il responsabile del trattamento, ma ciò non autorizza, in
ogni caso, a considerare detta procedura di natura conciliativa.
Alla luce del dettato del successivo articolo 147 è chiaro che gli elementi che
debbono essere contenuti nel ricorso proposto al Garante sono gli stessi che sono
stati oggetto della procedura d’interpello e ciò anche per consentire al Garante di
verificare che ci si trovi in presenza del “medesimo oggetto” ai fini dell’ammissibilità del ricorso (art. 148).
Gli elementi del ricorso richiesti a norma dell’art. 147 consentono di verificare che, anche in questo procedimento giustiziale, trova applicazione il principio dispositivo in virtù del quale incombe alla parte istante circostanziare il tema del decidere e supportare l’onere della prova rispetto alle istanze formulate; analogamente
in questo procedimento emerge il principio dell’equidistanza del decidente, in un
corretto rispetto della partecipazione, rispetto alle parti litiganti nel procedimento
medesimo. Tutte tali circostanza, analoghe a quelle del processo civile, non determinano, ne lo potrebbero, in base alla normativa costituzionale, una mutazione
52 Vedi, sul punto, F. GARRI, Commento all’art. 146
del Codice della privacy, cit., p. 1822 e p. 1838; M.
GRANIERI, Il sistema della tutela dei diritti nella legge
675/1996, in Diritto alla riservatezza e circolazione dei
dati personali, a cura di R. PARDOLESI, Milano 2003, vol.
II, p. 477. Invero,nel caso di specie, non può parlarsi di
cocniliazione trattandosi esclusivamente di una attività
che coinvolge le sole due parti della vertenza non
esistendo alcun soggetto in funzione di autorevole
compositore.
53 Questa seconda ipotesi appare più calzata in quanto
anche nella normativa sull’assicurazione obbligatoria si
prevede un lasso di tempo per operare una valutazione
che porti le parti litiganti ad una soluzione transattiva
della vertenza. Sul punto vedi anche la decisione della
Corte Costituzionale del primo marzo 1973, n. 24, in
Giust. Civ. 1973, III, p. 125, che ha ritenuto che detta
norma non viola l’articolo 24 della Costituzione, in
quanto, sotto il profilo della ragionevolezza essa mira ad
evitare che l’immediato esercizio dell’azione giudiziaria si
risolve in un pregiudizio di preminenti esigenze di
interesse sociale, quale quello di evitare lo stesso
insorgere della lire in virtù del pagamento spontaneo
della società di assicurazione.
54 La “giurisprudenza” degli atti del garante, basata
sul testo del secondo comma della legge n. 675 del 1996,
è al riguardo univoca.Vedi, sul punto, L. PECORA-G.
STAGLIANO’, Massimario 1997-2001, cit., p. 241.
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RomanaDOTTRINA
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genetica del procedimento verso il processo, come qualche Autore ha sostenuto55,
ma implicano soltanto la corretta applicazione degli elementi del “giusto procedimento”.
Nel procedimento giustiziale per la tutela dei dati personali il ricorrente può
sostenere le sue ragioni personalmente oppure farsi assistere da un avvocato, cui
conferisce procura a norma dell’art. 83 c.p.c.
Trattandosi di un procedimento amministrativo finalizzato alla tutela dei
diritti il legislatore delegato ha opportunamente “processualizzato” tale procedimento dettando specifiche norme, più dettagliate di quanto non era stato fatto dalla
precedente regolamentazione, ampliando, in tale contesto, anche i poteri del
Garante ed aumentando le garanzie partecipative delle parti, con particolare e specifico riguardo al principio del contraddittorio ed ai temi della legittimazione attiva e passiva, nonché della rappresentanza nel procedimento.
Particolari attenzioni sono state dedicate anche alla informatizzazione del
procedimento ed all’utilizzo della firma digitale56 che costituiscono, anche per ciò
che riguarda il processo civile, elementi di utile ed evidente accelerazione dei
tempi, a condizione che gli stessi siano correttamente modulati nel rispetto delle
garanzie previste dalla Costituzione per la tutela delle situazioni giuridiche protette.
Specifica attenzione è stata dedicata al decreto legislativo n. 196 del 2003 ai
casi di inammissibilità del ricorso che l’articolo 148 del Codice elenca partitamente individuando i vizi della legittimazione, della corretta proposizione del ricorso
rispetto all’elemento prodromico dell’interpello ed agli elementi essenziali del
ricorso, ricordati dall’articolo 147, nei commi 1 e 2.
Infine, il secondo comma dell’articolo 148 consente al Garante di determinare i casi in cui il ricorso può essere regolarizzato, precisando che in tali ipotesi il
ricorso esplica i suoi effetti solo dal momento della sua riconduzione a norma dello
stesso, ciò sia per ciò che concerne il decorso dei termini, che per quanto riguarda
gli adempimenti previsti dal primo comma dell’art. 14957.
A detta di taluni Autori58 è sembrato eccessivo il ricorso a norme di carattere processuale mutuate dal codice di rito civile. Tale critica non appare condivisibile per due evidenti ordini di ragioni.
55 Cfr. G. STAGLIANO’, Commento all’art. 147, in Codice
della Privacy, a cura di AA.VV., Milano 2004. tomo II, p.
1842.
56 Cfr. G. STAGLIANO’, Commento all’art. 147, cit., p. 1862.
Più ampiamente, in tema di informatizzazione della
giustizia, vedi F. BUFFA, Il processo civile telematico, Milano
2002, p. 217. Al riguardo è necessario ricordare che il
Decreto del Ministero della Giustizia del 14 ottobre 2004 (in
supplemento ordinario alla Gazzetta Ufficiale del 19
novembre 2004, n. 272) ha dettato le regole tecnico –
operativa per l’uso di strumenti informatici e telematici nel
processo civile, dando così attuazione al disposto del
decreto del Presidente della Repubblica del 13 febbraio
2001, n. 123.
57 Vedi, sul punto: L. PECORA, Commento all’art. 149,
92
in Codice della Privacy, cit., tomo II, p. 1876.
58 Vedi al riguardo S. MAZZAMUTO, Brevi note in tema
di mezzi di tutela e di riparto di giurisdizione nella attività
di trattamento di dati personali, in Foro It. 1998, V, c. 53. Al
riguardo vedi le stimolanti note di V. DENTI (La tutela della
riservatezza: profili processuali, in Riv. trim. dir. proc. civ.
1998, p. 747) il quale, però, perviene a conclusioni non
pienamente condivisibili ed in parte smentite dagli articoli
del Codice della privacy, che ha inteso riportare nell’alveo di
un unico rito le vicende processuali sia quando siano
azionate in via diretta o stimolata a seguito di
un’opposizione ad un provvedimento del Garante.
In tal modo si è inteso recuperare pienamente la funzione
amministrativa delle attività del Garante, individuando,
quindi, un unico rito per la tutela della riservatezza innanzi
al giudice ordinario.
Da una parte appare logico il ricorso a detta norma trattandosi di un esercizio, sia pure operato in sede giustiziale amministrativa, relativo alla regolamentazione di diritti soggettivi, alcuni di natura personalissima è bene che siano estese il
più possibile le garanzie del contraddittorio; dall’altra perché un approfondita analisi delle contrapposte posizioni delle parti, nel corretto rispetto del principio di partecipazione e delle regole che garantiscono il contraddittorio, comporta anche una
maggiore chiarezza nel decidere ed essa può determinare l’acquiescenza ai risultati del procedimento, evitando il giudizio di opposizione, innanzi al giudice ordinario (art. 152), incrementando, ad un tempo, l’autorevolezza dei provvedimenti resi
dal Garante59, comunque finalizzati alla necessità di individuare regole generali di
interesse pubblico60, che se autorevolmente rese acquistano maggior peso ambito
dell’ordinamento61 ed agli occhi dei destinatari.
b3) Il giudizio di opposizione.
Ponendo fine alla duplicità di tutela sussistente in precedenza (in base al dettato dell’articolo 29 della legge n. 675/96), tra il rito ordinario ed il rito camerale,
per le norme sulla riservatezza, venendo (parzialmente) incontro ad esigenze da
tempo espresse da Autorevole dottrina62, il legislatore delegato del 2003 ha individuato il giudizio di opposizione ai provvedimenti resi dal Garante, in base al dettato dell’articolo 151 del decreto legislativo numero 196 del 2003, rinviando, per la
sua regolamentazione, alle norme dettate per il giudizio innanzi al giudice ordinario e previste dall’art. 15263, dando, così vita ad un’unica procedura giurisdizionale per l’analisi dei diritti derivanti dalla riservatezza innanzi al giudice ordinario.
Invero, l’articolo 151 del Codice prevede che “avverso il provvedimento
espresso o il rigetto tacito di cui all’art. 150, comma 2, il titolare o l’interessato possono proporre opposizione, con ricorso, ai sensi dell’articolo 152. L’opposizione
non sospende l’esecuzione del provvedimento.
Il tribunale provvede nei modi di cui all’art. 152”.
Va ricordato, inoltre, che il ricorso all’autorità giudiziaria ordinaria è dato
anche nei confronti dei provvedimenti emessi dal Garante adito con reclamo o con
segnalazione, a norma dell’articolo 143 del Codice, come è agevolmente desumibile dal dettato del quarto comma dell’articolo 152.
Come viene ricordato sia dal primo comma dell’art. 151, che dal quinto
comma dell’art. 152 del Codice la proposizione del ricorso non sorprende la ese59 Cfr. L. PECORA, Commento all’art. 149, cit., p. 1879,
in particolare la nota n. 10.
60 Vedi, sul punto: C. MALINCONICO, Le funzioni
amministrative delle autorità indipendenti, in I garanti
delle regole, a cura di S. CASSESE-C. FRANCHINI, Bologna
1996, p. 48.
61 Va, infine, considerato che l’esigenza di maggiore
chiarezza delle norme procedimentali deriva anche
dall’esigenza di dar corpo alle perplessità avanzate dalla
“giurisprudenza” del Garante, in tema di regole del
procedimento e di individuazione delle parti. Vedi, al
riguardo, la decisione del Garante del 22 ottobre 2002, in
Bollettino 2002, n. 32 p. 72.
62 Già da tempo Andrea Proto Pisani
(La tutela giurisdizionale dei diritti della personalità,
strumenti e tecniche di tutela, in Foro It. 1990, V, c. 3)
auspicava la individuazione di un rito speciale unitario,
dedicato alla tutela dei diritti alla riservatezza. Sullo stesso
punto vedi anche del medesimo Autore: Note su profili
processuali di una proposta di legge sulle c.d. banche dati
ad elaborazione elettronica, in Dir. e giur. 1983, p. 841.
63 Vedi, sul punto, il precedente paragrafo 3 a).
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RomanaDOTTRINA
temi
cutorietà del provvedimento reso dal Garante, anche se il giudice ordinario è munito di potere inibitorio e può “se ricorrono gravi motivi” sentite le parti64, disporre
la sospensione totale o parziale del provvedimento reso dal Garante “con ordinanza impugnabile unitamente alla decisione che definisce il grado di giudizio”.
Pertanto, a norma del tredicesimo comma dell’art. 152 la decisione sulla inibitoria è impugnabile esclusivamente con ricorso innanzi alla Cassazione. La formulazione appare infelice, meglio sarebbe stato chiarire che gli effetti dell’inibitoria si permagono sino alla decisione del giudizio che, se favorevole al ricorrente
determina il venir meno dell’atto impugnato e se disegno negativo per questi determina il recupero dell’attività dell’atto del Garante, svincolando così la Cassazione
da un compito per essa al quale non è chiamata dal codice di rito. A meno che il
legislatore non abbia voluto intendere con la sua incerta norma la necessità del
ricorso al dettato dell’art. 373 c.p.c. da azionarsi davanti al Tribunale.
Invero, pur individuandosi - nell’ambito dell’ordinamento - uno specifico
precedente normativo dettato dal testo dell’art. 22 della legge del 24 novembre
1981, n. 689, in materia di sospensione degli effetti a seguito di opposizione dell’ordinanza – ingiunzione, sospensione che intervenie con provvedimento ricorribile solo per Cassazione, come ricorda l’articolo 23 della legge n. 689 del 1981,
non può non suscitare perplessità la previsione di un “reclamo” alla Suprema Corte
i cui poteri appaiono assai limitati al riguardo65.
Il reclamo (rectius: gravame) è evidentemente accordato contro il provvedimento di segno positivo, mentre quello negativo deve considerarsi reiterabile a
condizione che si modifichino le situazioni di fatto, che danno luogo all’insorgere
di ulteriori (diversi) “gravi motivi”. Analogamente, è ipotizzabile che l’istanza di
inibizione possa essere presentata in ogni fase del giudizio di opposizione e non
necessariamente unitamente al ricorso proposto avverso il provvedimento del
Garante.
Il sesto comma dell’articolo 152 detta una specifica misura di natura cautelare offerta al giudice ordinario, è da ritenere, però, che detta misura cautelare non
si applichi ai provvedimenti del Garante, per i quali è soltanto prescritta l’eventuale ordinanza inibitoria. A ben considerare la tematica in esame, lo spazio per la concessione di una misura cautelare lo si trova invece nell’ambito dell’art. 150, che, al
primo comma, consente al Garante, “se la particolarità del caso lo richiede”, di disporre il blocco, totale o parziale, dei dati, “ovvero l’immediata sospensione di una
o più operazioni del trattamento”. Il provvedimento cautelare del Garante può
essere “impugnato” (rectius: reclamato) con il medesimo ricorso con il quale si
propone l’opposizione al provvedimento “nel merito” della medesima Autorità. Pur
non essendo, al riguardo, chiarissima la normativa dettata dal decreto legislativo n.
196/03, è da ritenere che avverso il “provvedimento cautelare del Garante”, se con64 Sentite le parti in quanto, correttamente, il giudice ordinario
prima di concedere l’inibitoria dovrà vagliare il duplice
pregiudizio che incombe su di esse quello in capo
all’interessato a seguito della mancata sospensione del
trattamento e quello del responsabile se il trattamento viene
sospeso.
94
E’ chiaro alla luce del richiamo alle “parti” che le parti di
questo giudizio sono le stesse parti sostanziali che si
contrapponevano nel procedimento giustiziale innanzi al
garante; il quale, quindi, non deve essere sentito.
65 Vedi, sul punto, il paragrafo successivo.
fermato all’atto della decisione definitiva dello stesso, possono essere attuate le
misure cautelari previste dal sesto comma dell’art. 152 del Codice sulla privacy.
Passando all’esame del merito del ricorso in opposizione, avverso un provvedimento del Garante, tacito (vedi art. 152, primo comma “mancata adozione”) o
espresso che sia, è necessario richiamare l’importante modifica intervenuta con il
decreto legislativo n. 196 del 2003, che unifica la tutela in materia, in precedenza
per il giudizio avverso il provvedimento reso dal Garante era – come si è detto –
esclusivamente previsto un giudizio camerale di natura sommaria, della costituzionalità del quale non poteva che dubitarsi, mentre per le azioni proposte direttamente al giudice ordinario veniva previsto un giudizio civile ordinario a cognizione piena. A seguito delle modifiche relative alla tutela, entrate in vigore il primo
gennaio del 2004 le garanzie processuali accordate, sia per opposizione al provvedimento del Garante (art. 151), che dall’azione diretta innanzi al giudice ordinario
(art. 152), sono le stesse ed anche i poteri del giudice adito in base all’una o all’altra procedura, sono identici.
Invero, il giudizio previsto, per entrambi i casi, implica una cognizione
piena, retta da un rito ispirato a quello del lavoro, come si è visto al paragrafo 3a)
del presente studio, certamente improntato alla pienezza della tutela, nel rispetto
dei parametri costituzionali del “giusto processo”, dettati dagli articoli 3, 24 e 111
della nostra Carta costituzionale.
Appare superata, in tal modo, anche la “moda” “dell’eccessivo abnorme
ricorso alla procedura camerale, nella sua trasmigrazione dal settore della giurisdizione volontaria al settore della giurisdizione contenziosa, con particolare riferimento alle ipotesi in cui la gestione di interessi è destinata ad incidere su diritti a
contenuto e funzione non patrimoniale”66.
In sostanza il legislatore delegato sembra dare torto a chi si mostrava rassegnato a questo stato di cose finendo col giustificare il sistema così sviluppatosi fino
a sostenere che “in questa linea evolutiva si giustificano sia l’adozione delle procedure camerali per il giudizio di opposizione, sia la previsione del ricorso per cassazione come unico rimedio avverso l’opposizione stessa”67; dando ragione a chi
non aveva voluto rassegnarsi ed abbassare la guardia della tutela costituzionalmente garantita, evitando di sacrificarla sugli altari dei disservizi della giustizia68.
Invero, in considerazione delle due esigenze, garantite dalla Costituzione,
della pienezza del contraddittorio e della ragionevole durata del giudizio il legislatore delegato, più efficacemente del precedente, ha individuato un nuovo rito idoneo a contemperare le sopraricordate esigenze. In questo quadro è comprensibile
anche l’utilizzo di un giudizio che si svolga in un unico grado di merito, purchè –
come nel caso di specie – a cognizione piena, che omesso l’appello, dia luogo ad
una sentenza ricorribile solo innanzi alla Corte di Cassazione; ciò poichè, la garanzia processuale del processo su diritti, prevede – come è noto – esclusivamente un
66 Vedi, sul punto: V. DENTI, La tutela della riservatezza: profili
processuali, cit. , p. 751.
67 Cfr. V. DENTI, op. ult. cit., p. 751.
68 Vedi, per tutti: L. LANFRANCHI, “Pregiudizi illuministici”
e “giusto processo” civile, in Giusto Processo Civile e
procedimenti decisori sommari, a cura dello stesso Autore,
Torino 2001, p. 49.
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grado di giudizio a cognizione piena e la possibilità, sancita dell’attuale settimo
comma del novellato articolo 111 della Costituzione69, del ricorso per cassazione.
4. – Considerazioni conclusive.
Il profilo più rilevante di modifiche apportato dalla normativa dettata dal
Codice sulla privacy, in tema di tutela, è quello di avere individuato un rito unitario per il giudizio a garanzia della riservatezza innanzi al giudice ordinario. Un rito,
come più volte ricordato, ispirato a quello dettato dalla legge numero 533 del 1973
per il processo del lavoro, nel quale viene garantita una tutela piena, rispettosa del
principio del contraddittorio e della terzietà del giudice, sia per le azioni proposte
direttamente all’autorità giudiziaria ordinaria, che per quelle che provengono al
giudice togato a seguito di una opposizione70 promossa nei confronti di un provvedimento emesso dal Garante.
Pur essendo stata abbandonata, in tal modo, la tentazione originaria71 di voler
assegnare all’Autorità indipendente, per la tutela della riservatezza, funzioni “paragiurisdizionali”, che legittimavano, secondo alcuni, un intervento soltanto sommario del giudice ordinario, attuato nei modi e con le forme del procedimento in
Camera di consiglio, è da ricordare che non sussiste, ad una prima analisi, una
piena identità tra i due giudizi (quello diretto e quello di opposizione), che – pur
giovandosi delle identiche norme processuali – presentano notevoli diversità sotto
il profilo dei soggetti (rectius: delle parti) che in essi sono presenti.
a) Nel giudizio civile ordinario, proposto direttamente con ricorso dall’interessato,
unico legittimato attivo all’azione, le parti del processo sono appunto l’interessato
ed il titolare del trattamento, mentre l’oggetto del giudizio è costituito dall’analisi
del comportamento attuato dal responsabile del trattamento in merito ai dati dell’interessato, mentre la finalità del giudizio è quella di ordinare la rimozione, sempre che se ne dimostri l’illiceità, del trattamento medesimo.
Detto giudizio, che vede completamente assente il Garante72, è finalizzato
all’accertamento del comportamento illecito del responsabile del trattamento ed
alla sua condanna alla rimozione degli effetti di tale illecito comportamento, attraverso la cancellazione del dato illegittimamente trattato, nonché al risarcimento dei
danni eventualmente provocati, sempre che gli stessi siano stati richiesti (art. 152,
69 Cfr. la modifica dell’articolo 111 della Costituzione,
intervenuta con la legge costituzionale n. 2 del 23
novembre 1999. In dottrina vedi A. PROTO PISANI, Il
nuovo artt. 111 Cost. e il giusto processo civile, in Foro it.
2000, V, c. 3.
70 VITTORIO DENTI (in Tutela della riservatezza: profili
processuali, cit., p. 750) ricorda che “l’opposizione, come
modello generale di tutela, presuppone l’esistenza di un
procedimento giurisdizionale, nell’ambito del quale si
inserisce, allo scopo di provocare il contraddittorio su
diritti delle parti o dei terzi. Nel nostro caso, invece,
l’opposizione costituisce sostanzialmente una
impugnazione del provvedimento del Garante”. Tale
puntualizzazione è certamente opportuna anche se non
si possono condividere le conseguenze che l’autorevole
Maestro, né fa scaturire in favore della legittimità della
96
procedura camerale, conseguenza oggi smentita
dall’attuale stesura del Codice della privacy.
71 Sul punto, è necessario richiamare quanto ricordato
nel procedente paragrafo 2 b) ed in particolare nella
nota n. 21.
72 Alla luce del dettato dell’articolo 105 del codice
di procedura civile, che trova applicazione, in base al
richiamo dell’articolo 419 cp.c., anche in un rito analogo
a quello del lavoro, non sembra ipotizzabile neppure un
intervento del Garante in questo processo, anche se al
Garante, a norma del dettato del comma settimo
dell’art. 152 del Codice, deve essere stato notificato il
ricorso introduttivo del giudizio ed il decreto del giudice
ordinario di fissazione dell’udienza. Al riguardo vedi
quanto ricordato, in precedenza, nel paragrafo 3 a).
comma 12, del Codice della privacy) ed alla decisione sulle spese del giudizio,
anche sulla base del dettato dell’articolo 96 del codice di rito civile.
b) Il giudizio promosso in opposizione al provvedimento reso dal Garante,
pur con le stesse modalità processuali, assume, invece, uno schema procedimentale diverso. In esso l’oggetto dell’analisi, da parte del giudice ordinario, sembra essere il provvedimento reso dal Garante, di conseguenza le parti
di questo giudizio sono l’interessato (o il responsabile del trattamento, a
seconda del contenuto dell’atto del Garante) e lo stesso Garante, che ha reso
l’atto che si presume viziato, nei cui confronti si appuntano le doglianze della
difesa dell’attore.
Dalla dinamica di questo processo appare evidente che l’attore (rectius:
ricorrente in opposizione) è sempre costituito da una parte privata, mentre il convenuto (rectius: resistente) è sempre il Garante che ha emesso il provvedimento,
che si presume viziato, del quale si chiede, appunto, la rimozione.
Alla luce di quanto sopra, appare evidente che l’oggetto del giudizio sembra
essere – come detto – l’accertamento della esistenza di eventuali vizi nell’atto del
Garante e la finalità di esso è la sua rimozione e la (eventuale) sostituzione – ad
opera del giudice ordinario e senza i limiti dettati dall’articolo 4 della legge abolitrice del contenzioso amministrativo (L. 2248/1865, all. E) - del provvedimento
opposto.
In questo giudizio il responsabile del trattamento (o l’interessato) assumono
un ruolo assai simile a quello – proprio del processo amministrativo – di controinteressato (art. 21 L. n. 1034 del 1971)73.
Al “controinteressato”, come ricordato dall’articolo 152 del Codice, nel settimo comma, deve necessariamente essere notificato il ricorso introduttivo ed il
decreto del giudice, ma non è chiaro, dalla sola lettura del Codice quale ruolo processuale esso assuma, a seguito di tale notifica, nel processo di opposizione.
E’ ipotizzabile che essendo – analogamente a quanto accade per il processo
amministrativo, in base al dettato delle legge numero 205 del 2000 – il controinteressato una parte “essenziale” del processo ad esso competano i poteri propri del
litisconsorte necessario, ex articolo 102 c.p.c. e quindi vengano ad esso attribuiti
tutti i poteri (nessuno escluso) del convenuto in giudizio.
Pur nella diversità dell’oggetto del giudizio e nella differente “composizione” delle parti nei processi, sopra ricordati, è necessario verificare, in concreto, se
sussiste, in concreto, una “differenza sostanziale” tra i due giudizi.
Mentre per la natura “ontologica” del giudizio instaurato esclusivamente dall’interessato, con azione diretta, non può darsi alcuno specifico dubbio interpretativo trovandoci in presenza di un processo di cognizione piena, retto dal principio
dispositivo ed assoggettato al principio di eventualità in parte mitigata dal “potere
officioso” del giudice monocratico (art. 152, comma 9) competente al riguardo, dif73 Cfr. A. DE ROBERTO – P. M. TONINI, I ricorsi amministrativi,
Milano 1984, p. 159; V. CAIANIELLO, Lineamenti del processo
amministrativo, Torino 1979, p. 278, il quale afferma che “la
presenza nel rapporto processuale da istaurarsi di
controinteressati realizza un’ipotesi di litisconsorzio necessario”,
con tutto ciò che comporta tale considerazione sotto il profilo
dei poteri del controinteressato.
97
RomanaDOTTRINA
temi
ferente è l’indagine che deve essere svolta in merito al giudizio di opposizione.
Al riguardo, si è già ricordato, l’oggetto di tale giudizio è costituito dall’esame delle doglianze promosse dal ricorrente (che nel caso di specie può essere tanto
l’interessato, quanto il titolare del trattamento, a seconda del tenore del provvedimento del Garante) avverso la determinazione resa dall’Autorità di garanzia della
riservatezza.
Detto giudizio, apparentemente, è analogo al giudizio amministrativo di
annullamento di un atto (amministrativo) viziato. Esso, cioè, sembrerebbe esser
finalizzato alla ricerca dei vizi “classici”74 dell’atto amministrativo: incompetenza,
eccesso di potere, violazione di legge; accertata l’esistenza di uno di essi dovrebbe
procedersi all’annullamento dell’atto impugnato (rectius: opposto). Siffatta analisi
appare, però, riduttiva e non pienamente soddisfacente, non può, infatti, essere
dimenticato che, alla luce dell’atto emesso dal Garante (opposto innanzi al giudice
ordinario), vi è sempre e comunque un diritto soggettivo personalissimo dell’interessato; l’atto del Garante, quindi, è, in ultima analisi, finalizzato alla tutela di
detto diritto.
Da questa prima considerazione né discende una seconda che, in materia di
tutela dei diritti soggettivi, non può operare il principio di legalità dell’azione
amministrativa, di conseguenza l’azione del giudice, anche in questo tipo di giudizio di opposizione, non può limitarsi ad accertare l’esistenza di un “vizio” dell’atto impugnato, ma deve risalire alla analisi della effettiva tutela del diritto vantato
ad accertare, in concreto, idoneità del provvedimento reso dal Garante a garantire
la pienezza della richiesta tutela. Pertanto, il giudizio di opposizione, a prescindere da chi lo ha azionato (interessato o responsabile del procedimento), deve necessariamente “trasformarsi” in un giudizio di accertamento, con la conseguente condanna alla rimozione del comportamento pregiudizievole.
Depone in favore di questa tesi l’abolizione del divieto di annullamento dell’atto amministrativo viziato, contenuto nel comma dodicesimo dell’articolo 152
del Codice della privacy, che implica la consapevolezza del legislatore delegato
dell’insufficienza della sola “disapplicazione” dell’atto impugnato, nonché dalla
necessità di individuare misure idonee all’effettiva tutela del diritto azionato, a
seguito di un giudizio di cognizione piena, che determini l’accertamento del diritto e la eventuale rimozione del comportamento lesivo di tale diritto.
In questa ottica anche la paventata diversità tra il giudizio instaurato con
azione diretta e quello di opposizione può dirsi superata dalla ricerca effettiva del
dato ontologico dei due giudizi.
Del resto, ad ulteriore prova di tale unità ontologica, depone anche il riferimento, contenuto nell’articolo 145, secondo comma, del Codice della privacy, al
“medesimo oggetto” il che, necessariamente, comporta una parità, almeno potenziale, degli accertamenti processuali che scaturiscono dalle due procedure considerate in situazione di alternanza tra loro, per le quali, peraltro, il legislatore non pone
Vedi, sul punto: A.M. SANDULLI, Il giudizio davanti al Consiglio di
Stato, Napoli 1963, p. 54.
98
in essere alcuna diversità in relazione alla funzione degli strumenti processuali, che
sono gli stessi sia che il giudizio è stato istaurato con ricorso diretto, sia che ci si
trovi in presenza di un giudizio di opposizione ad un provvedimento del Garante.
99
RomanaDOTTRINA
temi
Avv.
Alessandro
COLAVOLPE
La disciplina
delle crisi delle banche
e delle società del
gruppo bancario: sintesi
delle mofìdifiche
apportate al testo unico
bancario dal d.lgs 6
febbraio 2004 n. 37
Sommario
1. Considerazioni di carattere generale. - 2. L’amministrazione straordinaria. 3. La liquidazione coatta amministrativa. - 4. I sistemi di garanzia dei depositanti. 5. Le società del gruppo bancario.
1 - Considerazioni di carattere generale.
ista la legge 3 ottobre 2001 n. 366, concernente la delega al Governo per la
riforma del diritto societario e, in particolare, l’art. 1, commi 2 e 5», il
Decreto Legislativo 6 febbraio 2004 n. 37 (di seguito, «D. Lgs. n. 37/2004») non
reca soltanto la «correzione» di alcune disposizioni contenute nei Decreti Legislativi
17 gennaio 2003 n. 5 e n. 6, ma dà avvio alla realizzazione del coordinamento della
Riforma delle società di capitali e delle società cooperative con le normative riservate agli intermediari finanziari bancari e non bancari ed alle società quotate, contenute nel D. Lgs. 1° settembre 1993 n. 385 e successive modificazioni («Testo Unico
delle leggi in materia bancaria e creditizia») (di seguito indicato con l’acronimo
«T.U.B.») e nel Decreto Legislativo 24 febbraio 1998 n. 58 e successive modificazioni (c.d. «Testo Unico della Finanza»), coordinamento che, a vero dire, deve essere completato1.
Infatti, ai termini del comma 3 dell’art. 5, della Legge 3 ottobre 2001 n. 366,
i principi generali che ispirano la riforma della disciplina delle società cooperative di
cui al Titolo V del codice civile, enunciati sia nell’art. 2 della medesima Legge sia
nel comma 1 dello stesso art. 5, non riguardano le banche popolari, le banche di credito cooperativo e gli istituti della cooperazione bancaria in genere, «(…) ai quali
continuano ad applicarsi le norme vigenti, salva l’emanazione di norme di mero
coordinamento che non incidano su profili di carattere sostanziale della relativa
disciplina».
«V
1 Sul punto, in dottrina, cfr. già: M. Sepe, Nuovo diritto
societario e partecipazioni al capitale delle banche, in F.
Capriglione (a cura di), Nuovo diritto societario ed
100
intermediazione bancaria e finanziaria, Padova, 2003, 85; A.
Bartalena, Le nuove tipologie di strumenti finanziari, in
Banca Borsa Titoli di Credito, 2004, I, 305 ss
Ancora, l’art. 223-terdecies disp. att. cod. civ., introdotto con la lett. b) del
comma 2 dell’art. 9 Decreto Legislativo 17 gennaio 2003 n. 6 (di seguito, «D. Lgs.
n. 6/2003»), (I) al comma 2, dispone, in tema di banche popolari e di banche di credito cooperativo, che «(…) continuano ad applicarsi le norme vigenti alla data di
entrata in vigore della legge n. 366 del 2001» (II) al comma 1, con riferimento alle
sole «banche di credito cooperativo che rispettino le norme delle leggi speciali» – in
primo luogo, le norme contenute nell’art. 35 T.U.B. - stabilisce l’appartenenza delle
medesime alla categoria delle «cooperative a mutualità prevalente». Non possono,
tuttavia, essere passate sotto silenzio le difficoltà che la scelta operata dal legislatore solleva tanto sul piano interpretativo quanto sul piano applicativo2.
L’obiettivo «dichiarato» è quello di «cercare di garantire il massimo grado di
applicabilità della riforma del codice alle società bancarie ed a quelle quotate», onde
«offrire anche a queste imprese la possibilità di sfruttare appieno le potenzialità di
sviluppo e di incremento della competitività ha inteso mettere a disposizione del
mercato, attraverso la riduzione delle complessità e la maggiore duttilità delle forme
societarie»: ciò, beninteso, nel rispetto delle «ragioni della peculiare disciplina che
governa le società bancarie e le società quotate, disciplina che, oltre ad avere storicamente giustificato un trattamento speciale, ha disegnato un sistema di controlli e
di garanzie la cui peculiarità e funzionalità va indubbiamente preservata»3.
Anche con riferimento allo specifico ambito della disciplina delle crisi bancarie, il D. Lgs. n. 37/2004 – il cui art. 2 («Norme di coordinamento con il testo
unico bancario») inserisce, dopo l’art. 9 del D. Lgs. n. 6/2003, un insieme di articoli che in prosieguo di discorso saranno riportati, per esigenze di comodità espositiva, senza ulteriori indicazioni – ha introdotto indubbi elementi di novità, la cui
portata, peraltro, è da tale da non comportare una modificazione sensibile – ma non
per questo poco significativa - del quadro generale della materia disegnato dal
T.U.B..
In questa sede, mi limiterò a compiere una sintetica ricognizione delle innovazioni apportate dalla Novella, senza peraltro tener conto delle vicende normative che, in subjecta materia, sono intervenute successivamente all’entrata in vigore
del T.U.B.4.
2 - L’amministrazione straordinaria.
Per quel che riguarda l’amministrazione straordinaria, le modificazioni attengono al provvedimento di apertura della procedura, agli organi della procedura ed alla
gestione provvisoria.
Quanto al provvedimento di apertura della procedura ora in considerazione,
l’art. 9.21 ha modificato il comma 7 dell’art. 70 T.U.B. sotto un triplice profilo e cioè:
2 Per una rassegna dei profili essenziali della problematica
enunciata nel testo, cfr. M. Condemi, L’esclusione
dalla riforma societaria delle banche costituite
in forma cooperativa: questioni interpretative
e prospettive di intervento, in F. Capriglione (a cura di),
Nuovo diritto societario ed intermediazione bancaria e
finanziaria cit., 218 ss..
3 Così la Relazione Governativa allo schema di d. lgs.
(indicata nelle note successive con l’espressione
«Relazione Governativa»), reperibile nel sito web
ww.ipsoa.it/Isonline.
4 Mi riferisco al D. Lgs. 23 luglio 1996 n. 415 (il c.d.
Decreto Eurosim) ed al D. Lgs. 4 agosto 1999 n. 342.
101
RomanaDOTTRINA
temi
(I) con il riferimento ai diversi soggetti che, nella prospettiva della Riforma del
diritto societario recentemente entrata in vigore, possono svolgere «funzioni
di amministrazione»5.
In verità, nella formulazione originaria del secondo periodo del comma 7 dell’art. 70 T.U.B., si fa riferimento al «fondato sospetto di gravi irregolarità nell’adempimento dei doveri degli amministratori e dei sindaci di banche»6, laddove nel nuovo testo si evoca il «fondato sospetto che i soggetti con funzione di amministrazione, in violazione dei propri doveri, abbiano compiuto
gravi irregolarità (…) che possono arrecare danno (…)»7. La modifica non ha
carattere meramente formale.
Innanzitutto, si trova affermato il principio secondo cui l’eventualità che possano sussistere «gravi irregolarità» da parte degli «amministratori» – sia consentito di utilizzare, almeno per il momento, questa espressione non in linea
con quella utilizzata nella disposizione ora in considerazione – e non anche
da parte dei sindaci: si è così infranto il «fideistico» convincimento, cui era
ispirato anche l’art. 2409 (vecchio stile) cod. civ. circa l’inconcepibilità di
irregolarità amministrative non eliminabili da un collegio sindacale ed efficiente e, quindi, circa l’imprescindibile necessità che all’inadempimento
degli amministratori dovesse accompagnarsi un concorrente difetto nell’esercizio delle funzioni di controllo8.
In secondo luogo, le «gravi irregolarità», nel mentre nell’originaria formulazione della disposizione ora in considerazione erano riferite all’«adempimento dei doveri», ora vengono ricollegate - a giusta ragione, da un punto di vista
logico - alla «violazione dei doveri»9. Continua tuttavia a rimanere aperto il
problema se le irregolarità suscettibili di essere denunciate alla Banca d’Italia
dai soggetti legittimati possano riguardare anche questioni che non rientrino
nell’ambito degli interessi la cui cura è demandata all’Autorità di Vigilanza,
ma siano inerenti a vicende di tipo privatistico che attengano ai rapporti tra i
soci o tra questi ultimi e la società10. Non solo. Ma, a differenza che nel passato, non ogni condotta suscettibile di essere qualificata come irregolare è
idonea a costituire il fondamento di una denuncia alla Banca d’Italia, bensì
quella rispetto alla quale è richiesto il requisito del danno potenziale alla
banca ovvero, come avrò agio di evidenziare in prosieguo di discorso, «ad
una o più società controllate» dalla banca medesima.
Infine, l’utilizzazione della locuzione «i soggetti con funzione di amministrazione» in luogo dell’espressione «amministratori» sembra, a tutta prima,
5 Così la Relazione Governativa, sub art. 22.
6 È mio il corsivo utilizzato nel testo.
7 Anche in questo caso, è mio il corsivo
utilizzato nel testo.
8 Così G. Cavalli, Appunti sulle norme di coordinamento
in materia di disciplina delle crisi bancarie, in Dir. Banc., 2004,
n. 2, 68.
102
9 Cfr. S. De Vitis, Commento all’art. 2409 (nuovo stile) cod. civ.,
in M. Sandulli, V. Santoro (a cura di), La Riforma delle società.
Commentario al D. Lgs. 17 gennaio 2003 n. 6, vol. 2, tomo I
(Artt. 2325 -2422 cod. civ.), Torino, 2003, 607.
10 Sulla questione, cfr.: G. Boccuzzi, La crisi dell’impresa
bancaria. Profili economici e giuridici, Milano, 1998, 217 ss.;
F. Capriglione, Commento all’art.70 del T.U.F., in F. Capriglione,
Commentario al Testo Unico delle leggi in materia bancaria
e creditizia, Padova, 20012, tomo I, 543.
da ricollegare ai sistemi di amministrazione e di controllo delle società per
azioni introdotte dalla c.d. «Riforma Vietti»11, che, alternativi l’uno rispetto
agli altri, postulano una dizione più generica: il sistema «tradizionale», in cui
l’assemblea dei soci nomina un amministratore unico o un consiglio di
amministrazione, cui compete la gestione, ed un collegio sindacale, cui competono i controlli; il sistema «dualistico», nel quale l’assemblea dei soci
nomina un consiglio di sorveglianza, al quale sono affidati funzioni di controllo e funzioni che nel sistema «tradizionale» competono all’assemblea, il
quale nomina un consiglio di gestione, cui compete l’amministrazione; il
sistema «monistico», in cui l’assemblea dei soci nomina un consiglio di
amministrazione, cui è affidata la gestione e che al suo interno costituisce un
comitato per il controllo sulla gestione, al quale spetta la funzione di controllo12. Senza voler ampliare i confini del discorso fino a ricomprendere
un’analisi dei fattori di criticità degli ultimi due modelli di amministrazione
e controllo menzionati, caratterizzati da una «ibridazione» tra funzioni gestorie e funzioni di controllo13, nondimeno non può sottacersi che soprattutto nel
sistema monistico la commistione tra funzione gestoria e funzione di controllo risulta particolarmente accentuata, tanto da indurre a dubitare della
compatibilità di detto sistema con i principi di «sana e prudente gestione»14:
occorre, infatti, non dimenticare, tra l’altro, che i membri del comitato di
controllo, come si evince agevolmente dal comma 2 dell’art. 2409-octiesdecies cod. civ., sono amministratori.
Vi è, invero, un ulteriore profilo meritevole di attenzione. Come è noto, il
riferimento a chi svolge «funzioni di amministrazione, direzione e controllo», contenuto in varie disposizioni del T.U.B.15, appare preordinato all’esigenza di fugare, in via generale, i dubbi eventualmente collegati ad un particolare nomen iuris o a situazioni operative inusuali od anomale16, ma al contempo dà luogo ad incertezze, a motivo dell’ampia estensione concettuale.
Così, vien fatto di chiedersi se, in subiecta materia, nell’ipotesi in cui si ritenesse che il «sospetto di gravi irregolarità» incomba su soggetti sì in posizione direttiva ma non facenti parte dell’organo amministrativo, sia possibi11 Con la locuzione «Riforma Vietti» ci si intende riferire
a qual plesso normativo mediante il quale è stata data
attuazione alla modifica della disciplina societaria (esclusa
quella delle società di persone) contenuta nel codice civile,
plesso che consta della Legge 3 ottobre 2001 n. 366 («Delega
al governo per la riforma del diritto societario») e del D. Lgs.
17 gennaio 2003 n. 6 («Riforma organica della disciplina delle
società di capitali e società cooperative, in attuazione della
legge 3 ottobre 2001 n. 366»).
12 Così G.A. Rescio, Le società azionarie. Amministrazione
e controlli, in AA.VV., Diritto delle società di capitali [Manuale
breve], Milano, 2003, 128 s..
13 Così F. Vella, Il nuovo diritto societario e la governance
bancaria, in AA.VV., La riforma del diritto societario e le
banche. Nuovi modelli, nuovi strumenti: opportunità e
criticità, Roma, 2004, 158. Nel medesimo senso, cfr.: V.
Calandra Bonaura, I modelli di amministrazione e controllo
nella riforma del diritto societario, in Giur. comm., 2003, I, 556
ss; A. Portolano, Modelli di amministrazione e controllo,
regolazione di settore e «Nuovo Accordo di Basilea»,
in F. Capriglione (a cura di), Nuovo diritto societario ed
intermediazione bancaria e finanziaria cit.,127 ss..
14 Cfr. S. Fortunato, I controlli nella riforma delle società,
in Società, 2003, 318.
15 Vedansi, ad esempio: la lettera e) del comma 1 dell’art. 14;
il comma 1 dell’art. 26; il comma 1 dell’art. 109; i commi 1 e
2 dell’art. 136.
16 Cfr., tra gli altri, A. Pisani Massamormile, Commento all’art.
136 del T.U.F., in F. Capriglione, Commentario al Testo Unico
delle leggi in materia bancaria e creditizia cit., tomo II,
1052.
103
RomanaDOTTRINA
temi
le annettere rilevanza, ai fini della legittimazione ad esercitare la facoltà di
denuncia, alla sostituzione del richiamo al dato formale con il riferimento al
dato funzionale17;
(II) con l’ampliamento del novero dei destinatari della disposizione, tra i quali sono
ora comprese anche le società controllate dalla banca.
In relazione alla nozione di «controllo» che assume rilevanza ai fini che qui
ora interessano, è d’uopo fare riferimento all’art. 23 del T.U.B., così come
modificato dall’art. 9.918;
(III) con il richiamo ai nuovi criteri di legittimazione attiva alla denuncia sul
modello di quelli definiti dall’art. 2409 (nuovo stile) cod. cod., che peraltro
– giova sottolinearlo sulla scorta del comma 7 dell’art. 70 T.U.B. – non si
applica alle banche.
Orbene, con la Novella la facoltà di denuncia spetta «anche» all’«organo con
funzioni di controllo». Evocando i sistemi di amministrazione e di controllo
delle società per azioni introdotte dalla c.d. «Riforma Vietti» ai quali ho
poc’anzi fatto cenno, la facoltà in discorso può essere esercitata dal collegio
sindacale, dal consiglio di sorveglianza o dal comitato di controllo sulla
gestione a seconda che il sistema di amministrazione e di controllo adottato
sia, rispettivamente, quello «tradizionale», quello «dualistico» ovvero quello
«monastico».
Quanto ai soci, il comma 7 (vecchio stile) attribuiva la facoltà di denuncia
(solamente) ai «soci che rappresentano il ventesimo del capitale sociale
ovvero il cinquantesimo in caso di banche con azioni quotate in borsa», mentre il comma 7 (nuovo stile) fa riferimento ai «soci che il codice civile abilita a presentare denuncia al tribunale». Dunque, viene esplicitamente conferita legittimazione a coloro i quali sono abilitati alla denuncia dal codice civile – in concreto, dal comma 1 dell’art. 2409 cod. civ. - di talché legittimati a
«denunciare i fatti alla Banca d’Italia» sono i soci che rappresentano il decimo del capitale sociale ovvero, «nelle società che fanno ricorso al capitale di
rischio», il ventesimo del capitale sociale. A quest’ultimo riguardo, è d’uopo
17 Cfr. in senso affermativo, sia pur con qualche incertezza,
G. Cavalli, Appunti sulle norme di coordinamento in materia
di disciplina delle crisi bancarie cit., 69.
18 L’art. 23 (nuovo stile) T.U.B. recita così:
«1. Ai fini del presente capo il controllo sussiste, anche con
riferimento a soggetti diversi dalle società, nei casi previsti
dall’articolo 2359, commi primo e secondo, del codice civile.
«2. Il controllo si considera esistente nella forma
dell’influenza dominante, salvo prova contraria, allorché
ricorra una delle seguenti condizioni:
1) esistenza di un soggetto che, sulla base di accordi, ha
diritto di nominare o revocare la maggioranza degli
amministratori o del consiglio di sorveglianza ovvero
dispone da solo della maggioranza dei voti ai fini delle
deliberazioni relative alle materie di cui agli articoli 2364 e
2364-bis del codice civile;
2) possesso di partecipazioni idonee a consentire la nomina
o la revoca della maggioranza dei membri del consiglio
di amministrazione o del consiglio di sorveglianza;
104
3) sussistenza di rapporti, anche tra soci, di carattere
finanziario e organizzativo, idonei a conseguire
uno dei seguenti effetti: a) la trasmissione degli utili
o delle perdite; b) il coordinamento della gestione
dell’impresa con quella di altre imprese ai fini del
perseguimento di uno scopo comune; c) l’attribuzione
di poteri maggiori rispetto a quelli derivanti dalle
partecipazioni possedute; d) l’attribuzione a soggetti diversi
da quelli legittimati in base alla titolarità delle
partecipazioni, di poteri nella scelta degli amministratori
o dei componenti del consiglio di sorveglianza o dei
dirigenti delle imprese;
4) assoggettamento a comune direzione, in base
alla composizione degli organi amministrativi o per altri
concordanti elementi»
Per un commento circa gli elementi di novità apportati
all’art. 23 T.U.B. dal D. Lgs. n. 37/2004, sia consentito fare
rinvio a A. Colavolpe, Il decreto di coordinamento del Testo
unico bancario con la riforma: un primo commento,
in Società, 2004, 1035.
precisare che – a mente del comma 1 dell’art. 2325-bis cod. civ. – «(…) sono
società che fanno ricorso al capitale di rischio le società emittenti azioni quotate in mercati regolamentati o diffuse tra il pubblico in misura rilevante»19. Si
tratta, invero, di due subcategorie rispetto a ciascuna delle quali si pongono
delicate questioni che, in questa sede, possono essere solo accennate. Così, in
relazione alle «società quotate nei mercati regolamentati», non è punto chiaro
se ci si intenda riferire ai soli mercati regolamentati italiani od anche a quelli
«stranieri», comunitari e/o extracomunitari20. In ordine alle «società emittenti
azioni diffuse tra il pubblico in misura rilevante», ci deve richiamare innanzitutto all’art. 111-bis att. trans. cod civ.21 e, quindi, alla Delibera Consob n.
14372 del 23 dicembre 200322, che offre questa definizione:
«1. Sono emittenti azioni diffuse fra il pubblico in misura rilevante gli
emittenti italiani i quali, contestualmente:
a) abbiano azionisti diversi dai soci di controllo in numero superiore a 200 che
detengano complessivamente una percentuale di capitale sociale almeno pari al
5%;
b) non abbiano la possibilità di redigere il bilancio in forma abbreviata ai sensi
dell'art. 2435-bis, primo comma, del codice civile.
«2. I limiti di cui al comma precedente si considerano superati soltanto
se le azioni alternativamente:
● abbiano costituito oggetto di una sollecitazione all'investimento o corrispettivo di un'offerta pubblica di scambio;
● abbiano costituito oggetto di un collocamento, in qualsiasi forma realizzato,
anche rivolto a soli investitori professionali come definiti ai sensi dell'art. 100
del TUF;
● siano negoziate su sistemi di scambi organizzati con il consenso dell'emittente o del socio di controllo;
● siano emesse da banche e siano acquistate o sottoscritte presso le loro sedi o
dipendenze».
In relazione agli organi della procedura, occorre notare che continua ad essere
19 Per la ricostruzione della nozione di <<mercati
regolamentati>>, cfr. P. Marano, Mercati di capitali e
strumenti finanziari nel nuovo diritto societario, in S.
Bonfatti – G. Falcone (a cura di), Il rapporto bancaimpresa nel nuovo diritto societario, Milano, 2004, 95 ss..
20 Sul punto, cfr. G. Minervini, Commento all’art. 2325-bis
cod. civ., in M. Sandulli, V. Santoro (a cura di), La Riforma
delle società. Commentario al D. Lgs. 17 gennaio 2003 n.
6, vol. 2, tomo I (Artt. 2325 -2422 cod. civ.) cit., 17.
21 La disposizione richiamata nel testo recita così:
«La misura rilevante di cui all’articolo 2325-bis del codice
è quella stabilita a norma dell’articolo 116 del decreto
legislativo 24 febbraio 1998 n. 58, e risultante alla data
del 1° gennaio 2004 (…)». A sua volta, il comma 1
dell’art. 116 del D. Lgs. 24 febbraio 1998 n. 58, dopo
avere esteso l’applicabilità delle disposizioni in materia
di «Comunicazioni al pubblico>> e di «Comunicazioni
alla Consob», già previste per le società emittenti
strumenti finanziari quotati in mercati regolamentati,
«anche agli emittenti strumenti finanziari che, ancorché
non quotati in mercati regolamentati italiani, siano
diffusi tra il pubblico in misura rilevante», provvede,
tra l’altro, ad attribuire alla Consob il compito di stabilire
«con regolamento i criteri per l’individuazione
di tali emittenti».
22 La Delibera Consob citata e parzialmente riprodotta
nel testo è stata pubblicata nella G.U. n. 301 (serie
generale) del 30 dicembre 2003. Essa, inoltre, è
disponibile nel sito web www. consob.it. In dottrina, cfr.:
A. Paralupi, Le società con azioni diffuse, Roma, 2004, 47
ss.; P. Marano, Mercati di capitali e strumenti finanziari
nel nuovo diritto societario cit., 111 ss.; G.D. Mosco, Le
società con azioni diffuse tra il pubblico in misura
rilevante fra definizione, norme imperative e autonomia
privata. Uno scalino sbeccato, da riparare in fretta, in Riv.
soc., 2004, 863 ss.; P. Montalenti, La società quotata,
Padova, 2004, 50 ss..
105
RomanaDOTTRINA
temi
prevista la pubblicazione del provvedimento della Banca d’Italia e della delibera del
presidente del comitato di sorveglianza, mentre è stato abolito tanto l’obbligo di
procedere al deposito in copia sia dei documenti dianzi indicati sia delle firme autografe di commissari per l’iscrizione nel registro delle imprese quanto l’obbligo di
fare menzione dell’iscrizione nei Bollettini ufficiali delle società: ciò, per effetto dell’espunzione degli ultimi due periodi del comma 2 dell’art. 71 T.U.B., attuata con
l’art. 9.22 al fine di adeguare il disposto della norma alle nuove disposizioni in materia di pubblicità degli atti societari23.
I poteri e le funzioni degli organi straordinari, poi, sono stati rivisti in misura
alquanto significativa.
Innanzitutto, l’art. 9.23, riformulando il comma 1 dell’art. 72 T.U.B., enuncia
il principio secondo cui i commissari esercitano le funzioni e i poteri non già «dei
disciolti organi amministrativi», bensì «della banca», precisandosi quindi che i relativi atti non soggiacciono alle «disposizioni del codice civile, statutarie o convenzionali relative ai poteri di controllo dei titolari di partecipazioni». In questo modo,
da un lato, l’interpretazione proposta in passato dalla dottrina24, sia pur con diversità di accenti, secondo cui ai commissari sarebbero spettati esclusivamente i poteri
già assegnati agli organi amministrativi disciolti, può dirsi oramai positivamente
superata, dall’altro lato, viene chiarito che, nello svolgimento delle funzioni loro
attribuite, i commissari pongono in essere atti i quali non sono assoggettati agli ordinari poteri di controllo che i titolari delle partecipazioni possono esercitare nei confronti degli organi di amministrazione ordinari, «in quanto tali poteri sono incompatibili con l’attività dei commissari, rivolta alla tutela degli interessi generali (tutela dei depositanti, stabilità del sistema) che non si esauriscono in quelli riconducibili alla società, ai soci o a specifici finanziatori della stessa (…)»25.
In secondo luogo, nel caso in cui i soci decidano di proporre un’impugnativa
avverso le decisioni dei commissari, essi soci non possono chiedere al tribunale
adito la sospensione delle decisioni stesse: disposizione, questa, preordinata all’esigenza di garantire l’attività di interesse generale dei commissari.
In terzo luogo, l’innovazione contenuta nell’art. 9.23, che ha modificato il
comma 2 dell’art. 72 T.U.B., sembra tradurre in un testo legislativo quello che la
dottrina aveva «anticipato», vale a dire, l’idea che i compiti del comitato di sorveglianza fossero più ampi di quelli propri e tipici del normale organo di controllo
interno alle società, al quale, pertanto, non avrebbe potuto essere assimilato26. In
23 Il comma 2 dell’art. 71 T.U.B. conteneva, come
implicitamente si è accennato nel testo, la previsione
consistente nell’obbligo di far menzione,nei Bollettini ufficiali
delle società (BUSARL e BUSC), dell’iscrizione nel registro delle
imprese del provvedimento della Banca d’Italia e della
delibera del presidente del comitato di sorveglianza. Detta
previsione, però, non ha ricevuto poi attuazione, in quanto
l’art. 29 della L. 7 agosto 1997 n. 266 ha in generale
soppresso la pubblicazione di atti o fatti in tali bollettini.
24 Cfr.: G. Desiderio, Amministrazione straordinaria.
Poteri e funzionamento degli organi straordinari,
in P. Ferro-Luzzi, G. Castaldi, La nuova legge bancaria.
Il T.U. delle leggi sulla intermediazione bancaria e creditizia e
106
le disposizioni di attuazione. Commentario, Milano, 1996,
tomo II, 1159; G. Boccuzzi, La crisi dell’impresa bancaria.
Profili economici e giuridici cit., 180; R. Costi, L’ordinamento
bancario, Bologna, 20013, 717. Nel medesimo senso,
sia pur con alcune precisazioni, A. Nigro, Commento all’art. 72
del T.U.B., in F. Belli, G. Contento, A. Patroni Griffi,
M. Porzio, V. Santoro (a cura di), Testo Unico delle leggi
in materia bancaria e creditizia, Bologna-Roma, 2003,
1171 s..
25 Così la Relazione Governativa, sub art. 24.
26 Cfr. in tal senso A. Nigro, Commento all’art. 72 del T.U.B.
cit., 1180 s..
realtà, così non è. Infatti, l’assunto ora considerato mantiene la propria validità, in
quanto sia anteriormente che successivamente all’entrata in vigore del D. Lgs. n.
37/2004 al comitato di sorveglianza competeva, e continua a competere, anche fornire pareri «nei casi previsti dalla legge27 o dalle disposizioni della Banca d’Italia».
Piuttosto, la sostituzione alla dizione del comma 2 (vecchio stile) dell’art. 72 T.U.B.
– «il comitato di sorveglianza sostituisce in tutte le funzioni i disciolti organi di controllo (…)» – con quella contenuta nel comma 2 (nuovo stile) della disposizione da
ultimo richiamata – «il comitato di sorveglianza esercita le funzioni di controllo
(…)» – pone la delicata questione se, per effetto del generico rinvio all’esercizio
delle funzioni di controllo, l’organo straordinario su cui si ferma ora l’attenzione
debba intendersi investito delle competenze spettanti al collegio sindacale ovvero,
agli organi alternativi previsti nel sistema «dualistico» o «monistico», oltre a quelli
ai quali fa riferimento il T.U.B. od anche a quelle di controllo legale dei conti.
Considerazioni di indole sistematica farebbero propendere per la prima delle due
alternative or ora prospettate. Il comma 5-bis dell’art. 72 T.U.B., introdotto proprio
dalla Novella, statuisce che «nell’interesse della procedura i commissari, sentito il
comitato di sorveglianza, previa autorizzazione della Banca d’Italia, possono sostituire il soggetto incaricato del controllo contabile per la durata della procedura stessa». Questa disposizione non può non presupporre che il controllo legale dei conti
sia escluso dal novero delle competenze affidate al comitato di sorveglianza28.
In quarto luogo, dal tenore letterale del testo originario del comma 5 dell’art.
72 T.U.B. la dottrina riteneva non potesse desumersi che i commissari straordinari
non fossero competenti ad esercitare azioni dirette a far valere la responsabilità di
soggetti diversi dai componenti il consiglio di amministrazione ovvero il collegio
sindacale, quali, ad esempio, il direttore generale, bensì solo che tali azioni dovevano considerarsi sottratte all’autorizzazione dell’Autorità di Vigilanza29. La Novella,
invece, subordina all’anzidetta autorizzazione il promovimento, da parte dei commissari straordinari, dell’azione di responsabilità non soltanto nei confronti dei
«membri dei disciolti organi amministrativi e di controllo», ma altresì contro la
società di revisione e il direttore generale.
Infine, in ordine all’attribuzione del controllo contabile ad un revisore o ad
una società di revisione nel quadro del nuovo assetto delle società di capitali, ai
commissari viene attribuito, con il sopra riportato comma 5-bis dell’art. 72 T.U.B.,
il potere di sostituire la società di revisione per la durata della procedura.
Da ultimo, nell’ambito della gestione provvisoria, i poteri dei commissari
afferenti alla gestione della banca discendono dalla previsione di legge e non più da
quelli degli organi amministrativi, indipendentemente dalla qualificazione dell’or27 Si pensi alla prestazione di pareri, ad esempio, in materia di
azione di responsabilità nei confronti dei «membri dei disciolti
organi di controllo, a norma dell’art. 2393 del codice civile», ex
comma 5 dell’art. 72 T.U.B. e in materia di sospensione dei
pagamenti a mente del secondo periodo del comma 1 dell’art. 74
T.U.B..
28 Nel medesimo senso, cfr. G. Cavalli, Appunti sulle norme di
coordinamento in materia di disciplina delle crisi bancarie cit., 72.
29 Cfr.: G. Desiderio, Amministrazione straordinaria. Poteri e
funzionamento degli organi straordinari, cit., 1186; G. Boccuzzi,
La crisi dell’impresa bancaria. Profili economici e giuridici cit., 186;
F. Capriglione, Commento all’art. 72 del T.U.B., in F. Capriglione (a
cura di), Commentario al Testo Unico delle leggi in materia
bancaria e creditizia cit., 560.
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RomanaDOTTRINA
temi
gano cui detti poteri sono attribuiti nel sistema di gestione adottato dalla società.
3 - La liquidazione coatta amministrativa.
In tema di liquidazione coatta amministrativa, viene innanzitutto in considerazione la modifica che l’art. 9.26 apporta al comma 2 dell’art. 81 T.U.B.. Questa modifica è, per così dire, speculare a quella, già richiamata, dell’art. 9.22, di talché anche
in questo caso si è dinanzi ad un mero adeguamento della norma alle nuove disposizioni in tema di pubblicità degli atti societari.
L’art. 9.27 introduce variazioni alla disciplina dettata dall’art. 84 T.U.B. in
materia di poteri e di funzionamento degli organi liquidatori, mediante una trasposizione, all’interno dello stesso T.U.B., delle disposizioni sia dell’art. 2394-bis cod. civ.
sia dell’ultimo comma dell’art. 2497 cod. civ. così come modificate dalla «Riforma
Vietti». Di conseguenza, attualmente, viene attribuita al commissario la legittimazione a far valere non più soltanto le azioni di responsabilità spettanti sia alla società sia
ai creditori sociali nei confronti degli organi di amministrazione e di controllo e del
direttore generale30, ma altresì nei confronti della società od ente che esercita attività
di direzione e di coordinamento ai sensi del nuovo Capo IX del Titolo V del codice
civile, nonché – è questa una novità esposta solo nella versione definitiva del D. Lgs.
n. 37/2004 – a proporre azione contro il soggetto incaricato del controllo contabile o
della revisione, sempre che, beninteso, sia stato «sentito il comitato di sorveglianza»
e previa autorizzazione della Banca d’Italia.
In particolare, l’art. 2394-bis (nuovo stile) cod. civ. riconosce, in caso di fallimento e di liquidazione coatta amministrativa, la legittimazione del curatore e, rispettivamente, del commissario liquidatore all’esercizio, oltre che dell’azione di responsabilità dei creditori sociali, anche dell’azione sociale di responsabilità, con la conseguente esclusione, in pendenza del fallimento, della legittimazione straordinaria dei
soci ex art. 2393 cod. civ..
Poi, ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 2497 (nuovo stile) cod. civ., «nel caso
di fallimento, liquidazione coatta amministrativa e amministrazione straordinaria soggetta ad altrui direzione e coordinamento, l’azione spettante ai creditori di questa è
esercitata dal curatore o dal commissario liquidatore o dal commissario straordinario».
Infine, la disciplina riguardante sia gli adempimenti finali della procedura sia
l’esecuzione del concordato e la chiusura della procedura stessa viene semplicemente adeguata alla nuova procedura di liquidazione prevista dalla Riforma delle società.
30 Nel testo originario del comma 5 dell’art. 84 T.U.B.,
a vero, dire, non si faceva parola del direttore
generale, ma era convinzione pressoché unanime –
appoggiata sull’ art. 2396 cod. civ. e sul comma 2
dell’art. 146 R.D. 16 marzo 1942 n. 267 che sussistesse la legittimazione attiva dei commissari
liquidatori ad esercitare le azioni di responsabilità de
quibus anche nei confronti del direttore generale,
rimanendo soltanto incerto se dal silenzio della legge
dovesse ricavarsi che l’esercizio delle azioni di
responsabilità delle quali si tratta, da parte dei
108
commissari liquidatori di imprese bancarie, non fosse
soggetto ad alcun parere del comitato di sorveglianza
né ad alcuna autorizzazione della Banca d’Italia, oppure
se queste azioni potessero essere promosse alle stesse
condizioni stabilite dall’art. 84 T.U.B. per l’adozione di
analoghe iniziative nei confronti degli amministratori e
dei sindaci. Sul punto, cfr. S. Bonfatti, G. Falcone,
Commento all’art. 84 del T.U.B., in F. Belli, G. Contento,
A. Patroni Griffi, M. Porzio, V. Santoro (a cura di), Testo
Unico delle leggi in materia bancaria e creditizia cit.,
tomo II, 1379.
4 - I sistemi di garanzia dei depositanti.
Come è noto, ai sensi del primo e del terzo periodo del comma 1 dell’art. 96-bis
T.U.B., i sistemi di garanzia dei depositanti31 «effettuano i rimborsi nei casi di liquidazione coatta amministrativa delle banche autorizzate in Italia» - per tali intendendosi le
«banche italiane e le succursali in Italia di banche extracomunitarie»32 - e «possono
prevedere ulteriori casi e forme di intervento».
I commi 3 e 4 (sia vecchio che nuovo stile) del medesimo art. 96-bis T.U.B. definiscono sia in positivo che in negativo l’ambito oggettivo della tutela.
Sotto il primo profilo, si statuisce, in linea di principio, che «sono ammessi al
rimborso i crediti relativi ai fondi acquisiti dalle banche con obbligo di restituzione,
sotto forma di depositi o sotto altra forma, nonché agli assegni circolari e agli altri titoli ad essi assimilabili»33.
Sotto il secondo profilo, «sono esclusi dalla tutela:
a) i depositi e gli altri fondi rimborsabili al portatore;
b) le obbligazioni e i crediti derivanti da accettazioni, pagherò cambiari ed operazioni in titoli;
c) il capitale sociale, le riserve e gli altri elementi patrimoniali della banca;
d) i depositi derivanti da transazioni in relazioni alle quali sia intervenuta una
condanna per i reati previsti negli articoli 648-bis e 648-ter del codice penale;
e) i depositi delle amministrazioni dello Stato, degli enti regionali, provinciali,
comunali e degli altri enti pubblici territoriali;
f) i depositi effettuati da banche in nome e per conto proprio, nonché i crediti
delle stesse;
g) i depositi delle società finanziarie indicate nell’articolo 59, comma 1, lettera
b), delle compagnie di assicurazione; degli organismi di investimento collettivo
del risparmio; di altre società dello stesso gruppo bancario;
h) i depositi, anche effettuati per interposta persona, dei componenti gli organi
sociali e dell’alta direzione della banca o della capogruppo del gruppo bancario;
i) i depositi, anche effettuati per interposta persona, dei soci che detengano almeno il 5 per cento del capitale sociale della banca;
l) i depositi per i quali il depositante ha ottenuto dalla banca, a titolo individuale, tassi e condizioni che hanno concorso a deteriorare la situazione finanziaria
della banca, in base a quanto accertato dai commissari liquidatori».
In materia di interventi dei sistemi di garanzia, le modificazioni apportate dalla
31 I commi 1, 2, 3 e 4 dell’art. 96 T.U.B. prevedono,
rispettivamente:
«1. Le banche italiane aderiscono a uno dei sistemi di
garanzia dei depositanti istituiti e riconosciuti in Italia.
«2. Le succursali di banche comunitarie operanti in Italia
possono aderire ad un sistema di garanzia italiano al
fine di integrare la tutela offerta dal sistema di garanzia
dello Stato di appartenenza.
«3. Le succursali di banche extracomunitarie autorizzate
in Italia aderiscono ad un sistema di garanzia italiano,
salvo che partecipino a un sistema di garanzia estero
equivalente.
«4. I sistemi di garanzia hanno natura di diritto privato;
le risorse finanziarie per il perseguimento delle loro
finalità sono fornite dalle banche aderenti».
32 Vedasi la lettera d) del comma 2 dell’art. 1 T.U.B..
33 Sugli aspetti interpretativi della disposizione richiamata
nel testo, cfr. R. Cercone, Commento all’art. 96-bis del T.U.B., in
F. Capriglione (a cura di), Commentario al Testo Unico delle
leggi in materia bancaria e creditizia cit., tomo II, 763 s..
109
RomanaDOTTRINA
temi
Novella si traducono nell’ampliamento dello «spettro» delle fattispecie rispetto alle quali
è esclusa la tutela dei depositanti. In concreto:
(I) sono stati aggiunti, all’elenco contenuto nel sopra riportato comma 4 dell’art. 96-bis
T.U.B., gli «strumenti finanziari disciplinati dal codice civile», ossia, gli strumenti finanziari, partecipativi e non, previsti dalla «Riforma Vietti», «in analogia con
l’esclusione dei titoli di capitale e delle obbligazioni»34.
Con riferimento agli strumenti finanziari partecipativi diversi dalle azioni, mi
corre l’obbligo di richiamare il comma 6 dell’art. 2346 cod. civ., che recita così:
«Resta salva la possibilità che la società, a seguito dell’apporto da parte dei soci
o di terzi anche di opera o servizi, emetta strumenti finanziari forniti di diritti
patrimoniali o di diritti amministrativi, escluso il voto nell’assemblea generale
degli azionisti. In tal caso, lo statuto ne disciplina le modalità e condizioni di emissione, i diritti che conferiscono, le sanzioni in caso di inadempimento delle prestazioni e, se ammessa, la legge di circolazione». In buona sostanza, la società può
emettere altri strumenti finanziari, negoziabili o non negoziabili, diversi dalle
azioni, i quali (a) sono a fronte di un determinato apporto di danaro o di opere o
di servizi; (b) in via generale, si caratterizzano per il fatto di atteggiarsi come
forme miste di indebitamento al confine con le partecipazioni al capitale di
rischio35, dal contenuto variabile36; (c) attribuiscono ai loro possessori diritti
patrimoniali e diritti amministrativi, ma sono slegati da ogni rapporto con il capitale sociale37.
Su quali siano i confini che valgono a delimitare la categoria di questi nuovi strumenti finanziari vi è, allo stato, grande incertezza. Che essi concorrano a formare
una categoria concettuale diversa da quella delineata dal comma 2 dell’art. 1 del
D. Lgs. 24 febbraio 1998 n. 98 (il c.d. Testo Unico della Finanza)38 e non rappresentino la qualità di socio, non può essere revocato in dubbio. Tuttavia, la laconicità delle indicazioni normative è tale da indurre a ritenere che l’opinione, pur
autorevolmente sostenuta39- secondo cui detti strumenti finanziari esprimano la
posizione di associato in partecipazione della società, creditore di una partecipazione agli utili, con rischio di partecipazione alle perdite della società (nei limiti
dell’apporto eseguito) o solo di una partecipazione agli utili, con credito al rimborso dell’apporto o della qualità di creditore della somministrazione di determinati servizi della società - non permetta di esaurire la gamma delle possibilità che
concorrono a formare lo spazio entro cui può dispiegarsi l’autonomia negoziale
della società emittente: si è anzi osservato che la categoria degli strumenti finanziari ai quali fa riferimento il comma 6 dell’art. 2346 cod. civ. non esaurisca il
34 Così la Relazione Governativa, sub art. 31.
35 Cfr. A. Gambino, Verso la riforma della società
per azioni non quotata, in Riv. soc., 1998, 1585.
36 Cfr. U. Tombari, La nuova struttura finanziaria delle società
di capitali, nell’Allegato n. 1 alla rivista Il Fisco, n. 2 del 20
gennaio 2003, 16.
37 Cfr.: F. Corsi, La nuova s.p.a.: gli strumenti finanziari,
in Giur. comm., 2003, I, 419; N. Salanitro, Strumenti di
110
investimento finanziario e sistemi di tutela dei risparmiatori, in
Banca Borsa Titoli di Credito, 2004, I, 288.
38 Cfr. V. Santoro, Commento all’art. 2351 cod. civ., in M. Sandulli
– V. Santoro (a cura di), La riforma delle società. Società per
azioni. Società in accomandita per azioni, tomo I – artt. 2325 –
2422 cit., 152.
39 Cfr. F. Galgano, Il nuovo diritto societario, in Trattato di diritto
commerciale e di diritto pubblico dell’economia diretto da F.
Galgano, vol. XXIX, Padova, 2003, 135.
novero degli strumenti finanziari suscettibili di essere emessi dalle società per
azioni, di natura diversa dalle azioni e dalle obbligazioni, costituendo così un tertium genus che non chiude la porta alla creazione di ulteriori strumenti finanziari
«tipici», i quali vengono peraltro relegati in una posizione ancor più marginale e
residuale di quanto non sia avvenuto in passato40.
Per concludere sul punto, il fatto che, agli esclusivi fini dell’individuazione delle
fattispecie che non rientrano nel sistema di garanzia dei depositanti, gli strumenti
finanziari partecipativi diversi dalle azioni siano senz’altro assimilati ai conferimenti consente di sciogliere il dubbio che la posizione giuridica dei loro portatori possa ricondotta a quella di normali creditori, scorgendo negli apporti eseguiti
dei fondi acquisite dalle banche con obbligo di restituzione a mente del sopra
riportato comma 3 dell’art. 96-bis T.U.B.41.
Passando ora a considerare gli strumenti finanziari non partecipativi diversi dalle
obbligazioni, va rammentato che in virtù del comma 3 (nuovo stile) dell’art. 2411
cod. civ., la disciplina codicistica dettata in materia di obbligazioni «si applica
inoltre agli strumenti finanziari, comunque denominati, che condizionano i tempi
e l’entità del rimborso del capitale all’andamento economico della società»42. «In
applicazione di uno degli indirizzi generali della Riforma, l’arricchimento degli
strumenti di finanziamento dell’impresa» – si legge nella Relazione al decreto
legislativo recante riforma organica della disciplina delle società di capitali e
società cooperative, in attuazione della legge 3 ottobre 2001 n. 36643 – «l’art. 2411
dà espresso riconoscimento alla possibilità che il prestito obbligazionario assuma
profili di subordinazione, e possa partecipare, anche giuridicamente, al rischio di
impresa (…)», recependo così «l’esperienza estera diffusa e consolidata, e già
nota in Italia in settori specialistici, contribuendo (…) ad assottigliare la linea di
confine tra capitale di rischio e capitale di credito». Dunque, il tenore del comma
3 dell’art. 2411 cod. civ. riconosce il prestito subordinato come «categoria generale» del diritto societario, non più rilevante soltanto ai fini di ordinamenti settoriali, come quello bancario44. Per quel che qui specificamente ora interessa, per
converso, i commi 4-bis e 7 dell’art. 12 T.U.B. provvedono, rispettivamente, ad
estendere «l’applicabilità dell’articolo agli strumenti finanziari diversi dalle
40 Così M. Notari, Azioni e strumenti finanziari: confini della
fattispecie e profili di disciplina, in Atti del Forum sulla Riforma
del diritto societario, organizzato da Paradigma a Milano nei
giorni 10, 11, 12, 13 e 14 febbraio 2003, (dattiloscritto), 5 e poi
anche in Banca Borsa Titoli di Credito, 2003, I, 545.
41 Cfr. in tal senso G. Cavalli, Appunti sulle norme di coordinamento
in materia di disciplina delle crisi bancarie cit., 78.
42 Per alcuni spunti problematici, cfr. N. Salanitro, Strumenti di
investimento finanziario e sistemi di tutela dei risparmiatori cit.,
288 ss..
43 Vedasi il § 7. Il testo della Relazione ministeriale è reperibile in
www.ipsoa.it/lsonline .
44 Così M. Rispoli Farina, Commento all’art. 2411
(nuovo stile) cod. civ., in M. Sandulli, V. Santoro (a cura di), La
Riforma delle società cit., vol. 2, tomo I (Artt. 2325-2422 cod.
civ.), 770. Per una prima ricostruzione dei problemi
interpretativi posti dalla nuova disposizione codicistica, cfr. M.
Lamandini, Autonomia negoziale e vincoli di sistema nella
emissione di strumenti finanziari da parte delle società per
azioni e delle cooperative per azioni, in Banca Borsa Titoli di
Credito, 2003, I, 530 s.. Peraltro, per la tesi secondo cui il
comma 3 dell’art. 2411 cod. civ. «costituisca (…) una tipica
norma- rifugio, senza alcuna possibilità di concreta
applicazione, data l’eterogenità degli “oggetti” cui dovrebbe
applicarsi», cfr. V. Buonocore, Commento breve al decreto
legislativo 17 gennaio 2003 n. 6, recante la «Riforma organica
della disciplina delle società di capitali e società cooperative, in
attuazione della legge 3 ottobre 2001 n. 366», in Giur. comm.,
2004, Suppl. al n. 4, 17. Infine, sul problema dell’applicabilità o
meno agli strumenti finanziari di cui al comma 3 dell’art. 2411
cod. civ. dell’intera disciplina codicistica in materia di
obbligazioni o di una parte soltanto di essa, cfr. A. Pisani
Massamormile, Azioni ed altri strumenti finanziari partecipativi,
in Riv. soc., 2003, 1279 s..
111
RomanaDOTTRINA
temi
obbligazioni previsti dall’ultimo comma del novellato articolo 2411 del codice
civile (…)»45 e ad attribuire alla Banca d’Italia, «in conformità delle deliberazioni del CICR», il potere di disciplinare «l’emissione, da parte delle banche, di prestiti subordinati, irredimibili ovvero rimborsabili previa autorizzazione della medesima Banca d’Italia», di poi precisandosi che «tali emissioni possono avvenire anche sotto forma di obbligazioni o di titoli di deposito»46.
(II) viene sostituito, all’interno della lettera i) del sopra riportato comma 4 dell’art.
96-bis T.U.B., il riferimento al capitale sociale con quello di «partecipazione
rilevante».
Due delle modifiche apportate all’art. 1 T.U.B. con l’art. 9.1 sono fatte consistere nell’introduzione di definizioni – quelle di «partecipazioni» e di «partecipazioni rilevanti» – che vanno ad aggiungersi a quelle ricomprese nell’elenco contenuto nel comma 2 dell’art. 1 T.U.B. così come successivamente
modificato dall’art. 1 del D. Lgs. 4 agosto 1999 n. 333 e dalla lettera a) del
comma 1 dell’art. 55 della Legge 1° marzo 2002 n. 39.
In particolare, la nozione di «partecipazione», che in passato veniva ricondotta al «possesso, da parte di un soggetto, di azioni o quote di una banca»47,
viene oggi ancorata non già ad una frazione del capitale sociale, ma – avuto
riguardo all’introduzione di strumenti finanziari partecipativi diversi dalle
azioni, attuata col comma 6 dell’art. 2346 cod. civ. - al numero dei voti che
45 Così la Relazione Governativa, sub art. 4.
46 Con le Istruzioni di Vigilanza per le banche,
la Banca d’Italia opera una distinzione fra gli
«strumenti ibridi di patrimonializzazione» - «quali le
passività irredimibili e altri strumenti rimborsabili su
richiesta dell’emittente con il preventivo consenso della
Banca d’Italia>> - e le «passività subordinate».
Gli strumenti ibridi di patrimonializzazione «rientrano
nel calcolo del patrimonio della banca quando
il contratto prevede che: a) in caso di perdite di bilancio
che determinino una diminuzione del capitale versato
e delle riserve al di sotto del livello minimo di capitale
previsto per l’autorizzazione all’attività bancaria,
le somme rivenienti dalle suddette passività e dagli
interessi maturati possano essere utilizzate per far fronte
alle perdite, al fine di consentire all’ente emittente
di continuare l’attività; b) in caso di andamenti
negativi della gestione, possa essere sospeso il diritto
alla remunerazione nella misura necessaria a evitare
o limitare il più possibile l’insorgere di perdite;
c) in caso di liquidazione dell’ente emittente, il debito sia
rimborsato solo dopo che siano stati soddisfatti tutti
gli altri creditori non ugualmente subordinati».
Gli strumenti ibridi di patrimonializzazione non
irredimibili devono avere una clausola pari o superiore
a dieci anni.Le «passività subordinate» emesse
dalle banche concorrono alla formazione del patrimonio
di vigilanza «a condizione che i contratti che ne
regolano l’emissione prevedano espressamente che:
a) in caso di liquidazione dell’ente emittente, il debito
sia rimborsato solo dopo che siano stati soddisfatti tutti
gli altri creditori non ugualmente subordinati; b) la
durata del rapporto sia pari o superiore e cinque anni e,
qualora la scadenza sia indeterminata, sia previsto per il
112
rimborso un preavviso di almeno cinque anni; c) il
rimborso anticipato delle passività avvenga solo su
iniziativa dell’emittente e preveda il nulla osta della
Banca d’Italia>>. Inoltre, «i contratti non devono
presentare clausole in forza delle quali, in casi diversi da
quelli indicati ai punti a) e c), il debito diventa
rimborsabile prima della scadenza». In dottrina, cfr.: G.B.
Portale, «Prestiti subordinati» e prestiti irredimibili»
(appunti), in Banca Borsa Titoli di Credito, 1996, I, 1, ss;
M. Porzio, Commento all’art. 12 del T.U.B., in F. Belli, G.
Contento, A. Patroni Griffi, M. Porzio, V. Santoro (a cura
di), Testo Unico delle leggi in materia bancaria e
creditizia cit., tomo I, 228 ss.; S. Bonfatti, Prestiti da soci,
finanziamenti infragruppo e strumenti “ibridi” di
capitale, in S. Bonfatti – G. Falcone (a cura di), Il
rapporto banca-impresa nel nuovo diritto societario cit.
261 ss.; F. M. Frasca, Nuovo diritto societario e
intermediari bancari e finanziari, in F. Capriglione (a cura
di), Nuovo diritto societario ed intermediazione bancaria
e finanziaria cit., 276 s.. Sull’argomento, cfr. anche, sia
pur dallo specifico angolo visuale rappresentato dalla
disciplina in materia di sollecitazione agli investimenti,
M. Stella Richter Jr., Asimmetrie e inefficienze del
mercato italiano dei prodotti finanziari: il caso degli
“ibridi” bancari e assicurativi, in E. Rossi (a cura),
L’analisi economica del diritto: banche, società e mercati,
Bari, 2004, 119 ss..
47 La definizione riportata nel testo è quella offerta
dalla Banca d’Italia nella parte delle Istruzioni di Vigilanza
per le banche riguardante le «Partecipazioni al capitale delle
banche e delle società finanziarie capogruppo»
(Tit. II, Cap. 1, Sez. I, par. 3). In dottrina, cfr. M. Sepe,
Nuovo diritto societario e partecipazioni al capitale delle
banche cit. 90.
un soggetto può esercitare48.
Quanto alle «partecipazioni rilevanti», la norma non offre una definizione,
ma designa con un’unica espressione fattispecie individuate secondo differenti criteri. Si hanno pertanto, da una parte, «le partecipazioni che comportano il controllo della società», ossia una relazione che deve essere definita
sulla base della previsione contenuta nell’art. 23 T.U.B.49, dall’altra parte, le
«partecipazioni» la cui individuazione è rimessa alla Banca d’Italia «in conformità alle deliberazioni deliberazioni del CICR, con riguardo alle diverse
fattispecie disciplinate, tenendo conto dei diritti di voto e degli altri diritti che
consentono di influire sulla società». Ne deriva, in relazione a quest’ultima
fattispecie, che i poteri regolamentari e di controllo già previsti nei confronti di soci di una banca, di una società finanziaria capogruppo di gruppo bancario ovvero di un intermediario finanziario non bancario possono essere
esercitati anche nei confronti dei portatori di strumenti finanziari partecipativi diversi dalle azioni non imputabili al capitale sociale, i quali attribuiscano
diritti diversi dal diritto di voto o dei diritti comunque idonei ad influire sulla
società.
5 - Le società del gruppo bancario.
Volendo utilizzare la definizione offerta nel «Glossario Generale » contenuto nelle vigente Istruzioni di Vigilanza della Banca d’Italia per le banche, onde
inquadrare più agevolmente il significato e la portata delle novità introdotte dal D.
Lgs. n. 37/2004 in materia di crisi dei gruppi bancari, giova ricordare che per
«Gruppo bancario» si intende il gruppo bancario così come definito dall’art. 60 del
T.U., composto, alternativamente: a) dalla banca italiana capogruppo e dalle società bancarie, finanziarie e strumentali da questa controllate; b) dalla società finanziaria capogruppo e dalle società bancarie, finanziarie e strumentali da questa controllate, quando nell’ambito del gruppo abbia rilevanza la componente bancaria,
secondo quanto stabilito dalla Banca d’Italia, in conformità delle deliberazioni del
CICR».
Ciò posto, nella sua originaria formulazione, il comma 2 dell’art. 98 T.U.B.
stabiliva che «l’amministrazione straordinaria della capogruppo, oltre che nei casi
previsti dall’art. 70, può essere disposta quando:
a) risultino gravi inadempienze nell’esercizio dell’attività prevista dall’art. 61,
comma 4;
b) una delle società del gruppo bancario sia stata sottoposta alla procedura di fallimento, dell’amministrazione controllata, del concordato preventivo, della liquidazione coatta amministrativa, dell’amministrazione straordinaria, dell’art. 2409,
terzo comma, del codice civile ovvero ad altra analoga procedura prevista da leggi
speciali e possa essere alterato in modo grave l’equilibrio finanziario o gestionale
48 In dottrina, cfr. R. Costi, Riforma societaria e ordinamento
bancario, in AA.VV., La riforma del diritto societario e le
banche. Nuovi modelli, nuovi strumenti: opportunità e criticità
cit.,2004, 26.
49 Il testo dell’art. 23 T.U.B. si trova integralmente riportata,
nella vigente versione, nella precedente nt. (18).
113
del gruppo».
Con l’art. 9.31, la lettera b) della disposizione dianzi testualmente riportata è
stata così riformulata: «(…) una delle società del gruppo bancario sia stata sottoposta alla procedura di fallimento, dell’amministrazione controllata, del concordato preventivo, della liquidazione coatta amministrativa, dell’amministrazione straordinaria, ovvero ad altra analoga procedura prevista da leggi speciali, nonché quando sia stato nominato l’amministratore giudiziario secondo le disposizioni del codice civile in materia di denuncia al tribunale di gravi irregolarità nella gestione e
possa essere alterato in modo grave l’equilibrio finanziario o gestionale del gruppo».
Pertanto, si è provveduto a restringere la portata applicativa del comma 2 dell’art. 98 T.U.B., nel caso di sottoposizione di una società appartenente ad un gruppo
bancario al procedimento di cui all’art. 2409 cod. civ., alla sola ipotesi di avvenuta
nomina dell’amministratore giudiziario, «ritenuta unico elemento sintomatico della
sussistenza di gravi irregolarità non facilmente sanabili e tali da legittimare l’avvio
della procedura di amministrazione straordinaria»50. Ne discende che è venuta
meno, ai fini dell’applicazione della disposizione de qua, ogni rilevanza vuoi dell’adozione, da parte del tribunale, degli opportuni provvedimenti «provvisori» vuoi
della convocazione, sempre da parte del tribunale, dell’assemblea dei soci vuoi della
revoca degli amministratori «ed eventualmente anche» dei sindaci.
Correlativamente, è stato modificato, in tema di estensione della procedura di
amministrazione straordinaria alle società del gruppo bancario, in ipotesi di sottoposizione alla procedura della società capogruppo, il comma 2 dell’art. 100 T.U.B.,
il cui contenuto è stato adeguato al disposto del comma 2 (nuovo stile) dell’art. 98
T.U.B..
50 Così la Relazione Governativa, sub art. 32.
114
RomanaDOTTRINA
temi
Avv.
Mario RACCO
La sentenza Corte
Costituzionale 27 Luglio
2004 n.272 riafferma
la priorità del principio
dell’evidenza pubblica
come presupposto della
tutela della concorrenza
L
a sentenza della Corte Costituzionale n. 272/2004, al di là degli immediati effetti caducatori
sull’ordinamento vigente (vuoto normativo o semplice spostamento di riferimenti normativi?)
pone vari interessanti punti fermi.
Si è avuto un progressivo inserimento, negli ultimi decenni, dell’apporto privato nella
gestione dei servizi pubblici e, in questo contesto, si è affermato il modello della società mista.
La scelta del partner privato, tuttavia, ha fatto registrare una evoluzione dei principi ispiratori
che, inizialmente fondati essenzialmente sulla tutela dell’interesse pubblico alla individuazione
del miglior socio, hanno inquadrato tale interesse – pur sempre, ovviamente, presente – nel principio della tutela della concorrenza. Si è così pervenuti ad un bilanciamento dei valori da tutelare: da un lato la necessità di garantire la scelta oggettivamente più rispondente all’interesse pubblico concreto; da un altro lato quello di garantire il valore della concorrenza: in altri termini, di
realizzare situazioni soggettive di par condicio tra i privati imprenditori aspiranti al partenariato.
Una evoluzione, questa, che ha trovato puntuali riscontri nella giurisprudenza: la Corte di
Cassazione, sez., un., 29.10.1999, n. 754, nel ribadire i principio – già enunciato del Consiglio
di Stato, sez. V, 19.2.1998, n. 192 – secondo cui la scelta del socio privato deve essere effettuata mediante un procedimento amministrativo di natura concorsuale, ha sottolineato che l’affidamento di un servizio pubblico attraverso procedura ad evidenza pubblica risponde non tanto e
non solo all’esigenza di scegliere il miglior partner possibile, quanto all’intento di assicurare
l’accesso del partner privato alla posizione contrattuale di socio, garantendo il valore della concorrenza.
Sulla stessa via – ponendosi peraltro come fattore sollecitatorio – si è orientata la
Commissione Europea, sicché può ritenersi ormai un dato acquisito la generalizzata tendenza ad
estendere sempre di più il principio dell’evidenza pubblica, rispetto al quale l’affidamento diretto rischia di diventare l’eccezione, considerato che anche sui limiti di applicabilità di tale deroga (cioè l’affidamento diretto invece del metodo “ordinario” della procedura ad evidenza pubblica) sono emerse serie perplessità, che hanno ad esempio indotto il Consiglio di Stato (Sez. V,
ord. 22.4.2004, n. 2316), come meglio si vedrà appresso, ad investire del relativo quesito la Corte
di Giustizia della Commissione Europea.
Una inversione di tendenza
In qualche misura si tratta di una inversione di tendenza, dovuta probabilmente ad una
115
RomanaDOTTRINA
temi
avvertita esigenza di riequilibrio nella individuazione dei valori di interesse pubblico da tutelare.
La legge 142 del 1990 ha interpretato gli orientamenti diffusi nel campo socio-economico e politico, tendenti ad accreditare l’immagine di un privato capace, con le sue esperienze
imprenditoriali e capacità manageriali, di restituire ad un pubblico sclerotizzato e poco efficiente vitalità produttiva, efficacia ed economicità in particolare nel settore dei servizi pubblici. E
ciò non solo attraverso la partecipazione diretta di soggetti privati alla gestione, sotto varie
forme, di servizi pubblici, ma anche attraverso l’utilizzazione, da parte di soggetti pubblici, di
strumenti giuridici e procedimenti tipici del campo privatistico.
Ecco quindi la proliferazione delle società miste, prima – più cautamente – col vincolo di
maggioranza pubblica, poi anche con partecipazione pubblica minoritaria; ecco ancora le aziende speciali, evoluzione delle municipalizzate.
L’esperienza degli affidamenti in house
Questo approccio verso il privato ha anche portato, per una sorta di “contaminatio”,
anche ad una domanda diffusa di maggiore snellezza procedimentale negli affidamenti. Di qui
anche l’esperienza dei c.d. affidamenti “in house”, strutturati sulla base di moduli operativi nei
quali l’ente locale mantiene il controllo e il sostanziale potere di determinazione nei confronti
del soggetto affidatario, affidamenti diretti – senza gara – alternativi alle forme normali di pubblicità tipiche delle procedure ad evidenza pubblica.
La sentenza della Corte Costituzionale n. 272 del 27 luglio 2004 ribadisce i confini tra la
potestà legislativa regionale e quella statale, particolarmente nella materia di servizi privi di rilevanza economica, ma in via generale conferma che in tutti i casi in cui un servizio pubblico sia
caratterizzato da indici di imprenditorialità, di profitto e di impresa, in altre parole, i servizi a
rilevanza economica (prima industriale), non si può prescindere dal valore della concorrenza.
Questo, del resto, è anche il chiaro indirizzo della Corte di Giustizia Europea, che ha
indotto il legislatore italiano (e anche i giudici della Consulta sono su questa linea) a porre il tema
della tutela della concorrenza (e quindi della trasparenza) come parametro di riferimento per
l’individuazione delle procedure di affidamento. In particolare la Corte Costituzionale, allorché
ha giustificato la competenza statale a legiferare in materia di servizi pubblici locali a rilevanza
economica in ragione della tutela della concorrenza e non con riferimento alla determinazione
dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, né alle funzioni fondamentali degli EE.LL. ha, in buona sostanza, affermato un regime “commerciale” dei servizi pubblici locali (in quanto) di norma da riferire sul mercato. Del resto, questo concetto era stato formalizzato anche dalla legge finanziaria 2004 (art. 4, comma 234) che, introducendo un articolo
5 bis all’art. 113 del TUEL ha affermato il fine di superare gli assetti monopolistici per aprire al
mercato i servizi pubblici.
In questo contesto, la società mista resta, come prima, una ipotesi sicuramente percorribile nell’affidamento della erogazione dei servizi pubblici a rilevanza economica.
Gli effetti caducatori della pronuncia di illegittimità
Per quanto riguarda i servizi pubblici di rilevanza economica – e in particolare agli effetti della dichiarata illegittimità dell’art. 14, c. 2, del D.L. 269/2003 – secondo i giudici della
Consulta, la base per l’intervento legislativo dello Stato ex art. 117 Cost. non risiede nella “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti diritti civili e sociali” (comma 2,
116
lett. m), estranea alla tipologia di tali servizi, né nella individuazione delle funzioni proprie e
indefettibili dell’ente locale (comma 2, lett. p), ma piuttosto nella “tutela della concorrenza
(comma 2, lett. c).
Pertanto, “solo le predette disposizioni (che con carattere generale e a tutela della concorrenza disciplinano le modalità di gestione e l’affidamento dei servizi pubblici locali) non possono essere derogate da norme regionali”, mentre, aggiungono i giudici, per quanto attiene ai
servizi privi di rilevanza economica “ci sarà dunque spazio per una specifica ed adeguata disciplina di fonte regionale ed anche locale”.
In riferimento al principio della tutela della concorrenza, ai fini della determinazione
degli ambiti delle competenze esclusive dello Stato ha fatto anche ritenere1 che la Consulta abbia
inteso affermare un regime interamente commerciale dei servizi pubblici a rilevanza economica, con la conseguenza che gli Enti locali sarebbero da considerare, a rigore, esenti da un dovere civico generale di erogare servizi pubblici finalizzati alla erogazione di prestazioni concernenti diritti civili e sociali. I servizi pubblici locali – stando a questa tesi – sarebbero solo servizi di carattere commerciale riferibili sul mercato, mentre l’intervento degli enti locali avrebbe
solo una funzione di regolazione o di eventuale supplenza.
Al riguardo, appare necessario osservare che la pronuncia dei giudici riguarda tuttavia
non tanto la natura intrinseca dei servizi pubblici locai (se, cioè, mere attività commerciali ovvero attività di prevalente natura sociale e civile), quanto il diverso titolo della potestà normativa
in materia ascrivibile, rispettivamente, allo Stato (tutela della concorrenza) ovvero alle regioni,
ed eventualmente agli Enti locali.
In altre parole, ci sembra che la pronuncia della Corte Costituzionale non abbia in realtà
inteso estromettere gli enti locali da un dovere civico generale di erogare servizi pubblici, a meno
che non si voglia dire – e in tal caso condivideremmo – che l’ente locale pur conservando la titolarità del “munus” (cioè del dovere di “pensare” alla produzione di servizi pubblici) non abbia
anche il dovere di provvedere alla “manus” (cioè alla gestione del servizio).
Questo è certamente vero, ma è altrettanto vero che i giudici costituzionali non hanno
posto alcuna alternativa “ad escludendum” tra la finalità di garantire il rispetto della concorrenza (trasparenza) e quella di perseguire scopi di benessere civile e sociale. Si può dunque affermare che resta certamente in capo all’Ente locale l’onere di favorire il benessere civile e sociale dei cittadini amministrativi attraverso l’erogazione di determinati servizi pubblici; la condizione per la concretizzazione di tale onere è, per quanto in particolare riguarda i servizi a rilevanza economica, il rispetto dei principi della concorrenza come regime ordinario del relativo
affidamento, restando come eccezione subordinata a precise condizioni l’affidamento diretto.
Per quanto riguarda i servizi privi di rilevanza economica, si potrebbe porre anche il quesito se la pronuncia caducatoria della Corte Costituzionale, “cancellando” l’art. 113 bis del
D.Lgs. 267/2000 “nel testo introdotto dal comma 15 dell’art. 35 della ... legge n. 448 del 2001”
e trascinando nell’annullamento, di conseguenza, anche le successive modifiche allo stesso art.
113 bis apportate dall’art. 14 del D.L. 269/2003, non abbia determinato una sorta di vuoto normativo in materia di affidamento dei servizi pubblici privi di rilevanza economica (o, paradossalmente, di nuovo “industriale”?).
Data per acquisita – se non altro perché conforme alle indicazioni della Commissione
1 cfr. Luigi Olivieri, in Lexitalia.it, n. 7/8 2004
117
dell’Unione Europea (vedi anche Corte di Giustizia CE, 22.5.2003, causa 18/2001) – la sostituzione della distinzione tra servizi “a rilevanza industriale” e non, con quella tra servizi “a rilevanza economica” e non, la pronuncia dei giudici della Consulta sembra accentuare la separazione della disciplina dei servizi pubblici a rilevanza economica rispetto a quelli senza tale rilevanza, profilando, per questi ultimi, una disciplina rimessa alla regolamentazione delle regioni,
trattandosi di servizi che in quanto caratterizzati dall’assenso di scopi precipuamente lucrativi e
dalla mancata presenza dei rischi d’impresa sono sottratti alla competenza legislativa statale
fondata sulla tutela della concorrenza.
In questa prospettiva, tenuto conto anche delle varie normative “speciali” di settore già
espresse dalle regioni, appare generalmente privilegiato il modello dell’esternalizzazione, rispetto
a quello dell’in house providing.
A questo proposito appare significativo il D.Lgs. 22.1.2004, n. 41 (codice dei beni culturali e del paesaggio) che all’art. 115 prevede, in alternativa, la forma di gestione diretta (in house) o
indiretta (outsourcing) delle attività di valorizzazione del patrimonio culturale nazionale da parte
della Pubblica Amministrazione. La tendenza degli enti pubblici territoriali, peraltro, sembra essere prevalentemente quella di ricorrere alla gestione in forma indiretta attraverso soggetti a prevalente partecipazione pubblica, più che attraverso la concessione a terzi.
Si sottolinea, in proposito, come esistano sensibili differenze tra il modello della società
mista e quello della concessione, e ciò sotto un duplice profilo: in primo luogo in ragione del grado
di partecipazione dell’ente locale alla gestione del servizio, essendo evidente che l’ente stesso,
almeno nell’ipotesi di società mista con capitale pubblico maggioritario, gestisce il servizio in
modo sostanzialmente, anche se non formalmente, diretto, mentre appare estraneo all’attività
gestoria nelle ipotesi di società mista con partecipazione pubblica minoritaria ovvero di concessione. In secondo luogo, in ragione delle modalità di affidamento del servizio, che è diretto nel caso
di società mista (salvo la scelta del partner privato che deve comunque essere fatta con gara ad evidenza pubblica) mentre è sempre conseguente a gara in caso di concessione.
Si potrebbe anche porre, a questo punto, anche il quesito concernente le situazioni costituite anteriormente alla pronuncia di incostituzionalità.
Ciò (cfr. TAR Sicilia – Palermo, sez. I, 30.9.2004, n. 2144) in considerazione del fatto
che ai sensi dell’art. 30, co. 4, della L. 11.3.1953, n. 87 “le norme dichiarate incostituzionali non
possono avere applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione” e che,
secondo la Corte di Cassazione “il principio sancito dall’art. 5 c.p.c., secondo cui la giurisdizione si determina con riguardo alla legge vigente al momento della proposizione della domanda, non opera quando la norma che detta i criteri determinativi della giurisdizione è successivamente dichiarata costituzionalmente illegittima, atteso che la norma dichiarata costituzionalmente illegittima – a differenza di quella abrogata – non può essere assunta, data l’efficacia
retroattiva che assiste tale tipo di pronunce della Corte Costituzionale, a canone di valutazione
di situazioni o di rapporti anteriori alla pubblicazione della pronuncia di incostituzionalità, salvo
il limite dei rapporti esauriti al momento della pubblicazione della decisione, intendendosi per
tali quelli accertati con sentenza passata in giudicato o per altro verso già consolidati” (SS.UU.
6.5.2002, n. 6847) giacché “le pronunce della Corte Costituzionale non rientrano fra i “mutamenti della legge”, che sono considerati ininfluenti, ai fini della competenza, dell’art. 5 c.p.c.,
ove sopraggiunti dopo la proposizione della domanda” (sez. I, 12.8.1996, n. 7445, conf. n.
8176/1996)
118
RomanaDOTTRINA
temi
Avv.
Marina BINDA
L’avvocato
e le nuove norme
sul diritto di accesso
agli atti delle imprese
di assicurazione: pratiche
r.c. auto più trasparenti.
Il Decreto 20 febbraio 2004 n.74 “regolamento recante disposizioni
in materia di accesso agli atti delle imprese di assicurazione
in attuazione dell’art. 3 della legge 5 marzo 2001 n.57”
el mese di maggio 2004 è entrato in vigore il D. M. 20 febbraio 2004 n. 74 che,
recependo l’art. 3 della legge 57/2001, ha regolamentato il diritto dei danneggiati (e dei loro legali) ad accedere agli atti delle compagnie assicuratrici riguardanti l’accertamento e liquidazione dei danni nel settore r.c. auto.
N
La disciplina
L’articolo 1 del decreto specifica le modalità attuative del diritto di accesso
agli atti in possesso delle imprese e stabilisce il principio secondo cui i danneggiati
e gli assicurati possono avanzare l’istanza di accesso solo a conclusione dei procedimenti di accertamento, valutazione e liquidazione dei danni. Tale momento viene
a coincidere con la comunicazione al danneggiato della somma offerta per il risarcimento, ovvero con la comunicazione dei motivi di diniego della stessa.
In caso di mancata offerta, in particolare, sono previste quattro ipotesi:
● 30 giorni dalla data della ricezione della richiesta se si tratta di danni a cose e se il
modulo di denuncia è stato sottoscritto dai conducenti dei mezzi coinvolti nell’incidente;
● 60 giorni dalla data della ricezione della richiesta di risarcimento se si tratta di
danni a cose e se manca il modulo sottoscritto dai conducenti dei mezzi coinvolti nell’incidente;
● 90 giorni dalla data della ricezione della richiesta di risarcimento se il sinistro ha
causato lesioni personali o il decesso di una delle persone coinvolte nel sinistro.
● 120 giorni dalla data di accadimento del sinistro.
L’art. 2 del regolamento disciplina le modalità di presentazione ed il contenuto della richiesta di accesso, da esercitarsi a mezzo di raccomandata a mano o via fax,
anche per il tramite di sostituti o delegati.
Quanto ai contenuti dell’istanza, l’art. 2 specifica che debbano essere indicati
gli estremi dell’atto oggetto della richiesta, ovvero gli elementi che ne consentano
l’identificazione.
Nel caso di incompletezza o di irregolarità della richiesta, è posto a carico dell’impresa ricevente l’obbligo di darne comunicazione all’istante e di invitarlo ad una
119
RomanaDOTTRINA
temi
integrazione.
L’accoglimento della richiesta di accesso deve essere comunicata al richiedente entro il termine di quindici giorni dal momento in cui è pervenuta la domanda e deve contenere l’indicazione del responsabile dell’ufficio cui è stata assegnata
la trattazione del sinistro nonché l’indicazione del termine (tra i dieci e i venti giorni) per prendere visione degli atti.
L’esame della documentazione è effettuato dal richiedente, da uno suo delegato ovvero dal difensore che ben potrà incaricare propri sostituti.
2. Mancato esercizio del diritto di accesso. Profili sanzionatori.
In merito alla giustiziabilità del diritto di accesso agli atti delle imprese di
assicurazione, l’art. 4 comma 4 del regolamento dispone che, in tutti i casi in cui il
legittimato non sia messo in condizione di prendere visione degli atti (quindi, sia in
caso d’inerzia dell’impresa di fronte alla sua istanza che in caso di diniego espresso), egli possa rivolgersi all’Istituto per la vigilanza sulle assicurazioni private e di
interesse collettivo (Isvap), oltreché, s’intende, agli organi di giurisdizione per l’ordinaria tutela delle proprie pretese, a mezzo di un legale.
Con riferimento alla disposizione in parola, è necessario peraltro precisare che
la segnalazione dell’istante o dell’avvocato all’Isvap è prevista in via facoltativa come si evince chiaramente dalla locuzione “può” del quarto comma dell’art. 4–
restando sempre possibile il ricorso all’Autorità Giudiziaria.
Quanto al modus operandi per rendere effettiva la garanzia del diritto di
accesso dell’utente illegittimamente escluso, l’autorità di vigilanza potrà ingiungere
all’impresa ed ai suoi responsabili l’esibizione dei documenti, previa delibazione
della fondatezza dell’istanza d’accesso e dell’illegittimità del diniego opposto dall’impresa. In caso d’inosservanza a tale ordine trova applicazione la sanzione penale prevista dall’art. 5 terzo comma della legge istitutiva dell’Isvap n. 576 del 12 agosto 1982 (arresto fino a tre mesi ed ammenda da due a 40 milioni) nonché la sanzione amministrativa pecuniaria irrogata all’impresa direttamente dall’Isvap.
Inoltre, poiché l’art. 4 del regolamento -genericamente attivando il complesso dei poteri di vigilanza, ivi compresi quelli di natura sanzionatoria, idonei a rendere effettivo l’accesso- impone all’Isvap di provvedere ai sensi della L. 576/82, si
ritiene che, in caso di grave inosservanza da parte delle imprese delle disposizioni
impartite dall’Istituto sul diritto di accesso, potrebbe teoricamente trovare applicazione l’art. 6 bis della L. 576/82 che prevede la nomina di un Commissario per il
compimento di singoli atti, il quale, sostituendosi all’impresa inerte, provveda materialmente a compiere gli atti omessi.
In altri termini, si ritiene che l’Isvap, nei gravi casi di reiterato ed illegittimo
rifiuto dell’impresa di far accedere gli interessati agli atti, potrebbe ingiungere alla
stessa di disporre l’accesso, assegnando un termine perentorio per l’adempimento;
elasso inutilmente tale termine, l’Istituto potrebbe nominare un commissario ad
acta, indicando nello stesso provvedimento di nomina gli atti da compiersi o individuando l’area degli interventi ai quali il commissario stesso è legittimato; e ciò
ferma restando la possibilità di misure dissuasive di natura sanzionatoria, la cui
120
comminazione potrebbe autonomamente far recedere l’impresa da atteggiamenti
denegatori.
3 Individuazione degli atti visionabili dall’interessato.
Profili di tutela della privacy.
Per quanto riguarda l’oggetto del diritto di accesso, deve precisarsi che il
D.M. 74/2004 non contiene una specifica enucleazione dei documenti visionabili
dagli interessati, riferendosi genericamente a tutti gli “atti a conclusione di procedimenti di constatazione, valutazione e liquidazione di danni”. L’indeterminatezza
dell’enucleazione normativa potrebbe dar agio sia ad interpretazioni rivolte a consentire un libero ed indiscriminato accesso a tutti gli atti in possesso della compagnia a chiunque ne faccia richiesta, sia ad inammissibili applicazioni restrittive,
volte ad un pretestuoso “svuotamento”della disciplina recata dal regolamento.
Deve preliminarmente rilevarsi che il profilo dell’interesse
ad accedere agli atti delle imprese di assicurazione riveste un rilievo quasi
esclusivamente privatistico, di cui gli unici reali titolari appaiono essere i soggetti
danneggiati e giammai i vari organismi portatori d’interessi collettivi o i cittadini
genericamente interessati al buon andamento delle imprese, come diversamente
accade nell’ipotesi di accesso agli atti amministrativi.
Tanto premesso, va evidenziato che l’art. 2 secondo comma del decreto impone che il richiedente sia portatore di un concreto e personale interesse ad accedere
agli atti della compagnia. Siffatto interesse sembra essere coincidente col concetto
definito dall’art. 22 L. 241/90, quale “situazione giuridicamente rilevante” commentata ed interpretata dalla giurisprudenza amministrativa (ex multis: Consiglio di
Stato 14.10.1998 n. 1478) che non deve avere uno scopo emulativo (Consiglio di
Stato 11.1.1994 n. 8) o corrispondere a mera curiosità (Consiglio di Stato 2.2.1996
n. 98 in commento all’art. 2 del D.P.R. 27 giugno 1992 n. 352 emanato in attuazione dell’art. 24 L. 241/90).
Nella materia in esame, perciò, va senz’altro riconosciuto l’interesse all’accesso al danneggiato e all’assicurato in quanto tale interesse è direttamente coincidente con l’esigenza di un’immediata tutela di una propria posizione giuridica (il
danneggiato ad essere risarcito, l’assicurato ad evitare il pagamento della franchigia
o la maggiorazione della classe di merito più elevata).
a) L’interesse ad accedere.
b) La tutela dei terzi. Dichiarazioni testimoniali e perizie su veicoli appartenenti a
persone diverse dall’istante.
L’art. 5 primo comma cpv. del D.M. 74/2004 statuisce che “il diritto di accesso è escluso con riferimento alle parti del documento contenenti notizie o informazioni riguardanti persone diverse dall’istante, salva la possibilità di prendere visione di tali parti del documento qualora la loro conoscenza sia necessaria per curare o
difendere interessi giuridici del medesimo istante”.
Pertanto, ogni qualvolta l’interessato formuli richiesta di accesso non solo
limitatamente a dati propri, bensì con riguardo ad informazioni relative a terzi, (es.
121
RomanaDOTTRINA
temi
testimonianze rese da terzi, perizie sui veicoli di controparte) sorgono le inevitabili
difficoltà derivanti dalla difesa della riservatezza del cittadino nei confronti della
generalità delle altre persone, disciplinata dal decreto legislativo n. 196 del 30 giugno
2003 (cd. “codice della privacy”) che ha abrogato la L. 675/1996.
A tal proposito, deve rilevarsi che da un confronto sistematico tra la normativa
in materia di accesso e quella sulla tutela della riservatezza non sembrano rinvenirsi
definitive preclusioni idonee ad impedire l’estrinsecazione del diritto di accesso con
riferimenti a terzi, eccezion fatta per le disposizioni in materia di dati sensibili (in particolare perizie medico legali su persone diverse dai richiedenti).
Per quanto riguarda le dichiarazioni testimoniali rese dalle persone presenti sul
luogo del sinistro si ritiene che esse potranno essere visionate dall’interessato e dal
legale con l’adozione dell’opportuna cautela di cancellare i dati anagrafici e la professione dei testi. Tale visione è resa necessaria per consentire all’interessato e al
difensore un’adeguata informazione sull’an debeatur anche al fine dell’eventuale
azionabilità in giudizio delle proprie pretese. In proposito, non sembrano rinvenirsi
ostacoli normativi nel suddetto Decreto legislativo n. 196 del 30.6.2003, il quale,
all’opposto, esclude che sia richiesto il consenso del terzo “quando il trattamento sia
necessario per adempiere ad un obbligo previsto dalla legge, da un regolamento, o
dalla normativa comunitaria” (art. 24. primo comma lett. a) d. legs. 196/2003).
Sulla qualificazione dell’”interesse giuridicamente rilevante”, legittimante la
prevalenza del diritto di accesso sulla tutela della riservatezza dei terzi, la giurisprudenza si è espressa con precipuo riferimento agli atti amministrativi, difettando qualsiasi decisione in materia civilistica, anche per la novità della normativa in argomento; perciò le statuizioni giurisprudenziali non sono immediatamente riferibili a rapporti squisitamente privatistici.
Sembra peraltro conservare pieno valore il principio enunciato dal Consiglio di
Stato in Adunanza Plenaria (sentenza del 4.2.1997 n.5) sotto l’impero della vecchia
disciplina sulla privacy secondo cui “non sembra esservi dubbio che nel conflitto tra
accesso e riservatezza dei terzi la normativa statale abbia dato prevalenza al primo,
allorché questo sia necessario per curare o difendere i propri interessi giuridici”
essendo l’interesse alla riservatezza sempre recessivo nel procedimento amministrativo caratterizzato dai principi di imparzialità e buon andamento della Pubblica
Amministrazione. Questa impostazione in campo amministrativo ha trovato immediato seguito ed in una coeva pronuncia si è sostenuto che “il bilanciamento tra il diritto di accesso agli atti e il diritto alla riservatezza è stato compiuto dalla legge, la quale,
nel prevedere la tutela della riservatezza dei terzi, ha fatto salvo il diritto degli interessati alla visione degli atti relativi ai procedimenti amministrativi la cui conoscenza
sia necessaria per curare o difendere interessi giuridici” (consiglio di Stato, 4.2.1997,
n. 82).
La situazione non pare mutata dall’epoca delle citate pronunce ad oggi, con
l’entrata in vigore del codice della privacy, quantomeno con riferimento alla materia
delle assicurazioni, anche in considerazione del fatto che l’art. 7 del detto decreto
legislativo 196/03 è mutuato dalll’art. 13 L. 675/1996, l’art. 13 è mutuato dall’art. 10
L. 675/96, l’art. 23 è mutuato dall’art. 11 L. 675/96 e l’art. 24 dall’art. 12 L. 675/96.
122
Per le ragioni esposte, può quindi ritenersi che il concetto di “interesse giuridicamente rilevante” cui fa cenno l’art. 5 del Regolamento in commento sia una
condizione legittimante il diritto di accesso per la cui cura possa essere sacrificata la
riservatezza della dichiarazione dei terzi testimoni, tenendo comunque presente la
rilevanza delle contrapposte posizioni giuridiche del curatore e del richiedente l’accesso, nell’interesse di ciascuna parte alla difesa in giudizio.
Esemplificativamente, potrà essere consentito l’accesso ai seguenti documenti:
1) perizie dei danni materiali subiti dai veicoli coinvolti nel sinistro;
2) preventivi e fatture delle prestazioni meccaniche da effettuarsi o effettuate
sui veicoli;
3) corrispondenza tra la parte e l’impresa;
4) testimonianze sulle modalità del sinistro, con eventuale esclusione dei riferimenti anagrafici dei testimoni;
5) rapporti dell’autorità di polizia eventualmente intervenuta sul posto;
6) denuncia di sinistro e modello CID a firma congiunta;
7) quietanze di liquidazione;
8) perizia medico legale dell’istante, in merito alla quale una recente decisione giurisprudenziale ha statuito che “la perizia medico legale assicurativa,
rappresentando una fase di rilevanza interna del processo di liquidazione del
sinistro e di definizione del "quantum" da parte della società di assicurazioni, costituisce essa stessa una modalità o una fase del trattamento dei dati
personali raccolti dall'assicuratore sul soggetto assicurato, con la conseguenza che questi ha diritto all'accesso alla stessa, compreso il giudizio finale relativo alla valutazione del danno ed alla quantificazione dell'invalidità,
in quanto esso è il prodotto dell'analisi o - se si preferisce - dell'utilizzo, dei
dati personali raccolti col consenso del danneggiato e contribuisce a definire il profilo soggettivo dell'assicurato, attribuendogli la qualità di soggetto
indennizzabile o non indennizzabile”. (Tribunale di Roma, 7.7.2003).
c) La perizia medico-legale effettuata su persona diversa dall’istante.
Nel caso di richiesta di accesso ad una perizia medica espletata per conto dell’impresa o a una consulenza medica di parte relativa a persone diverse dall’istante,
non pare che possa legittimamente sostenersi alcun primato del diritto di accesso sul
diritto alla riservatezza. Invero, nel necessario bilanciamento tra i valori fondamentali e di rilievo costituzionale sottesi agli interessi in gioco, non può non darsi prevalenza al diritto di riservatezza, contemplato positivamente dall’art. 8 della
Convenzione europea dei diritti dell’uomo e collegato, nella specie, oltre che all’art.
15 della Carta Costituzionale anche all’art. 32, costituente un diritto fondamentale
ed incomprimibile dell’uomo. Tale valore, è destinato a prevalere sull’esigenze di
pubblicità dell’azione amministrativa e di impresa, ed importa necessariamente il
sacrificio dell’interesse individuale all’informazione (in questo senso in dottrina:
Cassano Del Vecchio: Diritto alla riservatezza e diritto di accesso ai documenti
amministrativi, profili sostanziali e tecniche risarcitorie, Milano 2001 e rif. giur).
Perciò, in ipotesi, non pare possibile dare la prevalenza all’interesse all’accesso
123
RomanaDOTTRINA
temi
neppure nei più ridotti termini della semplice visione degli atti del procedimento.
Questo obiettivo risulta già realizzato dalla giurisprudenza svoltasi nella
parallela materia del diritto di cronaca e del diritto di critica, essendosi affermato che
non sarebbe giustificata da esigenze di pubblicità la divulgazione di aspetti intimi
della persona che non attengano alla fama e al valore pubblico del personaggio.
Il decreto legislativo 30.6.2003 n.196 (codice della privacy) contiene disposizioni inequivoche in punto: l’art. 22 in materia di trattamento di dati sensibili e giudiziari da parte di soggetti pubblici esclude all’ottavo comma, che le informazioni
relative allo stato di salute possano essere diffuse. Analogamente dispone il quinto
comma dell’art. 26, che detta le regole sul trattamento dei dati da parte di soggetti
privati o enti economici.
A fronte dell’evidente dato normativo, secondo cui “i dati idonei a rivelare lo
stato di salute non possono essere diffusi”, non sembra sia consentito alcun margine
discrezionale di apprezzamento in merito ad un’istanza di accesso giustificata per
definizione da un interesse patrimoniale ed individuale: non potrà dunque essere consentita la visione di una perizia medica effettuata su persona diversa dall’istante.
1. Richiesta di accesso: modalità temporali
Con riferimento al momento temporale entro cui può essere esercitato il diritto di accesso profili di problematicità sono rinvenibili nel caso di instaurazione di un
giudizio nei confronti della compagnia, il quale sembrerebbe segnare una sorta di
limite di decadenza all’esercizio del diritto di accesso.
Nell’ambito del processo amministrativo, la giurisprudenza ha ribadito l’autonomia del diritto di accesso rispetto alla legittimazione all’impugnazione del
provvedimento finale, avendo chiarito che: “il diritto di accesso ai documenti amministrativi ha natura autonoma rispetto alla posizione giuridica posta a base della relativa istanza e sussiste anche quando l’istanza è preordinata all’utilizzazione degli atti
in un giudizio nel quale sussistono i poteri istruttori del giudice (Consiglio di Stato,
10,.4.2003 n. 1925) e che “in sede di esame della domanda di accesso (e nel corso
del giudizio concernente il relativo diniego), non va effettuato alcun apprezzamento in ordine alla fondatezza o all’ammissibilità della domanda che si intende proporre, la cui valutazione spetta solo al giudice chiamato a decidere” (Consiglio di
Stato 8.4.2003 n. 1881) essendo il diritto di accesso ammissibile anche in caso di
previo esperimento dell’azione giurisdizionale e di conseguente acquisibilità dei
documenti in sede processuale (TAR Sicilia, Palermo, 7.10.2002 n. 2964; TAR
Lazio 6.8.2002n.7010).
Tali principi sembrano peraltro riferibili al solo processo amministrativo, ove
si discute della legittimità o meno dell’atto promanante dalla P.A. e della funzione
partecipativa e di controllo dei cittadini sulla trasparenza e sull’imparzialità dell’azione amministrativa.
All’opposto, nel caso di giudizi già pendenti tra privati non pare potersi dare
preminenza ad un interesse individuale a scapito dell’altro, mutando così una legittima aspirazione del privato all’informazione in un atto sostanzialmente lesivo del
diritto di difesa della controparte, la quale in base a questa interpretazione, verrebbe
124
privata di ogni autonomia nell’esercizio dell’attività difensiva da svolgere a fondamento della propria pretesa.
Non va dimenticato, infatti, che nell’ambito del giudizio civile, l’assicuratore
ed il danneggiato si trovano su posizioni contrapposte ma del tutto paritarie di fronte al giudicante, essendo ognuno dei due soggetti processuali onerato della dimostrazione della fondatezza della propria tesi. Inoltre, il principio dispositivo e quello dell’onere della prova informanti il processo civile, che impongono alla parte di
ricercare i mezzi idonei alla dimostrazione della propria pretesa (art. 2697 c.c. e 115
c.p.c.), non sembrano poter essere intesi nel senso che tale prova venga fornita dalla
controparte in giudizio.
Del resto, in sede processuale sono previsti specifici mezzi che consentono al
Giudice di acquisire d’ufficio i documenti in possesso dell’Amministrazione, della
parte o del terzo (artt. 210 -213c.p.c). Tali strumenti appaiono senz’altro più efficaci e prevalenti rispetto a qualsiasi istanza del privato poiché ogni impresa di assicurazione che rifiuti di ottemperare all’ordine di esibizione ex art. 118 e 210 c.p.c. si
addossa automaticamente il rischio della soccombenza..
E non si dimentichi che la giurisprudenza processualcivilista in materia di
ordine di esibizione appare particolarmente rigorosa, avendo statuito che “nessun
ulteriore presupposto la legge impone per farsi luogo all’esibizione, se non quelli
della indisponibilità del documento in rapporto alla prova da fornire e della certezza della sua esistenza in possesso della parte cui l’ordine di esibizione debba rivolgersi” (Cass. 27.3.1996, n.2760) e che la presentazione di un’istanza di esibizione
documentale, formulata ai sensi dell’art. 210 c.p.c., determina nella controparte il
dovere di conservare la documentazione anche oltre il termine decennale di conservazione previsto dal codice civile (Cass. 28.8.2000 Cirio s.p.a. c. Min. Finanze;
Cass. 19.11.1991, n. 9839, Amministrazione Finanze c. Soffiantino e C. s.p.a.; Cass.
18.10.1997, n. 10238; Cass. 18.11.1994 n. 9797; Cass. 7.3.1997 n. 2086).
può ritenersi che il regolamento sull’accesso alle compagnie di
assicurazione, pur nella sua generica formulazione, costituisca un primo strumento
normativo volto a superare la barriera dei cd. “dominii riservati” di pertinenza delle
grandi imprese, i cui palazzi di vetro, anziché trasparenti, sono apparsi assai spesso
oscuri.
In conclusione
125
RomanaDOTTRINA
temi
Avv.
Fabio Maria GALIANI
I diritti della difesa
nei procedimenti penali
europei.
I
l ventinove ottobre duemilaquattro è prevista a Roma la firma del Trattato che
adotta una Costituzione per l’Europa, che entrerà in vigore il primo novembre
2006, se tutti gli strumenti di ratifica saranno stati depositati, altrimenti il primo
giorno del secondo mese successivo all’avvenuto deposito dello strumento di ratifica da parte dello Stato firmatario che procederà per ultimo a tale formalità.
A tutti sono noti gli scontri e le polemiche che hanno accompagnato sin qui il
processo di stesura del testo. Si è dibattuto in particolare di partecipazione popolare, di radici Cristiane ed Ebraiche, di poteri della Commissione e del Parlamento
europei, di criteri di votazione nel sistema legislativo europeo, e di tanti altri argomenti decisamente rilevanti ed interessanti.
Tanto si è detto e si potrebbe dire su quanto previsto nel corpulento testo di
ben trecentoquarantanove pagine e quattrocentoquarantotto articoli. Forse si potrebbe dire altrettanto su quanto, invece, in detto testo non è previsto.
Mi riferisco in particolare ai diritti della difesa nei procedimenti penali europei. E’ bene chiarire subito che con questa espressione indico sia i procedimenti
penali interni ai singoli Stati europei che quelli aventi caratteristiche tali da coinvolgere più Stati membri oppure istituzioni, organismi o altre entità dell’Unione
Europea.
In merito ai primi, la Costituzione europea avrebbe potuto specificare, affinare ed integrare le disposizioni della Convenzione europea di salvaguardia dei diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali che, quanto meno come interpretata dalla
giurisprudenza della Corte Europea per i Diritti dell’Uomo, appare forse non più
sufficiente a garantire un processo penale interno equo. In secondo luogo la
Convenzione per una Costituzione europea poteva essere l’occasione giusta per
escogitare i rimedi necessari a garantire l’esercizio in concreto dei diritti della difesa in quei procedimenti penali transnazionali europei delineati da disarticolati, talvolta confusi e contraddittori, provvedimenti soprannazionali, convenzioni bilaterali e trattati multilaterali che si inseriscono in sistemi processuali profondamente
diversi tra i singoli Stati membri.
I diritti della difesa, fondamentali e non, sono stati per lo più ignorati dal
Trattato Costituzionale. Eppure nel Capo IV relativo ad uno Spazio di Libertà,
Sicurezza e Giustizia, alla Sezione 4 è prevista la Cooperazione Giudiziaria in
Materia Penale1 ed alla Sezione 5 la Cooperazione di Polizia2. La previsione di procedure legislative differenziate nelle materie di cui alla Sezione 5, laddove un mem1 SEZIONE 4 - COOPERAZIONE GIUDIZIARIA IN MATERIA PENALE
ARTICOLO III-270
1. La cooperazione giudiziaria in materia penale nell'Unione è
fondata sul principio di riconoscimento reciproco delle sentenze
126
e delle decisioni giudiziarie e include il ravvicinamento delle
disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri nei
settori di cui al paragrafo 2 e all'articolo III-271.
La legge o legge quadro europea stabilisce le misure intese a:
segue
bro del Consiglio ritenga che un progetto di legge quadro europea incida su aspetti
fondamentali del suo ordinamento giudiziario penale, non è certo sufficiente a
garantire il rispetto dei diritti della difesa nei procedimenti penali europei interni e
transnazionali.
E’ inconcepibile, ad esempio, che una Costituzione ipotizzi l’adozione di
norme minime sui diritti della persona nella procedura penale, solo laddove necessario per facilitare il riconoscimento reciproco delle sentenze e delle decisioni giudiziarie e la cooperazione di polizia e giudiziaria nelle materie penali aventi dimensione transnazionale. Siamo dunque di fronte ad un Trattato Costituzionale Europeo
che, incredibilmente, non vincola sempre ne comunque gli Stati membri al rispetto
dei diritti della persona nella procedura penale.
Non soccorre certamente la Parte II del Trattato, nonostante il titolo “Carta dei
Diritti Fondamentali dell’Unione”. Infatti quei quattro articoli nei quali sono soffocati i diritti fondamentali in tema di giustizia, relativi sia ad aspetti di diritto penale
sostanziale che di diritto penale processuale, si applicano (cosi’ come, ai sensi
dell’Art.II-111, tutti gli altri diritti fondamentali previsti nella citata Carta), esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione. L’Art.I-11 prevede che, in virtù del
principio di sussidiarietà, nei settori che non sono di sua competenza esclusiva,
l’Unione interviene soltanto se e nella misura in cui gli obiettivi dell’azione previa) definire norme e procedure per assicurare il
riconoscimento in tutta l'Unione di tutte le forme di
sentenza e di decisione giudiziaria;
b) prevenire e risolvere i conflitti di giurisdizione tra gli Stati
membri;
c) sostenere la formazione dei magistrati e degli operatori
giudiziari;
d) facilitare la cooperazione tra le autorità giudiziarie o
autorità omologhe degli Stati membri in relazione all'azione
penale e all'esecuzione delle decisioni.
2. Laddove necessario per facilitare il riconoscimento
reciproco delle sentenze e delle decisioni giudiziarie e la
cooperazione di polizia e giudiziaria nelle materie penali
aventi dimensione transnazionale, la legge quadro europea
può stabilire norme minime. Queste tengono conto delle
differenze tra le tradizioni e gli ordinamenti giuridici degli
Stati membri.
Esse riguardano:
a) l'ammissibilità reciproca delle prove tra gli Stati membri;
b) i diritti della persona nella procedura penale;
c) i diritti delle vittime della criminalità;
d) altri elementi specifici della procedura penale, individuati
dal Consiglio in via preliminare mediante una decisione
europea; per adottare tale decisione il Consiglio delibera
all'unanimità previa approvazione del Parlamento europeo.
L'adozione delle norme minime di cui al presente paragrafo
non impedisce agli Stati membri di mantenere o introdurre
un livello più elevato di tutela delle persone.
3. Qualora un membro del Consiglio ritenga che un progetto
di legge quadro europea di cui al paragrafo 2 incida su
aspetti fondamentali del suo ordinamento giudiziario
penale, può chiedere che il Consiglio europeo sia investito
della questione. In tal caso, la procedura di cui all'articolo III396 è sospesa. Previa discussione ed entro quattro mesi da
tale sospensione il Consiglio europeo:
a) rinvia il progetto al Consiglio, il che pone fine alla
sospensione della procedura di cui all'articolo III-396 oppure
b) chiede alla Commissione o al gruppo di Stati membri
all'origine del progetto di presentare un nuovo progetto; in
tal caso, l'atto inizialmente proposto si considera non
adottato.
4. Se entro la fine del periodo di cui al paragrafo 3 il
Consiglio europeo non ha agito o se, entro dodici mesi dalla
presentazione di un nuovo progetto ai sensi del paragrafo 3,
lettera b), la legge quadro europea non è stata adottata ed
almeno un terzo degli Stati membri desidera istituire una
cooperazione rafforzata sulla base del progetto di legge
quadro in questione, essi ne informano il Parlamento
europeo, il Consiglio e la Commissione.
In tal caso l'autorizzazione a procedere alla cooperazione
rafforzata di cui all'articolo I-44, paragrafo 2 e all'articolo III419, paragrafo 1 si considera concessa e si applicano le
disposizioni sulla cooperazione rafforzata.
ARTICOLO III-271
1. La legge quadro europea può stabilire norme minime
relative alla definizione dei reati e delle sanzioni in sfere di
criminalità particolarmente grave che presentano una
dimensione transnazionale derivante dal carattere o dalle
implicazioni di tali reati o da una particolare necessità di
combatterli su basi comuni.
Dette sfere di criminalità sono le seguenti: terrorismo, tratta
degli esseri umani e sfruttamento sessuale delle donne e dei
minori, traffico illecito di stupefacenti, traffico illecito di
armi, riciclaggio di capitali, corruzione, contraffazione di
mezzi di pagamento, criminalità informatica e criminalità
organizzata.
In funzione dell'evoluzione della criminalità, il Consiglio può
adottare una decisione europea che individua altre sfere di
criminalità che rispondono ai criteri di cui al presente
paragrafo. Esso delibera all'unanimità previa approvazione
del Parlamento europeo.
2. Allorché il ravvicinamento delle disposizioni legislative e
regolamentari degli Stati membri in materia penale si rivela
indispensabile per garantire l'attuazione efficace di una
politica dell'Unione in un settore che è stato oggetto di
misure di armonizzazione, la legge quadro europea può
127
RomanaDOTTRINA
temi
sta non possono essere sufficientemente raggiunti dagli Stati membri.
La triste constatazione è che, nonostante il Trattato Costituzionale faccia riferimento ad un futuro di pace fondato su valori comuni, ponga la persona al centro dell’azione dell’Unione creando uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia, aderisca alla
Convenzione europea dei diritti dell’Uomo e dichiari i diritti fondamentali da essa
garantiti quali principi generali del diritto dell’Unione, gli Stati membri sono liberi di
violare i diritti fondamentali dell’Unione sanciti nella Carta e nella Convenzione
Europea nei settori non rientranti nella competenza dell’Unione e non soggetti all’applicazione del diritto dell’Unione. Ma che Unione è se, ad esempio, un italiano deve
essere indifferente alla violazione dei diritti fondamentali di un francese in Francia?
Non dovrebbe, piuttosto, la tutela dei diritti fondamentali essere di per sé un settore di
competenza dell’Unione, semmai lasciando ai singoli Stati la libertà di prevedere una
tutela maggiore di quella che l’Unione dovrebbe imporre?
Circoscritto l’ambito di applicazione dei diritti fondamentali previsti dal
Trattato Costituzionale ai soli casi di applicazione del diritto dell’Unione e di competenza dell’Unione, è da sottolineare che i diritti delle persone nel processo penale
previsti nel testo in esame sono estremamente esigui, collocati nella sola Parte II,
relativa alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione, nulla prevedendo in merito
il Capo IV inerente lo spazio di libertà, sicurezza e giustizia.
stabilire norme minime relative alla definizione dei reati e
delle sanzioni nel settore in questione. Essa è adottata
secondo la stessa procedura utilizzata per l'adozione delle
misure di armonizzazione in questione, fatto salvo l'articolo
III-264.
3. Qualora un membro del Consiglio ritenga che un
progetto di legge quadro europea di cui al paragrafo 1 o 2
incida su aspetti fondamentali del suo ordinamento
giudiziario penale, può chiedere che il Consiglio europeo sia
investito della questione. In tal caso, quando applicabile, la
procedura di cui all'articolo III-396 è sospesa. Previa
discussione e entro quattro mesi da tale sospensione, il
Consiglio europeo:
a) rinvia il progetto al Consiglio, il che pone fine alla
sospensione della procedura di cui all'articolo III-396,
qualora applicabile, oppure
b) chiede alla Commissione o al gruppo di Stati membri
all'origine del progetto di presentare un nuovo progetto; in
tal caso, l'atto inizialmente proposto si considera non
adottato.
4. Se entro la fine del periodo di cui al paragrafo 3 il
Consiglio europeo non ha agito o se, entro dodici mesi dalla
presentazione di un nuovo progetto ai sensi del paragrafo
3, lettera b), la legge quadro europea non è stata adottata
ed almeno un terzo degli Stati membri desidera istituire una
cooperazione rafforzata sulla base del progetto di legge
quadro in questione, essi ne informano il Parlamento
europeo, il Consiglio e la Commissione.
In tal caso l'autorizzazione a procedere al la cooperazione
rafforzata di cui all'articolo I-44, paragrafo 2 e all'articolo
III-419, paragrafo 1 si considera concessa e si applicano le
disposizioni sulla cooperazione rafforzata.
ARTICOLO III-272
La legge o legge quadro europea può stabilire misure per
incentivare e sostenere l'azione degli Stati membri nel
campo della prevenzione della criminalità, ad esclusione di
qualsiasi armonizzazione delle disposizioni legislative e
regolamentari degli Stati membri.
128
ARTICOLO III-273
1. Eurojust ha il compito di sostenere e potenziare il
coordinamento e la cooperazione tra le autorità nazionali
responsabili delle indagini e dell'azione penale contro la
criminalità grave che interessa due o più Stati membri o che
richiede un'azione penale su basi comuni, sulla scorta delle
operazioni effettuate e delle informazioni fornite dalle
autorità degli Stati membri e da Europol.
In questo contesto la legge europea determina la struttura,
il funzionamento, la sfera d'azione e i compiti di Eurojust.
Tali compiti possono comprendere:
a) l'avvio di indagini penali, nonché la proposta di avvio di
azioni penali esercitate dalle autorità nazionali competenti,
in particolare quelle relative a reati che ledono gli interessi
finanziari dell'Unione;
b) il coordinamento di indagini ed azioni penali di cui alla
lettera a);
c) il potenziamento della cooperazione giudiziaria, anche
attraverso la composizione dei conflitti
di competenza e tramite una stretta cooperazione con la
Rete giudiziaria europea.
La legge europea fissa inoltre le modalità per associare il
Parlamento europeo e i parlamenti nazionali alla
valutazione delle attività di Eurojust.
2. Nel contesto delle azioni penali di cui al paragrafo 1, e
fatto salvo l'articolo III-274, gli atti ufficiali di procedura
giudiziaria sono eseguiti dai funzionari nazionali
competenti.
ARTICOLO III-274
1. Per combattere i reati che ledono gli interessi finanziari
dell'Unione, una legge europea del Consiglio può istituire
una Procura europea a partire da Eurojust. Il Consiglio
delibera all'unanimità, previa approvazione del Parlamento
europeo.
2. La Procura europea è competente per individuare,
perseguire e rinviare a giudizio, eventualmente in
collegamento con Europol, gli autori di reati che ledono gli
interessi finanziari dell'Unione, quali definiti dalla legge
La sola sezione relativa alla Cooperazione giudiziaria in materia penale prevede, tra l’altro, il riconoscimento in tutta l’Unione delle sentenze, la formazione dei
magistrati e degli operatori giudiziari, la cooperazione tra le autorità giudiziarie in
relazione all’azione penale ed all’esecuzione delle decisioni, la prospettiva dell’ammissibilità reciproca delle prove tra gi Stati membri, norme minime relative alla
definizione dei reati e delle sanzioni in talune sfere di criminalità, i vasti compiti di
Eurojust, l’istituzione di una Procura europea.
Nelle trecentoquarantanove pagine e quattrocentoquarantotto articoli del
Trattato costituzionale mentre, per esempio, l’articolo III-336 sancisce addirittura
che il Parlamento europeo si riunisce di diritto il secondo martedi’ del mese di
marzo, non si è proprio trovato , o non si è voluto trovare, lo spazio per citare, anche
una sola volta, il termine Avvocato.
Crimini, Vittime, Giudici, Procuratori e Procedimenti europei avvolti in una
genesi distorta che ignora, anzi rigetta il ruolo fondamentale dell’Avvocato e la funzione dell’Avvocatura, cosi’ ponendosi in antitesi con tutti i fini dello spazio europeo in esame: Libertà, Sicurezza, Giustizia.
E forse come Catullo di Lesbia, questo rigetto di questa Europa mi fa innamorare di più, ma sempre con minor amore.
europea prevista nel paragrafo 1, e i loro complici. Essa
esercita l'azione penale per tali reati dinanzi agli organi
giurisdizionali competenti degli Stati membri.
3. La legge europea di cui al paragrafo 1 stabilisce lo
statuto della Procura europea, le condizioni di esercizio
delle sue funzioni, le regole procedurali applicabili alle sue
attività e all'ammissibilità delle prove e le regole applicabili
al controllo giurisdizionale degli atti procedurali che adotta
nell'esercizio delle sue funzioni.
4. Il Consiglio europeo può adottare, contemporaneamente
o successivamente, una decisione europea che modifica il
paragrafo 1 allo scopo di estendere le attribuzioni della
Procura europea alla lotta contro la criminalità grave che
presenta una dimensione transnazionale, e che modifica di
conseguenza il paragrafo 2 per quanto riguarda gli autori di
reati gravi con ripercussioni in più Stati membri e i loro
complici. Il Consiglio europeo delibera all'unanimità previa
approvazione del Parlamento europeo e previa
consultazione della Commissione.
2 SEZIONE 5 - COOPERAZIONE DI POLIZIA
ARTICOLO III-275
1. L'Unione sviluppa una cooperazione di polizia che associa
tutte le autorità competenti degli Stati membri, compresi i
servizi di polizia, i servizi delle dogane e altri servizi
incaricati dell'applicazione della legge specializzati nel
settore della prevenzione o dell'individuazione dei reati e
delle relative indagini.
2. Ai fini del paragrafo 1 la legge o legge quadro europea
può stabilire misure riguardanti:
a) la raccolta, l'archiviazione, il trattamento, l'analisi e lo
scambio delle pertinenti informazioni;
b) un sostegno alla formazione del personale e la
cooperazione relativa allo scambio di personale, alle
attrezzature e alla ricerca in campo criminologico;
c) le tecniche investigative comuni ai fini dell'individuazione
di forme gravi di criminalità organizzata.
3. Una legge o legge quadro europea del Consiglio può
stabilire misure riguardanti la cooperazione operativa tra le
autorità di cui al presente articolo. Il Consiglio delibera
all'unanimità previa consultazione del Parlamento europeo.
ARTICOLO III-276
1. Europol ha il compito di sostenere e potenziare l'azione
delle autorità di polizia e degli altri servizi incaricati
dell'applicazione della legge degli Stati membri e la
reciproca collaborazione nella prevenzione e contrasto della
criminalità grave che interessa due o più Stati membri, del
terrorismo e delle forme di criminalità che ledono un
interesse comune oggetto di una politica dell'Unione.
2. La legge europea determina la struttura, il
funzionamento, la sfera d'azione e i compiti di Europol. Tali
compiti possono comprendere:
a) la raccolta, l'archiviazione, il trattamento, l'analisi e lo
scambio delle informazioni trasmesse, in particolare dalle
autorità degli Stati membri o di paesi o organismi terzi;
b) il coordinamento, l'organizzazione e lo svolgimento di
indagini e di azioni operative, condotte congiuntamente
con le autorità competenti degli Stati membri o nel quadro
di squadre investigative comuni, eventualmente in
collegamento con Eurojust.
La legge europea fissa inoltre le modalità di controllo delle
attività di Europol da parte del Parlamento europeo,
controllo cui sono associati i parlamenti nazionali.
3. Qualsiasi azione operativa di Europol deve essere
condotta in collegamento e d'intesa con le autorità dello o
degli Stati membri di cui interessa il territorio.
L'applicazione di misure coercitive è di competenza esclusiva
delle pertinenti autorità nazionali.
ARTICOLO III-277
Una legge o legge quadro europea del Consiglio stabilisce le
condizioni e i limiti entro i quali le autorità competenti
degli Stati membri di cui agli articoli III-270 e III-275 possono
operare nel territorio di un altro Stato membro in
collegamento e d'intesa con le autorità di quest'ultimo. Il
Consiglio delibera all'unanimità previa consultazione del
Parlamento europeo.
129
RomanaDOTTRINA
temi
Avv.
Anna Lucia VALVO*
Fortezza Europa:
sindrome da assedio e
schizofrenia del sistema
comunitario in materia
di asilo e immigrazione
N
ell'attuale contesto storico che potremmo definire di globalizzazione "globalizzata"
è venuto formandosi un regime giuridico di asilo sempre più rigoroso e restrittivo.
Da un sistema che garantiva il diritto all'ingresso e al pieno riconoscimento dello status
di rifugiato con relativo riconoscimento dei diritti sociali ed economici e il diritto alla
permanenza a lungo termine, si è passati ad un regime che predilige l'esclusione all'ingresso e l'indebolimento dello status di rifugiato con conseguente indebolimento dei
diritti connessi allo status in questione.
Una, sia pur breve, disamina sul diritto d'asilo in Italia e in Europa, non può prescindere da un accenno alla Convenzione di Ginevra1 relativa allo status dei rifugiati.
La Convenzione di Ginevra definisce in modo rigoroso il concetto di rifugiato2 e
pur essendo ormai, in ragione del mutato contesto storico - politico, per così dire, un pò
fuori moda rimane il punto di riferimento di tutti gli atti normativi inerenti lo status del
rifugiato.
Lo spirito che aveva animato i compilatori della Convenzione di Ginevra non era
di carattere esclusivamente umanitario. L'Europa dell'immediato dopo guerra nella situazione determinata dalla "Guerra fredda", divisa in due blocchi, in un certo senso strumentalizzava la Convenzione talvolta enfatizzando il bisogno di protezione di coloro che
fuggivano dai Paesi al di là della Cortina di ferro e ponendosi come esempio di libertà
individuali in contrapposizione al totalitarismo dei Paesi dell'est.
La prova di tale atteggiamento può esser desunta dai criteri posti alla base della
Convenzione stessa, quali la clausola geografica che fino al 19673 non consentiva di
prendere in considerazione domande di asilo se non nei confronti di chi proveniva
dall'Europa dell'Est e la clausola giuridica che, attualmente ancora in vigore, consente di
chiedere asilo soltanto a chi dimostri di essere individualmente perseguitato4. Inoltre,
benchè la Convenzione di Ginevra non specifichi in alcun modo la figura dell'"agen* Avvocato in Roma. Cultore della materia presso
la Cattedra di Diritto dell' Unione europea, Assegnista di
ricerca in Diritto dell'Unione europea, Facoltà di Scienze
Politiche, Università degli Studi di Roma "La Sapienza".
2 La Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951
adottata dall'Organizzazione delle Nazioni Unite, è entrata in
vigore in Italia il 22 aprile 1954. Art. 1, lett. A) comma 2 della
Convenzione di Ginevra: "Ai fini della presente Convenzione, il
termine di rifugiato è applicabile a chiunque, per causa di
avvenimenti anteriori al 1° gennaio 1951 e nel giustificato
timore d'essere perseguitato per la sua razza, la sua religione,
la sua cittadinanza, la sua appartenenza a un determinato
gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, si trovi fuori
130
dello Stato di cui possiede la cittadinanza e non può o, per tale
timore, non vuole domandare la protezione di detto Stato;
oppure a chiunque essendo apolide e trovandosi fuori del suo
Stato di domicilio in seguito a tali avvenimenti, non può, o per
il timore sopra indicato, non vuole ritornarvi".
3 Il 31 gennaio 1967 è stato adottato il "Protocollo"
di New York, entrato in vigore il 4 ottobre 1967, reso esecutivo
in Italia con legge di autorizzazione alla ratifica del 14 febbraio
1970 n. 95, aggiunto alla Convenzione per rimuovere i limiti di
carattere geografico, per rendere effettivamente internazionale
la portata della Convenzione che da quel momento può esser
applicata qualunque sia lo Stato di provenienza del richiedente
il riconoscimento dello status di rifugiato.
te persecutore", essendo lo Stato l'agente persecutore nel regime sovietico, era (ed
è) invalso l'uso di concedere lo status di rifugiato esclusivamente a chi dichiarava (e
dichiari) di esser perseguitato dallo Stato di appartenenza.
La Convenzione, poi, è uno strumento di carattere vincolante, nel senso che
gli Stati parte alla Convenzione hanno l'obbligo se non di garantire il riconoscimento dello status di rifugiato, quanto meno di garantire l'ingresso nel proprio Stato e di
valutare la domanda del richiedente asilo. Inoltre, benchè la Convenzione di Ginevra
non faccia riferimento alla permanenza a lungo termine, questa è divenuta la pratica in Europa, nel senso che il riconoscimento dello status da diritto ad un permesso
di soggiorno a tempo indeterminato fino a quando, cioè, non dovessero venir meno
le cause che hanno dato luogo al riconoscimento dello status stesso.
Inoltre, in ossequio al principio di non refoulement5 tutti gli Stati europei
garantivano l'ingresso dei richiedenti asilo, senza alcuna restrizione all'attraversamento delle frontiere legata al visto d'ingresso, o in forma di sanzioni ai vettori.
Inoltre, la procedura per la determinazione dello status di rifugiato era immediatamente attivata e "mentre una sola procedura era disponibile per tutti i richiedenti
asilo in un Paese, era possibile fare richiesta successivamente in un Paese europeo
differente"6.
Un'ulteriore precisazione si rende necessaria al fine di sgomberare il campo
da ogni equivoco sulla differenza fra la figura del rifugiato e quella dell'asilato
politico7. Nonostante, infatti, la confusione che normalmente si fa tra le due figure
in realtà non vi è alcuna differenza. Infatti, "il richiedente asilo è colui che, avendo i requisiti stabiliti dalla Convenzione di Ginevra, può fare domanda per ottenere lo status di rifugiato nel Paese dove approda alla Commissione apposita per il
riconoscimento dello status di rifugiato. Il rifugiato è colui al quale la
Commissione suddetta ha riconosciuto lo status di rifugiato, status per il quale gode
del diritto d'asilo nel Paese dove gli è stato conferito lo status"8 .
In Italia la materia non ha ancora ricevuto una sua regolamentazione normativa ed è stata sostanzialmente lasciata alla previsione di mero carattere programmatico di cui all'art. 10, comma 3, della Costituzione9, non essendo ad oggi state
4 Da questo punto di vista la Convenzione di Ginevra
mostra tutti i suoi limiti. Nel mutato contesto geopolitico la
clausola giuridica esclude, sostanzialmente, dal beneficio dello
status di rifugiato le masse di profughi generate da conflitti
armati, da violenze generalizzate, da violazioni sistematiche
dei diritti umani. Da qui il sorgere di nuove figure quali i
displaced persons (sfollati) e i rifugiati interni, categorie che
hanno diritto esclusivamente alla temporary protection la
quale, non essendo mai stata trasfusa in un accordo
internazionale (in Italia la protezione temporanea viene
regolata da decreti governativi che spesso restano in parte
inattuati), lascia agli Stati la discrezionalità di decidere a quali
gruppi concedere la protezione temporanea e a quali no; di
modo che la protezione temporanea non viene concessa sulla
base di considerazioni di carattere oggettivo, ma
esclusivamente sulla base di considerazioni interne e, talvolta,
arbitrarie degli Stati.
5 Art. 33 della Convenzione di Ginevra: "Nessuno Stato
contraente espellerà o respingerà, in qualsiasi modo,
un rifugiato verso i confini di territori in cui la sua vita o la
sua libertà sarebbero minacciate a motivo della sua razza,
della sua religione, della sua cittadinanza, della sua
appartenenza a un gruppo sociale o delle sue opinioni
politiche".
6 Cfr. D. JOLY, I paramentri del nuovo regime d'asilo in
Europa, in La Critica sociologica, Roma, 2003, p. 130.
7 Cfr., in proposito, A.L.VALVO, Nota sulla sentenza Jaber
Allen, in Rivista della Cooperazione Giuridica Internazionale,
Nagard, Milano, maggio - agosto 1999, p. 187 ss.
8 Si veda M. DELLE DONNE, Un cimitero chiamato
Mediterraneo. Per una storia del diritto d'asilo
nell'Unione Europea, DeriveApprodi, Roma, 2004, p. 37.
9 Art. 10, comma 3, Costituzione italiana:
"Lo straniero,al quale sia impedito nel suo paese
l'effettivo esercizio delle libertà democratiche
garantite dalla Costituzione italiana,
ha diritto d'asilo nel territorio della Repubblica,
secondo le condizioni stabilite dalla legge".
131
RomanaDOTTRINA
temi
promulgate leggi attuative di tale precetto nè potendosi ritenere tali la legge 39/90,
il D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286 (legge Turco - Napolitano) o, men che meno, la
cosiddetta legge Bossi-Fini10.
Prima di procedere alla trattazione del sistema normativo comunitario in
materia di asilo, si rende necessario un ulteriore inevitabile chiarimento. Molto
spesso la figura del rifugiato viene confusa con quella dell'immigrato: tuttavia, è da
tener presente che le due figure sono ben distinte e distanti fra loro.
L'immigrato o migrante economico, infatti, nella generalità dei casi ha "scelto" di
emigrare per cercare migliori condizioni di vita; è abbastanza giovane, ha nella generalità dei casi un alto tasso di scolarità e oltre a conoscere il Paese in cui è diretto può disporre sul posto di una rete di conoscenze che gli consente una certa "facilità" di inserimento nel nuovo contesto sociale.
Alla base della fuga del richiedente asilo, invece, vi è una non scelta, nella
misura in cui la situazione di violenza da cui fugge il richiedente asilo non lascia
possibilità diverse dalla fuga. In altri termini, l'immigrato lascia lo Stato d'origine
per ragioni di carattere economico; il rifugiato lascia lo Stato d'origine per ragioni
di carattere politico.
Nonostante ciò, la legislazione italiana ed europea in materia trattano le due
figure come fossero un tutt'uno provocando uno stato di confusione e un sistema
restrittivo che concede sempre minori garanzie, da un canto, per gli immigrati e,
d'altro canto, per i richiedenti asilo.
Lo spirito umanitario che aveva caratterizzato le iniziative internazionali in
seguito ai tragici eventi della seconda guerra mondiale, ha lasciato il posto ad una
tendenza restrittiva che è andata via via crescendo nell'arco degli anni ottanta e
novanta11.
La causa di tale cambiamento può essere ravvisata in un duplice ordine di fattori: uno di ordine economico e uno di ordine politico. Da una canto, infatti, la crisi
economica che si è abbattuta in tutta l'Europa negli anni settanta, ha determinato
una contrazione della necessità di forza lavoro immigrata e, d'altro canto, la "caduta" del muro di Berlino ha reso non più attuali istituti normativi, come la
Convenzione di Ginevra, concepiti in funzione del non più esistente clima di "guerra fredda".
La normativa europea in materia è espressione del mutato clima politico ed
economico. L'accesso ai Paesi europei viene reso sempre più complicato e difficoltoso dall'inserimento di un sistema di visti che rende pressocchè impossibile un
ingresso legale da parte di quanti intendono accedere alla procedura per il riconoscimento dello status di rifugiato. Vengono, altresì, introdotte delle misure sanzionatorie a carico dei vettori che trasportano passeggeri privi di documenti. L'accesso
alla procedura d'asilo viene limitato dalla regola del "primo Paese d'asilo" e da
10 Legge 30 luglio 2002 n. 189.
11 "Il clima politico in Europa comunque è tale
che il tema dell'immigrazione può esser vantaggiosamente
sfruttato da gruppi conservatori e reazionari che speculano
132
sulla paura dell'opinione pubblica condizionata dai media e
preoccupata di un'invasione straniera": così F. FERRAROTTI,
Qualche commento sull'effetto dei movimenti migratori
sulla società europea, in La critica sociologica, Roma, 2003,
p. 61.
accordi di riammissione con i Paesi di transito. Nell' Unione europea la possibilità
di chiedere asilo è limitata ad un solo Paese responsabile dell'esame della richiesta
e, a tacer d'ogni altro argomento, non di rado gli Stati europei si limitano alla concessione di un altro status (la protezione temporanea) del tutto estraneo alle previsioni normative della Convenzione di Ginevra.
Il Trattato di Maastricht12 istitutivo dell'Unione europea rappresenta lo specchio della mutata situazione; esso rappresenta il primo passo verso una sempre
maggiore apertura delle frontiere interne ed una conseguente chiusura verso l'esterno.
L'Unione europea con il Trattato UE non mostra di volersi dotare di una procedura comune in materia di visti, asilo e immigrazione e l'argomento viene inserito nel terzo pilastro13 all'art. K I del Titolo VI Disposizioni relative alla
Cooperazione nei settori della Giustizia e Affari Interni e affidata alla cooperazione intergovernativa14 ed è indicativo il fatto che immigrati e richiedenti asilo sono
messi insieme a soggetti di competenza della polizia come i criminali e i terroristi.
Un sia pur solamente formale mutamento di rotta15 si avrà con il Trattato di
Amsterdam16 il quale pone le basi per una comunitarizzazione della materia. Il
Trattato, infatti, prevede il trasferimento delle questioni inerenti l'immigrazione e
l'asilo dal primo al terzo pilastro con relativo trasferimento delle competenze dal
metodo intergovernativo alle istituzioni comunitarie.
La materia viene, pertanto, inserita all'interno di un nuovo Titolo, il IV, che
si intitola Visti, asilo, immigrazione ed altre politiche connesse con la libera circolazione delle persone e viene stabilito un periodo transitorio di cinque anni per il
passaggio dei poteri agli organismi comunitari17 e al termine di detto periodo, le
12 Firmato a Maastricht il 7 febbraio 1992,
adottato in Italia con legge di autorizzazione alla ratifica
del 19 ottobre 1992, n. 454, entrato in vigore il 1°
novembre 1993.
13 L'espressione viene usata nel linguaggio comunitario
per descrivere la struttura della Unione europea così
come delineata dal Trattato di Maastricht. I tre pilastri
sono: la dimensione comunitaria, disciplinata dalle
disposizioni contenute nei Trattati istitutivi delle
Comunità europee (primo pilastro); la politica estera
e di sicurezza comune disciplinata dal titolo V
del Trattato sull'Unione europea (secondo pilastro); la
cooperazione nei settori della giustizia e degli affari
interni disciplinata dal titolo VI del Trattato
e divenuta in seguito alle modifiche introdotte
dal Trattato di Amesterdam, cooperazione di polizia e
giudiziaria in materia penale (terzo pilastro).
14 Consiste in una forma di cooperazione fra gli Stati
in materie e competenze non delegate all'Unione
europea, per il tramite di strumenti tipici del diritto
internazionale (convenzioni) con conseguente pressocchè
totale esclusione degli organi comunitari. Lo strumento
della cooperazione intergovernativa è tipico del secondo
pilastro e del terzo pilastro e si distingue dal metodo
comunitario il quale indica il procedimento istituzionale
che utilizza i meccanismi tipici del primo pilastro
dell'Unione europea, cioè le procedure tipiche delle
Comunità istituite negli anni cinquanta.
15 Il, solo apparentemente, mutato atteggiamento
deriva dalle conclusioni cui si era pervenuti al Consiglio
europeo di Tampere, in occasione del quale si era
sottolineata la necessità di una politica comune
in materia di asilo e immigrazione. Temi che in occasione
del Consiglio europeo di Tampere erano anche
stati individuati come intimamente connessi ma nel
contempo distinti fra di loro. Per "regime europeo comune
in materia di asilo", il Consiglio europeo di Tampere aveva
inteso un sistema fondato sull'applicazione integrata
e globale della Convenzione di Ginevra e sul
mantenimento del principio di non refoulement (non
respingimento).
16 Firmato ad Amsterdam il 2 ottobre 1997, adottato
in Italia con legge di autorizzazione alla ratifica del 16
giugno 1998, n. 209, entrato in vigore il 1° maggio 1999.
17 Art. 61 Trattato di Amsterdam: "Allo scopo di istituire
progressivamente uno spazio di libertà, sicurezza
e giustizia il Consiglio adotta: entro un periodo
di cinque anni a decorrere dall'entrata in vigore
del Trattato di Amesterdam, misure volte ad assicurare
la libera circolazione delle persone a norma dell'art. 14,
insieme a misure di accompagnamento direttamente
collegate in materia di controlli alle frontiere esterne,
asilo, e immigrazione ... nonché misure per combattere
la criminalità ... altre misure nei settori dell'asilo,
dell'immigrazione e della salvaguardia dei diritti
dei cittadini dei Paesi terzi, a norma dell'art. 63".
133
RomanaDOTTRINA
temi
misure relative all'asilo dovrebbero essere adottate in base alle procedure tipiche
del diritto comunitario.
Ancor prima di affrontare in chiave critica il contenuto del titolo IV del
Trattato di Amsterdam, occorre fare un breve cenno alla Convenzione di Dublino e
al, precedente nel tempo, accordo di Schengen. L'accordo di Schengen18 del 1985
viene originariamente stipulato da Francia, Germania, Belgio, Olanda e
Lussemburgo. Tramutato in Convenzione di applicazione nel 1990, viene sottoscritto da Italia, Spagna, Portogallo, Grecia e Austria ed entra in vigore nel 199519.
La Convenzione di Schengen, dedica un ampio spazio al diritto d'asilo e nel dichiarato intento di assicurare ed ampliare sempre più uno spazio di giustizia, libertà e
sicurezza per tutti coloro i quali si trovano all'interno dell'Unione, pone delle regole estremamente restrittive per i richiedenti asilo, sia per quanto riguarda l'ingresso20 vero e proprio, sia per quanto riguarda l'esame della domanda di asilo ed il
Paese competente ad esaminare la domanda21. La situazione peggiora notevolmente con l'entrata in vigore della Convenzione di Dublino22 che ha definito i criteri che
obbligano uno Stato a ritenersi compente ad esaminare una richiesta di asilo. I criteri che determinano l'obbligo di uno Stato ad esaminare la domanda di asilo sono
nell'ordine: legami familiari23, possesso di un permesso di soggiorno24, possesso di
un visto25, ingresso irregolare26, ingresso senza obbligo di visto27 ed infine il criterio della presentazione della domanda28.
Se si pone mente al dettato normativo della Convenzione di Ginevra, non ci si può
esimere dal fare delle considerazioni critiche sul contenuto della Convenzione di
18 L'obiettivo principale dell'accordo di Schengen
è quello di giungere ad una progressiva soppressione
delle frontiere comuni e di assicurare la libera
circolazione delle merci e delle persone all'interno
dell'area comune.
19 In Italia la Convenzione di Schengen è entrata
in vigore nel 1996.
20 L'ingresso nello spazio europeo è, infatti, subordinato
al possesso di un documento valido e di un visto
rilasciato dalle competenti autorità consolari.
21 Fino all'entrata in vigore della Convenzione
di Dublino del 1997, la materia relativa allo Stato
competente a prendere in esame le domande di asilo
era regolata dalla Convenzione di Schengen, la quale
se, da un canto tendeva (e tende) ad evitare il
fenomeno dei cosiddetti "rifugiati in orbita", in altri
termini, del rinvio da un Paese ad un altro della
competenza di prendere in carico la domanda d'asilo,
d'altro canto, e in netto contrasto con la Convenzione
di Ginevra che nulla dice in merito allo Stato in cui la
domanda può esser presentata, la Convenzione di
Schengen toglie al richiedente asilo la possibilità di
riproporre la domanda in differenti Stati dell'Unione
europea con la conseguenza che il diniego dello status
di rifugiato da parte dello Stato ritenuto "competente"
rende non più proponibilile la domanda stessa.
22 La Convenzione sulla determinazione dello Stato
competente per l'esame di una domanda di asilo
presentata in uno degli Stati membri delle Comunità
134
europee, entrata in vigore il 1° settembre 1997,
è stata redatta allo scopo di assicurare l'unicità
dell'esame di ogni domanda d'asilo.
23 Ai sensi dell'art. 4 della Convenzione di Dublino
la competenza ad esaminare la domanda di asilo va
individuata in capo allo Stato in cui è stato riconosciuto
rifugiato e risiede abitualmente un membro della
famiglia del richiedente asilo.
24 Ai sensi dell'art. 5, comma 1, della Convenzione,
in subordine rispetto al criterio di cui all'art. 4, l
a competenza va individuata in capo allo Stato
che ha rilasciato un permesso di soggiorno in corso
di validità.
25 Ai sensi dell'art. 5, comma 2, la competenza
è dello Stato che ha rilasciato al richiedente asilo
un visto di ingresso o di transito in corso di validità.
26 Ai sensi dell'art. 6, la competenza è dello Stato
sul cui territorio il richiedente asilo è entrato
irregolarmente provenendo da uno Stato terzo non
membro dell'Unione europea.
27 Ai sensi dell'art. 7, tra più Stati rispetto ai quali
il richiedente asilo non ha obbligo di visto, competente
è l'ultimo Stato dove la domanda è stata presentata.
28 L'art. 8, della Convenzione di Dublino, pone un criterio
sussidiario in base al quale la competenza ad
esaminare la domanda viene individuata in capo al
primo Stato in cui la domanda è stata presentata.
Schengen e della Convenzione di Dublino. L'art. 33 della Convenzione di Ginevra,
infatti, stabilisce il principio del non respingimento, principio che impone agli Stati
parte alla Convenzione di astenersi dall'espellere o rimpatriare i richiedenti asilo in
territori dove la loro vita o la loro libertà sarebbe minacciata. Il principio in oggetto
sembrerebbe esser stato sostituito dal principio del non - ingresso, che si manifesta
attraverso le misure sempre più restrittive previste dalla Convenzione di Schengen
in materie di visti, di sanzioni per i vettori e in casi di respingimento alla frontiera.
Gli Stati dell'Unione si giustificano in considerazione del fatto che il principio di
non refoulement, non vieta - in astratto - il rientro del richiedente asilo in un Paese
terzo che può considerarsi "sicuro", ritenendosi con ciò legittimati a rinviare i
richiedenti asilo in quegli Stati in cui hanno fatto transito e ritenuti, appunto, Stati
terzi "sicuri".
Orbene, a parte il fatto che nella normativa internazionale non è dato rinvenire alcuna prescrizione che imponga al richiedente asilo di presentare la domanda in
un determinato Paese e unicamente in quello (il "primo Paese d'asilo" o il "Paese
terzo sicuro"), in ragione del fatto che non esiste un principio di diritto internazionale in base al quale una persona che ha lasciato il proprio Paese per sfuggire ad una
situazione di violenza e di persecuzione deve far richiesta di asilo nel primo Paese
che è in grado di raggiungere, vi è che i criteri con cui si identificano i "Paesi terzi
sicuri" non sono affatto uniformi e può accadere che Paesi come quelli che sono
parte del Consiglio d'Europa, generalmente considerati "sicuri" per definizione, possono presentare rischi per alcune categorie di persone29. A tacer d'ogni altro argomento, inoltre, vi è che è invalso sempre più l'uso di ricorrere sempre più spesso al
concetto di "Paese di origine sicuro"30. I richiedenti asilo il cui Paese di origine è
ritenuto essere - sulla base di criteri di valutazione del tutto arbitrari e "scollati" dalle
realtà locali -, "sicuro" possono essere rimpatriati senza una considerazione sostanziale della loro situazione individuale.
L'art. 63 del Trattato di Amsterdam31, lungi dal contenere una sistemazione
organica e coerente della materia, pur facendo riferimento alla Convenzione di
Ginevra, perpetua l'errore e la confusione introdotti dal Trattato di Schengen e dalla
Convenzione di Dublino, sia nel voler individuare i criteri per stabilire lo Stato
competente ad esaminare la domanda, sia nel trattare con criteri di omogeneità
figure ben distinte fra loro come quella degli immigrati, dei rifugiati e addirittura
degli sfollati (figura che non viene minimamente contemplata dalla Convenzione
29 L'aggiornamento della legge per l'asilo in Austria,
entrata in vigore il 1° giugno 1992 non protegge i
disertori, gli obiettori di coscienza (anche se esposti alla
pena di morte nel proprio Paese d'origine) e le vittime di
guerra civile anche nel caso in cui abbiano subito arresti
arbitrari, torture o altre violenze.
30 Oltre a non avere alcun fondamento giuridico,
il concetto di "Paese terzo sicuro" è violativo della riserva
geografica abolita con il Protocollo di New York del 1967.
31 Art. 63, Trattato di Amsterdam: "Il Consiglio, deliberando
secondo la procedura di cui all'art. 67, entro un periodo di
cinque anni dall'entrata in vigore del Trattato di
Amsterdam, adotta: 1) misure in materia di asilo, a norma
della Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951 e del
protocollo del 31 gennaio 1967, relativo allo status dei
rifugiati, e degli altri trattati pertinenti, nei seguenti
settori: a) criteri e meccanismi per determinare quale Stati
membro è competente per l'esame della domanda di asilo
presentata da un cittadino di un Paese terzo in uno degli
Stati membri; b) norme minime relative all'accoglienza dei
richiedenti asilo negli Stati membri; c) norme minime
relative all'attribuzione della qualifica di rifugiato a
cittadini di Paesi terzi; d) norme minime sulle procedure
applicabili negli Stati membri per la concessione o la revoca
dello status di rifugiato. 2) misure applicabili ai rifugiati e
agli sfollati nei seguenti settori ..."
135
RomanaDOTTRINA
temi
di Ginevra del 1951) dando luogo ad un sistema che non è azzardato definire schizofrenico e per niente garantista dei diritti e delle libertà fondamentali32. Secondo
il sistema comunitario agli aspiranti rifugiati, infatti, non basta avere i requisiti stabiliti dalla Convenzione di Ginevra per essere riconosciuti tali. I richiedenti asilo
potranno essere riconosciuti come rifugiati se soltanto riusciranno a passare i controlli alle frontiere esterne e giungere nello spazio Schengen; ad accedere alle procedure per il riconoscimento del relativo status; ad evitare che la loro domanda non
appaia manifestamente infondata; sperare che il "Paese terzo" verso il quale potrebbero essere respinti non sia considerato "sicuro"33; essere perseguitati; avere come
soggetto persecutore lo Stato di provenienza34; essere credibili quando gli si chiede delle persecuzioni subite35, pena il diniego del riconoscimento.
Un'ultima considerazione va fatta sul Protocollo sull'asilo per i cittadini
degli Stati membri dell'Unione europea allegato al Trattato sull'Unione europea, il
quale stabilisce aprioristicamente la infondatezza di eventuali domande d'asilo presentate da cittadini di Stati membri in un altro Stato membro della Unione europea
sul presupposto che "Gli Stati membri dell'Unione europea, dato il livello di tutela
dei diritti e delle libertà fondamentali da essi garantito, si considerano reciprocamente Paesi di origine sicuri a tutti i fini giuridici e pratici connessi a questioni inerenti l'asilo".
A tal proposito occorre dire che il Protocollo in questione presenta molteplici aspetti di contraddittorietà non soltanto con le norme dettate dalla
Convenzione di Ginevra, ma anche e soprattutto con norme del Trattato stesso.
Infatti, privare in astratto i cittadini europei del diritto di presentare domanda di
asilo in uno Stato membro è in contrasto da un canto con l'art. 3 della Convenzione
di Ginevra36 in forza del quale le norme sull'asilo vanno applicate nei confronti di
32 Il sistema appare ancor più schizofrenico se si considera
che il preambolo del Trattato che adotta una
Costituzione per l'Europa è del seguente tenore:
"Ispirandosi alle eredità culturali, religiose e umanistiche
dell'Europa, da cui si sono sviluppati i valori universali
dei diritti inviolabili e inalienabili della persona, della
libertà, della democrazia, dell'uguaglianza e dello Stato
di diritto ..." e che l'art. I - 2 del Trattato in oggetto
prevede che "L'Unione si fonda sui valori del rispetto
della dignità umana, della libertà, della democrazia,
dell'uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei
diritti umani, compresi i diritti delle persone
appartenenti a una minoranza. Questi valori sono
comuni agli Stati membri in una società caratterizzata
dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla
tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità
tra uomini e donne".
33 I criteri per la determinazione della sicurezza di un
Paese sono: la consistenza del numero dei richiedenti
asilo negli ultimi anni, l'esistenza di istituzioni
democratiche che garantiscono il rispetto dei diritti e
delle libertà fondamentali della persona, il livello di
stabilità di tali Paesi, la valutazione dei rischi che
seguono i drastici cambiamenti politici.
34 Benchè la Convenzione di Ginevra del 1951 non specifici
cosa o chi debba intendersi per "agente persecutore",
136
è invalso l'uso di concedere lo status
di rifugiato solamente a chi dimostri che la persecuzione
provenga dallo Stato di origine,
con la conseguenza che non vengono prese
in considerazione le domande quando
la persecuzione proviene da fazioni politiche,etniche
o religiose.
35 "Di particolare fragilità e disadattamento
appaiono i richiedenti asilo che hanno subito
tortura quando sono chiamati dalla Commissione
per il riconoscimento dello status di rifugiato
a dar conto della loro storia. in loro si verifica
un processo di rimozione dell'evento, come strategia
psicologica posta in atto per superare lo shock ...
in questo stato d'animo è accaduto più volte che i
richiedenti asilo, interrogati dalla Commissione siano
stati evasivi, reticenti sulle torture subite; così, le
domande d'asilo dei richiedenti, considerate
inattendibili, sono state in alcuni casi respinte": così M.
DELLE DONNE, Un cimitero chiamato Mediterraneo, cit.,
p. 25 ss.
36 Art. 3 della Convenzione di Ginevra del 1951:
"Gli Stati contraenti applicano le disposizioni
della presente Convenzione ai rifugiati senza
discriminazioni quanto alla razza, alla religione
o al Paese d'origine".
chiunque a prescindere dal Paese di provenienza e, d'altro canto, pone una specie
di limitazione geografica venuta meno, come detto, con il Protocollo di New York
del 1967. Ma non è tutto.
Com'è noto, l'art. 6, par. 1, del Trattato di Amsterdam fa un riferimento esplicito ai diritti e alle libertà fondamentali come principi ispiratori su cui si fonda
l'Unione europea e come valori preminenti ai quali è sottoposta e finalizzata l'azione delle istituzioni comunitarie; anzi, l'esigenza del rispetto di quei principi si
impone sia come obbligo degli Stati già membri, sia come condizione per l'adesione di nuovi Stati37. Dal canto suo, l'art. 7 del Trattato di Nizza38 prevede che "Su
proposta motivata di un terzo degli Stati membri, del Parlamento europeo o della
Commissione, il Consiglio, deliberando a maggioranza dei quattro quinti dei suoi
membri, previo parere conforme del Parlamento europeo, può constatare che esiste
un evidente rischio di violazione grave da parte di uno Stato membro di un o più
principi di cui all'art. 6, par. 1, e rivolgergli le appropriate raccomandazioni ...".
Come è facile constatare, pertanto, l'art. 7 in questione introduce una procedura di
allarme e una sorta di controllo preventivo. Orbene, se i compilatori del Trattato di
Nizza hanno ipotizzato che, in astratto, gli Stati membri dell'Unione possano violare (e si badi che già "l'evidente rischio" della violazione rende attuabile la procedura di controllo preventivo) i principi di cui all'art. 6, par. 139, ci si domanda come
mai si sia ritenuto di allegare al Trattato il Protocollo sull'asilo per i cittadini degli
Stati membri dell'Unione europea che, come detto, vieta di fatto che i cittadini
dell'Unione possano richiedere lo status di rifugiato in Stati membri dell'Unione
europea che da un canto, si ritiene siano forniti di istituzioni democratiche e di un
patrimonio culturale basato sul diritto e in ragione di ciò si esclude la possibilità di
far chiedere asilo ai loro cittadini e, d'altro canto, possono veder sospesi40 alcuni
loro diritti relativi all'esser parte dell'Unione qualora vi sia stata la constatazione41
dell'esistenza di una violazione grave e persistente di uno o più principi di cui
all'art. 6, par. 1. Principi che, come detto, riguardano il rispetto dei diritti e delle
libertà fondamentali della persona umana, la cui violazione costituisce il presupposto per chiedere asilo politico.
Alla luce di quanto appena detto, non appare azzardato sostenere che sono
davvero sorprendenti le contraddittorie stravaganze del dettato comunitario in
37 Si veda, in proposito, A. L. VALVO, Diritti e libertà
fondamentali e sospensione degli Stati membri
dell'Unione europea, in Rivista della Cooperazione
Giuridica Internazionale, Nagard, Milano, settembre dicembre 2003, p. 21 ss.
38 Firmato a Nizza il 26 febbraio 2001, ratificato in Italia
con legge di autorizzazione dell'11 maggio 2002, n.
102, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 31 maggio
2002, n. 126 - Suppl. Ord., entrato in vigore il 1°
febbraio 2003.
39 Art. 6, par. 1 del Trattato nella versione consolidata:
"L'Unione si fonda sui principi di libertà, democrazia,
rispetto dei diritti dell'uomo e delle libertà
fondamentali e dello stato di diritto, principi che sono
comuni agli Stati membri".
40 Art. 7, par. 3, Trattato di Nizza: "Qualora sia stata
effettuata la constatazione di cui al par. 2, il Consiglio,
deliberando a maggioranza qualificata, può decidere
di sospendere alcuni dei diritti derivanti allo Stato
membro in questione dall'applicazione del presente
Trattato ...".
41Art. 7, par. 2, Trattato di Nizza: "Il Consiglio, riunito
nella composizione dei capi di Stato o di governo,
deliberando all'unanimità su proposta di un terzo
degli Stati membri o della Commissione e previo
parere conforme del Parlamento europeo, può
constatare l'esistenza di una violazione grave e
persistente da parte di uno Stato membro di uno
o più principi di cui all'art. 6, par. 1, dopo aver invitato
il governo dello Stato membro in questione
a presentare osservazioni".
137
materia e nonostante il ricorso costante che si fa al termine armonizzazione è facile constatare che, quanto meno in materia di immigrazione e asilo, la normativa è
sempre più irregolare e disomogenea.
L'Unione europea che da organizzazione di carattere economico aspira a
diventare una organizzazione di carattere politico che si affianca, o meglio, pretende di sovrapporsi all'azione degli Stati, mostra tutti i suoi limiti e la sua incapacità
di affrontare le mutate esigenze di un mondo sempre più inevitabilmente globale e
mostra, altresì, segni di incontestabile involuzione nelle politiche in materia di asilo
strumentalizzando la "sindrome da assedio" che colpisce l'opinione pubblica anziché rendere l'opinione pubblica consapevole dei vantaggi economici dell'immigrazione.
Nell'intento di garantire uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia a tutti
coloro che si trovano all'interno di detto spazio, l'Europa, in nome di un malinteso
senso di "eurocentrismo"42, è diventata una fortezza preoccupata esclusivamente di
conservare i diritti e i privilegi di chi sta "dentro" in contrapposizione a chi, fuori
dai privilegi, chiede di entrare: "Ci sono fattori non materiali, ma culturali e spirituali, che fanno emergere un grandissimo pericolo. Sono sentimenti che nelle società ricche traggono origine dall'inconscio collettivo, dal senso della perduta stabilità, dalla paura del futuro, dal timore di non conservare i diritti o i privilegi acquisiti e che si esprimono in una ricerca di esclusività, in una esacerbata affermazione
di identità, in un'ostilità per lo straniero, in un ostracismo per il diverso, in una
caduta delle garanzie giuridiche, in una difesa corporativa del proprio gruppo, o
regione, o nazione, in un daltonismo sociale che non ha occhi per il colore della
pelle degli altri"43.
42 "Bisognerebbe fare di più per rendere la gente più
assuefatta con le culture non europee.
Ma c'è un grande ostacolo di nome eurocentrismo. Vale
a dire la convinzione che l'unica vera e degna cultura
sia quella europea mentre le altre culture non europee
sono solo pre-culture, in attesa di essere riconosciute e
incorporate, per così dire, nel corpus della cultura
138
europea": F. FERRAROTTI, Qualche commento
sull'effetto dei movimenti migratori sulla società
europea, in La critica sociologica, cit. p. 61.
43 Dalla prefazione di D. GALLO al volume
di M. DELLE DONNE, Un cimitero chiamato
Mediterraneo, cit., p. 14.
RomanaDOTTRINA
temi
Avv.
Marina MILLI
Avv.
Maria Teresa FONZI
Il giudizio di appello
dinanzi la Corte
dei Conti in materia
pensionistica.
N
ell’ambito della giurisdizione amministrativa, ai sensi dell’art.12 della L.2248/1865
All.E e dell’art.62 del R.D. 1214/1934, la Corte dei Conti ha competenza esclusiva in
materia di pensioni a totale carico dello Stato, nonché di pensioni degli ex Dipendenti degli
Enti Locali, tutte ora confluite nell’INPDAP, Istituto Nazionale per i Dipendenti
dell’Amministrazione Pubblica e da esso erogate. Ha altresì competenza in materia di pensioni erogate dall’IPOST, Istituto Postelegrafonici e dall’INPS, limitatamente alla Cassa ex
Dipendenti delle Ferrovie dello Stato, già gestiti dalle Direzioni Provinciali del Tesoro. Ad
essa è anche attribuita la competenza in materia di pensione privilegiata c.d. tabellare, chiesta ed erogata in favore degli ex militari di leva a seguito di infermità riconosciute come
contratte durante ed a causa del servizio (L.308/81 e successive modifiche).
La competenza della Corte dei Conti si estende a tutte le questioni inerenti all’an ed
al quantum della pensione in sé, nelle singole voci di cui si compone (compresa l’indennità
integrativa speciale), così come anche al riscatto di periodi assicurativi ed alla ricongiunzione, ai diritti c.d. “accessori” come gli interessi legali e la rivalutazione monetaria da liquidare sugli arretrati pensionistici, ed anche al recupero disposto dagli Enti per i ratei già erogati. Non ha cognizione relativamente allo sviluppo del rapporto di servizio ed alla sua cessazione, né al trattamento di fine rapporto, all’equo indennizzo ed al riconoscimento della
dipendenza dal servizio di infermità, materie devolute dapprima ai Tribunali Amministrativi
Regionali, quindi al Giudice Ordinario in funzione di Giudice del Lavoro ai sensi dell’ art.
68 del D. Lgs.29/93 e dall’ art. 29 D.Lgs.80/98.
La Corte dei Conti è altresì esclusivamente competente in materia di pensioni di
guerra (T.U. 915/78), con riferimento alle due grandi guerre che hanno interessato il secolo
scorso (i cui giudizi non sono ad oggi ancora esauriti!) ed anche ai recenti conflitti cui il
nostro Paese ha preso parte.
Tutti i giudizi dinanzi la Corte dei Conti (ricordiamo che la stessa conosce anche dei
giudizi di conto e di quelli in materia di responsabilità amministrativa), sono stati per molto
tempo regolati esclusivamente dal R.D.1038/1933, recante “Approvazione del Regolamento
di Procedura per i giudizi dinanzi la Corte dei Conti”, nonché dal R.D.1214/1934
(Approvazione del Testo Unico delle Leggi sulla Corte dei Conti). I giudizi in materia di
pensione sono previsti al capo V, dall’art. 71 all’ art. 89 del Regolamento sopra citato. Il
ricorso, depositato dal ricorrente anche senza l’assistenza di avvocato, doveva essere istruito dal Procuratore Generale della Corte, mediante acquisizione del fascicolo amministrativo, quindi deciso al termine dell’istruttoria in composizione collegiale, presenti il P.G. ed il
ricorrente o il suo legale. La sentenza prendeva nome di “decisione” (il termine è rimasto
nell’ambito dei giudizi innanzi al Consiglio di Stato).
Il R.D.1038/1933 passa quindi al Titolo III:
“Dei rimedi contro le decisioni”.
139
RomanaDOTTRINA
temi
Prevede tra questi l’opposizione contumaciale e di terzo, l’appello, la revocazione
ed il ricorso per annullamento.
Ma i suddetti “rimedi” non erano destinati anche avverso le decisioni in materia
pensionistica, materia esclusa, quindi, dalla possibilità di un secondo grado di giudizio!
E l’appello avverso le decisioni della Corte dei Conti in materia di pensione non è
stato previsto nemmeno allorché il legislatore ha voluto riordinare la Corte dei Conti con
il D.L. 453 /93, convertito, dopo essere stato riproposto più volte, con modifiche nella
L.19/94.
Al fine di alleviare i lunghi tempi in cui operava la giustizia presso la suddetta
Autorità Giurisdizionale (si assisteva a ricorsi decisi anche dopo un ventennio dalla loro
proposizione!), avente sede giurisdizionale solo in Roma, sulla scia delle già istituite
Sezioni Regionali in Sardegna (L.658/84) ed in Sicilia, la legge ha previsto innanzitutto
il nuovo riordino delle sedi giurisdizionali della Corte, con la istituzione di Sezioni
Regionali sedenti ciascuna nel capoluogo di regione (art.1 co.1).
Quindi, all’art.6 regola i giudizi in materia pensionistica, abrogando l’intervento
del Procuratore Generale e prevedendo ulteriori modalità di presentazione dei ricorsi.
La mancanza dell’impugnazione delle Sentenze emanate in materia pensionistica
riservata alla Corte dei Conti, è stata più volte rilevata in sede giudiziaria dai ricorrenti e
dalla stessa magistratura, ma sembrava insormontabile il muro venutosi a creare nel
tempo, e confermato da una giurisprudenza che era restìa a convincersi della necessità di
un ulteriore grado di giudizio nel processo pensionistico, ritenendosi il cittadino comunque garantito dal complesso iter amministrativo, dalla presenza, in sede di contenzioso,
del Procuratore Generale, nonché dall’autorevolezza della sede giudiziaria, laddove il
ricorso approdava direttamente dinanzi ad una Autorità Giudiziaria superiore come la
Corte dei Conti (sentenze 146/87, 251/89, Ord. 131/98, tutte della Corte Cost.)
Dunque, secondo il D.L.453/93, convertito con L.19/94, l’appello avverso le decisioni delle Sezioni Regionali della Corte è previsto solo in materia “contabile”, ma con
la stessa legge si intravedono per la prima volta spiragli per una sostanziale modifica dell’assetto della giurisdizione anche pensionistica dinanzi la Corte. Per la prima volta,
infatti, sono istituite le Sezioni Giurisdizionali Centrali d’Appello, con unica sede in
Roma, le quali giudicano con tre magistrati (art.1 co.5) . Alle Sezioni Riunite è dunque
tolta la giurisdizione d’appello e residua quella sui conflitti di competenza e sulle questioni di massima sollevate dalle Sezioni Regionali, Centrali d’Appello o dal Procuratore
Generale(art.1 co.7).
Il mutamento nella giurisdizione affidata alla Corte dei Conti era dunque ormai
in atto ed in breve tempo è stato introdotto finalmente l’appello anche avverso le sentenze
della Corte dei Conti in materia pensionistica. Infatti, il D.L. 543/96, convertito con
Legge 639/96 ha previsto la modifica dell’ art. 1 co.5 della legge 19/94, con la conferma
dell’appello, ora avverso tutte le sentenze delle Sezioni Regionali della Corte dei Conti,
senza distinzione di materia.
L’articolo 1 della legge di conversione prevede tuttavia una limitazione in materia
di appello avverso sentenze in materia pensionistica: mentre l’appello in materia contabile è proponibile in toto, l’impugnazione in materia pensionistica è limitata ai motivi di
diritto. Il legislatore precisa al riguardo che “costituiscono questioni di fatto quelle rela-
140
tive alla dipendenza di infermità, lesioni o morte da causa di servizio o di guerra e quelle relative alla classifica o all’aggravamento di infermità o lesioni”.
La limitazione data dalla legge non è di poco conto.
Le sentenze della Corte dei Conti in materia pensionistica sono infatti volte a decidere non solo in merito all’esatto calcolo della pensione, ma anche in merito alle doglianze dei ricorrenti, cui è stata negata una pensione per non dipendenza dal servizio di infermità da essi denunciate, o per mancanza dei requisiti di inabilità a proficuo lavoro, o di
idoneità al servizio.
Ancora, la Corte è chiamata a pronunciarsi anche riguardo il recupero di somme
disposto dall’Amministrazione sui ratei di pensione.
Ora, in tutte le suddette fattispecie la Corte è chiamata a valutare l’effettivo servizio prestato dal ricorrente, la gravità delle infermità denunciate, la buona fede nella percezione dei ratei di pensione corrisposti in misura superiore al dovuto, il contemperamento
tra l’interesse dello Stato al recupero dell’indebito e quello del pensionato a condurre una
vita dignitosa.
Tutte queste sono valutazioni che sfuggono al peso delle norme istituite in materia
pensionistica e richiedono giudizi legati più a questioni di fatto che non a quelle puramente di diritto.
Ebbene, secondo la normativa in vigore, le suddette fattispecie sono tutte sottratte alla
giurisdizione d’appello, con il risultato alquanto aberrante che il dipendente sospettato come
disonesto e sottoposto a giudizio di responsabilità dinanzi la Corte dei Conti, ha la possibilità di far valere i suoi diritti in un doppio grado di giudizio “completo”, in cui i giudici di
primo e secondo grado possono esaminare e riesaminare le fattispecie nel loro complesso,
mentre il dipendente che ha svolto per molti anni il servizio per lo Stato e per questo ha contratto infermità, può far accertare l’esatto operato dell’Amministrazione, che quell’infermità ha negato come dipendente dal servizio, solo in primo grado dinanzi le Sezioni Regionali
della Corte dei Conti, mentre avverso le sentenze da esse pubblicate può ricorrere alle
Sezioni Giurisdizionali Centrali d’Appello solo nel caso, del tutto raro, in cui il Giudice di
primo grado sia incorso in violazione di legge o nel caso, altrettanto raro, in cui la sentenza
sia del tutto immotivata, come hanno voluto precisare le Sezioni Riunite della Corte dei
Conti con la Sentenza n. 10/QM del 2000.
Le tre Sezioni Giurisdizionali d’Appello hanno sinora si può dire strenuamente
difeso il ruolo di giudici di secondo grado solo limitatamente ai gravami proposti per
motivi di diritto, con ciò negando ogni possibilità di riesame nel merito delle motivazioni assunte dal giudice di primo grado (si leggano ad esempio le Sentenze n. 357/01 della
II Sezione Centrale, e n. 317/A/2000 della I Sezione Centrale) .
Unica eccezione è stata la Sezione Giurisdizionale d’Appello della Regione
Siciliana che, con Ordinanza n.40/A/02, pubblicata il 4.7.2002, ha ritenuto non manifestamente infondata l’eccezione di costituzionalità dell’art.1 co.5 del D.L. 453/93, convertito con L.19/94, e sostituito dall’art.1 del D.L. 543/96 conv. con L.639/96, per violazione degli artt. 3, 24 e 113 della Costituzione.
141
RomanaDOTTRINA
temi
Il Collegio d’Appello Siciliano ha rilevato la mancanza di giustificazione alcuna nel
limitare a particolari motivi di impugnazione le sentenze in materia di pensione, se non quella di limitare nel numero i ricorsi, timore del tutto infondato, poiché i ricorsi richiedono l’assistenza di difensore iscritto all’albo dei Cassazionisti (art. 5 bis del D.L. 543/96) e non si
consente, quindi, al ricorrente di difendersi da solo come nel primo grado.
Esso ravvisa, inoltre, la circostanza che il criterio di differenziazione assunto a
rimedio (i motivi di diritto) esula dalla tutela accordata in primo grado al ricorrente, non
permettendogli di proporre di nuovo all’esame tutti gli elementi e gli aspetti destinati a
caratterizzarla (la valutazione delle infermità, la loro natura, il servizio prestato ecc.).
La Consulta, con Ordinanza n. 84/03 ha dichiarato però la manifesta infondatezza della questione di legittimità dedotta dai giudici siciliani, confermando sostanzialmente il diritto del legislatore di differenziare gli istituti processuali, e ritenendo garantita la tutela del pensionato anche senza un doppio grado di giudizio, peraltro non costituzionalmente garantito. Secondo la Consulta, infatti, i giudizi in materia di pensione “si
configurano, in prime cure, come riesame di un complesso procedimento amministrativo
improntato ai principi della trasparenza e del contraddittorio e riguardano essenzialmente il problema dell’insorgenza del diritto, verificabile con la piena garanzia dell’impiego di tutti i mezzi istruttori per la “ricerca della verità”. La limitazione dell’appello
in tale materia, dunque, non sarebbe determinato da motivi intrinseci (il numero dei
ricorsi) bensì da motivi inerenti la specificità della materia.
Considerazioni finali
Quanto sopra esposto ha voluto riassumere cronologicamente l’iter del giudizio
d’appello dinanzi la Corte dei Conti in materia pensionistica.
Le motivazioni addotte sinora dalla giurisprudenza non convincono, tuttavia, le
scriventi, riguardo l’ancor oggi negato doppio grado di giudizio nella così particolare
materia, quale quella delle pensioni agli ex dipendenti dello Stato e degli Enti Locali. E
ciò in base alle seguenti considerazioni:
a) non si comprende perché al dipendente privato siano concessi tre gradi di giudizio e questi debbano essere negati al dipendente statale;
b) non si comprende per quale motivo questi sia, secondo la giurisprudenza,
“garantito” da un lungo procedimento amministrativo che gli conferisca o neghi la
pensione, laddove in tale procedimento il contraddittorio non è basato su un piano
di parità, rimanendo prevalente la posizione dell’Amministrazione rispetto a quella, più debole, del dipendente, che ha solo capacità di impulso o di sollecito, raramente di esame o di concreto intervento sull’emissione del provvedimento concessivo o negativo finale.
c) Sino alle riforme iniziate nel 1993 – 1994 non esisteva alcun appello, ma per i
giudizi in unico grado erano competenti Sezioni Specializzate della Corte (cinque
Sezioni per le Pensioni di Guerra, una per le Pensioni Civili ed una per le Pensioni
Militari) che decidevano i ricorsi collegialmente con cinque magistrati, nelle quali il
ricambio dei componenti del Collegio avveniva in modo estremamente graduale,
garantendosi così la conoscenza approfondita di una materia sconfinata e largamen-
142
te affidata alle cure di una giurisprudenza lentamente stratificatasi nel tempo.
Ma questa garanzia “di fatto”, oggi non esiste più.
Infatti, la gravità del negato doppio grado di giudizio in materia pensionistica si è
ancor più rimarcata allorché, allo scopo di smaltire il forte arretrato dei ricorsi pendenti,
con la L.639/96 il legislatore ha ridotto i componenti dei collegi giudicanti in numero di
tre, quindi ha istituito con l’art. 5 della L.205/00 il “Giudice Unico delle pensioni”: i
ricorsi in materia pensionistica sono quindi decisi in primo grado da un unico giudice,
dinanzi al quale trovano applicazione gli artt. 420, 421, 429, 430 e 431 del c.p.c.
Viene pertanto a mancare appunto in primo grado anche quella garanzia costituita
dalla collegialità della decisione, per lasciare ad un unico magistrato il compito di decidere, senza possibilità di contestazione, in merito al servizio prestato per tanti anni allo
Stato, alle infermità contratte, alla quantificazione della pensione che dovrà costituire il
sostentamento del ricorrente;
d) le norme che regolano l’iter per il riconoscimento della dipendenza da causa di
servizio di infermità denunciate, sono le stesse che regolano la concessione dell’equo indennizzo, ora sottratto alla giurisdizione del Giudice Amministrativo per
essere deciso dal Giudice Ordinario del Lavoro, con conseguente possibilità di
adire tre gradi di giudizio;
e) la disparità di trattamento tra i dipendenti statali e degli enti pubblici e gli altri
dipendenti non può considerarsi superata, perché le questioni per le quali l’appello (dei dipendenti statali e degli enti pubblici) è ammesso sono di diritto, mentre
quelle per le quali non è ammesso sono di fatto, quindi non sarebbero identiche.
Ma nell’ottica del cittadino destinatario dei provvedimenti che decidono in merito
al suo diritto a pensione, del diritto civile e della tutela giurisdizionale da cui egli
deve essere assistito, come si può spiegare che l’infermità di cui è portatore un
dipendente pubblico va esaminata diversamente rispetto alla stessa di cui è portatore un dipendente privato?
f) le questioni di fatto sottratte all’esame del giudizio d’appello in materia pensionistica non possono trovare un rimedio nemmeno nel giudizio per revocazione,
proposto ai sensi dell’ art. 106 del R.D. 1038/33, poiché anche in tal caso la revocazione della sentenza di primo grado in base ad errore di fatto, prevista al n. 4)
dell’ art. 395 c.p.c. consiste in una svista dell’istanza giudicante, che, pur in presenza di adeguata documentazione in causa, trascura la certa esistenza o l’assoluta inesistenza di un fatto di cui bisognava tener conto ai fini della decisione. Anche
in tal caso si tratta, dunque, di un errore raramente rilevante nei confronti del
Giudice di primo grado.
Si auspica che la riforma del sistema giudiziario ponga fine alla vicenda, per consegnare ai giudici delle Sezioni Giurisdizionali d’Appello della Corte dei Conti la piena
cognizione dei ricorsi in materia di pensione, senza timore di veder gravati i loro tavoli
da ricorsi inammissibili.
143
RomanaDOTTRINA
temi
Avv.
Nicoletta CICCONETTI
L
I poteri del giudice
ordinario in materia
di pubblico impiego
privatizzato:
la disapplicazione
dell’atto amministrativo
presupposto contrario
alla legge.
a privatizzazione del pubblico impiego, frutto di numerosi interventi legislativi, è
iniziata con la Legge delega 421/92 ed il pedissequo D.lgs. 29/93 (nonché i Decreti
legislativi correttivi 247/93, 470/93 e 546/93), per poi continuare con il D.lgs. 80/98,
modificato dal D.lgs. 387/98, sino a giungere all’attuale sistemazione di tutta la materia con il D.lgs. 165 del 30 marzo 2001 (Testo Unico sul pubblico impiego).
Alla base dei citati interventi vi era, come risaputo, la necessità di razionalizzare
e riorganizzare l’intero apparato statale in chiave moderna e funzionale, anche sulla scia
degli esempi offerti dai Paesi membri dell’Unione europea, mediante una maggiore
flessibilità normativa ed il superamento della concezione centrista dello Stato. In un
ottica di globale rinnovamento della p.a., non poteva mancare la riforma del pubblico
impiego con la progressiva integrazione della disciplina del lavoro pubblico a quello
privato.
Con l’obiettivo di uniformare lo status giuridico del lavoratore pubblico e privato, si è proceduto all’applicazione al pubblico impiego di buona parte delle disposizioni del Codice civile e delle leggi riguardanti il lavoro subordinato nell’impresa e, quindi, alla contrattualizzazione del rapporto lavorativo (art. 2, co. 2° e 3°, D.lgs. 165/01).
In definitiva, le fonti regolatrici del settore sono divenute, da un lato, le norme codicistiche e quelle contenute nella legislazione speciale, compresa quella recettiva del diritto comunitario, e, dall’altro, il contratto individuale di lavoro con il quale il dipendente accetta l’instaurazione del sinallagma negoziale secondo gli accordi, anche economici, raggiunti in sede di contrattazione collettiva.
Invero, il principio della contrattualità individuale e collettiva, innalzato a cardine del rapporto di lavoro alle dipendenze della p.a., oltre a valorizzare la rappresentatività sindacale, ha consentito di delegificare molteplici disposizioni concernenti il rapporto di cui trattasi.
Il Legislatore della riforma, assodato che l’equiparazione della disciplina del
lavoro pubblico a quello privato dava luogo a situazioni sostanziali in molti aspetti
uguali e che in tal maniera si veniva a creare un’ingiustificata disparità di trattamento
processuale tra le due tipologie di impiego, ha previsto (art. 68 D.lgs. 29/93, oggi art.
63 D.lgs. 165/01) la simultanea devoluzione del contenzioso lavoristico pubblico alla
144
giurisdizione del giudice ordinario. Restano, invece, (art. 63 co. 4° D.lgs. 165/01) alla
magistratura amministrativa le cause sulle procedure concorsuali finalizzate all’assunzione nelle strutture statali e quelle sul personale di cui all’art. 3 del D.lgs. 165/01, tuttora in regime di diritto pubblico e regolamentato dai rispettivi ordinamenti, per il quale
permane, altresì, la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, anche per i diritti patrimoniali correlati.
La p.a. è divenuta così un datore di lavoro sui generis, in quanto agisce, come
recita l’art. 5 del D.lgs. 165/01, “con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro”
ed insieme conserva quella supremazia che le permette di definire, ex art. 2 del D.lsg.
165/01, “le linee fondamentali di organizzazione degli uffici”, ad individuare “gli uffici di maggiore rilevanza e i modi di conferimento della titolarità dei medesimi” ed ancora a fissare “le dotazioni organiche complessive”.
Sull’argomento si è pronunciata pure la Corte Costituzionale, la quale ha affermato che “l’organizzazione, nel suo nucleo essenziale, resta necessariamente affidata
alla massima sintesi politica espressa dalla legge, nonché alla potestà amministrativa”,
mentre il rapporto di lavoro è regolato dalla normativa civilistica, più consona alla
nuova configurazione del pubblico impiego, “per tutti quei profili che non sono connessi al momento esclusivamente pubblico dell’azione amministrativa”. Ad avviso
della Consulta, “attraverso un equilibrato dosaggio di fonti regolatrici”, è stato abbandonato “il tradizionale statuto integralmente pubblicistico…., non imposto dall’art. 97
Cost., a favore del diverso modello” derivante “dal nuovo assetto delle fonti”.1
Da parte sua, la giurisprudenza di merito e di legittimità è costante nel ribadire
che se la fase di organizzazione generale del pubblico impiego e quant’altro sia espressione di volontà autoritativa mantiene lo stampo pubblicistico, che da sempre la contraddistingue, quella di gestione ha acquisito connotati negoziali. Ebbene, soltanto nella
prima fase prendono corpo i provvedimenti amministrativi veri e propri, mentre nella
seconda si instaurano tra amministrazione e dipendente rapporti paritetici, all’interno
dei quali i diritti soggettivi che ne scaturiscono non sono degradabili ad interessi legittimi.2
E’ opportuno precisare che, allorquando la p.a. opera nell’ambito della micro
organizzazione come un qualsiasi datore di lavoro privato ed in quanto tale è tenuta ad
osservare l’ordinamento civilistico con i suoi canoni contrattuali della buona fede, della
correttezza e dell’affidamento, non è mai protesa alla conquista dell’utile aziendale,
bensì sempre al raggiungimento delle superiori aspettative della collettività. Per contro,
la discrezionalità della p.a. nelle scelte di macro organizzazione non è incondizionata,
ma vincolata al rispetto delle categorie costituzionali del buon andamento, dell’impar1 Corte Cost., 25.07.1996 n. 313, Cons. Stato 1996, II, 1298;
Corte Cost., 16.10.1997 n. 309, Cons. Stato 1997, II, 1543.
2 Trib. Roma, 02.08.2000; Trib. Parma, 16.10.2000; Cass.,
sez. un., 28.01.2003 n. 1241; Cass., sez. un., 17.04.2003 n.
6220; Trib. Bari, 28.07.2003. Tutte in www.Formez.it, Lavoro
Pubblico. In particolare, il Tribunale di Bari rileva che
attualmente vi è una netta separazione fra la
“sfera interna di organizzazione” della p.a.e “rapporto
esterno di lavoro subordinato”. La suddetta separazione si
manifesta soprattutto nel sistema delle fonti di disciplina
della materia: l’attività interna della p.a. è sottoposta alle
norme pubblcistiche, mentre il rapporto di lavoro soggiace
alle disposizioni del diritto comune.
3 Cass., sez. lav., 07.04.1999 n. 3373, Giust. Civ., 1999, I, 2997;
Trib. Roma, 02.07.1999, Giust. Civ., 1999, I, 3166; Trib.
Genova, 19.08.1999, Giust. Civ., 2000, I, 2427; Cass., sez. un.,
05.12.2000 n. 1251, Ced Cassazione, Rv 542438; Cass., sez.
un., 19.01.2001 n. 10, Ced Cassazione, Rv 543345.
145
RomanaDOTTRINA
temi
zialità, della trasparenza e, ancor prima, del principio di legalità (art. 97 Cost.).3
Di recente, le Sezioni Unite della Cassazione hanno evidenziato la “spiccata specialità della disciplina del rapporto di lavoro pubblico contrattualizzato”, a cagione non
solo del “sistema delle fonti concorrenti”, ma anche del “procedimento di formazione
dei contratti collettivi”, dei particolari effetti degli stessi, delle modalità “di selezione
dei soggetti contrattuali” ed infine della costituzione del rapporto di impiego dopo l’esito positivo del concorso all’uopo bandito. Per tutte queste prerogative, il rapporto de
quo è da collocare “a metà strada tra il modello pubblicistico e quello privatistico”.4
L’identificazione in concreto del modus agendi prettamente organizzativo ovvero gestionale risulta difficile in quanto molte volte l’uno e l’altro si avvicendano, senza
soluzione di continuità, con “un certo grado di connessione o di sovrapposizione”.5
Tuttavia, la distinzione fra i due tipi di attività non è di poco conto, giacché se le
questioni implicanti l’aspetto pubblicistico-organizzativo vanno impugnate innanzi al
g.a., quelle sulla gestione singolare e/o collettiva del rapporto di lavoro involvono la
giurisdizione della magistratura civile, la quale può conoscere del provvedimento solo
in via incidentale. Difatti, il primo comma dell’art. 63 del D.lgs. 165/01, nel trasferire
al giudice ordinario le controversie sul pubblico impiego, in ossequio al terzo comma
dell’art. 113 della Costituzione, statuisce che, qualora vengano in rilievo atti presupposti (i provvedimenti amministrativi veri e propri di cui si parlava), egli li disapplicca se
illegittimi e rilevanti per la decisione.
Dal momento che l’autorità giudiziaria lavoristica si imbatte spesso in provvedimenti dei quali deve valutare la legittimità, se pregnanti ai fini del decidere e senza che
sul punto si formi comunque il giudicato, la problematica della disapplicazione è divenuta di grande attualità, sia giurisprudenziale, sia dottrinaria.
Il Supremo Collegio, nel constatare che il Legislatore ha voluto che sia un unico
organo giudicante ad occuparsi delle vertenze sul pubblico impiego per garantire omogeneità di trattamento con i lavoratori privati, rileva che la cognizione del magistrato
ordinario implica quasi sempre lo studio di fattispecie composite ed eterogenee, investendo ad un tempo l’atto privatistico e quello amministrativo presupposto, il primo
principaliter, il secondo incidenter tamtum.
Lo stesso Collegio è dell’opinione che in tal modo non è stata creata giurisdizione esclusiva del giudice civile e chiarisce che a quest’ultimo è stato soltanto “attribuito
il compito di tutelare tutti i diritti soggettivi inerenti al rapporto di lavoro dei dipendenti
pubblici”, in considerazione del fatto che “anche nelle materie riservate alla legge e sottratte alla contrattazione le situazioni giuridiche del dipendente hanno la consistenza del
diritto soggettivo”, quando sono in qualche modo collegate al rapporto.6
La tesi che non è sorta giurisdizione esclusiva del Tribunale ordinario sul pubblico
impiego privatizzato risulta quella più condivisa, salvo poi a giustificarla per taluni con
4 Cass., sez. un., 06.02.2003 n. 1807, www.Giustizia.it,
Ced Cassazione; Cass., sez. un., 18.04.2003 n. 6348,
www.Giust.it, Giurisprudenza.
amministrazioni, Commentario a cura di Carinci, Tomo I,
Giuffrè, Milano, II, 1995, 113.
6 Cfr nota n. 4.
5 F. Liso, Il lavoro alle dipendenze delle pubbliche
146
l’assoluta negazione della permanenza in capo al lavoratore pubblico di interessi legittimi7 e per
altri, nella consapevolezza che l’interesse legittimo non è venuto meno dopo la contrattualizzazione,8 con il ritenere che il pubblico impiegato ha l’opportunità di usufruire di una duplice e
contestuale tutela, ad ognuna della quale corrisponde una differenziata condizione giuridica e,
perciò, una diversa protezione: davanti al g.o. è possibile far valere i diritti soggettivi nascenti
dalle pretese di natura privatistica e davanti al g.a. ricorrere invece per i pochi e residuali, ma
non scomparsi, interessi legittimi che derivano dall’agire autoritativo dell’amministrazione.9
L’opposto indirizzo si fonda sulla teoria della devoluzione di tutto il contenzioso lavoristico della p.a. alla magistratura ordinaria (ad eccezione di quello di pertinenza del g.a.), di fronte al quale la posizione del dipendente sarebbe tutelabile in modo esaustivo, soprattutto per la
maggiore ampiezza ed elasticità dei poteri che il giudice del lavoro dispone rispetto a quello
amministrativo.10
A prescindere dal fatto che l’insegnamento della dottrina minoritaria palesemente stride
con gli articoli 103 e 113 della Costituzione,11 non si rinviene nel D.lsg. 165/01 l’attribuzione di
una giurisdizione esclusiva sul pubblico impiego all’autorità giudiziaria ordinaria.
In proposito, la Corte Costituzionale rammenta che il passaggio del contenzioso sul
pubblico impiego al foro civile, sintomo di un rafforzamento dello stato giuridico del lavoratore pubblico, ha comportato la simultanea diminuzione della giurisdizione esclusiva dei
T.a.r., ma non il conferimento di una cognizione totale sulla materia al foro medesimo.12
7 M. D’Antona, Contratto collettivo, sindacati e processo
del lavoro dopo la “seconda privatizzazione” del pubblico
impiego, Foro It., 1999, I, 629, secondo il quale la p.a., in veste di
datore di lavoro, “è parte e non autorità” e, pertanto, i diritti
soggettivi del dipendente pubblico non possono essere degradati
ad interessi legittimi dagli atti di gestione del datore medesimo;
Barbieri, Privatizzazione del pubblico impiego ed interessi
legittimi, Mass. Giur. Lav., 1999, n. 10, 1034; D. Iaria, La
risarcibilità della lesione di interessi legittimi nel contenzioso del
lavoro pubblico, Il lavoro nelle p.a., 2000, 249 e ss. In realtà,
quest’ultimo Autore sostiene che nell’ambito del pubblico
impiego privatizzato soltanto in determinate fattispecie si
rinvengono unicamente diritti soggettivi e non anche interessi
legittimi. Trattasi del conferimento di incarichi dirigenziali,
dell’autorizzazione allo svolgimento di incarichi extralavorativi
ed infine della pretesa all’assunzione a seguito di concorso. In
talune decisioni, pure la Cassazione afferma che il pubblico
impiegato è divenuto titolare solo di diritti soggettivi: Cass., sez.
lav., 07.04.1999 n. 3373, cit.; Cass., sez. un., 24.02. 2000 n. 41,
Giust. Civ., 2000, I, 1551; Cass., sez. un., 07.11.2000 n. 1154, Giust.
Civ., 2001, I, 257.
8 Cons. Stato, ad. gen., 31.08.1992 n. 146, Foro It., 1993, III, 4.
Secondo il Consiglio di Stato, il lavoro svolto alle dipendenze
della p.a. “non fa nascere soltanto un rapporto sinallagmatico
rientrante nello schema do ut facias, ma ha anche la valenza
dell’investitura di una pubblica funzione”, con la conseguente
permanenza in capo al lavoratore pubblico privatizzato di
interessi legittimi.
9 A.N. Filardo, Alcune riflessioni su aspetti problematici
del passaggio della giurisdizione al giudice ordinario
in materia di lavoro alle dipendenze delle pubbliche
amministrazioni, Giust. Civ., 1999, II, 33; D. Iaria, L’ambito
oggettivo della giurisdizione del giudice
del lavoro e del giudice amministrativo dopo i decreti legislativi
n. 80 e n. 387 del 1998, Il lavoro nelle p.a., 1999, 298 e 299; R.
Tiscini, Commento all’art. 29, D.lgs. n. 80 del 1998, in
Amministrazioni pubbliche, lavoro, processo, Commento ai D.lgs.
n. 80 e n. 387 del 1998,
a cura di Dell’Olio-Sassani, Milano, Giuffré, 2000, 327; Cass., sez.
lav., 05.03.2003 n. 3252, www.Giust.it, Giurisprudenza. Il
problema della doppia giurisdizione non è riscontrabile solo in
materia lavoristica.
Basti pensare al settore urbanistico, dove sovente
si assiste alla parallela cognizione del giudice civile, penale ed
amministrativo su di una medesima questione.
10 G. B. Verbari, Principi di diritto processuale
amministrativo, Milano, Giuffré, 1995, 47; B. Sassani, Il passaggio
alla giurisdizione ordinaria del contenzioso sul pubblico impiego:
poteri del giudice, esecuzione della sentenza, comportamento
antisindacale, contratti collettivi in Cassazione, Processo del
lavoro e rapporto alle dipendenze delle amministrazioni
pubbliche a cura di Perone-Sassani, Padova, Cedam, 1999, 2 e ss.;
P. Virga, Diritto amministrativo, vol. II, Milano, Giuffré, 1999, 268;
T.a.r. Friuli Venezia Giulia, 18.12.1999 n. 1282, Giust. Civ., 2000, I,
917; Trib. Pordenone, 20.03.2000, Il lavoro nelle p.a., 2000, n. 5,
909. E’ opportuno rammentare che la Legge 21 luglio 2000 n.
205, nell’estendere al processo amministrativo diversi istituti
propri del rito ordinario, ha contribuito non poco ad avvicinare il
giudizio amministrativo a quello innanzi alla magistratura
del lavoro. Invero, ampliati i poteri istruttori, cautelari
e di condanna del g.a., si è in parte attenuata la storica disparità
di trattamento processuale fra dipendente pubblico e privato.
11 P. Picone, La contrattualizzazione del rapporto
di pubblico impiego: i problemi processuali, Riv. Crit. Dir.
Lav., 1993, 736; C. Cecchella, Tutela giurisdizionale dei
diritti del pubblico impiegato e poteri del giudice
ordinario, Lav. Dir., 1994, 38; G. Iannini, La tutela
giurisdizionale nei rapporti di lavoro alle dipendenze
di pubbliche amministrazioni, Enti Pubblici, suppl. al n. 2
febbraio 1997, Macchia Editore, Roma.
12 Corte Cost., 16.10.1997 n. 309, cit.
147
RomanaDOTTRINA
temi
E’ pur vero che l’atto di gestione può essere talora applicativo di un provvedimento anteriore, ma è altrettanto indubbio che se il primo e non il secondo è l’oggetto principale della vertenza sussiste la giurisdizione del magistrato ordinario, il quale esamina la
condotta amministrativa soltanto per accertarne la rispondenza alla legge.
In altre parole, la giurisdizione del g.o. è determinata dalla domanda, da identificarsi non tanto nella statuizione che si chiede, quanto nella causa petendi, vale a dire nella
posizione soggettiva dedotta dal dipendente e correttamente individuata dal giudice con
riguardo ai fatti allegati ed alle caratteristiche del rapporto di cui si lamenta la lesione, a
nulla rilevando che il ricorso introduttivo accluda la censura di atti prodromici di natura
pubblicistica.13
In più occasioni, la Cassazione ha osservato che “è indizio preciso”, idoneo ad
impedire “forme di giurisidizione esclusiva” del giudice ordinario, l’avere l’art. 63 del
D.lgs. 165/01 riproposto l’istituto della disapplicazione previsto dall’art. 5 della Legge 20
marzo 1865 n. 2248, allegato E.14
Nella prospettiva garantista della riforma, infatti, l’articolo 63 non fa altro che
estendere alle controversie sul pubblico impiego quello che è un fondamento di ogni Stato
di diritto ed in particolare del nostro ordinamento processualcivilistico, consacrato nell’art. 5 della menzionata Legge, concernente il generico potere della magistratura ordinaria di applicare “gli atti amministrativi ed i regolamenti generali e locali in quanto siano
conformi alle leggi”.
Ebbene, malgrado l’art. 63 del D.lgs. 165/01 contempli i soli provvedimenti amministrativi, è alla stregua dell’art. 5 della Legge 2248/1865, allegato E, che deve essere
comunque accordata al giudice del lavoro la facoltà di disapplicare qualsiasi deliberazione della p.a., regolamentare ovvero normativa, contrastante con la legge.15
A conferma che nel sistema giuridico italiano la disapplicazione di un atto di normazione secondaria è uno strumento del quale l’autorità giudiziaria si avvale per assicurare l’effettività della tutela, si segnala l’art. 7, co. 5°, del D.lgs. 546/92, dove è stabilito
che le Commissioni tributarie non sono tenute ad applicare i regolamenti o gli atti generali, decisivi per la causa, se li reputano illegittimi.
D’altronde, il magistrato in nome della sottoposizione alla sola legge (art. 101
Cost.) e dell’autonomia dell’ordine al quale appartiene (art. 104 Cost.), secondo quelli che
sono i dettami della Carta costituzionale, ha il potere-dovere di disapplicare ogni statuizione che nella gerarchia delle fonti viene dopo la legge e che con essa confligge. Per
dimostrare l’attendibilità delle proprie conclusioni, il Sommo Collegio rinvia alla sentenza n. 275 del 5 luglio 2001 della Consulta, la quale, nel dichiarare non fondata la questione di legittimità dell’art. 18 del D.lgs. 387/98 nella parte in cui affida al g.o. le controversie sul conferimento e la revoca degli incarichi dirigenziali in violazione degli articoli 76
e 77 della Costituzione per eccesso di delega, sostiene che “il principio della disapplicazione” non è “una regola di valore costituzionale”. Pertanto, è nella discrezionalità politi13 Cass., sez. un., 18.04.2003 n. 6348, cit.; Cass., sez. un.,
15.05.2003 n. 7507, Ced Cassazione Rv 563093.
14 Cass., sez. un., 06.02.2003 n. 1807, cit.; Cass., sez. lav.,
05.03.2003 n. 3252, cit.
148
15 Cass., sez. un., 06.02.2003 n. 1807, cit. Le Sezioni Unite
ritengono che il g.o., nei limiti di cui all’art. 63 D.lgs.
165/01, può valutare la legittimità o meno anche di un
Decreto ministeriale, nella specie il Decreto n. 184 del 1999,
atto di normazione secondaria, avente le caratteristiche
della generalità ed astrattezza.
ca del Legislatore assegnare, sulla base dei vari interventi giurisdizionali previsti, al giudicante ordinario ovvero amministrativo la cognizione ed insieme l’eventuale potere di annullamento di un atto della p.a., con l’unico scopo di potenziare la tutela dei diritti dei lavoratori. A tal fine, le situazioni soggettive dei dipendenti pubblici, inclusi i dirigenti, sono state
ricondotte “nell’ampia categoria dei diritti di cui all’art. 2907 cod. civ.”, sia pur “tenendo
conto della specialità del rapporto” e del perseguimento degli interessi collettivi.16
Inoltre, la giurisprudenza di legittimità puntualizza che, in caso di impugnativa di
un atto presupposto e di gestione del rapporto davanti al giudice per ciascuno competente, non si configura “una sorta di vis attractiva della giurisdizione amministrativa”, giacché quello dell’inderogabilità della giurisdizione per motivi di connessione è un noto
postulato.
L’ultimo capoverso del primo comma dell’art. 63 del D.lgs. 165/01° affronta, per
l’appunto, il problema della contemporanea operatività della giurisdizione amministrativa ed
ordinaria su rapporti diversi, ma collegati, escludendo la sospensione del processo del lavoro in corso a seguito dell’impugnazione del provvedimento rilevante al cospetto del g.a.
La ratio della mancata sospensione del giudizio civile è da rinvenire oltre che nella
necessità di evitare inutili ritardi a scapito delle primarie esigenze di immediatezza e rapidità dell’udienza lavoristica, nel fatto che la statuizione del giudice del lavoro non dipende da quella adottata in sede amministrativa. Ne discende che non ha ragione di essere il
concetto di pregiudizialità e che “non si è in presenza di una deroga al disposto dell’art.
295 c.p.c.”, stante la netta distinzione voluta dal Legislatore “tra controversia sul rapporto e controversia sull’atto”. In breve, non può esserci contrasto di giudicati, né conflitto di
giurisdizione, siccome i due giudizi hanno oggetto e contenuto difforme.17
Al riguardo, la Corte Costituzionale asserisce che non vi è “pregiudizialità amministrativa” ovvero il bisogno di sospendere il procedimento civile in pendenza dell’impugnazione del provvedimento innanzi al magistrato amministrativo, visto che il g.o. può
esercitare in piena libertà il potere di disapplicazione conferitogli dalla legge.18
Benché non sussista divergenza di giudicati in senso tecnico processuale fra la decisione rispettivamente del giudice ordinario ed amministrativo in quanto differente è il
thema decidendum, i giuslavoristi replicano che è erroneo non ammettere a priori pronunce discordanti e tra loro persino inconciliabili, dal momento che un unico atto potrebbe essere annullato dall’autorità giudiziaria amministrativa ed essere invece considerato
incidentalmente legittimo da quella ordinaria e viceversa.19
In realtà, la vera anomalia si verificherebbe nell’ipotesi in cui sia impugnato il
provvedimento al T.a.r. entro il breve termine decadenziale e, accolto il ricorso, venga
ripristinato in modo spontaneo oppure tramite il giudizio di ottemperanza il contesto originario, con la completa realizzazione delle richieste inoltrate dal dipendente. In siffatta
eventualità, onde impedire il sorgere di palesi ed inopportune contraddizioni, la decisione
del g.a. dovrebbe fare stato nel processo del lavoro o quanto meno il giudice ordinario
16 Corte Cost., 23.07.2001 n. 275, Foro It., 2002, I, 2965
17 Cass., sez. lav., 05.03.2003 n. 3252, cit.
19 D. Iaria, L’ambito oggettivo della giurisdizione
del giudice del lavoro e del giudice amministrativo dopo
i decreti legislativi n. 80 e n. 387 del 1998, cit.
18 Corte Cost., 23.07.2001 n. 275, cit.
149
RomanaDOTTRINA
temi
dovrebbe conformarsi al sopravvenuto annullamento. E’ ovvio che la sentenza amministrativa riguarda solo i motivi di ricorso proposti, per cui l’autorità giudiziaria lavoristica
può disapplicare il provvedimento per tutti quegli aspetti non coperti dal giudicato.
Parimenti, essendo la disapplicazione un autonomo potere del g.o., quest’ultimo non è
vincolato dal rigetto dell’impugnativa da parte del T.a.r.20
All’opposto, non sorgerebbe mai incompatibilità qualora siano disapplicati atti
divenuti inoppugnabili per decorrenza dei termini, poiché in questo caso, in difetto di un
giudicato amministrativo, non viene ricostituito lo status quo ante.21
In base ad una peculiare spiegazione del problema della doppia giurisdizione, si
obietta che al pubblico impiegato non sia più concesso adire la magistratura amministrativa perché ormai titolare unicamente di diritti soggettivi azionabili davanti al giudice
ordinario, il quale è autorizzato dall’art. 63 del D.lgs. 165/01 ad ignorare i provvedimenti illegittimi. Avverso i medesimi provvedimenti potrebbe, invece, ricorrere al giudice
amministrativo il terzo estraneo al rapporto di lavoro, ossia l’utente del servizio pubblico
danneggiato dalla p.a..22
Se così ragionando si elude la verosimile concomitanza della disapplicazione e dell’annullamento di uno stesso atto a richiesta di uno stesso soggetto, non si evita che l’autorità giudiziaria amministrativa respinga l’istanza presentata dal terzo e, per contro, quella ordinaria accolga le doglianze del dipendente e proceda ai sensi dell’art. 63 più volte
indicato.23
Ed ancora, permettere solo all’utente in esame di rivolgersi al g.a. significa limitare le possibilità di difesa del lavoratore, in antinomia con le predominanti finalità della
recente riforma e soprattutto con gli articoli 24 e 113 della Costituzione.24
Da ultimo, in mancanza di una posizione qualificata e presa in considerazione dall’ordinamento, l’iniziativa del terzo rappresenta una vaga ed imprecisata “azione popolare”, laddove il Legislatore ha inteso dettare un criterio di riparto della giurisdizione riferito proprio alle cause di lavoro.25
Ammessa l’ingerenza del magistrato ordinario nella valutazione della legittimità
del provvedimento, è pacifico che gli debba essere consentito di sindacare il comportamento della p.a. alla luce dei tradizionali parametri della correttezza, dell’imparzialità,
dell’informazione ed accessibilità. Se da un lato, dunque, il g.o. vaglia l’atto gestionale
secondo i tipici difetti della patologia negoziale (nullità, annullabilità, insesistenza, risolubilità e rescissione), dall’altro soppesa quello amministrativo sulla base dei notori vizi
di legittimità per violazione di legge, incompetenza ed eccesso di potere.
Mentre le risoluzioni contrattuali dell’amministrazione non sono in alcun modo
20 R. Tiscini, Commento all’art. 29, D.lgs. n. 80 del 1998,
in Amministrazioni pubbliche, lavoro, processo, Commento ai
D.lgs. n. 80 e n. 387 del 1998, cit.
21 A. N. Filardo, Alcune riflessioni su aspetti problematici
del passaggio della giurisdizione al giudice ordinario in materia
di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, cit.
22 L. Torchia, Giudice amministrativo e pubblico impiego
dopo il D.lgs. n. 80 del 1998, Il lavoro nelle p.a., 1998,
1061 e ss.; M. D’Antona, Contratto collettivo, sindacati
e processo del lavoro dopo la “seconda privatizzazione”
150
del pubblico impiego, cit.
23 D. Iaria, L’ambito oggettivo della giurisdizione del giudice del
lavoro e del giudice amministrativo dopo i decreti legislativi n.
80 e n. 387 del 1998, cit.
24 A.N. Filardo, Alcune riflessioni su aspetti problematici del
passaggio della giurisdizione al giudice ordinario in materia di
lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, cit.
25 T.a.r. Campania, 22.10.2003 n. 13054,
www.Lexitalia.it, Giurisprudenza.
censurabili dal g.a., né tanto meno sono passibili di ricorso gerarchico e straordinario al
Capo dello Stato, le deliberazioni di matrice pubblica, quando sono di supporto alla conseguenziale attività privatistica della p.a., sono esposte al controllo di legittimità dell’organo giudicante ordinario anche d’ufficio, senza una puntuale richiesta dell’interessato.
Inoltre, un simile controllo non è condizionato dalla inoppugnabilità dell’atto al T.a.r. per
decorrenza dei termini, purché la proposizione della domanda al Tribunale del lavoro non
si traduca in un espediente per eludere i ristretti termini decadenziali imposti dal diritto
amministrativo.26
D’altro canto, negare alla magistratura civile la possibilità di conoscere il provvedimento prodromico per i motivi di illegittimità sopra descritti, significherebbe ammettere che, con il mutamento di giurisdizione, sono scemate per il dipendente pubblico le fondamentali garanzie processuali di cui gode per contenere l’azione datoriale definita d’imperio.27
In linea con la letteratura lavoristica maggioritaria, la richiamata sentenza n. 275 del
2001 della Corte Costituzionale pone l’accento proprio sulla pienezza dei poteri attributi
al g.o., in ragione del fatto che l’art. 63, co. 2°, del D.lgs. 165/01 gli consente di emanare
nei confronti della p.a. “tutti i provvedimenti di accertamento, costitutivi e di condanna,
richiesti dalla natura dei diritti tutelati” e, quindi, l’intera gamma delle decisioni adottabili nel rito ordinario. Ne deriva che la cognizione dell’autorità giudiziaria del lavoro, nonostante non possa mai entrare nel merito delle scelte degli apparati pubblici, abbraccia
“tutti i vizi di legittimità”, compresi quelli formali, senza “distinzioni tra norme sostanziali e procedurali”.
Accertata la non conformità alla legge del provvedimento, il giudice ordinario,
come già anticipato, non può annullarlo, bensì solo disapplicarne gli effetti. E’ indiscutibile, pertanto, che la misura disapplicata è priva di efficacia in riferimento alla fattispecie
dedotta in giudizio, mentre per il resto rimane in vigore.
Per di più, la determinazione presupposta può essere in astratto illegittima, ma non
modificativa in pejus della condizione giuridica del lavoratore, dato che il pregiudizio,
dapprima potenziale, può in concreto verificasi allorquando la susseguente fase applicativa incide sul singolo rapporto. Orbene, soltanto se viene in essere la lesione della personale sfera giuridico-economica sorge o comunque si attualizza per il dipendente l’interesse ad agire per far dichiarare, altresì, l’illegittimità delle disposizioni generali che sono a
monte della delibera che direttamente lo coinvolge.
In conclusione si può ammettere che, sebbene sia evidente che la disapplicazione
costituisce l’insuperabile limite alla giurisdizione del g.o. sull’operato discrezionale dell’amministrazione, la magistratura del lavoro, ora giudice “naturale” dei diritti del pubblico
impiego privatizzato, mediante la mera inapplicabilità dell’atto ritenuto illegittimo, ha la
possibilità di disciplinare l’intera vicenda sostanziale, vincolando le parti per l’avvenire.28
26 D. Iaria, L’ambito oggettivo della giurisdizione del giudice
del lavoro e del giudice amministrativo dopo i decreti
legislativi n. 80 e n. 387 del 1998, cit.; G. Noviello, P. Sordi,
E. A. Apicella, V. Tenore, Le nuove controversie
sul pubblico impiego privatizzato e gli uffici del contenzioso
dopo il testo unico sul pubblico impiego, Milano, Giuffrè,
2001, 79 e 80.
27 B. Sassani, Giurisdizione ordinaria, poteri del giudice
ed esecuzione della sentenza nelle controversie di lavoro con
la pubblica amministrazione, Riv. Trim. Dir. e Proc. Civile,
1999, 2, 417.
28 D. F. G. Trebastoni, La disapplicazione nel processo
amministrativo, www.Lexitalia.it, Articoli e Note.
151
RomanaDOTTRINA
temi
Avv.
Nicoletta SCATTONE
Il nuovo orientamento
giurisprudenziale
in materia di risarcibilità
del danno
non patrimoniale.
1. Per una definizione di danno non patrimoniale:
quale risarcimento possibile
a tematica della risarcibilità del danno non patrimoniale ha conosciuto un nuovo
slancio a seguito delle recenti pronunce della Suprema Corte e della Corte costituzionale che hanno portato ad una diversa interpretazione degli art. 2054, comma 2, 2059
c.c. e 185 c.p. Prima di esaminare l’orientamento della giurisprudenza di legittimità consolidatosi in materia e il nuovo indirizzo seguito dalla Suprema Corte, si rende necessaria una premessa sul risarcimento del danno alla persona previsto nel nostro ordinamento.
Il risarcimento del danno alla persona viene in primis distinto tra danno patrimoniale e danno di natura non patrimoniale, nei casi in cui si debba riparare ad una
lesione di valori inerenti alla persona. Più precisamente vengono ricompresi nella
categoria del danno non patrimoniale il danno morale soggettivo1, inteso come una
sofferenza morale che comporta un turbamento della sfera psichica della vittima, per
cui il risarcimento relativo è anche detto pecunia doloris; il danno biologico in senso
stretto2 (o danno alla salute), inteso come lesione dell’integrità psichica e fisica subita
dal danneggiato a causa del fatto illecito o, secondo la definizione della Corte costituzionale, come “momento terminale di un processo patogeno originato dal medesimo
turbamento psichico che sostanzia il danno morale soggettivo derivante dal reato”3;
nonché il danno c.d. esistenziale, in caso di lesione di qualsiasi interesse rilevante per
la persona costituzionalmente garantito4.
Secondo una tradizionale lettura dell’art. 2059 c.c., che riconosce la risarcibilità del danno non patrimoniale “solo nei casi determinati dalla legge”, il riferimento al danno non patrimoniale sarebbe da intendersi come danno morale soggettivo. Tuttavia sul tema è intervenuta recentemente la Consulta affermando che
un’interpretazione costituzionalmente coerente dell’art. 2059 c.c. non può non
ricomprendere ogni danno di natura non patrimoniale riguardante la persona5.
L
1 Cfr., G. BONILINI, Danno morale, in Dig. disc. priv., sez. civ.,
p. 84 e G. PONZANELLI, Le tre voci di danno non
patrimoniale: problemi e prospettive, in Danno e resp.,
2004, I, p. 5.
2 Tra i numerosi contributi dottrinali, si rinvia a A. DI MAJO,
L’avventura del danno biologico: considerazioni in punta di
penna, in Riv. crit. dir. priv., 1996, p. 299 e M. BONA, L’art. 5
l. n. 57 del 2001 perviene all’esame della Consulta: profili di
illegittimità costituzionale dei criteri di liquidazione del
152
danno biologico, in Giur. it., 2002, p. 291.
3 C. Cost. 27 ottobre 1994, n. 372, in Giur. it., 1995, I, p. 406.
4 Sul danno esistenziale si vedano, per tutti, E. NAPOLILLO,
Danno esistenziale e serenità familiare, in questa Rivista,
2001, III, p. 30 e F. BILOTTI, Il danno esistenziale: l’isola che
non c’era, in Danno e resp., 2001, p. 392.
5 Cass. 31 maggio 2003, n. 8827 e 8828.
2. I limiti al risarcimento del danno morale secondo
il consolidato orientamento della Suprema Corte
Sul controverso profilo dei limiti al risarcimento del danno morale, ex art. 2059
c.c. e 185 c.p., il giudice di legittimità ha seguito un orientamento volto ad escludere
il risarcimento qualora la responsabilità non fosse affermata in seguito al concreto
accertamento dell’elemento psicologico, bensì sulla base di una presunzione legale di
colpa6.
La giurisprudenza della Suprema Corte ha avallato un’interpretazione degli art.
2059 c.c. e 185 c.p. attraverso la quale riteneva ammissibile il risarcimento del danno
morale, nonché il relativo diritto risarcitorio, solo nelle ipotesi in cui il fatto lesivo
integrasse, anche solo in astratto, gli estremi di una fattispecie di reato.
Ai fini dell’accertamento del fatto illecito vige la regola generale secondo cui,
ex art. 2043 c.c., l’onere della prova grava sul presunto danneggiato. Tuttavia, l’art.
2054, comma 2, prevede una significativa eccezione in materia di responsabilità civile derivante dalla circolazione di veicoli laddove stabilisce che, in mancanza di prova
contraria (c.d. “prova liberatoria”), si presume, in eguale misura, il concorso delle
parti nel produrre il danno. Pertanto, se ogni parte non dimostra di avere tenuto una
condotta esente da dolo o colpa e, al contempo, il dolo o la colpa nella condotta della
controparte, la responsabilità viene presunta ex lege7. Dal momento che nella prassi la
prova liberatoria risulta difficile da fornire, il ricorso alla presunzione della responsabilità per l’accertamento del danno è assai frequente. In tali casi la responsabilità viene
imputata non sulla base di una condotta colposa, ma come conseguenza della mancata prova liberatoria con la quale l’agente avrebbe dovuto dimostrare di avere osservato le norme di comportamento8 previste in materia di circolazione stradale.
Se dunque la giurisprudenza della Suprema Corte ammetteva la risarcibilità del
danno morale solo qualora il fatto fosse previsto (anche solo astrattamente) come illecito civile, in caso di mancata prova dell’elemento soggettivo non si sarebbe dato
luogo al risarcimento. Da ciò discende che nell’ipotesi di cui all’art. 2054, comma 2,
c.c. sarebbe esclusa la risarcibilità del danno morale in quanto la responsabilità riconosciuta sulla base di una presunzione di legge, non consentirebbe l’accertamento del
fatto come reato. Peraltro, un simile orientamento giurisprudenziale aveva portato a
dubitare della legittimità costituzionale dell’art. 2059 c.c. laddove limitava il risarcimento ai soli danneggiati che provassero la colpa del danneggiante9 e nella parte in
cui non ammetteva la risarcibilità del danno morale al di fuori di accertate ipotesi di
6 Cfr., per tutte, Cass. 14 marzo 2002, n. 3728; Cass. 22
marzo 2001, n. 4113; Cass. 17 gennaio 2001, n. 589;
Cass. 5 dicembre 2000, n. 15463; Cass. 2 ottobre 1998, n.
9794; Cass. 18 luglio 1997, n. 8832; Cass. 28 agosto 1995,
n. 9045; Cass. 3 dicembre 1993, n. 11999; Cass. 9
febbraio 1987, n. 1374; Cass., Sez. un., 6 dicembre 1982,
n. 6651, con la quale la Corte aveva esteso la risarcibilità
del danno non patrimoniale ai fatti astrattamente
previsti dalla legge come reato; Cass. 3 giugno 1981, n.
3667; Cass. 8 ottobre 1973, n. 2529.
8 Come osservato da A. CAMPIONE, Danno morale
e presunzione legale di responsabilità: la giurisprudenza
cambia orientamento, in Giust. civ., 2003, p. 2065, la
valutazione circa l’osservanza o la violazione del
generico obbligo di diligenza e prudenza posto a carico
dei conducenti a norma dell’art. 140 del codice della
strada, si risolve in un ampio potere discrezionale del
giudice.
7 Fanno eccezione le ipotesi di tamponamento
nelle quali l’onere della prova grava solo sul
tamponante; in questo senso si veda Cass. 12 novembre
9 Trib. Genova, ordinanza 14 gennaio 2003, in Resp.
civ. prev., 2003, p. 179, per presunta violazione dell’art.
3 Cost
1998, n. 11444.
153
RomanaDOTTRINA
temi
reato, escludendola qualora il danno non patrimoniale derivasse dalla lesione di un
diritto costituzionalmente garantito non integrante una fattispecie di reato10.
L’orientamento della giurisprudenza di legittimità trovava un suo fondamento
nel rapporto di pregiudizialità necessaria tra giudizio penale e giudizio civile stabilito
dal codice di procedura penale del 1930 nelle ipotesi di contemporaneità di procedimenti (art. 3 c.p.p. e art. 295 c.p.c). Era consentito, infatti, al giudice civile procedere
all’accertamento dell’esistenza del fatto penalmente rilevante solo limitatamente ai
casi in cui la questione non fosse stata oggetto di indagine del giudice penale per estinzione del reato o per altra causa e mediante l’adozione delle regole probatorie proprie
del giudizio penale. Va da sé che in un siffatto sistema l’affermazione della responsabilità penale non potesse avvenire attraverso la presunzione di colpa, a ciò ostando l’estraneità al giudizio penale del ricorso alle presunzioni come mezzo di prova proprio
del giudizio civile11.
Per una corretta ricostruzione della problematica non si può non tenere in considerazione la modifica introdotta al riguardo dal nuovo codice di procedura penale,
in vigore dall’ottobre 1989, che ha sancito all’art. 75 c.p.p. il principio di parità delle
giurisdizioni civile e penale. E’ proprio alla luce di un simile cambiamento che si è
resa necessaria una nuova interpretazione dell’art. 2059 c.c. con riferimento all’art.
185 c.p., risultando difficile negare al danneggiato che agisca in sede civile per il risarcimento del danno non patrimoniale, il ricorso al mezzo di prova proprio del processo civile, quale è appunto la presunzione.
3. Il recente overruling della Consulta: dall’accertamento
concreto della colpa alla presunzione legale di responsabilità
Con le sentenze 12 maggio 2003, n. 7281 e n. 728212 la Corte di cassazione
ha radicalmente mutato il proprio indirizzo in materia di limiti al risarcimento del
10 C. Cost. 22 luglio 1996, n. 293, in Foro it.,
1996, I, 2963, con nota di G. DE MARZO, Brevi note sulla
nozione di danno psichico; in Danno e resp., 1996,
p. 679, con nota di G. PONZANELLI, L’art. 2059 resiste:
ma quanti problemi ancora; in Giur. it., 1997, I, p. 314,
con nota di G. COMANDE’, L’ordinanza n. 293 del 22
luglio 1996 ed il nodo irrisolto dell’art. 2059 c.c.; in Dir.
giur., 1998, p. 260, con nota di G. ALOISI,
Danno alla salute e danno morale nella giurisprudenza
della Corte costituzionale. La Corte nel dichiarare la
questione di legittimità costituzionale manifestamente
infondata, con riferimento agli art. 24 e 32 Cost., ha
affermato che il risarcimento del danno morale non
essendo assistito dalla garanzia costituzionale dell’art. 32
Cost. (ed escludendo un’identificazione tra il danno alla
salute e il danno morale soggettivo) può essere oggetto
di limitazione da parte del legislatore, come nel caso
del rinvio all’art. 185 c.p. Sul punto, la Corte si era già
espressa a favore della risarcibilità del danno non
patrimoniale quale conseguenza della lesione di un diritto
costituzionalmente tutelato (nella fattispecie, il diritto alla
salute ex art. 32 Cost.) solo in quanto il fatto costituisca
reato; così, C. cost. 14 luglio 1986,n. 184, in Giust. civ.,
1986, p. 2324..
11 Cass. 8 ottobre 1973, n. 2529, in Giust. civ., 1974, p. 236.
154
Il giudice di legittimità aveva tuttavia ammesso il
risarcimento del danno non patrimoniale per i fatti previsti
astrattamente dalla legge come reato; in questo senso, si
veda Cass. 3 giugno 1981, n. 3667, in Arch. civ., 1981, p.
635, relativamente all’ipotesi di omicidio colposo commesso
da minore degli anni quattordici; nonché, Cass., Sez. un., 6
dicembre 1982, n. 6651, in Resp. civ. prev., 1983, n. 633, con
nota di G. BONILINI, Osservazioni a sezioni unite civili 6
dicembre 1982 n. 6651 in tema di responsabilità per danno
non patrimoniale derivante da illecito commesso da
soggetto non imputabile.
12 La sentenza è segnalata in Giust. civ., 2003, I, p. 1480;
nonché infra con nota di A. CAMPIONE, Danno morale e
presunzione legale di responsabilità: la giurisprudenza
cambia orientamento, cit., per alcuni spunti critici sulla
pronuncia della Cassazione. L’autore non condivide le
conclusioni cui giunge il giudice di legittimità e anzi ritiene
la motivazione della Suprema Corte “un pregiato passaggio
logico di carattere processuale” per seguire, anche in
materia di circolazione stradale, l’attuale orientamento
giurisprudenziale volto ad estendere il riconoscimento del
danno non patrimoniale a nuove fattispecie. Tra i primi
commenti, cfr. F. PECCENINI, Sul danno morale la
Cassazione anticipa la Corte costituzionale, in Diritto e
giustizia, 2003, n. 22, p. 8.
danno morale, riconoscendo per la prima volta il diritto al risarcimento del danno
morale anche qualora la responsabilità del danneggiante fosse accertata in forza di
una presunzione di legge13.
L’importanza di un tale reinvirement non è di certo sfuggita alla dottrina che
da più parti auspicava il superamento dei limiti al risarcimento del danno non patrimoniale. Del resto, il nuovo orientamento della Suprema Corte deve essere valutato alla luce della più ampia tutela del danno non patrimoniale accordata sia in sede
legislativa, attraverso il riconoscimento del diritto alla riparazione anche al di fuori
delle ipotesi di reato (come, ad esempio, in caso di impiego di modalità illecite nella
raccolta di dati personali a norma dell’art. 29, comma 9, l. 31 dicembre 1996, n. 675
o nelle ipotesi di mancato rispetto del termine ragionevole di durata del processo
previste all’art. 2 della l. 24 marzo 2001, n. 89), sia in sede giurisprudenziale,
mediante l’ammissione al risarcimento del c.d. “danno biologico” da parte dello
stesso giudice di legittimità.
Nelle due innovative pronunce, la Corte ha superato la pregiudiziale dell’accertamento (anche solo astrattamente) del reato, fornendo una lettura interpretativa
più estesa degli art. 2059 c.c. e 185 c.p., in combinato disposto rispettivamente con
gli art. 2051 e 2054 c.c., attraverso la quale accordare il risarcimento anche qualora
la colpa dell’autore del danno “debba ritenersi sussistente in base ad una presunzione di legge e se, ricorrendo la colpa, il fatto sarebbe qualificabile come reato”.
A sostegno della rimozione del limite dell’accertamento della colpa ai fini del
risarcimento del danno non patrimoniale la Corte ha fornito alcune considerazioni
che si intendono in tale sede ricordare. In primis, è stato posto in rilievo come il
danno derivante da un determinato fatto sia lo stesso indipendentemente dall’accertamento processuale dell’elemento psicologico dell’autore, vale a dire prescindendo
dall’accertamento positivo della colpa, dalla mancanza della prova o dalla presunzione che deriva dal non avere fornito la prova liberatoria. Né d’altra parte sarebbe
corretto non tenere in considerazione l’inversione dell’onere della prova, giacché
risulterebbe incoerente (ed era la conseguenza cui si giungeva con il precedente
indirizzo giurisprudenziale) riconoscere al danneggiato il risarcimento del danno
non patrimoniale solo nei casi in cui riesca a provare la colpa dell’autore, prova che
tuttavia compete proprio al danneggiante e dalla cui mancanza deriva la presunzione di responsabilità di quest’ultimo. Ed ancora, non consentire il ricorso alla presunzione, e dunque negare il risarcimento del danno in tali casi, risulterebbe palesemente in contrasto con il sistema di cui agli art. 2050-2054 c.c. la cui ratio è piuttosto quella di ammettere il risarcimento anche attraverso la presunzione di legge. Per
giungere a tali conclusioni la Corte non fa che ricorrere ad una fictio juris equiparando, attraverso il meccanismo della presunzione, la prova della colpa all’impossibilità di fornire prova contraria. In altri termini, e per dirla con le parole della Corte,
“se il fatto ignoto da provare è l’elemento soggettivo dell’illecito, in esito al ricorso
13 Il ricorso principale sul quale la Corte di Cassazione
è stata chiamata a pronunciarsi con la sentenza 17 maggio
2003, n. 7282 aveva ad oggetto il mancato riconoscimento
del danno morale motivato dal giudice di secondo grado
sulla base dell’orientamento che presuppone, ai fini del
risarcimento, l’accertamento concreto di un reato, incluso
l’elemento soggettivo, anche se nel caso di specie la colpa
doveva presumersi ai sensi dell’art. 2054, comma 1, c.c.
155
RomanaDOTTRINA
temi
alla presunzione quell’elemento è provato”14. In definitiva, sul piano degli effetti
civili, la conclusione cui necessariamente si giunge è che la prova dell’elemento
soggettivo comporta la prova del reato (naturalmente, se il fatto costituisce reato),
non rilevando, al riguardo, la modalità attraverso la quale la prova è raggiunta e
finendo per equiparare l’accertamento concreto a quello per presunzione.
4. Alcune osservazioni a margine della sentenza
della Corte costituzionale dell’11 luglio 2003, n. 233
Sempre sul tema è intervenuta la Corte costituzionale che chiamata a pronunciarsi sulla questione di legittimità costituzionale dell’art. 2059 c.c. sollevata dal
Tribunale di Roma15 per presunta violazione dell’art. 3 Cost., ne ha dichiarato la non
fondatezza.
Il giudice a quo ha sollevato due diverse questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2059 c.c.: una prima questione, qualificata come principale dallo stesso rimettente,
riguardava la legittimità costituzionale della disposizione, per presunto contrasto con gli
art. 2 e 3 Cost., nella parte in cui limita la risarcibilità del danno non patrimoniale “solo
nei casi determinati dalla legge”; mentre la seconda questione, indicata come subordinata (ma considerata dalla Corte come logicamente preliminare all’altra) faceva riferimento al diniego di risarcimento nelle ipotesi di accertamento della colpa in base ad una presunzione di legge.
Nella motivazione della sentenza in esame la Corte mette in evidenza l’evoluzione avutasi in materia di risarcibilità del danno non patrimoniale, affermando come un’interpretazione ancorata alla necessità dell’accertamento concreto dell’elemento soggettivo, si dimostri contraria alla ratio della norma impugnata. Viene, infatti, avallata la
diversa lettura dell’art. 2059 c.c. alla luce dell’apertura avutasi per via legislativa e giurisprudenziale in tema di risarcibilità del danno non patrimoniale. Ad apparire mutata è
proprio la funzione che l’art. 2059 c.c. è chiamato a svolgere. E’ in ragione di tale funzione, non più sanzionatoria16 ma tipizzante dei casi di risarcibilità, che può spiegarsi la
possibilità, ai soli fini civili, di riconoscere il risarcimento per effetto di una presunzione di legge, sempreché la fattispecie sia anche solo astrattamente prevista come reato17.
Una volta superato il dubbio di legittimità costituzionale derivante da una lettura
antinomica della norma, la Corte, preso atto dalla non rilevanza dell’ulteriore questione
di legittimità costituzionale in ragione della concreta possibilità di tutela risarcitoria riconosciuta ai danneggiati ai sensi del combinato disposto degli art. 2059, 2054, comma 2,
c.c. e 185 c.p., ne dichiara l’inammissibilità.
Giova, in ultimo, dare conto della posizione dell’Avvocatura di Stato che ha, invece, giustificato la limitazione del diritto al risarcimento attraverso il contemperamento di
14 Così, Cass. 17 maggio 2003, n. 7282.
15 Il giudizio davanti al Tribunale di Roma riguardava
le domande di risarcimento del danno morale avanzate dai
prossimi congiunti di persone decedute in un incidente
automobilistico e richiedeva, per l’accertamento della
responsabilità dei conducenti, il ricorso alla presunzione di
cui all’art. 2054, comma 2, c.c.
156
16 Come ricordato dalla Corte (3.2 del Considerato in diritto)
il carattere sanzionatorio dell’art. 2059 c.c. era reso
manifesto dalla stessa relazione al codice civile, nella parte
in cui si affermava che “soltanto nel caso di reato è più
intensa l’offesa all’ordine giuridico e maggiormente sentito
il bisogno di una più energica repressione con carattere
anche preventivo”.
una contrapposta esigenza, quella, cioè, di evitare l’assoggettamento del debitore ad un
carico risarcitorio sproporzionato rispetto all’entità del fatto illecito. Ad ogni modo giungere a negare una lettura estensiva dell’art. 2059 c.c. in ragione del maggiore carico
risarcitorio gravante sul debitore non appare, per chi scrive, condivisibile. Forse, si
dovrebbe ragionare tenendo conto della necessità di accordare una più ampia tutela dei
diritti della persona tout court, siano essi di natura patrimoniale o non patrimoniale, piuttosto che considerare la sola prospettiva risarcitoria.
5. Considerazioni conclusive
Il certo non lineare cammino che ha portato all’espansione della tutela risarcitoria
del danno non patrimoniale può essere visto, all’indomani delle decisioni commentate,
come una nuova conquista del sistema della responsabilità civile. L’input è stato dato
dall’ammissibilità al risarcimento del danno biologico che ha in qualche modo portato la
giurisprudenza a riconsiderare la problematica del diritto risarcitorio degli altri danni di
natura non patrimoniale e specificamente, nel caso che qui interessa, del danno morale.
Non di meno la valutazione del pregiudizio economico derivante dalle sofferenze
morali causate dal fatto illecito, ha portato la dottrina18 a parlare di danni materiali indiretti o di danni indirettamente patrimoniali, al fine di non ricomprendere il danno morale in una categoria di danno a sé stante. La ragione di una simile ricostruzione si basa
evidentemente sulla necessità di equiparare il danno non patrimoniale a quello patrimoniale, avendosi nel primo rispetto al secondo un “cumulo di danni”: prima un danno
morale, da cui deriva un danno patrimoniale. Ciò che risulta diverso è lo scopo del risarcimento, in quanto la reintegrazione del patrimonio tende a garantire al danneggiato una
“soddisfazione” economica del pregiudizio patito.
Con le pronunce della Corte di cassazione e la non incostituzionalità della nuova
interpretazione dell’art. 2059 c.c. si “riscrive” un sistema che, soprattutto in considerazione del diverso rapporto tra giudizio civile e giudizio penale, ammette, nei casi previsti dalla legge, di giungere al riconoscimento della responsabilità del danneggiante (e alla
conseguente condanna al risarcimento del danno morale) in via presuntiva. In fondo,
l’importanza del diverso orientamento del giudice di legittimità e l’adesione delle decisioni del giudice delle leggi a tali cambiamenti, consentono di dimostrare che la giurisprudenza ha saputo correttamente “leggere” il mutamento avvenuto nel diritto vivente.
17 Come ricordato dalla Corte (3.2 del Considerato in diritto)
il carattere sanzionatorio dell’art. 2059 c.c. era reso manifesto
dalla stessa relazione al codice civile, nella parte in cui si
affermava che “soltanto nel caso di reato è più intensa
l’offesa all’ordine giuridico e maggiormente sentito il bisogno
di una più energica repressione con carattere anche
preventivo”.
18 A sostegno di ciò la Corte richiama la giurisprudenza
di legittimità che ha ammesso la risarcibilità del danno
non patrimoniale in relazione al reato commesso
da persona non imputabile, anche solo in presenza
dell’astratta previsione del fatto come reato
(v. il 3.3 del Considerato in diritto).
157
RomanaDOTTRINA
temi
Dott.
Matteo RUSSO
La forma della procura
per l’atto di costituzione
in mora.
Sommario
1. La questione e l’orientamento della giurisprudenza. – 2. La ratifica dell’atto di costituzione in
mora. – 3. L’art. 1324 c.c. e gli atti unilaterali tra vivi a contenuto patrimoniale – 4. L’art. 1324
c.c. e l’utilizzabilità dell’analogia per gli atti diversi. – 5. La rappresentanza nei meri atti. –
6. L’art. 1392 c.c. ed il principio generale di libertà delle forme. – 7. L’art. 1392 c.c. e l’esigenza
di responsabilizzazione della dichiarazione.
1. La questione e l’orientamento della giurisprudenza.
l tema della forma della procura per l’atto di costituzione in mora mostra uno stridente contrasto: da un lato la “leggerezza” con cui i legali costituiscono in mora
i debitori dei propri clienti – è prassi comune – benché privi di procura scritta; dall’altro la complessità dei problemi di diritto ad esso correlati, tra loro dipendenti.
Secondo la giurisprudenza ormai consolidata, essendo la costituzione in
mora atto giuridico in senso stretto, la forma scritta richiesta per il suo compimento ex art. 1219, comma 1, c.c. non si estenderebbe alla relativa procura, dal momento che il formalismo di cui all’art. 1392 c.c. sarebbe applicabile, per il tramite dell’art. 1324 c.c., ai soli negozi giuridici unilaterali tra vivi a contenuto patrimoniale; pertanto, detta procura potrebbe essere conferita anche verbalmente, e la prova
di tale conferimento potrebbe fornirsi anche con testimonianze e presunzioni1.
Si vuole verificare la correttezza di tale orientamento giurisprudenziale e, in
caso di risposta affermativa, il suo fondamento giuridico.
I
2. La ratifica dell’atto di costituzione in mora.
Tuttavia, è necessario affrontare in via preliminare una questione connessa:
quella dell’applicabilità dell’art. 1399, comma 2, c.c. ai meri atti. Infatti, se si riconosce efficacia retroattiva alla ratifica dell’atto di costituzione in mora, il problema
della forma della procura, pur persistendo sul piano teorico, perderebbe il suo rilievo pratico: al creditore, ad es., sarebbe sufficiente, per impedire la prescrizione già
maturata del suo diritto, ratificare in forma scritta l’atto di messa in mora posto in
1 Cass. 3 dicembre 2002, n. 7923; Cass. 12 ottobre 1998
n. 10090; Cass. 17 luglio 1997 n. 6556; Cass. 16 agosto
1993 n. 8711; Cass. 4 febbraio 1993 n. 1359; Cass. 15
luglio 1987 n. 6245; Cass. 10 aprile 1987 n. 3577; Cass.
14 novembre 1984 n. 5762; Cass. 19 dicembre 1980 n.
6568; Cass. 24 febbraio 1978 n. 959; Cass. 9 luglio 1976
n. 2640; nella giurisprudenza di merito App.
Trieste 8 febbraio 1988, in Giust. civ., 1988, I,
2702, con nota di BONAMORE. Secondo la
giurisprudenza, inoltre, per l’efficacia della costituzione
in mora compiuta dal rappresentante è sufficiente
158
una procura generica, non essendo necessario
un potere specificamente abilitante in tal senso: tra
molte Cass. 12 ottobre 1998 n. 10090; Cass. 4 febbraio
1993 n. 1359; Cass. 19 dicembre 1980 n. 6568,
secondo cui la costituzione in mora è valida ed
efficace anche se compiuta da un professionista
non ancora munito di procura scritta alle liti, purché
questi operi come mandatario del creditore,
che lo abbia abilitato ad agire, oppure sulla base
di un più ampio rapporto comprensivo di analogo
potere.
essere, prima della scadenza, dal falsus procurator o dal rappresentante munito di
procura verbale (che si presume) nulla.
Sul punto, la giurisprudenza dominante ritiene che la norma di cui all’art.
1399, comma 2, c.c. debba ritenersi inoperante per i meri atti (soprattutto quelli
interruttivi della prescrizione), sia in via diretta, per inapplicabilità – ancora una
volta – dell’art. 1324 c.c. agli atti non negoziali, sia in via analogica, per mancanza della eadem ratio.
Infatti, da un lato, l’effetto riconnesso dall’ordinamento agli atti giuridici in
senso stretto postula la sussistenza, con operatività ex nunc, di tutti gli elementi
della fattispecie legale, tra cui la legittimazione attiva dell’agente; dall’altro, l’atto
interruttivo della prescrizione, comportando la protrazione nel tempo della necessità, per il soggetto passivo, di adeguamento dello stato di fatto allo stato di diritto
e di conservazione dei mezzi di prova (in caso di adempimento già avvenuto), deve
essere compiuto tempestivamente dal titolare del diritto o da un suo rappresentante effettivo2.
3. L’art. 1324 c.c. e gli atti unilaterali tra vivi
a contenuto patrimoniale.
L’applicabilità dell’art. 1392 c.c. alla costituzione in mora passa, innanzitutto, attraverso il problema dell’osservanza delle norme del Titolo II Libro IV c.c.,
mediante l’art. 1324 c.c., per gli atti dei privati diversi dal contratto.
Secondo l’art. 1324 c.c., “Salvo diverse disposizioni di legge, le norme che
regolano i contratti si osservano, in quanto compatibili, per gli atti unilaterali tra
vivi a contenuto patrimoniale”. Si è posto, sin dall’origine, il problema di chiarire
se il legislatore, ferma restando la centralità del contratto nel nostro ordinamento
civile (ispirato alla logica del mercato e degli scambi), abbia voluto introdurre – più
o meno indirettamente – la categoria astratta del negozio giuridico e la relativa
disciplina3. La questione, che impegna gli studiosi da oltre mezzo secolo, coinvolge diversi aspetti, tra cui, oltre all’uso costruttivo dell’art. 1324 e di altre norme del
codice civile, l’evoluzione storico-giuridica del nostro sistema e l’influenza della
tradizione ispirata a modelli stranieri, come quello francese col Code Napoléon, o
quello tedesco con il BGB.
Al di là di tale dibattito, vi è il problema della mera individuazione degli atti
dei privati cui sia applicabile la disciplina generale sui contratti. L’analisi deve
muovere dal testo dell’art. 1324 c.c.
L’espressione “Salvo diverse disposizioni di legge”, si osserva, è fuori dal
2 C. Conti 26 maggio 1999 n. 604; Cass. 7 ottobre 1997
n. 9746; Cass. 1 settembre 1997 n. 8262, in Foro it.,
1998, I, 533, secondo cui è incompatibile con gli atti
unilaterali che devono essere compiuti entro un termine
perentorio e con quelli interruttivi della prescrizione
la retroattività della ratifica ex art. 1399, comma 2, c.c.,
posto che le esigenze di certezza sottese a tali atti
ed, in generale, ai termini di prescrizione
e decadenza sono inconciliabili con l’instaurazione di
una situazione di pendenza suscettibile di protrarsi in
maniera indeterminata, la cui durata dipende
esclusivamente dall’iniziativa del dominus; Cass. 16
aprile 1991 n. 4046; contra Cass. 23 febbraio 1981 n.
1091, in Foro it., 1981, I, 1988, con nota di DEPRETIS
(con riferimento alla diffida ad adempiere); Cass. 5
aprile 1974 n. 969.
3 La mancanza di rigore tecnico delle disposizioni
preliminari alla disciplina generale sui contratti
è apertamente denunciata da SANTORO PASSARELLI,
Dottrine generali del diritto civile, 9ª ed.,
Napoli 1966, 129
159
RomanaDOTTRINA
temi
meccanismo tecnico della norma4 .
La formula “in quanto compatibili”, viceversa, fissa il limite di operatività
del meccanismo medesimo5. Secondo alcuni autori, il legislatore si limiterebbe a
sancire l’applicabilità analogica delle disposizioni dettate per i contratti agli atti
unilaterali tra vivi a contenuto patrimoniale6, con la conseguenza che l’interprete,
nell’applicare la disciplina sui contratti a questi ultimi, sarebbe tenuto ad accertare, per ciascuna singola norma, la sussistenza dei requisiti previsti per il procedimento analogico, ossia l’identità di fattispecie, l’identità di ratio e la regolarità
della norma (art. 12, comma 2, e 14 disp. prel. c.c.).
In verità, osserva altra dottrina, postulare un’applicazione analogica delle
norme sui contratti agli atti unilaterali tra vivi a contenuto patrimoniale significa
rendere del tutto superfluo l’art. 1324 c.c., in quanto l’analogia legis è gia autorizzata dall’art. 12 disp. prel. c.c. . Il criterio di “compatibilità”, inoltre, a differenza
dell’analogia è “di segno essenzialmente negativo”8 , nel senso che esclude l’applicazione di una norma, in radice consentita, solo se incompatibile9; senza contare che il metodo analogico, sul piano logico-giuridico, non richiede né consente, in
principio, la delimitazione della sua area di intervento10.
Sembra preferibile, dunque, l’orientamento che considera la clausola di
“compatibilità” criterio meramente strutturale – in quanto tale compresa, ma non
coincidente con l’analogia legis11– determinandola nella bilateralità del contratto:
debbono osservarsi, per gli atti unilaterali tra vivi a contenuto patrimoniale, tutte le
norme sui contratti che non implicano la presenza di più parti o centri d’interessi12,
anche se eccezionali e a prescindere da qualsiasi valutazione circa la ragione giustificatrice (l’identità di ratio, come si dirà, è infatti previamente fissata dal legislatore)13.
La proposizione “atti unilaterali tra vivi a contenuto patrimoniale”, dal suo
canto, segna l’area di operatività del meccanismo tecnico e l’identità di ratio – libe4 Essa si limita, infatti, a richiamare espressamente un comune
criterio di derogabilità per cui, laddove vi siano norme
antinomiche proprie degli atti unilaterali, va attribuita
prevalenza a quest’ultime (cfr. BENEDETTI G., La categoria
generale del contratto, in Riv. dir. civ., 1991, I, 677).
5 BENEDETTI G., op. loc. cit.
6 CIAN, Tutela della controparte di fronte all’annullamento o
alla ratifica del negozio, in Riv. dir. civ., 1973, I, 551-552;
SACCO-DE NOVA, Il contratto, in Trattato di diritto civile,
Torino 1993, 30; CATAUDELLA, I contratti, Parte generale, 2ª
ed., Torino 2000, 5; in giurisprudenza cfr. Cass. 4 marzo 1998
n. 2374, in Guida al dir., 1998, fasc. 30, 30, con nota di
IVELLA.
7 LIPARI, Autonomia privata e testamento, Milano 1970,
354; BENEDETTI G., op. cit., 679; ID., Il diritto comune dei
contratti e degli atti unilaterali tra vivi a contenuto
patrimoniale, 2ª ed., Napoli 1997, 11 e 14; IRTI, Per una
lettura dell’art. 1324 c.c., in Riv. dir. civ., 1994, I, 559.
8 BENEDETTI G., La categoria generale del contratto, cit.,
678; ID., Il diritto comune dei contratti e degli atti unilaterali
tra vivi a contenuto patrimoniale, cit., 14-15.
160
9 SCOGNAMIGLIO, Contratti in generale, in Commentario
al codice civile, a cura di SCIALOJA-BRANCA, Bologna-Roma
1970, 54; Contra CATAUDELLA, op. cit., 5 e 6.
10 BENEDETTI G., op. loc. cit.
11 SCOGNAMIGLIO, op. loc. cit.; IRTI, op. cit., 560-561;
sul punto cfr. § 604 Relazione al c.c.
12 IRTI, op. loc. cit.; cfr. GALGANO, Il negozio giuridico, Milano
1988, 214 ss.; GAZZONI, Manuale di diritto privato, 6ª ed.,
Napoli 1996, 87 e 729-730; in giurisprudenza cfr. Cass. 21
novembre 1984 n. 5950.
13 Non può trovare accoglimento, inoltre, la tesi (come
richiamata da RESCIGNO P., voce Contratto (in generale), in
Enc. giur. Treccani, IX, Roma 1988, 6) che considera le norme
del Titolo II Libro IV c.c. integralmente applicabili agli atti
unilaterali c.d. destinati ad una persona determinata,
equiparando – sul piano strutturale – bilateralità del contratto
e carattere ricettizio degli atti unilaterali. La ricettizietà, infatti,
a differenza della bilateralità sta fuori dalla struttura dell’atto
ed indica esclusivamente la sua “direzione”: di un atto, a ben
vedere, proveniente da un’unica parte e già venuto ad
esistenza nella sua fase espressiva (IRTI, op. cit., 562).
ramente valutata dal legislatore – ad esso sottostante.
Le formule “unilaterali”, “tra vivi” e “a contenuto patrimoniale” indicano,
rispettivamente, la provenienza dell’atto da un’unica parte o fronte degli interessi
identici, l’assenza della morte come requisito della sua efficacia giuridica (in contrapposizione agli atti c.d. mortis causa)14 e la natura della prestazione, oggetto dell’obbligazione (art. 1174 c.c.), che costituisce uno dei termini del rapporto giuridico costituito, modificato o estinto dall’atto unilaterale; carattere patrimoniale che,
attraverso un abile gioco di metonimie o “dislocazioni di piani concettuali”15, è
impropriamente esteso dalla prestazione al rapporto giuridico e da qui al contenuto dell’atto (cfr. anche l’art. 1321 c.c.).
Il vero problema, invece, risiede nella natura di questi “atti”, essendo il termine polisemantico. Si tratta di capire, in sostanza, se gli atti di cui all’art. 1324 c.c.
costituiscano o meno, al pari del contratto, esplicazione del potere di autoregolamentazione, cioè se essi siano, secondo l’accezione tradizionale, negozi giuridici.
Il problema non può trovare soluzione, ovviamente, nel mero dato letterale: il legislatore non afferma né esclude, testualmente, che gli atti unilaterali siano negozi giuridici16, ma si limita ed enunciare le comuni note, rispetto al contratto, della patrimonialità e dell’assenza della morte dalla fattispecie normativa.
Soccorre innanzitutto il criterio logico: la ragione dell’applicabilità delle
norme sui contratti ad atti diversi non può risiedere, esclusivamente, nella comune
patrimonialità ed assenza della morte dalla fattispecie normativa, perché tali tratti
sono inidonei a caratterizzarne l’essenza17. Il contratto e la sua disciplina ruotano,
essenzialmente, intorno al concetto di autonomia privata, che si risolve – sul piano
oggettivo – nella “corrispondenza tra contenuto dell’atto (posto in essere volontariamente e consapevolmente dalle parti) e contenuto degli effetti giuridici prodotti” (art. 1322, comma 1, e 1374, prima parte, c.c.)18. E’ evidente, dunque, che l’identità di ratio stabilita dal legislatore dell’art. 1324 c.c. riposa, a dispetto di una
possibile diversità strutturale, anche sull’identità di natura tra i due tipi, entrambi
aventi carattere negoziale.
Allo stesso risultato si giunge attraverso l’interpretazione sistematica. Alcuni
autori affermano che il legislatore, salvo eccezioni che confermano la regola, quando fa riferimento agli “atti”, vuole intendere i “negozi” unilaterali; la loro previsione in sede di disciplina del contratto, poi, non può che fugare ulteriormente i
dubbi sulla loro natura19. Tale impostazione trova conferma nella Relazione al c.c.
(cfr. § 602, 604, 646 e 793), nell’analisi di alcune disposizioni sparse del codice
civile (in primis gli art. 428 e 587 c.c.) e nella considerazione che, una volta esclu14 TORRENTE-SCHLESINGER, Manuale di diritto privato,
14ª ed., Milano 1995, 332; Irti, op. cit., 561.
15 IRTI, op. cit., 565-566.
“acquista senso e coerenza se all’atto previsto
dall’art. 1324 c.c. si riconosce natura
di autoregolamento”; in giurisprudenza cfr. Cass. 1
settembre 1982 n. 4750, in Giust. civ., 1983, I, 724
e in Foro it., 1983, I, 2186.
16 IRTI, op. cit., 560.
17 BENEDETTI G., op. cit., 9-12: il carattere inter vivos
e la patrimonialità si limitano soltanto a predicare
quella che è “la natura intrinseca ed essenziale
dell’atto”, cioè la sua negozialità; l’ordine giuridico
18 IRTI, Introduzione allo studio del diritto privato,
Padova 1990, 92-93.
19 FERRI G.B., Il negozio giuridico tra libertà e norma,
5ª ed., Rimini 1995, 91 ss.
161
RomanaDOTTRINA
temi
so – per ossequio alla tradizione – il termine “negozio”, l’unico vocabolo utilizzabile non poteva che essere quello (assai più generico) di “atto”20.
La convinzione della natura negoziale degli atti indicati nell’art. 1324 c.c.,
del resto, è presente nella dottrina21 e nella giurisprudenza22 dominanti, che a volte,
in verità, neanche sembrano porsi il problema, dando per scontata la soluzione
affermativa23.
E’ possibile trarre il seguente corollario. La costituzione in mora (art. 1219,
comma 1, c.c.) non è soggetta alla relazione di applicabilità normativa sancita dall’art. 1324 c.c., che non può costituire, quindi, il tramite per l’applicazione ad essa
dell’art. 1392 c.c. Non vi sono dubbi, del resto, che l’atto di costituzione in mora
sia mero atto unilaterale tra vivi a contenuto patrimoniale (recettizio)24: la non
negozialità deriva dalla fissazione legale degli effetti (che si producono indipendentemente dalla volontà dell’agente, art. 1218, 1221, 1224, 1453 e 2943, comma
4, c.c.25), mentre la sua patrimonialità riposa sulla natura dell’obbligazione risarcitoria che essa costituisce (art. 1218 e 1224 c.c.) e del rapporto giuridico di cui è
impedita l’estinzione mediante prescrizione (art. 2943, comma 4, c.c.).
4. L’art. 1324 c.c. e l’utilizzabilità dell’analogia per gli atti diversi
A questo punto, ci si chiede se l’art. 1324 c.c. consenta l’osservanza almeno
indiretta dell’art. 1392 c.c. per la costituzione in mora; si tratta di verificare, più in
generale, se le norme contenute nel Titolo II Libro IV c.c. possano applicarsi, in via
analogica, ad atti che sono al di fuori della previsione dell’art. 1324 c.c.
Secondo l’impostazione prevalente, l’art. 1324 c.c. consente l’uso dell’analogia per i meri atti, i negozi unilaterali mortis causa ed i negozi unilaterali e plurilaterali inter vivos a contenuto non patrimoniale. Tutte le norme, infatti – salvo i limi20 Cfr. spec. FERRI G.B., op. cit., 98-99..
21 MESSINEO, Manuale di diritto civile e commerciale
(Codici e norme complementari), I, 9ª ed., Milano 1957, 466;
BETTI, Teoria generale del negozio giuridico,
rist. corr. della 2ª ed., a cura di G. CRIFÒ, Napoli 1994, 304 e
310; SANTORO PASSARELLI, op. cit., 129.
22 Si pensi all’orientamento giurisprudenziale in esame
ed alle sentenze che considerano l’art. 1399, comma 2, c.c.
inapplicabile ai meri atti; cfr., inoltre, in materia
di impugnativa del licenziamento, Cass. 4 luglio 1991
n. 7387; Cass. 4 aprile 1990 n. 2785; Cass., sez. un.,
2 marzo 1987 n. 2180, in Giust. civ., 1987, I, 1055, con nota
di POSO
23 Non mancano, tuttavia, voci minoritarie, per cui
l’art. 1324 c.c. farebbe riferimento anche agli atti
non negoziali (GALGANO, Crepuscolo del negozio giuridico,
in Contr. e impr., 1987, 743; in giurisprudenza, tra molte,
Cass. 4 marzo 1998 n. 2374, cit.; Cass. 25 giugno 1995 n.
7178; Cass. 9 febbraio 1985 n. 1072) o ai negozi giuridici
unilaterali inter vivos a contenuto non patrimoniale
(facendo leva, soprattutto, sul § 604 Relazione al c.c.:
SANTORO PASSARELLI, op. cit., 129; FERRI G.B., op. cit., 92).
24 MESSINEO, op. cit., 455; secondo BENEDETTI G.,
op. cit., 10-11, rappresenta il più importante esempio di
mero atto tra vivi a contenuto patrimoniale che, come tale,
162
rifiuta la disciplina generale del contratto; da altri è inserita
nella categoria delle “partecipazioni di volontà”
(PUGLIATTI, I fatti giuridici, rev. e agg. di A. FALZEA, con
prefazione di N. IRTI, Milano 1996, 7-8) o degli “atti di
richiesta” (BIANCA, Diritto civile, V, La responsabilità, 2ª ed.,
Milano 2000, 88).
25 Con una precisazione: l’interruzione della prescrizione
(art. 2943, comma 4, c.c.) è l’unico effetto che prescinde
dalla colpa del debitore e che il legislatore ricollega
direttamente all’atto di costituzione in mora (e non alla
mora in sé). Sul punto v. GALGANO, Diritto civile e
commerciale, II, Le obbligazioni e i contratti, I, Obbligazioni
e contratti in generale, 3ª ed., Padova 1999, 76-77, secondo
cui il ritardo si traduce in mora in senso tecnico
(inadempimento relativo) soltanto se ricorrono entrambi i
requisiti della fattispecie: la sua imputabilità al debitore e
l’intimazione ad adempiere (a meno che questa sia
facoltativa, trattandosi di mora automatica ex art. 1219,
comma 2, c.c.). Cfr. anche VISINTINI, Inadempimento e mora
del debitore, Milano 1987, 422 ss. Il problema
dell’individuazione degli effetti che l’atto di messa in mora
produce o contribuisce a produrre, in verità, è
particolarmente dibattuto: cfr. BENATTI, La costituzione in
mora del debitore, Milano 1968, 43; GIORGIANNI,
L’inadempimento, 167 ss.; in giurisprudenza Cass. 23 luglio
1991 n. 8199; Cass. 6 febbraio 1989 n. 728; Cass. 10 gennaio
1963 n. 308, in Giust. civ., 1964, I, 272.
ti dell’art. 14 disp. prel. c.c. – sarebbero suscettibili di interpretazione analogica, ove
ricorrano le condizioni dell’art. 12 disp. prel. c.c.26.
Secondo la teoria minoritaria, a giudizio dello scrivente preferibile, l’art. 1324
c.c. implica invece l’inutilizzabilità dell’analogia. L’ostacolo decisivo consiste proprio nel tenore letterale di tale articolo27. La relazione tra la rubrica (“Norme applicabili agli atti unilaterali”) ed il testo (“atti unilaterali tra vivi a contenuto patrimoniale”) pone e al tempo stesso risolve la questione: le norme generali sui contratti sono dichiarate applicabili agli atti unilaterali tra vivi a contenuto patrimoniale, “e
soltanto ad essi”28. In altri termini, l’art. 1324 stabilisce, a contrario e a priori, che
l’analogia non è ammissibile per gli atti unilaterali che non rientrano nella sua previsione. Per questi ultimi possono rilevare, al fine di colmare le lacune della loro specifica regolamentazione, soltanto i principi generali desumibili dalla disciplina dei
contratti complessivamente considerata (l’analogia iuris, art. 12, comma 2, seconda
parte, disp. prel. c.c.).
Il legislatore, del resto, ha dettato – non a caso – una compiuta disciplina per
il testamento ed il matrimonio, gli atti di autonomia privata più importanti esclusi dal
meccanismo dell’art. 1324 c.c.
Il collegamento tra gli art. 1219, comma 1, e 1392 c.c., dunque, sembra non
potersi stabilire neanche in via indiretta.
5. La rappresentanza nei meri atti.
Si potrebbe, a questo punto, muovere un’obiezione. Se le norme generali sul
contratto fossero inapplicabili, in via analogica, ad atti diversi da quelli indicati nell’art. 1324 c.c., sarebbe inconcepibile, per essi, l’istituto della rappresentanza tout
court: i meri atti (tra cui la costituzione in mora) non soltanto non sarebbero soggetti al formalismo della procura, ma neanche potrebbero compiersi efficacemente in
nome e nell’interesse del rappresentato (art. 1388 c.c.), in presenza di un potere legale o volontario all’uopo conferito (art. 1387 c.c.).
Allo stesso modo, la giurisprudenza in esame sembrerebbe contraddirsi: da un
lato, infatti, si considera l’art. 1392 c.c. inapplicabile, attraverso l’art. 1324 c.c.,
all’atto di costituzione in mora, non avendo quest’ultimo natura negoziale; dall’altro
si presuppone, dandola per scontata, l’ammissibilità della rappresentanza per l’atto
di costituzione in mora medesimo29.
Si tratta, a giudizio dello scrivente, di un falso problema. Secondo la dottrina,
l’istituto di cui agli art. 1387 ss. c.c. non si limita ai contratti o ai negozi giuridici
(ossia è strumento esclusivo dell’autonomia privata), ma si estende a tutta l’attività
26 Su tutti MIRABELLI, L’atto non negoziale nel diritto
privato italiano, 1955, 37 ss.; BENEDETTI G., La
categoria generale del contratto, cit., 680-681; SACCODE NOVA, op. cit., 31; GAZZONI, op. cit., 85-86; in
giurisprudenza Cass. 16 maggio 1983 n. 3380, in Giur. it.,
1984, I, 1, 297, con nota di ROSELLI (si ritiene
ammissibile, per l’atto di messa in mora, il ricorso in via
analogica all’art. 1363 c.c.).
27 IRTI, Per una lettura dell’art. 1324 c.c., cit., 564-565;
v. anche TRIOLA, In tema di forma della procura per
l’impugnazione di rinunzie o transazioni, in nota a Cass.
16 giugno 1987 n. 5346, in Giust. civ., 1987, I, 2497.
28 IRTI, op. loc. cit., secondo cui il ricorso all’analogia
“contrasterebbe con la testuale restrizione della
norma”.
29 Il problema, invece, è decisamente avvertito in Cass. 4
marzo 1998 n. 2374, cit.; Cass. 17 gennaio 1983 n. 375, in
Giust. civ., 1983, I, 724 e in Dir. giur., 1983, 657, con nota di
NOBILE.
163
RomanaDOTTRINA
temi
di relazione con i terzi30; la rappresentanza, infatti, si caratterizza essenzialmente per
la contemplatio domini e la dissociazione soggettiva tra autore dell’atto e parte del
rapporto (il soggetto destinatario degli effetti prodotti)31, a prescindere dalla natura
degli effetti prodotti medesimi (se prestabiliti dall’agente o dalla legge)32.
Deve intravedersi, così, una profonda realtà normativa: la rappresentanza è
istituto generale del nostro ordinamento, dotato di una propria autonomia33, applicabile, per analogia iuris, anche alla costituzione in mora e agli altri atti non contemplati dall’art. 1324 c.c. (art. 12, comma 2, seconda parte, disp. prel. c.c.) e la cui
disciplina è collocata nel titolo II libro IV c.c. per ragioni espositive più che di natura sostanziale.
Quasi si potrebbe azzardare, nell’ambito della disciplina della rappresentanza,
una distinzione tra norme che configurano l’istituto nei suoi tratti essenziali (la sua
disciplina minima), elevabili a principi generali dell’ordinamento giuridico dello
Stato (in particolare gli art. 1387 e 1388 c.c.), e norme che completano la disciplina,
stabilite con riferimento ai contratti ed estensibili solo ai negozi unilaterali tra vivi a
contenuto patrimoniale (come gli art. 1392 e 1399 c.c.).
6. L’art. 1392 c.c. ed il principio generale di libertà delle forme.
Ci si chiede, infine, se, ammettendo in ipotesi l’applicabilità analogica delle
norme generali sul contratto ad atti diversi da quelli indicati nell’art. 1324 c.c., sia possibile estendere l’art. 1392 c.c. – appunto mediante l’analogia – all’atto di costituzione in mora.
Una parte della dottrina, facendo leva sul principio generale di libertà delle
forme, ritiene la norma di cui all’art. 1392 c.c. inapplicabile per analogia in quanto
eccezionale (art. 14 disp. prel. c.c.)34; tale orientamento, in verità, è ben presente anche
in giurisprudenza35 .
Non è questa la sede per sollevare – ancora una volta – il dibattito attorno al c.d.
principio generale di libertà delle forme, di forte radice giusnaturalistica e ben radicato nella dottrina e nella giurisprudenza dominanti36; un orientamento minoritario, a
giudizio dello scrivente preferibile, considera tale principio giuridicamente infondato
e dunque ritiene le norme prescrittive di forma suscettibili di applicazione analogica
(come imporrebbe, del resto, la logica degli scambi e ragioni economiche)37.
Di conseguenza, non sembra che il principio in questione – proprio perché insussistente – possa costituire un ostacolo all’utilizzabilità dell’analogia per l’art. 1392 c.c.
30 SANTORO PASSARELLI, op. cit., 274-275;
GAZZONI, op. cit., 978.
31 ORLANDI, La paternità delle scritture. Sottoscrizione e forme
equivalenti, Milano 1997, 119 ss.
32 Discussa, invece, è la possibilità di estendere
la rappresentanza al compimento degli atti materiali o reali,
cioè le c.d. “operazioni” (trasformazione, impossessamento,
invenzione, ecc.): cfr. MESSINEO, op. cit., 453-454 e
PUGLIATTI, op. cit., 5 e 8. Secondo GAZZONI (op. loc. cit.),
non può configurarsi in questi casi una rappresentanza in
senso proprio perché, mancando la dichiarazione, manca la
possibilità di spendere il nome altrui.
164
33 ORLANDI, op. cit., 121: la rappresentanza è regolata
da una sua disciplina, che s’intreccia con quella
del contratto in generale e la influenza.
34 TRIOLA, op. cit., 2498
35 Cass. 1 settembre 1990 n. 9085, in Nuova giur. civ. comm.,
1991, I, 353; Cass. 1 settembre 1982 n. 4750, cit.
36 Su tutti SAVIGNY, Sistema del diritto romano attuale,
trad. it. V. SCIALOJA, III, Torino 1900, 316; GIORGIANNI,
v. Forma degli atti (dir. priv.), in Enc. dir., XVII, Milano
1968, 1001 ss.; BIANCA, Diritto civile, III, Il contratto, 2ª
ed., Milano 2000, 273.
7. L’art. 1392 c.c. e l’esigenza di responsabilizzazione
della dichiarazione.
L’inapplicabilità del formalismo della procura alla costituzione in mora sembra
risiedere, invece, nei principi del formalismo negoziale e nel significato degli art. 1219
e 1392 c.c., ove il problema, a giudizio dello scrivente, trova piena soluzione.
Secondo l’insegnamento ormai ripetuto e consolidato, il formalismo ad substantiam – salvo compiti minori – serve, sul piano soggettivo, a concentrare l’attenzione
della parte sull’importanza e la gravità dell’atto, sul piano oggettivo, a garantire la sua
serietà ed univocità: la prima funzione, c.d. “di responsabilizzazione della dichiarazione”, opera nell’interesse dell’agente; la seconda, c.d. “di certezza dell’atto”, nell’interesse di chi lo riceve (e degli altri consociati)38.
Il legislatore, a volte, per atti che appaiono – già a prima vista – non poi così
“importanti e gravi”, prescrive oneri di forma ad substantiam solo in relazione alla
seconda funzione (emblematico, come si dirà, è proprio l’atto di costituzione in mora).
Tale scelta non è priva di conseguenze logiche e normative. Quando il formalismo deve garantire anche la responsabilizzazione del consenso (come nell’art. 1350
c.c.), il requisito di forma si comunica per relationem dal negozio principale agli atti
“preparatori” (la procura ed il contratto preliminare, art. 1392 e 1351 c.c.) e a quelli
“integrativi” (la ratifica, art. 1399, comma 1, c.c.)39: la finalità dell’adeguata ponderazione sarebbe infatti frustrata, se l’agente potesse sostituire a sé altri o vincolarsi alla stipula del negozio definitivo con un atto a forma libera40. Quando il formalismo deve
invece garantire la sola certezza, non sembra che vi sia ragione di tale estensione: infatti, rileva esclusivamente che l’atto principale in sé, quell’atto sia fatto per iscritto, in
modo da assicurare al destinatario ed ai consociati la sua serietà41.
37 IRTI, Idola libertatis, Milano 1985, 1 ss.; ID., Studi sul
formalismo negoziale, Padova 1997, spec. VIII ss. La critica
ai c.d. “idola libertatis” è costruita su diversi argomenti,
logici e normativi; in particolare, dal tenore letterale
dell’art. 1325, n. 4, c.c. non risulta, in maniera esplicita o
implicita, una norma generale che prescriva il principio di
libertà delle forme, sicché, nella comparazione con essa,
le norme prescrittive di forma assumano il carattere di
eccezionalità. Il legislatore si limita a stabilire che la
forma è requisito del contratto “quando risulta che è
prescritta dalla legge sotto pena di nullità”, ossia ci sono
casi, in cui la forma non assume rilevanza giuridica, e
casi, in cui il farsi dell’atto diventa un dover farsi secondo
il modello stabilito dalla legge. E l’irrilevanza giuridica
non si traduce in lacuna di disciplina, né “può cangiarsi in
principio giuridico di libertà delle forme, l’assenza di un
requisito, in concetto positivo della dogmatica civilistica”
(IRTI, op. cit., XI). La teoria dell’Irti è condivisa da una
parte della dottrina (SACCO, op. cit., 422-425; FERRI G.B.,
op. cit., 166) e della giurisprudenza (Cass. 29 maggio
1993 n. 6024; Cass., sez. un., 28 agosto 1990 n. 8878: tali
sentenze, pur aderendo formalmente al principio di
libertà delle forme, celano – dietro gli schemi
dell’interpretazione estensiva e dell’assimilazione tra
fattispecie – il superamento del principio medesimo e
l’applicabilità analogica delle norme prescrittive di
forma).
38 BETTI, op. cit., 279; BIANCA, op. cit., 278-280: gli atti
giuridici più importanti sono atti che interessano la
comunità e la forma è il modo in cui essi si manifestano.
39 Le definizioni sono di SANTORO PASSARELLI, op. cit. 216.
40 CATAUDELLA, op. cit., 240. L’analisi dei testi normativi
mostra, inoltre, come l’intensità del formalismo con
finalità di responsabilizzazione sia direttamente
proporzionale all’importanza e alla gravità dell’atto: più
il negozio incide sulla sfera patrimoniale dell’agente, più
il legislatore irrigidisce od estende la forma richiesta ad
substantiam. In particolare, quando l’atto produce effetti
soltanto sfavorevoli (e particolarmente gravi) nella sfera
dell’agente, è prescritta l’adozione di una forma più
solenne (la donazione di non modico valore, ad es., deve
farsi per atto pubblico ex art. 782 c.c.); quando, viceversa,
determina la perdita di beni costituzionalmente protetti
(come la casa di abitazione od il posto di lavoro),
il formalismo è esteso alla fase comunicativa dell’atto,
cioè la sua destinazione alla conoscenza di altri
(il licenziamento, ad es., deve essere “comunicato per
iscritto” ex art. 2 l. n. 604 del 1966; la disdetta deve
essere comunicata “con lettera raccomandata” ex art. 3 l.
n. 392 del 1978). Circa la distinzione tra fase espressiva e
fase emissiva della dichiarazione, forma dell’espressione e
forma dell’emissione, cfr. ORLANDI, op. cit., 30-35.
41 Il meccanismo, a ben vedere, non è alterato dalla
funzione c.d. “probatoria” delle forme ad substantiam:
infatti, anche la precostituzione di una prova scritta,
talora voluta dal legislatore, non richiede l’estensione ai
negozi preparatori ed integrativi.
165
RomanaDOTTRINA
temi
L’art. 1392 c.c., dunque, si dovrebbe intendere come segue: la procura non ha
effetto (rectius: è nulla), se non è conferita con la forma prescritta ad substantiam per
il contratto (od il negozio unilaterale tra vivi a contenuto patrimoniale, trattandosi di
norma compatibile ex art. 1324 c.c.) che il rappresentante deve concludere42, solo quando detta forma assolva anche ad una finalità di responsabilizzazione del consenso.
D’altra parte, non vi sono dubbi che l’art. 1219, comma 1, c.c. configuri un caso
di formalismo sostanziale con mera finalità di certezza dell’atto43.
La costituzione in mora, infatti, produce effetti: 1) esclusivamente favorevoli in
capo al creditore; 2) meramente conservativi del rapporto obbligatorio principale (ex
art. 2943, comma 4, c.c.); 3) prestabiliti dalla legge (la natura non negoziale infatti attenua, di per sé, l’importanza e la gravità dell’atto, produttivo di conseguenze giuridiche
indifferenti al risultato voluto).
Si consideri, inoltre, l’origine sociale e romanistica dell’istituto. L’atto di costituzione in mora nasce dall’antico favor debitoris e la sua disciplina deriva dalla trasposizione,
nel ordinamento giuridico, di norme sociali44: salvo i casi di mora ex re (art. 1219, comma
2, c.c.) e le obbligazioni negative (art. 1222 c.c.), il ritardo del debitore nell’eseguire la prestazione dovuta si presume tollerato dal creditore, su cui grava l’onere di inoltrare una
richiesta formale di adempimento; soltanto un’intimazione scritta, infatti, appare congrua
sul piano sociale a rendere certa la serietà della richiesta e a vincere, quindi, la presunzione di tolleranza (non sarebbe sufficiente una sollecitazione verbale)45.
La giurisprudenza, infine, ha costruito (con la dottrina) una disciplina della costituzione in mora volta ad attenuarne il rigore formale (in considerazione, ovviamente,
dell’essenziale funzione di certezza)46.
42 V. CATAUDELLA, op. loc. cit. La dottrina e la
giurisprudenza dominanti considerano l’art. 1392 c.c. riferibile
ai soli contratti per cui la legge prevede la forma scritta ad
substantiam (su tutte Cass. 29 agosto 1997 n. 8198, in
Notariato, 1998, 113, con nota di VARANO); non mancano,
tuttavia, posizioni contrarie (Cass. 19 marzo 1980 n. 1839; nella
letteratura D’AVANZO, voce Rappresentanza, in Noviss. Dig. It.,
XIV, Torino 1967, 812 ss.). L’orientamento minoritario
non può essere accolto. A parte le considerazioni precedenti, la
norma, facendo espresso riferimento all’efficacia (“La procura
non ha effetto se…”),
ha riguardo alla sola forma ad substantiam: l’inosservanza della
forma ad probationem non rende infatti nullo il contratto ma
incide soltanto sulla possibilità di darne la prova (CATAUDELLA,
op. loc. cit.). Deve aggiungersi che forma ad substantiam e
forma
ad probationem non si prestano ad un reciproco rinvio, in
quanto eterogenee: la prima è un modo di esternazione della
volontà, e quindi attiene
al contratto inteso come un faciendum, un evento
in fase di svolgimento; la seconda è una prova
(non una vera forma), e quindi attiene al contratto inteso come
un “factum”, un evento già passato
(IRTI, Idola libertatis, cit., 60).
43 BIANCA, Diritto civile, V, La responsabilità, cit., 92.
44 La disciplina della mora mostra chiaramente come
i “sistemi” normativi (l’ordinamento giuridico, la morale, le
norme di convenienza sociale, ecc.)
siano tra loro armonici: perciò, “si integrano
166
e si sorreggono vicendevolemente”
(PERASSI, Introduzione alle scienze giuridiche, 3ª rist., Padova
1967, 13 ss.).
45 GALGANO, op. cit., 76-77; BIANCA, op. cit., 94-95;
in giurisprudenza Cass. 28 dicembre 1973 n. 3456.
La presunzione di tolleranza è ricondotta al generale dovere di
correttezza ex art. 1175 e 1375 c.c.
(VISINTINI, op. cit., 431; in giurisprudenza Cass.
14 gennaio 1986 n. 158; Cass. 21 giugno 1976
n. 2330, in Arch. civ., 1977, 445).
46 E’ sufficiente una comunicazione scritta non firmata
(BIANCA, op. cit., 91; contra BENATTI, op. cit., 132), orale
contestualmente verbalizzata (Cass. 25 ottobre 1963 n.
2841), inviata per telegramma anche privo di
sottoscrizione nel dispaccio (GIORGIANNI,
L’inadempimento, cit., 126) o con semplice lettera (Cass.
23 agosto 1990 n. 8621), contenuta in qualsiasi atto
giudiziale (tra molte Cass. 5 luglio 1984 n. 3940) o
stragiudiziale (Cass. 5 gennaio 1977 n. 25), purché idonea
a manifestare in modo preciso, serio ed esplicito la
volontà del creditore di ottenere l’adempimento (tra
molte Cass. 5 marzo 1991 n. 2283); si arriva persino a
sostenere l’“aformalismo” della costituzione in mora
(BENATTI, op. cit., 133 ss.; GIORGIANNI, op. loc. cit., per
cui l’art. 1219, comma 1, c.c. introduce una forma ad
probationem). Sotto altro aspetto, l’interruzione della
prescrizione sembra distinguersi dagli altri effetti
dell’intimazione per la forma richiesta: ai sensi dell’art.
2943, comma 4, c.c., infatti, la prescrizione è interrotta
segue
Sotto altro aspetto, sembrano configurare atti a forma vincolata con mera
finalità di certezza anche l’impugnazione del licenziamento (art. 6, comma 1, l. n.
604 del 1966) e quella delle rinunce o transazioni (art. 2113, comma 3, c.c.)47.
In conclusione, dall’applicazione dell’art. 1392 c.c. è escluso non soltanto
l’atto di costituzione in mora, ma tutti quegli atti, negoziali o meno, in cui il formalismo si limita a garantire la serietà, a tutela del soggetto ricevente. Il problema
in esame è quindi risolto “a monte” e l’orientamento giurisprudenziale che si commenta trova definitiva consacrazione: la soluzione prospettata, infatti, conduce
all’“aformalismo” della procura per la costituzione in mora anche ammettendo, in
ipotesi, l’applicabilità analogica delle norme sul contratto ad atti diversi da quelli
indicati nell’art. 1324 c.c., oppure l’inclusione della costituzione in mora tra gli atti
unilaterali tra vivi a contenuto patrimoniale.
Il ragionamento proposto, del resto, sembra confortato da una sentenza della
Suprema Corte in tema di diffida ad adempiere. Secondo la sentenza Cass. 1 settembre 1990 n. 9085, cit., infatti, la procura per la diffida ad adempiere, che è negozio unilaterale tra vivi a contenuto patrimoniale (compreso nell’ambito d’applicazione dell’art. 1324 c.c.), deve farsi per iscritto se il contratto da risolvere abbia ad
oggetto beni immobili o debba rivestire la forma scritta (ad substantiam o ad probationem), in forma orale negli altri casi (beni mobili di modica importanza). La
decisione lascia intendere, dunque, che il formalismo dell’art. 1454 c.c. soddisfa
nella prima ipotesi l’esigenza di responsabilizzazione, e quindi si estende alla procura per il tramite dell’art. 1324 c.c.; nella seconda l’esigenza di mera certezza, e
quindi non v’è ragione di tale estensione48.
“da ogni altro atto che valga a costituire in mora il
debitore”. Secondo la tesi dominante, a giudizio dello
scrivente preferibile, il legislatore si riferisce ad atti
comunque rivestiti della forma scritta (su tutte Cass. 11
maggio 1985 n. 2960; App. Trieste 8 febbraio 1988, cit.).
Favorevoli alla tesi della forma libera, invece: Cass. 9 luglio
1976 n. 2640; BONAMORE, Occupazione illecita di terreni
ad opera della p.a.: interruzione della prescrizione (art.
2943 c.c.) e riconoscimento (art. 2944 c.c.) del diritto al
risarcimento, in nota ad App. Trieste 8 febbraio 1988, cit.
47 Vale, pertanto, il ragionamento precedente.
L’impugnazione sia del licenziamento, sia delle rinunce o
transazioni è atto giuridico in senso stretto e la relativa
procura può essere conferita anche verbalmente, per
inapplicabilità degli art. 1324 e 1392 c.c. (v.,
rispettivamente, Cass. 1 settembre 1982 n. 4750,
cit. e Cass. 16 giugno 1987 n. 5346, cit.). In entrambi
i casi la forma scritta ad substantiam risponde ad una
mera esigenza di certezza (cfr. VALLEBONA, Istituzioni di
diritto del lavoro, II, Il rapporto di lavoro, 3ª ed., Padova
2002, 371), come ammette la stessa giurisprudenza
favorevole all’applicazione dell’art. 1392 c.c. e come
risulta dal tenore letterale dell’art. 6, comma 1, l. n. 604
del 1966 (l’art. 2113, comma 3, c.c. ripete la stessa
formula): il licenziamento può essere infatti impugnato
“con qualsiasi atto scritto,
anche stragiudiziale, del lavoratore idoneo a renderne
nota la volontà” (è necessario, tuttavia, che sia chiara
la volontà di contestare il licenziamento, Cass. 27
febbraio 1998 n. 2200, in Mass. giur. lav., 1998, suppl.,
42). L’impugnazione, inoltre, produce effetti soltanto
favorevoli nel patrimonio dell’agente (impedisce,
infatti, la perdita definitiva del posto di lavoro
o dei diritti inderogabili di cui all’art. 2113 c.c.).
La giurisprudenza dominante, tuttavia, è divisa tra chi
considera l’impugnazione del licenziamento atto a forma
vincolata perché negoziale (su tutte Cass., sez. un., 2
marzo 1987 n. 2180, in Giust. civ., 1987, I, 1055,
con nota di POSO; Cass., sez. un., 2 marzo 1987 n. 2179,
in Nuova giur. civ., 1987, I, 715, con nota di VALLEBONA);
e chi giunge allo stesso risultato estendendo l’art. 1324 ai
meri atti unilaterali tra vivi a contenuto patrimoniale
(Cass. 1 settembre 1997 n. 8262, cit.; Cass. 20 agosto 1996
n. 7651, in Corriere giur., 1997, 599, con nota di
MARICONDA). Vi è unanimità,
invece, nel ritenere inapplicabile la retroattività della
ratifica (tra molte Cass. 4 marzo 1998 n. 2374, cit.;
Cass. 4 luglio 1991, n. 7387; Cass. 5 febbraio 1988, n.
1231).
48 Contra Cass. 26 giugno 1987 n. 5641,
secondo cui è sempre sufficiente una procura verbale; Cass.
25 marzo 1978 n. 1447, in Giust. civ., 1978, I, 1038, con nota
di COSTANZA M., secondo cui la forma scritta della procura
è richiesta in ogni caso.
167
RomanaOSSERVATORIO COSTITUZIONALE
temi
a cura dell’Avv Prof. Giuseppe MARAZZITA
A) QUESTIONI SOLLEVATE
In questa sezione si riportano le questioni di legittimità costituzionale
sollevate da giudici che rientrano nel distretto della Corte d’appello di
Roma (o dal T.A.R. del Lazio), ancora pendenti davanti alla Corte
costituzionale.
In tal modo, confermando l’attenzione di TEMI ROMANA per la
giurisprudenza di merito, si è inteso istituzionalizzare uno spazio –
rilevante anche da punto di vista pratico – su tutte le questioni che,
regolate da norme di frequente applicazione, sono ritenute di “dubbia
costituzionalità” dagli stessi giudici: in tal modo anche l’operatore
pratico avrà la facoltà di sollevare analoghe eccezioni oppure di
chiedere la sospensione (facoltativa) dei processi nei quali quelle
disposizioni dovrebbero essere applicate, fino alla decisione della
Consulta.
Il formato “cartaceo” della Rivista non consente il monitoraggio continuo,
ma la semplice prospettazione delle nuove questioni di volta in volta
sollevate: l’edizione informatica della TEMI ROMANA, invece, conterrà (e
manterrà disponibile in rete) il panorama completo di tutte le questioni
sollevate e via via risolte.
In questa seconda uscita, vengono riportate le ordinanze di giudici
“romani”, che sollevano in via incidentale questioni di costituzionalità,
pubblicate nella Gazzetta ufficiale fino al 30 ottobre 2004.
Per ciascuna questione, dopo la materia e l’istituto coinvolti, sono
indicati il giudice a quo, le norme oggetto del giudizio, le norme
costituzionali che si ritengono violate, gli estremi della pubblicazione
sulla 1° Serie speciale della Gazzetta ufficiale e una sintesi della
motivazione sulla “non manifesta infondatezza” (mentre si omette
quella sulla “rilevanza”).
REATI E PENE
E’ (ancora) legittimo punire il mero possesso di chiavi e
grimaldelli?
Autorità: Tribunale di Viterbo – dott. Centaro
Oggetto: art. 707 del codice penale
Parametri: artt. 3 (eguaglianza), 13 (libertà personale),
24 (diritto di difesa), 25 (materialità, offensività e tassatività dei reati)
e 27 (presunzione di non colpevolezza)
G.U. n.: 36/04
La questione: L’interessante ordinanza del dott. Centaro del Tribunale di
Viterbo ha ad oggetto un reato, il possesso ingiustificato di chiavi alterate e gri-
168
maldelli, che appartiene alla categoria dei cd. “reati senza offesa” i quali sono
accomunati, secondo autorevole dottrina (Mantovani), da “un’ombra di incostituzionalità, oltre che di impopolarità” in ragione dell’eccessivo grado di anticipazione della punizione penale.
In particolare, l’art. 707 c.p. rientra tra i “reati di sospetto” che riguardano comportamenti, in sé e per sé, né lesivi né pericolosi di alcun interesse ma che
lasciano sospettare l’avvenuta o la futura commissione di altri reati.
In tal modo appaiono compromessi, non solo i principi di materialità e di offensività, ma anche la personalità della responsabilità penale, la presunzione di non
colpevolezza e il diritto di difesa: compete infatti all’imputato dimostrare la
liceità del possesso con una anomala inversione dell’onere probatorio.
Inoltre, la limitazione della responsabilità ad una particolare categoria di soggetti (i condannati per delitti contro il patrimonio) produce una irragionevole
disparità di trattamento rispetto a tutti gli altri soggetti (incensurati e pregiudicati a diverso titolo) per i quali la medesima condotta è invece esente da responsabilità.
In ultimo, il giudice viterbese ricorda che la Corte costituzionale ebbe a “salvare” la legittimità dell’art. 707 c.p. dal profilo della lesione dei principi di offensività e materialità (cfr. sent. Corte cost. n. 14 del 1971) ma vi pervenne con
argomentazione "assolutamente apodittica ed opinabile" che fu "avversata da
tutti i commentatori".
Del resto in una decisione più recente (cfr. sent. Corte cost. n. 370 del 1996) il
giudice delle leggi ha dichiarato illegittimo l’art. 708 c.p. ("possesso ingiustificato di valori") rilevando l’irragionevolezza dell’incriminazione e la violazione
del principio di tassatività contenuto nell’art. 25 della Costituzione.
PUBBLICO IMPIEGO
Lo scioglimento automatico dei contratti dirigenziali
("spoil system") viola la libertà negoziale?
Autorità: Tribunale di Roma
Oggetto: art. 3 della legge 15.7.2002 n. 145
Parametri: artt. 2 (diritti inviolabili), 3 (eguaglianza),
4 (diritto al lavoro), 41 (iniziativa economica),
97 (buon andamento e imparzialità della p.a.) e 98 (autonomia della p.a.)
R.G. n.: 33/04
La questione: Il Tribunale di Roma, quale giudice del lavoro, in ordinanze di
diversi giudici (dott.ri Foscolo, Mucci e Orrù) solleva la questione incidentale nell’ambito di processi instaurati dal ricorso di dirigenti ministeriali i quali, dopo aver
firmato un contratto quinquennale, erano stati revocati dall’incarico in attuazione
del meccanismo del c.d. “spoil system”
La legge sul riordino della dirigenza, infatti, prevede la cessazione automatica degli
incarichi dirigenziali di livello generale e di direttore generale indipendentemente
169
RomanaOSSERVATORIO COSTITUZIONALE
temi
dal termine stabilito nei contratti individuali o nei provvedimenti di attribuzione
degli incarichi stessi.
In tal modo, la disposizione interviene in modo imperativo e retroattivo su un
assetto di interessi liberamente pattuito dalle parti, ponendosi in contrasto con
principi di rango costituzionale quali la libertà negoziale e l’autonomia privata
della persona.
Osserva il giudice Foscolo che la compressione dell’autonomia privata non è giustificabile in termini di ragionevolezza nella finalità di "valorizzare le responsabilità politiche degli organi di vertice delle amministrazioni nella scelta dei dirigenti ritenuti maggiormente idonei": infatti tale ratio, se può giustificare lo ius poenitendi da esercitarsi entro 90 giorni dalla votazione della fiducia al Governo, non
può giustificare lo scioglimento automatico dei contratti in corso per effetto del
solo dato temporale del decorso di un termine.
Nell’ordinanza del dott. Mucci si pone l’accento sulla lesione del generale principio dell’affidamento, mentre il giudice Orrù fa riferimento alla necessità di garantire una situazione di equilibrio tra potere politico e potere amministrativo, il quale
deve essere imparziale e al servizio esclusivo della Nazione e non della maggioranza di governo.
CODICE DELLA STRADA
E’ legittimo detrarre i “punti” dalla patente del proprietario
se il conducente è ignoto?
Autorità: Giudice di pace di Montefiascone
Oggetto: art. 126-bis del D.L.vo 30.4.1992 n. 285
Parametri: artt. 3 (eguaglianza) e 27 (personalità della pena)
R.G. n.: 26/04
La questione: Il Giudice di pace di Montefiascone, sulla linea di altri uffici giudicanti, solleva una questione di legittimità sulla controversa disposizione che ha
introdotto nel nostro ordinamento la “patente a punti”: il meccanismo, come è noto,
prevede che gli effetti sanzionatori, non solo pecuniari, siano a carico del conducente della vettura e – in caso di mancata identificazione – al proprietario del veicolo, a meno che questi non comunichi i dati personali dell’effettivo conducente.
La disciplina, potendo applicarsi soltanto ai proprietari muniti di patente, appare
irragionevole perché crea una disparità di trattamento tra situazioni identiche, mandando esenti da sanzione i proprietari sprovvisti di patente e incentivando la "diseducativa tendenza a intestare le vetture a soggetti non patentati". In tal modo
sarebbe leso il principio di uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge.
In secondo luogo, il giudice ritiene la non manifesta infondatezza anche in ordine
alla violazione del principio della personalità della pena: poiché la decurtazione dei
punti costituisce una sanzione affittiva, che limita la libertà personale, non dovrebbe essere trasmissibile ad altri soggetti che non hanno posto in essere l’azione o l’omissione contestata.
170
PUBBLICO IMPIEGO
E’ ragionevole impedire la riammissione in servizio
degli ufficiali dell’Esercito in congedo volontario?
Autorità: T.A.R. del Lazio
Oggetto: art. 43 della legge 10.4.1954 n. 113
Parametri: artt. 3 (eguaglianza) e 97 (buon andamento
della pubblica amministrazione)
R.G. n.: 36/04
La questione: Il T.A.R. del Lazio dubita della legittimità costituzionale della
disposizione che non prevede la possibilità di riammettere in servizio gli ufficiali
dell’Esercito, della Marina e dell’Aeronautica che siano cessati a domanda dal
servizio (s.p.e.) e posti in congedo.
Secondo il giudice, mentre storicamente l’abdicazione della carriera militare
rappresentava una rottura del giuramento di fedeltà all’istituzione, oggi è profondamente mutato lo scenario culturale e il quadro legislativo di riferimento.
Pertanto il divieto assoluto, essendo privo di razionale giustificazione, impedisce irragionevolmente all’amministrazione di soddisfare l’eventuale interesse
pubblico a riammettere chi, pur cessato volontariamente dal servizio, è dotato di
tutti i requisiti necessari.
Ne consegue la paventata lesione dei principi di uguaglianza e di buon andamento della pubblica amministrazione.
SANZIONI AMMINISTRATIVE
La competenza inderogabile del giudice del luogo
della commessa violazione discrimina i meno abbienti?
Autorità: Giudice di pace di Ostia
Oggetto: art. 204-bis del D.L.vo 30.4.1992 n. 285 e art. 22
legge 24.11.1981 n. 689
Parametri: artt. 3 (eguaglianza), 24 (diritto di difesa)
e 111 (giusto processo)
R.G. n.: 33/04
La questione: Il Giudice di pace della sezione distaccata di Ostia si pone il
problema della legittimità della norma che obbliga il ricorrente contro le sanzioni amministrative ad adire il giudice del luogo della commessa violazione.
Secondo l’ordinanza tale competenza inderogabile rappresenterebbe una discriminazione di trattamento a favore dei cittadini più abbienti e in danno degli altri,
anche se non indigenti, che rappresentano il "ceto medio".
Inoltre la disposizione sarebbe lesiva del diritto di difesa, il cui esercizio diverrebbe particolarmente gravoso nonché offensivo del principio di parità delle
parti processuali, in quanto avvantaggerebbe ingiustamente la pubblica amministrazione a danno dei privati.
171
RomanaOSSERVATORIO COSTITUZIONALE
temi
CERTIFICAZIONE TRIBUTARIA
Perché spetta a commercialisti, ragioneri, periti e consulenti
del lavoro ma non agli avvocati?
Autorità: T.A.R. del Lazio
Oggetto: art. 36 del D.L.vo 9.7.1997 n. 241 e art. 1 del D.L.vo 28.12.98 n. 490
Parametri: artt. 3 (eguaglianza), 35 (tutela del lavoro), 76 (eccesso di delega) e 97
(buon andamento della p.a.)
R.G. n.: 41/04
La questione: Il giudice amministrativo del Lazio dubita della legittimità della
disposizione secondo la quale "I revisori contabili iscritti negli albi dei dottori commercialisti, dei ragionieri e periti commerciali e dei consulenti del lavoro, che
hanno esercitato la professione per almeno cinque anni" possono effettuare la certificazione tributaria nei riguardi dei contribuenti titolari di reddito di impresa in
regime di contabilità ordinaria.
In tal modo vengono escluse altre categorie di professionisti tra cui gli avvocati tributaristi iscritti all’albo dei revisori contabili, che svolgono abitualmente la tenuta
della contabilità, la redazione dei bilanci e delle denuncie dei redditi.
La disciplina, anzitutto, sembra creare "una sorta di riserva monopolizzatrice" in
contrasto con l’art. 35 della Costituzione, che tutela il lavoro in tutte le sue forme
ed applicazioni.
Gli ulteriori profili di sospetta incostituzionalità ravvisati dal giudice sono, oltre
all’art. 76 per eccesso di delega, gli artt. 3 e 97 della Costituzione perché l’ingiustificata esclusione degli avvocati tributaristi appare irrazionale e ingiustificata
rispetto al principio perequativo ed a quello di buona amministrazione.
B) QUESTIONI DECISE
In questa sezione si riportano le decisioni della Corte costituzionale su
questioni di costituzionalità o conflitti di attribuzione sollevati da giudici
che rientrano nel distretto della Corte d’appello di Roma.
IMMUNITÀ PARLAMENTARE
E’ infondato il conflitto di attribuzione sollevato dal G.U.P.
di Roma contro la Camera dei Deputati
Giudizio: conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sollevato dal G.U.P. del
Tribunale di Roma contro la Camera dei deputati
Sentenza: 27-29 settembre 2004 n. 298
La questione: nasce nel corso di una udienza preliminare, nella quale il
Giudice per l’udienza preliminare del Tribunale di Roma era chiamato a decidere la richiesta di rinvio a giudizio di alcuni deputati per il reato di diffamazione
ai danni dell’allora Procuratore della Repubblica di Palermo. Le affermazioni
172
lesive della reputazione erano avvenute nel corso di una conferenza stampa convocata dai parlamentari per spiegare la ragioni della mancata partecipazione ad
un convegno sul riciclaggio insieme al noto magistrato.
Il Giudice aveva sollevato il conflitto di attribuzione contro la deliberazione
della Camera dei deputati che dichiarava che i fatti oggetto di procedimento
penale, concernendo opinioni espresse quali membri del Parlamento, rientravano nella prerogativa dell’insindacabilità prevista dall’art. 68, primo comma della
Costituzione.
La Corte costituzionale, anzitutto, richiama la propria consolidata giurisprudenza (sentt. nn. 10 e 11 del 2000, 421 e 509 del 2002, 219 del 2003, 120 del 2004)
secondo cui non ogni opinione espressa dal parlamentare è insindacabile ma
solamente quelle opinioni per le quali sussiste un "nesso funzionale" con l’attività del Parlamento. Diversamente la prerogativa stabilita dall’art. 68 Cost. si
tradurrebbe in un ingiustificato privilegio personale.
Così, affinché operi la “copertura” costituzionale, occorre che le opinioni siano
manifestate in "atti tipici nell’ambito dei lavori parlamentari" (interrogazioni,
interpellanze, interventi in aula) oppure in atti atipici, anche extra moenia, che
però mantengano una sostanziale identità di contenuti con un atto tipico (nel
senso che ne divulgano all’esterno il significato).
Applicando questi principi la Corte costituzionale dichiara l’infondatezza del
conflitto sollevato dal giudice romano perché le opinioni dei parlamentari oggetto di imputazione, pur espresse in una conferenza stampa (atto atipico), corrispondevano nella sostanza alla posizione già espressa dal Gruppo parlamentare
di appartenenza in una lettera al Presidente della Commissione Antimafia.
173
RomanaGIURISPRUDENZA CIVILE
temi
CORTE DI CASSAZIONE - II SEZIONE CIVILE –
SENTENZA 22 NOVEMBRE 2004 N. 22026 –
PRES. CALFAPIETRA – REL. SETTIMJ
Responsabilità civile – responsabilità professionale – Nesso causale –
sussistenza – condizioni – fattispecie
Responsabilità civile - Responsabilità professionale – Accertamento –
Valutazione prognostica – Ragionevole possibilità di successo delle azioni
omesse – Sufficienza – Sussistenza
Responsabilità civile – Responsabilità professionale – Danno risarcibile –
perdita di chances – Sussistenza - fattispecie
Nella responsabilità professionale il nesso causale può e deve essere
riconosciuto anche quando si possa fondatamente ritenere che
l’adempimento dell'obbligazione, ove correttamente e tempestivamente
intervenuto, avrebbe influito sulla situazione, connessa al rapporto, del
creditore della prestazione in guisa che la realizzazione dell'interesse
perseguito con il contratto si sarebbe presentata in termini non
necessariamente d'assoluta certezza ma anche solo di ragionevole
probabilità, non essendo dato esprimere, in relazione ad un evento esterno
già verificatosi, oppure ormai non più suscettibile di verificarsi, "certezze" di
sorta, nemmeno di segno "morale", ma solo semplici probabilità
d'un'eventuale diversa evoluzione della situazione considerata (1)
Sussiste responsabilità professionale laddove abbia esito positivo la valutazione
prognostica circa la sussistenza d'un consistente fumus boni iuris o, se vuolsi, di
serie ed apprezzabili possibilità di successo delle azioni, tali che le azioni che
dovevano essere promosse, così sotto il profilo formale come sotto quello
sostanziale, sull’an come sul quantum, avrebbero avuto, in tutto od in parte,
ragionevoli probabilità di accoglimento (2).
La chance è anch’essa meritevole di risarcimento, poiché non è una mera
aspettativa di fatto ma un'entità patrimoniale a sé stante, giuridicamente ed
economicamente suscettibile d'autonoma valutazione, onde la sua perdita, ìd
est la perdita della possibilità di conseguire un qualsivoglia risultato utile del
quale risulti provata la sussistenza, configura una lesione all'integrità del
patrimonio la cui risarcibilità è, quindi, conseguenza immediata e diretta del
verificarsi d'un danno concreto ed attuale (3)
La sentenza così motiva
Svolgimanto del processo
on citazione 16.2.89, E.F. e G.G. - premesso d'aver commesso al rag. FP l'impugnativa degli avvisi d'accertamento per le imposte relative agli anni 1970-1971-
C
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1972-1973 ritenuti infondati ed illegittimi; che quegli s'era reso inadempiente all'incarico ricevuto per averlo svolto con negligenza ed imperizia; che ne era loro conseguito il danno per £ 78.851.555, quanto all'uno ed a £ 6.383.650, quanto all'altra,
pari alle somme ch'essi avevano dovuto, rispettivamente, versare all'erario a seguito
della reiezione dei ricorsi inadeguatamente approntati dallo stesso - convenivano il
nominato professionista innanzi al tribunale di Como onde ottenerne la condanna al
risarcimento dei danni nell'indicata misura.
Costituendosi, FP resisteva all'avversa domanda contestando gli addebiti mossigli e chiedeva, comunque, di chiamare in causa le compagnie presso le quali s'era
assicurato onde esserne manlevato in caso di propria condanna.
Delle chiamate in causa, la S.p.A. Zurigo Assicurazioni deduceva l'inoperatività della polizza, eccepiva il ritardo nella denunzia del sinistro, denunziava l'omessa comunicazione da parte dell'assicurato della stipulazione d’altra polizza con
diversa compagnia; la S.p.A. Ausonia AIRD Assicurazioni eccepiva l'anterìorità dei
fatti rispetto alla decorrenza della garanzia contestava la responsabilità dell'assicurato in ordine ai fatti stessi, chiedeva in riconvenzionale dichiararsi, la nullità della
polizza.
Con sentenza. 5.5.98, l'adìto tribunale rigettava la domanda principale e quelle di manleva, condannando alle spese gli attori principali in favore del convenuto e
quello incidentale in favore delle chiamate in causa.
Avverso tale decisione EF e GG proponevano gravame.
Resisteva FP proponendo, a sua volta, gravame incidentale avverso la condanna alle spese.
Resistevano, altresì, le compagnie S.p.A. Zurigo Assicurazioni e S.p.A.
Milano Assicurazioni, succeduta quest' ultima per incorporazione alla S.p.A. La
Previdente a sua volta succeduta per incorporazione alla S.p.A. Ausonia, riproponendo le già svolte difese e la seconda proponendo anche appello incidentale per
l'annullamento del contratto.
Con sentenza 22.9.00, la corte d'appello di Milano - ritenuto che, pur essendo
risultata la responsabilità professionale del P per negligente svolgimento dell'incarico quanto meno sotto due rilevanti profili, ravvisati nel difetto dei motivi per i
ricorsi alla commissione di secondo grado e nella tardiva proposizione per i ricorsi
alla commissione centrale, fosse, tuttavia, rimasto indimostrato che, ove il professionista avesse svolto diligentemente l'attività richiestagli, gli effetti di essa sarebbero stati con ragionevole probabilità, vantaggiosi per i clienti; che l'accoglimento
dei ricorsi proposti per gli anni successivi direttamente dagli appellanti non potesse
far ritenere il sicuro accoglimento dei ricorsi in discussione; che non risultassero,
pertanto, provati né il nesso causale tra inadempimento e danno né la sussistenza
stessa del danno e della sua riferibilità all'inadempiente; che, pertanto, l'impugnata
sentenza fosse da confermare su tale diversa motivazione e ciò comportasse l'assorbimento di tutte le altre questioni; che, tenuto conto dell'esito dei giudizi, anche la
ripartizione delle spese di primo grado dovesse essere confermata, mentre quelle di
secondo grado dovessero essere integralmente compensate tra tutte le parti - rigettava gli appelli principale ed incidentale compensando le spese del grado.
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RomanaGIURISPRUDENZA CIVILE
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Il solo EF impugnava tale decisione con ricorso per cassazione, affidato a tre
motivi di censura, cui faceva seguire memorie.
Resistevano, con distinti controricorsi, FP e la S.p.A. Milano Assicurazioni a
diversi titoli opponendosi all'avversa impugnazione.
La S.p.A. Zurigo Assicurazioni, sebbene ritualmente intimata, non svolgeva
attività difensiva.
Motivi della decisione
Devesi, preliminarmente, disattendere l'eccezione di difetto di legittimazione
passiva adombrata, in questa sede, dalla spa Milano Assicurazioni e ciò sulla considerazione che, se l'azione di risarcimento del danno e l'azione di garanzia impropria
nel confronti dell' assicuratore della responsabilità civile possono essere proposte in
giudizi separati, non essendo configurabile rispetto ad esse un'ipotesi di litisconsorzio necessario di natura sostanziale ex art. 102 CPC, tuttavia, una volta fatta valere
la garanzia impropria dal responsabile mediante chiamata in causa dell'assicuratore
nel giudizio risarcitorio, s’instaura una situazione di litisconsorzio processuale per
dipendenza dell'una causa dall'altra che, nei giudizi d'impugnazione, determina l’inscindibilità delle cause a norma dell'art. 331 CPC (Cass. 26.4.99 n. 4156).
Passando all' esame del ricorso, si duole il F che la corte territoriale, incorrendo in vizi di motivazione e di violazione degli artt. 112 CPC e 2043 CC, nonostante avesse riconosciuto l'inadempimento del professionista alle obbligazioni
derivantigli dall' incarico professionale commessogli, non abbia, poi, riconosciuto il
consequenziale danno subito dai clienti, omettendo di pronunziarsi e/o dì fornire
adeguata motivazione sulla domanda d'accertamento in ordine alla maggiore o
minore possibilità d'esito favorevole dei ricorsi e, quindi, sull'entità del pregiudizio,
determinabile anche in via equitativa attesa la domanda subordinata in tal senso,
nonché in ordine alla perdita di chances comunque verificatasi.
La censura è fondata.
Nell' impugnata sentenza si è, infatti, radicalmente esclusa la sussistenza di
qualsiasi obbligazione risarcitoria a carico del professionista per il danno cagionato
ai clienti, pur essendosi accertata la responsabilità dello stesso per aver quegli proposto le impugnazioni, una prima volta, senza sostanziale formulazione di motivi
apprezzabili ed, una seconda volta, oltre il termine consentito, sulla sola considerazione che gli attori-appellanti non avessero fornito la prova della "ragionevole probabilità" d'esito positivo dei ricorsi avverso gli accertamenti fiscali in discussione,
finendo con l'asserire, poi, che gli elementi forniti non risultavano sufficienti a
dimostrare come, ove i ricorsi stessi fossero stati correttamente proposti, essi "sarebbero stati senz’altro accolti"; in definitiva, vi si è addebitato agli attori-appellanti di
non aver allegato elementi idonei onde consentire al giudice d'attingere assoluta certezza dell'esito positivo dei ricorsi e del sicuro vantaggio economico per tal via conseguibile.
Impostazione siffatta sembra non tener conto dell' evoluzione giurisprudenziale in tema d'individuazione del nesso di causalità tra inadempimento della prestazione dedotta in contratto e danno - pur con qualche non condivisibile ritorno alla
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"certezza morale" (Cass. 28.4.94 n. 4044), o qualche esitazione tra "ragionevole certezza" e "ragionevole previsione" (Cass. 27.1.99 n. 722) e tra "certezza morale" e
"ragionevole certezza" ed ancora "ragionevole probabilità" (Cass. 5.6.96 n. 5264)
dalla quale in ogni caso, si evidenzia l'esigenza di superamento della concezione tradizionale - dal criterio della certezza degli effetti della condotta omessa a quello
della probabilità di essi e dell'idoneità della condotta stessa a produrli ove posta in
essere; criterio per il quale il rapporto causale può e deve essere riconosciuto anche
quando si possa fondatamente ritenere che l’adempimento dell'obbligazione, ove
correttamente e tempestivamente intervenuto, avrebbe influito sulla situazione, connessa al rapporto, del creditore della prestazione in guisa che la realizzazione dell'interesse perseguito con il contratto si sarebbe presentata in termini non necessariamente d'assoluta certezza ma anche solo di ragionevole probabilità, non essendo
dato esprimere, in relazione ad un evento esterno già verificatosi, oppure ormai non
più suscettibile di verificarsi, "certezze" di sorta, nemmeno di segno "morale", ma
solo semplici probabilità d'un'eventuale diversa evoluzione della situazione considerata (criterio desumibile, con gli adattamenti logici resi necessari, dalle diverse
situazioni di fatto valutate nelle singole decisioni, da Cass. 13.12.01 n.15759,
21.1.00 n.632,6.2.98 n.1286, 18.4.97 n.3362, 5.6.96 n.5264, 11.11.93 n.11287).
Pertanto, le difese ed i mezzi di prova che i F-G avevano prospettati come
deducibili nelle impugnazioni degli accertamenti fiscali de quibus dovevano essere
esaminati dal giudice di merito - e dovranno esserlo dal giudice del rinvio - non in
vista dell'acquisizione della certezza assoluta d'un esito positivo delle liti, con pretesa di deduzione ed allegazione di tutti gli elementi necessari alla pronunzia sulle
questioni e valutazione sostitutiva di quella del giudice al cui esame le stesse avrebbero dovuto essere sottoposte, bensì formulando una valutazione prognostica circa
la sussistenza d'un consistente fumus boni iuris o, se vuolsi, di serie ed apprezzabili possibilità di successo delle azioni, tali che le contestazioni degli accertamenti,
così sotto il profilo formale come sotto quello sostanziale, sull’an come sul quantum, avrebbero avuto, in tutto od in parte, ragionevoli probabilità di accoglimento.
Indagine, questa, sostanzialmente omessa dalla corte territoriale dacché, sotto
il profilo del denunziato vizio di motivazione, risulta, all'esame dell'impugnata sentenza, come le tesi ampiamente sviluppate dagli appellanti in ordine all'invalidità
degli accertamenti fiscali siano state, in effetti, genericamente disattese con superficiali considerazioni senz'alcuna disamina delle specifiche deduzioni formulate al
riguardo con l'atto d'appello e della documentazione nello stesso indicata; in particolare, ma non soltanto, vi si è aprioristicamente esclusa la rilevanza dell' accoglimento delle impugnazioni proposte dagli appellanti per gli accertamenti relativi agli
anni successivi a quelli in discussione senza accertare se i medesimi motivi potessero esser fatti utilmente valere avverso gli accertamenti della cui impugnazione era
stato incaricato il P.
Diversa dalla questione del danno da inadeguata ed intempestiva impugnazione degli accertamenti è la questione del danno da perdita di chances, che nella
prima è implicitamente contenuta come il meno nel più ma dalla quale nettamente
si distingue.
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temi
Com'è stato ormai da tempo evidenziato, tanto da autorevole dottrina quanto
dalla giurisprudenza di questa Corte (anche al di fuori delle vicende dei rapporti di
lavoro, alle quali soltanto la controricorrente S.p.A. Milano Assicurazioni ritiene
pertinente la questione), la chance, o concreta ed effettiva occasione favorevole di
conseguire un determinato bene, non è una mera aspettativa di fatto ma un'entità
patrimoniale a sé stante, giuridicamente ed economicamente suscettibile d'autonoma valutazione, onde la sua perdita, ìd est la perdita della possibilità di conseguire
un qualsivoglia risultato utile del quale risulti provata la sussistenza, configura una
lesione all'integrità del patrimonio la cui risarcibilità è, quindi, conseguenza immediata e diretta del verificarsi d'un danno concreto ed attuale (e pluribus Cass.
11.12.03 n. 18945, 21.7.03 n. 11322, 13.12.01 n. 15759, 10.11.98 n. 11340, 15.3.96
n. 2167, 19.12.85 n. 6506).
In tema di chances che si determinano con la partecipazione ad una controversia in sede di giustizia ordinaria, od amministrativa, o tributaria, basti considerare, sulla base di siffatta premessa, come l'agire od il contraddire - anche indipendentemente dalle maggiori o minori possibilità d'esito favorevole della lite e, tuttavia, com'è ovvio, con effetti tanto più consistenti quanto più argomentate e valide
siano le difese, diversamente operando, per contro, l'inconsistenza o l'inammissibilità palesi ab initio della domanda od eccezione (come nella specie) - offrano, in
ogni caso, frequentemente occasione, tra l'altro, di transigere la vertenza o di procrastinarne la soluzione o di giovarsi di situazioni di fatto o di diritto sopravvenute,
risultati che indiscutibilmente rappresentano, già di per se stessi, apprezzabili vantaggi sotto il profilo economico. Ond' è che, in ambito contrattuale, l'inadempimento dell'una delle parti cui consegua la perdita, per l'altra, della chance d'intraprendere o gestire, nei sensi sopra indicati, una lite in sede giudiziaria, dal lato attivo come
da quello passivo, determina un danno per il quale non può, di regola, porsi alcun
problema d'accertamento sotto il profilo dell'an, questo non essendo revocabile in
dubbio nell'ipotesi d'accertato inadempimento contrattuale, ma solo, eventualmente,
sotto quello del quantum (Cass. 13.12.01 n. 15759, 15.10.99 n. 11629); tale danno
va, infatti, liquidato in ragione d'un criterio prognostico basato sulle concrete ragionevoli possibilità dei richiamati risultati utili, assumendo come parametro di valutazione il vantaggio economico complessivamente realizzabile dal danneggiato diminuito d'un coefficiente di riduzione proporzionato al grado dì possibilità di conseguirlo e deducibile, questo, caso per caso, dagli elementi costitutivi della situazione
giuridica dedotta od, ove tale criterio risulti di difficile applicazione, con ricorso al
criterio equitativo ex art. 1226 CC (e pluribus Cass. 27.5.02 n. 7745, 13.12.01 n.
15759, 9.12.97 n. 11522, 15.3.96 n. 2167, 29.4.93 n. 5026, 7.3.91 n. 2368).
In tali termini doveva, dunque, essere affrontato dal giudice del merito e
dovrà esserlo da quello del rinvio – il tema del danno da perdita d'un'effettiva possibilità d'opposizione agli accertamenti fiscali - possibilità nel caso in esame sostanzialmente frustrata dalla proposizione di ricorsi senza motivi o fuori termini del tutto
pretermesso nell' impugnata sentenza.
Il ricorso va, dunque, accolto per quanto di ragione e la causa deve essere, di
conseguenza, rinviata per nuova valutazione ad altro giudice del merito di secondo
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grado - cui, ex art. 385 CPC, è demandato altresì di provvedere sulle spese del giudizio di legittimità - che si indica in diversa sezione della medesima corte d'appello
di Milano.
(omissis)
(1-2) La responsabilità professionale:
in particolare dell’avvocato
Il tema della responsabilità è di ampiezza così vasta da non consentire una
trattazione generica e generale; una intera biblioteca non basta a contenere i trattati
e le monografie che si sono occupati della problematica relativa alla responsabilità.
E’ noto a tutti che le norme del codice civile che disciplinano il comportamento dei professionisti nello svolgimento della loro attività sono contenute negli
articoli 1176 e 2229 e segg. c.c.La prima di tali norme, dopo l’affermazione del principio generale del dovere di diligenza, al secondo comma precisa che tale dovere va valutato, con riferimento alle attività professionali, avendo riguardo alla natura di ciascuna di esse,
ponendo così immediatamente la necessità di fare attenzione, nella ricerca di eventuali responsabilità, al tipo di attività professionale da prendere in considerazione. E
quindi non è consentito usare lo stesso metro nel valutare il comportamento del
medico, dell’ingegnere, del commercialista, dell’avvocato e così via.
I connotati comuni sono quelli della diligenza e della perizia ma tali parametri si articoleranno in maniera diversa per ciascuna delle attività professionali prese
in considerazione.
Può dirsi che al fondo deve sussistere anzitutto e prima di tutto un livello
medio-alto di preparazione e di conoscenza degli strumenti della professione esercitata che consenta di mettere a disposizione della collettività un servizio immune
da carenze elementari e di fondo. Ed a questo riguardo non sarà mai inutilmente
ribadita l’opportunità di una seria formazione e di un costante aggiornamento.
Le istituzioni delle singole professioni stanno dimostrando in questi ultimi
tempi particolare attenzione e sensibilità a questi temi e si vanno organizzando giorno dopo giorno tanto nella tematica della formazione che in quella dell’aggiornamento.
Tutto ciò è assai utile perchè consente di sperare che verosimilmente non sarà
lontano il giorno di una maggiore soddisfazione dell’utente dei servizi dei professionisti con la conseguente diminuzione dei casi di responsabilità.
La valutazione di questa varierà naturalmente a mano a mano che le tecniche
professionali andranno trasformandosi e si richiederà a ciascun professionista la
conoscenza di esse perchè ciò rientra, come si accennava prima, nel concetto più
vasto di professionalità.
La tradizione vuole che l’obbligazione del professionista sia, come suol dirsi,
di mezzi e non di risultato ma, a prescindere dal corretto utilizzo dei concetti ora
espressi, va rilevato che non pochi sono gli arresti giurisprudenziali più recenti che
tendono a modificare tale impostazione.
Anche a tale riguardo le problematiche presentano connotazioni diverse a
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RomanaGIURISPRUDENZA CIVILE
temi
seconda dell’attività professionale presa in considerazione ma quel che è certo è che
la tendenza non risparmia nessuno.
Nel prendere in considerazione più da vicino la professione forense è necessario sottolineare che mentre fino ad alcuni anni or sono gli avvocati dormivano per
così dire sonni tranquilli perchè, soprattutto con riferimento all’attività giudiziale, era
assai difficile la configurazione dell’ipotesi di loro responsabilità, richiedendo la giurisprudenza la prova di uno stretto nesso di causalità tra il comportamento del professionista e le conseguenze negative subite dal cliente, oggi l’inversione di tendenza sopra cennata consente l’affermazione di responsabilità molto più facilmente.
Premesso che la responsabilità dell’avvocato può derivare da inadempimento
delle obbligazioni nascenti dal rapporto contrattuale di mandato o da comportamento illecito od ancora da entrambi, già negli anni ottanta (con qualche rara anticipazione nel decennio precedente) la Suprema Corte aveva modo di affermare che
“... in situazioni involgenti l’impiego di specifiche e squisite nozioni tecniche il professionista deve porre in essere i mezzi concettuali ed operativi che, in vista dell’opera da realizzare, appaiono idonei ad assicurare quel risultato che il committente e
proponente si ripromette dall’esatto e corretto adempimento dell’incarico, con la
conseguente valutazione del suo comportamento alla stregua della diligentia quam
in concreto” (la sentenza è del giugno 1983, la n. 4245). Se non può parlarsi ancora di obbligazione di risultato, certo è che l’indirizzo è volto ad accentuare la necessità di non potersi prescindere da un alto grado di professionalità nella resa del servizio alla clientela.
E tanto per dare conferma dell’accenno ai precedenti anni settanta giova ricordare che la stessa Corte regolatrice aveva ammonito che “...il conferimento dell’incarico da parte del cliente comporta anzitutto e preliminarmente il dovere, per l’avvocato, di studiare il caso litigioso prospettatogli, cioè di identificare il fatto nei suoi
elementi essenziali, di qualificarlo giuridicamente rilevando le varie questioni prospettabili e di scegliere la linea difensiva più idonea.
Studio preliminare questo che deve essere fatto con la diligenza dell’avvocato medio, cioè con l’impegno della preparazione professionale media e dell’attenzione media nell’esercizio dell’attività professionale”. (Cass. 29.11.1973 n. 3298).
Da tale attenzione e preparazione media si è subito passati nel decennio successivo alla “diligentia quam in concreto” della sentenza citata prima.
Va detto che se non è facile individuare in linea generale un grado minimo di
diligenza è però necessario precisare che la condotta del professionista deve essere
valutata, come abbiamo già visto, in rapporto alla natura ed alla specie del singolo
incarico ed alle circostanze concrete in cui la prestazione si è svolta. Così se la prestazione professionale ha richiesto la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, in conseguenza dell’obiettivo stato di incertezza esistente in dottrina ed in giurisprudenza, il giudizio sull’opera fornita deve essere meno rigoroso.
Viene qui acconcio il richiamo alla norma dell’art. 2236 c.c. che circoscrive
alla sola ipotesi della ricorrenza del dolo o della colpa grave la responsabilità del
professionista quando la prestazione professionale implica la soluzione di problemi
tecnici di speciale difficoltà. Siamo qui nella vera e propria eccezionalità perchè la
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regola generale vuole che si risponda anche nel caso di colpa lieve.
E quanto abbiamo detto prima in ordine al dovere di formazione e di aggiornamento, quindi di crescente e cresciuta professionalità, modifica in un certo senso
il quadro, nel senso che le eccezioni si restringono sempre di più. Potremmo forse
dire che la maggiore e più aggiornata preparazione rende più qualificata la professionalità media e quindi restringe il campo della eccezionalità mentre, per contro, il
fenomeno della globalizzazione e della possibile prospettazione di situazioni del
tutto nuove può far scattare l’esimento del citato art. 2236 c.c.Non mette conto di soffermarsi sui singoli casi per verificare quando è stata
affermata o negata la ricorrenza della responsabilità solo per colpa grave (il dolo è
un discorso a parte ed è agevolmente individuabile perchè collegato a responsabilità di natura penale); quel che va ricordato è che tale responsabilità del professionista in genere e dell’avvocato in particolare si individua secondo criteri di colpa
lieve, mentre va relegata nella eccezionalità di difficile configurazione l’ipotesi
della limitazione alla sola colpa grave.
Tornando al discorso relativo alla natura dell’obbligazione del professionista
forense (se di mezzi o di risultato) non può essere sottaciuta l’esistenza di un arresto giurisprudenziale neppure tanto recente (trattasi della sentenza n. 1286 del 1998)
nel quale la Suprema Corte, ripercorrendo sistematicamente tutta la problematica
sulla responsabilità del professionista forense, ha ricordato taluni precedenti che
hanno affermato l’obbligo dell’avvocato di perseguire il buon esito della lite ed ha
concluso nel senso che sussiste la responsabilità dell’avvocato se applicando il principio penalistico di equivalenza delle cause (artt. 40 e 41 c.p.) il risultato non è stato
raggiunto per sua negligenza. E più di recente, nel novembre 2002 (sent. n.16023),
la Corte ha affermato che nell’attività stragiudiziale la prestazione dell’avvocato
non costituisce una obbligazione di mezzi in quanto egli si obbliga ad offrire tutti
gli elementi di valutazione necessari ed i suggerimenti opportuni allo scopo di permettere al cliente di adottare una consapevole decisione.
Nel 1996 la stessa Corte (sent.n.10068) aveva avuto modo di affermare che,
a meno di dolo e di colpa grave, andava esclusa la responsabilità dell’avvocato nel
caso di interpretazione di legge o di risoluzione di questioni opinabili.
Accanto alla responsabilità di natura civile va poi considerata, per il professionista forense, quella di natura deontologica il cui accertamento, come è noto, è
rimesso ai Consigli dell’Ordine e in sede di appello al CNF.
Essa nasce dalla violazione dei doveri di comportamento propri dell’avvocato che da qualche anno, come è noto, hanno trovato una loro collaborazione sistematica nel codice deontologico formulato dal CNF che ha trovato e costantemente
trova autorevole e pieno riconoscimento dalle SS. UU. della Suprema Corte.
L’accertamento di responsabilità in sede disciplinare può trovare seguito in
sede giurisdizionale ai fini della responsabilità civile con la conseguente condanna
al risarcimento del danno, che poi è il risultato concreto che interessa al terzo che
ha subito l’eventuale lesione.
Non è neppure immaginabile che ogni violazione del codice deontologico
comporti responsabilità in sede civile, anzi nella gran parte dei casi ciò non si veri-
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RomanaGIURISPRUDENZA CIVILE
temi
fica, ma quando il mancato rispetto delle regole di comportamento si riferisce ai rapporti col cliente o soprattutto quanto riguarda inosservanza di termini processuali o
di adempimento può far nascere la responsabilità in sede civile.
A questo punto scatta la problematica sul danno e sul nesso di causalità che
abbiamo accennato in precedenza, sui quali la giurisprudenza più recente si mostra
orientata ad allargare per così dire le maglie, nel senso che non è più richiesto un
collegamento immediato tra il comportamento causativo ed il danno. Già nel 1993
la Suprema Corte ebbe a riconoscere la sussistenza del nesso causale in base alla
considerazione che la individuazione di un nesso di causalità tra l’evento e l’ultimo
fattore di una serie causale non esclude la rilevanza di quelli anteriori che abbiano
avuto come effetto di determinare la situazione su cui il successivo è venuto ad innestarsi e che il limite alla configurazione del rapporto di causalità tra antecedente ed
evento è rappresentato solo da idoneità della causa successiva ad essere valutata, per
la sua eccezionalità rispetto al decorso causale innescato dal fattore remoto, come la
causa sufficiente ed unica del danno (Cass. n.5325 dell’8.5.93). In altri termini l’ultimo anello della catena può essere e può non essere da solo sufficiente a provocare la fattispecie provocatrice del danno.
Il tema della responsabilità del professionista in generale e dell’avvocato in
particolare nell’esercizio della propria attività professionale è andato mutando nel
tempo nel senso di un ampliamento della responsabilità stessa in un’ottica di maggiore tutela della collettività e del singolo che si affida al professionista.
Ciò è giusto e non può non essere condiviso, con l’avvertimento però che si
eviti di cadere in una situazione opposta a quella del passato attraverso eccessi che
sono ugualmente deprecabili. Intendo riferirmi ai recenti arresti giurisprudenziali sia
in tema di individuazione dei soggetti a cui favore riconoscere un risarcimento sia
in tema di quantificazione del danno che porta a veri e propri arricchimenti.
L’ultimo in ordine di tempo è rappresentato dalla sentenza 22.11.04 n.
22026 che ai fini del riconoscimento del nesso di causalità tra la condotta del professionista e il danno afferma essere sufficiente una valutazione di possibile esito
favorevole della controversia male impostata o non proposta (per colpevole scadenza di termini).
La pericolosità del principio è di evidenza solare, comportando il rischio di
facili reazioni del cliente insoddisfatto o comunque indispettito.
Vi è da augurarsi che la valutazione prognostica avvenga almeno con riferimento a una giurisprudenza costante e consolidata, di guisa che vi sia sicura verosimiglianza sul possibile esito.
Tutto ciò consigli attenzione e scrupolo massimo nell’espletamento dell’attività professionale.
Le compagnie di assicurazioni tendono oggi a restringere sia la stipula di
polizze per la responsabilità dei professionisti sia soprattutto a tenere bassi i massimali coperti da garanzia proprio per le conseguenze devastanti provocate da sentenza in milioni di euro.
L’equilibrio e la misura dovrebbero guidare sempre tutti.
Avvocato Carlo MARTUCCELLI
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(3) Responsabilità professionale e risarcimento
del danno costituito da perdita di chance
Con la recentissima sentenza n. 22026/2004 in rassegna, la II Sezione della
Corte di Cassazione ha ritenuto risarcibile il danno subito dal cliente per l’erronea
condotta professionale in tema di contenzioso tributario.
In particolare la Corte ha affermato che nell’ipotesi di riconosciuta responsabilità professionale di un ragioniere o commercialista per negligente svolgimento
dell’incarico, quanto meno sotto due rilevanti profili, ravvisati nel difetto dei motivi per i ricorsi alla Commissione di II grado e nella tardiva proposizione dei ricorsi alla Commissione Centrale sussiste un danno da perdita di chances vale a dire la
perdita della possibilità di conseguire un qualsivoglia risultato utile del quale risulti provata la sussistenza, che non è una mera aspettativa di fatto, ma un’entità patrimoniale a sé stante giuridicamente ed economicamente suscettibile di autonoma
valutazione.
E la Corte ha in particolare evidenziato che le chances che si determinano con
la partecipazione ad una controversia in sede di giustizia ordinaria o amministrativa
o tributaria sono costituite, tra l’altro, dalla possibilità di transigere la vertenza o di
procrastinarne l’esecuzione o di giovarsi di situazione di fatto o di diritto sopravvenute, risultati che indiscutibilmente rappresentano, già di per sé stessi, apprezzabili
vantaggi sotto il profilo economico.
E questo innovativo orientamento della Corte suscita non poche preoccupazioni anche e soprattutto nell’ambito della professione forense.
Avv. Claudio BERLIRI
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RomanaGIURISPRUDENZA CIVILE
temi
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE – SEZIONI UNITE CIVILI –
ORDINANZA 13 GENNAIO 2005
Procedimento civile – Notificazione – Art.140 cpc – Formalità –
Perfezionamento – Avviso inviato dall’Ufficiale giudiziario – Ricezione –
Termine – Computo – Dalla consegna all’ufficiale giudiziario – Sussistenza
Procedimento civile – Ricorso per cassazione – Termine di costituzione
del ricorrente – Decorso –Dalla data di ricezione dell’ultima notifica –
Sussistenza
Procedimento civile – Notificazione – Art.140 cpc –
Formalità – Perfezionamento – Avviso inviato dall’Ufficiale giudiziario –
prova della ricezione – Necessità - Conseguenze
Qualora il ricorso per cassazione sia stato notificato ai sensi
dell'art. 140 cod. proc. civ., ai fine del rispetto del termine
d'impugnazione è sufficiente che il ricorso stesso sia stato consegnato
all'ufficiale giudiziario entro il predetto termine, fermo restando
che il consolidamento di tale effetto anticipato per il notificante dipende
dal perfezionamento del procedimento notificatorio nei confronti
del destinatario, procedimento che, nei casi disciplinati dall'art.140 cod.
proc. civ., prevede il compimento degli adempimenti da tale norma
stabiliti (deposito della copia dell' atto nella casa del comune dove
la notificazione deve eseguirsi, affissione dell' avviso del deposito
in busta chiusa e sigillata alla porta dell'abitazione o dell'ufficio
o dell'azienda del destinatario, notizia del deposito al destinatario
mediante raccomandata con avviso di ricevimento) (1).
Nei casi di cui sopra, il termine per il deposito del ricorso,
stabilito a pena d'improcedibilità dall'art. 369, primo comma,
cod. proc. civ., decorre dal perfezionamento della notifica
per destinatario (2).
Nei casi suddetti la notificazione nei confronti del destinatario
dell' atto si ha per eseguita con il compimento dell'ultimo
degli adempimenti prescritti (spedizione della raccomandata con avviso
di ricevimento). Tuttavia, poiché tale adempimento persegue lo scopo
di consentire la verifica che l'atto sia pervenuto nella sfera
di conoscibilità del destinatario, l'avviso di ricevimento
deve essere allegato all'atto notificato e la sua mancanza provoca
la nullità della notificazione, che resta sanata dalla costituzione
dell'intimato o dalla rinnovazione della notifica ai sensi dell'art.291cod.
proc. civile (3).
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L’ordinanza così motiva:
La Corte suprema di cassazione - sezioni unite civili - riunita in
camera di consiglio;
esaminati gli atti; :
considerato:
novembre 1994 il I Ufficio delle imposte dirette di Roma
notificò al signor Gianni Cardia, quale erede del padre Benvenuto, un avviso di mora concernente redditi del de cuius prodotti neg1i anni 1978 - 1979 ed
assoggettati ad IRPEF e ad ILOR.
Il Cardia propose ricorso alla Commissione tributaria di primo grado di
Roma, adducendo di non essere tenuto a rispondere dell' obbligazione perché aveva
accettato l'eredità con beneficio d'inventario.
Il ricorso fu accolto dalla Commissione tributaria adita e l'ufficio finanziario propose appello, affermando:
a) che, ai sensi dell'art. 16, 3°comma, del D. P. R. n. 636 del 1973, l'avviso
di mora non può essere impugnato qualora sia stato preceduto dalla notifica
della cartella esattoriale;
b) che, ai sensi dell'art. 53 del D. P. R.. n. 602 de11973, contro l'avviso di
mora è ammesso soltanto ricorso all'Intendente di finanza, ora Direzione
regionale delle entrate;
c) che, comunque, l'accettazione dell' eredità col beneficio d'inventario non
annulla la figura dell' erede ma produce soltanto l'effetto di distinguere il
patrimonio del defunto da quello dell'erede stesso, ai sensi dell'art. 490 del
codice civile.
La Commissione tributaria regionale di Roma, con sentenza depositata il 29 gennaio 1998, respinse 1'impugnazione considerando:
l) che l'onere di provare l'avvenuta notifica della cartella incombeva all' ufficio, sicché in difetto di tale prova il ricorso alla Commissione tributaria era
legittimo, non ricorrendo gli estremi per l'applicazione del D. P. R. n. 602 del
1973;
2) che, quanto al disposto dell'art. 490 cod. civ., l'effetto del beneficio d'inventario consiste proprio nel mantenere distinto il patrimonio del defunto da
quello dell'erede, per cui quest'ultimo non è tenuto al pagamento dei debiti
ereditari e dei legati oltre il valore dei beni pervenuti;
3) che, in ordine all'eventuale decadenza dal beneficio (peraltro non eccepita dall' ufficio), in applicazione del principio dettato dall' art. 2697 cod. civ.
chi intende far valere un credito contro un chiamato all’ eredità del debitore,
affermandolo erede di quello ope legis ai sensi dell'art. 485 cod. civ., ha l'onere di provare il possesso di quell' eredità da parte del detto chiamato, mentre nella specie l’ ufficio nulla aveva dedotto, onde la pronunzia impugnata
doveva trovare conferma.
Avverso la suddetta sentenza il Ministero delle finanze (oggi Ministero dell’economia e delle finanze) ha proposto ricorso per cassazione, affidato a due moti-
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RomanaGIURISPRUDENZA CIVILE
temi
vi, nei confronti del Cardia in proprio e per i coeredi di Benvenuto Cardia.
L'intimato non ha svolto attività difensiva in questa sede.
La quinta sezione civile di questa Corte, con ordinanza depositata il 24 giugno 2003, ha rilevato che la notificazione del ricorso era stata eseguita ai sensi dell'art. 140 c. p. c., che non risultava depositato l'avviso di ricevimento della raccomandata inviata al contribuente il 15 marzo 1999 e che l'intimato non aveva svolto difese. Ha osservato, quindi, che si doveva stabilire se, in difetto dell' avviso di
ricevimento, la notifica fosse da considerare inesistente, con conseguente inammissibilità dell' impugnazione (come affermato in alcune sentenza di questa Corte),
oppure se, in adesione ad un diverso orientamento, dovesse ritenersi che, ai fini del
perfezionamento della notifica avvenuta ai sensi dell' art. 140 c. p. c., fosse sufficiente l'espletamento delle tre formalità prescritte dalla citata norma, essendo irrilevante il momento dell'effettiva ricezione del plico raccomandato contenente l'avviso dell' avvenuto deposito e non necessaria l' allegazione dell'avviso di ricevimento all'originale dell'atto.
L'ordinanza ha proseguito rimarcando che detta problematica - sia pure sotto
il diverso profilo della compatibilità, con gli artt. 3 e 24 Cost., degli artt. 149 c. p.
c. e 4, comma 3, della legge 20 . novembre 1982 n. 890 - ha formato oggetto della
pronunzia della Corte costituzionale n. 477 del 26 novembre 2002, che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del combinato disposto dell'art. 4, comma 3, della
legge n. 890 del 1982, nella parte in cui era stabilito che la notificazione si perfezionasse, per il notificante, alla data di ricezione dell' atto da parte del destinatario
anziché a quella (antecedente) di consegna dell' atto medesimo all'ufficiale giudiziario. Ed ha aggiunto che, alla luce dei principi costituzionali richiamati in tale
pronunzia, dei quali è stata sottolineata la portata generale, deve essere risolto il
contrasto interpretativo manifestatosi nella giurisprudenza di questa Corte in ordine agli effetti da collegare alla mancata produzione dell' avviso di ricevimento della
raccomandata con la quale l'ufficiale giudiziario dà notizia del compimento delle
formalità (ex art. 140 c. p. c.) al destinatario dell'atto, ravvisando quindi una questione di massima di particolare importanza, la cui definizione è necessaria per
decidere la controversia de qua..
Pertanto il ricorso è stato rimesso al Primo Presidente per eventuale assegnazione alle Sezioni unite.
A tanto si è provveduto e la causa è stata rimessa all'odierna udienza di discussione, all' esito della quale la Corte
osserva
1. Come emerge dalla relazione in calce al ricorso per cassazione proposto dal
Ministero delle finanze, tale ricorso (diretto ad impugnare la decisione della
Commissione tributaria regionale di Roma depositata il 29 gennaio 1998) fu
notificato al destinatario ai sensi dell'art.140 cod. proc. civile. Il deposito
della copia dell'atto nella casa comunale risulta effettuato il 13 febbraio
1999, ma si tratta di un evidente errore materiale in quanto l'atto reca la data
dell' 1l marzo 1999, onde è impossibile che il detto adempimento abbia avuto
luogo quasi un mese prima della formazione del ricorso, sicché nella relata,
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dove si legge "13/2/99", deve leggersi in realtà "13/3/99", come si desume
anche dalle annotazioni esistenti sulla prima pagina del ricorso stesso.
Sempre dalla relazione di notifica poi, si trae l'eseguita affissione dell' avviso del deposito e la spedizione della raccomandata con avviso di ricevimento .prevista dall'ultima parte del citato art. 140 (spedizione avvenuta il 15
marzo 1999). '
Detto avviso, però, non si trova allegato al ricorso, né risu1ta comunque prodotto, mentre l'intimato (come sopra si è detto) non - ha svolto in questa sede
attività difensiva.
2.. Muovendo da tali rilievi (e richiamando la sentenza della Corte costituzionale
n. 477 del 2002) l'ordinanza della quinta sezione civile di questa Corte ha
ravvisato un contrasto di giurisprudenza, e comunque una questione di massima di particolare importanza, in ordine agli effetti collegabili alla mancata produzione in giudizio dell' avviso di ricevimento della raccomandata con
la quale l'ufficiale giudiziario dà notizia al destinatario della notificazione,
eseguita con le modalità di cui al citato art. 140.
Più esattamente, la questione rimessa all’esame delle sezioni unite può
essere riassunta nel seguenti termini: se, in caso di notifica del ricorso per
cassazione ai sensi dell'art. 140 cod. proc. civ., eseguita con il compimento
delle formalità prescritte (deposito della copia dell' atto nella casa comunale,
affissione dell' avviso di deposito - ora in busta chiusa e sigillata: art. 174 d.
lgs. 30 giugno 2003, n.. 196 - alla porta dell'abitazione o dell'ufficio o dell'
azienda del destinatario, spedizione della raccomandata con avviso di ricevimento), la mancata allegazione di tale avviso determini l'inesistenza o la nullità della notificazione; e se sulla risposta a tale quesito influisca la sentenza
della Corte costituzionale n. 477 del 2002, la quale ha anticipato per il notificante il perfezionamento della notificazione, eseguita col mezzo della
posta, alla data di consegna dell' atto all'ufficiale giudiziario, facendo salvo
per il destinatario il perfezionamento della notifica alla data della ricezione
dell'atto stesso.
3. li contrasto di giurisprudenza segnalato dall’ordinanza di rimessione in effetti
non è ravvisabile, perché i due orientamenti ipotizzati in conflitto riguardano due modalità diverse di notificazione: il primo orientamento (cui si riferiscono le sentenze, richiamate nella suddetta ordinanza, n. 8403 del 1999, n.
965 del 1999, n. 6599 del 1995, n..2419 del 1995, n. 338 del 1995) concerne
le notificazioni degli atti eseguite mediante il servizio postale (art. 149 cod.
proc. civ. e legge 20 novembre 1982, n. 890); il secondo (cui si riferiscono le
sentenze n. 4307 del 1999, 11. 6060 tlelfl997, n. 6187 del 1994, n. 5825/SU
del 1981 e Corte cost. 28 novembre 1986, n. 250) attiene alle notificazioni
effettuate ai sensi dell' art. 140 cod. proc. civile. Il primo tipo di procedimento notificatorio vede come centrale, nella sua struttura complessiva, l'attività affidata all'agente postale, mentre nel secondo la notificazione è eseguita direttamente dall'ufficiale giudiziario e si perfeziona con la spedizione
(ad opera dello stesso ufficiale giudiziario) della raccomandata con avviso di
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RomanaGIURISPRUDENZA CIVILE
temi
ricevimento. La diversità esistente tra i due procedimenti (e, in particolare, la
circostanza che, nella notifica a mezzo posta, l'avviso di ricevimento costituisce prova dell' eseguita i notificazione) giustifica differenti approdi ermeneutici cui la giurisprudenza era pervenuta (salvi gli effetti dei recenti interventi della Corte costituzionale), sicché non può ravvisarsi in proposito alcun
contrasto.
Il caso in esame riguarda la notifica di un ricorso eseguita ai sensi dell'
art. 140 cod. proc. civile. In ordine a tale norma, ed all'interpretazione data
ad essa dalla giurisprudenza, ad avviso del collegio una nuova riflessione si
rende necessaria, nel quadro delle considerazioni che seguono.
4. Da lungo tempo nella giurisprudenza di questa Corte è stato affermato il principio secondo cui la notificazione, eseguita ai sensi dell'art. 140 cod. proc. civ.,
si perfeziona - dopo il deposito dell' atto nella casa comunale (costituente il
momento essenziale di quello specifico procedimento notificatorio) e l'affissione dell'avviso del deposito alla porta dell'abitazione, dell'ufficio o dell'
azienda del destinatario - con la spedizione a quest'ultimo della raccomandata con avviso di ricevimento, senza che assumano rilevanza, ai fini del perfezionamento della notifica, né la consegna della raccomandata al destinatario né l' allegazione dell'avviso di ricevimento all'originale dell'atto notificato (ex multis e tra le più recenti: Cass., 20 febbraio 2004, n. 3389; 20 novembre 2000, n. 14986; 29 aprile 1999, n. 4307; 5 luglio 1997 n. 6060).
Sul punto questa Corte ebbe a pronunziarsi anche a sezioni unite (sentenza 5 novembre 1981, n. 5825 seguita anche da altre pronunzie), ribadendo il principio che la notificazione effettuata . ai sensi dell' art. 140 cod. proc.
civ. si perfeziona, dopo il deposito della copia dell' atto nella casa comunale
e l'affissione dell' avviso alla porta dell'abitazione, dell'ufficio o dell’azienda
del destinatario, con la spedizione a quest’ultimo di raccomandata con avviso di ricevimento, contenente notizia del detto deposito, mentre resta a tal
[me irrilevante l’effettiva consegna della raccomandata al destinatario, ovvero l' allegazione dell’ avviso di ricevimento sottoscritto dallo stesso o da altra
persona legittimata (principio ritenuto conforme agli artt. 3 e 24 della
Costituzione, sul presupposto che le menzionate formalità fossero idonee a
porre l'atto nella. sfera di conoscibilità del destinatario, senza alcun pregiudizio per il suo diritto di difesa e per il principio di uguaglianza).
Anche la Corte delle leggi si è collocata nella stessa prospettiva (Corte
cost., sentenza n.213 del 1975, ordinanza n. 76 del 1976, sentenza n. 250 del
1986, e, sia pure incidenter tantum ordinanza n. 97 del 2004, in motivazione).
5. Peraltro la stessa Corte costituzionale, con sentenza n. 477 del 26 novembre
2002, relativa alle notificazioni degli atti a mezzo posta e alle comunicazioni a mezzo posta connesse con la notificazione di atti giudiziari, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del combinato disposto dell' art. 149 cod.
proc. civ. e dell'art. 4, comma terzo, della legge 20 novembre 1982, n. 890,
nella parte in cui prevede che la notificazione si perfeziona, per il notifican-
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te, alla data di ricezione dell' atto da parte del destinatario anziché a quella,
antecedente, di consegna dell'atto all'ufficiale giudiziario. La Corte delle
leggi, dopo aver posto in luce che, in forza degli artt. 3 e 24 Cost., le garanzie di conoscibilità dell'atto, da parte del destinatario, devono coordinarsi con
l'interesse del notificante a non vedersi addebitato l'esito intempestivo di un
procedimento notificatorio parzialmente sottratto ai suoi poteri d'impulso
(principio di portata generale), ha affermato che gli effetti della notificazione a mezzo posta devono essere ricollegati - per quanto riguarda il notificante - al solo compimento delle formalità a lui direttamente imposte dalla legge,
ossia alla consegna dell'atto notificare all'ufficiale giudiziario (essendo la
successiva attività di quest'u1timo e dei suoi ausiliari, come l'agente postale,
sottratta in toto al controllo e alla sfera di disponibilità del medesimo notificante), fermo restando per il destinatario il principio del perfezionamento
della notificazione soltanto alla data di ricezione dell' atto, attestata dall'
avviso di ricevimento, con la conseguente decorrenza da quella stessa data di
qualsiasi termine imposto al destinatario medesimo.
Con successiva pronuncia (n. 28 del 2004) la Corte costituzionale ha
affermato che - per effetto della citata sentenza n. 477 del 2002 - "risulta
ormai presente nell'ordinamento processuale civile tra le norme generali sulle
notificazioni degli atti, il principio secondo il quale - relativamente alla funzione che sul piano processuale cioè come atto della sequenza del processo,
la notificazione è destinata a svolgere per il notificante - il momento in cui la
notifica si deve considerare perfezionata per il medesimo deve distinguersi
da quello in cui essa si perfeziona per il destinatario". Per conseguenza, alla
luce di tale principio le norme in tema di notificazioni di atti processuali compreso l'art. 140 cod. proc. civ. (ord. n. 97 del 12 marzo 2004, cit.) - vanno
interpretate, senza necessità di ulteriori interventi da parte del giudice delle
leggi, nel senso che la notificazione si perfeziona, nei confronti del notificante, al momento della consegna dell'atto all'ufficiale giudiziario.
6.. Ne deriva che l'orientamento di questa Corte, sopra richiamato, non può più trovare conferma nella parte in cui affermava che la notifica eseguita ai sensi
dell'art. 140 cod. proc. civ. si perfezionava, dopo il deposito della copia dell'
atto e l'affissione dell' avviso relativo al deposito stesso, con la spedizione al
destinatario della raccomandata con avviso di ricevimento.
A seguito delle menzionate pronunzie della Corte costituzionale il
principio è che, anche per le notificazioni eseguite ai sensi dell'art.140 cpc,
al fine del rispetto di un termine pendente a carico del notificante (nella specie, termine d'impugnazione con ricorso per cassazione) è sufficiente che l'atto, notificato con il rito di cui alla citata norma, sia stato consegnato all'ufficiale giudiziario entro il predetto termine, mentre le formalità previste dal
detto art. 140 possono essere eseguite anche in un momento successivo (in
tali sensi, peraltro, questa Corte si è già espressa: Cass., 4 maggio 2004, n.
8447).
Il consolidamento di tale effetto - che può definirsi provvisorio o anti-
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cipato - a vantaggio del notificante dipende comunque dal perfezionamento
del procedimento notificatorio nei confronti del destinatario, perfezionamento che resta ancorato al momento in cui l'atto è ricevuto dal destinatario o
perviene nella sua sfera di conoscibilità.
In questo quadro si può aggiungere (per completezza d'indagine) che
l'effetto anticipato a vantaggio del notificante riguarda il termine pendente al
momento in cui l'atto è consegnato all'ufficiale giudiziario per la notifica.
Tale effetto, invero, è correlato all'esigenza di tutelare, nell'ambito applicativo degli artt. 3 e 24 della Costituzione, il diritto di difesa del notificante,
anche sotto il profilo del principio di ragionevolezza, nonché l'interesse del
medesimo notificante a non vedersi addebitato l'esito intempestivo di un procedimento notificatorio parzialmente sottratto ai suoi poteri d'impulso (v.
Corte cost., sentenze n. 477 del 2002 e, prima ancora, n. 69 del 1994).
Ragioni analoghe, invece, non sussistono quando il momento in cui la notifica si perfeziona sia rilevante non per l'osservanza di un termine pendente
nei confronti del notificante, bensì per stabilire il dies a quo relativo alla
decorrenza di un termine successivo del processo (o del grado o della fase
processuale). In tali casi (e, più in generale, a fini diversi dall' osservanza di
un termine pendente) il dies a quo prende a decorrere dal momento in cui il
procedimento notificatorio si perfeziona anche per il destinatario dell’atto.
Così sembra orientata anche la Corte delle leggi, secondo la quale, poiché la notificazione si perfeziona per il notificante con la consegna dell' atto
all’'ufficiale giudiziario, da quel momento possono essere compiute dal
medesimo notificante le attività che presuppongono la notificazione dell' atto
introduttivo del giudizio, ferma restando, in ogni caso, la decorrenza del termine finale della consegna al destinatario (cfr. Corte cost., 2 aprile 2004, n.
107).
In altre parole, dal momento della consegna dell'atto all'ufficiale giudiziario il notificante può compiere le attività che presuppongono la notificazione dell'atto stesso, ma la scadenza del termine finale per il compimento
di queste attività si continua a calcolare a far tempo dal perfezionamento
della notificazione nei confronti del destinatario.
Ne segue che il termine di venti giorni per il deposito del ricorso per
cassazione (termine stabilito a pena d'improcedibilità e decorrente, ai sensi
dell'art. 369, primo comma, cod. proc. civ., dall'ultima notificazione alle parti
contro le quali il ricorso stesso è proposto) continua ad avere come dies a
quo quello della notificazione perfezionata nei confronti del destinatario (o
dei destinatari) dell'atto.
7. Si deve ora verificare se, ed eventualmente con quali integrazioni, l'orientamento seguito da questa Corte circa il momento perfezionativo del procedimento notificatorio disciplinato dall' art. 140 cod. proc. civ., nei confronti del
destinatario della notificazione, debba trovare conferma. E tale indagine
richiede alcune considerazioni preliminari.
L'intero sistema delle notificazioni, nella diversità di procedimenti in
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cui si articola, si fonda su ragionevoli presunzioni di conoscenza dell' atto da
parte del soggetto al quale la notifica è rivolta non essendo esigibile che quest'ultimo ne abbia sempre una conoscenza concreta (realizzabile soltanto nell'ipotesi di notificazione in mani proprie: art. 138 cod. proc. civ.), perché il
perseguimento di un tale risultato finirebbe per rendere troppo difficile l'esercizio del diritto costituzionale di agire in giudizio e si porrebbe, quindi, in
contrasto con l'art. 24, primo comma, della Costituzione.
Ma anche il diritto di resistere ad una pretesa è espressione di una
situazione giuridica costituzionalmente tutelata, in quanto costituente esercizio del diritto di difesa (art. 24, comma secondo, Cost.), che postula un'effettiva instaurazione del contraddittorio, indispensabile per garantire il giusto
processo (art. 111, primo e secondo comma, Cost.).
Pertanto, in un equo bilanciamento delle posizioni del notificante e del
destinatario della notificazione, un' interpretazione costituzionalmente orientata della normativa al riguardo impone che le garanzie di conoscibilità dell'atto da parte del destinatario medesimo siano ispirate ad un criterio di effettività, come effettiva (e non soltanto formale) deve essere la tutela del contraddittorio. E ciò vuol dire che devono essere valorizzati tutti gli elementi
idonei a perseguire il detto criterio di effettività.
Ciò posto, e venendo all'esame dell'art. 140 cod. proc. civ., si osserva
che nel procedimento disciplinato da detta norma la consegna della copia
conforme dell'atto – rivelatasi impossibile nella residenza, nella dimora o nel
domicilio del destinatario (localizzati nella casa di abitazione di quest’ultimo, o nel luogo in cui egli ha l'ufficio o esercita l’industria o il commercio:
così Cass., s. u., 5 novembre 1981, n. 5825), per irreperibilità, incapacità o
rifiuto delle persone indicate nell'art. 139 - viene eseguita dall'ufficiale giudiziario mediante deposito nella casa del comune in cui la notificazione deve
avere luogo.
Tale deposito, pur costituendo formalità essenziale del procedimento
de quo non è idoneo da solo a porre la copia dell' atto nella sfera di conoscibilità del destinatario, che non ha modo di essere informato del detto adempimento. Perciò la norma stabilisce una prima formalità integrativa, costituita dall'affissione - alla porta dell'abitazione o dell'ufficio o dell'azienda del
destinatario - ad opera dell'ufficiale giudiziario di un avviso dell' avvenuto
deposito, contenente gli elementi di cui all' art. 48 disp. att. cpc. Ma anche
questo secondo adempimento non è ritenuto dalla legge sufficiente, stante la
sua precarietà che può tradursi nella sottrazione o, comunque, nella dispersione dell' avviso. Pertanto la norma richiede una formalità ulteriore e cioè la
"notizia" (dell' avvenuto deposito) che l'ufficiale giudiziario deve dare al
destinatario mediante raccomandata con avviso di ricevimento.
Il dettato della norma realmente impone di ritenere che, con il compimento del terzo adempimento (e quindi con la spedizione della raccomandata), la notificazione debba considerarsi perfezionata nei confronti del destinatario dell'atto. E ciò non soltanto perché in tal senso orientano il tenore
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RomanaGIURISPRUDENZA CIVILE
temi
testuale della disposizione e la struttura del procedimento in essa contemplato ma anche perché, essendo essa diretta a disciplinare un effetto legale tipico (di conoscibilità), sul piano logico è ragionevole ritenere che il legislatore abbia inteso ancorare tale effetto ad una data certa qual è quella derivante
dalla spedizione della raccomandata stessa.
Da questo risultato ermeneutico, tuttavia, ad avviso del collegio non
può desumersi - come, invece, l'orientamento fin qui seguito ha affermato che l'allegazione dell'avviso di ricevimento all' originale dell'atto sia adempimento privo di rilevanza.
In primo luogo, se il legislatore avesse considerato l'avviso di ricevimento privo di rilevanza, non avrebbe richiesto che la raccomandata di cui
all'art. 140 cod. proc. civ. ne fosse corredata. E non a caso, quando la legge,
in base ad una scelta operata nell'ambito della discrezionalità legislativa ha
ritenuto sufficiente che la notizia di una avvenuta notificazione fosse data a
mezzo di raccomandata semplice, ha disposto in tal senso (v. art. 139, comma
terzo, cod. proc. civ., in caso di consegna della copia a mani del portiere o del
vicino di casa che è formalità ben più affidabile dell'affissione di un avviso
alla porta, onde si spiega il minor rigore della modalità di trasmissione della
"notizia").
Non giova addurre che, nel caso di notificazione a mezzo del servizio
postale, l'allegazione all'originale dell' avviso di ricevimento è espressamente prevista (art. 149, comma secondo, ult. parte, cod. proc. civ. e art. 5, primo
comma, legge n. 890 del 1982). In tali casi, invero, il detto avviso costituisce
prova dell'eseguita notificazione (nei confronti del destinatario dell' atto,
dopo Corte cost., n. 477 del 2002), dunque è parte integrante della relazione
di notifica e perciò ben si spiega l'espressa previsione normativa.
Nel procedimento disciplinato dall'art. 140, invece, la notificazione si
compie con la spedizione della raccomandata, che come atto della sequenza
del processo perfeziona l'effetto di conoscibilità legale nei confronti del
destinatario. Tuttavia, non diversamente da quanto avviene per il perfezionamento della notificazione nei confronti del notificante, anche per il destinatario si tratta di un effetto provvisorio o anticipato, destinato a consolidarsi
con l'allegazione, all'originale dell'atto, dell'avviso di ricevimento le cui
risultanze possono confermare o smentire che la notifica abbia raggiunto lo
scopo cui era destinata.
Al riguardo occorre considerare che la notificazione eseguita ai sensi
dell'art. 140 ora citato postula che sia stato esattamente individuato il luogo
di residenza, dimora o domicilio del destinatario stesso e che la copia da notificare non sia stata consegnata per difficò1tà di ordine materiale, quali la
momentanea assenza, l'incapacità o il rifiuto delle persone indicate nell'art.
139 del codice di rito (così Cass., 16 luglio 2004, n. 13183). Dall'avviso di
ricevimento, e dalle annotazioni che l'agente postale appone su di esso quando lo restituisce al mittente, può emergere che la raccomandata non è stata
consegnata perché il destinatario risulta trasferito (è il caso preso in esame
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dalla sentenza ora richiamata) oppure deceduto o, ancora, per altre ragioni le
quali comunque rivelano che l'atto in realtà non è pervenuto nella sfera di
conoscibilità dell' interessato e che, dunque, l'effetto legale tipico, a tale evento ancorato, non si è prodotto.
In tali ipotesi sembra palese che la notifica debba essere considerata
nulla (non inesistente, a meno che l'atto non sia stato indirizzato verso un
luogo privo di qualsiasi collegamento con il destinatario) e che, quindi, debba
essere rinnovata ai sensi dell'art. 291 cod. proc. civile. Infatti, le suddette risultanze rendono quanto meno incerto, e possono addirittura escludere, che il
luogo in cui l'ufficiale giudiziario ha svolto l'attività prevista dall' art. 140 cod.
proc. civ. sia quello di effettiva ed attuale residenza, dimora o domicilio del
destinatario, con i conseguenti riflessi sulla validità della notifica effettuata. Si
tratta, dunque, di una verifica necessaria, postulata del resto dalla stessa previsione normativa nel momento in cui richiede che la spedizione della raccomandata abbia luogo con avviso di ricevimento. Ne consegue che quest'ultimo deve essere allegato all'originale dell' atto e che la sua mancanza, rendendo impossibile il suddetto controllo, determina la nullità della notificazione,
peraltro sanabile con la costituzione dell'intimato oppure con la rinnovazione
della notifica stessa ai sensi dell'art. 291 cod. proc. civile.
9. Conclusivamente, devono essere affermati i seguenti principi di diritto:
"Qualora il ricorso per cassazione sia stato notificato ai sensi dell'art.
140 cod. proc. civ., ai fine del rispetto del termine d'impugnazione è sufficiente che il ricorso stesso sia stato consegnato all'ufficiale giudiziario entro
il predetto termine, fermo restando che il consolidamento di tale effetto anticipato per il notificante dipende dal perfezionamento del procedimento notificatorio nei confronti del destinatario, procedimento che, nei casi disciplinati dall'art. 140 cod. proc. civ., prevede il compimento degli adempimenti da
tale norma stabiliti (deposito della copia dell' atto nella casa del comune dove
la notificazione deve eseguirsi, affissione dell' avviso del deposito in busta
chiusa e sigillata alla porta dell'abitazione o dell'ufficio o dell'azienda del
destinatario, notizia del deposito al destinatario mediante raccomandata con
avviso di ricevimento).
Nei casi di cui sopra, il termine per il deposito. del ricorso, stabilito a
pena d'improcedibilità dall'art. 369, primo comma,cod. proc. civ., decorre dal
perfezionamento della notifica per destinatario.
Nei casi suddetti la notificazione nei confronti del destinatario dell'
atto si ha per eseguita con il compimento dell'ultimo degli adempimenti prescritti (spedizione della raccomandata con avviso di ricevimento). Tuttavia,
poiché tale adempimento persegue lo scopo di consentire la verifica che l'atto sia pervenuto nella sfera di conoscibilità del destinatario, l'avviso di ricevimento deve essere allegato all'atto notificato e la sua mancanza provoca la
nullità della notificazione, che resta sanata dalla costituzione dell'intimato o
dalla rinnovazione della notifica ai sensi dell'art.291cod. proc. civile".
Nel caso in esame, pur risultando compiute le formalità di cui al cita-
193
to art. 140, l'avviso di ricevimento del plico raccomandato (inviato al contribuente il 15 marzo 1999) non si trova allegato al ricorso né si rinviene negli
atti, mentre l'intimato non ha svolto difese in questa sede.
Pertanto deve essere disposta la nuova notifica del ricorso per cassazione all'intimato, nei sensi di cui al dispositivo.
(omissis)
(1) Il nuovo orientamento della Suprema Corte in tema
di prova della notifica ex art.140 cpc
Riteniamo di fondamentale importanza per l’esercizio dell’attività professionale degli Avvocati pubblicare l’ “ordinanza interlocutoria” in data 21 ottobre
2004 delle Sezioni Unite della Cassazione (depositata il 13.1.2005) perchè in essa
vengono finalmente precisati in via chiara e definitiva i principi che regolano la notifica degli atti processuali, sia per chi si trova nella posizione del notificante sia per
il destinatario della notifica.
Gli effetti giuridici finiscono con il non coincidere per i due diversi soggetti
interessati, nel senso che il termine di notifica si intende rispettato da parte del notificante con la consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario, mentre il procedimento
notificatorio per il destinatario si intende perfezionato con l’effettiva ricezione dell’atto o mediante il rituale completamento di tutte le formalità. Ma ciò non comporta alcuna discrasia, anzi realizza il rispetto pieno di tutti alla conoscenza ed alla
conoscibilità, evitando assurde conseguenze penalizzanti per una o per l’altra delle
due parti.
Avv. Carlo MARTUCCELLI
194
RomanaGIURISPRUDENZA CIVILE
temi
CORTE D’APPELLO DI ROMA - SEZIONE MINORI E FAMIGLIA SENTENZA 11 MAGGIO 2004 N. 2843 - PRES. REL. FADIGA
Famiglia e minori – Figli naturali – Legittimazione giudiziale –
Ammissibilità – Condizioni – Necessario riconoscimento da parte
di entrambi i genitori –Necessità – Esclusione
L’art.284, n.1 c.c. deve essere interpretato nel senso che la legittimazione
per provvedimento giudiziale sia pienamente ammissibile anche qualora il
minore legittimando sia stato riconosciuto da un solo genitore (1).
L’ordinanza così motiva:
Svolgimento del processo
con ricorso ai sensi dell’art. 284 cod. civ., ha chiesto al Tribunale per
i minorenni di Roma di decretare la legittimazione del proprio figlio
naturale A., natole da una relazione con un uomo che non lo aveva riconosciuto e che
poi si era sposato con altra donna disinteressandosi del bambino. Il Tribunale ha respinto la domanda per un duplice ordine di ragioni.
In primo luogo ha considerato ostativo il fatto che il minore fosse riconosciuto
dalla sola madre e non da entrambi i genitori. Secondariamente, ha rilevato che la legittimazione materna precluderebbe al minore un futuro riconoscimento da parte del padre
naturale siccome in contrasto con l’acquisto status di figlio legittimato, privandolo così
del conseguente ampliamento della sfera affettiva sociale e familiare.
Contro quella sentenza la P. ha proposto reclamo, mettendo in risalto la peculiarità dell’istituto della legittimazione per provvedimento del giudice, e contestando la
fondatezza dell’interpretazione data alla norma dal Tribunale minorile, considerata frutto di un’accettazione acritica della concezione generale, che considera figli legittimi
solo quelli nati dentro il matrimonio. Contestando il secondo motivo di rigetto del ricorso, la reclamante ha poi negato che la legittimazione materna precluda un futuro riconoscimento paterno, rilevando a questo proposito che ai sensi dell’art. 290 la legittimazione per provvedimento del giudice produce effetti nei soli confronti del genitore che
l’ha chiesta.
M.F.P.,
Motivi della decisione
Il ricorso appare fondato e meritevole di accoglimento.
Deve innanzitutto ritenersi pacifico, come d’altra parte fa lo stesso provvedimento impugnato, il vantaggio derivante al figlio naturale dalla legittimazione. Questo infatti, sia pure nella sostanziale equiparazione della filiazione naturale a quella legittima
operata dalla riforma del diritto di famiglia (legge 1975 n. 151), attribuisce al figlio una
posizione migliore di quella garantita dall’ordinamento attraverso i diritti derivanti dal
riconoscimento, e gli permette di entrare a far parte, a pieno titolo, della famiglia allargata del genitore. A tale proposito esattamente la reclamante richiama la sentenza
15.11.2000 n. 532 della Corte Costituzionale, che, dichiarando non fondata la questione
195
RomanaGIURISPRUDENZA CIVILE
temi
di legittimità dell’art. 565 c.c., ha ribadito che l’equiparazione della filiazione naturale a
quella legittima riguarda fondamentalmente il rapporto tra il genitore ed il figlio, poiché
il concetto di parentela naturale (e quindi i rapporti tra prole naturale e parenti del genitore) non è stato recepito dal legislatore costituente. E poiché non esiste nell’ordinamento
una norma che al riconoscimento della filiazione naturale colleghi l’effetto di attribuire
al figlio uno status familiare rispetto a parenti del genitore e quindi rispetto ai nonni, agli
zii ed ai cugini, è evidente che lo status di figlio legittimo o legittimato risponde maggiormente all’interesse del minore rispetto a quello di figlio naturale.
Malgrado questa corretta premessa, i primi giudici hanno però ritenuto di non poter
accogliere la domanda per difetto del requisito di cui all’art. 284 n. 1, considerando
necessario che il minore legittimando sia stato riconosciuto da entrambi i genitori. Il
Tribunale argomenta la necessità del duplice riconoscimento dalla stessa formulazione
della norma, interpretando la locuzione “domandata … dai genitori o da uno di essi”
come riferibile al mero aspetto processuale.
In altre parole, la norma starebbe a significare che, intervenuto il duplice riconoscimento, l’eventuale successiva domanda di legittimazione potrebbe essere presentata
anche da uno solo dei due genitori e non necessariamente da entrambi, essendo ciascuno
di essi portatore di un’autonoma legittimazione processuale.
Malgrado questa corretta premessa, i primi giudici hanno però ritenuto di non poter
accogliere la domanda per difetto del requisito di cui all’art. 284 n. 1, considerando
necessario che il minore legittimando sia stato riconosciuto da entrambi i genitori. Il
Tribunale argomenta la necessità del duplice riconoscimento dalla stessa formulazione
della norma, interpretando la locuzione “domandata … dai genitori o da uno di essi”
come riferibile al mero aspetto processuale.
In altre parole, la norma starebbe a significare che, intervenuto il duplice riconoscimento, l’eventuale successiva domanda di legittimazione potrebbe essere presentata
anche da uno solo dei due genitori e non necessariamente da entrambi, essendo ciascuno
di essi portatore di un’autonoma legittimazione processuale.
L’interpretazione restrittiva dei primi giudici pecca per difetto e non trova conferma nelle altre norme che disciplinano l’istituto, mentre al contrario l’opposta tesi non vi
trova ostacoli. La questione, di cui non risultano precedenti giurisprudenziali in termini,
ha trovato da tempo risposta positiva in dottrina, pur con la riserva che il giudice potrebbe disporre indagini sulla paternità (in analogia col disposto dell’art. 278 c.c.) per verificare la sussistenza in concreto del requisito del gravissimo ostacolo al matrimonio, richiesto dal citato art. 284 n. 1 c.c. A questo proposito però sembra opportuno ricordare l’evoluzione giurisprudenziale che ha avuto l’interpretazione di quella norma. Sin da epoca
immediatamente successiva all’entrata in vigore della legge 1975 n. 151 di riforma del
diritto di famiglia, alla locuzione “gravissimo ostacolo” si è iniziato a dare un significato via via più largo, dapprima riconoscendone la sussistenza in presenza di un precedente matrimonio (così questa stessa Corte: cfr. App. Roma, 15.7.1976, in Giur. Merito 1977,
777), poi anche nel caso che l’altro genitore rifiuti di sposarsi con quello che chiede la
legittimazione, ed infine ammettendo che l’ostacolo sussiste per il solo fatto che entrambi i genitori, per ragioni personali, decidano di non sposarsi (Cass., 9.12.1985 n. 6211;
Cass., 7.9.1991, n. 9446).
196
Si è dunque in presenza di un chiaro e progressivo ampliamento della sfera di applicabilità dell’istituto della legittimazione per decreto, e le conclusioni ultime a cui è pervenuto il Supremo Collegio nelle decisioni appena citate rendono del tutto superflue quelle
indagini sulla paternità ipotizzate in passato dalla dottrina. Né va dimenticato che l’ampliamento appare anche giustificato dalla sentenza 1.8.1979 n. 97 della Corte
Costituzionale, fondamentale in materia. A ciò si aggiunga che la stessa Corte di
Cassazione, nella sentenza da ultimo citata (Cass. 1991, n. 9446) precisa e ribadisce che,
concorrendo le condizioni di cui all’art. 284 c.c., l’interesse del figlio alla legittimazione
giudiziale non può essere negato se non in presenza di circostanze tali da far apparire la
legittimazione pregiudizievole per il legittimando, e quindi, non corrispondente ai suoi
interessi.
E poiché tra le condizioni richieste dall’art. 284 non compare il doppio riconoscimento, attribuire alla locuzione “o da uno di essi” una mera valenza processuale finisce col
restringere ingiustificatamente l’ambito di applicabilità dell’istituto.
Neppure la seconda argomentazione del provvedimento impugnato appare condivisibile, quella cioè concernente il pregiudizio derivante al minore dalla preclusione di un
futuro riconoscimento paterno per effetto del disposto dell’art. 253 c.c. che non ammette
riconoscimento in contrasto con lo stato di figlio legittimo o legittimato. Infatti la legittimazione giudiziale, per espressa disposizione di legge (art. 290 c.c.), produce effetti soltanto nei confronti del genitore riguardo al quale è stata concessa. Essa quindi non opera
nei confronti dell’altro genitore, tanto nel caso in cui questi abbia già riconosciuto il figlio,
quanto nel caso (che è l’attuale) in cui non l’abbia riconosciuto né chieda di riconoscerlo.
E’ vero invece che, in tale ipotesi, la possibilità di riconoscimento paterno sarebbe subordinata al consenso materno o all’assenso del figlio se ultrasedicenne: ma ciò costituisce
applicazione della regola generale dettata dall’art. 250 c.c., e non contrasta con la soluzione qui accolta.
Così verificata la sussistenza delle condizioni di cui ai numeri 1 e 2 dell’art. 284;
tenuto conto inoltre che la ricorrente non è coniugata, non ha altri figli, ed ha già riconosciuto il minore legittimando, per cui non vi è luogo all’applicazione delle norme di cui ai
numeri 3 e 4 e dell’ultimo comma dell’art. 284; considerato infine per quanto predetto che
la legittimazione richiesta corrisponde agli interessi del figlio, il reclamo va accolto.
(1) Legittimazione della prole: una sentenza innovativa
dei Giudici di merito
Dobbiamo alla intelligente e sensibile competenza dei Giudici della Sezione
Minorenni della nostra Corte d’Appello il merito di aver risolto per primi, con la sentenza in rassegna- di cui non risulta infatti alcun precedente-, la questione relativa alla
corretta interpretazione dell’art.284, n.1 c.c., nel senso di aver ritenuto che, in perfetto
allineamento con l’orientamento dottrinale già invece formatosi sul punto, la legittimazione per provvedimento giudiziale sia pienamente ammissibile anche qualora il minore legittimando sia stato riconosciuto da un solo genitore.
Appaiono infatti assolutamente ineccepibili e condivisibili le censure avanzate
nei riguardi della contraria decisione dei Giudici di prime cure, atteso che la postulata
imprescindibilità di un doppio riconoscimento, non si ricava affatto né dal tenore lette-
197
rale della norma in esame, né tanto meno da una più ampia interpretazione della stessa
con riferimento alla complessiva disciplina che regola l’istituto.
Quanto al primo punto, infatti, la Corte chiarisce che la locuzione “domandata
….dai genitori o da uno di essi” non può rivestire carattere esclusivamente e meramente processuale, in assenza di esplicita previsione del doppio riconoscimento fra le tassative condizioni richieste per l’azione de qua, mentre per quanto attiene alla valutazione
delle risultanze di un armonico raccordo della norma con le altre dieci parimenti collocate nel nostro codice, si può senz’altro sostenere che esse depongano univocamente per
la palese arbitrarietà della contestata interpretazione restrittiva di detta norma.
A mero titolo esemplificativo, infatti, si considerino in tal senso le disposizioni di
cui agli artt.285 e 286 c.c., con i quali il legislatore ha introdotto due ipotesi nelle quali,
deceduto il genitore che abbia espresso una volontà conforme o quanto meno non contrastante con quella di legittimare il figlio naturale, il potere di avviare il relativo giudizio è attribuito a soggetti diversi dal predetto (figli riconosciuti; ascendenti).
Che l’intenzione del legislatore ed il conseguente sforzo dell’interprete fossero
quelli di consentire un ampio ricorso alla norma in esame, è più che mai evidente nella
progressiva evoluzione giurisprudenziale che si registra in ordine al concetto precipuo
di “impossibilità” o “gravissimo ostacolo” a legittimare il figlio per susseguente matrimonio, evoluzione che appare corretto riferire anch’essa alla ben nota sentenza n.97
dell’1.8.1979 con la quale la Corte Costituzionale fornì la prima, fondamentale indicazione a non applicare restrittivamente l’istituto in esame.
Nello specifico, giova ricordarlo, si trattò per i Giudici della Consulta di affermare la legittimità costituzionale dell’art.284 c.c. anche con riferimento alla filiazione
adulterina, assumendo che, una volta ammessane la riconoscibilità, non esisteva più
alcun valido motivo per negarne la successiva legittimazione.
Anche il genitore coniugato con persona diversa dall’altro genitore, ci si è quindi
determinati ad ammettere, può legittimare la prole purchè nel rispetto delle altre condizioni previste dalla normativa, ivi compresa quella costituita dal “gravissimo ostacolo”
a farlo per susseguente matrimonio, senz’altro individuabile , ricorrendo detta ipotesi,
proprio nel matrimonio con altro soggetto. Ma non solo. Nel loro progressivo e palese
intento di ampliare l’ambito di applicazione della norma in esame, i Giudici di merito e
di legittimità sono pervenuti a decisioni sempre più avanzate riguardo al concetto di
“gravissimo ostacolo”, così come riportato nella sentenza in rassegna con efficace sintesi, sino infatti a riconoscerne la sussistenza addirittura nella mera decisione dei genitori di non sposarsi.
Superfluo, riteniamo, sia chiarire la ragione ultima di tanto sforzo interpretativo,
che è evidentemente quella di realizzare al massimo l’interesse del minore, consentendogli l’acquisizione di uno status giuridico di certo per lui ben più tutelante rispetto a
quello conseguente al mero riconoscimento; funzione questa che, pur nella vigenza del
riformato diritto di famiglia, costituisce l’essenza ontologica e la giustificazione della
“sopravvivenza” dell’istituto ed alla cui realizzazione la innovativa sentenza in esame
ha fornito un preziosissimo, sapiente contributo.
Avv. Maria Giovanna DE TOMA
198
RomanaGIURISPRUDENZA CIVILE
temi
TRIBUNALE DI ROMA- SEZIONE TERZA ORDINANZA 19 GENNAIO 2005 - FALL XXX/ IMMOBILIARE
P. S.R.L. E IMMOBILIARE CN S.R.L.
Procedimento civile - Giudice unico - Provvedimento di estinzione
del processo - Reclamo al Collegio - Inammissibilità
Il provvedimento di estinzione del processo pronunciato dal giudice
istruttore che operi come giudice unico non è reclamabile al collegio, né
revocabile, ma unicamente appellabile, in quanto ha contenuto sostanziale
di sentenza (1).
L’ordinanza così motiva:
isto il reclamo ex artt. 178 e 308 c.p.c., presentato dal Fallimento….. , con il
quale viene richiesta la revoca della ordinanza di estinzione del giudizio, emessa da giudice istruttore in data 26/11/2004 ai sensi dell’art. 306 c.p.c. e l’emissione
di nuovo provvedimento di estinzione del giudizio per rinuncia all’azione;
rilevato che a norma dell’art. 178 c.p.c.(controllo del collegio sulle ordinanze)
l’ordinanza che dichiara l’estinzione del processo è impugnabile dalle parti con reclamo immediato al collegio solo nell’ipotesi in cui il giudice istruttore non operi in funzione di giudice unico e quindi la causa debba essere rimessa al Collegio per la decisione;
ritenuto, pertanto, che l’ordinanza emessa dal giudice istruttore in data
26/11/2004, nell’ambito di un giudizio per il quale non sussiste la riserva di collegialità ex art. 50-bis c.p.c., non è reclamabile, non avendo questo ragion d’essere a
causa della sovrapposizione nella stessa persona fisica delle funzioni dell’istruttore e
dell’organo decidente;
laddove la reclamabilità della ordinanza di estinzione trova la propria ragion
d’essere nella diversa ipotesi di controversia da definirsi dal Tribunale in sede collegiale, nella prospettiva della contrapposizione tra giudice istruttore e collegio investito della decisione della causa;
ritenuta pertanto, alla luce delle suesposte considerazioni, l’inammissibilità del
controllo richiesto ex art. 178 c.p.c. dall’odierno reclamante
PQM
Dichiara l’inammissibilità del reclamo presentato dal Fallimento (omissis).
V
(1) I provvedimenti di estinzione del giudizio
La pronuncia in epigrafe merita attenzione in quanto non solo investe un problema di natura strettamente processuale, ovvero la relazione tra la forma e la sostanza dei provvedimenti del giudice e le conseguenti modalità di impugnazione degli
stessi, ma anche un problema pur sempre interessante, anche se non più di estrema
attualità, vale a dire quello che attiene ai rapporti tra giudice monocratico e giudice
in composizione collegiale.
È proprio questo ultimo aspetto, infatti, a rappresentare il nucleo centrale della
199
RomanaGIURISPRUDENZA CIVILE
temi
motivazione dell’ordinanza de quo emessa dal collegio del Tribunale di Roma.
L’organo giudicante, investito del reclamo sopra richiamato, partendo dal dettato
normativo di cui all’art. 178 c.p.c., ritiene giustamente che l’inciso del secondo
comma del detto articolo sia chiarissimo: l’ordinanza del giudice istruttore, che non
operi in funzione di giudice unico, quando dichiara l’estinzione del processo, è
impugnabile dalle parti con reclamo immediato al collegio. Il collegio, dunque, nella
motivazione dell’ordinanza de quo, si ferma al dettato normativo: nel caso di specie,
infatti, l’ordinanza di estinzione del giudizio ex art. 306 c.p.c. era stata pronunciata
dal giudice monocratico nelle sue funzioni di giudice unico e, pertanto, il reclamo al
collegio non può trovare giustificazione, in quanto, nella figura del Giudice Unico, si
concretizza un’evidente ed indiscutibile sovrapposizione tra organo istruttore e organo giudicante.
Nel sistema vigente prima della legge 26.11.1990 n. 353, il problema su chi
dovesse “giudicare” non si poneva affatto, in quanto il Tribunale giudicava “con il
numero invariabile di tre votanti” (art. 48,comma 2°,d.r. 30.1.1941, n.12, Ordinamento
giudiziario, nel testo antecedente alla riforma).
Dal combinato disposto degli artt. 308 e 178 c.p.c si evinceva che il provvedimento del giudice istruttore che pronunciava l’estinzione del giudizio rivestiva la
forma di ordinanza, reclamabile dunque al collegio, il quale, a sua volta, decideva con
sentenza appellabile, qualora condividesse la decisione dell’istruttore, oppure con ordinanza non impugnabile, qualora fosse di contrario avviso.
Si poneva poi il problema della natura dei provvedimenti dei due giudici monocratici di allora, vale a dire del conciliatore e del pretore. La giurisprudenza (fra le
tante, Cass. 13. 8. 1987, n. 6924), avvalendosi della deroga che l’art. 317 c.p.c., ante
riforma, operava in relazione all’inapplicabilità dei commi secondo e seguenti dell’art.
178 c.p.c. ai provvedimenti del pretore e del conciliatore, era concorde nel ritenere che
detti giudici dovessero dichiarare l’estinzione del processo con sentenza e che, quand’anche detto provvedimento avesse avuto la forma di ordinanza, quest’ultimo avrebbe dovuto essere sottoposto agli ordinari mezzi di gravame (cfr. anche Cass.
21.02.1992 n. 2151, Sez. Lavoro; Cass. 3.09.1993, 9279, Sez. Lavoro).
La legge 353/90, recependo istanze che auspicavano una maggiore celerità nella
fase decisoria dei procedimenti civili, ha modificato l’art. 48 Ord. giud., introducendo
la figura del giudice monocratico anche in tribunale. Questa novità, in ogni caso, non
ha portato all’eliminazione della figura del collegio, a cui sono state riservate le decisioni nelle cause di cui all’art. 50bis c.p.c., articolo che è stato introdotto dal Dlgs.
51/98.
Le leggi, dunque, che sono successivamente intervenute dopo la legge 353/90
non hanno risolto l’apparente antinomia tra l’art. 178 e l’art. 308 c.p.c., articolo quest’ultimo che ammette in via generale il reclamo al collegio avverso l’ordinanza dichiarativa dell’estinzione, senza procedere al alcun distinguo tra giudice unico e collegiale. Una possibile lettura dell’art. 308 c.p.c. potrebbe basarsi sulla considerazione che il
citato articolo non opera un rinvio generale all’art. 178 c.p.c., ma solo un rinvio analitico ai commi terzo, quarto e quinto, con l’esclusione quindi del 2°, che non consente
il reclamo contro il provvedimento di estinzione emesso dal giudice unico.
200
Sostenere, per questa “esclusione”, la possibilità di ricorrere al reclamo contro
la declaratoria di estinzione resa dal giudice monocratico non appare, in ogni caso, giustificabile dalla ratio della riforma del giudice unico, voluta per rendere più agile il processo nella fase decisoria, come detto, ed eliminare il collegio come figura di “controllore” dell’operato del giudice istruttore, e dotato soprattutto del potere decisionale.
Con l’introduzione del giudice unico, infatti, si è operata una equiparazione tra
giudice unico e collegio; quest’ultimo quindi non risulta sovraordinato al primo, bensì
svolge funzioni analoghe in un ristretto numero di controversie, individuate puntualmente dal legislatore.
Se si ammettesse, pertanto, il reclamo al collegio avverso l’ordinanza del giudice unico, questo ultimo verrebbe parzialmente spogliato dei propri poteri decisori,
risultando il suo ruolo, di fatto, sminuito.
In realtà l’art. 178 c.p.c., nella formulazione precedente alla modifica operata
dalla legge 353/90, ammetteva il reclamo immediato nei confronti delle ordinanze che
“risolvono questioni relative alla ammissibilità e alla rilevanza di mezzi di prova, proposte dalle parti o ammissibili d’ufficio…”. Nella nuova formulazione, viceversa, il
citato articolo disciplina soltanto il reclamo nei confronti del provvedimento di estinzione del giudizio, svolgendo un’opera di necessaria specificazione dell’art. 308 c.p.c.,
che, a sua volta, deve essere coordinato con l’istituzione del giudice monocratico in
Tribunale.
Di questo avviso sono, infatti, il Tribunale di Milano (ord. 2.6.1997) e il
Tribunale di Modena (ord. 15.6.1999), nonché il Tribunale di Torino con sentenza
emessa in data 20.11.2003; i tre fori investiti del problema che ci occupa hanno ritenuto, infatti, che “all’ordinanza che dichiara l’estinzione del giudizio pronunciata dal
giudice istruttore in funzione di giudice unico deve attribuirsi natura sostanziale di
sentenza, appellabile nelle forme ordinarie e non reclamabile ex art. 308 c.p.c.”.
Di recente anche la Suprema Corte, si è pronunciata su questo argomento, ribadendo che “Il provvedimento dichiarativo dell’estinzione del processo adottato dal
giudice monocratico in primo grado ha natura di sentenza, ancorché pronunciato sotto
forma di ordinanza, ed è, pertanto, impugnabile con i mezzi di gravame ordinari (nella
specie, appello), con conseguente inammissibilità del ricorso per Cassazione introdotto ex art. 111 Cost.”(Cass. Sez.1 Civile, 06.06.2002, n. 8206).
Quanto affermato dalla Cassazione, nella pur breve motivazione della sentenza
sopra richiamata, risulta comunque in linea con un costante orientamento seguito dalla
stessa Corte Suprema, che più volte, infatti, ha stabilito che il provvedimento dichiarativo dell’estinzione del processo emesso dal giudice monocratico ha natura di sentenza ancorché rivesta forma di ordinanza (cfr. Cass. 14 Luglio 1989, n. 3314; Cass. 21
Febbraio 1992, n. 2151; Cass. 2 Dicembre 1999, n. 13442).
In ogni caso non potrebbe essere diversamente, in quanto il provvedimento del
giudice unico che decide un aspetto processuale o di merito, deve necessariamente avere
natura decisoria, anche se prima facie potrebbe rivestire la forma di un’ordinanza.
La ricostruzione prospettata risulta anche in linea con le disposizioni che il
codice di rito dedica alla forma dei provvedimenti del giudice, ed in particolare con
l’art. 279, comma 2°, n.2, c.p.c., il quale richiede che il provvedimento con il quale
201
il giudice definisce il giudizio, decidendo questioni pregiudiziali attinenti al processo, debba avere la forma di sentenza (Cfr. Cass.1 Sez Civile del 27.08.2003 n.12537).
Anche la dottrina dopo l’introduzione ad opera della L. 353/1990 del giudice
unico presso il Tribunale e con la modifica dell’art. 178 c.p.c., si è in modo unanime
schierata a favore della tesi per cui l’estinzione deve essere dichiarata da parte del
giudice monocratico con sentenza. Cfr. in particolare: Sassoni, nel Commentario alla
riforma del processo civile, a cura di Consolo-Luiso-Sassani,Giuffrè, 1996, 111;
Balena, La riforma del processo di cognizione, Esi, 1994, 314; Giancotti, in Le riforme del processo civile, a cura di Ciarloni, Zanichelli, 1992; Attardi, Le Nuove disposizioni sul processo civile, Cedam, 1991, 36; Proto Pisani, La nuova disciplina del
processo civile, Novene, 1991, 190.
Il problema, sopra accennato, del rapporto tra la forma e la sostanza dei provvedimenti del giudice, trova, a questo punto, un luogo di confronto con il dato concreto. Ci troviamo, infatti, ad avere un provvedimento del giudice che sancisce l’estinzione del processo, ma che, se anche dovesse rivestire la forma di ordinanza,
avrebbe, come detto, natura decisoria, dunque di sentenza.
Il noto orientamento giurisprudenziale, infatti, ritiene che “Per stabilire se un
provvedimento abbia o meno carattere di sentenza o di ordinanza, e quindi sia, o
meno, soggetto ai mezzi di impugnazione previsti per le sentenze, occorre aver
riguardo-non già alla forma esteriore e alla denominazione data dal giudice che lo ha
pronunciato- ma al contenuto sostanziale del provvedimento stesso e perciò all’effetto giuridico che esso è destinato a produrre, talché si è in presenza di un’ordinanza quando il provvedimento dispone circa il contenuto formale delle attività consentite alle parti, mentre si è innanzi ad una sentenza quando il giudice, nell’esercizio del
suo potere giurisdizionale, si pronuncia, in via definitiva o non definitiva, sul merito
della controversia e su presupposti e condizioni processuali…”(- Cass. 8.07.1988 n.
4520-; in tema di procedimento monitorio Cass. 21.05.2001 n. 5068; in tema di provvedimenti del giudice dell’esecuzione Cass. 21.02.2002 n. 2502; in tema di procedimento di istruzione preventiva Cass. 25.11.2002 n. 16578).
Pertanto attribuire ad una pronuncia del Giudice natura sostanziale di sentenza è strettamente funzionale alla sua impugnabilità secondo i modi indicati dall’art.
323 c.p.c, articolo, quest’ultimo, infatti, che limita la possibilità di operare quella
“contestazione di una parte o di tutto il provvedimento emesso dal giudice” in cui si
sostanzia il termine impugnazione, alle sole sentenze, aderendo quindi ad una visione ristretta rispetto ad un significato generale e senza dubbio generico attribuibile,
secondo una parte della dottrina, al concetto di impugnazione, nel quale potrebbe
quindi rientrare anche la possibilità di contestare il contenuto di ogni tipo di provvedimento, non solo di matura decisoria, ma anche di natura ordinatoria.
Avv. Andrea SCANDURRA
202
RomanaGIURISPRUDENZA CIVILE
temi
TRIBUNALE DI ROMA – TERZA SEZIONE –
ORDINANZA 1 DICEMBRE 2004 – EST. PRES. F.F. DE MASI N. C/ BANCA POPOLARE
Procedimento civile – Rito societario – Istanza di fissazione d’udienza –
Sub-procedimento di inammissibilità – Applicabilità – Condizioni –
Tardività della fissazione – Declaratoria di inammissibilità –
Competenza Presidenziale -Esclusione
Il sub-procedimento previsto dall’art.8 quinto comma del d. lgs. 5/2003 ha
la limitata funzione di pronunciare l’inammissibilità dell’istanza di
fissazione d’udienza allorché presentata fuori dai casi stabiliti nei commi
1,2,3 dell’art.8 e non anche nell’ipotesi in cui l’istanza sia presentata oltre
i termini previsti dalla legge, esulando tale ipotesi dalla competenza
Presidenziale e spettando invece al Giudice Relatore l’eventuale
declaratoria di estinzione del giudizio (1)
L’ordinanza così motiva:
Il Presidente, sciogliendo la riserva che precede
Osserva
a banca convenuta ha chiesto la declaratoria di inammissibilità sulla istanza di fissazione d’udienza ex art.8 primo comma d. lgs. 5/2003 notificata dall’attore in
data 14 ottobre 2004, così attivando il sub-procedimento previsto dall’art.8 quinto
comma d.lgs. 5/2003, di competenza presidenziale. Deduce l’istante banca che la
parte attrice poteva e doveva notificare alle altre parti l’istanza di fissazione d’udienza entro venti giorni decorrenti dalla data della memoria di replica alla stessa
notificata nel termine concesso alla quale non intendeva replicare, come dichiarato
nella stessa istanza di fissazione di udienza e non già nel termine di trenta giorni alla
parte attrice concesso per replicare con propria ulteriore memoria. La questione
introdotta dalla Banca non rientra- tuttavia- tra quelle esaminabili dal Presidente
della Sezione, che si riferiscono alle ipotesi di istanza di fissazione d’udienza presentata “fuori dai casi stabiliti” nei commi 1,2 e 3 dello stesso art.8 d. lgs. 5/2003.
Più esattamente la questione della tardività della presentazione dell’istanza di fissazione d’udienza, nel caso in esame, va esaminata alla luce dell’art.8 quarto comma
d. lgs. 5/2003 che sanziona la condotta della parte sulla quale grava l’onere di dare
solerte impulso al processo, secondo l’ottica acceleratoria seguita dal legislatore,
con l’estinzione del giudizio medesimo. La questione, pertanto, nei predetti termini
precisata, verrà esaminata dal Giudice Relatore al quale compete la dichiarazione,
ove ritenuta rituale e fondata la relativa eccezione sollevata dalla Banca, di estinzione del processo
PQM
Rigetta la richiesta di declaratoria di inammissibilità dell’istanza di fissazione
dell’udienza e rimette il fascicolo al Giudice relatore designato (omissis).
L
203
RomanaGIURISPRUDENZA CIVILE
temi
(1) Le questioni legate alla proposizione non tempestiva
dell’istanza di fissazione dell’udienza ed i limiti della competenza
presidenziale nel sub-procedimento di inammissibilità
nel rito societario.
La fattispecie esaminata dalla pronuncia in rassegna rappresenta soltanto una
delle ipotesi e problematiche che si vanno via via presentando nel corso dei primi
mesi di applicazione del nuovo rito “commerciale”. In particolare, il ritardo con il
quale – dapprima – sono state introdotte le cause in presenza di una normativa così
radicalmente innovativa (e ricca di così tanti interrogativi e questioni da risolvere già
sul piano della interpretazione testuale e teorico-sistematica) e – successivamente –
con il quale si vengono finalmente fissando le udienze per la trattazione del merito,
sta ulteriormente posticipando la possibilità di verificare sul campo la tenuta e l’efficacia di un rito che ha senza dubbio diviso gli interpreti, suscitando grandi elogi
ma anche fortissime perplessità, per non dire marcate avversioni.
In questo contesto, i provvedimenti sinora pubblicati attengono in via pressoché esclusiva alle questioni di inammissibilità o inefficacia delle istanze di fissazione dell’udienza di merito.
Nel caso in esame, il convenuto lamentava che l’istanza di fissazione dell’udienza era stata proposta oltre il termine previsto dalla norma, in quanto la parte
attrice aveva provveduto entro il termine che le era stato assegnato dalla controparte (trenta giorni) e non nel minore (venti) assegnato dalla legge.
Il convenuto proponeva dunque istanza al presidente per sentir dichiarare l’inammissibilità dell’istanza di fissazione.
Il Presidente, ritenuta la propria incompetenza, rigettava l’istanza, rimettendo
per gli ulteriori provvedimenti il fascicolo al Giudice designato per la trattazione
della causa.
La soluzione adottata, senz’altro condivisibile dal punto di vista strettamente
normativo, suscita alcune riflessioni sulla struttura del rito e su alcune soluzioni che
il legislatore ha voluto introdurre.
Peraltro non sarà inutile richiamare l’attenzione sulla circostanza che il provvedimento è stato emesso in data 1 dicembre 2004, prima dunque delle ulteriori
modifiche (di cui infra) all’art.8 introdotte con il d. lgs. 28 dicembre 2004 n.310.
L’art.8 disciplina le ipotesi ed in termini nei quali l’attore (primo comma), il
convenuto (secondo comma) ed il terzo chiamato (terzo comma) possono proporre
istanza di fissazione dell’udienza.
Il quarto ed il quinto comma disciplinano i vizi relativi a tale fase, nonché le
forme in cui possano farsi valere. In particolare, il quarto comma afferma come “La
mancata notifica dell'istanza di fissazione di udienza nei venti giorni successivi alla
scadenza dei termini di cui ai commi precedenti […] determina l'estinzione del processo rilevabile anche d'ufficio”.
Il successivo quinto comma aggiunge “L'istanza di fissazione presentata fuori
dei casi stabiliti dal presente articolo è dichiarata inammissibile, su richiesta della
parte interessata depositata in cancelleria nel termine perentorio di dieci giorni
dalla notifica dell'istanza, dal presidente che, sentite le parti, provvede con ordi-
204
nanza non impugnabile; con lo stesso provvedimento, il Presidente assegna il termine per lo svolgimento delle ulteriori attività eventualmente necessarie”.
Orbene, senza che la norma riesca ad essere particolarmente chiara – limitandosi a giustapporre le due ipotesi (ma, come si vedrà ed è stato correttamente introdotto dal legislatore, in realtà sono tre) senza distinguerle con chiarezza – deve senz’altro ritenersi come l’ipotesi di proposizione dell’istanza di fissazione fuori dalle
ipotesi previste dia adito a ben diversi esiti a seconda se l’atto sia proposto prima del
tempo – perché ancora in corso il termine spettante ad una delle controparti – ovvero sia proposto allorché il termine sia già scaduto.
Nella prima ipotesi (che in realtà la legge tratta per seconda, al comma 5 – con
ciò non agevolando l’interprete) si tratta semplicemente di rimuovere l’atto invalidamente proposto (perché prematuro), consentendo la prosecuzione del processo ed
il compimento degli atti ulteriori.
Nell’ipotesi di atto compiuto fuori termine (cioè tardivo), la legge commina la
sanzione dell’estinzione del giudizio, sancendo altresì la rilevabilità d’ufficio della
nullità (e della sanzione).
E’ noto come il legislatore delegato abbia distinto tale ipotesi anche sotto il
profilo della competenza, prevedendo (all’art.8 comma 5) un sub-procedimento
avanti al presidente della sezione, chiamato a dirimere le questioni di inammissibilità dell’istanza di fissazione, e nulla precisando al comma 4 in punto di competenza in punto di declaratoria di estinzione. Deve quindi ritenersi che la competenza per
il provvedimento di estinzione sia – come tutti i provvedimenti volti a definire il giudizio – riservato al Collegio e non quindi al relatore, chiamato solo a introdurre la
questione nel decreto di fissazione dell’udienza al fine di provocare il contraddittorio tra le parti.
In tal senso è dunque senz’altro ineccepibile la pronuncia in esame.
E’ quindi evidente come si sia voluto introdurre una competenza speciale del
presidente per dirimere questioni meramente endo-procedimentali.
Alla (prima) prova dei fatti, sorge tuttavia l’interrogativo sulla opportunità e,
soprattutto, sugli effetti che ne derivano sui tempi del processo “commerciale”.
Infatti, si è così introdotta una forma di sub-procedimento che comporta non
solo la attribuzione di un autonomo (seppur derivato: nnnn-1) numero di ruolo, ma
anche la creazione di un fascicolo speciale per l’udienza presidenziale (il che, sino
a completamento del processo telematico comporta copia e/o spostamento di carte
con amplificazione del rischio di smarrimento anche solo temporaneo). Inoltre, la
sola proposizione (fondata o infondata, magari strumentalmente dilatoria) dell’istanza di inammissibilità, comporta la paralisi del procedimento, l’impossibilità di
dar corso agli atti ulteriori (a pena di ulteriori insanabili pasticci sui termini), in attesa che il Presidente fissi la comparizione, ascolti le parti e decida sull’istanza, assegnando alle parti che ne hanno diritto i nuovi termini per la ripresa dello scambio
degli atti.
Così come è tutta ancora da esplorare (ma non in questa sede) la problematica legata agli effetti sui termini non utilizzati dalle parti nelle more di una istanza di
inammissibilità che sia dichiarata infondata dal Giudice: è evidente infatti che la
205
sospensione in ogni caso di tutte le attività processuali è effetto assolutamente contrario allo spirito della normativa, eppure inevitabile allo stato della disciplina positiva.
In buona sostanza, un meccanismo nel suo assieme particolarmente farraginoso, che non trova effettiva giustificazione, allorché tali questioni potrebbero essere proposte al relatore e da questi decise (salvo magari reclamo al collegio).
Si tenga peraltro presente che il novero delle problematiche connesse alla
tempestività dell’istanza di fissazione dell’udienza è stata correttamente ampliata,
ponendosi l’ulteriore ipotesi in cui, pendendo un giudizio a carattere plurisoggettivo, una delle parti si trovi effettivamente nelle ipotesi di cui ai numeri 1, 2 o 3 dell’art.8, e quindi proponga legittimamente l’istanza di fissazione.
Nondimeno, in tale ipotesi, in virtù dell’ampliamento progressivo e successivo, anche dal punto di vista temporale, dei soggetti coinvolti (si pensi al classico e
ricorrente caso della chiamata in garanzia), una o più tra le altre parti potrebbero
avere ancora in corso un termine per replicare ad una o tutte le controparti.
E’ evidente come tale ipotesi non potesse rientrare né nel caso del comma 4,
né nel caso del comma 5, così come è evidente che – da un lato – non poteva sacrificarsi il diritto della parte a proporre tempestivamente l’istanza di fissazione, così
come – dall’altra – non poteva troncarsi il contraddittorio tra i soggetti che ancora
avevano possibilità ed interesse a coltivarlo.
Da qui l’introduzione del comma 5-bis dell’art.8 (da parte del d.lgs. 310/2004)
che prevede in tal caso una ipotesi di inefficacia sopravvenuta, allorché una delle
parti che ne aveva facoltà notifichi nel termine a lei assegnato l’atto.
Tale correzione apportata in corsa aggiunge una soluzione intermedia (inefficacia sopravvenuta distinta dall’inammissibilità e dall’ipotesi di estinzione del giudizio per omessa proposizione dell’istanza di fissazione nel termine) che costituisce
apprezzabile integrazione, ma non è accompagnata da una disciplina che consenta
di risolvere le questioni di coordinamento tra le ipotesi di inammissibilità e le ipotesi di inefficacia sopravvenuta, anche in relazione alle forme in cui le parti interessate possono (e/o debbono) far valere tale situazione. Ma di tali problematiche, si
tratterà nei prossimi fascicoli in sede di commento di altri provvedimenti in subiecta materia.
Avv. Andrea MELUCCO
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RomanaGIURISPRUDENZA CIVILE
temi
TRIBUNALE DI ROMA - III SEZIONE CIVILE –
ORDINANZA 17 NOVEMBRE 2004 – EST. DI SALVO
Procedimento civile – Sospensione delibera assembleare –
Richiesta unitamente all’impugnativa di merito ex art.2378 cc –
Necessità – Sussistenza – Proposizione autonoma –
in via cautelare urgente ex art.700 cpc – Natura residuale – Sussistenza –
Esclusione – Inammissibilità – Fattispecie.
La sospensione dell’esecuzione di una deliberazione assembleare che si
assume invalida impone la previa impugnazione ex art. 2379 c.c. della
delibera di cui si assume l’illegittimità e non può essere richiesto in via
cautelare, ante causam, ai sensi dell’art. 700 c.p.c., difettando la
condizione della residualità prevista da tale norma (1)
L’ordinanza così motiva:
l Giudice designato, letti gli atti, a scioglimento della riserva che precede; rilevato che
con ricorso ex art.700 della Società xyz S.r.l., ha chiesto che venisse inibita, ogni attività derivante dai poteri conferiti con la procura ad negotia del 28 settembre 2004,
autenticata nella sottoscrizione dal notaio, dr. ABC, e che venisse sospesa la delibera
del Consiglio di Amministrazione del 23 settembre 2004, con cui era stato deciso di
conferire la procura suddetta;
rilevato che il ricorrente ha dichiarato che la proponendo causa di merito avrà
ad oggetto “l’impugnazione della delibera del Consiglio di Amministrazione del
23 settembre 2004, concernente la nomina del procuratore speciale – generale
con specifica domanda di declaratoria di inesistenza, o nullità, o annullabilità
della stessa, nonché verrà impugnata la procura ad negotia del 23 settembre
2004 con domanda di declaratoria di inefficacia della stessa, oltre a domanda di
risarcimento danni”;
considerato che i diritti il cui rispetto è stato invocato dal ricorrente devono trovare
adeguata tutela in sede di impugnazione della deliberazione suddetta ed, eventualmente, chiedendo in quel contesto la sospensiva ai sensi dell’art. 2378 c.c. (richiamato dall’art. 2479-ter c.c., introdotto dalla recente novella di cui al D.Lgs. 17.1.2003 n. 6);
considerato che l’art. 2378 c.c. prevede una specifica disciplina delle deliberazioni adottate dall’assemblea ed applicabile per analogia anche alle deliberazioni adottate dal c.d.a. (cfr. Trib. Como, 10 febbraio 1999, Corriere Giur., 2000,
530);
rilevato che da tale constatazione discende che, apprestando l’ordinamento, nell’ipotesi di siffatte impugnazioni, la misura cautelare tipica della sospensione dell’esecuzione della deliberazione, la cautela richiesta dal ricorrente può essere oggetto di proposizione solo qualora essa sia formulata al presidente del Tribunale o al giudice designato per la trattazione della causa di merito deducendo la contrarietà della stessa alla
legge, all’atto costitutivo e allo statuto dell’ente;
ritenuto infatti che l’art. 2373 c.c., prevede espressamente che la richiesta di
I
207
RomanaGIURISPRUDENZA CIVILE
temi
sospensione venga svolta “con ricorso depositato contestualmente al deposito,
anche in copia, della citazione”, indicando nelle suddette autorità giudiziarie
l’organo giurisdizionale competente all’adozione della misura invocata e che,
pertanto, la natura sussidiaria e residuale della misura di cui all’art. 700 c.p.c.
preclude il ricorso alla stessa sussistendo, in un’ipotesi come quella in esame, un
rimedio tipico funzionale alla tutela rivendicata;
ritenuto che la sospensione dell’esecuzione di una deliberazione assembleare che si
assume invalida impone la previa impugnazione ex art. 2379 c.c. della delibera di cui
si assume l’illegittimità e non è possibile, al fine di adottare il provvedimento di
sospensione, fare ricorso al rimedio cautelare, ante causam, ai sensi dell’art. 700 c.p.c.;
considerato che la previsione contenuta nell’art. 2378 c.c. si inquadra in una
serie di disposizioni normative che prevedono l’adozione di provvedimenti tipici aventi natura sostanzialmente cautelare solo in una fase incidentale del processo di merito relativo al diritto oggetto dell’invocata cautela (cfr.art.1337 c.c.,
art. 2287 c.c., art. 23 c.c.);
considerato che quanto illustrato trova conforto, non solo nell’indirizzo consolidato
di questo Tribunale, che ancorché formatosi sotto la precedenza disciplina del diritto
societario, deve ritenersi confermato anche dopo l’entrata in vigore del D.Leg.
17.1.2003 n. 6, anche nell’orientamento espresso dalla giurisprudenza dominante
secondo cui non è consentito disporre con provvedimento d’urgenza la sospensione
dell’efficacia di una deliberazione assembleare di società di capitali in presenza dello
strumento cautelare tipico specificatamente apprestato dal legislatore all’art. 2378 c.c.
(ex multis cfr. Pret. Roma, 25 ottobre 1984 in Foro It. 1985, I, 287, Trib. Verona, 30
giugno 1955 in Giur. Di Merito, 1997, 548, Pret. Verona 24.11.1992 in Le Società
1993, 373);
ritenuto in conclusione, che l’istanza di sospensione non può essere accolta
presupponendo ogni decisione in ordine alla stessa la sussistenza tra le parti di
un giudizio di merito per la dichiarazione dell’inesistenza, nullità, inefficacia,
illegittimità della delibera censurata;
considerato che le argomentazioni suddette, comportando l’inammissibilità del
ricorso proposto, consentono di ritenere in esse assorbite le altre problematiche afferenti la vicenda in esame;
(Omissis)
(1) La sospensione delle delibere societarie ex art. 2378 c.c.
1.- Con l’ordinanza annotata, il Tribunale di Roma ha dichiarato l’inammissibilità del
ricorso ex art. 700 c.p.c., proposto da un socio di una s.r.l., per la sospensione
della delibera del consiglio di amministrazione, in quanto, secondo il Tribunale,
per sospendere la delibera societaria è necessaria la previa impugnazione ex art.
2378 c.c. della deliberazione ed è escluso il rimedio cautelare ex art. 700 c.p.c.,
in presenza dello strumento cautelare tipico ex art. 2378 c.c.
Il testo della citata disposizione del codice civile è stato sostituito dall’art.
1 D. Lgs. 17 gennaio 2003 n. 6 e, quindi, l’ordinanza annotata, sebbene sia conforme al precedente orientamento della pregressa giurisprudenza, offre l’occa-
208
sione per fare il punto sul rapporto tra l’art. 2378 c.c., anche nella sua nuova formulazione, e l’art. 700 c.p.c.
2.- Si è ritenuto che “costituisce dato pacificamente acquisito in dottrina e giurisprudenza che la misura prevista dall’art. 2378 c.c. riveste natura cautelare”1 e
sommaria, per presentare tutti i presupposti necessari per la concessione della
misura cautelare contemplati dalla legge, individuati nel periculum in mora,
“rappresentato dal rischio che il perdurare dell’efficacia della delibera nel
corso del giudizio fino alla sentenza che ne dichiara la illegittimità possa rendere tale decisione inutile”2 e, nel fumus boni iuris, nonostante l’art. 2378
comma 4 c.c. non faccia ad esso espresso riferimento3.
3.- Dottrina e giurisprudenza sono divise, sulla possibilità di fare ricorso o meno al
procedimento d’urgenza di cui all’art. 700 c.p.c. essendo allo scopo utilizzabile
la specifica tutela di cui all’art. 2378 comma 4 c.c.
Secondo l’orientamento maggioritario, trovando l’interesse alla sospensione di una delibera societaria invalida, congrua e specifica tutela nel sistema
cautelare predisposto ad hoc dall’art. 2378 comma 4 c.c., non sarebbe ammissibile la procedura ex art. 700 c.p.c., in quanto avente carattere residuale e sussidiario ed essendo, quindi, riservata esclusivamente ai casi in cui non esistono
provvedimenti cautelari tipici4. Infatti, l’orientamento in esame rileva che “il
rimedio cautelare di cui all’art. 2378, comma 4 c.c. viene ricondotto nell’ambito delle misure tese ad assicurare la fruttuosità della successiva decisione di
merito”5 e, “ad impedire la continuazione della lesione del diritto conseguente
alla esecuzione di una delibera suscettibile di recare pregiudizio al socio opponente”6. Conseguentemente, il ricorso di cui all’art. 700 c.p.c. finirebbe per vanificare l’intento perseguito dal legislatore, predisponendo misure cautelari tipiche, “di subordinare la concessione della sospensiva della delibera, alla condi1 Trib. Reggio Calabria 9 maggio 1994, Gattuso c. Soc. coop.
Bruno, in Giust. civ. 1994, I, 2615, nota di VIDIRI, Sospensione
delle delibere societarie ex art. 2378 c.c. e nuovo procedimento
cautelare; v. anche Trib. Catania, 12 agosto 1997, Parasiliti e
altro c. Soc. Metansicula, in Società 1998, I, 192, nota di
BONAVERA, Applicabilità dell’art. 669 terdecies c.p.c. alle
delibere assembleari; Pret. Roma, 5 luglio 1986, soc. R., in Riv.
dir. comm. 1988, II, 111, nota di PAPPALARDO, Sospensione
della deliberazione assembleare a norma dell’art. 700 c.p.c.?.
In tal senso, in dottrina, PAOLI, Inammissibilità dei
provvedimenti d’urgenza ex art. 700 c.p.c. in materia di
sospensione dell’esecuzione di una delibera assembleare di
s.p.a., in Dir. giur. 1975, 752 ss.; GOMELLINI, Sulla sospensione
dell’esecuzione delle delibere assembleari, in Giur. comm. 1987,
1, 937 ss..
2 Trib. Bologna, 24 dicembre 1996, Grillenzoni c. Bernardi
e altro, in Giur. comm. 1998, II, 278, nota di RUFINI,
Considerazioni sulla sospensione dell’efficacia di una delibera
assembleare invalida di s.r.l. mediante provvedimento “ante
causam” ex art. 700 c.p.c.
3 In tal senso, ex plurimis, Trib. Bologna, 24 dicembre 1996,
Grillenzoni c. Bernardi e altro, in Giur. comm. 1998, II, 278, nota
di RUFINI, Considerazioni sulla sospensione dell’efficacia di una
delibera assembleare invalida di s.r.l. mediante provvedimento
“ante causam” ex art. 700 c.p.c.; Trib. Catania, 12 agosto 1997,
Parasiliti e altro c. Soc. Metansicula, in Società 1998, I, 193, nota
di BONAVERA, Applicabilità dell’art. 669 terdecies c.p.c. alle
delibere assembleari. In dottrina, GALGANO, La società per
azioni, in Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblico
dell’economia diretto dal medesimo, VII, Padova 1984, 219,
nota 11; FERRI, Le Società, in Trattato di diritto civile fondato
da Vassalli, X, 3, Torino 1985, 662.
4 Trib. Reggio Calabria, 9 maggio 1994, Gattuso c. Soc. coop.
Bruno, in Giust. civ. 1994, I, 2616, nota di VIDIRI, Sospensione
delle delibere societarie ex art. 2378 c.c. e nuovo procedimento
cautelare; Trib. Cassino, 1 dicembre 2000 ord., Catallo c. Hotel
Sunrise Crest e altro, in Società 2001, I, 610, nota di COLLIA,
Tutela cautelare atipica e art. 2378 c.c.; Trib. Verona, 30 giugno
1995, Doss Florian e altro c. Sixmar, in Società 1996, II, 75, nota
di GAGLIOTI, Il rimedio cautelare tipico ex art. 2378 c.c. In tal
senso, in dottrina, PROTO PISANI, I provvedimenti d’urgenza ex
art. 700 c.p.c., in Appunti sulla giustizia civile, Bari, 1982, 364.
5 In tal senso, PROTO PISANI, I provvedimenti d’urgenza ex art.
700 c.p.c., in Appunti sulla giustizia civile, Bari, 1982, 120.
6 Pret. Roma, 5 luglio 1986, soc. R., in Riv. dir. comm. 1988, II,
111, nota di PAPPALARDO, Sospensione della deliberazione
assembleare a norma dell’art. 700 c.p.c.?
209
RomanaGIURISPRUDENZA CIVILE
temi
zione di un preliminare atto di impugnativa della delibera stessa”7, potenzialmente lesiva del diritto del socio impugnante8.
Secondo l’indirizzo minoritario, invece, non sarebbe condivisibile l’esclusione aprioristica della sospensione di una delibera assembleare ex art. 700
c.p.c., in quanto la tutela accordata dall’art. 2378, comma 4 c.c., è esperibile unicamente dopo l’instaurazione del giudizio ordinario, mentre quella d’urgenza è
ammissibile anche prima del processo a cognizione piena. Ne conseguirebbe,
sempre secondo tale orientamento, che durante il tempo necessario per far valere il diritto in via ordinaria, e quindi anche durante il tempo necessario ad impugnare la delibera, possono concretamente realizzarsi situazioni pregiudizievoli
che il rimedio cautelare di cui all’art. 2378, comma 4 c.c. non può tutelare9.
A tale orientamento si oppone che “il rimedio tipico di cui all’art. 2378
c.c. è sì esperibile solo in corso della causa di merito, ma senza che sia preclusa la possibilità di chiedere contestualmente - con atto di citazione - la declaratoria di invalidità della delibera nel merito e, in via cautelare, la sospensione
della medesima”10 .
4.- La natura cautelare del rimedio ex art. 2378 c.c. che, come visto, fino all’entrata in
vigore della riforma, era ritenuta pacifica, oggi non lo è più, posto che “sul piano
dogmatico i provvedimenti cautelari anticipatori vedono radicalmente allentata
la loro strumentalità e si prestano ad essere ricondotti nella categoria dei provvedimenti sommari semplificati esecutivi”11.
Tale osservazione di natura sistematica sembrerebbe rimettere in discussione il tema del rapporto tra l’art. 2378 c.c. e l’art. 700 c.p.c. Tuttavia, il precedente prevalente orientamento sembra dover trovare conferma con l’applicazione delle nuove norme, posto che, come osservato in dottrina, “per effetto dell’art. 24, comma 8 del collegato processuale sono stati eliminati i residui dubbi
sulla possibilità di ritenere la sospensione delle deliberazioni assembleari un
procedimento cautelare a tutti gli effetti”12. Inoltre, sembra potersi aggiungere
che una novità importante è introdotta dall’art. 23, commi 1 e 4 e dall’art. 24,
comma 3 del D. Lgs. n. 5/2003, secondo cui i provvedimenti cautelari anticipatori non perdono efficacia, se pronunciati anteriormente alla causa, nel caso in
cui la causa di merito non viene iniziata o successivamente al suo inizio si estingua e, inoltre, se pronunciati in corso di causa, nel caso in cui il giudizio di merito si estingua. Appare evidente che tale disciplina ha natura speciale rispetto a
7 Trib. Reggio Calabria, 9 maggio 1994, Gattuso c. Soc. coop.
Bruno, in Giust. civ. 1994, I, 2616, nota di VIDIRI, Sospensione
delle delibere societarie ex art. 2378 c.c. e nuovo procedimento
cautelare.
8 In tal senso, Trib. Verona, 30 giugno 1995, Doss Florian e altro
c. Sixmar, in Società 1996, II, 75, nota di GAGLIOTI, Il rimedio
cautelare tipico ex art. 2378 c.c.
9 In tal senso, Trib. Bologna, 24 dicembre 1996, in Giur. comm.
1998, II, 277, nota di RUFINI, Considerazioni sulla sospensione
dell’efficacia di una delibera assembleare invalida di s.r.l.
mediante provvedimento “ante causam” ex art. 700 c.p.c.; Pret.
Roma, 5 luglio 1986, soc. R., in Riv. dir. comm. 1988, II, 112,
210
nota di PAPPALARDO, Sospensione della deliberazione
assembleare a norma dell’art. 700 c.p.c.?; Trib. Cassino, 1
dicembre 2000 ord., Catallo c. Hotel Sunrise Crest e altro, in
Società 2001, 610, nota di COLLIA, Tutela cautelare atipica e
art. 2378 c.c.
10 Trib. S. Maria Capua V., 20 dicembre 2002, Calcagni c.
Soc. I.FI.ME, in Giur. napoletana 2003, 115.
11 In tal senso, PROTO PISANI, La nuova disciplina del processo
societario (note a prima lettura), in Foro it. 2003, V, 4 ss..
12 BUSSOLETTI, Le nuove norme del codice civile in tema di
processo societario, in Giur. comm. 2004, I, 297.
quella di diritto comune (art. 669-bis c.p.c. ss.) e, quindi, depone per l’applicabilità complessiva della relativa procedura, con esclusione della disciplina codicistica.
In linea con tali considerazioni, la giurisprudenza più recente, ha affermato che “i ricorsi in materia di sospensione delle deliberazioni assembleari di
cui all’art. 2378 c.c., nel nuovo impianto normativo in materia di procedimento
societario, si atteggiano come ipotesi speciali di procedimenti cautelari, aventi
una propria autonomia rispetto al procedimento di merito”13.
5.-Le regole dettate dall’art. 2378 c.c. trovano applicazione, nei limiti della compatibilità, anche per l’impugnativa delle deliberazioni assembleari delle s.r.l. ex art.
2479-ter, comma 4 c.c., nonché, sempre nei limiti dell’applicabilità, per l’impugnabilità delle deliberazioni del consiglio di amministrazione ex art. 2388,
comma 4 c.c.14
6.- In conclusione, la pronuncia del Tribunale di Roma, nel quadro dei nuovi interventi
legislativi, appare in linea con la giurisprudenza formatasi prima della riforma
sull’inammissibilità del provvedimento d’urgenza ex art. 700 c.p.c. in presenza
dello strumento cautelare tipico apprestato ad hoc dal legislatore all’art. 2378
c.c.
Infatti, i procedimenti di sospensione delle deliberazioni assembleari disciplinati dalle norme del codice civile (riformate dal D. Lgs. n. 6/2003) presentano tutte le
caratteristiche delle misure cautelari, idonee a realizzare la tutela giurisdizionale anche
se non seguite dal giudizio di merito, ed il legislatore ha inteso pertanto riconoscere ad
essi autonomia di disciplina e prevalente applicazione per la materia specifica per la
quale sono previsti.
Avv. Francesca Romana ALESSANDRINI
13 Trib. Rimini, 27 ottobre 2004 ord., P.A. c. Soc. Eurotech,
in altalex.com.
14 CORSI, Diritto dell’impresa, Milano 2003, 226, 388.
211
RomanaGIURISPRUDENZA CIVILE
temi
I
TRIBUNALE DI ROMA – ORDINANZA 19 OTTOBRE 2004 –
EST. DE SANTIS
Procedimento civile – Tutela cautelare – ante causam – competenza –
determinazione – Fori concorrenti – pendenza di altro giudizio di merito
a seguito di provvedimento cautelare – irrilevanza - conseguenze
In sede cautelare, ai fini della determinazione della competenza, in ipotesi
di fori concorrenti, è irrilevante che sia altrove pendente giudizio di merito
e sia stata già emessa una misura cautelare (1)
II
TRIBUNALE DI BARI - SECONDA SEZIONE CIVILE –
ORDINANZA 15 OTTOBRE 2004 – EST. DOTT.SSA SIMONE
Procedimento civile – Tutela cautelare – ante causam – competenza –
determinazione – fattispecie
Deve concedersi la tutela cautelare inaudita altera parte in favore
dell’agente assicurativo ricorrente, allorché la preventiva comparizione
delle parti, attesa l’imminenza del rilascio, potrebbe arrecare grave
pregiudizio alle ragioni prospettate dalla ricorrente, nell’eventualità che
delle stesse se ne accerti la fondatezza (2)
I
L’ordinanza così motiva:
l Giudice, sciogliendo la riserva che precede, esaminati il ricorso avanzato da
XXX Spa ai sensi dell’art. 700, Cpc, la comparsa di costituzione dell’Agente
XYZ Srl, le note autorizzate, osserva:
In primo luogo va disattesa l’eccezione pregiudiziale di incompetenza territoriale sollevata dalla resistente, tenuto conto che la XXX agisce in base alla clausola 20 del contratto di agenzia che indica la competenza del foro di Roma per ogni
controversia tra Impresa ed Agente persona giuridica (foro convenzionale, ma non
esclusivo in difetto di una esplicita indicazione in tal senso, cfr.. Cass. Civ.
10016/94; 11616/98), ma altresì che alla fase cautelare va applicato il generale
principio che presiede il processo di cognizione per cui laddove il resistente intenda contestare la competenza deve farlo con riguardo a tutti i fori per cui sussiste
competenza concorrente o alternativa in relazione alla proponenda domanda di
merito, mentre nel caso specifico non è stata sollevata alcuna eccezione in relazione al c.d. locus contractus, foro concorrente con quello della sede della persona
giuridica ed alternativo a quello di esecuzione dell’obbligazione, cui consegue che
la competenza del giudice adito rimane radicata in relazione al criterio non contestato (cfr.. ex multis Cass.Civ. S.U. 4912/93; 248/99);
I
212
Parimenti priva di rilievo in questa sede è la circostanza che a seguito di
provvedimento urgente del Tribunale di Bari del 14.5.2004 (confermato dal
Giudice del reclamo e con cui, su istanza di YYY Srl è stato ordinato a XXX di
astenersi dalle operazioni di riconsegna dell’agenzia facente capo all’attuale resistente fino alla scadenza del termine di sei mesi dal recesso) sia pendente tra le
parti dinanzi al Tribunale di Bari, giudizio di merito per “…dichiarare la XXX
responsabile di tutti i danni subiti dalla YYY Srl per inadempimento contrattuale
del mandato agenziale; condannare la XXX al pagamento in favore delle YYY Srl
della somma di € 5.000.000,00 a titolo di risarcimento danni per inadempimento
contrattuale, o di quell’altra maggiore o minore ritenuta di giustizia; condannare
l’impresa assicuratrice al risarcimento dei danni all’immagine della società istante da determinarsi in via equitativa” (cfr. citazione allegata al ricorso sub 18);
Va infatti considerato che - a prescindere dalla questione prospettata dalla
ricorrente di inefficacia del suddetto provvedimento cautelare per la mancata introduzione del giudizio di merito quale richiamato nel ricorso ex art. 700 Cpc da parte
dell’Agente, la cui valutazione è demandata ex art. 669, novies, Cpc alla competenza funzionale del giudice che ha emesso il provvedimento - vi è diversa causa
petendi tra quel giudizio e l’azione di merito che la XXX ha dichiarato in ricorso
di volere proporre perché nel primo caso la domanda si basa sull’ingiustificata rottura delle trattative ex art. 2 bis dell’Accordo Nazionale Agenti e sulla ricorrenza
nel caso specifico dell’ipotesi di recesso dal contratto di cui all’art. 12 ter A.N.A.,
con diritto dell’Agenzia di scegliere tra il pagamento del previsto indennizzo e la
liberalizzazione del portafoglio mentre la XXX assume sotto il profilo in esame
l’avvenuto scioglimento del rapporto ai sensi dell’art. 2 bis A.N.A. per raggiunti
limiti di età del Delegato allo svolgimento delle attività agenziali, con domanda di
accertamento in tal senso, di restituzione dell’agenzia e di risarcimento dei danni
derivanti dal comportamento della controparte;
Ciò posto, la richiesta di cautela appare fondata in ordine alla sussistenza dei
necessari requisiti di concedibilità;
Con riguardo al fumus boni juris, l’art. 12 dell’Accordo Nazionale Agenti richiamato nell’appendice n.1 del contratto di agenzia inter partes - stabilisce al
comma primo sub d) che il contratto di agenzia può sciogliersi per limiti di età, prevedendo nel secondo comma che laddove l’agente sia una società detta disposizione si applica al Delegato e che quando si verifica tale evento le parti sono tenute in
base all’art. 2 bis del contratto collettivo ad iniziare le trattative per la sostituzione
di tale soggetto;
l’art. 2 bis cit. stabilisce a sua volta nel primo comma il ricorso ad una procedura preordinata a mantenere il rapporto per consentire un’intesa sul soggetto
eventualmente subentrante (sono favoriti gli stretti congiunti del Delegato in possesso di determinati requisiti) ed al terzo comma che in caso di mancato raggiungimento dell’intesa “il rapporto di agenzia si risolve” con diritto dell’agenzia al
trattamento ed alle indennità specificate;
Poiché è pacifico che il delegato di YYY, dott. F. D.M., abbia raggiunto il
limite di età, che le parti abbiano intrapreso la trattativa richiamata con esito nega-
213
RomanaGIURISPRUDENZA CIVILE
temi
tivo, come da documentazione in atti, che l’agenzia non sia stata restituita, ne deriva la ricorrenza del c.d. fumus dell’azionando diritto della ricorrente in relazione
agli effetti giuridici dell’art. 2 bis, terzo comma;
in ordine al periculum, l’omessa spontanea restituzione dell’Agenzia nel
notorio tempo medio del giudizio civile si riflette sul diritto della proponente a
ricostituire un nuovo rapporto contrattuale in ordine ad un notevole portafoglio
clienti ed in definitiva a svolgere liberamente l’attività economica di impresa, principio di rango costituzionale, ed è dimostrato quanto all’imminenza dal comportamento della resistente la cui dichiarata disponibilità a gestire e tutelare il portafoglio clienti della mandante è stata documentalmente smentita dal fax prodotto in
udienza dalla difesa di XXX, da cui si evince che il 12.10.2004 è stata impedita
all’Ispettore dell’Impresa la verifica delle rimesse dovute dall’Agenzia
all’11.10.2004, né alcuna giustificazione in proposito è stata fornita nelle note dalla
resistente mentre l’irreparabilità del pregiudizio va ragguagliata all’impossibilità
per l’Impresa di controllare la gestione del rapporto con la clientela sotto il profilo della contabilità, delle scadenze e dei rinnovi contrattuali anche in relazione
all’elemento fiduciario caratterizzante il contratto di assicurazione, ed in cui, il
decorso del tempo rende altamente probabile la perdita del cliente ed estremamente difficile la quantificazione del danno.
P.Q.M.
Visti gli artt. 669, bis, ter, sexies, octies, e 700 Cpc:
accoglie la domanda di provvedimento urgente avanzata da XXX Spa nei
confronti di YYY Srl, e, per l’effetto, ordina a YYY Srl di riconsegnare a XXX Spa
l’Agenzia QWZ e tutto il materiale agenziale, comprese polizze e stampati di
polizza, ivi contenuti.
Fissa il termine di giorni trenta dalla comunicazione del provvedimento per
l’introduzione del giudizio di merito.
II
L’ordinanza così motiva:
Il Giudice Designato, letto il ricorso depositato il 12.10.2004; esaminata la
documentazione allegata; osservato che, dal provvedimento sommario pronunciato in altro procedimento fra le stesse parti, confermato in sede di reclamo ex art.
669 terdecies Cpc, appare verosimile lo scioglimento del rapporto di agenzia fra le
parti per effetto di recesso ad nutum da parte della XXX Assicurazioni Spa, con
conseguente diritto dell’odierna ricorrente al preavviso di sei mesi previsto dalla
contrattazione collettiva e facoltà di scelta fra pagamento degli indennizzi e liberalizzazione del portafoglio; vista la richiesta di liberalizzazione del portafoglio
formulata dalla ricorrente con telegramma del 14.9.2004; considerato che la preventiva comparizione delle parti, attesa l’imminenza del rilascio, potrebbe arrecare grave pregiudizio alle ragioni prospettate dalla ricorrente, nell’eventualità che
delle stesse se ne accerti la fondatezza;
P. T. M.
Letti gli artt. 700 e 669 sexies Cpc:
214
1) Ordina alla ZZZ Spa, in persona del legale rappresentante pro-tempore, di
astenersi dalle operazioni di riconsegna dell’Agenzia di XXX, cod. YYY, consentendo all’attuale agente la normale prosecuzione del rapporto agenziale,
nel rispetto del portafoglio e del mandato;
2) Fissa l’udienza di comparizione per il giorno 27.10.2004, ore 12,00, concedendo
termine sino al 19.10.2004 per la notifica alla controparte.
(1-2) La competenza cautelare ante causam in presenza di una
clausola contrattuale derogativa degli ordinari criteri di competenza:
spostamento della competenza territoriale nel giudizio cautelare
ante causam per vis attrattiva a favore del giudice del merito?
Sommario: 1-§ Premessa. 2-§ Il significato e l’interpretazione dell’art. 28
cpc, con riferimento all’individuazione dell’Ufficio giudiziario dinanzi al
quale proporre un ricorso cautelare ante causam in presenza di una
clausola contrattuale derogativa degli ordinari criteri di competenza:
spostamento della competenza territoriale nel giudizio cautelare ante
causam per vis attrattiva a favore del giudice del merito? 3-§
L’individuazione del giudice competente a pronunciarsi in ordine alle
modalità attuative di un provvedimento cautelare.
1. I provvedimenti in epigrafe - emessi da differenti Uffici Giudiziari, ma
riguardanti la stessa fattispecie, fondata su un rapporto agenziale in ambito assicurativo - si segnalano per l’evidente contrasto nelle motivazioni assunte dai rispettivi
giudici aditi autonomamente dalle parti in lite.
Infatti, a fronte di un decreto emesso inaudita altera parte dal Tribunale di Bari
in data 15.10.2004, con il quale si «ordina alla XXX Spa, in persona del legale rappresentante pro-tempore, di astenersi dalle operazioni di riconsegna dell’Agenzia di
Bari, cod. 540, consentendo all’attuale agente la normale prosecuzione del rapporto agenziale, nel rispetto del portafoglio e del mandato», successivamente, in data
19.10.2004, interviene l’ordinanza emessa dal Tribunale di Roma, che, in accoglimento di un ricorso proposto ex art. 700 Cpc, dalla Compagnia XXX Spa «ordina a
YYY Srl di riconsegnare a XXX Spa l’Agenzia e tutto il materiale agenziale, comprese polizze e stampati di polizza, ivi contenuti» fissando il termine di trenta giorni dalla comunicazione per l’inizio del giudizio di merito.
Prescindendo volutamente da ogni indagine conoscitiva concernente il merito dell’insorta controversia, il principale problema di diritto che qui si pone, attiene
all’individuazione di un’adeguata risposta che l’Ordinamento - per non contraddire
sé stesso - necessariamente deve essere in grado di fornire per uscire - quanto prima
- dalla “non comune” situazione di incertezza creatasi nella fattispecie in esame, con
specifico riferimento all’attuazione in executivis di contrastanti pronunce cautelari.
A tal fine, dalla apparente diversità dei contrapposti comandi giudiziali, sembrerebbe potersi pervenire ad una tranquilla scelta ermeneutica, basata su un’aperta
e coerente valutazione del dato normativo, immunizzandola da ogni possibile pre-
215
RomanaGIURISPRUDENZA CIVILE
temi
giudizio interpretativo, anche con specifico riferimento ai principi generali che
attualmente regolano il sistema di diritto processuale civile1.
Orbene, tanto premesso, iniziando la disamina della complessa fattispecie,
deve preventivamente rilevarsi come già in passato, con specifico riferimento alla
materia concernente i procedimenti cautelari, si era giunti ad escludere l’applicazione di alcuni importanti principi2 ai quali poter far eventualmente ricorso in presenza del verificarsi di situazioni analoghe a quella che ci occupa, avuto riguardo
all’esatta attribuzione della competenza territoriale a favore di un determinato
Ufficio giudiziario adito in un procedimento cautelare ante causam.
Tanto, partendo da alcune controvertibili motivazioni elaborate congiuntamente dalla dottrina e dalla giurisprudenza, che, sostanzialmente, traevano parzialmente spunto da un’orientamento, pervicacemente soffermatosi per lungo tempo,
la cui impronta teleologica si risolveva nella negazione dell’esistenza di un vero e
proprio giudicato cautelare, anche solo squisitamente provvisorio3.
2. Muovendo i primi passi dalla supposta esistenza di un giudicato cautelare provvisorio, e proseguendo nella disamina della principale quaestio juris esposta
in epigrafe, deve sommessamente osservarsi come la natura di un procedimento
1 Per una migliore comprensione della dicotomia terminologica
intercorrente fra Diritto Processuale Civile e Procedura Civile,
considerando le trasformazioni conseguenti alle complesse
elaborazioni dottrinali, cfr. S. SATTA, Dalla Procedura Civile al
Diritto Processuale Civile, in Rivista Trimestrale di Diritto e
Procedura Civile, Milano, 1964, p.28-43.
2 Il riferimento (implicito) contenuto nel testo, concerne
gli artt. 31-40, Cpc, collocati nel Capo primo, sezione quarta,
del I° libro del Codice di Rito, riguardo ai quali, anche il
Tribunale di Bari, (ord.) dell’11.11.2004, ha ritenuto che «la
disciplina dell’art.40 c.p.c., che consente di cumulare nello
stesso processo varie domande connesse a norma degli artt.31
e ss. c.p.c., dettata per il processo ordinario di cognizione, non
è applicabile ai processi cautelari. Tale norma infatti non è
richiamata nel capo terzo del libro IV del Codice di rito, né
appare suscettibile di interpretazione estensiva od analogica,
sia perché l’urgenza che sottende i procedimenti cautelari
verrebbe vanificata dall’iter della riunione e sia perché
l’opportunità del processo simultaneo, implicante deroga della
competenza, si giustifica per il carattere definitivo della
pronuncia del procedimento di cognizione ordinaria, mentre
assume minor rilievo nei procedimenti cautelari, sommari e
provvisori».
3 La definizione di c.d. giudicato cautelare provvisorio, non è
nuova in dottrina, non contrastando minimamente con la
particolare natura dei provvedimenti di cui si discute, poiché
una stabilità di carattere temporale c.d. «minima» può aversi
sia a seguito della mancata proposizione del reclamo previsto
dall’art. 669, terdecies, Cpc, sia al termine della stessa fase di
«gravame» nell’ipotesi di conferma della misura cautelare già
concessa dal Giudice Designato. In tal caso, per giungere ad
una rimozione del provvedimento cautelare dovrebbe
alternativamente riscontrarsi: a) un significativo ed
apprezzabile mutamento nella situazione di fatto e/o di diritto
in forza della quale ebbe a concedersi il diritto a cautela; b)
l’emissione della sentenza con la quale si definisce il giudizio
di merito cui inerisce lo stesso provvedimento cautelare. cfr.
altresì C. CONSOLO, Ricorsi cautelari ante causam, pluralità di
competenze e impedimento da litispendenza, nota a Tribunale
di Torino, del 2.10.1998 (ord.) e Tribunale di Torino del
216
6.11.1998 (ord.) in Giurisprudenza Italiana, 1999, II, p.1857.
L’autore rileva come ai sensi «dell’art. 669, septies, Cpc, dopo
l’ordinanza di rigetto, il ricorrente non può proporre una
nuova istanza salvo che si verifichino mutamenti nelle
circostanze o vengano dedotte nuove ragioni di fatto o di
diritto. Si ha così anche per tali provvedimenti una sorta di
giudicato cautelare;…..la differenza rispetto al giudicato
sostanziale si limita al fatto che mentre il giudicato ordinario
copre il dedotto ed il deducibile, quello cautelare copre solo il
dedotto, mentre il deducibile non dedotto potrà ancora essere
preso in considerazione per accogliere la stessa domanda in un
altro procedimento». Per un’approfondimento sul tema
specificamente trattato, cfr. C. CONSOLO, Il reclamo cautelare,
la sua struttura e l’art. 3 Cost., in Corriere Giuridico, Ipsoa,
1994, p.381; In merito alla costruzione di un diritto sostanziale
alla cautela, cfr. altresì l’interessante studio condotto da E.
ALLORIO, Per una nozione del processo cautelare, in Rivista
Diritto Processuale, 1936, I, p.18 e ss.;
4 cfr. la definizione coniata da CHIOVENDA, op.cit., p.247 e ss.,
il quale definisce «provvisorie cautelari o conservative quelle
misure speciali, determinate da pericolo od urgenza, che si
emanano prima che sia accertata la volontà concreta della
legge che ci garantisce un bene, o prima che sia compiuta la
sua attuazione, per garanzia della sua futura attuazione
pratica». Pertanto, partendo da un siffatto costrutto
interpretativo, già la dottrina classica arrivava a configurare
l’azione cautelare giammai in termini di mera accessorietà del
diritto cautelato (e, quindi, men che mai del relativo giudizio
di merito), ma bensì come un vero e proprio potere attuale (il
cui riconoscimento è chiaramente affidato alla prudente e
discrezionale valutazione del giudice, anche per quanto
attinente sotto il profilo della semplice opportunità), in attesa
di conoscere, medio tempore, l’esistenza del diritto alla cui
conservazione la tutela cautelare è diretta. cfr. P.
CALAMANDREI, Introduzione allo studio sistematico dei
provvedimenti cautelari, Padova, 1936, p. 10 e ss. in merito
all’esame del concetto di provvisorietà degli effetti promananti
dalla tutela cautelare: «la provvisorietà dei provvedimenti
cautelari sarebbe dunque un aspetto ed una conseguenza di
un rapporto che passa tra gli aspetti del provvedimento
antecedente (cautelare) e quelli del provvedimento
segue
cautelare non possa minimamente definirsi in termini di mera accessorietà o complementarietà rispetto al successivo giudizio di merito4, dovendosene invece sottolineare l’autonomia5, dal punto di vista strutturale e funzionale6.
In particolare, aderendo ad un’autorevole corrente di pensiero7 la quale non
ritiene possibile ottenere in via d’urgenza misure dirette ad incidere sull’efficacia
esecutiva di un’altro provvedimento giurisdizionale (anche cautelare), al fine di prevenire una siffatta eventualità, devesi valutare nella giusta misura il ruolo ricoperto
dall’art. 28 Cpc, costituente una disposizione processuale di chiaro carattere eccezionale o derogatorio8 rispetto al normale criterio adottato con riferimento alla derogabilità della competenza territoriale in presenza di un’espressa volontà manifestata dalle parti.
Appare al di fuori di ogni ragionevole dubbio che, la portata - ambivalente palesemente insita nella suddetta norma, sia stata predisposta ad hoc dal Legislatore
degli anni ‘40, il quale, sembrerebbe essersi prefigurato con largo anticipo rispetto
al legislatore del ‘90, l’esistenza del problema costituito dall’oggettiva difficoltà ad
individuare il giudice competente a statuire su una determinata istanza cautelare ante
causam, in presenza di un’accordo contrattuale tendente a superare l’apparente indesusseguente (definitivo), l’inizio dei quali segnerebbe la
cessazione degli effetti del primo». Cfr Formulario annotato
del Codice di Procedura Civile, a cura di S. MENICHINI, Padova,
1999, capo III, «dei procedimenti cautelari in generale”, artt.
669, bis-669 quaterdecies: “dal punto di vista procedimentale,
il processo cautelare è del tutto autonomo rispetto al processo
di merito, pur essendo la tutela cautelare imprescindibilmente
legata a quest’ultimo da un nesso di strumentalità, in quanto
diretta ad evitare che la durata del processo si risolva in un
danno per l’attore che ha ragione, e a garantire, perciò,
l’effettività del diritto di azione e alla tutela giurisdizionale».
Per un’analisi della dottrina classica formatasi sulla materia
cautelare, cfr P. CALAMANDREI, Introduzione allo studio
sistematico dei provvedimenti cautelari, Cedam, Padova, 1936;
CHIOVENDA, Istituzioni di diritto processuale civile, I, ristampa,
ed. Jovene, Napoli, 1953, n.82, p.241 e ss.; E. T. LIEBMAN,
Unità del procedimento cautelare, in Rivista Diritto
Processuale, 1954, I, p.248 e ss.; sui singoli istituti cautelari, cfr
altresì A. PROTO PISANI, Appunti sulla tutela cautelare nel
processo civile, in Rivista Diritto Civile, 1987, I, p.109 e ss., e la
voce «procedimenti cautelari» estratto dall’ Enciclopedia
giuridica, Roma, 1991.
5 In giurisprudenza, cfr Tribunale di Modena, Giudice
S. Romagnoli, 11.2.12004, reperibile nella banca dati on-line di
Giurisprudenza Locale, al seguente indirizzo internet:
http//www.giurisprudenzamodenese.it, il quale, valorizzando
tale aspetto, ha dedotto che «stante la autonomia della fase
cautelare rispetto al giudizio di merito, devesi ritenere rituale
la notifica dell’atto introduttivo di quest’ultimo giudizio alla
parte personalmente e non al procuratore costituito nel
procedimento cautelare». Il Tribunale ha altresì precisato che
«il procedimento per i provvedimenti d'urgenza ex art. 700
c.p.c. ed il successivo procedimento di merito non costituiscono
fasi distinte di un unico processo, ma due processi
formalmente autonomi». In senso conforme, per quanto
attiene all’autonomia strutturale e funzionale del
procedimento cautelare rispetto al giudizio di merito, cfr.
Tribunale di Modena, Giudice R. Di Pasquale, 21.01.2003,
reperibile nella banca dati on-line di Giurisprudenza Locale, al
seguente indirizzo internet:
http//www.giurisprudenzamodenese.it: «in relazione ai
procedimenti cautelari, la disciplina circa la sospensione dei
termini processuali si applica soltanto nella fase cosiddetta
sommaria e non anche al conseguente giudizio di merito. In
applicazione di tale principio, il termine per l'instaurazione del
giudizio di merito seguente all'emissione di provvedimento
cautelare, è soggetto alla sospensione feriale dei termini
processuali, essendo negata detta sospensione solo alla fase
cautelare e non anche al conseguente giudizio di merito».
6 cfr. altresì la definizione di P. CALAMANDREI, op.cit., p. 22 e
ss.,
riportata da C. CALVOSA, in Nuovissimo Digesto Italiano,
Torino, 1970, voce «sequestro giudiziario», n.5, p.62: «la
strumentalità dei provvedimenti cautelari, secondo la dottrina
del Calamandrei e della quasi unanimità degli Autori si
concreterebbe in ciò che i provvedimenti cautelari non
sarebbero mai fine a sé stessi, ma sarebbero sempre
immancabilmente preordinati alla emanazione di un ulteriore
provvedimento definitivo, di cui preventivamente assicurano la
fruttuosità pratica».
7 cfr. A. PROTO PISANI, Provvedimenti d’urgenza, in Appunti
sulla Giustizia Civile, Bari, 1982, p.366 e ss.; L. MONTESANO e
G. ARIETA, Diritto Processuale Civile, vol.III, L’esecuzione
forzata, I procedimenti contenziosi sommari, Il rito cautelare
uniforme, Giappichelli, terza ed., 1999, p.343,
«sull’impossibilità di incidere sul regime di efficacia di altro
provvedimento sommario, anche cautelare». In giurisprudenza,
cfr. Tribunale di Bari, (ord.) IV sezione civile, Giudice F.
Cassano, 10.10.2004, reperibile nella banca dati on-line di
Giurisprudenza Locale, al seguente indirizzo internet:
http//:www.giurisprudenzabarese.it: «La tutela cautelare, per la
funzione sua propria di assicurare interinalmente gli effetti
della decisione definitiva, non può che essere recessiva ed
inammissibile allorquando sia volta a paralizzare l’efficacia di
provvedimenti giurisdizionali a cognizione piena».
8 cfr. Commentario Breve al Codice di Procedura Civile,
a cura di F. CARPI, V. COLESANTI, e M. TARUFFO, art. 28
cpc, Cedam, 2002, p.77: «Relativamente alla competenza
per territorio, la derogabilità rappresenta la regola, mentre
l’inderogabilità rappresenta l’eccezione».
217
RomanaGIURISPRUDENZA CIVILE
temi
rogabilità prevista ex lege9.
Ed infatti, da un attento esame della ratio legis sottostante all’art.28 cpc innanzi richiamato, parrebbe potersi desumere l’esistenza di un mal celato rapporto di
“specialità” intercorrente fra le ipotesi previste, rispettivamente, nella prima e
seconda parte della suddetta norma, concernenti da un lato, l’espressa previsione
delle singole ipotesi di inderogabilità10, e, dall’altro, la statuizione di una generale
facoltà rimessa alle stesse parti di poter derogare ai normali criteri determinativi
della competenza territoriale11.
Da quanto sopra, potrebbe quindi assumersi che l’art. 28 Cpc conterrebbe in
sé una particolare forma di deroga12 rispetto alla previsione di carattere generale (a
sua volta derogativa dei criteri ordinari enunciati negli artt. 18 e ss. Cpc), il cui fine
ultimo, condurrebbe all’esclusione di ogni potere discrezionale accordato preventivamente delle parti nell’individuazione dell’Ufficio Giudiziario territorialmente
competente, dinanzi al quale introdurre un procedimento cautelare ante causam13.
Tale costruzione, ovviamente, tiene ben presente l’inscindibile criterio di collegamento14 attualmente esistente fra il giudice della cautela ed il giudice del merito, così come disegnato dal legislatore in sede di riforma del processo cautelare.
Per tali ragioni, appare quindi evidente, come non possa assolutamente con9 cfr. le osservazioni svolte da un’autorevole dottrina intorno
alla valenza pubblicistica della norma processuale rispetto
alla volontà manifestata dalle parti: S. SATTA e C. PUNZI,
Norma processuale e volontà privata, in Diritto Processuale
Civile, XI ed., Padova, 1992, p.279: la norma processuale
trova la sua esaustiva definizione nell’art. 1, Cpc, per cui,
essa è diretta a regolare l’esercizio della giurisdizione civile
attraverso il processo, del quale, ne costituisce la disciplina.
Tanto premesso, considerata la funzione pubblicistica di tale
norma (processuale) quest’ultima può tener conto della
volontà delle parti a condizione che quest’ultima non
contrasti con le finalità generali del processo, e della
correlata funzione giurisdizionale insita nello stesso
10 cfr. LEVONI, Competenza nel diritto processuale,
in Digesto,discipline privatistiche, sezione civile, III, 1988,
p.104 e 130, il quale, con riferimento all’art. 28 cpc, afferma
che trattasi di una competenza territoriale inderogabile
ovvero, funzionale.
11 cfr. L. MONTESANO e G. ARIETA, op. cit., competenza
ante causam, p.407 e ss.: «Anche se si sostiene che le parti, in
realtà, non introducono deroga alla competenza territoriale
del giudice della cautela (la relativa clausola sarebbe, infatti,
inficiata di nullità proprio ex art. 28 cit.), bensì a quella del
giudice competente a conoscere del merito,ciò nonostante
riteniamo che anche tale ipotesi di deroga, per così dire
“indiretta”, rientri nella previsione dell’art. 28: poiché il
principio di inderogabilità convenzionale della competenza
(art.6, Cpc) impone di considerare come eccezionali i casi di
deroga della stessa per accordo delle parti, l’autonomia della
tutela cautelare, di cui ci pare costituisca espressione la
previsione di assoluta inderogabilità della competenza sopra
richiamata,esclude ogni effetto attrattivo “indotto”,
limitando a monte l’autonomia delle parti, anche quando
queste abbiano (legittimamente) apportato deroga alla
competenza del giudice del merito». In giurisprudenza, cfr.
Tribunale di Roma, 8 marzo 1996, in Giurisprudenza di
Merito, 1999, p.784, «Ai sensi dell’art. 28 cpc la competenza
territoriale in caso di ricorso cautelare ante causam non può
218
subire deroghe per effetto dell’accordo tra le parti».
Sostanzialmente conforme risulta la posizione assunta da
Tribunale di Napoli, 5 maggio 2001, in Diritto Industriale,
2002, p.31, con nota di PERONI e GIUNCHINO, che, in
applicazione dell’art. 669, quinquies, Cpc, ha ritenuto non
invocabile una clausola compromissoria in arbitrato
derogativa dell’art. 28 cpc, ai fini della proposizione della
domanda cautelare.
12 cfr. S. SATTA, in Commentario al Codice di Procedura
Civile, I, 1959, Milano, p.134: «…Il principio è che non può
darsi competenza territoriale inderogabile se non nell’ipotesi
in cui la legge espressamente la stabilisca».
In buona sostanza, poiché l’art. 28 cpc, prevede una serie
(specifica) di ipotesi di inderogabilità della competenza
territoriale, costituenti una chiara eccezione rispetto al
principio generale della derogabilità sancito dalla stessa
norma. Sembra allora doversi concludere per l’inefficacia
di qualsiasi accordo derogativo eventualmente intervenuto
fra le parti, con particolare riferimento all’individuazione
della competenza cautelare ante causam, atteso che,
una divergente interpretazione del dato normativo,
entrerebbe in palese contrasto con l’intento perseguito ad
hoc dal legislatore nella materia qui considerata.
13 cfr. i lavori preparatori e la relazione alla L.26.11.1990,
n.353. cfr. gli atti dell’incontro tenutosi presso l’Università
degli Studi di Milano il 12-13 ottobre 1984 raccolti
nel volume Les mesures provisoires en procèdure civile,
Giuffrè, 1985, e gli atti del XV convegno nazionale
indetto dall’associazione italiana degli studiosi del diritto
processuale civile, tenutosi a Bari il 4 e 5 ottobre 1985,
confluiti nel volume La tutela d’urgenza, Maggioli, 1986.
14 cfr. R. PREDEN, I procedimenti cautelari, in Quaderni
del CSM,n. 60, 1992, p.250, spec. 266, secondo il quale,
«la clausola derogatoria vale soltanto per il giudizio di
merito e non può sottrarre al suo giudice naturale - che è il
giudice astrattamente competente per la causa di merito - la
cognizione della causa ante causam».
dividersi l’assunto sostenuto da una pur autorevole dottrina, la quale, muovendo dal
necessario coordinamento tra l’art. 28 Cpc, e l’art. 669 ter Cpc, propenderebbe per
un’abrogazione15 tacita dell’art. 28 cpc.
Di contro, è invece agevole sostenere che, ben difficilmente potrebbe accogliersi un’impostazione così radicale, tenuto conto che alle norme disciplinanti il
c.d. nuovo processo cautelare uniforme deve pur sempre riconoscersi un’esplicita
rilevanza pubblicistica16, unitamente ad una duplice autonomia, sia dal punto di
vista strutturale, che funzionale, in quanto la strumentalità del giudizio cautelare non
deve considerarsi riferita astrattamente al giudizio di merito bensì al diritto che si
intende far valere in un ordinario giudizio di cognizione, preservandolo adeguatamente durante tutto il tempo normalmente occorrente per giungere al suo accertamento definitivo.
E’ allora evidente come, l’unica vera finalità cui tende in ultima analisi il processo cautelare, è ravvisabile proprio nell’idoneità della stessa cautela ad assumere
temporaneamente la natura di res iudicata con riferimento a quanto formante inizialmente oggetto della stessa domanda cautelare.
Del resto, se così non fosse, non avrebbe avuto alcun senso per il legislatore
agganciare la competenza del giudizio cautelare a quella del merito, predisponendo
finanche dei divieti specifici, volti ad evitare di incorrere nel divieto del ne bis idem,
tra i quali, l’art. 669 septies Cpc, prevedendo espressamente la riproponibilità della
domanda cautelare a condizione che «si verifichino mutamenti delle circostanze o
vengano dedotte nuove ragioni di fatto o di diritto».
Ma a ben vedere, un’ulteriore spunto di riflessione a favore del carattere di
specialità dell’art. 28 cpc, con riferimento alle singole ipotesi di inderogabilità previste in detta norma, sovviene finanche dal tenore dell’art. 6 Cpc, a mente del quale
«la competenza non può essere derogata per accordo delle parti, salvo che nei casi
stabiliti dalla legge»17.
Detta norma, prevedendo che la competenza territoriale non possa derogarsi
15 Cfr. OLIVIERI, I provvedimenti cautelari nel nuovo
processo civile, in Rivista diritto processuale, 1991, p.699, il
quale ritiene «abrogato - per incompatibilità con l’art. 669ter, comma I, - l’art. 28 c.p.c. nella parte in cui attribuisce il
carattere della inderogabilità della competenza territoriale
relativa ai procedimenti cautelari». Contra, cfr. quanto
sostenuto da C. PUNZI, in occasione della presentazione
dell’undicesima edizione del Manuale di Diritto Processuale
Civile, op.cit., il quale così scriveva nell’ormai lontano 1992:
«Ci vuole più di mezzo secolo per preparare e costruire un
nuovo codice. Basti ricordare che settantacinque anni
separano i codici del 1865 dagli ancora vigenti codici civili e
di procedura civile del 1940 e che neppure cinquant’anni
sono passati dall’entrata in vigore di questi codici. Non ci si
deve meravigliare, dunque, se, nonostante i vari progetti di
riforma del codice di procedura civile, di cui viene dato
conto nella introduzione dedicata alle fonti normative, il
legislatore degli anni novanta sia stato incapace di attuare
una riforma globale del processo civile e sia intervenuto
solo con modifiche parziali, appunto con l’usuale metodo
della novellazione». Pertanto, prima di discutere intorno
all’abrogazione (per presunta incompatibilità con una
norma intervenuta successivamente) di una norma
processuale, volta a stabilire un chiaro principio di
inderogabilità della competenza territoriale, dovrebbe
preliminarmente procedersi ad un’integrale rivisitazione del
Codice di rito, quantomeno nella sua parte generale, volta
a disciplinare i presupposti per la proposizione dell’azione
nel processo.
16 Cfr. SEGRE’, Della competenza per territorio,
in Commentario del Codice di Procedura Civile diretto da
Allorio, I, 1973, p.288, Torino: l’Autore obietta che vi sono
diverse ragioni sottese alla voluntas legis concernente la
previsione delle singole ipotesi di inderogabilità dell’art. 28
cpc. Una di queste ragioni, (riferendosi alla competenza
territoriale prevista per i procedimenti cautelari) consiste
nel corretto funzionamento della Giustizia, attesa l’evidente
relazione funzionale intercorrente tra la fase cautelare e
quella di merito.
17 Cfr. LEVONI, op.cit., secondo cui, in linea generale,
la competenza territoriale può essere derogata, salvo che
nelle materie tassativamente indicate nell’art. 28 cpc.; Sulla
rilevabilità d’ufficio dell’incompetenza territoriale ex art. 28
cpc, cfr. R. VACCARELLA e G. VERDE, Codice di Procedura
Civile Commentato, a cura di R. Vaccarella, e G. Verde, Utet,
1997, libro IV, art. 669, ter, Cpc, p.282.
219
RomanaGIURISPRUDENZA CIVILE
temi
per effetto di un semplice accordo delle parti, se non nei soli casi espressamente previsti dalla legge, costituisce una chiara dimostrazione della particolare attenzione
che il legislatore ha volutamente inteso riservare all’individuazione dell’Ufficio
giudiziario dinanzi al quale poter proporre un procedimento cautelare ante causam,
attraverso la duplice specificazione enunciata nell’art. 28 Cpc18.
Conseguentemente, la disposizione pattizia con la quale le parti abbiano inteso
stipulare una deroga rispetto agli ordinari criteri volti ad individuare la competenza territoriale di un determinato Ufficio giudiziario, in presenza di una delle ipotesi considerate espressamente inderogabili dall’art. 28 cpc, appare chiaramente inidonea a
determinarne lo spostamento al sol fine di riservarlo a favore del giudice del merito19.
A ciò, aggiungasi, l’ulteriore precisazione che, nella fattispecie in esame, l’accordo derogativo della competenza territoriale non assumerebbe neppure un carattere tale da farne ritenere una sua validità esclusiva20, con esclusione degli altri fori
eventualmente concorrenti.
Quindi, riassumendo i termini della questione innanzi prospettata, una pronuncia riguardante un procedimento cautelare intrapreso ante causam, laddove proveniente da un giudice territorialmente incompetente ex art. 28 cpc, per essere stato
adito da una parte superando l’inderogabilità espressamente prevista dalla suddetta
norma, con riferimento a tale tipologia di controversie, potrebbe ritenersi ab origine
inficiata di nullità, dovendosi altresì interpretare correttamente il disposto di cui
all’art. 669 ter Cpc, nel senso che il giudice chiamato a decidere sulla domanda cautelare proposta ante causam, sarà competente anche per il successivo (ed eventuale)
giudizio di merito, trattandosi di una chiara ipotesi di competenza funzionale espressamente contemplata dall’attuale sistema processuale21 così come delineatosi all’indomani della riforma del 90, intesa quale criterio di collegamento fra il giudice della
18 cfr. nella materia considerata il richiamo al noto
principio: lex posterior generalis non derogat priori
speciali. Ed infatti, poiché il legislatore in sede di
approvazione della L.353/90 ha previsto espressamente
una deroga implicita al suddetto principio solo con
riferimento alle disposizioni procedimentali contenute
nel codice civile o nella legislazione speciale,
nell’eventualità in cui quest’ultime risultino
incompatibili con il suddetto impianto normativo
apprestato dalla novella, deve dedursi che con
riferimento alle norme del Codice di rito, il principio di
carattere generale innanzi descritto dovrebbe
riprendere pieno vigore.
19 cfr. MONTESANO e ARIETA, op.cit., p.125,
che «escludono l’operatività di qualsiasi effetto
attrattivo, con conseguente obbligo incondizionato,
quanto alla fase cautelare, di osservanza dei criteri
legali di competenza». Gli autori evidenziano il
permanente carattere eccezionale rivestito dalla deroga
alla competenza su accordo delle parti; detto carattere,
non consentirebbe di configurare un’abrogazione tacita
dell’art. 28 cpc; Contra, cfr. OLIVIERI, I provvedimenti
cautelari ed urgenti nel disegno di legge per
l’accelerazione dei tempi della Giustizia Civile, in Rivista
Diritto Processuale Civile, 1988; I provvedimenti
cautelari nel nuovo processo civile, in Rivista Diritto
Processuale Civile, 1991, p.669. In giurisprudenza, sulla
220
derogabilità pattizia della competenza territoriale
prevista dall’art. 28 cpc, con specifico riferimento ad un
procedimento cautelare, cfr. Tribunale di Lecco, 4
dicembre 2000, in Giurisprudenza Milanese, 2002, p.159:
«La deroga pattizia alla competenza territoriale spiega
la sua influenza anche sull'individuazione del giudice
designato alla trattazione del procedimento cautelare,
verificandosi un'attrazione di detta competenza "ante
causam" a favore del giudice al quale l'autonomia delle
parti ha ritenuto di attribuire in via esclusiva l’anzidetta
competenza»; cfr. altresì Tribunale di Ferrara, 21 ottobre
1997, in Giurisprudenza di Merito, 1999, p. 784 con
nota adesiva di E. ODORISIO: Competenza cautelare
ante causam e deroga convenzionale alla competenza
territoriale; Contra, cfr. Tribunale di Roma, 8 marzo
1996, in Giurisprudenza di Merito, 1999, p.784: «ai sensi
dell'art. 28 c.p.c. la competenza territoriale in caso di
ricorso cautelare "ante causam" non può subire
deroghe per effetto dell'accordo tra le parti».
20 «Il foro stabilito dalle parti, essendo di origine pattizia
e non legale, dà luogo ad una ipotesi di competenza
derogata, e non inderogabile, ed anche quando sia
stabilito come esclusivo, non impedisce, al pari di ogni
altro criterio determinativo della competenza, che
questa possa essere modificata», in termini, cfr.
Cassazione Civile, 30 luglio 1996, n.6882, in Giustizia
Civile, Mass., 1996, p.1080.
cautela ed il giudice del merito, ma giammai estendendone l’applicazione fino al
punto da mettere fuori gioco la disposizione speciale desumibile dall’art. 28 cpc.
Tuttavia, quid juris, in presenza di procedimenti cautelari ante causam introitati dinanzi ad Uffici giudiziari diversi, ciascuno dei quali ritenutosi competente,
nell’ipotesi in cui le stesse parti abbiano concordemente convenuto fra di loro l’indicazione di due o più fori territorialmente competenti in via esclusiva, al sol fine di
eludere l’inderogabilità sancita espressamente dall’art. 28 cpc?
E’ evidente come anche il caso in esame potrebbe costituire un’ulteriore valido spunto di riflessione per soppesare ancora, nella giusta misura, la tesi fin qui
sostenuta, concernente l’inderogabilità dei criteri ordinari che necessariamente
devono osservarsi nell’individuazione dell’Ufficio giudiziario territorialmente competente dinanzi al quale poter proporre un’istanza cautelare ante causam.
Tanto, naturalmente, non senza considerare altresì l’ulteriore rilievo in forza
del quale, un’interpretazione di segno contrario, o comunque limitata al solo criterio di collegamento esistente fra il giudice della cautela ed il giudice del merito strenuamente sostenuta da un parte della dottrina, tendente a mitigare, o meglio, ad
annullare l’inderogabilità sancita espressamente dall’art. 28 cpc - potrebbe risultare
incompatibile con una serena lettura dell’art. 25, della Carta costituzionale22, poiché,
in tal modo, si finirebbe con il rimettere ad una parte la prerogativa (di per sé di
21 Il termine «competenza funzionale» venne coniato in epoca
anteriore rispetto all’entrata in vigore dell’attuale Codice. Sul
punto, cfr. CHIOVENDA, Istituzioni di Diritto Processuale Civile,
II, 1935, p.172 e ss.; a parere di alcuni Autori, la competenza
territoriale inderogabile prevista dall’art. 28 Cpc costituirebbe
una sottospecie della competenza funzionale. Sul punto, cfr.
LIEBMAN, Manuale di diritto processuale civile, I, Milano, 1957,
p.114 e ss.; RASCIO, In tema di competenza funzionale, in
Rivista diritto processuale, 1993, p.143 e ss.; più in generale,
per una definizione della nozione di competenza funzionale,
cfr. CHIOVENDA, Istituzioni di diritto processuale civile, II,
Napoli, 1936, p.172 e ss.,; MANDRIOLI, Corso di diritto
processuale civile, I, Milano, 2000, p.298, secondo il cui parere
il termine «competenza funzionale» riguarderebbe i casi nei
quali l'inderogabilità della competenza conseguirebbe alla
funzione del giudice.
22 Cfr. le osservazioni svolte da R. VACCARELLA, in Pretura
Circondariale e questioni di competenza, nota a Pretura di
Castellammare di Stabia, 15 marzo 1991, (ord.), in
Giurisprudenza Italiana, I,1,2, 1991, p.481: «Quando la legge
impone all’utente della Giustizia di rivolgersi ad un certo
Ufficio giudiziario secondo un criterio da essa legge
predeterminato, la regola così posta non può definirsi
altrimenti che come di competenza, perché, una simile
ripartizione della cognizione degli affari civili e penali fra
diversi uffici giurisdizionali su base territoriale (a norma delle
leggi processuali civili e penali) non altro implica che una
attribuzione di competenza per territorio e perché, in tal
modo, il legislatore ordinario assolve all’obbligo di individuare
il giudice naturale di cui all’art. 25, Cost.; In breve, esiste una
nozione oggettiva di competenza che non è in potere del
legislatore ordinario di modificare od eludere: ai fini della
garanzia del giudice naturale, precostituito per legge, vale
quanto da decenni si è detto per la nozione di sentenza e per
la garanzia della ricorribilità per cassazione consacrata
nell’art.111, secondo comma, Cost.; come il legislatore
ordinario non può eludere quest’ultimo precetto costituzionale
imponendo al provvedimento una forma diversa dalla
sentenza, così non può eludere la garanzia del giudice
naturale rifiutandosi di utilizzare il termine competenza per
definire un criterio legale di predeterminazione del giudice
abilitato a conoscere di una controversia». Cfr. l’art. 25, della
Costituzione Italiana: «Nessuno può essere distolto dal giudice
naturale precostituito per legge». Ovviamente, la garanzia
posta dalla norma costituzionale, deve intendersi riferita alla
competenza dell’organo giudiziario nel suo complesso, ovvero,
considerato impersonalmente, prescindendo dalla persona
fisica del singolo giudice. Cfr. Cassazione Civile, 22 aprile 1992,
n.4839, in Giustizia Civile, Mass., 1992, fasc.4. Peraltro, è
opportuno precisare che con riferimento al principio sancito
dall’art. 25 della Costituzione, inizialmente, parte della
dottrina lo considerava applicabile al solo processo penale (così
ANDRIOLI, La precostituzione del giudice naturale, in Rivista
Diritto Penale, 1964, pag. 329). Successivamente, si è invece
acquisita la consapevolezza che detta garanzia andava
riconosciuta anche nel processo civile, intuendo la necessità di
pervenire ad una “serena” individuazione dell’ufficio
giudiziario adito, evitando che una parte possa scegliersi il
giudice dal quale farsi giudicare, attraverso una sapiente
attività di manipolazione dei criteri astratti di competenza
territoriale. L’Autore, proseguendo nella disamina, non manca
di osservare come «è certamente esatto che scopo del processo
civile è definire il merito della controversia, ma l’art. 25 Cost.
chiarisce che tale definizione non deve provenire da un giudice
qualsiasi,bensì da un giudice individuato in base a criteri
preesistenti rispetto alla controversia: la norma costituzionale,
cioè pone l’ancor più fondamentale, perché pregiudiziale,
principio per cui chi si veda dar ragione o torto, ha veramente
ragione o torto proprio e solo perché a dirlo è stato il giudice
naturale, e non un giudice qualsiasi». L’Autore proseguendo
nella disamina, pone in evidenza con la giusta dose di
sarcasmo che nella fattispecie concreta, «è appena il caso di
rilevare, poi, che se lo scopo di definire il merito della
controversia potesse far premio sulle questioni di rito, tanto
varrebbe abrogare il codice di procedura civile: a che pro
celebrare ad es. la questione dell’ammissibilità di una prova o
della regolarità della notificazione della citazione e così via?».
221
RomanaGIURISPRUDENZA CIVILE
temi
dubbia costituzionalità) costituita dal potere di scegliersi in via esclusiva l’Ufficio
giudiziario dinanzi al quale proporre una determinata istanza, peraltro, in una materia (cautelare) con riferimento alla quale, il legislatore, sembrerebbe aver enunciato un’esplicita riserva tendente ad escludere in tal senso, ogni facoltà dispositiva
rimessa all’arbitrio delle parti.
Inoltre, agendo in netta contraddizione rispetto allo spirito della riforma, con
specifico riferimento al fenomeno invalso in un ormai lontano passato, relativo al
c.d. forum shopping cautelare23, si correrebbe seriamente il rischio di ritornare
all’antico sistema, in uso in epoca anteriore rispetto all’entrata in vigore della
L.353/90, agevolando in misura significativa un’ingiustificata proliferazione di
azioni cautelari, almeno potenzialmente, proponibili - anche contestualmente dinanzi ad Uffici giudiziari diversi.
Anche per tali ragioni, sembra pertanto doversi dissentire dalla tesi finalizzata a privilegiare un’interpretazione eccessivamente restrittiva di parte della dottrina con riferimento all’inderogabilità prevista dall’art. 28 cpc, specialmente in
presenza di un’ipotesi in cui, per effetto di una clausola determinata convenzionalmente, le parti abbiano inteso derogare ai criteri ordinari determinativi della competenza territoriale in una delle materie in relazione alle quali sussiste, ex lege, un
palese vincolo di inderogabilità.
Del resto, anche a voler argomentare in senso opposto rispetto a quanto finora sostenuto, si perverrebbe ad una conclusione estrema ed inaccettabile, consistente nel prendere atto dell’esistenza di una forma di “automatismo” riguardo all’estensione degli effetti conseguenti all’avvenuta negoziazione di una clausola, ben al
di fuori rispetto al suo naturale ambito di applicazione, costituito dall’esclusivo riferimento all’instaurazione di un eventuale giudizio di merito, dal quale, in considerazione di quanto innanzi spiegato, deve opportunamente distinguersi il procedimento cautelare, sia dal punto di vista ontologico, sia per struttura e finalità.
Proprio sotto tale ultimo aspetto, appare quindi evidente come spostare la
competenza territoriale inderogabile contemplata dall’art. 28 Cpc, per quanto attiene alla materia cautelare, al sol fine di attribuirla al giudice del merito, argomentando sulla base di una presunta vis actrattiva esercitata dall’art. 669 ter Cpc, comporterebbe un grave contrasto normativo interno all’Ordinamento, difficilmente
sanabile, ove esasperato fino a giungere al suo limite estremo, costituito dalla propria intima contraddizione.
3. Un’ultima annotazione si rende opportuna, con riferimento all’individuazione del giudice competente a determinare i necessari chiarimenti al fine di superare le difficoltà improvvise sorte nel corso dell’esecuzione della misura cautelare
già disposta.
Come può evincersi dal processo verbale redatto dall’Ufficiale Giudiziario,
23 cfr. C. CONSOLO, F. P. LUISO, B. SASSANI, Commentario
alla riforma del Processo Civile, 1996, Giuffrè, art. 669, ter,
Cpc, p.584, i quali hanno osservato che i precedenti criteri
per materia, oggi venuti meno, legati al luogo di esecuzione
della misura cautelare, od al luogo di verificazione
dell’evento dannoso, «avevano acceso seri dubbi applicativi
222
ed agevolato il fenomeno del forum shopping cautelare che
la riforma giustamente mira a prevenire». In realtà, con la
fattispecie in esame, costituente tutt’altro che un semplice
«caso limite», sembrano riproporsi gli stessi interrogativi che
si ritenevano ormai risolti, a seguito dell’entrata in vigore
della L.353/1990.
la soluzione prescelta da quest’ultimo appare degna del miglior Pilato, avendo
optato per la rimessione degli atti al Giudice dell’Esecuzione del Tribunale nel cui
circondario è localizzata la res oggetto dell’attuazione delle contrapposte misure
cautelari24.
Tuttavia, l’anzidetta “opzione” appare assolutamente non condivisibile,
muovendo dalla chiara constatazione che ogni questione relativa all’eseguibilità di
un determinato provvedimento cautelare compete esclusivamente allo stesso giudice designato alla trattazione del procedimento cautelare, che pure ebbe a concederlo25, ragion per cui, non potrebbe mai pervenirsi ad un’esclusione della loro competenza, riservandola a favore del Giudice dell’Esecuzione, per quanto formante
oggetto delle disposizioni ad hoc concernenti l’attuazione della misura cautelare
precedentemente disposta.
Tanto, a meno di non voler ammettere che l’attuazione delle misure cautelari di cui trattasi costituisca un’attività rientrante nella disciplina del processo d’esecuzione26, contraddicendosi in tal modo la ratio sottesa alla L.353/90.
Pertanto, il Pubblico Ufficiale investito dell’attuazione dei provvedimenti
24 cfr. il processo verbale redatto dall’Ufficiale Giudiziario:
«….Io sottoscritto Ufficiale Giudiziario procedente, visto il
rifiuto della YYY Srl di consegnare alla XXX Spa l’agenzia e
tutto il materiale agenziale, comprese polizze e stampati di
polizze ivi contenuti, rimetto gli atti al Giudice
dell’Esecuzione del Tribunale di Bari, per le determinazioni
del caso, e che copia del presente verbale venga inoltrato
alla Cancelleria del Giudice del Tribunale di Roma per
l’opportuna conoscenza di quanto sopra». Pertanto, è
lapalissiana la svista nella quale è incorso il pubblico
ufficiale deputato all’attuazione dei contrastanti
provvedimenti cautelari, atteso che, anziché rimettere gli
atti al Giudice dell’Esecuzione del Tribunale nel cui
circondario deve eseguirsi la cautela, avrebbe invece dovuto
rimettere ogni decisione direttamente ai Giudici che ebbero
a pronunciarsi sui rispettivi ricorsi cautelari proposti dalle
parti.
25 cfr. Tribunale di Bari,(ord.), 11.11.2004, in Giurisprudenza
Locale, banca dati on-line, reperibile all’indirizzo internet:
http.www.giurisprudenzabarese.it..
26 cfr. Cassazione Civile, 12 dicembre 2003, n.19101,
in Giustizia Civile, Mass. 2003, f.12, la quale recepisce un
consolidato orientamento interpretativo, distinguendo
all'interno dei provvedimenti cautelari quelli aventi natura
anticipatoria rispetto alla tutela propriamente di merito, la
cui attuazione, tendendo al soddisfacimento di un credito,
deve seguire le forme proprie del pignoramento, e, quindi,
avvalersi dell'intero apparato del processo esecutivo, da
quelli aventi funzione non anticipatoria, ma bensì
conservativa, che si attua mercè la costituzione di un
vincolo di indisponibilità, essendo preordinati
all'accertamento del diritto, che avrà luogo nel successivo
giudizio di merito. Sotto tale profilo, già prima
dell'introduzione del nuovo procedimento cautelare
uniforme, la giurisprudenza aveva affermato che
l'esecuzione di quest’ultima categoria di misure cautelari,
pur avvenendo nelle forme previste per il pignoramento,
non comporta la trasformazione dei provvedimenti stessi in
atti di esecuzione forzata, nè potrebbe ritenersi sufficiente
ad assoggettarli alla specifica competenza del giudice
dell'esecuzione. Conseguentemente la competenza a
decidere su ogni questione in merito all’attuazione del
provvedimento cautelare al giudice che ebbe ad emetterlo
nella fase ante causam, ovvero, investito del giudizio di
merito, e non al giudice dell'esecuzione. La fase esecutiva
potrà eventualmente innestarsi sul vincolo di indisponibilità
solo in un secondo tempo, una volta accertata nel giudizio
di merito l'esistenza del diritto. A sostegno della tesi
propensa a ritenere un limitato richiamo alle norme
regolatrici del processo esecutivo, basterebbe rinviare
all’art. 669, duodecies, Cpc, il quale, fa salve le norme sui
sequestri e rimanda a quelle sul pignoramento solo per i
provvedimenti anticipatori aventi ad oggetto somme di
denaro; cfr. altresì Cassazione Civile, 23 luglio 1996, n. 6603,
in Giustizia Civile, Mass. 1996, p.1030, la quale, ha ritenuto
che il soggetto beneficiario di un provvedimento cautelare
può alternativamente servirsi, per l'esecuzione, della forma
coattiva diretta o della normale procedura di esecuzione, in
quest’ultimo caso, notificando alla controparte il titolo
esecutivo ed il precetto; con la conseguenza che, nella
prima ipotesi, il giudice competente per l'esecuzione è lo
stesso che ebbe ad adottare il provvedimento cautelare,
ovvero quello di merito, se è già pendente il relativo
giudizio, mentre, nella seconda eventualità, la competenza
spetterà al giudice dell'esecuzione, dovendo applicarsi le
regole ordinarie. Tuttavia, siffatto orientamento deve essere
armonizzato con la riforma del rito cautelare uniforme
attuato con L. 26.11.1990, n.353. L’art. 669, duodecies, Cpc,
dispone infatti che l'attuazione delle misure cautelari aventi
ad oggetto obblighi «di fare» o di «non fare» avviene sotto
il diretto controllo del giudice che ha emanato il
provvedimento cautelare, il quale ne determina anche le
modalità di attuazione e, ove sorgano difficoltà o
contestazioni, dà con ordinanza i provvedimenti ritenuti
opportuni, sentite le parti. L’opzione del legislatore
sembrerebbe deporre quindi nel senso dell'attuazione
diretta del provvedimento cautelare, avente ad oggetto sia
obbligazioni «di fare» sia «di non fare», rispetto alle quali,
sovrintende normalmente in via immediata e diretta, il
medesimo giudice del procedimento cautelare ante causam,
ovvero, il giudice investito del merito, ove quest’ultimo
risulti già pendente. Sull’attuazione delle misure cautelari,
cfr. G. TREGLIA, L’attuazione dei provvedimenti in TARZIA, Il
Nuovo Processo cautelare, Padova, 1993, pp.401-415.
223
cautelari, deve rimettere gli atti non al giudice dell’esecuzione del luogo ove è posta
la res oggetto della tutela cautelare, ma bensì, argomentando ex art. 669 duodecies
Cpc, al medesimo Ufficio Giudiziario che ebbe ad emettere in sede cautelare il singolo provvedimento27.
Avv. Vito AMENDOLAGINE
27 cfr. Tribunale di Bari, Giudice Simone, (ord.) 11.11.2004, cit.
alla nota 23, con la quale lo stesso giudice
precedentemente adito nel procedimento cautelare ante
causam, dopo aver revocato il proprio decreto emesso
inaudita altera parte, ha disposto la restituzione degli atti
224
all’Ufficiale Giudiziario in sede, precisando che con
riferimento ai provvedimenti d’urgenza, la valutazione di
ogni questione attinente al merito «compete ai giudici che
hanno emesso le ordinanze cautelari e non anche al giudice
dell’esecuzione del Tribunale di Bari».
RomanaGIURISPRUDENZA CIVILE
temi
I
TRIBUNALE DI ROMA – SEZIONE LAVORO –
SENTENZA 29 LUGLIO 2004 N.14787 – EST. TARABORRELLI –
PP C/ R.F.I. RETE FERROVIARIA ITALIANA SPA
Lavoro (Rapporto di) – mobbing – elementi fondanti –
atti vessatori compiuti da altri dipendenti
e per un breve lasso di tempo - insussistenza.
La sussistenza del mobbing dipende da determinati e precisi elementi costitutivi
quali la condotta datoriale vessatoria, il dolo in capo al datore di lavoro e la
ripetizione nel tempo della condotta. E’ esclusa di conseguenza, ogni forma di
responsabilità, anche oggettiva, del datore di lavoro per atti vessatori compiuti da
alcuni dipendenti nei confronti di altri e per brevissimi lassi di tempo (1)
II
TRIBUNALE DI ROMA – SEZIONE LAVORO –
SENTENZA 17 MAGGIO 2004 N.10039 – EST. MARROCCO –
VL C/ V SPA
Lavoro (Rapporto di) – dequalificazione e assegnazione di condizioni di
lavoro disagiate - mobbing – sussistenza
Lavoro (Rapporto di) – mobbing - determinazione automatica del danno –
impossibilità – determinazione presuntiva – ammissibilità – quantificazione
del danno – criteri.
La dequalificazione e l’assegnazione di condizioni di lavoro disagiate accompagnate
da un animus nocendi in capo al datore di lavoro integrano, se ripetute nel tempo,
una condotta persecutoria che integra gli estremi del mobbing (2).
Nella quantificazione del danno da mobbing non è possibile il ricorso a
meccanismi risarcitori automatici mentre vengono ritenuti “esportabili” alla
fattispecie del mobbing i criteri giurisprudenziali elaborati in tema di danno da
dequalificazione, con ammissibilità di una determinazione presuntiva del danno (3)
I
La sentenza così motiva:
(omissis)
Svolgimento del processo e motivi del decidere
on ricorso ex art.414 cpc depositato il 2.8.2001 PP adiva il Giudice di Roma in
funzione di giudice del lavoro esponendo di essere dipendente dal 1971 delle
FERROVIE dello STATO spa e di essere stato oggetto di " mobbing" attraverso
comportamenti datoriali che descriveva ai punti in fatto del ricorso; chiedeva quindi
C
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RomanaGIURISPRUDENZA CIVILE
temi
richiamata la elaborazione giurisprudenziale e dottrinale in materia la condanna
della convenuta a pagare lire 200.000.000 per risarcimento danni a tale titolo oltre
accessori di legge; spese conseguenti.
Esponeva i motivi di fatto e di diritto a sostegno della domanda.
Concludeva come in calce al ricorso introduttivo; conclusioni già riportate.
Si costituiva la convenuta contestando la domanda attrice e chiedendone il
rigetto in quanto infondata in fatto ed in diritto.
La causa apparendo di natura documentale e giuridica veniva posta in decisione senza istruttoria alcuna.
Infine, all'odierna udienza la controversia veniva discussa e decisa a mezzo
dispositivo allegato.
La domanda non può accogliersi.
La giurisprudenza sulla scorta della dottrina sociologica, ed ancor prima di
quella comportamentale animale, cfr. Tribunale Milano, 22.8.2002, Zazzi vs. comune di Milano, ha cercato di individuare le caratteristiche del fenomeno mobbing, che
in quanto tale a parere del giudicante non è altro che elaborazione alla moda di fatti
e comportamenti sempre esistiti in ambito lavorativo (come le cronache, forse non
giudiziarie ma certamente storiche, sindacali e ociali possono testimoniare, vedi ad
es. la situazione della FIAT nel dopoguerra o le prassi esistenti nell'ottocento industriale), comportamenti che, secondo le forme storiche contingenti, sono stati oggetto di tutela anche giudiziaria, quando possibile e riconosciuta.
In tempi più recenti vedasi la tutela nei confronti di demansionamenti, sanzioni disciplinari, trasferimenti illegittimi; anche molestie sessuali et similia; con
anche ricadute risarcitorie; per cui forse nulla di nuovo sotto il sole.
Va comunque apprezzato lo sforzo di configurare un ambito precipuo, tipico,
del fenomeno, fondato secondo i più avvertiti nella sistematicità, continuità, durata
nel tempo, andamento progressivo, aggressione di natura psicologica; cfr. la sentenza citata che infatti sottolinea la necessità di dare significatività oggettiva a comportamenti “enucleandoli dalla indeterminatezza che assumono all'interno dei rapporto interpersonali” riferiti cioè a rapporti che si hanno tra più persone in ambito
ristretto, nello specifico lavorativo, a rapporti sociali in senso lato.
Tant'è che la stessa sentenza citata, del tutto condivisibile, ricorda che anche
un atto tipico illecito, ad es. un demansionamento o un trasferimento, non implicano di per sé una civile responsabilità per mobbing del datore di lavoro e per malattia dalla quale il lavoratore risulti affetto, ex art. 32 Costituzione o 2087 cc.; ancor
di più per gli atti ccdd atipici, quali aggressioni verbali o controlli reiterati ed invasivi. Sulla stessa linea cfr. sempre Trib. Milano 30.9.2002, Spataro vs. R. Bosh Spa,
in OGL, 3, 2002, 533 che dà rilievo all'intento emulativo, alla frequenza degli atti e
ad un determinato periodo temporale.
Facendosi anche notare dal giudicante come vi debba esser la presenza di un
altro requisito per la sussistenza di responsabilità per danno psichico da mobbing; il
dolo, ovvero l’intenzionalità delle condotte, la loro riferibilità al datore di lavoro,
anche a mezzo la sua acquiescenza o omissione, non essendo pensabile che comportamento di colleghi o dipendenti, anche atipici, soprattutto questi ultimi, debba-
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no esser fonte di illecito senza la partecipazione dolosa, cosciente e volontaria del
datore di lavoro, nelle sue varie forme;. non può certo esservi mobbing per lo scherzo che viene fatto nei bagni o la vessazione di altro genere quali espressioni di comportamenti sociali del tempo, vari e variabili, avulsi da conoscenza e volontà del
datore o preposto suo; a meno di non voler introdurre una sorta di responsabilità
oggettiva del datore di lavoro, da grande fratello orwelliano, non televisivo, che
dovrebbe rimediare alle storture della vita a mezzo via giudizi aria pure; imponendo d’ufficio l’amore e la concordia nei rapporti sociali e lavorativi in specifico abolendo, o sanzionando a fini patrimoniali, oggi rilevantissimi per tutti, i vizi e peccati capitali e veniali da cui da secoli è afflitto il genere umano.
Tutto ciò premesso, allora non vi è dubbio che gli atti di cui alla doglianza del
ricorrente non configurano mobbing, prima facie ed anche presi per buoni, ovvero
veri ed accaduti, come egli ci dice.
Infatti, non si comprende cosa abbiano in relazione con un disagio psichico
del ricorrente una serie di persecuzioni, epiteti e denigrazioni commessi da un preposto illo tempore; per essi il lavoratore doveva rivolgersi al soggetto in questione,
non dopo 10 anni e più alla datrice.
Tant’è che dice pure di averlo fatto, presentando querela nei suoi confronti ed
aggiunge di essere stato egli trasferito presso altro reparto del medesimo ufficio
facendo intendere che i superiori gli avevano dato ragione in sostanza, addirittura
con compiti ulteriori di maggiore responsabilità.
Per cui da un episodio in cui veniva qualificato come autista, erroneamente,
dal superiore citato il ricorrente ne derivò un beneficio.
Sul secondo episodio.
Inoltre un determinato inquadramento gli è stato riconosciuto con sentenza
insieme ad altri colleghi nel lontano 1994, a distanza di anni dal precedente, di natura personale d individuale; è evidente che non vi è mobbing ad personam, ma controversia di gruppo; a meno di non voler il nuovo introdurre il concetto che le vertenze sindacali e giudiziarie pure seriali configurano anch’esse mobbing … di gruppo. Idem per un episodio con altro dirigente, nominato, nel 1995, del tutto avulso dal
primo e che si è concluso con le scuse del citato e pagamento di somma risarcitoria
a titolo di donazione a ente benefico, almeno a dire del ricorrente.
Del tutto impensabile un concorso dell’azienda a distanza di 5 anni e a mezzo
di diversi soggetti. Stesso discorso per pretesa dequalificazione per mesi nel 1994 e
post intervento dall’aprile 1999 al novembre 1999, oppure per domanda di partecipazione a corso respinta nel 1996, di cui non si dice perché egli ne avesse diritto ex
norma di legge o contrattuale, e mancato pagamento di arretrati per effetto di erroneo computo di trattamento di malattia, pagatogli solo nel gennaio 2001; fatti che
sono comuni alla gestione delle ferrovie e non imputabili a dolo specifico nei confronti del ricorrente, basti solo consultare i ruoli delle sezioni lavoro dei Tribunali
d’Italia per rendersene conto. Vi è quindi cesura di anni tra i vari comportamenti,
cesura di soggetti, cesura di fatti, collettivi ed individuali, cesura di soggetti coinvolti, mancanza di intenzionalità e coordinamento per essi, ma solo reiterazione di
atti di gestione interni ad un grande complesso che hanno interessato decine di
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RomanaGIURISPRUDENZA CIVILE
temi
migliaia di lavoratori dell’ente; manca solo il mancato immediato e non ritardato
pagamento della buonuscita all’atto del pensionamento ed avremmo un riassunto di
tutti i motivi di contenzioso tra RFI e collegati enti e lavoratori. Da ciò la conclusione della totale infondatezza del ricorso e delle domande avanzate che paiono un
collages di episodi del tutto singolari ad un certo punto della vita lavorativa riuniti
per fare massa ai fini di sostenere tesi di un procedimento di persecuzione al ricorrente.
Spese ex criterio della soccombenza e liquidate in dispositivo.
(omissis)
II
La sentenza così motiva
Svolgimento del processo
Con ricorso depositato il 29/12/99 L.V., dipendente della Società spa dal
18.10.'71 da ultimo con inquadramento nel 2° livello del ccnl turismo e mansioni di
segretaria di direzione e responsabile vendite dirette, in part-time orizzontale dal
maggio ‘91, premesso che il Tribunale del lavoro di Roma con provvedimento di
urgenza reso il 7.12.'99 aveva sospeso l'efficacia del trasferta nella sede di
Coccoloba-Carabi, introduceva il relativa giudizio di merito nel termine stabilito dal
giudice; a sostegno della domanda adduceva che parte datoriale non aveva titolo per
allontanarla dall'abituale sede lavorativa di Roma e svolgeva in tal senso articolati
motivi in diritto; allegava quindi che la condotta datoriale doveva considerarsi
espressione di mobbing e che l'illegittimo ordine di trasferta le aveva provocato un
danno all'immagine e alla personalità, danno di cui chiedeva il ristoro; concludeva
pertanto chiedendo che venisse accertato e dichiarato che il provvedimento di trasferta impugnato era illegittimo, invalido, arbitrario, punitivo e discriminante, nonché destituito di ogni fondamento giuridico e fattuale; per l'effetto annullare o rendere nullo detto trasferimento; per l'effetto condannare la società al risarcimento del
danno contrattuale, extracontrattuale, morale, all'immagine e alla professionalità,
nella misura di £ 200.000.000 o in quella diversa di giustizia; in ogni caso vinte le
spese di lite, anche della fase cautelare.
Con successivo ricorso depositato il 24.3. '00 la ricorrente esponeva che alla
fine di novembre '98 parte datoriale aveva deliberato il trasferimento della sede di
Roma da Via ….. a Piazza , ma che essa, pur avendo predisposto il trasloco del proprio ufficio della sede originaria, era stata lasciata nella sede di via …., unitamente
ad altri quattordici colleghi, ove era stata costretta a vivere in una situazione di assoluto degrado e di emarginazione rispetto ai colleghi trasferiti; rappresentava che nel
gennaio '99 era stata convocata dal direttore del personale, il quale le aveva comunicato che nella nuova sede non vi era posto per lei, offrendole un incentivo all'esodo; che a seguito della verifica della presenza di ratti nella sede di Via M., alla fine
di gennaio '99 era stata trasferita, con altri colleghi, in alcuni locali in Via M. ove era
rimasta fino alla metà di febbraio '99, quanto veniva trasferita in Piazza …… ; che,
ripropostale inutilmente l'offerta di incentivo all’esodo, era stata tenuta in stato di
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completa inattività fin dall'inizio di febbraio ‘99 e, malgrado la variazione dei locali cui era stata allocata, nelle medesime condizioni di igiene e sicurezza insufficienti; affermava che, a cagione della situazione descritta aveva manifestato uno stato
ansioso depressivo e che erano rimasti vani i tentativi, operati anche attraverso il
proprio legale, di riottenere l'adibizione alle mansioni di sua pertinenza; affermava
che parte datoriale aveva manifestato solo l'intenzione di pagarle il menzionato
incentivo all'esodo, negando tuttavia la sussistenza di qualsiasi possibilità di occuparla nuovamente; che quindi, il 13.11.'99 aveva ricevuto la lettera, impugnata ex
art. 700 cpc, con cui le era stato comunicato il suo trasferimento nel villaggio di
Coccoloba; affermava che l'intera condotta della convenuta integrava gli estremi del
mobbing, con lesione del suo diritto all'immagine e alla professionalità e innegabile lesione del bagaglio professionale maturato; svolte articolate ragioni in diritto a
sostegno della domanda, concludeva chiedendo che venisse accertata la responsabilità della società per averla lasciata e lasciandola in condizioni di forzata inattività e
condannare conseguentemente la società a riassegnarle le mansioni tipiche e confacenti al livello professionale rivestito e riconosciuto; accertare e dichiarare la
responsabilità della convenuta per averla lasciata e lasciandola nelle dette condizioni con conseguente condanna della stessa al risarcimento del danno liquidato in via
equitativa in misura pari a una mensilità dell'ultima retribuzione per ogni mese in cui
si è protratta e si protrarrà la dequalificazione, o in quella diversa di giustizia; accertare e dichiarare la Società responsabile per il danno biologico sofferto e per l'effetto condannare la stessa al risarcimento del danno, sino ad oggi, sofferto nella misura di £. 1.000.000.000 o in quella diversa di giustizia, con ogni miglior riserva circa
gli aggravamenti; il tutto vinte le spese di lite.
La Società si costituiva in ciascun giudizio e resisteva alle domande, chiedendone il rigetto col favore delle spese di procedimento.
Specificamente, rappresentava che a seguito della operata ristrutturazione
aziendale aveva constatato la impossibilità di occupare presso la sede di Roma la V.
in mansioni equivalenti a quelle da ultimo svolte e, al fine di evitarne il licenziamento, ne aveva disposto il trasferimento presso il villaggio di Coccoloba ai Carabi;
rappresentava poi che la ricorrente, non appena aveva ricevuto la lettera con
cui si dava la disposizione impugnata, si era assentata per malattia e che quindi il
provvedimento in parola era stato revocato con assegnazione della dipendente a
nuove mansioni presso la sede di Roma; in particolare chiariva che a far data dal
21.2.00 la V. era stata adibita alle attività di supporto relative alla immobilizzazioni
della società e che dal settembre 2000 era stata adibita alla segreteria immobili multiproprietà della Società, con il compito di registrare i dati degli assegni emessi dai
multiproprietari per le spese di gestione degli immobili; riconosceva quindi che
effettivamente vi era stata una sottoutilizzazione e comunque una utilizzazione non
ottimale della ricorrente fino al febbraio 2000, imputando tuttavia tale condizione
alle contingenze derivanti dal descritto riassetto aziendale; negava invece la sussistenza di quelle condizioni ambientali dannose descritte in ricorso; contestava poi la
configurabilità dell'an del danno da demansionamento, stante la mancata allegazione delle mansioni di fatto svolte prima della stasi descritta e comunque la spettanza
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RomanaGIURISPRUDENZA CIVILE
temi
del quantum preteso.
Le due cause venivano quindi riunite; per evidente connessione oggettiva e
soggettiva, e quindi istruite con la prova testimoniale articolata dalle parti e con ctu
medico legale.
All'udienza odierna la causa era quindi discussa e decisa come da separato
dispositivo, previa concessione di un termine per il deposito di note.
Motivi della decisione
Il ricorso è fondato nei limiti più avanti precisati.
Va immediatamente dichiarata la cessazione della materia del contendere
quanto alla domanda di annullamento dell'ordine di trasferimento (rectius, trasferta)
impartito dalla convenuta, avendo ammesso la società in memoria di costituzione di
aver revocato detto ordine.
Poiché in detto atto non è stata formulata alcuna riserva né vi è stato alcun
riferimento alla sola necessità di ottemperare al provvedimento cautelare, va riconosciuta a tale dichiarazione effetto univocamente confessorio di ripristino integrale e incondizionato dello status quo ante all'intervento del giudice della cautela; la
stessa formulazione solo in via subordinata di una domanda di accertamento della
legittimità dell'ordine in parola, integra un comportamento della parte di segno
unico che, sotto il profilo esegetico, contribuisce in modo determinante a formulare
la soluzione prospettata.
Del resto, l'incondivisibilità della tesi sostenuta in merito da parte ricorrente
nelle note difensive, ovvero che tale revoca era stata determinata solo dalla necessità per la Società di adeguarsi a quanto disposto con l'ordinanza ex art. 700 cpc,
emerge dal fatto che il Giudice della cautela aveva ordinato alla convenuta di mantenere in via provvisoria la ricorrente nella sede di Roma, in tal modo sospendendo
l'efficacia del provvedimento organizzativo censurato; dunque, laddove la Società
avesse voluto meramente adeguarsi a quanto disposto in sede cautelare, ben avrebbe potuto soltanto limitarsi a prendere atto del dictum in questione, lasciando silente il provvedimento de quo fino alla definitiva pronuncia dell'Ufficio adito; al contrario, la concreta modifica dell'assetto aziendale sulla scorta delle pretese della
lavoratrice è, con ogni evidenza, manifestazione di una volontà di voler comporre la
controversia in merito eliminando definitivamente la causa che l'aveva originata.
Quanto fin qui esposto non esclude comunque che l'Ufficio sarà in ogni caso
tenuto a verificare la legittimità dell'ordine di, trasferimento impartito, posto. che
tale condotta datoriale è stata introdotta in giudizio anche come espressione del
comportamento mobbizzante di parte datoriale, al fine di ottenere il ristoro del
lamentato conseguente danno.
Dunque, va resa declaratoria di cessazione della materia del contendere quanto alle conclusioni di cui al punto 1 e 2 del ricorso RG 113829/99.
1 La domanda di risarcimento del danno lamentato dalla V. in ragione di tale
provvedimento datoriale verrà invece esaminata unitamente alla questione del risarcimento del danno per demansionamento e mobbing, sia perché necessita, in diritto,
di una premessa comune alle altre istanze elencate sia perché, in fatto, come si è
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visto, la disposizione organizzativa datoriale in parola ha -asseritamente- integrato
una modalità di vessazione della lavoratrice.
Introducendo quindi la riflessione sulla domanda introdotta dalla ricorrente
con il secondo ricorso in esame, va puntualizzato che il diritto al risarcimento del
danno azionato in giudizio è stato fondato dalla Ventura sulla sussistenza di un comportamento lesivo di parte datoriale, integrato dalla dequalificazione professionale,
dal trasferimento illegittimo e discriminatorio patito nonché dall'emarginazione subita nell'ambiente di lavoro, complessivamente costituenti mobbing; l'allegata dequalificazione è stata peraltro introdotta in giudizio anche come fonte di un diritto autonomo al risarcimento e, ancor prima, come fonte del diritto alla reintegrazione nelle
mansioni di pertinenza. Così delimitato il quadro della controversia, la verifica della
fondatezza della domanda della ricorrente verrà operata esaminando dapprima separatamente le due componenti autonome della fattispecie di danno in questione,
anche al fine di verificare, se le ulteriori posizioni soggettive dedotte in giudizio
meritino la tutela richiesta, e riflettendo poi sulla complessa fattispecie di mobbing.
Ciò posto, con riguardo alla lamentata patita dequalificazione, giova premettere che il principio fondamentale in materia è posto dall'art. 2103 cc, in forza del
quale il lavoratore nel corso del rapporto di lavoro ha diritto ad essere adibito alle
stesse mansioni per le quali è stato assunto ovvero alle mansioni equivalenti alle
ultime di fatto svolte.
Va peraltro anche osservato che questo diritto, rafforzato dalla previsione di
nullità di eventuali patti contrari (cfr. art. 2103, U.c., c.c.), deve essere visto alla luce
della stessa normativa che riconosce al datore di lavoro il c.d. ius variandi, cioè la
possibilità di adibire il lavoratore a mansioni diverse in forza del suo riconosciuto
potere organizzativo all'interno dell'impresa: quindi il legislatore, prevedendo ex art.
2113 cc la triplice alternativa (o mansioni di assunzione o mansioni superiori o
mansioni equivalenti alle ultime svolte), ha assicurato una certa flessibilità nel corso
del rapporto e non ha escluso a priori il potere datoriale di gestione e di organizzazione del lavoro, ma ha fissato precisi limiti per l'esercizio di tale potere di variazione, al fine di tutelare e valorizzare la professionalità acquisita del lavoratore, cui
non possono essere assegnate, neppure solo temporaneamente o in aggiunta a quelle proprie della qualifica rivestita, mansioni professionalmente inferiori a quelle che,
secondo le previsioni del contratto collettivo, corrispondono alla categoria da lui
conseguita all'atto dell'assunzione ovvero nel corso del rapporto di lavoro (cfr. Cass.
6124/97; Cass. 3623/95).
La necessità di un contemperamento delle diverse posizioni e degli apparentemente contrapposti diritti è maggiormente evidente in relazione al concetto di
equivalenza delle nuove mansioni, rispetto alle precedenti di fatto da ultimo svolte.
Soffermandoci pertanto su quest'ultimo aspetto, si deve rilevare che la giurisprudenza sia di legittimità che di merito, da cui questo Giudice non ha motivo di
discostarsi, è pacifica nel ritenere che si può parlare di legittimo esercizio dello ius
variandi da parte del datore di lavoro e di "equivalenza" delle nuove mansioni rispetto a quelle in precedenza svolte solo nel caso in cui le nuove mansioni consentano
l'utilizzo ed il conseguente perfezionamento del corredo di nozioni, esperienza e
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RomanaGIURISPRUDENZA CIVILE
temi
perizia acquisito dal lavoratore nella fase pregressa del rapporto, sicchè non è configurabile tale equivalenza nel caso in cui le nuove mansioni comportino uno stravolgimento, un depauperamento, una obsolescenza del patrimonio professionale del
lavoratore.
Pertanto solo nel caso in cui si accerti la sussistenza di tale dequalificazione
professionale, la cui allegazione e prova incombe sul lavoratore (cfr. Cass. 7641/97),
è possibile ritenere illegittimo l'esercizio datoriale dello ius yariandi, illegittimità
quindi che non ricorre automaticamente per il solo fatto che le nuove mansioni siano
semplicemente diverse da quelle espletate da ultimo (cfr. Cass. 5162/97).
Fatta questa ampia ricostruzione in diritto, appare allora di tutta evidenza la
fondatezza della pretesa di parte attrice. Ed infatti, la ricorrente ha allegato che, all'inizio della vicenda sottoposta al vaglio giudiziale, era occupata in mansioni di segretaria di direzione e responsabile vendite dirette, mentre successivamente al dicembre '98 non le era stata più attribuita alcuna mansione.
Parte convenuta ha dichiarato in memoria che dal febbraio '00 la V. era stata
occupata in qualità di assistente alla attività di supporto all'informatizzazione dei dati
relativi alle immobilizzazioni della società, mentre dal settembre '00 era stata adibita presso la segreteria amministrazione immobili multiproprietà della V. Resort, con
il compito di registrare i dati degli assegni emessi dai multiproprietari per le spese di
gestione degli immobili; la società ha poi riconosciuto, sia in memoria che nelle note
difensive, che effettivamente la lavoratrice per un periodo era stata sotto utilizzata e
comunque non utilizzata ottimamente, giustificando il tutto alla luce della situazione
contingente creatasi con la disposta riorganizzazione aziendale; la convenuta, infine,
ha contestato la possibilità di dimostrazione dell'an della domanda in esame in considerazione della mancata specifica allegazione della tipologia delle mansioni in fatto
svolte dalla V. e dunque dalla conseguente impossibilità di disporre di un valido parametro per operare il giudizio di equivalenza sopra descritto.
Tanto premesso, osserva subito questo Giudice che innegabilmente nel ricorso non sono state descritte in modo puntuale le mansioni di fatto attribuite alla ricorrente prima del lamentato demansionamento né è stato esplicitamente indicato il
contenuto del profilo professionale di appartenenza.
Tuttavia nel caso di specie tale omissione non svolge effetti preclusivi all'accoglimento della domanda.
Ed infatti, in primo luogo il livello di professionalità insito nella mansioni che
la ricorrente assume aver svolto prima del demansionamento, mansioni peraltro non
contestate ex adverso e dunque processualmente pacifiche in giudizio (Cass.
775/03) è comprensibilmente anche solo sulla scorta delle norme di comunque
esperienza: invero, il i riferimento al concetto di responsabilità - la ricorrente era
infatti responsabile vendite dirette - implica comunemente una situazione di spiccata autonomia decisionale e di preposizione ad un progetto, ufficio o servizio che,
traslata nel caso di specie, porta a inferire che la Ventura, nella qualità indicata, svolgeva indubitabilmente mansioni superiori di concetto, implicanti una particolare
competenza professionale, operando autonomamente all'interno di difettive generali, quanto meno con funzioni di coordinamento di un ufficio.
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In secondo luogo, vi è da dire che per un periodo la ricorrente ha addotto l'assoluta inattività, sicchè il giudizio di equivalenza non sarebbe logicamente operabile.
In terzo luogo, vi è da dire che parte datoriale, onerata in tal senso ex art. 2697
cc, ha descritto alcune mansioni attribuite alla Ventura dal febbraio '00, sicchè, dandole per ammesse, resta di pertinenza di questo Ufficio verificarne la congruità con
quelle originarie, il cui contenuto è stato comunque individuato. Ciò posto, si rileva
che la prova testimoniale ha univocamente confermato la sussistenza della lamentata inattività della ricorrente per il periodo dedotto in giudizio.
Quanto al periodo successivo al febbraio '00, si rileva che la stessa descrizione delle mansioni attribuite alla V. operata in memoria è tale da negarne il carattere
di equivalenza con quelle originarie: l'inserimento di dati è infatti con ogni evidenza un 'attività meramente esecutiva e il fatto che gli importi degli assegni fossero
cospicui non modifica certo la sostanza delle cose, ampliando cioè il carico di
responsabilità gravante sulla V. e il tipo di competenza necessario; infatti, qualunque fosse l'entità degli assegni, alla lavoratrice non era chiesto nulla di più che operare con attenzione nel riscrivere tali dati ai fini della registrazione, tanto più che
qualunque attività lavorativa, anche la più semplice, comporta che il lavoratore
addetto ne risponda, ovviamente in proporzione al grado di diligenza richiesto per
la corretta esecuzione della prestazione dovuta.
Parimenti va detto con riguardo alla temporanea attività di assistenza I all'informatizzazione dei dati relativi alle immobilizzazioni della società, anche in tal
caso apparendo evidente, in difetto peraltro di doverosa migliore puntualizzazione
in memoria, che ciò che era richiesto alla Ventura era solo un contributo professionale d'ordine.
Del, resto la stessa, ricorrente ha affermato, in sede di libero interrogatorio,
che attualmente la società la impiega in "cosette" di volta in volta richiestele, con ciò
manifestando l'insoddisfazione per gli incarichi attribuitile, insoddisfazione che, con
tutta evidenza, ha un legittimo fondamento.
Ne discende che, allo stato degli atti, deve giudicarsi non equivalente l'occupazione attribuita alla ricorrente rispetto a quella dovutale in ragione dell'inquadramento professionale che le spettava e del bagaglio professionale di sua pertinenza.
Deve pertanto dichiararsi il diritto della ricorrente e il correlativo obbligo
della Società di assegnare la V. a mansioni proprie del livello professionale di inquadramento rivestito dalla stessa (2° livello ccnl turismo).
Non può invece essere pronunciata la chiesta condanna della convenuta ad
assegnare la ricorrente a dette mansioni.
Tale domanda, invero, equivale ad una richiesta di reintegrazione nelle mansioni (equivalenti a quelle da ultimo) svolte, ma tale rimedio è stato predisposto dall'
ordinamento in via del tutto eccezionale rispetto al regime sanzionatorio ordinariamente funzionante in ipotesi di inadempimento delle obbligazioni scaturenti dal
contratto di lavoro, e ha riguardo alla sola ipotesi di recesso datoriale ingiustificato
in area assistita da tutela reale.
Il carattere eccezionale della norma (che invero impone al datore di lavoro un
facere -altrimenti- infungibile) ne vieta, pacificamente, l'applicazione oltre l'ipotesi
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RomanaGIURISPRUDENZA CIVILE
temi
prevista, con le indicate conseguenze per quanto qui rileva.
In ogni caso, la resa declaratoria -presupposto logico giuridico della chiesta
condanna e dunque pronunciabile anche in difetto di correlativa domanda, senza con
ciò implicare una violazione del disposto dell'art. 112 cpc- ha acclarato l'esistenza di
un obbligo di fare, in capo alla convenuta, di tal tenore, dalla cui inosservanza ben
potranno discendere conseguenze giuridicamente rilevanti in danno della Società.
Peraltro, le ragioni addotte dalla società per giustificare l'evidente inadempimento contrattuale perpetrato non valgono a scriminare la condotta denunciata e
quindi a liberarla dalle conseguenze da ciò scaturenti, quali testè accertate.
Ed infatti, anche solo ragionando in applicazione dei canoni generali in materia di adempimento delle obbligazioni (artt. 1175 e 1375 cc) vi è da dire che la società convenuta, laddove veramente nell'impossibilità di impiegare in modo corretto la
forza lavoro alle proprie dipendenze, avrebbe dovuto risolvere a sua iniziativa il rapporto di lavoro interessato, essendo in tal senso giustificata oggettivamente, e non
invece mantenere in esecuzione un vincolo obbligatorio ormai svuotato di contenuto al solo fine di ricercare un mutuo consenso per la risoluzione dello stesso (si rammenta che in memoria è stato fatto esplicito riferimento ai reiterati tentativi di convincere la V. ad accettare la proposta di esodo incentivato); sono pertanto inevitabili le conclusioni da trarre per quanto qui rileva.
Con riguardo invece alla domanda fondata sul denunciato mobbing, giova
premettere che la dottrina e la giurisprudenza sono concordi nell'affermare che la
fattispecie de qua si sostanzia nella ripetizione da parte del datore di lavoro e/o dei
colleghi gerarchicamente sovraordinati, di condotte lesive dei diritti e della dignità
del lavoratore al fine di emarginarlo e di espungerlo dal contesto aziendale; è pertanto indubitabile che i vari episodi che vengono in giudizio descritti dal lavoratore
come modalità di comportamento mobbizzante cui è stato esposto assumono un
significato giuridicamente apprezzabile solo se inquadrabili -ripetendo un lessico
penalistico- in un unico disegno criminoso e solo se caratterizzati, sotto il profilo
soggettivo, dall'animus nocendi di parte datoriale.
Orbene, con riguardo alla fattispecie concreta si rileva che la prova testimoniale espletata ha confermato in modo concorde che la Ventura non era stata interessata dal trasferimento della sede della società, ma lasciata prima nella sede originaria e, successivamente, allocata in ulteriori e diversi locali in condizioni veramente disdicevoli (presenza di ratti nei locali, mancanza di riscaldamento negli
ambienti, non effettuazione delle pulizie negli stessi, scarichi rotti, sicurezza precaria a causa dell'assenza di portiere e del portone d'ingresso rotto: capo h del ricorso,
cfr. segnatamene teste Formosa; comunque anche teste Di Francesco).
È altresì emerso che solo un esiguo gruppo di lavoratori, tra cui la ricorrente,
venne lasciato in tale situazione anche di separazione fisica rispetto al restante personale, invece trasferito nella nuova sede.
È stato poi confermato che i contatti della resistente con tale personale, e quindi
anche con la ricorrente, erano stati esclusivamente finalizzati a convincerli a non lavorare più per la società (cfr. teste Di Francesco: ".. la sig.ra Patti ci disse che non dovevamo più lavorare e ce ne dovevamo andare a casa, specificando che non conoscevamo
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le lingue e quindi non eravamo adatte al lavoro sicchè era anche difficile ricollocarci.
La V. fece tuttavia presente di conoscere due lingue straniere, al che la Patti le rispose
che si poteva dimettere e quindi farsi assumere come consulente); la circostanza peraltro, come si ricorda, è stata ammessa dalla stessa Società in memoria.
Si osserva poi che la ricorrente, nel periodo de quo, è stata tenuta nello stato
di inattività descritto e che, dopo circa un anno, è stata raggiunta dal provvedimento di trasferimento impugnato.
In merito -rammentati i termini in cui tale questione viene esaminata- questo
giudice ritiene di condividere le puntuali e corrette motivazioni in diritto sottese al
provvedimento cautelare già adottato inter partes.
Dunque, va detto che, in considerazione della natura del contratto -a tempo
parziale in essere tra le parti al momento dell'adozione del provvedimento di trasferta - e non di trasferimento, essendo la disposizione datoriale di variazione del
luogo di lavoro della V. meramente temporanea la clausola che consentiva alla resistente di assegnare ad una sede estera la lavoratrice senza il consenso della stessa è
viziata di nullità, con conseguente illegittimità dell'adottato provvedimento.
Ai fini che qui interessano non può poi non porsi l'accento sulle modalità con
cui era stata disposta la variazione organizzativa censurata: la ricorrente, infatti,
ricevette la lettera in data 13 novembre con ordine di presentarsi ai Caraibi il successivo 22 novembre, quindi a distanza di un lasso di tempo veramente insufficiente, secondo il comune sentire, per poter organizzare razionalmente la vita del proprio nucleo familiare, caratterizzato per di più dalla situazione di coniuge separata
con due figlie minori a carico, situazione peraltro conosciuta dalla convenuta in
quanto sottesa dalla ricorrente alla richiesta di part-time lavorativo, poi concesso
(cfr. domanda in atti, circostanza in ogni caso non contestata). Di converso, parte
convenuta, al di là di mere petizioni di principio, non ha in alcun modo rappresentato nel presente giudizio quali fossero le condizioni organizzative in forza delle
quali la scelta di destinare un impiegato al villaggio di Coccoloba fosse poi caduta
sulla ricorrente: ed infatti, se è vero che le scelte imprenditoriali sono giudizialmente incensurabili in quanto espressione della libertà di iniziativa economica è pur vero
che il profilo della -eventuale- discriminatorietà di tali scelte ben può essere vagliato dal Giudice cui si chiede la tutela delle situazioni soggettive interessate da provvedimenti di tal carattere.
Nel caso di specie lei emergenze istruttorie hanno efficacemente supportato la
tesi della gratuità del provvedimento in esame, sicchè sarebbe stato onere della convenuta comprovare la sussistenza delle condizioni organizzative legittimanti la scelta de qua; la carenza della prova che si ricerca esplica inevitabili effetti ai fini de1
decidere il profilo della controversia inerente il mobbing.
Dagli atti di causa emerge poi in modo veramente inoppugnabile che sullo sfondo di tali situazioni era individuabile la persistente volontà di parte datoriale di risolvere il rapporto di lavoro con la ricorrente; lo stesso tenore degli atti introduttivi del
giudizio, come si è sopra detto, consente di confermare la valutazione operata.
Peraltro, non può farsi a meno di censurare il fatto che la convenuta, costituendosi nel giudizio avente precipuamente ad oggetto il demansionamento, ha
235
RomanaGIURISPRUDENZA CIVILE
temi
posto in evidenza la "legittima ... quanto ostinata chiusura al dialogo" della ricorrente in merito alla individuazione di soluzioni consensuali alla vicenda (pag. 3
memoria), come se la risoluzione di un rapporto di lavoro che ha difficoltà a funzionare per ragioni attinenti alla sola organizzazione dell’impresa -e dunque facenti
carico esclusivamente a parte datoriale- non fosse realizzabile se non attraverso la
costituzione di un mutuo consenso dei contraenti ovvero il recesso ad iniziativa del
lavoratore; al contrario, poiché come si è sopra detto, l'ordinamento offre strumenti
idonei a dar sfogo a quelle difficoltà imprenditoriali che ostano alla conservazione
di rapporti di lavoro non più utili, difficoltà invocate dalla resistente per giustificare
lo stato di sotto utilizzazione della V. per un arco di tempo non indifferente, c'è da
chiedersi come mai allora la convenuta non abbia provveduto a formalizzare, da
subito e nel pieno della legalità, il licenziamento della dipendente.
Il Ciò che si inferisce dalle riflessioni fin qui condotte è quindi che parte datoriale avesse effettivamente come fine quello di interrompere la collaborazione lavorativa della ricorrente, e che abbia però inteso garantirsi da un eventuale vaglio giudiziale della fattispecie concreta riversando sulla lavoratrice la responsabilità del
recesso e monetizzando tale sforzo con propria determinazione unilaterale, nonché
premendo, anche attraverso una condotta omissiva (mancata utilizzazione della
lavoratrice) e iniziative non legittime (trasferimento) o placebo (attribuzione di mansioni inferiori), per raggiungere tale obiettivo.
Dunque, effettivamente la condotta denunciata appare qualificabile come condotta mobbizzante, trattandosi di condotta inadempiente alle obbligazioni contrattualmente assunte e comunque a quelle generali che sovrintendono alla corretta esecuzione del contratto; la stessa ben può essere considerata fonte del diritto al risarcimento
del danno preteso dalla lavoratrice. Fissati questi punti fermi nella composizione della
presente controversia, prima di procedere alla verifica delle domande di risarcimento
del danno giova porre alcune premesse in diritto, avuto riguardo alla giurisprudenza
della SC formatasi segnatamente in punto di danno da dequalificazione, ma con concetti esportabili, stante la sovrapponibilità delle fattispecie, interessate dall'applicazione dei medesimi principi di diritto, anche al campo del mobbing.
In primo luogo,occorre osservare che in materia di danno da lesione alla professionalità parte della giurisprudenza della SC aveva sostenuto la tesi che in tali
ipotesi poteva parlarsi di danno evento o danno in sé; altra parte, invece, aveva configurato l'ipotesi risarcitoria secondo lo schema del c.d. danno conseguenza, prendendo le mosse dalla pronuncia della Corte Costituzionale 372/'94, in materia di
danno alla salute.
Invero la pronuncia del Giudice delle leggi aveva fissato il principio per cui il
risarcimento del danno postula che il fatto illecito abbia prodotto "Una perdita di
tipo analogo a quello indicato dall' art. 1223 cc, costituita dalla diminuzione o privazione di un valore personale (non patrimoniale) alla quale il risarcimento deve
essere commisurato)", sì che il risarcimento, laddove non vi sia perdita, mancherebbe di oggetto.
Secondo quest'orientamento, dunque, non è consentito il ricorso a meccanismi
risarcitori automatici, che cioè ricolleghino la chiesta prestazione patrimoniale al
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comportamento di un soggetto, indicato e accertato come lesivo degli interessi
altrui, posto che costruzioni dogmatiche di tal genere implicano la negazione dei
principi fondamentali positivi in materia di danno, principi che impongono al fine
de quo la dimostrazione della condotta lesiva dell'agente, della lesione patita dal
danneggiato e del nesso di causalità tra l’una e l'altra.
In merito peraltro questo Giudice, ribadendo il proprio costante orientamento
sul punto e richiamandosi a conformi precedenti di legittimità (Cass. 7905/98; Cass.
1026/97; Cass. 3686/96), ha più volte osservato che, seguendo il contrario orientamento della Cassazione, si finirebbe per introdurre una sorta di presunzione di
danno, da liquidare equitativamente sulla base di una certa percentuale della retribuzione, dimenticando però che il risarcimento del danno, non essendo una -e a differenza della- penale, presuppone in ogni caso l'allegazione e la prova dell'esistenza
di,un danno e, quindi, del bene (credito, salute, immagine, ecc.) asseritamente leso,
con l'ulteriore inaccettabile conseguenza di dover considerare sempre e comunque
implicito il danno risarcibile per il solo fatto che si sia in astratto in presenza di
dequalificazione professionale ovvero -come nel caso di specie- di altri fenomeni
mobbizzanti.
Sotto altro profilo, l'imprescindibile necessità di ragionare del danno all'interno del perimetro fissato dai principi positivi in materia porta questo Giudice a confermare il proprio orientamento per il quale deve essere pu,re disatteso il principio
fissato da quella giurisprudenza di legittimità per la quale il demansionamento, oltre
alla violazione dell'art. 2103 c.c., lederebbe anche il diritto fondamentale alla libera
esplicazione della personalità del lavoratore nel luogo di lavoro, comportando un
pregiudizio che incide su!la vita professionale e di relazione dell'interessato, e che
tale lesione produrrebbe meccanicamente un danno (non economico ma) comunque
rilevante sul piano patrimoniale, per la sua attinenza agli interessi patrimoniali del
lavoratore e determinabile anche in via equitativa (cfr. Cass. 10/2002; Cass.
11727/99; Cass. 1.443/2000, 7713/'00).
In aderenza invece a quell'altro orientamento giurisprudenziale, ad es. espressa da Cass.7905/98, 14199/'01 e 6992/'02 nonché, più di recente, da Cass. 11322/03,
questo Giudice ritiene tuttavia che anche questo ulteriore aspetto del danno, per
poter essere autonomamente risarcito, deve essere provato, anche in via presuntiva,
nella sua ontologica esistenza, per evitare che si presenti come un duplicato di altri
aspetti del danno risarcibile.
Del resto, il nostro ordinamento positivo prevede, a fronte del danno patrimoniale risarcibile ai sensi e per gli effetti di cui agli art. 1223 e 2043 cc, quello non
patrimoniale, risarcibile ex art. 2059 cc nei casi previsti dalla legge.
Con riguardo a questo profilo, vale poi osservare che la giurisprudenza di
recente espressa da Cass. 8827 e 8828/'03 consente di affermare che il danno non
patrimoniale comprende il danno biologico in senso stretto, il danno morale come
tradizionalmente inteso nonché infine, tutti quei pregiudizi ulteriori purchè costituenti conseguenza della lesione di un interesse costituzionalmente protetto.
Peraltro sul punto la Cassazione ha pure precisato che la lettura costituzionalmente orientata dell'art. 2059 cc consente la risarcibilità del danno non patrimonia-
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RomanaGIURISPRUDENZA CIVILE
temi
le pur in assenza della prova certa della colpa e quindi con una colpa presunta secondo il sistema di cui agli art.2051 e ss cc (Cass. 7281,7282, 7283/03; Corte Cost.
233/03).
L'attribuire dunque rilevanza al danno esistenziale, quale danno in sè considerato, ovvero in re ipsa rispetto alla condotta dannosa, significa introdurre una fattispecie di danno aliena allo schema positivo indicato e l'accedere a meccanismi
risarcitori che ben potrebbero implicare duplicazioni di profili di danno ristorabile,
rischio che proprio Cass.8827/03 ha inteso evitare laddove indica che la lettura
costituzionalmente corretta dell'art. 2059 è finalizzata a rendere tale fattispecie
mezzo per colmare le lacune in materia di tutela risarcitoria della persona e non
come occasione di incremento generalizzato delle poste di danno e come strumento
di duplicazione del risarcimento degli stessi pregiudizi.
Recuperando così le fila del discorso, appare pertanto di ogni evidenza che nel
sistema risarcitorio bipolare che si va delineando in via preminente nel sistema, ogni
tipo di lesione di cui si chiede il ristoro, in conseguenza di condotte violative di parte
datoriale, devono essere oggetto di prova ex art. 2697 cc e prima ancora insopprimibilmente individuate nella loro ontologica esistenza sulla scorta di un puntuale
tessuto allegatorio e determinate nella specie in base al bene della vita effettivamente leso,
La soluzione prospettata non è peraltro superabile neppure invocando la possibilità – ammessa peraltro dalla SC - di fare ricorso alla liquidazione equitativa del
danno, categoria questa effettivamente conosciuta dal sistema positivo.
Ed infatti, la possibilità, di utilizzare tale fattispecie è ammessa solo ove, certo
l’an del diritto vantato, sia impossibile, o estremamente difficile quantificarne l’ammontare, ma non certo al fine di colmare la mancata dimostrazione dell'an di tale
diritto, scaturente da carenze allegatorie o insufficienze probatorie.
Inoltre, a ben vedere, la Cassazione non indica né potrebbe imporre un parametro di liquidazione, ma si è limitata a sostenere la insindacabilità in sede di legittimità di una liquidazione equitativa basata su una certa percentuale delle retribuzioni relative al periodo del lamentato demansionamento e lasciando al giudice di
merito la libertà di valutare quanto allegato e provato dalle parti (cfr. Cass.
835/2001).
Fissati questi principi in diritto e richiamate tutte le superiori osservazioni,
può ora passare ad esaminare dappresso le domande risarcitorie della ricorrente,
tenuto conto che all'esito della svolta istruttoria si è avuta la dimostrazione de1le
condotte violative di parte datoriale quali dedotte in ricorso.
Con specifico riguardo a1 danno da demansionamento, deve preliminarmente osservarsi che, alla luce delle norme di comune esperienza (e comunque pacificamente, attesa anche le conformi cOnsolidate pronunce rese in merito dalla giurisprudenza), la competenza professionale è un patrimonio che deve essere curato e
aggiornato, in quanto destinato a obsolescenza, e tale patrimonio attraverso l'espletamento dell'attività lavorativa riesce non solo a non deperire, ma anzi si conserva e
si arricchisce.
Nel caso di specie è stato dimostrato che la ricorrente per circa un anno non
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ha svolto alcuna attività lavorativa e che successivamente -dal 2000 ad oggi- si è
vista attribuire mansioni il cui disimpegno non richiede neppure in minima parte l’utilizzazione delle competenze maturate nel corso del lungo rapporto di lavoro, competenze che, per quanto sopra osservato, erano caratterizzata da un contenuto professionale medio-alto.
Il lungo periodo di completa inattività e quello duraturo di macroscopica sottoutilizzazione -che, a giudizio di questo Giudice, tenuto conto delle emergenze
istruttorie, è da considerare assimilabile alla situazione di inattività-, deve ritenersi
presuntivamente, ex at. 2729 cc, aver provocato una oggettiva interruzione del processo di conservazione e affinamento dello stesso e dunque una lesione delle capacità lavorativa della ricorrente, posto che la V. si è vista totalmente privata dell'attitudine lavorativa che le era propria.
Peraltro, per confutare le conclusioni cui si è giunti non varrebbe nè opporre
che la ricorrente non ha puntualmente allegato in ricorso il contenuto del danno patito, in esame, né che la prova è stata accertata presuntivamente, in ciò leggendo una
contraddizione rispetto ai principi sopra fissati quando si è esaminata la procedura
di liquidazione equitativa del danno.
Ed infatti, quanto al primo profilo, vi è da dire che l'esigenza di puntuale allegazione del danno è inversamente proporzionale alla qualità del demansionamento
subito in conseguenza dell’esercizio dello ius variandi datoriale.
In altri termini, laddove le nuove mansioni comportino solo una modifica parziale delle precedenti attribuzioni è indubbiamente necessario indicare in che parte
la qualità della professionalità sia stata incisa, non potendosi dubitare che, per la
restante parte, vi sia stata comunque per il lavoratore la possibilità di conservare e
sviluppare l'attitudine lavorativa di propria pertinenza; laddove però, la sottrazione
delle mansioni sia totale - come nel caso di specie- è certo che non vi è alcuna parte
dell' attitudine lavorativa che possa essere conservata, sicchè è intuitivamente
apprezzabile che lo svuotamento della professionalità sia totale.
Ne discende che un'allegazione del tipo di quello operata in ricorso, che si
risolve appunto nella deduzione di svuotamento della professionalità, deve considerarsi sufficiente ex art. 414 cpc a prospettare in giudizio l'ubi consistam della lesione di cui si chiede la riparazione.
Quanto al secondo profilo, va sgombrato il campo da un equivoco di fondo:
la giurisprudenza sopra riferita nega validità processuale al ricorso a criteri presuntivi per l'allegazione dell'in sé del danno; il ricorso alla prova per presunzioni di un
fatto tempestivamente allegato non è invece vietato, né potrebbe esserlo, non ponendo l'art. 2697 cc eccezioni in tal senso e ben potendo, di converso, il Giudice formulare il proprio convincimento alla luce di risultati istruttori acquisiti attraverso il
funzionamento dei vari tipi di meccanismi probatori positivamente previsti.
Nondimeno, con specifico riguardo al caso di specie non può non rammentarsi che, se è vero che la ricorrente era onerata della dimostrazione del danno da
demansionamento patito, la resistente lo era nel senso di dover dimostrare l'equivalenza delle mansioni attribuite alla V. prima e dopo lo spartiacque temporale rappresentato dal trasferimento della sede societaria, sì da legittimare in questa sede l'e-
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RomanaGIURISPRUDENZA CIVILE
temi
sercizio del proprio ius variandi; poiché la decisione dell'Ufficio viene adottata alla
luce di tutte le risultanze istruttorie, a prescindere dalla loro provenienza, non può
ora non tenersi conto del fatto che in concreto, a fronte della prova presuntiva sopra
descritta, non vi è stata prova alcuna della equivalenza delle mansioni successivamente attribuite alla ricorrente né del fatto che la inutilizzazione della ricorrente
fosse considerabile equivalente ex art. 2103 cc all'occupazione precedente della
stessa.
Va pertanto affermato la sussistenza del danno da demansionamento patito
dalla ricorrente.
Quanto alla liquidazione di danno, in ricorso è stato offerto – così soddisfacendo gli oneri ex art. 414 cpc- come parametro di quantificazione del ristoro dovuto la retribuzione mensile percepita dalla ricorrente.
La scelta è condivisibile, tenuto conto anche delle pronunce giurisprudenziali di segno conforme rese in materia.
Ritiene questo Giudice che in ragione della durata e dell'entità del demansionamento e dell'ambiente di lavoro ove la stessa era stata assegnata, il risarcimento
del danno patito può essere liquidato in misura corrispondente a tante mensilità dell'ultima retribuzione percepita dalla ricorrente (tale quella al momento del deposito
del ricorso), indicata in ricorso in £ 3.063.070 e non contestata, per il numero dei
mesi compreso tra il dicembre '98 e l'attualità.
Su tale somma spettano, ex art. 429 cpc, la rivalutazione monetaria e gli interessi legali dalla maturazione del credito al saldo.
il dies a quo per il computo degli accessori deve comunque essere individuato nel giorno della presente pronuncia, essendo stata qui operata appunto la liquidazione del risarcimento del danno patito, il che rende il credito in parola liquido ed
esigibile, ed essendo invece il riferimento alle retribuzioni maturate nel periodo di
demansionamento una mera misura per la quantificazione del ristoro dovuto alla
lavoratrice.
Non può invece pronunciarsi la condanna al risarcimento del danno per l'eventuale futura mancata adibizione della ricorrente a mansioni proprie del livello
professionale di appartenenza, non prevedendo il nostro ordinamento, in via generale la possibilità di pronunciare una condanna de futuro.
Vero è che la declaratoria sopra resa del diritto della ricorrente ad ottenere l'attribuzione di mansioni equivalenti a quelle svolte prima del dicembre '98 funge – in
astratto- da valido fondamento per l'introduzione di altra causa di danno laddove
parte datoriale non adegui lo stato di fatto a quello di diritto accertato vincolativamente tra le parti.
La difesa svolta sul punto dalla resistente ed incentrata sulla mancanza di
danno per avvenuto pagamento della retribuzione anche nel periodo di inutilizzazione della ricorrente e vieppiù nel periodo di utilizzazione -accertato però come
insufficiente- - della stessa non coglie nel segno e non ha quindi efficacia liberatoria dell' obbligazione accertata: ed invero, il pagamento della retribuzione è sinallagmaticamente collegato alla messa a disposizione, da parte del lavoratore, delle
proprie energie lavorative, prestazione che, pacificamente la V. ha adempiuto; la
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mancata utilizzazione di tali energie non solo non libera parte debitrice dall'adempimento della controprestazione ma la espone, in caso di dimostrazione di un danno
conseguente alla inesatta condotta serbata, al ristoro dello stesso; sono pertanto evidenti le conseguenze per quanto qui rileva.
Quanto al danno biologico, si rileva che parte ricorrente ha lamentato uno specifico danno alla salute, patito nella sfera psichica, confortando la sua pretesa con
una consulenza tecnica di parte e con la produzione di documentazione medica.
La ctu espletata nel corso del presente giudizio consente di condividere la tesi
sostenuta in ricorso.
Ed infatti, il consulente dell'ufficio ha accertato a carico della ricorrente una
turbativa psichica, essenzialmente afferente alla sfera emotivo-affettiva, diagnosticamene inquadrabile quale "disturbo dell'adattamento con ansia libera e somatizzata e con note depressivo-reattive"; Il ctu ha poi ritenuto ammissibile l'esistenza di un
nesso causale tra i disturbi accusati dalla Ventura e le lamentate traversie lavorative;
ha quindi stimato che la patologia descritta ha determinato alla Ventura un danno
biologico permanente, inteso come menomazione dell'integrità psico- fisica della
persona, quantificabile in misura del 4%.
Le conclusioni del ctu, in quanto raggiunte all'esito di accertamenti accurati e
fondate su presupposti logico-scientifici esatti, ben possono essere condivise. Preme
peraltro evidenziare che il ctu ha esattamente quantificato il danno, utilizzando le
tabelle predisposte dalla Società Italiana di Medicina Legale per il danno biologico
puro, diversamente da quanto operato dal ctp, che ha fatto riferimento al danno biologico da infortunio sul lavoro; come infatti ha correttamente chiarito il ctu, ;
nel caso di specie non si è in pr~senza di una fattispecie qualificabile come
infortunio sul lavoro -al più, invero, come affermato dal consulente dell'Ufficio, si
sarebbe in presenza di un'ipotesi di malattia professionale-, fermo restando che tuttavia si chiede un risarcimento del danno e non un mero indennizzo dello stesso, alla
liquidazione del quale sono appunto finalizzate le indicate diverse tabelle (cfr. chiarimenti resi in udienza).
Va ancora posto nella debita evidenza che il ctu, in sede di chiarimenti, ha
pure rammentato che il procedimento di quantificazione del danno ed i parametri
utilizzati a tal fine nel corso dell’espletamento della consulenza d’ufficio sono stati
confermati anche dal ctp dott. Pastore con evidenti riflessi nella definizione della
presente controversia.
Per la liquidazione del danno così accertato ritiene questo Giudice che siano
utilizzabili le tabelle all’uopo predisposte dal Tribunale di Roma; tenuto pertanto
conto degli indici ivi indicati e del grado di menomazione accertato in capo alla V.,
il risarcimento viene quantificato in € 2.306,00. La diversa quantificazione operata
in ricorso non può essere condivisa in ragione dell’assoluta oscurità di parametri utilizzati per giungere alla determinazione della somma di Lit un miliardo chiesta; si
ricorda che la liquidazione equitativa necessita comunque dell’indicazione degli
strumenti di riferimento utilizzati a tal fine, essendo necessario che su di essi vi sia
comunque il vaglio dell’ufficio.
Su tale somma spettano poi alla ricorrente, ex art.429 cpc, la rivalutazione
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RomanaGIURISPRUDENZA CIVILE
temi
monetaria e gli interessi legali dalla data della presente pronuncia – per i motivi già
esposti – al saldo definitivo.
Va pertanto pronunciata conforme condanna della convenuta al pagamento in
favore della ricorrente della somma indicata per il titolo in questione, con gli accessori come pure indicato.
Infatti, con riguardo alle altre voci di danno di cui si richiede in ricorso il ristoro e, segnatamente, il danno morale ed all’immagine (cfr. capo 3 ricorso per trasferta rg 113829/99), l’impossibilità di riconoscere la tutela richiesta deriva proprio
dalla mancata descrizione dell’ubi consistam dei danni, con conseguente impossibilità di provare e dunque di ritenere provato il fatto costitutivo della domanda; per di
più, la quantificazione del ristoro operata al riguardo dalla ricorrente è priva – ancora una volta – della necessaria specificazione dei parametri all’uopo utilizzati, con
le negative conseguenze sopra descritte.
(omissis).
(1-2) Gli elementi costitutivi del mobbing
Le sentenze in commento propongono un’apprezzabile lettura del fenomeno
del mobbing, rivelandosi utili strumenti per l’individuazione degli elementi caratteristici dello stesso.
In linea con gli orientamenti della dottrina e di parte della giurisprudenza di
merito, alla base delle pronunce in esame, che giungono a differenti esiti, si pone la
disamina della ricorrenza o meno di quelli che possono essere individuati quali elementi necessari per la configurazione della fattispecie del mobbing.
In particolare, nella prima sentenza, vengono sottoposti all’attenzione dell’interprete episodi di persecuzioni, epiteti e denigrazioni subite dal ricorrente ad opera
di un preposto dieci anni prima dell’instaurazione del giudizio.
Il Giudice ha deciso per il rigetto della domanda, ritenendo non sussistenti,
nella specie, gli elementi fondanti il mobbing, individuati in: 1) reale aggressione di
natura psicologica; 2) sistematicità, continuità e durata della stessa nel tempo; 3)
partecipazione dolosa, cosciente e volontaria del datore di lavoro.
Nell’elaborare tali elementi il giudicante sottolinea che al centro della verifica circa la ricorrenza del fenomeno del mobbing deve essere posto l’elemento della
partecipazione dolosa del datore di lavoro, onde evitare il rischio di introdurre una
ipotesi di responsabilità oggettiva in capo a quest’ultimo, siccome responsabile di
atti illeciti posti in essere da altri soggetti e di cui parte datoriale sia all’oscuro, giungendo, ironicamente, ad escludere che il datore di lavoro possa essere ritenuto
responsabile “di non aver imposto d’ufficio l’amore e la concordia nei rapporti
sociali e lavorativi”.
Nel caso di specie, la circostanza che siano state persone diverse dal datore di
lavoro i presunti responsabili dei lamentati atti illeciti, l’ampio arco temporale trascorso dal tempo degli stessi, la non continuità del loro manifestarsi ed il beneficio
tratto dal lavoratore interessato a seguito di trasferimento successivo alle doglianze
avanzate al datore di lavoro, hanno condotto il giudicante a ritenere non integrata la
fattispecie del mobbing.
242
Già in precedenti pronunce era stato sottolineato come elemento essenziale e
necessario per integrare il mobbing fosse il dolo, il dolo specifico, nella sua accezione di volontà di nuocere, o infastidire, o svilire un compagno di lavoro (Trib. di
Como 22 maggio 2001; Trib. Pisa 3 ottobre 2001; Trib. Torino, 16 novembre 1999),
escludendosi ogni apertura all’individuazione di una qualche forma di responsabilità oggettiva in capo al datore.
Oltre al dolo ed alla condotta vessatoria, ulteriore elemento utile ai fini dell’individuazione del mobbing è costituito dalla “continuità nel tempo” del comportamento persecutorio (Tribunale di Tempio Pausania civile sentenza 10 luglio 2003
n.157), aspetto posto in luce anche dalla “psicologia del lavoro” che qualifica come
essenziale la durata e ripetitività nel tempo delle condotte lesive.
In particolare, secondo gli esperti di tale scienza, il modello italiano di mobbing consterebbe di uno stadio iniziale e di sei fasi successive così descritte: "dopo
la c. d. condizione zero, di conflitto fisiologico normale e accettato, si passa alla
prima fase del conflitto mirato, in cui si individua la vittima e verso di essa si dirige la conflittualità generale...la seconda fase è il vero e proprio inizio del mobbing,
nel quale la vittima prova un senso di disagio e di fastidio...La terza fase è quella
nella quale il mobbizzato comincia a manifestare i primi sintomi psicosomatici, i
primi problemi per la sua salute...La quarta fase del mobbing è quella caratterizzata
da errori e abusi dell'amministrazione del personale...La quinta fase del mobbing è
quella dell'aggravamento delle condizioni di salute psicofisica del mobbizzato che
cade in piena depressione ed entra in una situazione di vera e propria prostrazione...la sesta fase, peraltro indicata solo e fortunatamente eventuale, nella quale la
storia del mobbing ha un epilogo: nei casi più gravi nel suicidio del lavoratore, negli
altri nelle dimissioni, o anticipazione di pensionamenti, o in licenziamenti" (così,
Trib. Forlì, sent. 15 marzo 2001; Trib. Pinerolo sez. lav. n. 119 del 2 aprile 2004).
Non può, dunque, ritenersi integrata una condotta persecutoria “mobizzante”
qualora il comportamento lesivo dei diritti e della dignità del lavoratore sia circoscritto in un brevissimo lasso temporale, non potendo cagionare danni di carattere
psico-fisico tali da legittimare una richiesta di risarcimento per mobbing.
Nella seconda vicenda giudiziaria in commento il giudicante, avendo ritenuto
che la dequalificazione ingiustificata, il trasferimento discriminatorio nonché le vessazioni ed i maltrattamenti di vario genere subiti dalla ricorrente fossero tutti tasselli di un unico mosaico, rappresentato da un disegno persecutorio dell’azienda volto
ad ottenere le dimissioni della ricorrente e/o l’adesione da parte della stessa agli
incentivi all’esodo, ha riconosciuto un’ipotesi di mobbing, emanando una sentenza
di condanna nei confronti della società datrice di lavoro.
Nel caso in oggetto, dunque, il giudice ha rinvenuto nella dequalificazione
professionale, nel trasferimento illegittimo e discriminatorio nonché nell’emarginazione subita nell’ambiente di lavoro, la sussistenza di un “unitario e continuo” comportamento lesivo di parte datoriale, chiara manifestazione di mobbing.
In specie, si rivela mirabile l’iter logico seguito dal giudicante che, nell’evidenziare la strumentale “finalizzazione” dei vari atti lesivi della sfera giuridica della
ricorrente, in punto di dequalificazione, rinviene la mala fides della società datrice
243
di lavoro nella mancata risoluzione unilaterale del rapporto lavorativo in essere con
la ricorrente, non sussistendo alcun ostacolo di natura giuridica ed anzi potendo la
resistente avvalersi all’uopo di motivazioni di carattere oggettivo (riduzione di personale, venir meno della figura professionale e/o della posizione funzionale, impossibilità di repechage, ecc.).
Risulta, inoltre, degna di nota la definizione del mobbing quale: "ripetizione,
da parte del datore di lavoro e/o di colleghi gerarchicamente sovraordinati, di condotte lesive dei diritti e della dignità del lavoratore al fine di emarginarlo e di espungerlo dal contesto aziendale. Tutti i vari episodi lesivi –si prosegue– assumono un
significato giuridicamente apprezzabile solo se inquadrabili in un unico disegno criminoso e solo se caratterizzati, sotto il profilo soggettivo, dall’animus nocendi di
parte datoriale".
Non diversamente da quanto evidenziato nella prima delle pronunce esaminate, pertanto, la condotta datoriale vessatoria, il dolo in capo al datore e la ripetizione nel tempo della condotta vengono individuati quali elementi costitutivi del
mobbing.
In ordine alla domanda di risarcimento del danno riconosciuto, appare opportuno evidenziare, da una parte, la scelta del giudicante di ritenere “esportabili” alla
fattispecie del mobbing i criteri giurisprudenziali elaborati in tema di danno da
dequalificazione, tenuto conto della identità dei principi di diritto applicabili nell’uno e nell’altro caso; dall’altra, l’impegno di compiere un’ampia disamina sul sistema risarcitorio bipolare elaborato dalla giurisprudenza.
Tenuto conto dei due contrapposti orientamenti esistenti nella giurisprudenza
della Suprema Corte, secondo cui il danno da lesione della professionalità deve essere qualificato o quale danno evento ovvero, sulla scorta della pronuncia della Corte
Costituzionale in tema di tutela della salute (n. 372/94), quale danno conseguenza,
il giudicante, disconoscendo la validità del ricorso a meccanismi risarcitori automatici, che finirebbero per introdurre una sorta di presunzione di danno, ha accolto la
domanda di risarcimento del danno per demansionamento (quantificato secondo i
parametri della retribuzione mensile e del tempo di durata della dequalificazione) e
di risarcimento del danno biologico (liquidato come da CTU), ritenendo raggiunta
la prova della condotta lesiva dell’agente, della lesione patita dal danneggiato e del
nesso di causalità tra l’una e l’altra, dovendo “ogni tipo di lesione di cui si chiede il
ristoro in conseguenza di condotte violative di parte datoriale essere oggetto di
prova ex art. 2697 c.c. e prima ancora insopprimibilmente individuate nella loro
ontologica esistenza sulla scorta di un puntuale tessuto allegatorio e determinate
nella specie in base al bene della vita effettivamente leso”.
Sulla base dei suddetti principi, il giudice ha rigettato la domanda di risarcimento del danno morale ed all’immagine per mancata descrizione dell’ubi consistam degli stessi.
Dott. Andrea CHILOSI
244
RomanaGIURISPRUDENZA CIVILE
temi
TRIBUNALE DI ROMA – SEZIONE STRALCIO –
SENT. 23 LUGLIO 2004, N. 22727 GIUDICE UNICO FANILE –
T.D.V. COSTRUZIONI (AVV. PIACENTINI)
C. COMUNE DI ROMA (AVV. STATO)
Appalto di opere pubbliche – riserva – tempestività –
sospensione dei lavori – iscrizione nel verbale
di ripresa – idoneità – condizione – percezione
da parte dell’appaltatore secondo criteri di media
diligenza e buona fede dell’idoneità
della sospensione a produrre maggiori oneri
Può ritenersi tempestiva la riserva relativa alla sospensione dei lavori
(legittima o illegittima che sia) iscritta per la prima volta nel verbale di
ripresa dei lavori solo quando il giudice accerti che secondo criteri di
media diligenza e buona fede dell’interessato, questi abbia potuto
percepire solo al momento della ripresa dei lavori l’idoneità della
sospensione a produrre pregiudizio e onerosi esborsi (1).
La pronuncia così motiva:
on atto di citazione notificato il 22.2.95 la società TDV Costruzioni conveniva in
giudizio il Comune di Roma deducendo quanto segue: 1. Con contratto stipulato il
16.9.87 rep.n. 82813 assumeva un appalto dal Comune di Roma per l'esecuzione di
lavori per la costruzione della rete viaria e fognaria nella Circoscrizione XV nel p.z.
14/V Portuense per un importo di £. 6.608.375.735 al netto dell'offerta di ribasso del
6,83%. I lavori venivano consegnati parzialmente senza riserve dell'appaltatore, totalmente con firma di riserva in calce al verbale. 2. Nel corso dei lavori la Circoscrizione
per migliorare la funzionalità del piano viario apportava delle modifiche al progetto originario e veniva redatta perizia di variante e suppletiva approvata dalla G.M. con delibera del 23.3.90 n. 1776 e accettata dall'Impresa con atto di sottomissione del 16.11.89
prot. n. 68104 con cui veniva aumentato l'importo contrattuale da £.6.608.375.735 a
£.7.602.672.000, prorogata la consegna dei lavori di giorni 180, modificata la revisione
prezzi e stabilito un nuovo prezzo per la "sbadacchiatura pareti"; 3. I lavori consegnati
il 1.7.87 venivano sospesi il 15.12.90 non essendo state prese in possesso le aree su cui
eseguire i lavori di cui alla perizia ,di variante e per permettere il completamento dei
lavori di allaccio per i pp.ss. da parte delle società erogatrici. I lavori venivano ripresi il
21.9.92 con verbale in pari data. Su detto ultimo verbale la società apponeva due riserve. La prima per la sospensione illegittima dei lavori perché determinata da carenze,
ritardi e inadempienze della P .A. e chiedeva l'integrale ristoro dei maggiori oneri e
danni subiti qualificati in £.959.242.816 oltre interessi e rivaluta- 0Jt' zione monetaria
come per legge. La seconda per ritardata emissione dei certificati di pagamento e dei
titoli di spesa. Chiedeva per tale riserva la somma di £. 20.388.808.
Si costituiva il Comune eccependo preliminarmente quanto alla prima riserva: a)
la mancanza del presupposto giuridico della illegittimità della sospensione dei lavori.
C
245
RomanaGIURISPRUDENZA CIVILE
temi
Infatti dalla firma da parte dell'appaltatore del verbale di sospensione dei lavori senza
alcuna riserva derivava che essa era avvenuta con l'accordo dell'impresa e che essa era
ritenuta legittima. Altrimenti ai sensi dell'art. 16 del R.D. 25.5.1895 n.350 la riserva
circa l'illegittimità della sospensione andava iscritta sul verbale di sospensione. Inoltre
la sospensione era effettuata nel legittimo esercizio di facoltà contrattuale ai sensi dell'art. 10 del Capitolato particolare, conosciuto dall'impresa prima dell'invio della offerta di partecipazione alla gara, che prevedeva la consegna parziale delle aree e dei lavori. b) inammissibilità della riserva per avvenuta decadenza. Infatti l'art. 16 e 89 del R.D.
citato prevedeva l'onere, a pena di decadenza, di iscrizione di riserva sul verbale di
sospensione dei lavori e poi la ripetizione, pena l'inefficacia, nel registro di contabilità
nei modi e termini dei successivi artt. 53 e 54. La riserva peraltro non era stata iscritta
neppure nel 13° SAL immediatamente successivo alla sospensione. c) tardività della
riserva iscritta per la prima volta alla sottoscrizione del 14° SAL il 4.1.93 dopo due anni
dalla sospensione.
L'onere della tempestiva iscrizione infatti trova fondamento nella rilevanza causale del fatto che può comportare maggiori oneri e nel momento in cui tale rilevanza si
renda manifesta attraverso una valutazione secondo canoni di media diligenza dell'imprenditore. Nel caso di specie la riserva iscritta due anni dopo era sicuramente tardiva
ed inammissibile. Del resto è comunque principio generale che la riserva vada iscritta
sul documento al quale si riferisce e poi ripetuta all'atto della prima successiva contabilizzazione sul registro di contabilità ovvero nella specie sul verbale di sospensione e a
seguito del 13° SAL. d) inammissibilità per infondatezza in diritto e violazione delle
norme contrattuali. Infatti non essendo stata iscritta riserva sino al 13° SAL del 16.4.91
il periodo di richiesta degli oneri doveva decorrere dal 17.4.91 al 21.9.92 data di ripresa, inoltre ai sensi dell'art. 24 C.G.A. i primi sei mesi di sospensione erano in franchigia con la conseguenza che non 543 giorni, ma 343 erano i giorni di sospensione utili.
Sempre ai sensi del citato art. 24 del C.G. qualora la sospensione dei lavori si fosse prolungata oltre i sei mesi l'imprenditore avrebbe potuto chiedere lo scioglimento del contratto. Il mancato esercizio di tale facoltà (la cui causa era nei presunti maggiori oneri)
era in contrasto con la richiesta successiva di essi. e) infondatezza in diritto in quanto al
momento della sospensione i lavori erano praticamente conclusi tranne che per poche
opere superficiali e rifiniture per un importo di L. 200.640.138 su un valore dell'appalto di L. 7.401.923.230 infatti l'appaltatore nel verbale di sospensione dichiarava che non
aveva in cantiere manodopera, mezzi meccanici, macchinari mobili e impianti che interessassero l'esecuzione delle opere oggetto della sospensione. Conseguenza di quanto
detto è che la somma in rimborso andava calcolata sul valore delle opere da eseguire
con spese generali al massimo al 4%. Quanto alla riserva due eccepiva l’inammissibilità per difetto di titolo, presupposto giuridico e infondatezza in diritto. Infatti non era il
C.G.A. delle opere pubbliche di competenza del Ministero dei Lavori Pubblici che regolava l'appalto de quo. La delibera 2450/84 e il bando di gara approvato con delibera
1185/85 e 209086 dichiaravano espressamente che ai sensi dell'art. 13 D.L. n.55/83 e
legge di conversiate n. 131/83, il calcolo dei tempi contrattuali per la decorrenza degli
interessi per ritardato pagamento non avrebbe tenuto conto dei giorni intercorsi tra la
spedizione della domanda di somministrazione e la ricezione del relativo mandato di
246
pagamento presso la competente Tesoreria provinciale. Conseguentemente non vi era
stato ritardo nei pagamenti. Nel merito contestava integralmente tutte le somme richieste. Chiedeva quindi il rigetto per i suesposti motivi delle domande attoree con vittoria
delle spese di giudizio.
Il G.I. respingeva l'istanza di riunione ad altro giudizio e rinviava per precisazione delle conclusioni accogliendo l'istanza del Comune di rimessione al Collegio sulle
questioni pregiudiziali. Il 5.7.96 venivano precisate le conclusioni, entrava in vigore la
legge 276/97 e la causa veniva assegnata alla sezione stralcio. Fissata l'udienza per l'esperimento del tentativo di conciliazione, visto che nessuna proposta conciliativa veniva effettuata alla P .A. la causa si rinviava per precisazione delle conclusioni. Dopo che
venivano reperiti i fascicoli delle parti, smarriti, la causa veniva trattenuta in decisione.
A seguito di decesso del giudice, la causa veniva assegnata con provvedimento presidenziale del 15.5.03 all'odierno giudicante che la tratteneva in decisione con termini di
cui all'art. 190 c.p.c. dopo che i procuratori delle parti si riportavano alle conclusioni già
precisate.
Ritiene il giudicante che le eccezioni preliminari formulate dal Comune siano
fondate e tali da non consentire di dare seguito alla domanda formulata da parte attrice.
I fatti non contestati tra le parti ed emergenti dai documenti sono i seguenti : 1.7.87
avviene la parziale consegna dei lavori in quanto alcune aree interessate da essi non
risultavano acquisite dal Comune. 13.3.89 consegna totale dei lavori a seguito di acquisizione delle aree di cui sopra detto. 13.6.89 l'impresa sottoscrive l'atto d'obbligo con
cui accetta di eseguire i lavori previsti nella variante predisposta e che l'impresa dichiara di ben conoscere. In detto atto viene ampliato l'importo dell'appalto, stabiliti nuovi
prezzi e modificato il criterio di revisione prezzi.
23.3.90 approvazione della perizia di variante dalla G.M. 15.12.90 sospensione
dei lavori perché non acquisite aree che interessavano i lavori di cui alla variante e perché alcuni lavori sarebbero stati successivi all'allaccio di p.p.s.s. da parte delle ditte erogatrici non ancora terminato.
Va premesso che l;art. 3 del contratto tra le parti recita che l'appalto veniva concesso ed accettato sotto la piena osservanza delle condizioni e patti contenuti nel
Capitolato particolare che veniva allegato ed era regolato dalle norme in esso richiamate che ne costituivano parte integrante e che erano pienamente conosciute ed accettate.
Il Capitolato particolare all'art.10 regolava la consegna parziale dei lavori qualora esigenze dell' Amministrazione o dei lavori non consentissero la consegna totale senza che
l'appaltatore potesse avanzare pretese di compensi. L'Amministrazione esercitava detta
facoltà di consegnare parzialmente i lavori vista la necessità ed urgenza di essi e i tempi
necessari all'acquisizione delle aree. La consegna dei lavori pertanto avveniva nell'
ambito di quanto previsto dal contratto tra le parti. Detto contratto é firmato dalle parti
in forma pubblica amministrativa e prevede la partecipazione dell'aggiudicatario, che ha
la possibilità di esaminare e conoscere tutte le clausole e condizioni dell'atto redatto con
esclusivo riferimento allo specifico appalto, pertanto esso non è soggetto all'obbligo di
specifica approvazione delle c.d. clausole vessatorie e simili, né è assimilabile al contratto per adesione con esclusione dell'applicabilità dell'art. 1341 e segg. La firma in
ogni sua pagina peraltro ne conferma la conoscenza ed accettazione. In data 13.6.89
247
RomanaGIURISPRUDENZA CIVILE
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l'impresa sottoscriveva atto di sottomissione impegnandosi ad eseguire i lavori di cui
alla variante predisposta che accettava affermando di ben conoscere. Detto atto oltre ad
ampliare l'importo dell'appalto, modificava il criterio di revisione prezzi, stabiliva un
nuovo prezzo per alcuni lavori. La sospensione dei lavori avveniva qualche mese dopo
l'approvazione della variante da parte della G.M. e nel verbale si legge i che era determinata dal fatto che le ditte erogatrici di p.p.s.s. non avevano terminato gli allacci a
seguito dei quali rimanevano delle opere da eseguire e dalla constatazione che non
erano ancora state acquisite le aree che interessavano i lavori di cui alla variante; sul
cantiere l'impresa dichiarava che non vi era propria manodopera, mezzi macchinari o
impianti che interessassero i lavori per cui si operava la sospensione. L'impresa deduceva l'illegittimità di detta sospensione nel verbale di ripresa dei lavori, ma dagli atti
emerge che essa era in grado di dedurre l'illegittimità sin dal verbale di sospensione ben
conoscendone le ragioni, va infatti sottolineato che sin dalla firma dell'atto di sottomissione l'impresa sapeva che i lavori avrebbero interessato aree nuove rispetto all'appalto
già del tutto espletato se non per gli allacci di pp.ss. non ancora ultimati. Non viene
dedotta alcuna illegittimità sopravvenuta. L'impresa aveva anche tutti gli elementi per
valutare secondo criteri di media diligenza la gravità dei pregiudizi e l'onerosità degli
esborsi che la sospensione per un tempo mediamente lungo (vista l'esperienza alla consegna dei lavori) le avrebbe arrecato. La condivisa giurisprudenza di merito e di legittimità ha, negli anni, affermato il principio secondo cui la sottoscrizione del verbale di
sospensione dei lavori senza riserve preclude all'imprenditore di dedurre successivamente l'illegittimità della sospensione. La sentenza richiamata dalla parte attrice, Cass.
n.10502/98 esprime un indirizzo del tutto consolidato e condiviso secondo cui può ritenersi tempestiva la riserva relativa alla sospensione dei lavori (legittima o illegittima
che sia) iscritta per la prima volta nel verbale di ripresa lavori solo quando il giudice
accerti che secondo criteri di media diligenza e buona fede dell'interessato, questi abbia
potuto percepire solo al momento della ripresa dei lavori l'idoneità della sospensione a
produrre pregiudizio e onerosi esborsi. Caso del tutto diverso da quello di cui si tratta.
Se per essere tempestiva la riserva doveva essere iscritta al verbale di sospensione dei
lavori, essa avrebbe dovuto necessariamente essere esplicata al 13° SAL quantomeno
nel criterio di determinazione dei maggiori oneri ed esborsi. Va poi rilevato che l'art. 24
del Capitolato generale del Comune prevede, qualora la sospensione si sia protratta per
oltre 6 mesi, la facoltà dell'imprenditore di chiedere lo scioglimento del contratto. mentre il diritto ai maggiori oneri da sospensione sarebbe sorto solo nel caso in l'P.A. si
fosse opposta allo scioglimento del contratto. Cosa non avvenuta perché l'impresa ha
ritenuto di aver interesse ad eseguire comunque i lavori e mantenere il vincolo.
Quanto alla seconda riserva iscritta giustamente il Comune rileva che il DPR n.
1063 del 1962 non ha natura regolamentare ma esclusivamente contrattuale, quindi può
disciplinare gli appalti diversi da quelli in cui committente è lo Stato solo per volontà
pattizia delle parti concretantisi in un esplicito richiamo. Conseguenza è che la regolamentazione in vigore è quella del Capitolato generale del Comune, del Capitolato particolare allegato al contratto. Ora la delibera n.2450 del 24.7.84 e il bando di gara approvato con delibere 1185/85 e 2090/86 affermano che, in applicazione dell'art. 13 del
D.L.n.55/83 e della legge di conversione n.131/83, il calcolo del tempo contrattuale per
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la decorrenza degli interessi non avrebbe tenuto conto dei giorni intercorrenti tra la spedizione della domanda di somministrazione e la ricezione del relativo man- dato di
pagamento presso la competente sezione di Tesoreria provinciale. Peraltro parte attrice
m merito a detta riserva fa riferimento generico al ritardo nell'emissione dei titoli di
spesa e certificati di pagamento facendo riferimento esclusivamente al Capitolato per le
OO.PP. senza neppure replicare al richiamo della indicata norma da parte del Comune
né indicare i periodi di ritardo. Peraltro, giusto per inciso, ciascun ritardo avrebbe dovuto, ai sensi delle norme richiamate dall'attrice, essere iscritto al successivo SAL.
Respinte le domande attrici in quanto le riserve non appaiono correttamente formulate e compiutamente esplicate ai sensi delle norme regolamentari (art. 66 capitolato generale del Comune, capitolato particolare e norme richiamate), alla soccombenza
segue la condanna al pagamento delle spese di lite che si liquidano nel dispositivo.
(omissis)
(1) La tempestività della riserva in caso di sospensione
illegittima dei lavori
1. Generalità
La sentenza in commento tocca, sotto molteplici aspetti problematici, la sempre
attuale tematica dell’ammissibilità formale e sostanziale delle riserve nei pubblici
appalti.
La tematica è coinvolta in due fondamentali, specifici profili ed in particolare: a)
tempestività delle riserve che attengono l’illegittima sospensione dei lavori; b) necessità o no di apporre riserva in ipotesi di mancato o contestato ritardo nei pagamenti dovuti all’appaltatore.
Vediamo partitamente i due aspetti, a partire dal primo, sollevato dalla difesa dell’amministrazione convenuta e sul quale il giudicante ha fondato (sia come “peso specifico” della relativa argomentazione nell’ambito dell’intero testo della pronuncia, sia
come incidenza economica del contendere complessivo, trattandosi di riserva di importo pari a quasi un sesto dell’importo complessivo dei lavori a base di gara) larga parte
della decisione.
2. La riserva per sospensione illegittima:
verbale di sospensione o di ripresa?
Il Comune assume che la prima riserva dell’appaltatore, volta a far valere, per
l’appunto, l’illegittimità della sospensione dei lavori sia da ritenersi inammissibile, perché (intempestivamente) apposta soltanto nel verbale di ripresa dei lavori e non anche
nel verbale di sospensione.
Richiamandosi al combinato disposto degli artt. 16 e 89 dell’allora vigente D.M.
25 maggio 1895 (l’affidamento dei lavori risale al 1997), il committente deduce, in particolare, che la riserva, vertendo sulla (ritenuta) illegittimità della sospensione dei lavori, avrebbe dovuto apporsi anzitutto nel relativo verbale, per poi essere successivamente ripetuta nel verbale di ripresa.
Non solo.
Oltre che intempestiva, la riserva avrebbe dovuto considerarsi comunque inam-
249
RomanaGIURISPRUDENZA CIVILE
temi
missibile, anche in conseguenza della sua mancata iscrizione nel registro di contabilità,
in occasione del sal immediatamente successivo alla sospensione: nella specie, difatti,
l’apposizione interveniva solo in occasione della sottoscrizione del sal successivo al
verbale di ripresa dei lavori, intervenuto due anni dopo la disposta sospensione.
Comunque – deduce, altresì, l’amministrazione - detta riserva doveva ritenersi
anche infondata in diritto, in quanto tesa a richiedere oneri di importo superiore a quelli astrattamente vantabili: ciò perché, ai sensi del Capitolato generale di appalto del
Comune di Roma, i primi sei mesi di sospensione dovevano ritenersi “in franchigia”.
Inoltre, sempre in accordo a quanto ivi previsto, l’impresa avrebbe potuto e dovuto,
decorsi i predetti sei mesi, chiedere lo scioglimento del contratto: il mancato esercizio
di tale facoltà avrebbe precluso - sempre a dire dell’amministrazione comunale - la possibilità stessa di vantare gli oneri richiesti per il lamentato fermo dei lavori.
Il Tribunale accoglie tutte le argomentazioni del Comune di Roma, imperniando
la motivazione sulla circostanza che l’impresa, già al momento della sospensione, era
in grado - stante quanto risultante dagli atti del processo - di apprezzarne l’illegittimità.
Esso si richiama, così, al prevalente insegnamento della Suprema corte, secondo
il quale può ritenersi tempestiva la riserva apposta per la prima volta nel verbale di
ripresa dei lavori, solo quando il giudice accerti, secondo criteri di media diligenza e
buona fede dell’interessato, che questi avrebbe potuto avvedersi dell’illegittimità della
sospensione solo al momento, appunto, della ripresa e non anche al momento del fermo
iniziale (cfr, tra le altre, Cass. civ., 17 dicembre 1987, n. 9396; 27 marzo 1993, n. 3733;
nella giurisprudenza arbitrale, cfr., tra i moltissimi, lodo Roma 29 maggio 1997, n. 52,
Arch. giur. oo. pp., 1999, 51; 9 ottobre 1996, n. 46, ivi, 1998, 1063).
Applicando nella specie tale criterio, la riserva è giudicata intempestiva in quanto - afferma il giudice di prime cure – l’impresa era, già al momento della sospensione,
ben a conoscenza che la stessa fosse ingiustificata e fonte di pregiudizio. Infatti, i lavori venivano sospesi per due motivi (indisponibilità delle aree su cui eseguire i lavori disposti in variante rispetto alle previsioni progettuali iniziali; mancata ultimazione di
lavori di allaccio ai pubblici servizi da parte degli enti erogatori) che attengono, per così
dire, alla “sfera” del committente ed il cui verificarsi fa, in sostanza, emergere una
responsabilità di quest’ultimo per non aver messo in condizione l’appaltatore di eseguire i lavori affidatigli.
In particolare, sempre seguendo il ragionamento del Tribunale di Roma, la conoscenza dell’appaltatore di tale potenziale dannosità poteva scaturire dalla stessa circostanza di aver esso sottoscritto, qualche mese prima, un atto di sottomissione con cui
accettava l’esecuzione delle opere in variante (poi regolarmente approvate).
Dunque, con tale atto l’appaltatore avrebbe preso specifica cognizione del fatto
che avrebbe dovuto eseguire le opere su “quelle” aree e che, conseguentemente, le stesse avrebbero dovuto essere libere e disponibili per avviare gli interventi relativi.
Poiché, invece, tali aree non risultavano disponibili, l’appaltatore avrebbe dovuto rappresentarsi che il fermo dei lavori, conseguente a tale indisponibilità, fosse stato
illegittimamente disposto, proprio per “rimediare” ad una carenza organizzativa della
stessa P.A. (in tal modo incapace di porre l’appaltatore in condizione di avviare gli interventi ordinati in variante).
250
Da qui, in definitiva, la cognizione dell’illegittimità già all’atto della sospensione.
Come detto, poi, altra causa della sospensione era la circostanza che le imprese
erogatrici di pubblici servizi non avevano ancora ultimato le operazioni di allaccio, così
lasciando ulteriori opere da eseguire rispetto al progetto originario.
Anche questa evenienza - afferma il Tribunale - in quanto ben nota all’appaltatore al momento della sospensione, andava contestata, nella sua potenzialità produttiva di
maggiori oneri per l’impresa, sotto forma di riserva, già all’atto della sospensione. Da
qui l’intempestività della riserva apposta solo all’atto della ripresa dei lavori.
Le argomentazioni del Tribunale, condivisibili sul punto dell’ossequio al surricordato orientamento dominante presso i giudici di legittimità, non paiono, però, del
tutto esenti da taluni rilievi critici.
Anzitutto, distinguiamo le due circostanze lamentate dall’impresa come fonti di
maggiori oneri vantati con la riserva (giudicata tardiva).
Quanto alla ritardata esecuzione degli allacci, è senz’altro plausibile ritenere che
la stessa possa essere, in astratto, un’ipotesi di sospensione illegittima: infatti, si tratta di
un situazione tale da rivelare una carente programmazione e gestione dell’appalto da
parte della p.a., che non ha evidentemente saputo prevedere le “ricadute” negative sulla
realizzazione dei lavori di una circostanza dipendente da un ente terzo.
Nel senso dell’illegittimità di una sospensione dovuta a presenza di cose e persone nell’area di sedime od alla necessità di tener conto di interferenze non previste, cfr,
rispettivamente, lodi 9 gennaio 1997, n. 2, Arch. giur. oo. pp., 1999, 1 e 22 ottobre 1992,
ivi, 1993; per una rassegna di ipotesi di sospensione illegittima, ci permettiamo di rinviare al nostro “Le controversie nei lavori pubblici”, Rimini, 2002, 46 e ss..
Recentemente, d’altro canto, la stessa Autorità per la vigilanza sui lavori pubblici, con
determinazione n. 9 del 9 aprile 2003, ha individuato, quali ipotesi di sospensione illegittima, tra le altre, la necessità di introdurre varianti al progetto, interferenze con altre
fasi di lavoro, esigenze organizzative proprie della p.a..
Quello che, però, non pare cosi pacifico è l’assunto per cui l’affidatario abbia
maturato, già all’atto della sospensione, la valutazione dell’attitudine produttiva di questa circostanza a produrre oneri aggiuntivi.
Difatti, se in sede di sospensione l’appaltatore poteva senz’altro qualificare la circostanza originante la sospensione come ascrivibile a colpa dell’amministrazione, in
modo non altrettanto certo poteva avvedersi della concreta potenzialità di tale situazione a far discendere maggiori oneri (e, men che mai, una puntuale valutazione economica del danno ritenuto), in quanto solo attraverso la cognizione della reale consistenza
temporale della sospensione avrebbe potuto avvedersi dell’effettiva attitudine lesiva di
detta circostanza.
Poniamo, ad esempio, che il programma temporale dei lavori preveda, nel
periodo coincidente con la sospensione o quantomeno all’inizio di essa, l’esecuzione di lavori non materialmente interessati detto ritardo, ovvero su aree nelle quali
l’allaccio non avrebbe dovuto operare o comunque operare da subito. In tale ipotesi,
una sospensione, nell’esempio, di soli tre mesi avrebbe potuto nullificare l’incidenza negativa del ritardo. In questo caso, dunque, il fatto di non avere da subito a disposizione i pubblici allacci non dovrebbe generare alcuna potenzialità lesiva per
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RomanaGIURISPRUDENZA CIVILE
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l’appaltatore (rectius: non sarebbe in grado di renderlo edotto di tale potenzialità, per
il semplice fatto che, al momento della sospensione, egli non è in grado di sapere se
la stessa permarrà per tre mesi o un anno o due anni).
In tale situazione – sempre per rimanere all’esempio fin qui delineato - l’appaltatore, pur consapevole che l’evento occorso sia di per sé astrattamente fonte di
pregiudizio per la regolare e tempestiva esecuzione dei lavori (in quanto ascrivibile
al novero degli eventi che, in una relazione di causa-effetto, producono uno stravolgimento del programma realizzativo dovuto a responsabilità del committente), non
avrebbe, però, ancora maturato la coscienza della concreta, reale dannosità dell’evento stesso. Coscienza che, invece, lo stesso appaltatore potrebbe inevitabilmente
conseguire solo dopo l’intervenuta sospensione, con la conseguenza di poter iscrivere riserva solo all’atto della ripresa.
Identico ragionamento può riprodursi per l’ulteriore circostanza originante la
sospensione (indisponibilità delle aree su cui eseguire i lavori in variante).
Anche in tale ipotesi, non necessariamente l’indisponibilità in astratto registrata al momento del fermo, sebbene logicamente “incasellabile” tra le cause che
costituiscono ipotesi di illegittimità di esso, può essere percepita, secondo indici di
diligenza e buona fede, come immediata fonte di pregiudizio economico per l’affidatario.
L’impresa, difatti, poteva non avere immediata cognizione del fatto che le aree
fossero indisponibili e, ancor più, che non lo fossero per fatto del committente.
In altre parole, quello che pare emergere nel ragionamento del Tribunale è un
sostanziale “salto logico” nel punto in cui afferma che dall’avvenuta sottoscrizione
dell’atto di sottomissione l’impresa poteva ben acquisire contezza dell’illegittimità
del fermo: poteva certamente sapere che avrebbe dovuto lavorare su aree nuove, ma
come poteva sapere, sulla scorta della semplice sottoscrizione del verbale, che tali
nuove aree dovessero essere libere proprio al momento del fermo?
L’ovvia circostanza che l’atto di sottomissione sia stato firmato non determina, di per sé, salvo diversa indicazione contenuta in quest’atto (di cui, però, il
Tribunale non dà conto), che l’appaltatore fosse in grado di rappresentarsi la libera
disponibilità delle aree oggetto dei nuovi lavori già al momento della sospensione.
In definitiva, la pronuncia in esame finisce, ad avviso di chi scrive, per trascurare la più intima valenza dell’orientamento giurisprudenziale richiamato dalla
stessa, che, a rigore, non impone di apporre automaticamente, in ipotesi di sospensione reputata illegittima, la riserva già al verbale di sospensione, ma richiede che
sia svolta, in concreto, un’indagine finalizzata a verificare, in base a parametri di
media avvedutezza, se la producibilità di maggiori oneri da parte della sospensione
fosse o meno già immediatamente percepibile al momento della sospensione.
Laddove nel passato la Suprema Corte (cfr., Cass. civ., 4 gennaio 1978, n. 21),
operava un distinguo sostanzialmente “apodittico” (sospensione ab initio illegittima
– riserva in calce al verbale di sospensione; sospensione illegittima solo successivamente – riserva in calce al verbale di ripresa), negli ultimi anni, invece, la valutazione dell’illegittimità non può essere assoluta, operata cioè ex post ed in astratto,
ma ex ante, imponendo cioè di riportarsi al momento della sospensione per avve-
252
dersi se l’appaltatore poteva effettivamente percepire la potenzialità lesiva della
sospensione nel frattempo impostagli.
La riserva, dunque, va correttamente apposta nel momento in cui il fatto dannoso cominci a presentare, con obiettiva certezza, una sua potenzialità dannosa,
ossia nel momento in cui tale potenzialità divenga palese secondo indici di diligenza e perizia, per cui sarebbe contrario a buona fede ritenere decaduto l’appaltatore
dal diritto di farla valere se, al momento in cui avrebbe dovuto apporla, non disponeva di obiettivi elementi per valutare detta produttività lesiva e non poteva pertanto determinarsi nel senso di formulare o no una richiesta risarcitoria (Cass. civ., 27
gennaio 1998, n. 6; 5 novembre 1996, n. 170).
Altra considerazione che ci pare decisiva è che, sempre secondo la richiesta
valutazione guidata da diligenza e buona fede, la sospensione poteva rappresentarsi
come illegittima solo successivamente, non solo perché solo successivamente potevano, in concreto, scaturire effetti negativi, ma anche perché la valutazione di illegittimità poteva discendere, giocoforza solo successivamente, dalla constatazione di
una sproporzionatezza della durata della sospensione.
In altre parole, se la sospensione fosse durata ad es. soltanto 40 giorni, la sua
legittimità poteva dedursi sulla base proprio di tale limitata protrazione, perché l’appaltatore poteva, per l’appunto, giudicare un tale lasso di tempo adeguato per conseguire la disponibilità della aree o per permettere alla ditta esecutrice dei sottoservizi di ultimare gli allacci; protraendosi, invece, ben al di là di tale torno temporale,
l’apprezzamento di tale (sopravvenuta) illegittimità poteva discendere all’appaltatore solo all’atto della ripresa, cioè alla prima occasione utile per segnalarlo.
A questo punto, non comprendiamo, trattandosi di sospensione illegittima, il
riferimento operato dal Tribunale alla previsione del Capitolato Generale Comunale,
ispirata all’art. 30, comma 2 del d.P.R. n. 1063/1962 (Capitolato generale per le
opere statali). Secondo tale norma, in caso di sospensione protrattasi per oltre 6
mesi, l’appaltatore ha la facoltà di chiedere lo scioglimento del contratto, potendo
vantare i soli maggiori oneri derivanti dal prolungamento del fermo oltre tale termine, esclusivamente in caso di diniego allo scioglimento da parte della stazione appaltante. Qui - sentenzia il Tribunale - è mancata la richiesta di scioglimento e comunque, ove vi fosse stata, il riconoscimento economico complessivo avrebbe dovuto
essere al netto di quello corrispondente ai sei mesi iniziali.
A rigore, la norma in parola riguarda la sospensione legittima: detto meccanismo compensativo di maggiori oneri da ritardo si lega, cioè, alla sospensione fondata sui motivi che ne consentono l’adozione. Meccanismo che, però, non si produce nel caso in cui il fermo sia disposto al di fuori – come nella specie – dei presupposti di legittimità normativamente (o contrattualmente) previsti. Si “riespande”
così la regola generale del diritto della parte non inadempiente (l’appaltatore) a ricevere da quella inadempiente (il committente) quanto gli spetta.
In questo senso, nella direzione cioè di dover riferire la possibilità, per l’impresa, di chiedere lo scioglimento del contratto, e di ottenere il solo riconoscimento
dei maggiori oneri da ritardo, alla sola ipotesi di sospensione legittima e non anche
nel diverso caso di illegittimità, si segnalano, tra le altre, Cass. civ., 4 febbraio 2000,
253
n. 1217; 5 agosto 1997, n. 7196; lodo 30 dicembre 2000, n. 60.
3. Il ritardo nei pagamenti e l’esclusione dell’onere della riserva
Con la seconda riserva, l’impresa contesta il ritardo nell’emissione dei certificati di pagamento e dei titoli di spesa. Detto ritardo è, invece, escluso dall’amministrazione comunale, la quale deduce che, trovando applicazione all’appalto (lex
specialis dell’affidamento in virtù del suo espresso richiamo nei documenti di gara)
l’art. 13 del d.l. n. 55/83, conv. in l. 131/83, il calcolo dei tempi contrattuali per la
decorrenza degli interessi da ritardato pagamento non avrebbe dovuto tenere conto
dei giorni intercorsi tra la spedizione della domanda di partecipazione e la ricezione
del relativo mandato di pagamento da parte della competente tesoreria provinciale.
Anche in questo caso, il Tribunale di Roma accoglie le eccezioni del committente, aggiungendo, a motivo dell’irritualità della corrispondente riserva e del conseguente effetto di decadenza, che la riserva stessa è generica per la mancata indicazione del periodo di ritardo, nonché errata nel punto in cui richiama una normativa non applicabile all’affidamento in esame (il Capitolato generale d’appalto).
Per di più, conclude il Tribunale, la lamentazione del ritardo avrebbe dovuto
riprodursi nel registro di contabilità, in occasione del corrispondente stato di avanzamento.
Anche questa argomentazione, in verità, non si sottrae a censure.
Infatti, il ritardo nei pagamenti dovuti all’appaltatore ed in particolare dell’emissione dei relativi documenti giustificativi da parte del committente, non costituisce oggetto di riserva. Tale esclusione, oggi ribadita dal Regolamento generale di
attuazione della Legge quadro (art. 116, ultimo comma, del d.P.R. n. 554/99 e s.m.i.,
peraltro non applicabile alla specie), era comunque già sancita in precedenza dalla
l. n. 741 del 1981, il cui art. 5, per l’appunto, espressamente stabiliva che le contestazioni in parola sono sollevabili (in particolare, quelle volte ad ottenere il riconoscimento degli interessi, dunque, a fortiori, quelle che rivendichino il ritardo in
quanto tale) senza necessità di apporre riserve nelle modalità rituali di esse.
Dunque, la circostanza, rilevata nella specie, che il lamentato ritardo sia stato
sollevato solo in termini generici non dovrebbe costituire elemento ostativo all’eventuale riconoscimento delle conseguenze di esso.
Escluso il detto onere decadenziale e conseguentemente anche il relativo
effetto, la contestazione sul ritardo si sposta inevitabilmente sul piano ordinario:
occorre, cioè, verificare se la stessa sia o meno fondata nel relativo merito.
Valutazione che, nell’applicazione della normativa del 1993 surrichiamata in
luogo del capitolato generale, pare comunque dare ragione al Comune.
La riserva era, in definitiva, sostanzialmente infondata nel merito, non anche
nella ritualità oppositiva.
Avv.. Aldo AREDDU
Avv. Barbara PANNUTI
254
RomanaGIURISPRUDENZA CIVILE
temi
TRIBUNALE DI ROMA – SEZIONE LAVORO –
SENTENZA 25 GIUGNO 2004 N.12891 – EST. MAGALDI –
TS E BA C/ FEDERAZIONE ITALIANA TENNIS – FIT
Lavoro (rapporto di) – Discipline sportive – Tennis -Maestro federale – sottoscrizione di contratti di collaborazione coordinata e continuativa succedutisi nel tempo - nullità dei termini apposti ai contratti – unicità di rapporto
a tempo indeterminato – sussistenza.
Deve essere dichiarata la nullità del termine apposto ai contratti di lavoro
di maestri di tennis e dichiarata l’unicità del rapporto a tempo
indeterminato, allorché siano inseriti stabilmente nell’attività
imprenditoriale del datore, siano soggetti al potere conformativo di questi
e siano anche tenuti allo svolgimento di ulteriori attività estive presso altre
localizzazioni – sempre organizzate e facenti capo al datore di lavoro-,
restando irrilevante il nomen juris dato dalle parti al contratto stipulato (1).
La sentenza così motiva:
(omissis)
Solgimento del processo
on distinti ricorsi successivamente riuniti T.G. e B.G. premesso che la FIT
(Federazione Italiana Tennis) è ente associativo con personalità giuridica di
diritto privato affiliato al CONI e che a partire dal 1999 avèva più di 15 lavoratori
alle proprie dipendenze esponevano: che al fine dello svolgimento delle attività di
formazione dei maestri di tennis la FIT si era continuativamente avvalsa, dal 1966,
della Scuola Nazionale Maestri (struttura priva di personalità giuridica facente Parte
dell'organizzazione della FIT, dotata di propri organi, addetti e regolamento interno,
con comitato direttivo che risponde del proprio operato agli organi centrali della
FIT) che, a sua volta, per lo svolgimento delle proprie attività, si avvale delle strutture del Foro italico e del centro sportivo delle "Tre Fontane"; che i corsi per la formazione degli allievi maestri e degli istruttori hanno durata complessiva di 12 mesi
e si articolano in due cicli, uno presso le strutture della SNM a Roma- da. ottobre a
meta giugno - ed uno presso i centri federali estivi della durata di circa tre mesi; che
i centri estivi federali sono stati costantemente coordinati dagli organi centrali della
FIT' i quali, mediante apposita convenzione, hanno incaricato l'associazione sportiva Luigi Orsini aderente alla FIT di controllarne il funzionamento e l'organizzazione sulla base delle direttive della stessa FIT; che gli utili dei centri federali estivi
sono stati versati annualmente nelle casse della FIT;
che in tutti i periodi dei corsi presso la SNM ed i centri federali estivi hanno
operato il direttore della SNM, i docenti e gli allievi maestri;
che il direttore della SNM aveva provveduto ad organizzare, dirigere, coordinare e controllare i corsi della scuola, l'attività dei docenti, provvedendo ad impartire le lezioni teoriche e pratiche e le disposizioni di servizio sulle modalità delle prestazioni;
C
255
RomanaGIURISPRUDENZA CIVILE
temi
che essi ricorrenti, una volta conseguito il diploma di Maestro di Tennis
hanno continuativamente ed ininterrottamente prestato la propria attività lavorativa
per la FIT, ricoprendo l'incarico di maestro federale docente;
che il suddetto rapporto veniva configurato come di collaborazione coordinata e continuativa mediante la stipula di una serie di contratti succedutisi nel tempo;
che essi ricorrenti avevano svolto la propria attività senza soluzione di continuità, ivi compresi gli intervalli tra un contratto e l'altro;
che nel corso del rapporto erano stati costantemente sottoposti alle direttive
del direttore della SNM il quale esercitava poteri di vigilanza e controllo in ordine
ai tempi, alle modalità di svolgimento e di organizzazione delle prestazioni effettuate da essi ricorrenti; che l'attività didattica si era sempre SVolta sulla base e nel
rispetto dei programmi preventivamente predisposti dal Comitato Direttivo e da1
Direttore della SNM ed approvati dal Consiglio federale della FIT;
che avevano svolto le mansioni che specificamente indicavano secondo le
modalità e gli orari precisati in ricorso; che avevano percepito le retribuzioni in
misura fissa;
che nell'ottobre del 1999 il direttore della SNM comunicava loro che la scuola non avrebbe effettuato alcun Corso per l'anno 1999/2000 e che non erano utilizzabili in altro modo; che venivano licenziati ora1n1ente da1 Direttore tecnico della
FIT Adriano Panata.
Tanto esposto in fatto, sostenevano la natura subordinata del rapporto, la nullità del termine apposto ai contratti succedutisi nel tempo e la loro conversione in
contratti a tempo indeterminato.
Inoltre impugnavano il licenziamento intimato oralmente.
Concludevano chiedendo dichiararsi la natura subordinata del rapporto intercorso tra le parti; dichiarare la nullità del termine apposto a tutti i contratti stipulati
e convertire detti contratti in un unico contratto a tempo indeterminato con decorrenza rispettivamente dall'1.10.1991 (T.) e dal1'1.1.1992 (B.) con diritto di essi
ricorrenti al pagamento di tutte le retribuzioni i maturate e maturande dalla cessazione delle prestazioni (ottobre 1999) sino ad altro valido atto risolutivo sulla base
della retribuzione mensile di l. 4.108.666, .(T.) e l.4.182.921 (B.).
In via subordinata chiedevano dichiararsi l'inefficacia del licenziamento orale
intimato loro e condannare la parte convenuta a reintegrarli nel posto di lavoro ed a
risarcire il danno in misura pari alle retribuzioni globali di fatto dal licenziamento
alla reintegra, sulla base dell'ultima retribuzione;
in via ancora più subordinata chiedevano applicarsi la tutela di cui alla
l.604/1966.
Nel caso di riconoscimento della legittimità del licenziamento chiedevano
condannarsi la controparte al pagamento della indennità di mancato preavviso. In
ogni caso chiedevano dichiararsi il proprio diritto alla qualifica di cui al II livello del
ccnl dello Sport ovvero alla qualifica di impiegato 1 ccnl CONI e, per l'effetto condannarsi 1a controparte al pagamento delle somme specificamente indicate per ciascuno di essi, oltre accessori ed oltre ai contributi previdenziali.
Si costituiva la parte convenuta eccependo, preliminarmente l’invalidità della
256
notifica del ricorso introduttivo per mancato rispetto del termine di cui all'art. 415
c.p.c. Nel merito contestava la dedotta continuità del rapporto intercorso tra le partì
e rilevava l'intervenutà prescrizione triennale e quinquennale dei crediti vantati, contest:ava la prospettazione dei fatti relativa alla Associazione Orsini, sostenendone la
natura di affiliata, evidenziando, inoltre, che il direttore della scuola non era dipendente della stessa e non poteva, quindi, avere potere disciplinare e di controllo.
Concludeva chiedendo il rigetto del ricorso.
L'istruttoria veniva espletata mediante l'audizione di testimoni e, esaurita la
trattazione, la causa veniva discussa e decisa come da dispositivo.
Motivi della decisione
Il ricorso è fondato e deve, pertanto, trovare accoglimento.
Deve, infatti, osservarsi che le dichiarazioni rese dai testi escussi consentono
di affermare la natura subordinata del rapporto di lavoro. Al riguardo giova in primo
luogo ricordare che la S.C. - secondo un orientamento che questo Giudice ritiene di
dover condividere - ha affermato che: “Ai fini della distinzione tra. lavoro autonomo e subordinato è determinante la sussistenza o meno del vincolo di subordinazione inteso quale vincolo personale che assoggetta il prestatore al potere direttivo del
datore di lavoro con conseguente limitazione della sua autonomia, dovendo peraltro
l'entità delle direttive e del connesso potere di controllo del datore di lavoro essere
correlata sia alla natura delle prestazioni - assumendo rilievo sotto tale profilo la
natura intellettuale e professionale delle stesse - sia al ruolo dei prestatori nell'ambito dell'impresa ed ai loro rapporti con l'imprenditore sul piano della capacità e della
fiducia. Pertanto solo quando tale carattere distintivo non sia agevolmente apprezzabile a causa del concreto atteggiarsi del rapporto occorre far riferimento ad altri
criteri, complementari e sussidiari - come l'osservanza di un orario di lavoro predeterminato, il versamento a cadenze fisse di una retribuzione prestabilita, l'assenza in
capo al lavoratore di una sia pur minima struttura imprenditoriale - i quali benché
privi di valore decisivo se individualmente considerati, ben possono esser valutati
globalmente come indizi.
Ne consegue ulteriormente che, con particolare riguardo all’attività di insegnamento in favore di istituti di carattere privato, qualora le modalità e caratteristiche concretamente assunte dalla prestazione consentano di ricondurre la stessa nell'ambito della subordinazione lavorativa resta irrilevante il diverso “nomen juris”
dato dalle parti al rapporto all'atto della sua stipulazione, non potendo la necessaria
indagine sulla loro volontà negoziale andar disgiunta da una verifica del concreto
svolgersi della prestazione, in eventuale contrasto con la qualificazione datane dalle
parti. (Cass. n.2370/98).
In Particolare, con riferimento alle deposizioni testimoniali in atti, si osserva
che è emerso che i ricorrenti erano assoggettati al potere conformativo del datore di
lavoro il quale esercitava il proprio potere disciplinare anche mediante la prospettazione del mancato rinnovo del contratto.
La circostanza che i dirigenti ai quali si affidava la FIT fossero dei “dirigenti
dilettanti" non assume alcun rilievo in ordine alla valutazione della valenza giuridi-
257
RomanaGIURISPRUDENZA CIVILE
temi
ca del concreto atteggiarsi dei rapporti tra le parti; ciò che rileva, infatti, è solo la
riconducibilità del comportamento del preposto al preponente e sul punto non vi è
né può esservi alcuna contestazione. Parimenti, scarso pregio hanno le doglianze in
ordine alla circostanza che i testi addotti da Parte ricorrente avessero a loro volta
delle cause pendenti per le stesse ragioni poiché se non vi sono elementi per ritenere che le dichiarazioni rese sono mendaci le stesse devono essere ritenute veritiere
ed anche sul punto non vi sono apprezzabili contestazioni.
Il rapporto di lavoro dei ricorrenti, quindi, alla luce delle risultanze istruttorie
presenta tutti gli indici rivelatori della subordinazione che sono l'assoggettamento
del lavoratore al potere direttivo e disciplinare del datore di lavoro con conseguente limitazione della loro autonomia ed inserimento nell'organizzazione aziendale; al
riguardo è rilevante l'esistenza in tal senso di un diritto del datore di lavoro e, rispettivamente, di un obbligo del lavoratore, derivanti dal contratto, fermo restando che
la qualificazione del rapporto compiuta dalle parti nella iniziale stipulazione del
contratto non è determinante, stante la idoneità, nei rapporti di durata, del comportamento delle parti ad esprimere sia una diversa effettiva volontà contrattuale, sia
una nuova diversa volontà (cfr. sul punto Cass. n. 15001/2000).
La giurisprudenza ha, inoltre, affermato che elementi quali l’assenza del
rischio, la continuità della prestazione, l'osservanza di un orario e la cadenza e la
misura fissa della retribuzione assumono natura meramente sussidiaria e non decisiva, fermo restando che l'apprezzamento in concreto circa la riconducibilità di
determinate prestazioni ad un rapporto di lavoro subordinato o autonomo si risolve
in un accertamento di fatto.
Orbene, dall’istruttoria espletata è emerso che il ricorrenti erano tenuti ad eseguire le loro prestazioni lavorative secondo le modalità indicate dal datare di lavoro il quale disponeva gli orari di lavoro e dava direttive in ordine alle modalità di
svolgimento delle lezioni.
È, inoltre, emerso che i ricorrenti erano tenuti a partecipare ai corsi estivi che
costituivano una prosecuzione delle lezioni invernali e il rifiuto di partecipare ha
portato al mancato rinnovo del contratto.
Deve, ancora, sottolinearsi che la durata dei rapporti tra le parti porta a ritenere che gli stessi fossero stabilmente inseriti nel1'organizzazione della parte convenuta e che detta organizzazione si fondava proprio sulla prestazione dei ricorrenti e degli altri maestri legati da analoghi contratti.
Passando al1'esame delle deposizioni testimoniali, il teste C. ha dichiarato che
i contratti venivano stipulati successivamente all'inizio dell'attività lavorativa; che
avevano lavorato con continuità, senza distinzione temporale tra i corsi invernali e
quelli estivi; che l'attività veniva diretta da A.R., direttore della SNM; che in caso di
assenza dovevano giustificare con certificato medico; che non potevano rifiutarsi di
svolgere le attività di cui erano incaricati; che il Direttore aveva effettuato, in caso
di inosservanza di direttive o di ritardi, dei richiami scritti; la retribuzione era fissa
e corrisposta mensilmente; che il numero di ore del calendario delle lezioni veniva
stabilito dal direttore e non vi era alcuna trattativa tra lui e i maestri.
Le sopra richiamate dichiarazioni hanno trovato conferma nella deposizione
258
di A.R., direttore della SNM: questi, in particolare, ha affermato che nel periodo estivo la scuola si trasferiva presso i centri estivi con tutti gli allievi, maestri ed insegnanti; che esso teste presenziava alle lezioni, dava ai ricorrenti il programma delle
lezioni e ne controllava l'esecuzione; che la scuola di formazione dei maestri aveva
una struttura fortemente disciplinare ed i ricorrenti erano soggetti al suo potere
gerarchico e non avevano margini di autonomia; che non godevano di ferie; che la
retribuzione era fissa e mensile e tutta l'attrezzatura era fornita dalla FIT; che gli
alloggi presso il centro estivo erano pagati dalla FIT la quale pagava anche i costi
delle trasferte.
Quanto sopra richiamato consente di affermare che il ricorrenti hanno prestato la propria attività in favore della parte convenuta anche nei periodi estivi, non rilevando i rapporti interni tra FIT ed Associazione Orsini dovendosi affermare che le
prestazioni erano sempre effettuate in favore della FIT e sotto le direttive di quest'ultima attraverso i suoi preposti.
Conseguentemente alle risultanze istruttorie va ritenuta l'illegittimità del termine apposto ai singoli contratti ed affermata l'unicità dei rapporti di lavoro e la persistenza degli stessi con conseguente obbligo del datore di lavoro di corrispondere
tutte le retribuzioni maturate dai ricorrenti dalla data della messa in mora, rinvenibile nella richiesta di tentativo obbligatorio di conciliazione e fino a valido atto risolutivo del rapporto.
Quanto alle altre differenze retributive richieste le stesse, in assenza di specifiche e puntuali contestazioni, possono ritenersi attendibili atteso che non vi è dubbio che ai ricorrenti non furono riconosciuti tutti i c.d. istituti collaterali (ferie, mensilità aggiuntive).
La Parte convenuta va, quindi, condannata al pagamento della somma di €
127.419,19 in favore di T. e di € 125.006,56 in favore di B., dovendosi escludere le
somme richieste a titolo di t.f.r. e di indennità di mancato preavviso.
La Parte convenuta va, inoltre, condannata al pagamento delle retribuzioni
maturate dalla data di offerta delle prestazioni sino ad un valido atto risolutivo del
rapporto.
L'eccezione di prescrizione sollevata dalla Parte convenute è destituita di fondamento considerato che il rapporto non poteva ritenersi assistito da stabilità, atteso
il profilo formale dalla stesso assunto. La natura subordinata dei rapporti dedotti in
giudizio comporta l'obbligo per il datare di lavoro di versare i contributi previdenziali (omissis).
1) La qualificazione del rapporo di lavoro dell’istruttore di tennis
La sentenza che si annota torna a pronunciarsi sugli elementi caratterizzanti la
subordinazione nel rapporto di lavoro, con particolare riguardo ad una categoria di
prestatori di lavoro (maestri di tennis) che – per la peculiarità dell’attività espletata
– possono, per certi versi, configurarsi come sui generis.
In particolare, il Giudicante, nel valutare il rapporto lavorativo di due maestri
di tennis che avevano sottoscritto diversi contratti di collaborazione coordinata e
continuativa con la Scuola Nazionale Maestri di Tennis (struttura priva di persona-
259
RomanaGIURISPRUDENZA CIVILE
temi
lità giuridica facente parte dell’organizzazione della FIT – ente associativo affiliato
CONI) ha, correttamente, ravvisato la sussistenza di un rapporto con le caratteristiche della subordinazione all’esito di un’indagine volta ad appurare le concrete modalità di svolgimento dell’attività lavorativa, non ritenendo preclusivo a tale esame il
mero nomen juris conferito dalle parti al rapporto1.
Se per certi versi può dirsi assodato il principio secondo cui, specie nei rapporti
di durata, la qualificazione del rapporto compiuta dalle parti nella iniziale stipulazione del contratto soccombe dinanzi al concreto comportamento delle stesse (che ben
potrebbero manifestare una volontà difforme)2, per altro verso appare sicuramente
singolare che la figura del maestro di tennis sia considerata, a tutti gli effetti, ricompresa nell’alveo della subordinazione, almeno considerando le pregresse pronunce
succedutesi negli anni, ove la figura dell’istruttore sportivo è stata ricondotta nella
diversa tipologia del lavoro autonomo3.
Sin dalla metà degli anni ottanta, infatti, sia la giurisprudenza di legittimità che
quella di merito (fatte salve alcune eccezioni), in riferimento anche ad altre categorie
di istruttori sportivi, hanno spesso ricondotto l’attività degli stessi al rapporto di lavoro di tipo professionale, caratterizzato da un’ampia autonomia tecnica ed organizzativa dell’attività di insegnamento.
La disamina dei precedenti di merito emersi in relazione alla medesima fattispecie, evidenzia come le qualificazioni operate in termini di autonomia dei rapporti
ivi dedotti, potessero giustificarsi nelle modalità di svolgimento delle prestazioni
lavorative, diverse da quelle vagliate dalla pronuncia in esame. Decisive, in tal senso,
si erano rivelate in passato circostanze fattuali sintomatiche di una notevole libertà di
autodeterminazione del professionista quali, ad esempio, la piena autonomia di scelta del corso da curare, la libertà di farsi sostituire in caso di assenza, ecc….
Ancora, sul punto, la Corte di Cassazione4, aveva, negli anni 80, chiaramente
affermato come gli istruttori sportivi espletassero “ un’attività didattica e ricreativa
assimilabile, in quanto tale, nella tipologia delle professioni intellettuali, il cui esercizio non comporta alcuna organizzazione imprenditoriale, nemmeno rudimentale,
né comporta lo spostamento del rischio d’impresa a carico del lavoratore intellettuale; ne consegue la configurabilità di un rapporto di lavoro autonomo e la non
assoggettabilità a contribuzione dei predetti istruttori, già dipendenti di enti pubblici, per l’ulteriore attività intellettuale espletata”.
Tuttavia, come già evidenziato, la qualificazione giuridica, subordinata o
meno, di un rapporto di lavoro in caso di contestazione del nomen juris, non può prescindere da una verifica delle modalità di esecuzione delle prestazioni rese dal lavoratore e del concreto atteggiarsi del rapporto tra le parti.
A tal fine, compito del Giudice, è pertanto quello di verificare se ricorrano o
meno i requisiti della subordinazione, ovvero se si sia in presenza di un’attività condotta dal soggetto – nella specie personale docente – in regime di autodeterminazione.
1 Cfr, sul punto, tra le tante, Cass. , sezione lavoro,
n. 15001/2000.
2 P. Pavia. Pavia, 15-07-1983; P. Roma. Roma, 24-02-1993.
3 Cass., 20-03-1987, n. 2788
260
In tale ottica la giurisprudenza ha da tempo enumerato i seguenti indici rilevatori, tesi a rendere più agevole il compito dell’interprete chiamato alla qualificazione giuridica di un rapporto dalla “maschera controversa”:1) soggezione del lavoratore al potere direttivo e disciplinare del datore di lavoro; 2) pagamento della retribuzione a scadenza mensile ed in misura fissa; 3) vincolo di presenza sul posto di
lavoro e di rispetto di un orario di lavoro prestabilito dal datore di lavoro; 4) utilizzazione da parte del lavoratore degli strumenti messi a disposizione dal datore di
lavoro; 5) inserimento del lavoratore nell’organizzazione imprenditoriale–aziendale
del datore di lavoro; 6) l’assenza di rischio economico sottostante all’attività lavorativa.
Nella sentenza in commento il Giudice ha pertanto correttamente ravvisato la
sussistenza dei suddetti indici, concludendo per la configurabilità di un rapporto di
lavoro subordinato in capo agli istruttori di tennis, rilevando come gli stessi operassero esclusivamente in base alle direttive emanate dal direttore della Scuola Maestri
di Tennis e con conseguente totale limitazione della loro autonomia, anche prendendo in considerazione, seppur con la valenza di criteri ausiliari, l’obbligo di rispettare un vincolo di presenza, comprensivo anche dei periodi estivi e la corresponsione di un compenso a cadenze fisse.
Ancora una volta, pertanto, l’ennesima conferma che, pur a fronte di attività
lavorative le quali, per la particolarità dell’attività esercitata e per il grado di professionalità che le contraddistingue, potrebbero essere classificate come autonome,
compito proprio del Giudicante è quello di condurre una puntuale e concreta indagine di fatto al fine di valutare l’assoggettamento del lavoratore al potere conformativo di parte datoriale, estrinsecatesi soprattutto nell’esercizio del potere disciplinare (esercitato anche attraverso la minaccia del mancato rinnovo del contratto5,
come in questo caso), nonché l’inserimento funzionale del dipendente stesso nell’organizzazione datoriale, con spendita delle energie lavorative nell’esclusivo interesse dell’impresa e secondo modalità predeterminate6.
Avv. Fabiana DI MARIO
5 Cass.SS.UU. 30.06.99 n. 379 ; Cass. Sez.Lav. n. 5508/2004.
6 Tra le tante : Cass. Sez. Lav.n. 5464/1998 ; Cass. Sez. Lav. n.
2970/2001.
261
RomanaGIURISPRUDENZA CIVILE
temi
TRIBUNALE DI ROMA – SEZIONE FALLIMENTARE –
SENTENZA 8 GIUGNO 2004 – GIUDICE UNICO EST. TRONCI –
CONSORZIO AGRARIO IN LCA – SPI SPA
Fallimento e procedure concorsuali – Liquidazione coatta amministrativa –
azioni revocatorie – Prescrizione – Decorrenza – dall’accertamento
dello stato di insolvenza - Legittimità
Il termine quinquennale di prescrizione dell’azione revocatoria
esercitata dalla procedura di Liquidazione coatta amministrativa
decorre dall'accertamento dello stato di insolvenza ove questo segua
alla messa in l.c.a., perché solo da tale momento il diritto può essere
fatto valere (1).
La sentenza così motiva:
Solgimento del processo
on atto di citazione ritualmente notificato in data 23/3/01 a mezzo del servizio postale, il Consorzio attore, premettendo che era stato assoggettato alla
procedura di liquidazione coatta amministrativa con decreto ministeriale del
24/1/92 e che con sentenza in data 1/10/98 il Tribunale di Roma ne aveva dichiarato lo stato di insolvenza ex art. 202 l.f., conveniva in giudizio la banca convenuta chiedendo la revoca ex art. 67 co. 2 l.f. delle rimesse effettuate nel periodo
compreso tra il 24/1/91 al 24/1/92 sul conto corrente (omissis), per l'importo complessivo di Lit. 2.277.153.580, in quanto aventi carattere solutorio, con conseguente condanna della convenuta alla restituzione delle somme indicate, ovvero
della somma diversa determinata in corso di causa, con interessi legali e rivalutazione monetaria.
Si costituiva la convenuta, eccependo in primo luogo la incompetenza funzionale del Tribunale fallimentare non trovando applicazione nell'ambito della
liquidazione coatta amministrativa il principio della "vis attractiva" di cui all'art.
24 l.f., indi eccepiva altresì la prescrizione dell'azione, dovendo il termine quinquennale decorrere dalla data di messa in liquidazione coatta e non da quello della
successiva dichiarazione di insolvenza ed affermava, comunque, la irrevocabilità
delle rimesse indicate come solutorie dall'attore, in quanto il periodo sospetto
andava computato con riferimento alla data di accertamento della insolvenze e
non a quella di apertura della procedura di liquidazione coatta; infine deduceva la
insussistenza del presupposto subiettivo della "scientia decoctionis" e contestava
il carattere solutorio delle rimesse risultando il conto assistito da linea di credito
dell'importo di £ 350.000.000, concludendo, quindi, per il rigetto della domanda.
Terminata l'istruzione, esauritasi in produzioni documentali, prova per testi
ed espletamento di CTU, venivano precisate le conclusioni all'udienza del
28/11/03, come in epigrafe richiamate. La causa era trattenuta in decisione con
termini di legge per deposito di scritti e repliche.
C
262
Motivi della decisione
Preliminarmente va disattesa l'eccezione di incompetenza funzionale sollevata dalla convenuta, che lamenta la inapplicabilità dell'art. 24 l.f. alle ipotesi di
liquidazione coatta amministrativa. Qui tuttavia, a parte la fondatezza o meno del
rilievo, si osserva che il Consorzio di fatto contesta la attribuzione della causa alla
sezione fallimentare del Tribunale di Roma e non la competenza "tout court" di
quest'ultimo Tribunale, quale autorità giudiziaria che ha dichiarato la insolvenza.
Pertanto, costituendo la ripartizione degli affari tra più sezioni del medesimo
Tribunale, compresa quella fallimentare, "materia tabellare" avente meno rilievo
interno, non può ipotizzarsi rispetto alla mancata osservanza dei criteri tabellari
predeterminati per la ripartizione degli affari nel medesimo ufficio, una violazione
delle norme sulla competenza, sicché il richiamo all'art. 24 l.f. si palesa in proprio.
In ordine alla eccezione di prescrizione dell'azione l'esame di recenti pronunce sia pure di merito anche di questo Tribunale impone un attento vaglio della
difesa, già delibata in corso di giudizio.
Il termine quinquennale di prescrizione decorre, infatti, secondo un orientamento sinora prevalente tra i giudici di merito, dall'accertamento dello stato di
insolvenza ove questo segua alla messa in l.c.a., perché solo da tale momento, si
osserva, il diritto può essere fatto valere, mentre se l'accertamento giudiziale della
insolvenza precede la liquidazione (art. 195 l.f.) il diritto potrà esser fatto valere dal
provvedimento che ordina la liquidazione (cfr. fra le decisioni più recenti in tal
senso Trib. Bergamo 20/5/2000 e Trib. Padova 9/6/00 in Il Fall. 2000, 1303 e Trib.
Roma 23/11/01 e st. …… ….).
Le pronunce difformi della giurisprudenza di merito fanno leva sul dato letterale dell'art. 203 l.f. che prevede la applicabilità alla liquidazione, una volta accertato lo stato di insolvenza, delle norme del titolo II capo III sezione III (tra cui l'art.
67 l.f.) "con effetto dalla data del provvedimento che ordina la liquidazione" (cfr.
Tribunale di Roma 2/5/03 est. …../…..; Corte d'Appello Torino 27/4/01 …../….).
Ora la norma in commento contiene una statuizione incontrovertibile che non
può essere ignorata e cioè che l'accertamento giudiziale dello stato di insolvenza
costituisce il presupposto indefettibile per la esperibilità delle revocatorie da parte
del commissario liquidatore, tuttavia è da porsi in dubbio la affermazione che, non
potendo il diritto essere fatto valere prima di tale accertamento giudiziale, a norma
dell'art. 2938 c.c., il relativo termine di prescrizione non possa che decorrere da
detto momento. Ed infatti la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto applicabile il
criterio generale dell'art. 2935 c.c. alla revocatoria fallimentare, così abbandonando
la tesi della individuazione del "dies a quo" nella data dell'atto impugnato (2935
c.c), dando rilievo alla circostanza che la azione revocatoria è manifestazione di un
diritto potestativo spettante al solo curatore fallimentare a tutela della massa passiva e che prima della dichiarazione di fallimento non solo non è configurabile la
revocatoria ma neppure esiste il soggetto legittimato al suo esercizio (cfr. "ex plurimis" Cass. 1999/12317 che sancisce la decorrenza del termine di prescrizione dalla
data del fallimento).
Ma proprio la applicazione di questi principi porta, nel caso di l.c.a. con
263
RomanaGIURISPRUDENZA CIVILE
temi
accertamento della insolvenza successivo a conclusioni difformi. Ed infatti sin
dalla apertura del procedimento di liquidazione coatta amministrativa vi è il soggetto, commissario giudiziale, nominato con il decreto ministeriale che può discrezionalmente valutare se avviare il procedimento per l'accertamento giudiziale
della insolvenza (accertamento che va sempre condotto con riferimento alla data
del provvedimento di liquidazione) con la conseguente applicabilità del sistema
revocatorio concorsuale e delle specifiche fattispecie penali. In definitiva, dunque,
già con l'apertura della procedura vi è il soggetto legittimato all'esercizio della
revocatoria , in quanto pur trovando la revocatoria il suo indefettibile presupposto
nell'accertamento giurisdizionale della insolvenza, tuttavia detto accertamento
viene ad essere attivato dal commissario medesimo, atteggiandosi quindi il ricorso al Tribunale per ottenere l'accertamento giudiziale come prodromico all'esercizio delle azioni revocatorie.
Pertanto se si matura la prescrizione quinquennale con decorrenza dalla data
di messa in l.c.a., la prescrizione stessa è determinata dalla inerzia del diritto di
azione accordato al commissario (cfr. Corte d'Appello, cit.).
D'altro canto una attenta lettura del sistema delineato dagli artt. 194 e seg.
l.f. rivela che, come già messo in luce da altra pronuncia di questo Tribunale (Trib.
Roma 2/5/03 est. ….., cit.), il provvedimento amministrativo di liquidazione segna
l'inizio della procedura ed ha rilievo preminente rispetto alla sentenza che accerta
lo stato di insolvenza, tant'è che in caso di dichiarazione di insolvenza ex art. 195
l.f. il termine quinquennale per l'esercizio della revocatoria si ritiene, comunque,
concordemente che decorra dalla data del successivo provvedimento di liquidazione, appunto perché ancora non è stata aperta la procedura concorsuale e non c'è
quindi neppure il soggetto legittimato ad esperire la revocatoria (commissario
liquidatore).
Stesso rilievo attribuisce al provvedimento di liquidazione la statuizione di
cui all'art. 203 l.f. che sancisce la applicabilità delle norme di cui al titolo II, capo
III, sez. III solo una volta accertato lo stato di insolvenza, richiedendosi la garanzia dell'accertamento giurisdizionale per rendere poi operante un regime revocatorio e penale particolarmente severi, ma con "effetto dalla data del provvedimento
che ordina la liquidazione", così "letteralmente" ancorando ancora una volta al
provvedimento amministrativo la apertura della procedura e la piena produzione
degli effetti della medesima.
La tesi prospettata dunque dalla banca convenuta, oltre che più aderente
all'esigenza di certezza nei rapporti giuridici, pare maggiormente coerente con la
disciplina della procedura concorsuale in parola, rivelandosi altresì conforme,
come visto, ai principi elaborati dalla giurisprudenza di legittimità in tema di
decorrenza del termine prescrizionale della revocatoria fallimentare.
Alla luce di quanto sin qui esposto la domanda va rigettata stante la intervenuta prescrizione dell'azione, risultando notificata la citazione in data 23/3/01 e
disposta la liquidazione coatta amministrativa con decreto ministeriale del
24/1/92.
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.
264
(1) Brevi osservazioni sulla decorrenza dei termini prescrizionali
dell’azione revocatoria fallimentare nella liquidazione
coatta amministrativa
La sentenza in esame evidenzia in pieno le discrepanze che si muovono ancora
oggi, a distanza di anni, all'interno della legge fallimentare ed alle difficoltà oggettive di
ottenere soluzioni coerenti, attraverso il coordinamento delle norme in essa contenute.
Il Tribunale di Roma ha pronunciato sul dibattuto problema, ancora irrisolto, attinente al dies a quo (di individuazione della decorrenza) del termine prescrizionale nell'azione revocatoria fallimentare, nel caso di dichiarazione dello stato d'insolvenza ex art.
202 L.F., successiva al decreto ministeriale di liquidazione coatta amministrativa. In particolare, nel caso concreto, la dichiarazione dello stato di insolvenza (1.10.1998) era
sopraggiunta a distanza di oltre sei anni, dell’assoggettamento del Consorzio agrario, alla
procedura di liquidazione coatta amministrativa (24.01.1992).
Tale questione, in assenza di specifiche norme regolatrici, non ha trovato, ad oggi,
una costante collocazione né in dottrina, né in giurisprudenza, come invece era già avvenuto per l’altra querelle inerente il decorso del termine del c.d. “periodo sospetto” per
l'esercizio dell'azione revocatoria; problema sul quale si è ampiamente pronunciata la
giurisprudenza di legittimità1-2.
Analogamente, la questione inerente il termine di durata dell'azione revocatoria in
materia fallimentare aveva suscitato non poche perplessità, mancando anche in questo
caso una espressa previsione normativa. La giurisprudenza, sia di legittimità sia di merito, ha pacificamente risolto il problema in via analogica, mediante l'applicazione dell'art.
2903 c.c.3.
1 Giova innanzitutto ricordare che l'azione revocatoria
fallimentare si risolve nella domanda proposta dal Curatore
Fallimentare, per far dichiarare l'inefficacia di un atto posto in
essere dal fallito nel c.d. "periodo sospetto" antecedente
all'apertura della procedura concorsuale. Come affermato dalla
Suprema Corte, tale azione ha una funzione redistributiva, che
mira alla ripartizione tra i creditori del rischio dell'insolvenza e
pertanto si differenzia dall'azione revocatoria ordinaria che
invece protegge la garanzia patrimoniale generica del
creditore. Ne deriva che il danno alla massa si configura con la
semplice lesione del criterio della par condicio creditorum, a
nulla rilevando il fatto che entri nel patrimonio del fallito un
bene come controprestazione. (Cass. n. 9908/1996).
2 La Suprema Corte (V. Cass. n. 14012/2002, in Foro It., 2003,
I, 771, con nota di M. Fabiani), “al fine di accertare la data a
partire dalla quale decorre il termine (annuale o biennale)
del c.d. "periodo sospetto" ai fini dell'azione revocatoria se,
cioè, dal provvedimento amministrativo di messa in
liquidazione o dalla dichiarazione d'insolvenza”, ritiene che
debba farsi riferimento a quanto già affermato in altre
pronunce (Cass. n. 1321/1989) e cioè al fatto che, “secondo
l'espressa enunciazione dell'art. 202 L.F., lo stato d'insolvenza
deve essere riscontrato con riferimento al momento del
decreto di messa in liquidazione”. Infatti lo stato d'insolvenza,
è ricondotto, secondo lo schema interpretativo della Corte, alla
società in bonis ed è conseguenza dell'attività gestoria dei suoi
organi.; sicché lo stato d'insolvenza non può essere ricondotto
all'attività di amministrazione o di gestione dei liquidatori
nominati con il provvedimento di messa in liquidazione, la cui
funzione è necessariamente successiva. “Discende da ciò che lo
stato d'insolvenza dichiarato in epoca successiva al momento
della messa in liquidazione coatta della società, viene accertato
in riferimento a quest'ultimo momento (Cass. 5858/99),
con l'ulteriore conseguenza che il termine sospetto
per la proposizione dell'azione revocatoria decorre
necessariamente dalla data di emanazione del provvedimento
amministrativo di messa in liquidazione, poiché è sempre in
relazione a tale momento che viene accertata la sussistenza
dello stato d'insolvenza anche se ciò avviene con sentenza
emanata in epoca successiva”.
Allorquando, invece, la dichiarazione dello stato di insolvenza
preceda l’adozione del provvedimento che dispone la
liquidazione coatta amministrativa, il periodo sospetto
per l’esercizio delle azioni revocatorie fallimentari proponibili
ai sensi degli artt. 203 e 67 l.f. deve essere computato
a ritroso a decorrere dal momento nel quale è intervenuta
la dichiarazione dello stato di insolvenza, poiché l’art. 203 l.f.,
laddove dice appilicabili le disposizioni in ordine alle
revocatorie “dalla data del provvedimento che ordini l
a liquidazione” deve essere interpretato nel senso che
da tale momento quelle azioni divengono esperibili, essendo
stato nominato il commissario liquidatore, in precedenza
non esistente, e non già nel senso che da quel momento
si calcola il periodo sospetto (Cfr. Cass. 14.06.1999, n. 5858,
in Foro It. 1999, I, 2515 e Fallimento 2000, 835, nota
Colombini).
3 L'esercizio dell'azione revocatoria si può ritenere sottoposto
al termine prescrizionale quinquennale, così come avviene
frequentemente per altri tipi di azioni e ciò in base al
presupposto che, sia nella revocatoria ordinaria che in quella
fallimentare, si tratta di azioni costitutive che hanno lo scopo
di far dichiarare inefficace un atto o negozio giuridico.
265
RomanaGIURISPRUDENZA CIVILE
temi
Le dette problematiche, pur avendo trovato una soluzione nelle pronunce
della giurisprudenza di legittimità4, non bastano a dirimere, sia pur in linea di principio, il dilemma cui attiene la pronuncia del Tribunale di Roma, oggi sottoposta alla
nostra attenzione, e che continua a tormentare gli operatori del diritto, in ordine
all'individuazione del dies a quo del termine prescrizionale, quando la procedura
coinvolta non è il fallimento, bensì la liquidazione coatta amministrativa.
La sentenza del Tribunale di Roma, pur dando atto che secondo un orientamento prevalente nella giurisprudenza di merito5 il termine quinquennale di prescrizione decorre dall’accertamento dello stato di insolvenza, ove quest’ultimo
segua alla messa in l.c.a., perché solo da tale momento il diritto può essere fatto
valere, mentre secondo un altro orientamento minoritario, che si riporta al dato
testuale dell’art. 203 l.f., il termine decorrerebbe con effetto dalla data del provvedimento che ordina la liquidazione, finisce per aderire a questo secondo orientamento
Il ragionamento nella sentenza in esame è il seguente: poiché già con l’apertura del procedimento di liquidazione vi è il soggetto (il commissario giudiziale che
può discrezionalmente valutare se avviare la procedura per l’accertamento giudiziale dell’insolvenza) legittimato all’esercizio della revocatoria, la prescrizione decorre dalla data della messa in l.c.a., in quanto determinata dall’inerzia del titolare
(commissario) nell’esercitare la relativa azione.
L’attuale decisione, inoltre, per avvalorare la propria tesi, richiama un altro
precedente del Tribunale di Roma (Rel. Raganelli, 2.05.2003), secondo cui il provvedimento amministrativo segna l’inizio della procedura e ha rilievo “preminente”,
rispetto alla sentenza di accertamento dello stato d’insolvenza, tant’è che nella previsione dell’art. 195 l.f. il termine di cinque anni per proporre l’azione revocatoria
decorre dalla data del successivo provvedimento di messa in liquidazione, perché
solo da quella data vi è la nomina del commissario liquidatore legittimato a farlo; ed
ancora “stesso rilievo attribuisce al provvedimento di liquidazione la statuizione di
cui all’art. 203 l.f.” che sancisce l’applicabilità delle norme sulla revocatoria, “solo
una volta accertato lo stato d’insolvenza”, con “effetto dalla data del provvedimento che ordina la liquidazione”, “letteralmente ancorando ancora una volta al provvedimento amministrativo l’apertura della procedura e la piena produzione degli
effetti della medesima”.
Sembra opportuno analizzare, a questo punto, il percorso interpretativo di
alcune pronunce di merito, che condurranno, insieme all'analisi della normativa
sostanziale, a qualche possibilità di soluzione.
In altre parole, quali spunti di riflessione, ci sovvengono le argomentazioni
che i giudici del Tribunale di Alba e del Tribunale di Torino, schierati a favore di due
opposte correnti di pensiero, hanno adottato per giungere a decisioni in palese
4 In verità, in altro caso, sembrano sopite le polemiche
in ordine al dies a quo del termine prescrizionale quando
la revocatoria fallimentare sia esercitata dal fallimento
preceduto da altra procedura concorsuale minore (V. tra le
tante Cass. 12.12.1998, n. 12536 in Fallimento, 1999,658).
266
5 V. Tribunale Milano, 22.01.2004 in Fallimento 2004, 580;
Corte d’Appello Brescia, 16.07.2002 in Fallimento 2003,
900; Trib. Roma 29.11.2001, in Dir. e Prat. Soc. 2002, f.
14-15,104.
conflitto tra loro6.
Come è stato osservato7, i principi cardini dai quali partono le suddette pronunce riguardano i criteri generali per i quali: 1) nessun termine di prescrizione può
decorrere, sino a che il titolare del diritto soggettivo non è in grado di farlo valere ed
esercitarlo; 2) una dilatazione della durata della prescrizione rimessa all’arbitrio di
una parte (commissario) violerebbe la certezza delle situazioni giuridiche soggettive.
Entrambi i principi sono validi, ma, nel caso in esame, è opportuno verificare
in concreto quali siano i poteri e le attribuzioni del commissario liquidatore e se
effettivamente sussista, in capo a lui, un potere discrezionale in ordine al procedimento volto a far dichiarare lo stato d'insolvenza.
In sostanza il Giudice capitolino aderisce, senza mezzi termini, alla tesi adottata a suo tempo dal Tribunale di Torino nella decisione del 13.03.2000, cosi come
da altri magistrati dello stesso Tribunale di Roma, e, considerando l'iniziativa del
commissario liquidatore, in ordine alla richiesta di dichiarazione dello stato di insolvenza, come “potere discrezionale”, deduce che, per la certezza dei rapporti giuridici, il termine di prescrizione non può essere mobile e deve decorrere dal decreto di
messa in liquidazione.
Il Tribunale di Roma ha affrontato indubbiamente un caso anomalo, ove la
dichiarazione di insolvenza era sopravvenuta a distanza di ben sei anni dal provvedimento che ordinava la liquidazione e, quindi, ciò indurrebbe a propendere per la
tesi più restrittiva che fa decorrere, nel caso previsto dall’art. 202 l.f., la prescrizione dal provvedimento amministrativo, non fosse altro che per un senso di giustizia.
La ricostruzione, seppure autorevole, non convince però in pieno.
Se in effetti si considera che il commissario giudiziale, come il P.M., ai sensi
dell’art. 199 l.f. per la funzione (pubblica) ricoperta sono tenuti a far accertare
“quanto prima” lo stato d’insolvenza, non può riconoscersi, in capo ad essi, un potere discrezionale, ma l’obbligo a compiere un atto dovuto.
La dichiarazione dello stato d’insolvenza, poi, non può essere intesa come
6 Cfr. Trib. Alba, 27.04.2000 e Trib. Torino 13.03.2000,
in Fall. 2001, 222, con nota di M.Fabiani.
Il Tribunale di Alba sostiene che appare arduo ricondurre la
pronuncia giudiziale di accertamento dello stato di insolvenza
all’esercizio di un diritto potestativo del commissario
liquidatore (a proposito dell’identificazione come diritto
potestativo del potere di agire in revocatoria ex art. 67,
comma 2 della l.f., da parte del commissario liquidatore, v.
Cass. 11.05.2001, n. 6544 in Foro It. 2001, 2517), nel senso che
la legittimazione spetta non solo al commissario, ma anche al
P.M. che agisce per accertare responsabilità penali. Il Tribunale
di Alba fa notare che l’accertamento giudiziale dello stato di
insolvenza non segue automaticamente al compimento di un
atto del commissario, ma al compimento di un complesso
procedimento, anche se poi aggiunge che il commissario non
può agire o non agire a suo piacimento, in quanto pubblico
ufficiale, e la richiesta di accertamento della sussistenza della
insolvenza – ove ne ricorrano le condizioni – è atto dovuto che
va compiuto senza ritardo. In poche parole sostiene che
l’applicazione del regime revocatorio fallimentare presuppone
la sussistenza dello stato di insolvenza e da qui ne fa
discendere la decorrenza della prescrizione.
Il Tribunale di Torino, invece, sostiene che il senso dell’art. 203
l.f. è quello di far decorrere l’esperibilità delle azioni
revocatorie dalla data della messa in liquidazione, essendo la
successiva dichiarazione di insolvenza una semplice, ma pur
necessaria, verifica giudiziale della decozione, ove le esigenze
di certezza dei rapporti giuridici impongono di ancorare i
termini di prescrizione alla data di messa in liquidazione,
altrimenti l’ufficio liquidatorio verrebbe lasciato libero di
individuare il relativo termine di prescrizione, dilazionando o
meno il ricorso volto alla dichiarazione di insolvenza
dell’impresa in l.c.a..
7 Cfr. Fabiani M., “Il computo della prescrizione dell’azione
revocatoria fallimentare nella l.c.a”, in Fall. 2001, 227. L’autore
fa notare che non è minimamente possibile identificare l’iniziativa del commissario come espressiva dell’esercizio di un diritto
potestativo, perché se così fosse diverrebbe inapplicabile la
regola di cui all’art. 2935 c.c. Il commissario è pubblico ufficiale
e come tale non può comportarsi a sua discrezione (art. 199
l.f.); in poche parole sia il commissario che il P.M. sono tenuti, in
presenza dei presupposti dell’insolvenza, a richiedere l’accertamento giudiziale. Conclusione: non si può sostenere che il termine di prescrizione possa decorrere dal decreto che apre la
liquidazione.
267
condizione di procedibilità per l’esercizio dell’azione revocatoria, ma piuttosto
come elemento costitutivo della revocatoria stessa, perché solo a seguito di tale
dichiarazione si pone il problema della tutela della par condicio creditorum. Ne consegue che se la prescrizione la si fa decorrere dalla dichiarazione dello stato di insolvenza, risulta rispettato il disposto dell’art. 2935 c.c., perché soltanto da allora l’azione può in concreto essere esercitata.
Del resto la giurisprudenza di merito maggioritaria propende per far decorrere il termine di prescrizione dell’azione revocatoria dal momento in cui il diritto può
essere esercitato e, cioè, dal secondo dei due provvedimenti amministrativo o giurisdizionale, poiché prima del decreto di liquidazione non esiste ancora il commissario e, quindi, il diritto non può essere fatto valere, e prima della dichiarazione dello
stato d’insolvenza le azioni non sono ancora sorte8.
Con buona pace per chi auspicava una qualche forma di disciplina, il problema in futuro potrebbe porsi, qualora la nuova legge fallimentare dovesse dare spazio a quanto già previsto nello schema del d.d.l. di riforma delle procedure concorsuali redatto dalla Commissione istituita con d.m. 27.02.2004 dal Ministro della
Giustizia di concerto con il Ministro dell’Economia e delle Finanze, che prevedeva
al Titolo IX, art. X, III° comma, che “il termine di prescrizione per l’esercizio dell’azione revocatoria decorre dal momento in cui è emanato il decreto dell’Autorità
Governativa se a quella data l’insolvenza è già stata accertata; altrimenti decorre
dalla sentenza che accerta successivamente lo stato di insolvenza”9.
Si rimane in attesa, quindi, della pronuncia della Suprema Corte, o meglio
ancora, di una normativa più aderente alla realtà che nella sua innovatività ponga
fine a questa come a tante altre contraddizioni e lacune dell'ordinamento.
Avv. Mario GUIDO
7 Cfr. Codice del fallimento a cura di Piero Pajardi,
Giuffrè editore, commento all’art. 203 l.f. che richiama Trib.
Bergamo, 20.05.2000 e Trib. Padova, 9.06.2000, in Fallimento
2000, 1303.
268
8 V. Il Fallimento, Ipsoa, supplemento al n.8, agosto 2004.
Tale articolo, almeno per ora, non è stato riprodotto in sede
di stesura del D.L. 35/2005 approvato nella seduta del
Consiglio dei Ministri dell’11.03.2005, relativo alla riforma
della legge fallimentare.
RomanaGIURISPRUDENZA CIVILE
temi
TRIBUNALE CIVILE DI ROMA - XIII SEZIONE SENT. 28 APRILE 2004 N. 13887/2004 –
G.U. DOTT. FRANCESCO RANIERI – TF C/ CC (CONTUMACE).
Responsabilità civile – Responsabilità professionale -Effetti notifica vendita
ex art. 20 T.U. n. 646/1905 – azione esecutiva rivolta al successore
a titolo particolare in luogo dell’originario debitore - Accollo mutuo
non frazionato –Limitazione responsabilità del subentrante
all’importo del debito accollatosi - Necessità dell’adesione del
creditore all’accollo – responsabilità notaio – sussistenza - esclusione
La notifica ex art. 20 T.U. n. 646/1905 che consente all’istituto di credito
fondiario di avere notizia della successione a titolo particolare nella
titolarità del bene e di indirizzare l’azione esecutiva nei confronti del detto
successore in luogo del debitore, non produce l’effetto di limitare la
responsabilità del subentrante all’importo del debito accollatosi, in quanto ai
sensi dell’art. 1273 c.c. ultimo comma, occorre un’espressa dichiarazione di
adesione alla stipulazione di accollo da parte del creditore (1).
La sentenza così motiva:
Solgimento del processo
on atto di citazione notificato nel 2002 – con prima udienza tenutasi nel novembre
– l’attore TF conveniva in giudizio CC chiedendone la condanna a “tenerlo indenne dalla pretese del creditore mutaunte e procedente in esecuzione forzata per gli
importi eccedenti la quota di mutuo effettivamente accollata dall’odierno attore..e
comunque al risarcimento del danno”. Allegava in particolare di avere acquistato il
28.4.1994 un immobile in Manziana per atto notaio CC con parte del prezzo costituito da accollo di mutuo per lire 70.000.000, all’epoca gravante su tutta la palazzina e
dunque non ancora frazionato.
Detto frazionamento era avvenuto successivamente a detta stipula con individuazione della somma di lire 172.000.000 sull’immobile in questione, in luogo del
minor importo previsto e pattuito. Non potendo far fronte alla richiesta della Banca di
Roma mutuante, era stato sottoposto ad esecuzione forzata, e nel frattempo la soc. venditrice dell’immobile, la RRR srl era stata dichiara fallita. Ciò posto, la responsabilità
del notaio nasceva dal fatto che aveva provveduto tardivamente a notificare (solo il
1.7.1998) l’atto di vendita alla Banca, la quale pertanto era stata nell’impossibilità di
conoscere l’intervenuto accollo da parte del Troiani. Il notaio era venuto meno all’obbligo assunto in sede di stipula e proprio tra la stipula e la detta notifica la soc. venditrice aveva effettuato il frazionamento del mutuo assicurandosi una somma maggiore
di quella concordata nel rogito notarile.
Il convenuto sceglieva la contumacia essendogli stato notificato l’atto il 12
luglio.
All’esito della compiuta istruttoria documentale la causa veniva ora all’esame
C
269
RomanaGIURISPRUDENZA CIVILE
temi
di questo Giudice, una volta spirati i termini di cui all’art. 190 c.p.c
Motivi della decisione
La domanda è infondata.
Invero, la notifica della vendita ex art. 20 T.U. n. 646/1905 non ha lo scopo di
cristallizzare il debito del successore a titolo particolare rispetto all’istituto mutuante, ha solo lo scopo di consentire a detto istituto di credito fondiario di avere notizia
della successione a titolo particolare nella titolarità del bene e di poter indirizzare
l’azione esecutiva nei confronti di detto successore in luogo dell’originario debitore
(v. al riguardo Cass n. 3228/97 e Cass n. 6860/00).
L’art. 1273 c.c. ultimo comma prevede una espressa dichiarazione di adesione alla stipulazione di accollo da parte del creditore affinché possa prodursi l’effetto positivo di limitare la responsabilità del subentrante all’importo del debito accollatosi. Ma ciò esula all’evidenza dagli obblighi e dalle possibilità giuridiche del
notaio rogante; l’adesione è atto proprio del creditore che non deriva in alcun modo
dalla notifica ex art. 20 citato.
Ad analoghe conclusioni giuridiche si arriva anche ipotizzando una cessione
del contratto.(Omissis)
(1) Brevi considerazioni sull’Art. 20 T.U. sul credito fondiario
approvato con r.d. 16 luglio 1905 n.646 in relazione
all’accollo del mutuo.
La sentenza in esame seppur con motivazione piuttosto succinta affronta un
aspetto della disciplina sul credito fondiario ex r.d.16 luglio 1905 n.646 in relazione
alla stipula dell’accollo di mutuo.
Invero la domanda posta all’esame del Tribunale richiedeva l’accertamento
della violazione degli obblighi di diligenza da parte del notaio nell’esecuzione del
mandato conferitogli dall’acquirente al momento della stipula dell’atto di compravendita e consistente nella notifica all’istituto mutuante del suddetto atto contenente il relativo accollo del mutuo. In particolare, si contestava al notaio di aver provveduto alla notifica dell’atto in ritardo è cioè dopo che l’istituto mutuante e il venditore avevano effettuato il frazionamento del mutuo per effetto del quale la quota
di mutuo, posta sull’immobile acquistato, risultava essere ben maggiore rispetto a
quella concordata in sede di stipula.
Per configurare o meno la responsabilità del notaio nel caso di specie, il
Tribunale ha esaminato lo scopo e gli effetti della notifica della vendita alla Banca
ex art. 20 del testo unico di cui al r.d. 16 luglio 1905, n. 646.
Tale articolo merita qualche ulteriore approfondimento.
Innanzitutto occorre premettere che anche se il primo comma dell’art. 161 del
d.leg.vo 1 settembre 1993 dispone l’abrogazione, tra gli altri, del r.d. 16 luglio 1905
n.646, il successivo sesto comma stabilisce che i contratti di credito fondiario già
conclusi ed i procedimenti esecutivi in corso alla data di entrata in vigore del decreto legislativo (1 gennaio 1994), restano regolati dalle norme anteriori. Nel caso di
specie, essendo pertanto il contratto di mutuo stipulato nel 1991, trova applicazio-
270
ne l’art. 20 del t.u. delle leggi sul credito fondiario r.d. 16 luglio 1905 n.646.
L’ art. 20 del citato t.u. contiene alcune disposizioni interessanti:
1) i successori a titolo universale o particolare del debitore e gli aventi causa debbono notificare giudizialmente all’istituto come essi sono sottoentrati nel possesso e
godimento del fondo ipotecato. Per la prova del trasferimento basterà l’esibizione
dei relativi documenti autentici, di cui l’istituto prenderà nota.
2) In virtù di siffatta notificazione, l’istituto procederà contro di loro nel modo
stesso come avrebbe proceduto contro l’originario debitore.
3) in mancanza di tale notificazione, gli estratti giudiziari, compresi quelli di rinnovazione di ipoteche, di interruzione della prescrizione di esse, di sequestro, d’ingiunzione del pagamento, d’immissione dell’istituto in possesso, di subastazione e
di aggiudicazione, possono essere diretti contro il debitore inscritto, quando anche il
fondo o per morte o per vendita o per qualsiasi altro titolo, anche di godimento temporaneo, sia nel frattempo passato nelle mani di uno o più eredi, ovvero di aventi
causa o terzi, con o senza divisione. In questo caso i successori, gli aventi causa o i
terzi potranno intervenire nel giudizio, senza obbligo dell’istituto di citare in causa
gli altri interessati e non intervenuti per integrare il giudizio.
Dalla lettura di tale articolo, la giurisprudenza sia di merito che di legittimità ha individuato il principio dell’indifferenza, ai fini esecutivi, dell’avvenuto trasferimento dell’immobile gravato da ipoteca per mutuo fondiario. In particolare
“tale principio, operante solo sul piano processuale e avente carattere funzionale al
compimento dell’esecuzione, senza riflessi sulla posizione di estraneità dell’acquirente dell’immobile al rapporto di debito da cui nasce l’esecuzione, comporta che
nel caso di avvenuta comunicazione dell’acquisto all’istituto mutuante, l’esecuzione può essere compiuta congiuntamente contro quello che la legge definisce “debitore inscritto” e contro il successore che è soggetto passivo dell’espropriazione ma
è estraneo al rapporto di debito da cui nasce l’esecuzione mentre nel caso di mancanza o ritardo di detta comunicazione l’esecuzione può essere compiuta solo contro l’originario debitore, al quale, pertanto, come soggetto passivo dell’esecuzione
vanno effettuate le relative notifiche, nel domicilio eletto a norma dell’art. 20 del
menzionato T.U. n. 646 del 1905 (cfr. Trib. Roma, 8 gennaio 2004 in Giur. Merito
2004, 697; Cass. civ., sez. III, 25 maggio 2000, n. 6860 in Banca borsa tit. cred. 2001,
II, 141; Cass. Civ., sez. III 10 marzo 1998, 2638 in Banca Borsa tit. cred. 1999, II, 1;
Cass.civ., sez.III, 15 aprile 1997, n. 3228 in Banca borsa tit. cred.1998, II,).
Ne discende che la notifica ex art 20 T.U. n. 646/1905 attribuisce all’istituto
mutuante il diritto di procedere esecutivamente nei confronti del successore a prescindere dal rapporto di debito da cui nasce l’esecuzione in quanto il successore a
titolo particolare si pone di fronte all’istituto mutuante nella stessa posizione del
debitore originario.
Tale indifferenza risiede nel fatto che la normativa sul credito fondiario, considerata come disciplina speciale rispetto alla normativa ordinaria del codice civile,
consente agli istituti di credito fondiario una celere ed integrale soddisfazione dei
propri crediti attraverso formalità e procedure semplificate.
La sentenza in esame aderisce a tale ricostruzione ed esclude che la notifica
271
RomanaGIURISPRUDENZA CIVILE
temi
ex art. 20 oltre ad avere gli effetti sopra descritti possa avere l’effetto di “cristallizzare” il debito del successore a titolo particolare rispetto all’istituto mutuante.
In particolare, come abbiamo visto nella parte motiva, il Tribunale ritiene che
l’effetto di limitare la responsabilità del subentrante all’importo del debito accollatosi previsto ai sensi dell’art. 1273 c.c. ultimo comma, richieda una espressa dichiarazione di adesione alla stipulazione che non può in alcun modo derivare dalla notifica ex art. 20 citato. Conclude pertanto il Tribunale nell’escludere la responsabilità
del notaio in quanto l’adesione richiamata è atto proprio del creditore che esula dagli
obblighi e dalle possibilità giuridiche del notaio rogante.
La conclusione a cui giunge il Tribunale è condivisibile, tuttavia andrebbero
sviluppate ulteriori considerazioni che sono state, invece, trascurate nella sentenza.
Infatti, sebbene si aderisca alla tesi della limitazione degli effetti dell’art. 20
cit. a quelli sopra descritti, va rilevato che spesso, in caso di accollo del mutuo contenuto in un atto di compravendita, accade che, con la notifica dell’atto, si porti a
conoscenza dell’istituto mutuante oltre all’intervenuto trasferimento dell’immobile
ipotecato anche l’intervenuto accollo tra debitore originario e accollante. Nella quasi
totalità dei casi, l’istituto mutuante, avuta conoscenza dell’intervenuto accollo, non
libererà il debitore. Se intendesse liberarlo dovrebbe provvedervi con una espressa
dichiarazione così come richiesto dall’art. 1273 primo comma c.c. per l’accollo liberatorio in quanto “la liberazione dell’originario mutuatario avviene non in virtù
della notificazione di cui all’art. 20 t.u. del 1905 ma in forza di dichiarazione
espressa del creditore” (cfr. Trib. Milano, 14 marzo1977) ed ancora “l’accollo della
relativa posizione di mutuo da parte dell’acquirente produce la liberazione dell’originario debitore solo se l’istituto mutuante dichiara espressamente di liberarlo”
(cfr. Trib. Roma, 15 novembre 1996 in Banca Borsa tit.cred.1998,II,197).
L’istituto mutuante piuttosto aderirà all’accollo compiendo preliminarmente
un’indagine sulle capacità di credito dell’accollante e cambiando in caso di esito
positivo l’intestazione del mutuo. Si configura pertanto l’ipotesi di accollo cumulativo in base al quale il creditore che aderisce rende irrevocabile la stipulazione,
acquista il diritto alla solutio nei confronti dell’accollante e sostituisce la responsabilità patrimoniale dell’accollante a quella del debitore originario ponendo così in
essere quello che la dottrina e la giurisprudenza identificano come accollo cumulativo (cfr. E. Betti, Teoria generale delle obbligazioni, Milano, 1955, III, t. 2 e IV, p.
103 ss.; R. Nicolò, L’adempimento dell’obbligo altrui, Milano, 1936, p. 269 ss.;
Rescigno P., Studi sull’accollo, Milano, 1958; L’assunzione dell’obbligo altrui in
Arch. Giur., CXL (1951),79 ss; Accollo e contratto a favore di terzo, in Banca, borsa
e tit. cred., 1953, I 36 ss; G.A. Ferretti, Confusione delle figure di accollante e di
creditore nell’accollo cumulativo ed effetti sull’obbligazione dell’accollato, in
"Giurisprudenza di merito", 1979, I, p. 926 ss; Cass. civ., sez. III, 24 maggio 2004,
n.9982).
In tal caso la responsabilità del debitore originario è solidale ma sussidiaria.
Si ritiene, infatti, che il creditore abbia l’onere di chiedere preventivamente l’adempimento all’accollante, anche se non è tenuto ad escuterlo preventivamente e, solo
dopo che la richiesta sia risultata infruttuosa, potrà rivolgersi all’accollato (P.
272
Rescigno, Studi sull’accollo, Milano 1958; Cass. civ., sez. III, 24 maggio 2004,
n.9982).
Inoltre, ed è l’aspetto che più ci interessa, nel caso di accollo cumulativo, si
verificherà l’effetto previsto dall’ultimo comma dell’art.1273 c.c ovvero il terzo
risponde nei confronti del creditore che ha aderito alla stipulazione nei limiti in cui
ha assunto il debito e potrà opporgli le eccezioni fondate sul contratto in base al
quale l’assunzione è avvenuta.
L’adesione rimane comunque un atto proprio del creditore ma è diverso dalla
dichiarazione espressa richiesta, invece, dal primo comma ex art. 1273 c.c. per il verificarsi della liberazione del debitore (accollo liberatorio).
Ciò detto, nel caso di specie, l’acquirente - accollante non avrebbe potuto far valere, nei confronti dell’istituto mutuante, l’accordo di accollo inserito nell’atto di compravendita in quanto, anche se la notifica dell’atto fosse arrivata alla banca prima del frazionamento, il contratto di mutuo originario a cui egli era subentrato, affiancandosi così
al debitore originario, prevedeva il frazionamento del mutuo e dell’ipoteca previsto dal
t.u. citato mod. con d.P.R. 21 gennaio 1976 n.7 . Dispongono infatti il quinto ed il sesto
comma dell’art. 3 del citato d.P.R. che “con l’atto di cui al terzo comma o con successivi atti l’ente potrà consentire la suddivisione del mutuo in quote e, correlativamente, il
frazionamento dell’ipoteca a garanzia”.
L’istituto mutuante di norma si riserva la facoltà di frazionare il mutuo con
obbligo dei mutuatari di accettare le quote che l’Istituto mutuante, a suo insindacabile giudizio, attribuisce alle singole unità immobiliari. E’ infatti riconosciuto che “il
frazionamento è solo formalmente un contratto con il mutuatario, perché esso consiste in una rinuncia all’indivisibilità dell’ipoteca che costituisce un diritto del creditore ipotecario, diritto a cui solo quest’ultimo può rinunciare” (Cass. Civ. sez. III,
15 aprile 1997, n. 3228; Cass. I Sez., 14 dicembre 1990, n. 11916).
Pertanto il danno dedotto dall’acquirente – accollante e consistente nel ritrovarsi accollata una quota maggiore rispetto a quella convenuta con il venditore non
può essere attribuita al ritardo del notaio nell’effettuare la notifica, in quanto il frazionamento era elemento essenziale del contratto di mutuo a cui l’acquirente-accollante non poteva sottrarsi.
Avv. Carla MARIANI
273
RomanaGIURISPRUDENZA CIVILE
temi
TRIBUNALE DI ROMA, SENTENZA 12 MARZO 2004;
GIUD. FANTI; M.B. (AVV. PERILLO, CASTRO) C. M.P.G.
Persona fisica e diritti della personalità –Immagine (di persona non nota) –
Fatto svoltosi in pubblico – Diffusione dell’immagine – Pertinenza con
il fatto svoltosi in pubblico – Insussistenza
Persona fisica e diritti della personalità – Immagine –Dato personale –
Utilizzazione non autorizzata – Forma del consenso – Illiceità
Danni in materia civile – Immagine – Dato personale – Utilizzazione non
autorizzata –Prova liberatoria – Risarcimento del danno non patrimoniale
Non ricorre l’ipotesi di cui all’art. 97 l.a. (relativa alla possibilità
di effettuare la riproduzione dell’immagine collegata a fatti, avvenimenti,
cerimonie di interesse pubblico o svoltisi in pubblico) ove l’immagine
sia stata ripresa in una delle occasioni o dei contesti menzionati dalla
disposizione, ma la stessa venga diffusa senza che vi sia un nesso di pertinenza
rispetto all’evento, in quanto l’interesse sociale alla conoscenza del fatto
svoltosi in pubblico deve non soltanto sussistere al momento della fissazione
dell’immagine, ma anche seguire tutto l’arco temporale di divulgazione di essa,
connotando, sia pure in versione rievocativa dell’evento iniziale, tutti i
successivi episodi di riproduzione (1).
Poiché l’immagine rientra fra i dati personali protetti dalla normativa sulla
privacy, il consenso al suo utilizzo non può essere tacito o implicito (secondo
quando stabiliva la giurisprudenza formatasi sulle disposizioni dettate dalla
legge sul diritto d’autore in materia di diritto all’immagine), ma deve essere
espresso ai sensi dell’art. 23 del Codice della privacy (2).
Anche il risarcimento del danno non patrimoniale (disciplinato dall’art. 15,
comma 2, del Codice della privacy) va riconosciuto tutte le volte in cui il
responsabile della violazione non ha provato di aver adottato tutte le misure
idonee ad evitarlo (per come prescritto dall’art. 15, comma 1 per il danno
patrimoniale) (3)
La sentenza così motiva:
Solgimento del processo
on atto di citazione ritualmente notificato, MB ha convenuto in giudizio dinanzi
a questo Tribunale la società MPG S.r.l., editrice del mensile “S”, per sentir
“accertare la violazione della normativa sulla privacy per la diffusione della (propria) foto nella pubblicazione del novembre 1999, in quanto illegittima e non consentita dalla L. 675/96, nonché non autorizzata dalla parte”, con la condanna della
C
274
convenuta al risarcimento del danno nella misura di lire 30.000.000 oltre interessi e
rivalutazione monetaria, nonché alla pubblicazione di una lettera aperta di scuse e
con vittoria delle spese ed onorari da attribuirsi al procuratore antistatario.
Ha esposto a sostegno come la propria immagine – scattata in costume tipico
quale mascotte della Nazionale italiana di calcio durante i mondiali svoltisi negli
USA nel 1994 – fosse stata pubblicata a corredo dell’articolo intitolato “L’Italia in
chiaro” non soltanto senza acquisire il proprio consenso, ma addirittura contraffatta
mediante un fotomontaggio, essendogli state poste tra le mani, al posto degli strumenti musicali (piatti), due parabole satellitari. Ha infine rilevato la carenza di qualsiasi connessione tra la pubblicazione del proprio ritratto ed i fatti e le circostanze
riportati nell’articolo.
Si è costituita la MPG S.r.l. in liquidazione ed ha insistito nel rigetto della
domanda, sul triplice presupposto della applicabilità dell’art. 97, I co., L. Autore
(pubblicazione senza l’acquisizione del consenso della persona ritratta quando la
riproduzione dell’immagine è collegata a fatti, avvenimenti, cerimonie di interesse
pubblico o svoltisi in pubblico), della insussistenza di alcun pregiudizio all’onore ed
alla reputazione dell’attore e della non riconducibilità del ritratto nel novero dei dati
personali tutelati dalla L. 675/1996.
Istruita la causa mediante produzioni documentali, all’udienza di precisazione delle conclusioni entrambe le parti si sono riportate alle richieste contenute nei
rispettivi atti introduttivi del giudizio, venendo quindi riservata la decisione.
Motivi della decisione
La domanda attorea appare fondata, essendo incontrovertibile come la pubblicazione del Barone sia avvenuta in mancanza di consenso.
Né appare in alcun modo ravvisabile alcuna delle fattispecie di libera utilizzazione dell’immagine altrui anche in mancanza di consenso previste dalla legge sul
diritto d’autore, segnatamente quella – allegata dalla convenuta – secondo cui la
liceità della pubblicazione della foto sarebbe correlata al fatto che la stessa venne
scattata in occasione di “fatti, avvenimenti, cerimonie di interesse pubblico o svoltisi in pubblico”.
Presupposto logico indefettibile affinché venga in considerazione tale ipotesi
è che non soltanto l’immagine sia stata ripresa in una di tali occasioni o contesti, ma
che vi sia un nesso di pertinenza attuale tra la diffusione dell’immagine e l’evento
nell’ambito del quale la stessa venne scattata. L’interesse sociale alla conoscenza del
fatto svoltosi in pubblico deve non soltanto sussistere al momento della fissazione
dell’immagine, ma anche seguire tutto l’arco temporale di divulgazione di essa, connotando, sia pure in versione rievocativa dell’evento iniziale, tutti i successivi episodi di riproduzione; ne consegue che non si ricade nell’ipotesi eccezionale – tassativa e di stretta interpretazione – ogni qualvolta l’immagine, quantunque ripresa in
connessione ad un evento pubblico, sia diffusa in un ambito divulgativo del tutto
estraneo al medesimo.
Nel caso di specie è palese come non vi sia collegamento alcuno tra l’articolo – concernente la TV via Satellite ed illustrativo delle varie offerte di canali sia “in
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RomanaGIURISPRUDENZA CIVILE
temi
analogico” che “in digitale” – e l’immagine del Barone, ripresa nell’ambito dei campionati mondiali di calcio avvenuti nel 1994 negli USA, derivandone, anche a prescindere dalla avvenuta manipolazione della foto, l’inconfigurabilità dell’ipotesi di
libera utilizzazione del ritratto ravvisata dalla convenuta.
Prevede in proposito l’art. 10 c.c. che “qualora l’immagine di una persona o
dei genitori, del coniuge o dei figli sia stata esposta o pubblicata fuori del caso in cui
l’esposizione o pubblicazione è dalla legge consentita, ovvero con pregiudizio al
decoro o alla reputazione della persona stessa o dei detti congiunti, l’autorità giudiziaria, su richiesta dell’interessato, può disporre che cessi l’abuso, slavo il risarcimento del danno”.
Deriva, dunque, da tali norme che per pubblicare o esporre l’immagine di una
persona occorre in via generale il suo consenso e che, in mancanza dello stesso e
fuori dalle ipotesi previste dall’art. 97 L. Autore, l’interessato che abbia visto pubblicare o esporre la sua immagine possa ricorrere all’autorità giudiziaria per ottenere la cessazione del comportamento lesivo ed il risarcimento del danno.
L’art. 23 del decreto legislativo 30/6/2003 n. 196 (“Codice in materia di protezione dei dati personali”) – che ha abrogato e sostituito le analoghe disposizioni
contenute nella L. 675/96 – ha inoltre introdotto il principio secondo cui il consenso alla pubblicazione di propri dati personali (nel novero dei quali rientra senz’altro,
costituendone addirittura una delle espressioni più rilevanti, il ritratto) debba essere
espresso, non potendo neppure farsi ulteriormente riferimento alla giurisprudenza
formatasi antecedentemente con riferimento al cosiddetto consenso implicito o tacito, tale intendendosi la volontaria sottoposizione ad un servizio fotografico, presuntivamente destinato, per le modalità stesse delle riprese, alla successiva diffusione e
pubblicazione (criterio dell’uso prevedibile; cfr. per tutte Cass. 5175 del 10/6/1997).
Essendo incontestata l’assenza del consenso espresso da parte del Barone alla
pubblicazione del proprio ritratto, deve ritenersi nella specie senz’altro verificato un
illecito di natura extracontrattuale sulla base del combinato disposto degli artt. 96 L.
Autore e 2050 (richiamato dall’art. 15, comma I, D.Lgs. 196/2003), senz’altro ascrivibile alla convenuta che ha provveduto alla pubblicazione sul proprio giornale sulla
base di un atteggiamento psicologico colposo, senza dare dimostrazione alcuna di
avere adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno.
Venendo alla determinazione del danno risarcibile, rileva il giudicante come
in linea generale la lesione del diritto all’immagine involga unicamente il risarcimento del danno ex art. 2050 e non anche ex art. 2059 c.c., in assenza di ipotesi di
reato, cfr. Cass. 5790/1979), danno peraltro che non può ritenersi automaticamente
risarcibile, ma che dev’essere provato secondo le regole ordinarie (per l’insussistenza del danno in re ipsa vedi Cass. 4366/2003).
Rileva peraltro il giudicante come il sopra citato Codice abbia introdotto –
all’art. 15, sostitutivo dell’art. 29 L. 675/1996 – la possibilità di risarcire il danno
non patrimoniale "anche nei casi di violazione dell’art. 11 del medesimo decreto
(ove si prevede, tra l’altro, che i dati personali debbano essere trattati “in modo lecito e secondo correttezza”). Ne deriva che sotto tale profilo può dirsi risarcibile anche
il danno non patrimoniale derivante dalla illecita riproduzione dell’immagine altrui,
276
tale illiceità dovendo giudicarsi concretata sia con riferimento alla mancanza di consenso ed all’assenza delle eventuali condizioni che consentano di prescindervi dettate dalla medesima legge, sia con riguardo alla violazione del diritto all’immagine
ex art. 96 L. Autore.
Tanto premesso, la domanda risarcitoria avanzata da MB appare accoglibile
sotto il dedotto profilo del danno non patrimoniale, rilevandosi come, in assenza di
oggettivi riscontri rilevanti sotto il profilo patrimoniale, non possa pervenirsi ad una
liquidazione di tale voce di danno neppure in via equitativa.
Venendo, invece, alla determinazione del danno non patrimoniale, lo stesso va
equitativamente liquidato – avuto riguardo della concreta entità del fatto, alla avvenuta contraffazione della foto ed alla entità del pretium doloris verosimilmente
risentito – nella misura di Euro 4.000,00, con gli interessi legali dalla pubblicazione
della sentenza al soddisfo.
Non appare viceversa accoglibile la domanda di condanna della controparte
alla pubblicazione di “una lettera aperta di scuse”, trattandosi di un facere chiaramente inesigibile in via coattiva.
Le spese di lite seguono il criterio della soccombenza e si liquidano come in
dispositivo.
(1-3) La parabola del diritto all’immagine al bivio:
fra uso non autorizzato del ritratto e lesione della privacy
1. Il caso
Sebbene attraverso una motivazione (decisamente troppo) stringata, la sentenza che si commenta tocca profili della tutela dei diritti della personalità oltremodo delicati e problematici, con particolare riguardo ad alcuni – per certi versi insospettati – punti di intersezione fra la protezione dell’immagine di stampo codicistico e quella del diritto alla privacy.
Prima di addentrarci nelle fitte maglie dei problemi evocati, la lineare fattispecie concreta. Nel corso dei mondiali di calcio del 1994, l’attore viene ripreso e
fotografato (in numerose occasioni ufficiali) nella sua qualità di mascotte della
nazionale di calcio italiana mentre indossa un costume tipico e si destreggia nell’uso di due piatti (da musica). A cinque anni di distanza una delle immagini scattate
durante le competizioni nordamericane viene pubblicata sul mensile “S” – del quale
la convenuta è editrice – accanto ad un articolo dal titolo “L’Italia in chiaro” ed in
versione contraffatta, dato che al posto dei predetti strumenti musicali nelle mani
dell’attore si trovano due parabole satellitari. Il tutto avviene senza che sia stato ottenuto il consenso dell’effigiato e di qui la sua azione risarcitoria, la quale si appunta
sia sulla lesione del diritto all’immagine che su quella della privacy.
La convenuta si costituisce in giudizio eccependo la ricorrenza delle esimenti di cui all’art. 97 l.a., l’insussistenza di un pregiudizio all’onore e alla reputazione
dell’attore, nonché la non riconducibilità dell’immagine fra i dati personali tutelati
dalla legge 675/1996.
Proprio l’esame delle difese della convenuta consente, per un verso, di ripercorrere l’iter motivazionale seguito dal giudice e, per l’altro, di meglio illustrare le
277
RomanaGIURISPRUDENZA CIVILE
temi
complesse tematiche chiamate in causa dalla decisione de qua.
2. Sulla ‘esimente’ di cui all’art. 97 l.a. e sui limiti
del consenso di cui all’art. 96 l.a.
Com’è noto, la legge sul diritto d’autore (22 aprile 1941, n. 633) detta agli artt.
96 e 97 alcune disposizioni che integrano la disciplina codicistica del diritto all’immagine, chiarendo che il ritratto altrui non può essere “esposto, riprodotto o messo in
commercio” senza il consenso dell’interessato, a meno che non ricorra una delle ‘esimenti’ di cui al secondo dei due articoli appena citati, a tenore del quale la riproduzione dell'immagine può essere giustificata “dalla notorietà o dall'ufficio pubblico
coperto, da necessità di giustizia o di polizia, da scopi scientifici, didattici o culturali,
quando la riproduzione è collegata a fatti, avvenimenti, cerimonie di interesse pubblico o svoltisi in pubblico” (purché l'esposizione o messa in commercio dell’immagine
non rechi pregiudizio all'onore, alla reputazione od anche al decoro nella persona
ritrattata)1.
La convenuta afferma appunto che la pubblicazione della predetta fotografia è
lecita in quanto la stessa è stata scattata nel corso di eventi riconducibili all’ultima
parte della disposizione, ma il tribunale capitolino è di contrario avviso. Al riguardo,
il giudice rileva che “presupposto logico indefettibile affinché venga in considerazione tale ipotesi è che non soltanto l’immagine sia stata ripresa in una di tali occasioni
o contesti, ma che vi sia un nesso di pertinenza attuale tra la diffusione dell’immagine e l’evento nell’ambito del quale la stessa venne scattata”. In effetti – precisa ancora il Tribunale –“l’interesse sociale alla conoscenza del fatto svoltosi in pubblico deve
non soltanto sussistere al momento della fissazione dell’immagine, ma anche seguire
tutto l’arco temporale di divulgazione di essa, connotando, sia pure in versione rievocativa dell’evento iniziale, tutti i successivi episodi di riproduzione”2.
Come dire – in sostanza – che una cosa è usare l’immagine della mascotte
(senza il suo consenso) all’interno di un servizio che si sofferma sulla competizione
tenutasi negli USA nel 1994 o che ripercorre la storia dei Campionati del Mondo;
altra cosa è utilizzare l’immagine scattata durante quelle gare “in un ambito divulgativo del tutto estraneo” e – si potrebbe aggiungere, con una notazione sulla quale si
dovrà ritornare – in un contesto in cui sembra venire in risalto un mero fine di lucro
dell’utilizzazione, con conseguente insussistenza degli interessi informativi superindividuali che l’art. 97 l.a. vorrebbe tutelare3.
1 Si tratta invero delle disposizioni alle quali implicitamente
rinvia l’art. 10 c.c. nello stabilire che “qualora l’immagine di
una persona [...] sia stata esposta o pubblicata fuori dei casi in
cui l’esposizione o la pubblicazione è dalla legge consentita,
ovvero con pregiudizio al decoro o alla reputazione della
persona […], l’autorità giudiziaria, su richiesta dell’interessato,
può disporre che cessi l’abuso, salvo il risarcimento dei danni”.
Per completezza, vanno altresì ricordate le varie ipotesi
contemplate dalla disposizione di cui all’art. 21 l. marchi (r.d.
21 giugno 1942, n. 929) con riguardo alla necessarietà del
consenso del titolare del diritto (o dei suoi eredi o parenti) nel
caso in cui si vogliano registrare come marchio il nome o il
ritratto di una persona; rilevando, tuttavia, che la disposizione
sta per essere rimpiazzata dall’art. 8 del Codice sulla Proprietà
278
Industriale (D. Lgs. 30/2005), il cui comma 1 stabilisce che “I
ritratti di persone non possono essere registrati come marchi
senza il consenso delle medesime e, dopo la loro morte, senza
il consenso del coniuge e dei figli; in loro mancanza o dopo la
loro morte, dei genitori e degli altri ascendenti, e, in mancanza
o dopo la morte anche di questi ultimi, dei parenti fino al
quarto grado incluso”.
2 Nel medesimo senso, Trib. Torino, 2 marzo 2000, in Resp.
civ. prev., 2001, 174, nonché Cass. 15 marzo 1986, n. 1763, in
Foro it., 1987, I, 889, relativa al noto caso del tifoso ripreso
durante una partita di calcio in un momento di grande
apprensione e la cui immagine era stata poi – per sei anni –
usata nella sigla della popolare rubrica televisiva “90° minuto”.
Peraltro, in difetto di un chiaro accertamento dello scopo appena menzionato –
che dovrebbe togliere dal giro ogni problema di ambito di utilizzazione –, la fattispecie concreta indurrebbe a riconsiderare il tema della “decontestualizzazione” dell’uso
dell’immagine, essendo ad esempio possibile chiedersi se non fosse lo stesso costume
indossato dall’effigiato (tale da renderlo volutamente un ‘simbolo’ di quei Mondiali)
a determinare di per sé il contesto del ritratto e, quindi, se ad essere oggetto di riproduzione non sia stata l’immagine ma (a bene vedere) l’evento4.
Tuttavia, poiché l’interrogativo ci porterebbe inevitabilmente sul piano del
conflitto fra diritti di foggia (o interpretazione) monopolistica ed usi consentiti (con
connessa considerazione dei costi transattivi legati all’interpretazione delle esimenti di cui all’art. 97 l.a.), sullo stesso non ci si può soffermare in questa sede e mette
conto procedere oltre.
A prescindere dall’applicabilità della esimente di cui si discorre, altro interrogativo riguarda poi l’eventualità che sia la stessa ‘volontaria esposizione’ dell’attore a poter giustificare l’uso del suo ritratto, essendo lecito domandarsi se non si
possa rinvenire nella consapevole decisione di assumere un ruolo che lo avrebbe
portato sotto riflettori dei media di mezzo mondo un elemento dal quale dedurre la
sussistenza del consenso richiesto dall’art. 96 l.a5 .
In effetti, secondo quanto ha precisato la giurisprudenza, nella materia di cui
si tratta un ruolo lo gioca pure il criterio dell’uso prevedibile, in base al quale (nella
decisione della Suprema Corte richiamata dal tribunale capitolino) si è affermato
che “sottoporsi spontaneamente ad una serie di fotografie presso un’agenzia fotografica (al di fuori di una specifica commissione) implica, in generale, un consenso
tacito alla diffusione della propria immagine”6. Ed il criterio, evidentemente, può
avere un peso anche per vagliare la consapevole e volontaria partecipazione ad
eventi di rilievo pubblico. In sostanza, sebbene nel caso di specie non sia stata utilizzata l’immagine di un personaggio (di per sé) famoso e non si pongano i delicati
problemi connessi al rapporto fra il c.d. right of publicity e le esimenti di cui all’art.
97 l.a. (ed al difficile bilanciamento fra diritto all’immagine della persona nota e
3 In effetti, secondo quanto si evince dalla decisione
in commento, il servizio al quale la foto era accostata mirava
sostanzialmente ad illustrare le offerte di determinati canali
in analogico e digitale, e non ad informare il pubblico su un
determinato evento.
4 Sul problema in questione Cass. 15 marzo 1986, n. 1763, cit.,
nonché la nota redazionale che l’accompagna, ove ampia
citazione dei precedenti sul punto.
5 In tal modo ci si sposta dall’orbita dell’art. 97
in quella dell’art. 96, in quanto il fondamento della esimente
di cui alla prima disposizione non ha evidentemente carattere
‘consensualistico’ ed è, invece, da rinvenire nella ricorrenza di
un interesse superindividuale che comporta la compressione
di quello del titolare dell’immagine (la quale opera a
prescindere dall’opposizione o dal gradimento che il
ritrattato manifesti rispetto alla diffusione della sua effige).
Nel senso che “le ipotesi previste nell’art. 97 della l. 22 aprile
1941 n. 633 sul diritto d’autore, nelle quali l’immagine della
persona ritratta può essere riprodotta senza il consenso della
persona stessa, sono giustificate dall’interesse pubblico
all’informazione”, Cass. 28 marzo 1990, n. 2527, in Giust. civ.,
1990, I, 2369, con nota di A. MARINI, Da Sofia Loren a
Stefania Sandrelli: evoluzione o involuzione della
giurisprudenza?, la quale specifica anche che le stesse
“avendo carattere derogatorio del diritto all’immagine, sono
di stretta interpretazione”. Su tale ultimo profilo, si vedano
altresì Trib. Firenze, 13 maggio 1996, in Foro it., Rep.1997,
voce Persona fisica, n. 89; Trib. Roma, 22 dicembre 1994, id.,
1995, I, 2285; Cass. 6 febbraio 1993, n. 1503, id., I, 1617; Trib.
Roma, 11 giugno 1991, id., 1992, I, 1957, con osservazioni di
M. CHIAROLLA; Cass. 2 maggio 1991, n. 4785, id., 1992, I, 831,
con nota di M. CHIAROLLA, Alla scoperta dell’America,
ovvero: dal diritto all’immagine al "right of publicity"; App.
Roma, 8 settembre 1986, id., 1987, I, 919, con nota di R.
MOCCIA; Cass. 15 marzo 1986, n. 1763, cit.; Cass. 10
novembre 1979, n. 5790, id., 1980, I, 81, con nota di R.
PARDOLESI.
6 Così Cass. 10 giugno 1997, n. 5175, in Foro it., 1997, I, 2920,
con osservazioni di M. CHIAROLLA. Sul criterio dell’uso
prevedibile si veda anche Pret. Roma, 16 giugno 1990, in Foro
it., 1992, 1958, con osservazioni di M. CHIAROLLA.
279
RomanaGIURISPRUDENZA CIVILE
temi
diritto all’informazione), dalla stessa condotta dell’attore si potrebbe desumere
un’autorizzazione all’uso della sua immagine7.
L’argomento de quo – già considerando l’elaborazione tradizionale intervenuta in materia di diritto all’immagine – si rivela tuttavia debole.
Infatti, se per un verso è rimasta isolata la tesi (formulata da non recente ed
autorevole dottrina intervenuta in materia di diritto d’autore) secondo cui il consenso prestato dal titolare del diritto all’immagine deve essere necessariamente provato per iscritto, lo stesso è in ogni caso assoggettato a precise limitazioni8. Al riguardo, la giurisprudenza ha in varie occasioni chiarito che il consenso prestato dal titolare del diritto all’immagine al fine di consentire l’uso da parte di terzi – seppur non
assoggettato a forme sacramentali e suscettibile di essere manifestato in via implicita – rende quell’uso legittimo purché esso si mantenga all’interno dei “rigorosi limiti soggettivi ed oggettivi” entro cui il consenso è stato prestato9; con la conseguenza che, ove venga autorizzato un determinato uso dell’immagine, questa non può
essere impiegata in modo differente, come si è avuto modo di precisare in vari casi
concernenti fotografie o fotogrammi il cui uso è avvenuto al di fuori dei limiti desumibili dal consenso del titolare del diritto10. In sostanza, ogni singola ed eventuale
prestazione del consenso alla riproduzione di proprie immagini in un determinato
ambito o contesto, ovvero da parte di determinati soggetti, non può valere a rendere lecita la riproduzione delle stesse immagini in un contesto affatto diverso e soprat7 Con riguardo al right of publicity – rimanendo
necessariamente sul filo dell’accenno –, ci si può limitare a
ricordare che, tutelato inizialmente solo quale diritto della
personalità, il diritto all’immagine ha nel tempo visto ampliarsi
la sua operatività grazie ai contributi del formante
giurisprudenziale e dottrinale, i quali si sono preoccupati di
tutelare dallo sfruttamento abusivo ad opera di terzi
l’immagine pubblica di personaggi famosi anche dal punto di
vista patrimoniale. A tal fine si sono prese le mosse dalla
disciplina codicistica e da quella della l.a. cercando di offrirne
un’interpretazione estensiva e volta a discernere un profilo
negativo preordinato alla salvaguardia dei beni ‘personali’ del
titolare del diritto ed uno positivo volto a consentire uno
sfruttamento economico del ritratto. Alla fine di un percorso
concettuale che ha seguito diverse strade (anche ‘secondarie’ e
non ripercorribili nell’economia di queste brevi note), con
l’avallo della Suprema Corte (Cass. 2 maggio 1991, n. 4785, cit.)
si è infine configurata l’esistenza di un vero e proprio property
right sull’immagine, cioè un diritto avente ad oggetto (se si
accetta la contaminazione semantica di recente proposta) una
new res assimilabile per molti versi ai diritti posti a tutela della
proprietà intellettuale, tendenzialmente attribuito solo alle
persone dotate di una certa notorietà. In buona sostanza,
attraverso la costruzione di cui si tratta ciò che si assume esser
leso non è il diritto che ha il personaggio noto (così come
chiunque altro ed indipendentemente dalla sua fama) a non
vedere riprodotti il proprio nome e la propria immagine – al
fine di “proteggere l’interesse di questi alla non conoscenza
altrui (in forma diffusa) o, se si preferisce, alla non-pubblicità o
non-circolazione delle proprie fattezze fissate in un ritratto”
(Cass. 15 marzo 1986, n. 1763, cit.) –, ma un diritto
patrimoniale assoluto sulla propria immagine. Proprio per
questa via (anche alla luce dell’evoluzione mediale dell’ultimo
cinquantennio e del progressivo ampliarsi dell’importanza del
mercato pubblicitario) dottrina e giurisprudenza hanno
riconosciuto come autonomamente tutelabile il valore
280
economico, spesso ingente, del diritto de quo, prendendosi a
prestito dai Paesi di Common Law anche il nomen del nuovo
ius excludendi alios (per vari riferimenti al riguardo, sia
consentito il rinvio a B. TASSONE, La parabola del diritto
all’immagine: dal right of publicity al risarcimento del danno
non patrimoniale, nota a Trib. Tortona, 24 novembre 2003, in
Danno resp., 2004, 540 ss.).
Con riguardo al bilanciamento fra il diritto all’immagine e
quello all’informazione, va rilevato che attraverso il
riconoscimento del right of publicity si vuole proprio evitare
che la diffusione dell’immagine si giustifichi automaticamente
in ragione della stessa notorietà della persona effigiata, con la
conseguenza che – ove essa non si riferisca in modo diretto ed
immediato alle circostanze e dall’attività che rendono la
persona ritratta nota al pubblico – l’uso si ritiene illegittimo
(soprattutto quando è proprio la notorietà ad essere sfruttata
commercialmente). Ovviamente, è l’interprete a dover valutare,
caso per caso, se ed in che misura una determinata diffusione
dell’immagine abbia come scopo principale quello di informare
il pubblico – anche solo soddisfacendone la curiosità nei
confronti dei vip – ovvero quello di ottenere esclusivamente
dei guadagni, grazie al richiamo esercitato sul pubblico stesso
dall’immagine utilizzata. E va da sé che il bilanciamento di
interessi non è sempre agevole, soprattutto in quei casi in cui il
diritto all’immagine si scontra con il diritto all’informazione e,
comunque, quando entrambe i profili si possono rinvenire
nell’operazione portata avanti dal terzo.
8 Ipotizza che il consenso all’uso dell’immagine possa (dover)
essere provato solo per iscritto in forza dell’art. 110 l. 633/41
in ragione delle evidenti analogie fra il diritto della personalità
di cui si tratta e i diritti di utilizzazione delle opere
dell’ingegno, nonché sulla base della qualificazione del primo
quale “diritto connesso con il diritto d’autore” ai sensi dell’art.
107 l.a., Val. DE SANCTIS, Autore (diritti connessi), in Enc. dir.,
1959, 4, 437. Premesso che la giurisprudenza maggioritaria non
tutto quando la diversa riproduzione corrisponda ad un’operazione “contraddistinta
da un’autonoma rilevanza economica” e che costituisca un “fatto commerciale a sé
stante”; con la precisazione che, “nell’ipotesi di autorizzazione all’uso dell’immagine, i limiti dell’utilizzazione devono essere ricavati dallo stesso atto di disposizione
del diritto posto in essere dall’interessato e la divulgazione deve considerarsi lecita
soltanto quando corrisponda alle condizioni di tempo e di luogo, alla finalità, alle
forme e alle modalità per le quali il consenso è stato prestato”11.
Infine, venendo al profilo inerente la “contraffazione”, nonostante la terminologia usata per descrivere l’operazione compiuta sull’immagine dell’attore rievochi
la tipica violazione dei diritti d’autore (e della proprietà intellettuale), nel caso di
specie non vengono evidentemente in considerazione le disposizioni che proteggono l’opera fotografica (art. 2, n. 7, l.a.) ovvero che stabiliscono un equo compenso
per l’uso della semplice fotografia (art. 87 ss.)12. Tuttavia, l’alterazione dell’immagine a suo tempo fissata costituisce certamente elemento che incide sulla determinazione della (in)sussistenza del consenso all’uso del proprio ritratto.
Dunque, con la riserva sopra espressa in ordine al problema della “contestualizzazione” e solo continuando a dare (forzatamente) per buona l’impossibilità di
ritenere che fosse la stessa immagine dell’attore a recare con sé l’ambito di fissazione (e, quindi, di sua legittima utilizzazione), gli orientamenti sinteticamente
richiamati portano ad affermare l’insussistenza dell’autorizzazione all’uso del ritrataccoglie tale tesi, se ne può trovare forse una eco in Trib.
Roma 7 ottobre 1988, in Giust. civ., 1989, I, 1243, secondo la
quale anche quando “non è dubbio che vi fu l’originario
consenso” del titolare del diritto all’immagine, l’uso fatto da
terzi non è comunque lecito perché “non risultano [...]
pattuizioni scritte al riguardo e, quindi, si dovrebbe desumere
aliunde il consenso così ampio da valere nell’arco di molti anni
e per un diverso ambito di situazioni soggettive e oggettive”.
9 Sul punto, si veda Trib. Roma, 7 ottobre 1988, cit. secondo
cui “il consenso idoneo a far venir meno l’illiceità della
divulgazione del ritratto di una persona, può anche essere
implicito. Poiché si tratta di un diritto della personalità, si deve
sottolineare che l’efficacia del consenso deve essere contenuta
entro il rigoroso ambito della prestazione, nei limiti in cui il
consenso stesso fu dato (limite oggettivo della diffusione) e
con riguardo esclusivo al soggetto o ai soggetti nei cui
confronti fu prestato (limite soggettivo)”. Si vedano anche Trib.
Roma, 2 novembre 1994, in Corr. Giur., 1995, 975, con nota di
A. BARENGHI, In tema di tutela inibitoria del diritto
all’immagine; Trib. Torino, 14 marzo 1992, in Impresa, 1992,
1770; Trib. Monza, 26 marzo 1990, e Pret. Milano, 19 dicembre
1989, entrambe in Foro it., 1991, I, 2861 ss., con nota di O.
TROIANO.
In senso contrario, tuttavia, Pret. Roma, 16 giugno 1990, cit.,
secondo cui “se il limite del consenso non risulta
esplicitamente, l’autorizzazione prestata dall’interessato alla
divulgazione della propria immagine, ove non sia in concreto
limitata nel tempo o comunque sottoposta a vincoli, deve
intendersi prestata illimitatamente e subordinata solo al
criterio del c.d. uso prevedibile”.
10 Si vedano, fra le tante, Cass. 10 giugno 1997, n. 5175, cit.;
Trib. Torino 14 marzo 1992, cit.; Cass. 28 marzo 1990, n. 2527,
cit.; Pret. Milano 19 dicembre 1989, cit.; App. Roma, 8
settembre 1986, cit., e Pret. Roma, 2 gennaio 1985, in Giur. it.,
1985, I, 2, 479 ss., con nota di A. FIGONE, Fotografando Sofia
(sui limiti di compatibilità tra libertà di stampa e diritto
all’immagine in relazione a personaggi noti al pubblico).
11 Così, espressamente, App. Roma, 8 settembre 1986, cit..
Si veda anche Trib. Roma, 2 novembre 1994, cit., secondo cui
“in tale particolare materia [...] la valutazione della volontà
delle parti, e in particolare della volontà della persona ritratta,
deve condursi con la necessaria prudenza”. Inoltre, richiamando
quanto detto nel testo in ordine al contesto in cui è stato
divulgato il ritratto dell’attore, si può ricordare che la
necessarietà di uno specifico consenso ai fini dell’uso
commerciale dell’immagine da parte di terzi (diversi da coloro
che hanno fissato l’immagine medesima) emerge pure a seguito
della attenta esegesi che la giurisprudenza ha fornito
nell’illustrare il rapporto fra le ‘esimenti’ previste dalle due
disposizioni di cui si tratta. In effetti, in ragione della diversa
formulazione con la quale gli artt. 96 e 97 fanno riferimento
all’uso dell’immagine altrui, la giurisprudenza ha precisato che
“fra le ragioni o finalità che possono giustificare la
pubblicazione, senza consenso, dell’immagine di una persona
nota non rientra il fine pubblicitario di prodotti di terzi, che è
fine di lucro [...] A sostegno di ciò va per inciso rilevato anche il
dato letterale emergente dal raffronto tra l’art. 96, in cui si
vieta di "esporre, riprodurre o mettere in commercio" il ritratto
senza il consenso di questa salvo la disposizione dell’articolo
seguente, e l’art. 97, in cui soltanto la "riproduzione", e non
anche il "mettere in commercio" (chiaramente avente finalità
lucrative), è l’attività che può essere giustificata nelle ipotesi ivi
descritte anche senza il consenso della persona ritratta” (Trib.
Roma 11 giugno 1991, cit.).
12 Per un caso recente, in cui si controverteva dell’illegittimo
utilizzo di una fotografia scattata durante il processo agli
imputati dell’omicidio di Marta Russo, Trib. Roma, 4 aprile
2003, in Dir. inf., 2004, 275 ss..
281
RomanaGIURISPRUDENZA CIVILE
temi
to fatto dalla convenuta.
Infatti, anche a rinvenire nell’esposizione al pubblico dell’attore un’implicita
manifestazione dell’assenso dell’attore, la stessa va ricostruita simmetricamente a
quanto visto per il “nesso di pertinenza” che deve sussistere fra la ripresa dell’immagine in occasione di “fatti, avvenimenti, cerimonie di interesse pubblico o svoltisi in pubblico” e la sua riproduzione, con la conseguenza che – se quel nesso appunto si esclude – un impiego totalmente scisso dal contesto in cui il ritrattato si è lasciato riprendere si pone al di fuori dell’autorizzazione (implicitamente) data dal titolare del diritto all’immagine.
Peraltro, nel sancire definitivamente l’illegittimità della condotta della convenuta, il giudice afferma che nel caso di specie il consenso sarebbe dovuto essere
espresso, non potendosi richiamare la “giurisprudenza formatasi antecedentemente
con riferimento al cosiddetto consenso implicito o tacito, tale intendendosi la volontaria sottoposizione ad un servizio fotografico presuntivamente destinato, per le
modalità stesse delle riprese, alla successiva diffusione e pubblicazione”13.
Proprio tale passaggio motivazionale ci porta alla parte più problematica ed
interessante della decisione.
3. L’immagine come dato personale: in principio era il Codice.
Ma quale dei due?
Come si è detto in apertura, il ritrattato non lamenta solo la lesione dell’immagine, ma pure quella della privacy, invocando la violazione della legge 675/1996, poi
abrogata e sostituita dal d. lgs. 30 giugno 2003, n. 196 (c.d. Codice della privacy).
Nel ritenere fondata la domanda attorea, il giudice afferma in primo luogo che
anche l’immagine rientra fra i dati personali protetti dalla citata normativa – costituendone anzi “una delle espressioni più rilevanti” – e ponendosi così in linea con almeno
un paio di precedenti14. In tal modo, con una motivazione nemmeno lontanamente
appropriata, si pronuncia una statuizione gravida di conseguenze, spianando la strada
all’applicazione della regolamentazione di cui sopra e portando a liquidare il danno
subito dall’attore secondo le regole proprie del sotto-sistema di responsabilità aquilia13 Nel medesimo senso della decisione in commento, Trib.
Roma 28 febbraio 2003, in Dir. inf., 2003, 534. La
dichiarata insussistenza degli estremi della ‘esimente’ in
parola determina ovviamente il rigetto per
‘assorbimento’ dell’eccezione della convenuta basata sul
comma 2 dell’art. 97 l.a., perché è ovvio che quando
l’uso dell’immagine è già di per sé illecito in quanto
non giustificato dagli interessi superindividuali di cui al
comma 1 dell’articolo, non rileva la mancata lesione
dell'onore, della reputazione o del decoro dell’effigiato.
14 Si veda Trib. Milano, 9 gennaio 2004, in Danno resp.,
2005, 91 ss., con nota di D. COVUCCI, in cui si richiama
“la prospettiva offerta dagli artt. 9 e 29 ultimo
comma legge 975/1996” ed in cui si liquida all’attrice a
titolo di danno non patrimoniale un somma identica a
quella determinata dalla pronuncia in commento
(utilizzando indici assai simili, sui quali non ci si può
soffermare in questa sede), senza tuttavia approfondire
le relazioni fra danno all’immagine e violazione della
282
privacy. Altra decisione di rilievo è Trib. Roma 28
febbraio 2003, cit., ove si afferma che “La fotografia in
quanto riproduttiva della propria immagine rientra
indubbiamente in quella nozione di dato personale
fornita dall’art. 1 Lett. C) della legge”. Per la prima
decisione che riconosce il risarcimento del danno morale
in dipendenza della lesione del diritto al trattamento
dei dati personali (in ragione della pubblicazione
dell’indirizzo del domicilio di un soggetto su un
quotidiano), Trib. Milano, 13 aprile 2000, in Foro it.,
2000, I, 3004, mentre, per due decisioni concernenti
violazioni perpetrate al di fuori dell’esercizio di attività
giornalistica (sulla quale infra nel testo), Trib. Orvieto,
25 novembre 2002, in Danno resp., 2003, 281, con nota
di E. PELLECCHIA, Indagini sulla solvibilità e violazione
delle regole sul trattamento dei dati personali, e Trib.
Milano, 8 agosto 2003, id., 2004, 303, con nota di S. DI
PAOLA, Responsabilità del professionista per
comunicazione ‘indebita’ di dati relativi alla stato
di salute.
na elaborato nell’ambito della tutela del diritto alla privacy.
Prima di svolgere qualche riflessione sul punto – che definire un ‘nodo’ dei diritti della personalità vuol dire peccare certamente per difetto – vediamo come prosegue
la parte motiva.
Una volta ricondotto l’uso non autorizzato dell’immagine alla citata normativa,
il giudice spiega che “deve ritenersi nella specie senz’altro verificato un illecito di
natura extracontrattuale sulla base del combinato disposto degli artt. 96 L. Autore e
2050 (richiamato dall’art. 15, comma I, D.Lgs. 196/2003), senz’altro ascrivibile alla
convenuta che ha provveduto alla pubblicazione sul proprio giornale [...] senza dare
dimostrazione alcuna di avere adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno”.
Inoltre – con altra statuizione assai rilevante per la materia de qua –, immediatamente
dopo si precisa per un verso come “in linea generale la lesione del diritto all’immagine involga unicamente il risarcimento del danno ex art. 2050 e non anche ex art. 2059
c.c. [...] che non può ritenersi automaticamente risarcibile, ma che dev’essere provato
secondo le regole ordinarie, [non potendosi ritenere tale] danno in re ipsa”. Ma per l’altro si rileva “come il sopra citato Codice abbia introdotto – all’art. 15, sostitutivo dell’art. 29 L. 675/1996 – la possibilità di risarcire il danno non patrimoniale "anche nei
casi di violazione dell’art. 11 del medesimo decreto" [...] Ne deriva che sotto tale profilo può dirsi risarcibile anche il danno non patrimoniale derivante dalla illecita riproduzione dell’immagine altrui, tale illiceità dovendo giudicarsi concretata sia con riferimento alla mancanza di consenso ed all’assenza delle eventuali condizioni che consentano di prescindervi dettate dalla medesima legge, sia con riguardo alla violazione
del diritto all’immagine ex art. 96 L. Autore”.
I dicta del tribunale capitolino – basati su un’applicazione della normativa posta
a tutela della privacy del tutto acritica – sono forieri di notevoli implicazioni.
Vediamone due.
In primo luogo, l’operazione ricostruttiva compiuta dal giudice porta a richiedere che il consenso all’utilizzo dell’immagine rispetti non solo o non tanto il disposto
dell’art. 96 l.a., bensì le più stringenti prescrizioni richieste dall’art. 23 del Codice della
privacy (consenso libero, specifico e documentato per iscritto)15. Quindi, come emerge chiaramente dalla motivazione, con un ‘colpo di spugna’ si spazza via la sopra cennata elaborazione giurisprudenziale inerente i limiti del consenso. Ed allora di fronte
all’uso dell’immagine che segue ad un atto di disposizione non incorporato in un testo
contrattuale o comunque in una ‘liberatoria’ (cosa frequente quando il titolare non è
persona nota ovvero quando i tempi dell’operazione durante la quale si cattura il ritratto del soggetto non lo consentono), non è più dato di desumere la prova e la sfera dell’autorizzazione dal comportamento (cioè dall’atto di disposizione implicito) del titolare del diritto. Al riguardo, non ci vuole molto a comprendere l’impatto della nuova
15 Invero, l’art. 23 del d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196, dispone
che “1. Il trattamento di dati personali da parte di privati o di
enti pubblici economici è ammesso solo con il consenso
espresso dell'interessato. 2. Il consenso può riguardare l'intero
trattamento ovvero una o più operazioni dello stesso. 3. Il
consenso è validamente prestato solo se è espresso liberamente
e specificamente in riferimento ad un trattamento chiaramente
individuato, se è documentato per iscritto, e se sono state rese
all'interessato le informazioni di cui all'articolo 13. 4. Il
consenso è manifestato in forma scritta quando il trattamento
riguarda dati sensibili”. Sulla disposizione in parola, G.M.
RICCIO, Ad artt. 23-27, in S. SICA e P. STANZIONE (a cura di), La
nuova disciplina della privacy – D.lgs. 30 giugno 2003, n. 196,
Bologna, 2004, 89 ss..
283
RomanaGIURISPRUDENZA CIVILE
temi
regola in termini di costi transattivi (ed a ben vedere, pure di incertezza del diritto, in
quanto la verifica dell’applicazione delle formalità di cui all’art. 23 del Codice dipende dalla protezione che l’attore invoca nel proporre la domanda e che non sempre –
come dimostra la casistica post legge 675/1996 – si appunta anche sulla regolamentazione di cui si discorre).
In secondo luogo, nel postulare che la diffusione non autorizzata dell’immagine
determini tout court la violazione delle disposizioni di cui al d. lgs. 196/2003, il giudice capitolino non solo rende applicabile il particolare regime rimediale da esso approntato – che include, si badi, anche fattispecie penali –, ma prende posizione (nel segno
della protezione più ‘spinta’ del titolare dei dati e perfino in assenza di precedenti sul
punto) su una questione che aveva acceso numerosi dibattiti sotto il vigore della legge
675/1996; in particolare, quella concernente la risarcibilità del danno non patrimoniale ai sensi dell’art. 29, comma 9, mercé l’applicazione dell’inversione dell’onus probandi – evidentemente più favorevole al danneggiato – di cui all’art. 2050 c.c., testualmente richiamato dal solo art. 1816.
E veniamo, finalmente, al punto nodale. Siamo così certi che, pur qualificando
nominalisticamente come ‘di settore’ la disciplina del td. lgs 196/2003, ad essa si possa
di fatto consentire di costituire il nuovo statuto dei diritti della personalità? Che per
quanto si discorra a parole di natura meramente procedimentale del diritto al trattamento dei dati personali, non si possa far nulla per evitare la ‘fagocitazione’ della disciplina codicistica (la quale – con tutte le sue mancanze – non merita certo di essere
messa da parte a colpi di elenchi di definizioni onnicomprensive)? Che il gene di quei
diritti non si debba più trovare in una storia che risale almeno ai grandi Codici Civili,
ma nell’improvviso risveglio del legislatore italiano che – di soprassalto – attua la
Direttiva 95/46/CE dando alla sua disciplina una portata certamente più ampia (e
dirompente) di quella prevista in sede comunitaria?17
Gli interrogativi appena cennati si scaricano immediatamente sulla decisione
in commento (la cui motivazione non è certo in grado di reggerli). Invero, proprio
16 L’art. 18 – epigrafato “Danni cagionati per effetto
del trattamento di dati personali” – disponeva che “chiunque
cagiona danno ad altri per effetto del trattamento di dati
personali è tenuto al risarcimento ai sensi dell'articolo 2050 del
codice civile”, menzionando quindi una disposizione che
riguarda il solo danno patrimoniale senza far riferimento a
quello non patrimoniale. Il quale – per converso – era invece
disciplinato dall’art. 29, comma 9, secondo cui “il danno non
patrimoniale è risarcibile anche nei casi di violazione
dell'articolo 9”, senza alcun richiamo, diretto o indiretto,
all’art. 18. Di qui il quesito inerente la risarcibilità anche del
danno non patrimoniale richiedendo che fosse il responsabile
della violazione a provare di aver adottato tutte le misure
idonee ad evitare il danno (sulla problematica in parola sotto il
vigore della legge del 1996, per tutti, V. COLONNA, Il sistema
della responsabilità civile da trattamento dei dati personali, in
R. PARDOLESI (a cura di), Diritto alla riservatezza e circolazione
dei dati personali, II, Milano, 2003, 1 ss., in particolare 55 ss.,
ove ampi riferimenti alla dottrina intervenuta in materia).
Al riguardo, va rilevato che sebbene l’art. 15 del Codice della
privacy offra spunti maggiori per affermare che danno
patrimoniale e non patrimoniale debbano essere soggetti al
medesimo regime probatorio, le indicazioni del nuovo testo
284
non sono univoche ed il problema continua a porsi agli
interpreti. Infatti, l’art. 15 del Codice dispone che
“1. Chiunque cagiona danno ad altri per effetto del
trattamento di dati personali è tenuto al risarcimento ai sensi
dell'articolo 2050 del codice civile.
2. Il danno non patrimoniale è risarcibile anche in caso di
violazione dell'articolo 11”. È evidente che già la contiguità fra i
commi – rispetto alla distanza fra i previgenti artt. 18 e 29 – è
elemento che rende più agevole sostenere la tesi dell’unicità del
regime probatorio, anche se la conclusione non è scontata (per
l’unicità di regime, con ampia illustrazione delle argomentazioni
delle opposte tesi e numerose citazioni
dei contributi che hanno affrontato il tema, F. DI CIOMMO,
Vecchio e nuovo in materia di danno non patrimoniale da
trattamento di dati personali, in Danno resp., 2005, 817 ss.;
per una sintesi delle diverse posizioni, P. RECANO, La
responsabilità civile da attività pericolose, Padova, 2001, 343 ss.).
17 Per spunti fondamentali ai fini di una compiuta riflessione
sui temi evocati: A. PALMIERI e R. PARDOLESI, Protezione dei
dati personali in Cassazione: eugenetica dei diritti della
personalità? (nota a Cass. 30 giugno 2001, n. 8889), in Foro it.,
2001, I, 2448.
la fattispecie concreta sottoposta all’esame del giudice induce a domandarsi se l’elaborazione compiuta sulla ratio della disciplina di origine comunitaria non debba
portare a rimeditare sull’ambito di applicazione del Codice della privacy, sì da evitare che il sotto-sistema di regole di responsabilità civile che esso appronta non si
ritenga ex se applicabile in ogni ipotesi di uso dell’effigie altrui.
Peraltro, sebbene la sentenza faccia sorgere immediatamente il quesito solo
rispetto al diritto all’immagine, lo stesso si pone – ed in primo piano – con riguardo
al rapporto fra la privacy e tutti gli altri diritti della personalità. La ragione è presto
detta: per quanto ci si armi di buona volontà e si cerchi di collocare l’interprete su
traiettorie diverse da quelle suggerite dall’école de l’exégèse, le definizioni della
normativa di cui si tratta non lasciano scampo.
Così, in ordine alla nozione di “trattamento” è chiaro che sia le ampie locuzioni impiegate dall’elenco offerto dall’art. 4 del Codice18, sia il suo carattere –
secondo alcuni – non tassativo19, inducono a far rientrare sostanzialmente ogni uso
dell’immagine all’interno dell’attività disciplinata dal Codice.
Né molte chances in più le dà la nozione di dato personale, anche se l’immagine non è specificamente menzionata dal legislatore. Per vero, la nozione usata dal
Codice per definire il “dato” oggetto del “trattamento” è assai ampia20, prendendo la
stessa le mosse dall’onnicomprensivo concetto di “informazione”21. Inoltre, diversi
considerando della Direttiva 95/46/CE (in particolare il 14°) intendono propiziare
un’applicazione della sua disciplina proprio alle immagini22, anche se con qualche
incertezza desumibile dal rinvio finale alla periodica relazione della Commissione
(con eventuali proposte di modifica della disciplina)23. Peraltro, pone un interrogativo (non da poco) il requisito della idoneità del dato ad “identificare” la persona, in
relazione al quale diverse posizioni sono state già manifestate sotto il vigore della
18 Al riguardo, senza significative innovazioni rispetto alla legge
675/1996 (con l’eccezione del riferimento alle banche dati
posto alla fine della disposizione), l’art. 4, lett. a), del Codice
stabilisce che si intende per trattamento “qualunque
operazione o complesso di operazioni, effettuati anche senza
l'ausilio di strumenti elettronici, concernenti la raccolta, la
registrazione, l'organizzazione, la conservazione, la
consultazione, l'elaborazione, la modificazione, la selezione,
l'estrazione, il raffronto, l'utilizzo, l'interconnessione, il blocco,
la comunicazione, la diffusione, la cancellazione e la
distruzione di dati, anche se non registrati in una banca di
dati”.
19 Sul carattere non tassativo dell’elencazione, in armonia con la
Direttiva 95/46/CE del 24 ottobre 1995, S. SICA, Ad artt. 1-6,
in SICA e STANZIONE, La nuova disciplina cit., 16.
20 Con la precisazione che nell’accezione adottata dalla
normativa de qua l’informazione deve ovviamente riferirsi ai
soggetti tutelati, va ricordato che la portata del termine
“informazione” è in sé assai ampia, indicando lo stesso “tutto
ciò a cui l’uomo attribuisce un determinato significato” (si
veda, sul punto, V. ZENO ZENCOVICH, Informazione (profili
civilistici), in Dig. civ., Torino, 1993, IX, 421 ss.).
21 Innovando rispetto alla legge 675/1996, all’art. 4 il Codice
distingue fra “dato personale”, definito come “qualunque
informazione relativa a persona fisica, persona giuridica,
ente od associazione, identificati o identificabili,
anche indirettamente, mediante riferimento a qualsiasi
altra informazione, ivi compreso un numero di identificazione
personale” (lett. b) e “dati identificativi”, definiti come “i dati
personali che permettono l'identificazione diretta
dell'interessato” (lett. c).
22 Così, al considerando 14 si afferma che “la presente direttiva
dovrebbe applicarsi al trattamento dei dati in forma di suoni
e immagini relativi a persone fisiche, vista la notevole
evoluzione in corso nella società dell'informazione delle
tecniche per captare, trasmettere, manipolare, registrare,
conservare o comunicare siffatti dati”. Inoltre, verso
l’inclusione dell’immagine nella sfera di applicazione della
Direttiva appaiono indirizzati – ragionando a contrario – pure
i considerando 16 e 17.
23 L’art. 33 della Direttiva stabilisce che “La Commissione
presenta periodicamente al Consiglio e al Parlamento europeo,
per la prima volta entro tre anni dalla data di cui all'articolo
32, paragrafo 1, una relazione sull'applicazione della presente
direttiva, accompagnata, se del caso, dalle opportune proposte
di modifica [...] La Commissione esaminerà in particolare
l'applicazione della presente direttiva al trattamento dei dati
sotto forma di suoni o immagini relativi a persone fisiche e
presenterà le eventuali proposte necessarie, tenuto conto
dell'evoluzione della tecnologia dell'informazione e alla luce
dei progressi della società dell'informazione”.
285
RomanaGIURISPRUDENZA CIVILE
temi
precedente normativa. Esso, infatti, induce a chiedersi se si possa non fare di tutta
l’erba un fascio e, quindi, se l’immagine di un soggetto possa considerarsi esclusa
dal novero dei dati personali ove non accompagnata da (altri) dati e circostanze che
consentano l’attribuzione di un nome ed un cognome al ritratto chissà dove carpito24. L’opera in realtà non è affatto agevole – o forse è impossibile25 – perché in tal
modo il dato personale-immagine diverrebbe ‘relazionale’, cioè dipenderebbe dal
possesso di altri dati e/o di adeguati mezzi in capo a chi la usa26. Ma, se non altro,
essa apre la via per ritornare sulla distinzione (spesso lasciata in ombra) fra right to
be let alone ed informational privacy, fra diritto alla riservatezza e diritto al controllo della circolazione dei propri dati.
Si è allora costretti a riconsiderare gli interrogativi sorti sotto il vigore della
precedente normativa e che gli artt. 1 e 2 del Codice della privacy ripropongono ed
ulteriormente stimolano con il nuovo e stentoreo riconoscimento del “diritto al trattamento dei dati personali”. E quindi a chiedersi se il diritto in questione “viva di
luce propria” o se vada funzionalmente piegato (e limitato) alla tutela di altri diritti
della personalità; nel primo caso, se l’accertamento della effettiva lesione del bene
protetto (diverso dal diritto di natura solo procedimentale) possa rilevare ed essere
recuperato in sede di distinzione fra l’an ed il quantum debeatur; se il danno morale debba essere risarcito in re ipsa, alla stregua di un danno-evento, o se un profilo
probatorio – se del caso a livello indiziario – si vuole mantenere27.
Come è evidente, le risposte ai predetti interrogativi possono avere immediate ripercussioni sulla portata della fattispecie di illecito aquiliano disciplinata dalla
nuova normativa, essendo idonei ad incidere, per un verso, sull’interpretazione delle
sue disposizioni e, per l’altro, anche se con opera ermeneutica più energica, sul pro24 In effetti, sotto il vigore della legge 675/1996 si è sottolineato
che il dato è in realtà “anonimo” quando “l’informazione non
sia associabile ad una persona identificata od identificabile in
base ai meccanismi fissati alla norma” e che “per l’idoneità
dell’informazione ad assumere la qualità di dato personale
sembra [...] sufficiente che siano rinvenibili altre indicazioni
che, ovunque custodite e da chiunque possedute, consentano
di trasformare l’informazione spersonalizzata in dato
personale” (così L. LAMBO, La disciplina sul trattamento dei
dati personali: profili esegetici e comparatistici delle definizioni,
in PARDOLESI, Diritto alla riservatezza cit., I, 87 ss., al quale si
rinvia per una più ampia disamina dei problemi qui accennati
in merito alla nozione di dato personale). A questo punto ci si
potrebbe allora chiedere se l’immagine di per sé – in assenza di
ogni altro dato – consenta sempre l’identificazione di una
persona e, se si optasse per la negativa, a quali condizioni essa
diviene invece dato personale. Al riguardo, si può ricordare che
in sede internazionale sono state espresse diverse posizioni (cfr.
i documenti citati in Ibidem, 49), essendosi affermato che
l’informazione non è dato personale quando “richiede l’utilizzo
di operazioni particolarmente complesse per identificare il
soggetto cui si riferisce”, quando “la persona interessata non
sia ragionevolmente individuabile”, ovvero quando
l’identificazione “necessiti di un eccessivo o irragionevole
dispendio di denaro, energie, tempo o operazioni”.
25 Nel senso che “la legge 675/1996 è applicabile a qualunque
informazione personale relativa a soggetti identificati o
identificabili e costituita anche da suoni o immagini ovvero
compresa nel loro interno o nell’ambito di dichiarazioni o di
286
altre forme di manifestazione del pensiero”, Garante per la
protezione dei dati personali, 28 novembre 2001, in Nuova giur.
civ. comm., 2002, I, 697, con nota di M. CATALLOZZI,
Riservatezza, minori e test psichiatrici, ove varia citazione dei
precedenti del Garante in materia di fotografie (mentre nel caso
di specie l’immagine non era quella fissata in un ritratto, bensì in
un disegno). Si veda anche Trib Roma, 28 febbraio 2003, cit..
26 Peraltro, anche se non si può negare all’immagine un’idoneità
identificativa in un certo qual modo intrinseca, è proprio la
nozione di identificabilità ad indurre un certo elemento di
relatività nel concetto di dato personale. Ad ogni modo, per
tutti i necessari approfondimenti, si rinvia (oltre che al
contributo già citato alla nota 24) ai commentari alla legge
675/1996, nonché al Codice: V. CUFFARO e V. RICCIUTO (a cura
di), La disciplina del trattamento dei dati personali, Torino,
1997; G. BUTTARELLI, Banche dati e tutela della riservatezza –
La privacy nella società dell’informazione, Milano, 1997; C.M.
BIANCA e F.D. BUSNELLI (a cura di), Tutela della "privacy", in
Nuove leggi civ. comm., 1999; E. GIANNANTONIO, M. G.
LOSANO e V. ZENO-ZENCOVICH (a cura di), La tutela dei dati
personali – Commento alla legge 675/1996, Padova, 1999; F.
CARDARELLI, S. SICA e V. ZENO-ZENCOVICH (a cura di), Il
Codice dei dati personali, Milano, 2004.
27 Per le varie opzioni ricostruttive, per tutti, SICA, Ad artt. 1-6
cit., 3 ss., al quale si deve l’espressione posta fra virgolette nel
testo e la scelta – nonostante la consapevolezza del rischio di
creare una “deriva risarcitoria” – dell’interpretazione
maggiormente improntata al favor victimae.
filo dell’antigiuridicità della condotta28, divisando al limite percorsi operazionali
parzialmente distinti per la compensation e l’injunction.
Ma – lo si deve ripetere con energia – prima ancora delle singole questioni
appena evocate rimane un grosso punto interrogativo sul ruolo del Codice, sulla sua
testuale ed in parte ineludibile pervasività, sugli scenari futuri relativi ai diritti della
personalità, alla loro esistenza ed al numero di ore che mancano prima della loro
estinzione per accessione o per confusione (è proprio il caso di dirlo). Oggi è toccato al diritto all’immagine. E domani?
4. (Segue:) Ulteriori riflessioni sui rapporti fra diritto
all’immagine e diritto alla privacy
Inutile dire che il problema posto nel precedente paragrafo era ed è tutt’altro
che speculativo, in quanto – anche a schivare la impegnativa equazione fra fluida
circolazione delle informazioni ed assetto democratico dell’ordinamento – la partita si gioca sul delicatissimo piano del bilanciamento fra interessi costituzionalmente protetti.
Al riguardo, anche in ragione del ‘mezzo’ con il quale è stata diffusa l’immagine dell’attore – e quindi ritornando gradatamente a problemi più prossimi alla fattispecie concreta –, appare utile richiamare brevemente la situazione di conflitto che
ha destato maggiori preoccupazioni sotto il vigore della legge 675/1996.
Invero, proprio considerando la già menzionata ed ampia nozione di “trattamento dei dati personali” (la quale ricomprendeva anche sotto il vigore della legge
675/1996 sia “l’utilizzo” che la “diffusione” dei dati), ci si era chiesti fino a che
punto la propalazione di quelle informazioni potesse ritenersi lecita se avvenuta nell’esercizio dell’attività giornalistica29; rendendo di nuovo attuale – anche a causa
dello ‘strappo’ che la legge provocava nel tessuto normativo, con una disciplina di
tutela ‘forte’ – un interrogativo che si era già posto lungo il travagliato cammino del
diritto alla riservatezza e del diritto all’identità personale, i quali avevano sostanzialmente dovuto cedere il passo al diritto di cronaca, ove esercitato in ossequio al
celeberrimo ‘decalogo del giornalista’30.
A prima vista era la stessa legge a risolvere il problema con la specifica disposizione di cui all’art. 25, la quale – tuttavia (ed a riprova della delicatezza della
28 Per la dottrina che, sotto il vigore della legge 675/1996,
si è occupata del problema inernte il rapporto fra l’art. 18 e
l’art. 2043 c.c. – il quale si ripropone sostanzialmente ‘in
termini’ alla luce della formulazione dell’art. 15, comma 1, del
Codice –, DI CIOMMO, Vecchio e nuovo cit., 819 ss. (il quale
ritiene che sia stato lo stesso legislatore a ‘tipizzare’ l’illiceità
della condotta, ma che ai fini della condanna del tort-feasor sia
sempre necessario “l’accertamento della concreta
materializzazione del danno inteso come lesione di un
interesse giuridicamente tutelato”, sì da concludere che “l’area
del trattamento illecito e l’area del danno risarcibile, seppure
parzialmente sovrapponibili, non coincidano”). Sulla questione
si veda anche COLONNA, Il sistema della responsabilità civile
cit., passim.
29 Sull’argomento, per tutti, A. PALMIERI, Trattamento dei
dati personali e giornalismo: alla ricerca di un equilibrio stabile,
in PARDOLESI, Diritto alla risevatezza cit., II, 337 ss..
30 Si allude alla famosa Cass. 18 ottobre 1984, n. 5259,
(fra le altre) in Foro it., 1984, I, 2711, con nota di
R. PARDOLESI, la quale – come è noto – ha fissato i tre
criteri della verità (se del caso putativa), della continenza
e della pertinenza, poi confermati da tutta la giurisprudenza
successiva (ed ai quali si può eventualmente aggiungere il
quarto requisito dell’attualità, in considerazione della
giurisprudenza intervenuta sul c.d. diritto all’oblio:
cfr. Cass. 9 aprile 1998, n. 3679, id., 1998, I, 1834). Sebbene in
quella ipotesi il conflitto vertesse fra diritto di cronaca da un
lato e diritto all’onore ed alla reputazione dall’altro, i medesimi
criteri si sono poi usati per comporre il contrasto con l’identità
personale (Cass. 7 febbraio 1996, n. 978, id., 1996, I, 1253) e
con la riservatezza (Cass. 9 giugno 1998, n. 5658, id., 1998, I,
2387).
287
RomanaGIURISPRUDENZA CIVILE
temi
tematica) – si era rivelata bisognosa di interventi non secondari, divenendo oggetto
di varie modifiche nel corso della sua breve vita. Peraltro, nonostante le attenzioni
del formante legislativo, la norma si era da subito rivelata inidonea a risolvere i problemi di fondo che la materia presenta31. Infatti, di là da vari rinvii ad un apposito
codice deontologico32 e dal riferimento alla “essenzialità dell’informazione” di dubbia portata precettiva33, l’art. 25 non offriva elementi per definire con precisione i
limiti entro i quali l’esercizio del diritto di cronaca doveva prevalere sul diritto alla
privacy, rimettendo quindi la questione – necessariamente – all’elaborazione del
formante giurisprudenziale (e para-giurisprudenziale)34.
Il Codice, dal canto suo, con modifiche che riguardano soprattutto la collocazione delle norme (essendo le varie deroghe al regime generale transitate dalla regolamen30 Si allude alla famosa Cass. 18 ottobre 1984, n. 5259,
(fra le altre) in Foro it., 1984, I, 2711, con nota di R.
PARDOLESI, la quale – come è noto – ha fissato i tre
criteri della verità (se del caso putativa), della continenza
e della pertinenza, poi confermati da tutta la
giurisprudenza successiva (ed ai quali si può
eventualmente aggiungere il quarto requisito
dell’attualità, in considerazione della giurisprudenza
intervenuta sul c.d. diritto all’oblio: cfr. Cass. 9 aprile
1998, n. 3679, id., 1998, I, 1834). Sebbene in quella
ipotesi il conflitto vertesse fra diritto di cronaca da un
lato e diritto all’onore ed alla reputazione dall’altro, i
medesimi criteri si sono poi usati per comporre il
contrasto con l’identità personale (Cass. 7 febbraio 1996,
n. 978, id., 1996, I, 1253) e con la riservatezza (Cass. 9
giugno 1998, n. 5658, id., 1998, I, 2387).
31 Nella sua versione originaria l’art. 25 divisava tre livelli di
tutela: per i dati sensibili concernenti la salute e la sfera
sessuale, per quelli di altro tipo e quelli concernenti i
provvedimenti giudiziari di cui all’art. 24, nonché per
quelli comuni. La prima modifica della disposizione è
avvenuta assai presto, cioè con il d. lgs. 9 maggio 1997,
n. 123, che ha portato all’ampliamento della sua sfera di
applicazione (non più operativa per i soli giornalisti
professionisti). Più incisivo l’intervento avvenuto con il d.
lgs. 13 maggio 1998, n. 171, che ha ridisegnato
l’impalcatura della disposizione – riducendo a due le
categorie di trattamenti differenziati e,
correlativamente, distinguendo solo i dati sensibili tout
court da un lato e quelli comuni dall’altro – e che,
inoltre, ha eliminato la necessità di autorizzazione del
Garante (che per i primi era invece comunque richiesta).
Per quanto qui interessa, il testo definitivo dell’art. 25
stabiliva quanto segue: “1. Le disposizioni relative al
consenso dell'interessato e all'autorizzazione del
Garante, nonché il limite previsto dall'articolo 24, non si
applicano quando il trattamento dei dati di cui agli
articoli 22 e 24 è effettuato nell'esercizio della
professione di giornalista e per l'esclusivo perseguimento
delle relative finalità. Il giornalista rispetta i limiti del
diritto di cronaca, in particolare quello dell'essenzialità
dell'informazione riguardo a fatti di interesse pubblico,
ferma restando la possibilità di trattare i dati relativi a
circostanze o fatti resi noti direttamente dall'interessato
o attraverso i suoi comportamenti in pubblico. 2. Il
Garante promuove, nei modi di cui all'articolo 31,
comma 1, lettera h), l'adozione, da parte del Consiglio
nazionale dell'ordine dei giornalisti, di un apposito
codice di deontologia relativo al trattamento dei dati di
cui al comma 1 del presente articolo, effettuato
288
nell'esercizio della professione di giornalista, che
preveda misure ed accorgimenti a garanzia degli
interessati rapportate alla natura dei dati, in particolare
per quanto riguarda quelli idonei a rivelare lo stato di
salute e la vita sessuale. Nella fase di formazione del
codice, ovvero successivamente, il Garante, in
cooperazione con il Consiglio, prescrive eventuali misure
e accorgimenti a garanzia degli interessati, che il
Consiglio è tenuto a recepire. Il codice è pubblicato nella
Gazzetta Ufficiale a cura del Garante e diviene efficace
quindici giorni dopo la sua pubblicazione [...] 4. Nel
codice di cui ai commi 2 e 3 sono inserite, altresì,
prescrizioni concernenti i dati personali diversi da quelli
indicati negli articoli 22 e 24. Il codice può prevedere
forme semplificate per le informative di cui all'articolo
10”.
32 Sul codice adottato in data 29 luglio 1998, per tutti,
S. NICODEMO, Il codice di " deontologia giornalistica ":
una fonte atipica, in Dir. inf., 2000, 85 ss..
33 In tal senso PALMIERI, Trattamento dei dati personali cit.,
360. Diversamente, sembrerebbe, S. VIGLIAR,
Ad artt. 136-139, in SICA e STANZIONE, La nuova
disciplina cit., 608, il quale – parafrasando in larga
parte l’art. 6 del codice deontologico – afferma che
in forza del principio di essenzialità “la diffusione di
notizie di rilevante interesse pubblico non comporta
una violazione della sfera privata degli interessati
quando l’informazione, seppure dettagliata, sia
indispensabile in ragione della originalità del fatto o
della qualificazione dei protagonisti e, soprattutto, sia
rispettosa della realtà, esponendo i fatti in forma civile
e veritiera, evitando suggestioni che vadano oltre una
valutazione oggettiva di quanto divulgato ed
escludendo l’indicazione di informazioni estranee o
marginali rispetto all’evento posto al centro
della notizia”.
34 Si veda, ad esempio, il noto caso Olcese, che, dopo il
provvedimento del Garante del 19 aprile 1999 (Foro it.,
Rep. 2000, voce Persona fisica, n. 156, viene deciso in
sede giurisdizionale deciso da Trib. Milano, decr. 14
ottobre 1999, id., 2000, I, 649, con nota di R. PARDOLESI
e A. PALMIERI, Protezione dei dati personali e diritto di
cronaca: verso un "nuovo ordine"? (ove ampi riferimenti
alla dottrina che si è occupata del problema cennato nel
testo) e poi sottoposto al vaglio della Suprema Corte con
Cass. 30 giugno 2001, n. 8889, id., 2001, I, 2448, con
nota di PALMIERI e PARDOLESI, Protezione dei dati
personali cit..
tazione contenuta all’inizio del lungo testo nella sua Parte II – artt. 46 ss.), non poteva
ovviamente non disciplinare la materia, il che è avvenuto ‘raccogliendo’ il disposto dell’art. 25 e riversandolo negli artt. 136-13935.
Peraltro, richiamando l’elemento che interessa più da vicino il caso di specie,
appare utile ricordare che con l’ultima novella l’ambito di applicazione dell’art. 25 della
legge 675/1996 era stato allargato in modo significativo, aggiungendosi alla trama normativa un comma 4-bis (oggi sostituito dall’art. 136 del Codice) a tenore del quale “Le
disposizioni della presente legge che attengono all'esercizio della professione di giornalista si applicano anche ai trattamenti effettuati dai soggetti iscritti nell'elenco dei
pubblicisti o nel registro dei praticanti di cui agli articoli 26 e 33 della legge 3 febbraio
1963, n. 69, nonché ai trattamenti temporanei finalizzati esclusivamente alla pubblicazione o diffusione occasionale di articoli, saggi e altre manifestazioni del pensiero”. E,
inoltre, che l’ultima parte del comma 1 dell’art. 25 (oggi sostituito dall’art. 137, comma
3, del Codice) stabiliva che “il giornalista rispetta i limiti del diritto di cronaca, in particolare quello dell'essenzialità dell'informazione riguardo a fatti di interesse pubblico,
ferma restando la possibilità di trattare i dati relativi a circostanze o fatti resi noti direttamente dall'interessato o attraverso i suoi comportamenti in pubblico”.
Ebbene, seppur anticipando che i dati offerti dalla pronuncia avrebbero probabilmente portato comunque a porre al di fuori del regime appena richiamato la fattispecie
sottoposta all’attenzione del giudice (dato che, a quanto consta, l’articolo della convenuta mirava sostanzialmente ad illustrare le offerte di determinati canali in analogico e
digitale, con contenuto informativo difficilmente qualificabile come ‘essenziale’), le
incertezze che popolano il terreno sul quale va operato il bilanciamento di cui sopra
avrebbero reso opportuna (e certamente gradita) una maggiore elaborazione motivazionale sul punto. Infatti, sebbene non sia dato di proporre un’acritica equazione fra prodotto editoriale ed esercizio del diritto (non solo di cronaca, ma in senso più ampio) alla
libera manifestazione del pensiero ex art. 21 Cost., l’allargamento delle maglie operato
con la novella dell’art. 25 l. 675/1996 avrebbe perlomeno dovuto indurre il giudicante
a interrogarsi (o ad illustrare) la natura della pubblicazione sottoposta alla sua attenzione, per poi, se del caso, escludere l’applicabilità del regime speciale stabilito per l’attività giornalistica riproponendo argomentazioni omologhe a quelle relative al “nesso di
pertinenza” inerente l’interpretazione dell’art. 97 l.a..
Peraltro, proprio dopo aver decretato l’estraneità della fattispecie alla sfera di
applicazione del regime previsto per l’attività giornalistica, sorgono alcuni interrogativi sul nuovo statuto (o sui nuovi statuti?) che il diritto all’immagine assume a seguito
delle interferenze e delle commistioni che derivano dall’applicazione della disciplina di
35 Gli artt. 136-139 del Codice, per quanto qui interessa,
stabiliscono quanto segue. Secondo l’art. 136 le regole inerenti
il regime di cui si discorre si applicano “al trattamento: a)
effettuato nell'esercizio della professione di giornalista e per
l'esclusivo perseguimento delle relative finalità; b) effettuato
dai soggetti iscritti nell'elenco dei pubblicisti o nel registro dei
praticanti di cui agli articoli 26 e 33 della legge 3 febbraio
1963, n. 69; c) temporaneo finalizzato esclusivamente alla
pubblicazione o diffusione occasionale di articoli, saggi e altre
manifestazioni del pensiero anche nell'espressione artistica”. E
l’art. 137 specifica al comma 2 che il trattamento in questione
“è effettuato anche senza il consenso dell'interessato previsto
dagli articoli 23 e 26” e poi, al comma 3, che “in caso di
diffusione o di comunicazione dei dati per le finalità di cui
all'articolo 136 restano fermi i limiti del diritto di cronaca a
tutela dei diritti di cui all'articolo 2 e, in particolare, quello
dell'essenzialità dell'informazione riguardo a fatti di interesse
pubblico. Possono essere trattati i dati personali relativi a
circostanze o fatti resi noti direttamente dagli interessati o
attraverso loro comportamenti in pubblico”.
289
RomanaGIURISPRUDENZA CIVILE
temi
conio più recente (oltre a quella di epoca codicistica). Infatti, sebbene si tratti di interrogativi di portata certamente minore rispetto a quelli sollevati nel paragrafo precedente, viene spontaneo chiedersi se anche al di fuori delle ipotesi di cui agli artt. 25 l.
675/1996 ed ora 136 ss. del Codice della privacy la pubblicazione dell’immagine altrui
si possa comunque considerare (in certi casi) legittima. In particolare, anche senza
entrare nel merito di una eventuale ‘compenetrazione’ fra disciplina di matrice codicistica e Codice della privacy, appare plausibile ritenere operative anche rispetto al dato
personale-immagine le esimenti di c
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