per una criminologia clinica volta alla prevenzione

UNIVERSITE EUROPEENNE JEAN MONNET
ASSOCIATION INTERNATIONALE SANS BUT LUCRATIF
BRUXELLES - BELGIQUE
THESE FINALE EN
“SCIENCES CRIMINOLOGIQUES”
AGGRESSIVITÀ, IMPULSIVITÀ ED EMOZIONI
PER UNA CRIMINOLOGIA CLINICA VOLTA ALLA PREVENZIONE
Alessandra CHIARINI
Matr. 1884
Bruxelles, Juillet 2008
ISTITUTO MEME S.R.L. - MODENA ASSOCIATO UNIVERSITÉ EUROPÉENNE JEAN MONNET A.I.S.B.L. BRUXELLES
ALESSANDRA CHIARINI – SST IN SCIENZE CRIMINOLOGICHE - TERZO ANNO A.A. 2007 - 2008
INDICE
ƒ
PREMESSA……………………………………………………………….…………… p. 4
ƒ
STATO DELL’ARTE…………………………………………………….………….... p. 7
1- Definizione psicopatologica del concetto di impulsività a livello
cognitivo e temperamentale………….………………..…................. p. 7
1-1 L’impulsività………………………….……………. p. 7
1-2 Misure dell’impulsività………………....………...... p. 10
2- Aggressività in relazione all’impulsività: connessione con le scienze
Criminologiche……………………………………………………… p. 13
2-1 Cosa è l’aggressività……………………………….. p. 13
2-2 Basi biologiche del comportamento aggressivo…… p. 14
2-3 Modelli interpretativi…………………………...….. p. 18
2-4 Suicidio………………………………...…………... p. 22
2-5 Eteroaggressività e malattia……………...………… p. 27
2-6 Psicopatologia e trattamento del DBP…………...… p. 34
2-7 Violenza e criminalità………………...…………..... p. 40
3- Criminologia……………………………………………...…………. p. 43
4- L’arteterapia……………………………………………...…………. p. 47
4-1 Origini………………………………………...….….. p. 47
4-2 Contesti…………………………………………....… p. 49
4-3 Forme……………………………………………....... p. 50
4-4 Ruoli e funzioni dell’immagine artistica…………….. p. 53
4-5 Emisfero destro e creatività……………………...…... p. 52
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4-6 Esperienza estetica, artistica e processo terapeutico.... p. 55
4-7 Psicologia Umanistica e Arteterapia: un’integrazione...p 57
ƒ
MATERIALI E METODI………..…………………………………………………. p. 61
1- Colloquio di gruppo e individuale………………………………. p. 61
2- Test sull’impulsività……………………………………………… p. 64
3- Lo strumento dell’arteterapia…………………………………… p. 65
ƒ
PARTE SPERIMENTALE……..….………………………………………….…….. p. 72
1- L’ arte terapia in un gruppo border-work in progress…………....……… p. 72
2- Follow-up………………………………………………………….………… p. 97
ƒ
CONCLUSIONI……………………………………………………………………… p. 107
ƒ
BIBLIOGRAFIA…………………………………………………………………….. p. 109
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PREMESSA
Questo lavoro è la continuazione di un percorso di tre anni e nonostante il tempo sembri essere
tanto, tuttavia non è stato sufficiente ancora a esplorare a fondo il tema del discontrollo degli
impulsi e a trovare tecniche tanto efficaci da consentire di contenere tale fenomeno con le sue
catastrofiche conseguenze.
Mi sono limitata a osservare e a partecipare prima a un gruppo in ambito psichiatrico,
successivamente a un gruppo più ristretto in ambiente clinico privato, vedendo la riduzione della
partecipazione e drop-aut fino a restare al fianco di una sola ragazza che pur con notevoli alti e
bassi e discontinuità di percorso ha mantenuto il suo posto grazie alla sua determinazione e
voglia di stare meglio.
Al di là di qualsiasi teoria che ho tenuto presente, tra cui quella sistemico-relazionale, quella
psicodinamica con aspetti gruppo analitici, quella dell’arteterapia, siamo noi di fronte a persone
sofferenti a dover metterci in gioco con estrema umiltà, mettendo in conto di fallire, di essere
impotenti, di divenire contenitori della rabbia, della frustrazione, dell’angoscia, del dolore, della
solitudine di coloro che ci chiedono aiuto. E tutto questo tocca le corde interne dello psicologo
come persona innanzi a una o più persone, lo costringe a riprendere contatto con le proprie zone
d’ombra, con le proprie paure, la propria frustrazione e rabbia, ma anche con la capacità di
saperla gestire, rielaborare in maniera costruttiva, così da consentire all’altro di sentirsi accolto
con tutto quel bagaglio di sofferenza e di confusione emotiva.
Ciò che conta è il valore unico di ogni persona sofferente che viene ad affrontare con coraggio
una psicoterapia o un percorso di sostegno psicologico e in questo senso la psicologia
umanistica, di cui ci occuperemo in modo più approfondito nella sezione dello stato dell’arte, ci
sostiene mettendo al centro la dignità umana e il senso di ogni singola esistenza che non può
essere incasellata e ingabbiata in teorie, tecniche o manuali diagnostici. Ogni tecnica che pur
deve essere presa in esame per aver un metodo e una linea guida, necessita di tener conto delle
differenze di ogni soggetto, per cui lo psicologo ha bisogno di acquisire flessibilità, neutralità,
capacità di ascoltare e rispettare il dolore dell’altro ogni volta con modi, tempi personalizzati.
E solo in relazione all’altro, alle sue motivazioni, ai suoi bisogni, alle sue risorse, ai suoi limiti,
alla sua sintomatologia e soprattutto alla sua sensibilità e personalità, è infatti possibile scegliere
il percorso e i metodi e magari adeguarli in itinere, cercando di non avere troppi programmi da
seguire in maniera rigida, accettando pure di sbagliare un percorso e di rimetterlo in discussione
se non porta risultati o se addirittura può risultare controproducente.
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Non restare ancorati ai propri schemi di riferimento ma focalizzarsi sull’altro e sui suoi assi di
riferimento è la chiave per aprire la strada all’incontro e allo scambio costruttivo seppur
estremamente faticoso e oscillante tra emozioni forti e contrastanti. Uscire da stessi , dai propri
pregiudizi, o far i conti con essi e i suoi limiti, per entrare nell’altro, nella sua visione di sé e del
mondo accogliendo completamente l’altro, è lo sforzo e l’impegno che ogni psicologo dovrebbe
prendere su di sé con entusiasmo e timore al tempo stesso.
L’ascolto e l’espressione delle emozioni può avvenire attraverso tanti canali e quanti più canali si
esplorano tanto più si può cogliere una persona a tutto tondo nelle sue complesse sfumature e
sfaccettature. Volendo si possono scoprire nuovi canali, non esplorati o non considerati, come
quelli legati ai sensi umani e non solo al puro linguaggio.
Al di là del colloquio infatti come strumento comune di comunicazione, l’arte come canale di
comunicazione
che giunge agli archetipi individuali e collettivi, e le fantasie guidate
accompagnate da gesti catartici, sono possibili vie preziose per dare voce a ciò che con le parole
resterebbe inespresso, frainteso o spesso incomunicabile.
Tale premessa mi consente di preannunciare il senso di questo lavoro complesso, difficile, in
continuo divenire, fatto anche di drop out e crisi esistenziali. Mi sto riferendo al percorso di
sostegno psicologico fatto insieme a un piccolo gruppo, un microcosmo di persone con disturbi
differenti ma accomunate dalla profonda sofferenza e dal bisogno di condividerla per provare ad
affrontarla.
Questo gruppo ha inoltre una estrema difficoltà nella gestione degli impulsi con conseguenti
eccessi comportamentali di vaia natura, perciò l’arteterapia è stato uno strumento utile per
esprimere quelle pulsioni proibite e per cercare di definirle, renderle meno angoscianti e
distruttive, potendo anche trovare negli atri uno specchio. L’arteterapia ha inoltre una peculiarità,
ovvero la creatività ingenua, esplosiva, costruttiva ed energica che fa parte della regressione
infantile. Ha infatti un aspetto ludico intenso ed estremamente comunicativo.
L’obiettivo è stato quello di rendere i soggetti più consapevoli della propria identità, dei propri
confini, limiti, ma anche possibilità e capacità.
Il senso di vuoto e di abbandono, la bassa autostima,la necessità della dipendenza affettiva, la
rabbia, la frustrazione e l’instabilità emotiva unitamente a personalità estremamente fragili,
rigide, con difese primitive e con adattamenti all’ambiente esterno difficili, portano a esplosioni
degli impulsi con impossibilità di controllo e con gravi rischi autolesivi.
Dare una forma, un contorno, un colore, un nome alle emozioni e alle pulsioni significa anche
uscire dalla confusione che crea angoscia e totale perdita di controllo di sé, per raggiungere una
maggiore chiarezza cognitivo-emozionale. Ciò facilita la visione della mappa interna per sentire
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di essere padroni di se stessi e del proprio sentire, riappropriandosi così degli impulsi da
monitorare.
In questo percorso come dicevo è rimasta Monica con la quale ho cercato di proseguire il
percorso fatto in gruppo, ritrovando nei suoi disegni parti del gruppo e parti di sé, anche quelli
poco tollerabili e ricacciati, proiettati fuori per poi osservarli, descriverli con le emozioni da essi
suscitati. Tutto ciò ha lo scopo di poter tollerar meglio l’angoscia e la paura di un sé sconosciuto,
quasi un nemico, che minaccia di distruggere ciò che di buono resta. Vedere il proprio segno sul
foglio e lo stupore davanti a una bellezza inaspettata e a un senso inatteso pare essere una traccia
di un sé che esiste, che si può affermare e ritrovare se non del tutto, in parte, una autostima ferita.
Questi sono percorsi possibili ma ne possono esistere tanti altri, tutti quelli che sanno umilmente
porgere l’orecchio al silenzio dell’altro, al suo sentire delicato, fragile in mezzo al frastuono di
una normalità troppo spesso insensibile e obbligata ad adeguarsi a un sistema esigente, veloce
che esclude le interferenze emotive per avere l’efficacia, l’efficienza e la produttività economica.
Questi percorsi rappresentano anche una modalità importante di valutazione della pericolosità
sociale dei soggetti partecipanti al gruppo al di fuori del setting e del suo contenimento emotivo.
Attraverso test sull’aggressività e mediante la loro somministrazione in momenti diversi del
percorso di supporto psicologico ho potuto cogliere almeno in parte il livello di discontrollo
degli impulsi così da regolare meglio il controllo contenitivo psicologico. Anche lo strumento
dell’arteterapia ha consentito di cogliere nuclei inespressi o non accettati/elaborati di rabbia così
da lavorare sul piano preconscio e della creatività al fine di consentire uno spazio mentale alle
pulsioni, per renderle parte integranti del sé senza eccessive paure e con la consapevolezza di
una migliore gestione di esse.
Ridurre il rischio di aggressività, lavorare sulla prevenzione sono stati punti importanti del nostro
lavoro in gruppo prima e individualmente poi.
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STATO DELL’ARTE
1- DEFINIZIONE PSICOPATOLOGICA DEL CONCETTO DI IMPULSIVITÀ A LIVELLO
COGNITIVO E TEMPERAMENTALE
1-1 L’impulsività
Il termine "impulso" (dal latino "inpellere" con il significato di spingere in avanti) viene definito dal
vocabolario come spinta istintiva ed irriflessiva, spesso violenta, ad agire (1); in psicologia si
riferisce, generalmente, ad un atto che sorge, senza motivazione razionale, da una carica affettiva
molto intensa e che si compie rapidamente, talvolta violentemente, presupponendo un offuscamento
della coscienza o un disturbo della volontà. Con Freud (2) si comincia a parlare di impulso in
termini di pulsione, definita dall’Autore come "un processo dinamico consistente in una spinta che
fa tendere l’organismo verso una meta". ( Freud 1905)
Necessariamente collegata all’impulso, quand’anche sostanzialmente diversa, è l’impulsività,
definita come la tendenza a comportarsi in modo precipitoso e violento; Murray (3) la descrive
come una tendenza a rispondere velocemente e senza adeguata riflessione, come una reazione
immediata ad uno stimolo; in questa definizione è implicito il concetto del rischiare, pur di ottenere
il più velocemente possibile certe cose; nelcostruttivismo, l’impulsività si caratterizza come
un’abbreviazione della fase di circospezione del ciclo C-PC (Circospezione-Prelazione-Controllo)
(4); nella psichiatria descrittiva l’impulsività viene considerata in modo più ampio rispetto alle
definizioni degli psicologi, e ciò comporta l’inclusione, tra i disturbi dell’impulso, del suicidio e
dell’automutilazione, e tra i comportamenti impulsivi del correre rischi e della mancanza di
controllo sugli affetti. In questo più ampio alone l’impulsività diventa sempre più espressione di
fenomeni eterogenei, tanto che Barratt (1997) (5) propone una sottotipizzazione del comportamento
impulsivo, presupponendo l’esistenza di una impulsività motoria, definita come la tendenza ad agire
senza pensare, di una impulsività cognitiva, intesa come la tendenza a prendere rapide decisioni e di
una impulsività non pianificata, che si delineerebbe come una modalità di comportamento
caratterizzata da una scarsa valutazione delle conseguenze.
Cosa si intende dunque per impulsività?
L’impulsività è una disposizione alla reazione rapida e non pianificata ad uno stimolo interno o
esterno con ridotte considerazione per le conseguenze.
I subfattori che concorrono all’induzione del comportamento impulsivo possono esprimersi con una
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fenomenologia sia di tipo “comportamentale” che “cognitivo”.
Per impulsività comportamentale si intende un’azione sulla spinta del momento con inabilità a
ritardare la gratificazione o ad inibire un comportamento; mentre per impulsività cognitiva si fa
riferimento ad una rapida ma incompleta valutazione del contesto con deficit attenzionale e
difficoltà a mentalizzare. ( Schmidt C. A. , 2003)
L’impulsività cognitiva correla con la compromissione delle funzioni esecutive necessarie ad
organizzare un comportamento appropriato al contesto e finalizzato.
Una compromissione di tali funzioni (resistenza all’interferenza, analisi della complessità
relazionale, rappresentazione di sé, programmazione, elaborazione d’ipotesi alternative) faciliterà
l’emergenza di un comportamento stimolo guidato che trova la sua induzione nel mancato controllo
volizionale e cognitivo.
Le funzioni cognitive esecutive sono integrate nella regione mesiale e dorsolaterale del lobo
prefrontale e sono modulate dalle afferenze dopaminergiche mesocorticali.
Nell’impulsività comportamentale il comportamento impulsivo è sotteso ad una inadeguata ed
eccessiva spinta appetitiva ed emozionale ma la capacità cognitiva di elaborare il contesto risulta
adeguata. Oggi si considera l’impulsività comportamentale come sottesa da una compromissione
della corteccia orbito-frontale che modula il comportamento appetitivo ed emozionale. Le afferenze
serotoninergiche svolgono un ruolo importante nell’organizzazione di tale funzione.
L’attuale stato di confusione per ciò che concerne la ricerca psicopatologica sull’impulsività
potrebbe essere attribuito alla mancanza di una definizione precisa.
L’impulsività è stata variamente definita come una azione rapida senza un adeguato pensiero e la
tendenza all’azione con meno previdenza rispetto alla maggior parte degli individui con le stesse
abilità e conoscenza.
Alcune definizioni di impulsività includono un certo numero di substrati. Eysenck & Eysenck,
collegano l’impulsività alla ricerca del rischio, alla mancanza di pianificazione e alla
presa di decisione più lenta.
Patton et al. distinguono l’impulsività in tre componenti:
- agire su due piedi (motor attivation);
- mancanza di concentrazione rispetto al compito (attention);
- mancanza di pianificazione (lack of planning).
Alcuni autori sostengono che l’impulsività e la compulsività sono poli opposti di uno stesso spettro;
altri, invece, sostengono che l’impulsività potrebbe essere misurata attraverso i compiti
comportamentali osservati in laboratorio.
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Nella letteratura psichiatrica, si trovano in grandi quantità modelli comportamentali dell'impulsività
sviluppati sulla base delle conclusioni ottenute dalle osservazioni dei compiti svolti in laboratorio e
usati per misurare la stessa.
Questi compiti si dividono in tre ampie categorie:
- il paradigma dell’estinzione/punizione, in cui l’impulsività è definita come la perseveranza a
riproporre una risposta che viene punita o non gratificata;
- il paradigma della scelta/ricompensa, in cui l’impulsività è definita come la preferenza per una
gratificazione immediata e inferiore rispetto a una ricompensa maggiore ma più tardiva;
- il paradigma della disinibizione/attenzione nella risposta, in cui l’impulsività è definita come
risposte fornite in modo prematuro o come la incapacità a trattenere la risposta.
Per incorporare questi modelli in una definizione unitaria di impulsività, la stessa dovrebbe
includere i seguenti elementi:
1- diminuita sensibilità rispetto alla percezione delle conseguenze negative del comportamento;
2- reazioni rapide e non pianificate verso stimoli ancor prima che il processo di informazione sia
completato;
3- mancanza di considerazione rispetto alle conseguenze a lungo termine.
Socialmente l’impulsività è stata considerata un comportamento appreso, proveniente da un
ambiente familiare in cui il bambino impara a reagire immediatamente per ottenere ciò che
desidera. In questa struttura concettuale gli individui impulsivi non hanno la capacità di valutare le
conseguenze delle azioni, né per sé né per gli altri.
Così, una definizione che includa gli aspetti sociali dell’impulsività ha bisogno di inglobare il fatto
che l’impulsività spesso ha un impatto non solo sugli individui impulsivi ma anche sugli altri.
1- Devoto G, Oli GC: Il Dizionario della lingua italiana. Firenze, Le Monnier 1999.
2-Freud S. Tre saggi sulla teoria sessuale (1905). Opere di Sigmund Freud. Torino: Boringhieri, 1989 (tr. It).
3- Murray H. Exploration in personality. New York: Oxford University Press.
4- Bannister D, Fransella F. L’uomo ricercatore. Torino: Bollati Boringhieri 1972.
5- Barratt E. S. Standford M. S. Kent T. A. Felthous A., Neuropsychological and cognitive psychophysiological substrates of
impulsive aggression. Biol Psychiatry 1997, 1045 – 61.
1-2 Misure dell’impulsività
Lo studio dell’impulsività trova la sua ragion d’essere a partire dalle misure che hanno consentito di
indagarne l’origine e i termini della sua stessa esistenza.
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Per la misura dell’impulsività tre sono le principali classi di strumenti che sembrano in grado di
misurarne gli aspetti chiave:
- Le misure self-report:
queste misure di cui un esempio sono la Barratt Impulsiveness Scale e l’Eysenck Impulsiveness
Questionnaire, hanno il vantaggio di permettere al ricercatore di raccogliere informazioni sulla
varietà dei tipi di azioni e se queste azioni costituiscono un modello comportamentale a lungo
termine. Gli inconvenienti invece, includono il bisogno di contare sulla veridicità e sincerità delle
risposte dei soggetti che compilano in questionario.
- Studi di laboratorio:
i vantaggi degli studi di laboratorio sull’impulsività includono la loro adattabilità ad usi ripetuti,
mentre lo svantaggio di questo strumento di misura è che non misura pattern di comportamento a
lungo termine.
- Potenziali evocati:
l’attività elettrica del cervello viene registrata durante lo svolgimento dei compiti da parte dei
soggetti, così è possibile studiare in che termini la impulsività può costituire una predisposizione.
L’interesse alla dimensione “impulsività” nasce, dunque, in concomitanza con la possibilità di
poterla misurare e indagare attraverso diversi strumenti e modelli.
Facendo un passo indietro analizziamo come nasce lo studio della impulsività intesa innanzitutto
come dimensione caratteristica della personalità.
Tra i primi ad interessarsene ritroviamo la figura di Eysenck.
L’impulsività è considerata come una delle due componenti più importanti dell’Estroversione,
insieme alla socievolezza ma, in un secondo momento, l’introduzione della dimensione dello
Psicoticismo modifica questa collocazione dell’impulsività nel modello di Eysenck: essa viene
considerata una subdimensione dello Psicoticismo (6) (e non più dell’estroversione).
Secondo Eysenck, le persone che ottengono alti punteggi in P. sono caratterizzate da notevole
impulsività, avventatezza e noncuranza delle regole, egocentrismo, aggressività, freddezza
impersonale, mancanza di empatia, assenza di vero interesse per gli altri e noncuranza del benessere
e dei diritti delle altre persone. Risultano anche originali e creativi. Dei tre superfattori, lo P. è stato
quello più discusso e controverso soprattutto dal momento in cui Eysenck (1967) (7) ha stabilito che
tra i suoi fattori più pesanti si doveva annoverare anche l’impulsività.
Nonostante la concezione che Eysenck ha sviluppato dell’impulsività sia particolarmente articolata,
il modello biologico-causale da lui proposto è semplice: gli impulsivi hanno livelli più bassi di
arousal (bassa attivazione del loop corteccia-formazione reticolare attivante) rispetto ai non
impulsivi (Eysenck&Eysenck 1985) (8).
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Proprio per una maggiore chiarezza in questa direzione Eysenck ha costruito l’IVE-Qustionario
Impulsività in grado di fornire una misura dell’Impulsività, dell’Audacia e dell’Empatia. Questo
strumento deve la sua costruzione al fatto che questo tratto non era unitario e Eysenck ritenne utile
formulare un questionario a parte per misurare direttamente il fattore in questione.
L’Audacia, considerata un aspetto dell’Impulsività tendente all’Estroversione, viene misurata
considerando un certo numero di item, così come accade per la rilevazione dell’Empatia.
Anche il modello psicobiologico di Zuckerman costituisce una delle più importanti risorse per
l’integrazione dei livelli d’analisi dello studio delle differenze di personalità. In un recente lavoro
(9)illustra compiutamente un modello alternativo di 5 fattori; il punto focale del modello è il fattore:
“Ricerca impulsiva di sensazioni” (ImpSS) e differisce notevolmente dal modello dei BIG 5. In
questo modello emerge l’analisi fattoriale di scale ampiamente usate dai teorici della psicobiologia
del temperamento come quelle dell’IMPULSIVITA’, la RICERCA DI SENSAZIONI (sensation
seeking) (SS), l’ATTIVITA’, l’EMOTIVITA, la SOCIEVOLEZZA, l’AGGRESSIVITA’, ecc.. ed è
composto da:
1- Socievolezza.
2- Nevroticismo-ansietà.
3- Ricerca impulsiva di sensazioni senza senso sociale (Imp-USS).
4- Aggressività-ostilità.
5- Attività del fattore Imp-USS in particolare fanno parte i seguenti tratti:
a) Ricerca di sensazioni.
b) Impulsività.
c) Autonomia (polo positivo).
d) Socializzazione.
e) Carenza di strutture cognitive (e progettazione).
f) Inibizione dell’aggressione.
g) Responsabilità (al polo negativo).
Uno dei migliori indicatori per il fattore Imp-USS è stata la scala P (psicoticismo) di Eysenck.
La scala SS (ricerca di sensazione) di Zuckerman e la P di Eysenck sono fortemente associate con la
devianza sociale che si esprime nel comportamento criminale o di violazione delle regole, uso
eccessivo di alcool e droghe, guida imprudente ad alta velocità.
Il tipo P-ImpUSS tende a praticare rapporti sessuali promiscui e casuali con molti partners
(Zuckerman, 1993; Eysenck&Eysenck, 1985) e, da ricerche effettuate nei colleges americani correla
con il più alto rischio di AIDS.
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Le differenze di sesso e di età sono le variabili che influenzano di più il tipo Imp-USS. I valori
tendono a declinare con l’età, a partire dalla prima adolescenza, ed è da 4 a 7 volte più comune
nell’uomo che nella donna.
Il termine PSICOPATIA potrebbe essere il termine migliore per indicare certe personalità,
soprattutto per la dimensione ImpUSS, che segna il limite estremo della popolazione SS.
Sebbene, sostiene Zuckerman, gli psicopatici non siano meno intelligenti di altri criminali, sembra
che abbiano qualche problema ad imparare e a non ripetere i comportamenti erronei che li hanno in
passato condotti a punizioni e al carcere. Anche in carcere, in confronto ad altri, gli psicopatici
passano più tempo in isolamento punitivo per offese e infrazioni ripetute alle regole interne. Tale
recidività è stata spiegata con il loro bisogno di eccitamento (SS) e dalla loro impulsiva reattività
davanti a prospettive di ricompensa, oltre che ad una insensibilità manifesta a stimoli associati alla
punizione.
Zuckerman attribuisce un ruolo rilevante agli studi sull’attività elettrica cerebrale, in modo
particolare sui Potenziali Evocati (EP). I EP rappresentano variazioni dell’attività elettrica cerebrale
prodotta da uno stimolo esterno. Il EP è costituito da un complesso di onde la cui interpretazione
non è sempre facile, poiché le sue componenti (latenza, forma, ampiezza) sono differenti da una
zona corticale all’altra, per esempio le componenti di un EP visivo sono diverse da quelle di un EP
uditivo. In una ricerca con un gruppo di disinibiti e un gruppo di inibiti, sia in rapporto ad un
aumento del livello di intensità di luci o suoni, i disinibiti manifestavano la tendenza ad ampliare il
EP in funzione dell’intensità dello stimolo, mentre i secondi a ridurlo. Anche i livelli alti di
impulsività correlano con gli aumentatori di EP.
6- Eysenck S. B. G., Eysenck H. J. Barratt P., (1985), Arevised version of psychoticism scale. Personality and individual differences,
6, 21 - 29.
7- Eysenck H. J., (1967), Biological bases of personality. Springfield Thomas.
8- Eysenck H. J. Eysenck M. W., (1985), Personality and individual differences. London: Plenum Press.
9- Zuckerman M. et al., (1993), A comparison of three structural models for personalità: The Big three, the Big Five, and the
Alternative Five. Journal of Personality and Social Psychology, 65, 757 - 768. In Rassegna di psicologia, n.3, vol. XIX, 2002 Franco
Angeli. Articolo: Le basi psicobiologiche dell’impulsività di Paolo Maria Russo.
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2-
L’AGGRESSIVITÀ IN RELAZIONE ALL’IMPULSIVITÀ: CONNESSIONE CON LE
SCIENZE CRIMINOLOGICHE
2-1 Che cosa è l’Aggressività
Il comportamento violento può avere cause, manifestazioni e conseguenze molto varie, per cui
l'"aggressività" è stata oggetto di studio nei più svariati campi della ricerca: biologico, psichiatrico, forense,
sociale, etico, con attributi e caratteristiche peculiari per ognuno dei vari approcci. Hinde (1974) definisce
l'aggressività come la tendenza, presente sia nell'uomo sia nell'animale, a manifestare un comportamento
finalizzato a combattere qualsiasi fenomeno minacci l'integrità dell'organismo e/o tesa a provocare un danno
agli altri. Nell'accezione più vasta tuttavia, il termine "aggressivo" serve per descrivere il comportamento con
il quale gli individui perseguono attivamente i loro interessi gli uni contro gli altri nella società (politici,
sportivi, ma anche gruppi sociali, Stati, ecc.); altri termini, quali "violenza" o "crudeltà", pur indicando
anch'essi comportamenti finalizzati a causare danno, sono inequivocabilmente permeati di un significato
ostile. Ad esempio in campo criminologico la "violenza" (il crimine violento) è definito da parametri politici
e/o e giuridici più che da considerazioni scientifiche (Gottfredson e Hirschi, 1990). D'altra parte la pulsione
aggressiva è considerata, nell'accezione etologica, un elemento primario per garantire la sopravvivenza
dell'individuo e della specie e parliamo di aggressività anche quando intendiamo caratterizzare l'impeto e la
spinta volitiva o la competizione presenti in un'attività produttiva, un'impresa scientifica, sportiva o artistica
che comporti una sfida a se stessi o ad altri. L'aggressività quindi non ha un significato intrinseco di
"patologico"; diventa tale quando il soggetto non riesce più a controllarla, modularla, adeguarla alle
situazioni, a "sublimarla" in attività creative; mentre assume aspetti di stereotipia o impulsività, irrazionalità,
ed è agita in azioni potenzialmente criminali e spesso afinalistiche. L'etimologia del termine (dal latino
"ad"=verso, contro, allo scopo di... e "gradior"= vado, procedo, avanzo) indica ancor di più la complessità di
significati che la parola "aggressività" può assumere. Alcuni Autori parlano di aggressività Spontanea ed
aggressività Indotta (correlata a stimoli esterni) o ancora di aggressività Ostile e Strumentale a seconda del
fine perseguito, laddove l'aggressività di tipo Strumentale è rivolta ad ottenere un vantaggio aggiuntivo
rispetto al solo provocare danno (es. per rubare). È lecito quindi affermare che una singola definizione non
può essere esauriente. L'uomo può essere "aggressivo" sul piano comportamentale, senza necessariamente
passare all'atto, ma anche solo insultando, o "sbattendo la porta", o facendo "scherzi" o "battute pesanti";
l'aggressività può essere inespressa, inibita, "trattenuta", ed è in questi casi ritenuta da studiosi come
Weisman, Alexander, Dollard, causa o fattore aggravante di molte malattie fisiche (ulcera, asma, colite,
ipertensione). Il problema riguarda quindi da una parte l'intenzionalità con la quale viene messo in atto il
comportamento aggressivo e dall'altra la direzionalità del medesimo ed è in base a quest'ultimo aspetto che
riconosciamo una aggressività agita verso gli altri o "eterodiretta" ed una "autodiretta" che comprende le
automutilazioni, i tentativi di suicidio fino al suicidio.
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I fattori che possono condizionare quindi la comparsa di condotte auto ed etero aggressive possono essere
così schematizzati:
a) Fattori predisponenti:
- la vulnerabilità genetica;
- anomalie neurofisiologiche e disturbi dello sviluppo del sistema nervoso;
- abuso o abbandono nella prima infanzia;
- clima culturale di estremo permissivismo.
b) Fattori inibitori:
- autoidentificazione in norme sociali, culturali ed etiche;
- l'intelligenza del soggetto e la sua capacità di pensiero astratto;
- il livello educativo e la paura della punizione;
- la fede religiosa professata.
c) Fattori di rischio:
- la patologia psichiatrica;
- l'intossicazione da sostanze e da alcool;
- i disturbi di personalità;
- la presenza nella anamnesi di precedenti atti autolesivi o di violenza.
d) Fattori ambientali:
- la povertà;
- l'instabilità occupazionale;
- l'assenza di rapporti familiari, di amicizie e di figure di riferimento.
2-2 Le basi biologiche del comportamento aggressivo
Il contributo della ricerca biologica allo studio del comportamento aggressivo eterodiretto è essenziale per
cercare di capirne i vari aspetti e significati. L'aggressività nel mondo animale, secondo gli etologi,
rappresenta una modalità comportamentale necessaria non solo per la sopravvivenza del singolo e della
specie, ma anche per l'evolversi di entrambi. Moyer (1968, 1976) ad esempio ha descritto alcuni tipi di
aggressività: predatoria, competitiva, difensiva, territoriale; queste diverse finalizzazioni del comportamento
aggressivo, tuttavia, non sono presenti in tutti gli animali nella stessa misura, ma differiscono anche tra
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individui della stessa specie, talvolta in base all'età ed al sesso. Mentre negli animali il comportamento
aggressivo assume le caratteristiche di una "preprogrammazione genetica" con schemi di condotta
stereotipati e ripetitivi, nell'uomo questo "determinismo biologico", si compenetra necessariamente con i
valori morali e sociali che la vita in comune esige; natura e cultura si fondono nell' essere umano e la
capacità di riflettere, a differenza degli animali, gli consente di modulare gli istinti. Nel bambino
l'aggressività è indispensabile per distaccarsi dalla difesa delle figure genitoriali e per iniziare ad affrontare il
mondo; il bambino che tocca gli oggetti, li apre, li rompe, mostra un'aggressività che, lungi dall'esser
patologica, esprime il bisogno e la necessità di conoscere ciò che lo circonda. Nella prima infanzia
l'aggressività si sviluppa in modo molto graduale ed appare collegata a caratteri quali il sesso ed il
temperamento (Buss e Plomin, 1975); il bambino progressivamente impara che può essere aggressivo in
vario modo e che non tutte le manifestazioni aggressive sono permesse; in seguito, nell'adolescenza,
l'aggressività si carica di molteplici significati, adattivi e non, che si completeranno nell'età adulta. I
comportamenti aggressivi potranno infine canalizzarsi su argomenti, aspetti, interessi della vita quotidiana
che vanno da un piano di realtà ad un piano simbolico: ci riferiamo al valore dello sport, della competizione
nei vari campi (nel mondo economico, del lavoro, etc.).
a) La ricerca genetica
Gli studi che tendono a provare l'ereditarietà delle condotte aggressive nell'uomo sono tuttora frammentari ed
i risultati limitati e non univoci, tuttavia la ricerca su gemelli, su adottati e su alcune sindromi psichiatriche
nelle quali il comportamento aggressivo è molto frequente, tende ad evidenziare una vulnerabilità genetica
(Elliott, 1990). Da tempo è stato visto come in alcuni casi le alterazioni dei cromosomi sessuali siano in
stretta relazione ai comportamenti aggressivi in soggetti con il genotipo XYY a 47 cromosomi; questi
vengono descritti come violenti, impulsivi e tendenti ad azioni criminose; Hook (1973), tuttavia, è
dell'opinione a questo proposito che l'aspetto più importante non sia l'aumento della aggressività quanto un
aumento della impulsività. I fattori genetici sembrano particolarmente importanti nel Disturbo del deficit
dell'attenzione (danno minimo cerebrale); la sintomatologia è caratterizzata da iperattività, impulsività,
associate ad un comportamento aggressivo (Elliot, 1982). I fattori genetici sembrano importanti anche in
alcune sindromi psichiatriche dove condotte violente ed asociali sono l'aspetto prevalente, come nel
Discontrollo episodico degli Impulsi e nel Disturbo di Personalità Antisociale (Elliot, 1990). In questo ultimo
caso tuttavia i risultati non sono univoci e numerosi ricercatori a proposito della Personalità Antisociale
evidenziano una interazione tra fattori biologici ed ambientali (Schulsinger e Coll., 1977; Reid, 1978).
b) Le strutture anatomiche
Il notevole progresso nella conoscenza neuroanatomica alla base del comportamento aggressivo ha risentito
degli studi di fisiologia sperimentale sugli animali (Moruzzi, 1975) e dei risultati delle osservazioni dirette ed
indirette scaturite dalla lesione chirurgica, o dalla stimolazione elettrica di alcune aree cerebrali di pazienti
con gravi patologie resistenti a qualsiasi altro tipo di intervento. I sistemi neuronali implicati sono molteplici
e situati principalmente nel sistema limbico e nel tronco dell'encefalo; particolare rilevanza assumono i
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sistemi localizzati nella corteccia orbito-frontale, nell'area settale adiacente alla regione mediale dei lobi
frontali, nell'ippocampo, nell'amigdala, nel nucleo caudato, nel talamo, nei nuclei ventromediali e posteriori
dell'ipotalamo, nel tegmento mesencefalico, nel ponte, nei nuclei del fastigio e nel lobo anteriore del
cervelletto; queste strutture sono tra loro connesse e risentono della azione modulatrici della neocorteccia
prefrontale (Fuster, 1980; Volavka V., 1995) . Studi su animali, ed in particolare sulle scimmie, hanno
evidenziato come l'amigdalectomia riduca la risposta a stimoli minacciosi (Kapp e Coll., 1992) e d'altra parte
numerose prove cliniche hanno confermato l'importanza dell'Amigdala come centro interessato nella
mediazione dell'ansia e della paura, sentimenti che sono alla base dei comportamenti di attacco e fuga sia
negli animali che dei comportamenti aggressivi dell'uomo; l'amigdalectomia bilaterale ad esempio ha
ottenuto nell'85% dei casi trattati in uno studio la drastica riduzione di comportamenti violenti (Narabayashi
e Coll., 1963) ed è stata proposta per il trattamento di gravi disturbi ossessivo compulsivi e della epilessia
(Le Bean, 1952). In altri casi la presenza di lesioni dei nuclei amigdaloidei era associata a comportamenti
violenti (Tonkonogy, 1991). Come tuttavia precisa Benedetti (1969): "il fatto che l'amigdala, le fibre
amigdalo-ipotalamiche e la regione laterale ipotalamica mostrano tutte, se pure in grado diverso, una
importanza cruciale nei riguardi di questo comportamento (aggressivo) ci mostra come esso sia legato alla
integrità di un circuito più che di un vero e proprio centro nel senso classico della parola. Esiste in complesso
una regione che inizia nel telencefalo, continua nel sistema limbico attraversa tutto l'ipotalamo e finisce nel
mesencefalo, dalla cui eccitazione risulta un comportamento aggressivo e di lotta. L'ipotalamo è connesso
direttamente e/o indirettamente alle manifestazioni fisico-vegetative delle emozioni ed è quindi capace di
modulare gli stati fisiologici associati alla paura, rabbia, fame, sete, sesso, piacere; le alterazioni
comportamentali associate con la funzione ipotalamica sono connesse con le espressioni di rabbia ed
aggressività e paura in risposta alle situazioni di stress, di pericolo, o di difesa.
Gli ormoni sessuali
Gli ormoni più frequentemente studiati come modulatori dei comportamenti aggressivi nell'uomo sono quelli
sessuali e steroidei in genere; il rapporto tra ormoni ed aggressività tuttavia è complesso e non
completamente chiarito e continua a tutt'oggi ad essere argomento di dibattiti scientifici (Wilson e
Herrnstein, 1985). La ricerca neuroendocrinologica ha enfatizzato il ruolo del testosterone e degli androgeni,
per spiegare la maggiore aggressività nell'uomo, mentre l'estradiolo con attività inibitoria era considerato alla
base della maggiore "mitezza" del sesso femminile; d'altra parte i dati in questa direzione sembrano
prevalere. Anche nella specie umana la somministrazione di testosterone comporta un aumento di
aggressività in entrambi i sessi e la castrazione nel sesso maschile è seguita da una riduzione della spinta
aggressiva; è stato inoltre visto che nelle donne "violente" spesso il tasso ematico di testosterone è in media
più elevato che nelle donne "non violente" (Ehlers e Coll., 1979). Numerosi atti violenti sono stati descritti
nelle donne durante la settimana premestruale quando sono più bassi i livelli di progesterone e di estrogeni
(Dalton, 1964; Valzelli, 1981). Attualmente viene riconosciuto il Disturbo Disforico Premestruale (APA,
1994) nel quale si evidenziano una marcata labilità affettiva con sentimenti di rabbia ed ostilità, oltre alla
sintomatologia neurovegetativa associata. Tali ormoni risentono anche dell'interazione con altri ormoni quali
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adrenalina e noradrenalina; il problema rimane pertanto controverso (Money e Coll., 1972; Van de Poll e
Coll., 1981). Dobbiamo evidenziare come l'abuso di steroidi anabolizzanti, che avviene talvolta nel mondo
dello sport, sia implicato nel manifestarsi di condotte aggressive.
I Neurotrasmettitori
I neurotrasmettitori sono sostanze chimiche che permettono il passaggio dell'informazione da neurone a
neurone attraverso la fessura sinaptica, e costituiscono la base della funzionalità cerebrale strettamente
collegata ai molteplici fenomeni biochimici, psicopatologici e comportamentali dell'individuo; il loro ruolo
nei comportamenti aggressivi umani è oggetto di studio da diversi anni. Studi sugli animali hanno
evidenziato come l'aggressività venga favorita da neurotrasmettitori quali la acetilcolina, la dopamina e la
noradrenalina mentre una azione inibente viene svolta dalla serotonina e dal GABA (Elliot, 1990); tra questi
tuttavia un ruolo particolare spetta alla noradrenalina (che svolge un'azione favorente i comportamenti
aggressivi) ed alla serotonina (azione inibente) (Brown e Coll., 1979). Un riscontro di queste osservazioni
nasce a livello clinico quando constatiamo, ad esempio, l'azione antiaggressiva di composti quali i sali di litio
che sembra essere determinata dalla attività antinoradrenergica dei sali stessi e dall'altra all'azione bloccante
il reupte della serotonina. I continui progressi in campo biochimico e neurofisiologico consentiti da sempre
più perfezionate tecniche radioimmunologiche ed immunoistochimiche hanno inoltre valorizzato il ruolo dei
neuropeptidi (colecistochinina, CCK ) e degli oppioidi.
Acetilcolina: il sistema colinergico è ubiquitario nel SNC e di conseguenza questo neurotrasmettitore
influenza numerose risposte fisiologiche e comportamentali. Gli effetti comportamentali dell'acetilcolina
(Ach), pur avendo attività eccitatoria sui sistemi neuronali, sono improntati ad una aumento della inibizione
motoria; inoltre alcuni composti ad azione anticolinergica sembrano avere un effetto antiaggressivo, pur
mancando dati certi sul loro meccanismo d'azione.
GABA: nei mammiferi il GABA è presente in notevoli quantità nel SNC mentre è scarsamente rappresentato
nel Sistema Nervoso Periferico; le attuali conoscenze evidenziano tuttavia un sistema complesso costituito da
numerosi sottotipi di recettori per il GABA con diversi significati fisiologici e biochimici; l'impiego delle
bendoziazepine nel ridurre i comportamenti aggressivi dei pazienti ha una notevole efficacia, si è quindi
ipotizzato che una stimolazione degli effetti gaba-ergici possa influire, riducendola, sull'aggressività (Brown
e Coll., 1991; Lion, 1979).
Dopamina: numerosi studi sono stati fatti sui sottotipi dei recettori D2; in studi sperimentali su animali è
stato visto come agonisti dopaminergici centrali aumentavano l'aggressività e come la somministrazione
intraventricolare di dopamina, modificando la percezione del dolore aumentava il comportamento aggressivo
(Senault, 1970; Geyger e Coll., 1974).
Nell'uomo i farmaci antipsicotici e dopamino-antagonisti sono stati
da tempo impiegati nel controllo della aggressività e con buoni risultati; fra questi citiamo le fenotiazine
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(Casey e Coll., 1960), i butirrofenoni (Feldman e Coll., 1969) e la pimozide (Bobon e Coll., 1970) (Vedi
Cap. IX).
Noradrenalina: Il blocco beta adrenergico con farmaci quali il propranololo (Yudofsky e Coll., 1981)
attenuano l'aggressività in bambini con menomazioni fisiche ma anche in adulti con accessi di rabbia come
negli schizofrenici (Sandler e Coll., 1978)
Serotonina (5-HT): i recenti progressi in campo della ricerca sia su modelli animali che su osservazioni
cliniche sull'uomo, hanno contribuito, oltre a portare nuovi dati alla implicazione del sistema serotoninergico
nelle condotte aggressive, a valorizzare studi effettuati nei primi anni sessanta. Yen e collaboratori, ad
esempio, già nel 1962 avevano dimostrato come la 5-HT provochi nel topo una riduzione della aggressività e
sempre in studi su animali si è visto come il quadro iposerotoninergico sia caratterizzato da ipereccitabilità
ed estrema irritabilità dell'animale (Valzelli, 1981). Nell'uomo il sistema serotononergico è coinvolto sia
nelle condotte eteroaggressive che in quelle autoaggressive; allo stato attuale delle conoscenze l'ipotesi
maggiormente condivisa è la presenza di una ipofunzionalità serotoninergica alla base delle alterazioni non
solo del tono dell'umore, ma anche di alterazioni del controllo degli impulsi e della aggressività sia in
direzione autolesiva che eterolesiva (Banki e Coll., 1991; Nardini e Coll., 1992).
2-3 Modelli interpretativi del comportamento aggressivo
A-La Teoria Evoluzionistica
È soprattutto con gli studi di C. Darwin (1809-1882) che il pensiero evoluzionistico ha cercato di dare una
spiegazione ai comportamenti aggressivi presenti nelle varie specie animali; con questo scienziato infatti, il
trasformismo biologico presente in altri studiosi dell'epoca, assume i caratteri di una teoria sistematica
scientifica, solo parzialmente presente in Lamarck, in Lyell ed in altri studiosi contemporanei. Il più
importante contributo scientifico del grande biologo è considerato: "L'Origine della Specie" (1859) che ha
influenzato i successivi studiosi; a questa opera basilare ne sono seguite altre come: "L'origine dell'uomo"
(1871) e "L'espressione delle emozioni nell'uomo e negli animali" (1872). Alla base della teoria
evoluzionistica di Darwin sono presenti due concetti essenziali: il primo che riconosce l'importanza di
piccole, continue e vantaggiose variazioni organiche che si verificano negli esseri viventi sotto l'influenza
dell'ambiente ed il secondo che vede nella lotta per la sopravvivenza la tendenza di ogni specie a
moltiplicarsi. Più specificatamente, a proposito delle manifestazioni di aggressività nell'uomo, possiamo
schematizzare il pensiero di Darwin in alcuni assunti fondamentali: a) il genere umano possiede istinti brutali
ed egoistici necessari alla propria sopravvivenza; b) il "gruppo sociale" nasce con lo scopo di protezione sia
dei singoli che, successivamente, dei gruppi; c) la selezione naturale inizia più tardi nel favorire i sentimenti
altruistici che rendono gli uomini adatti a costruire la società. Per Darwin l'egoismo umano è l'eredità di
impulsi animaleschi "anacronistici" che sono in conflitto con la vita sociale contemporanea.
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B- Teorie Psicoanalitiche
Grande importanza, nelle teorie psicoanalitiche, viene data al ruolo della aggressività nel normale sviluppo
psichico dell'individuo oltre che in determinati "stati psicopatologici". La problematica di fondo tuttavia
rimane quella di stabilire se l'aggressività sia un istinto necessario ed immodificabile al centro delle
esperienze emotive o, contrariamente, una reazione con eterogenei significati, ora adattivi ora difensivi, ma
senza un vero e proprio significato "dinamico". A questo riguardo la metodologia di studio psicoanalitica ha
valorizzato in modo particolare il rapporto tra aggressività ed istinto di morte, pur con aspetti e posizioni
diversificate tra i vari studiosi. La nozione di pulsione aggressiva viene descritta per la prima volta in
psicoanalisi da A. Adler (1908) che parla espressamente di pulsione primaria ed innata; questa costituisce il
punto di partenza della teoria per la quale il comportamento di un uomo scaturisce dalla "protesta" aggressiva
nei confronti dei sentimenti di inferiorità; solo più tardi S. Freud (1856-1939) parlerà di istinto aggressivo e
di istinto di morte. La concezione di questo studioso sulla "mente umana" è complessa soprattutto per la
continua evoluzione delle idee sulle questioni più importanti; la mente umana viene vista come una
stratificazione di livelli strutturali e funzionali: energie primitive del passato riaffiorano nella mente e
generano desideri e bisogni; sarà il conflitto tra queste due "realtà" a generare scompensi psicopatologici alla
base delle "nevrosi". Nella trattazione di questi argomenti l'Autore non ignora gli studi di Darwin e spesso
l'influenza di quest'ultimo è evidente nella costruzione teorica dello psicoanalista: il fenomeno della
aggressività viene spiegato in un primo tempo derivandolo dal conflitto tra le pulsioni sessuali o libidiche e
le pulsioni dell'Io; le prime deputate alla soddisfazione dei desideri, le seconde alla autoaffermazione
dell'individuo. Successivamente Freud ha rivisto le proprie teorie e da una concezione dualistica della libido
si passa ad una libido unica narcisistica descritta nel 1914 in: "Introduzione al narcisismo"; in seguito,
attraverso varie fasi di revisione delle proprie teorie, l'Autore concepisce un istinto di morte che si
contrappone alla pulsione di vita ed in "Al di là del principio del piacere" (1920), Freud inizia a teorizzare
una pulsione "elementare" anteriore allo stesso principio del piacere; nel 1923 con "l'Io e l'Es" l'aggressività
viene più precisamente ricondotta alla "pulsione di morte" e non più alle conflittualità tra eterogenee istanze
psichiche. Il concetto di "pulsione di morte", tuttavia, possiamo già trovarlo nel pensiero di illustri
personaggi della cultura romantica come ad esempio in Von Schubert (1820) il quale aveva descritto il
"desiderio di amore" come strettamente collegato con quello "di morte" ed in Metchnikoff (1905) che aveva
parlato del "desiderio di morire" come un sentimento naturale. Altri psicoanalisti hanno affrontato questo
aspetto della vita umana tra i quali P. Federn (1932) e M. Klein (1938). Per quest'ultima studiosa
l'aggressività è componente precoce della relazione che il bambino ha con il seno materno anche se questa si
esprime con l'atto di succhiare e non di mordere; intorno ai 2-4 anni (stadio sadico - anale) le reazioni di
ostilità sarebbero più evidenti coinvolgendo l'attività del controllo degli escrementi; l'IO infantile quindi
sarebbe sottoposto al conflitto tra "istinto di vita" ed "istinto di morte" e, dopo un processo di scissione, viene
proiettata all'esterno la parte di sé cattiva (posizione schizo-paranoide); la componente dell'istinto di morte
che non viene proiettata si converte quindi in aggressività contro i persecutori "esterni"; il timore che questa
aggressività possa distruggere l'oggetto buono determina l'origine della posizione depressiva del soggetto.
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Tra gli studiosi di questa formazione, non mancano, tuttavia, posizioni critiche nei confronti dell'istinto di
morte: R. Fletcher (1957), ad esempio, nega l'esistenza di un istinto di morte, considerato non verificabile
dalle sperimentazioni, R. Waelder (1960) pur accettando il concetto di "pulsione aggressiva" non accetta
quella di "morte" e O. Fenichel è dell'opinione che l'aggressività non rappresenti un istinto originario.
Secondo H. Hartmann (1939) l'aggressività va intesa come una pulsione endogena e spontanea ma separata
dall'istinto di morte.
Critica nei confronti delle teorie freudiane è anche la posizione di E. Fromm (1900-
1980), il quale sembra non accettare la posizione estremamente "statica e semplicistica" di una
contrapposizione tra individuo con i propri desideri e bisogni e la società con le esigenze di repressione e
sublimazione; l'Autore ha dedicato molte opere al tema della aggressività ed in "Anatomia della distruttività
umana" (1973) fa una netta distinzione tra "pulsioni organiche-biologiche" comuni all'uomo ed agli animali e
"pulsioni del carattere" di natura culturale proprie dell'uomo; da questa deriva una differenziazione tra
aggressività positiva ed aggressività negativa, quest'ultima non avrebbe scopo adattativo ma sarebbe
espressione di crudeltà fine a se stessa. Pur accettando l'idea di Lorenz, per il quale l'istinto guida sia
nell'uomo che nell'animale è l'aggressione, distingue un'aggressione "benigna" ed una "maligna" dove la
prima è un adattamento alle necessità biologiche e quindi al servizio della vita, mentre la seconda non serve
all'adattamento, non è prodotto della evoluzione biologica ed è esclusiva dell'uomo.
C- Il modello etologico
Nell'animale l'aggressione è presente specialmente nel combattimento per il cibo, per la messa in fuga
dell'avversario, e per la competizione sessuale; mentre sembra priva del carattere di "ostilità" presente
nell'uomo: l'animale carnivoro si nutre della carne di altri animali, dopo averli uccisi, così come un erbivoro
si nutre di erba. Sembrano esistere tuttavia anche nell'animale dei comportamenti aggressivi che non hanno il
significato di un combattimento con la ricerca dell'esito mortale: ad esempio alcune specie mettono in atto
comportamenti intimidatori con significato aggressivo (il toro che gratta il terreno prima di attaccare).
Nell'animale le funzioni riproduttrici sono riservate al più forte per la continuazione della specie e la difesa
del territorio ha il significato di evitare un affollamento con la possibile conseguente mancanza di cibo. Il
modello etologico riconosce come opera essenziale quella di K. Lorenz (1903-1989), uno dei fondatori
dell'etologia e premio Nobel nel 1973. L'Autore, studiando le abitudini comportamentali degli animali ha nel
tempo elaborato una teoria (per alcuni studiosi "ambiziosa") estesa al genere umano. Lorenz, distingueva
componenti innate e componenti apprese; come la selezione naturale aveva determinato caratteristiche
fisiche per la sopravvivenza così pure si erano strutturate caratteristiche psicologico - comportamentali.
Come Freud anche Lorenz per spiegare l'aggressività recupera il concetto di istinto ma mentre in Freud
l'aggressività è il conflitto tra pulsione di vita e pulsione di morte, in Lorenz l'aggressività è considerata
"istinto primario" che negli animali ha solo il valore di sopravvivenza. L'analisi di Lorenz rimandava alla
idea romantica di Rousseau della "bestia" dentro di noi e l'aggressività doveva trovare dei "buoni" canali per
scaricarsi (Lorenz, 1976). L'approccio etologico alla aggressività tuttavia non si identifica solo con la visione
di Lorenz, altri etologi come Tinberg (1953) e Van Lawich, ad esempio, valorizzano maggiormente
l'ambiente; l'aggressività non è solo "endogena" ma anche reazione a stimoli ambientali.
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D- Il modello comportamentista
Nel modello comportamentista l'aggressività assume altre connotazioni; questa non è più considerata una
caratteristica innata, bensì una reazione alla frustrazione e contemporaneamente la sua inibizione dipende
dalla punizione attesa; il rapporto aggressività/frustrazione tuttavia, non sembra così rigidamente univoco;
per Rosenzweig (1941) ad esempio l'aggressività non è altro che una delle possibili reazioni alla frustrazione,
così come per Berkowitz (1962) e Buss (1961) che si ispirano alla scuola di Yale. In contrapposizione alla
scuola di Yale, Bandura (1973) sostiene che l'aggressività è un comportamento appreso per imitazione di
modelli sociali; l'Aggressività quindi non nasce necessariamente da una reazione alle frustrazioni, ma deve
esserci un terreno favorente rappresentato dall'apprendimento sociale. Buss e Durkee (1957) nei loro studi
evidenziano alcuni tipi di aggressività:
a) diretta: consiste nel mettere in atto azioni volte a far del male senza un controllo sui propri impulsi; il
soggetto ammette che con facilità perde la calma e che nel risolvere i problemi ricorre spesso alla forza
fisica;
b) indiretta: in questi casi l'individuo tende a denigrare e scarica l'aggressività con modalità indirette;
c) irritabilità: caratterizzata da una frequente insoddisfazione ed intolleranza, anche se il soggetto ha la
capacità di controllare i propri sentimenti ostili e violenti;
d) negativismo: consiste nell'atteggiamento del soggetto a rifiutare o a fare il contrario di quello che gli si
chiede;
e) risentimento: il soggetto manifesta la propria convinzione di non essere trattato come gli altri, non merita
quello che accade ed è presente una notevole quota di pessimismo;
f) sospettosità: coincide con l'idea di essere imbrogliati, denigrati, detestati; il soggetto diffida sempre degli
estranei perchè gli altri sono sempre pronti a deridere ed a provocare;
g) verbale: si manifesta con un atteggiamento di continua disapprovazione, con l'impiego di cattive parole ed
offese, il soggetto alza subito la voce e si lascia facilmente andare a minacce;
h) colpa: caratterizza persone con elevato senso della morale; solitamente rigide non si permettono errori e si
rattristano se non raggiungono un determinato scopo; la colpa può arrivare alla preoccupazione di non aver
vissuto con rettitudine, fino al chiedersi se potrà essere ottenuto il perdono dagli altri.
E- Il modello sociologico
Si osservano ed enfatizzano le dinamiche relazionali tra individuo e gruppo, tra gruppo e gruppo. Il problema
"essenziale" rimane tuttavia, quello affrontato dagli altri tipi di approccio, vale a dire "quanto di innato" e
"quanto di reattivo e/o acquisito" possiamo riconoscere nel comportamento aggressivo dell'uomo. Se da una
parte, ad esempio, le teorie psicodinamiche hanno privilegiato il primo aspetto, sociologi e filosofi hanno
messo l'accento sulle componenti sociali quali fattori determinanti i comportamenti violenti. Nel modello
sociologico si è propensi a spiegare l'aumento dei tassi di violenza con la crisi di valori "coesivi" quali quelli
della famiglia, quelli etici e religiosi. La caduta di modelli esistenziali ai quali ispirarsi, il rapido
cambiamento dei modi di pensare e di vivere comporta una precarietà anche dei parametri di misura e
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riferimento tanto che "quello che è valido oggi potrebbe non esserlo domani" e quindi non conviene riferirsi
esclusivamente ad uno schema, sia questo buono o cattivo. I sempre più veloci mutamenti economici e
politici incidono sul continuo divenire della struttura della società; la competitività e la ricchezza, assunte a
valore positivo e di gratificazione esistenziale, la disponibilità di armi e droghe, completano il quadro come
fattori di rischio per le numerose azioni violente e di sopraffazione. D'altra parte non possono essere
sottovalutate le condizioni di sopportazione del singolo che può trovarsi ad agire in situazioni estreme per
difesa della propria dignità e sicurezza vitale. In E. Durkheim (1858-1917) qualsiasi azione e comportamento
dell'individuo sono determinati dalla società; lo studioso sostiene che "ogni società ha (...) ad ogni momento
della sua storia una caratteristica attitudine al suicidio", e che "il tasso sociale dei suicidi si spiega solo
sociologicamente. È la costituzione della società a fissare ad ogni istante il contingente delle morti
volontarie". Le opere di Durkheim nelle quali troviamo questa "estrema" posizione della sociologia possono
essere considerate: "Le regole del metodo sociologico" (1895) ma soprattutto "Il suicidio", dove l'Autore
sviluppa la propria idea sul determinismo della società anche riguardo ad un comportamento quale il suicidio
che "sembrerebbe" il più "intimo e personale"; sia il suicidio altruistico, sia quello egoistico sia il suicidio
anomico riconoscono quindi, per questo Autore, cause sociali.
In H. Marcuse (1898-1979) ritroviamo un
tentativo di sintesi tra marxismo e freudismo. "Eros e Civiltà" è l'opera probabilmente più conosciuta; in
questa ritroviamo la convinzione, mutuata da Freud, che la civiltà nasce solo in virtù della repressione degli
istinti individuali, improntati alla ricerca del piacere. A differenza di Freud, tuttavia, Marcuse riteneva che
non "la civilta'" in quanto tale è repressiva ma un tipo di civiltà, quella strutturata cioè con le leggi di classe;
in una società capitalistica il principio di realtà coincide con il principio di prestazione dove la produttività
rappresenta il vero valore e l'esigenza di un profitto determina alla fine alienazione; "... l'istinto di morte è
distruttività non fine a se stessa, ma presente solo per liberare da una tensione. La discesa verso la morte è
una fuga incoscia dal dolore e dal bisogno. È espressione della lotta eterna contro la sofferenza e la
repressione" (Eros e Civiltà, 1977). È facilmente intuibile quindi il significato ed il ruolo che viene dato al
fenomeno della aggressività, ora spinta liberatrice del singolo ora forza rivoluzionaria di una società.
2-4 SUICIDIO
Ecco i diversi modelli interpretativi sul suicidio:
1) Il modello biologico (ridotta funzione serotoninergica e/o noradrenergica; presenza di familiarità per il
Suicidio, per alcoolismo e/o per Disturbo Bipolare).
2) Il modello psicologico-psicodinamico (impulsività, dipendenza, aspettative non realistiche, vuoto
esistenziale).
3) Il modello sociale (Suicidio egoistico, altruistico ed anomico).
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4) Il modello basato sulla dinamica familiare-relazionale.
Per Freud gli aspetti dinamici che sottostanno al comportamento suicidario sono quelli di un atteggiamento
ambivalente nei confronti dell'oggetto amato: esiste cioè un'identificazione amore-odio nei confronti
dell'oggetto, dove la perdita vissuta come insopportabile determina la introiezione dell'oggetto ed il
conseguente atteggiamento di aggressione; sarebbe altrimenti inconcepibile il fatto che l'Io possa consentire
la propria autodistruzione. L'Io può uccidersi solo se è in grado di trattarsi come un oggetto (introiettato), se
è in grado di rivolgere contro se stesso l'ostilità riferita ad un oggetto che rappresenta la reazione originale
dell'Io ad un oggetto esterno. Successivamente Freud elaborò ulteriori interpretazioni del Suicidio e della
malattia depressiva, tra loro altamente correlati, ricorrendo ad una istintualizzazione del Super Io che,
investito direttamente dalle cariche sadiche, aggressive dell'Es, attacca distruttivamente l'Io, incapace di
fronteggiarlo. Per la Klein il Suicidio risulta essere un fenomeno che si inscrive in un'economia psichica in
cui gli elementi in gioco sono numerosi ed il suo significato assume connotazioni non solamente distruttive,
ma anche riparative: la distruzione di una parte del sé, e cioè di un "oggetto parziale", significa la
restaurazione di altri oggetti parziali. Il suicida cioè rifiuta la propria vita al fine di "vivere come si deve", di
restaurare la propria immagine ideale. In un simposio del 1910 tenutosi a Vienna sul suicidio Adler
evidenzia l'importanza del complesso di inferiorità del soggetto oltre alla presenza di sentimenti di ostilità e
vendetta ed in quella occasione anche Steckel valorizza il complesso di colpa. Per molti studiosi i Tentati
Suicidi (parasuicidi) hanno, a livello di interpretazione psicodinamica, un significato completamente diverso
dal Suicidio e dal mancato Suicidio: se il Suicidio infatti è un gesto sostenuto da una motivazione
consapevole di morte, il Tentato Suicidio è uno strumento di richiesta di aiuto, e la morte è un risultato non
voluto; contemporaneamente se il Suicidio è un gesto definitivo contro se stessi, il Tentato Suicidio è un
gesto contro gli altri. Qualunque posizione sostengano i vari studiosi la condotta autoaggressiva rappresenta
un fenomeno "drammatico", dove motivazioni consce ed inconsce si intrecciano, dove costante è la non
tolleranza di una situazione "attuale" e dove è sempre presente il sentimento di un vuoto esistenziale (Fizzotti
& Gismondi, 1991). Sul piano individuale il suicidio appare in contrasto con le più elementari leggi della
natura e quale che siano le circostanze (suicidio rituale, di protesta o malattia) il suicidio non appare mai
come una scelta positiva riflettendo una impossibilità ad adattarsi agli eventi ed a cambiare.
b) La valutazione del rischio e la predizione dei comportamenti autolesivi
La multicausalità del fenomeno suicidario è la prima difficoltà che gli studiosi incontrano nella ricerca di
predittori dei comportamenti autolesivi, difficoltà questa che si associa a quella evidenziata a livello
metodologico da Kreitman (1982) che prevede il dover considerare da parte degli studiosi, gruppi a rischio:
mentre infatti nella identificazione di "gruppi" si sono dimostrati validi i fattori di rischio, questi risultano
meno determinanti nella prevenzione della condotta suicidaria del singolo. A complicare la ricerca è la
constatazione che gran parte delle informazioni sul suicidio è indipendente dal trattamento al quale è
sottoposto il soggetto ed infine gli stessi "predictors" validi a breve termine possono modificarsi nel tempo e
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non essere più validi a lungo termine. Sono stati chiamati in causa dagli studiosi: fattori ereditari, disturbi di
personalità, disturbi psichiatrici, fattori psicosociali ed ambientali con un peso etiopatogenetico differenziato.
Familiarità: nell'affrontare il problema della familiarità si è visto che studi sui gemelli e su figli adottivi
hanno dimostrato un certo grado di ereditarietà per le condotte suicidarie; inoltre coloro che presentano una
storia familiare di alcolismo o di Disturbo Bipolare sono considerati soggetti ad alto rischio di Suicidio.
Ruolo dei fattori personologici e psicopatologici: nell'ambito dei disturbi di personalità le condotte autolesive
sono riconosciute essere più frequenti nei soggetti con tratti di impulsività e con scarsa tendenza
all'autocontrollo; è presente spesso uno stile di vita immaturo ed instabile, caratterizzato per altro da relazioni
affettive precarie e contrastate. In alcuni individui prevale la ricerca del rischio, persone cioè che
manifestano comportamenti di ribellione a ciò che la vita sociale tende ad impedire o moderare.
Atteggiamenti autolesivi sono frequenti anche nei soggetti con tratti di personalità compulsivi: questi
presentano un'organizzazione del pensiero "rigida", incapace di affrontare o di adeguarsi a situazioni nuove
e/o incerte ed ancora in personalità istrioniche dove l'atto autolesivo assume spesso caratteristiche di
teatralità, di rivalsa, di vittimismo, o di "ricatto morale" nei confronti delle persone più vicine. Tra i Disturbi
di Personalità il disturbo borderline presenta la più alta frequenza di comportamenti suicidari; viene riportato
come dal 75% all'81% dei soggetti borderline compia un tentativo autolesivo e come tra l'8% ed il 10%
sembra portarlo a termine (Fyer e Coll., 1988; Gunderson, 1984). Sono soggetti che presentano instabilità
dell'umore, sentimenti di depressione e di irritabilità, instabilità delle relazioni, vissuti di rabbia immotivata,
sentimenti di vuoto che possono spingere sia a comportamenti etero che autodistruttivi. Alla base di questi
comportamenti troviamo un alterato controllo sia dell'affettività che degli impulsi; quest'ultimo aspetto, oggi
maggiormente considerato dalla ricerca biologica, sembra attribuirsi ad un'alterazione di un sistema
neurotrasmettitoriale quale quello serotoninergico in prima implicazione, oltre a quelli oppioide e
dopaminergico. Nell'ambito della patologia psichiatrica il fattore di rischio più importante è la malattia
depressiva (50% dei suicidi). Il depresso si presenta senza speranza (hopelessness), senza la possibilità di
infuturarsi, senza fiducia negli altri; è convinto di non poter uscire dall'angoscia, dalla tristezza, fino a
pensare che la sua sofferenza sia meritata e che la morte è la giusta espiazione dei propri peccati. Sono
numerosi gli studi che hanno cercato di individuare l'esistenza di caratteristiche peculiari delle forme
depressive che portano al Suicidio, ed è opinione di alcuni studiosi che nella depressione con grave
rallentamento psicomotorio vi sia un rischio minore rispetto alla fase di miglioramento, nella quale
atteggiamenti autolesivi appaiono di più frequente riscontro. Rispetto alle categorie diagnostiche, molti studi
indicano i Disturbi Bipolari come quelli più frequentemente associati ai tentativi di suicidio; altre casistiche
tuttavia indicano un'elevata frequenza di gesti autolesivi anche nei disturbi depressivi di tipo ricorrente
(Miniati M. e Coll., 1996).
Nel paziente affetto da schizofrenia l'atto suicidario assume più che in altre patologie, le caratteristiche di
irrazionalità ed imprevedibilità assumendo aspetti difficilmente prevedibili rispetto al decorso ed alla
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evoluzione del quadro clinico. Nelle fasi iniziali della malattia il T.S. può rappresentare la difesa contro
l'angoscia della "disintegrazione"della personalità, come pure un "acting-out ", un impulso autolesivo "senza
motivazioni", irrazionale ed incontrollabile. Il gesto autolesivo può essere l'esecuzione di un comando
allucinatorio o il tentativo di sfuggirvi. È possibile che il paziente non desideri recare danno a se stesso, anzi
spesso cerca di migliorare la propria condizione tentando di distruggere ciò che abita in lui, rendendogli la
vita intollerabile. Con il perdurare della malattia il Tentato Suicidio sembra correlato con motivazioni
psicopatologiche quali il deterioramento delle relazioni oggettuali, la chiusura autistica e l'apatia. Il suicidio è
una delle cause più frequenti di morte nel soggetto etilista cronico, oltre alla cirrosi ed agli incidenti stradali
(Solomon, 1982; Davies, 1986). Il soggetto etilista attua gesti autolesivi per l'incapacità di tollerare le
frustrazioni che si presentano quotidianamente nella vita sociale e nelle relazioni affettive (la perdita del
lavoro, la separazione dal coniuge, ecc.). A questo proposito viene evidenziato come in molti paesi
occidentali l'abuso alcoolico è drasticamente aumentato nel periodo tra il 197O ed il 1979 e la correlazione
tra il cambiamento in percentuale dei tassi di suicidio e nel consumo di alcool sta ad indicare una stretta
relazione tra i due fenomeni (Diekstra, 1985); infine da notare che l'incidenza del suicidio tra coloro che
abusano di alcool è alta negli adolescenti, di sesso maschile e in presenza spesso di una comorbidità
psichiatrica o di abuso di sostanze stupefacenti. L'assunzione di alcool è spesso collegata non solo a
comportamenti autolesivi a anche a condotte violente eterodirette.
Depressione ed Aggressività nella letteratura psicoanalitica.(Volterra e Coll., 1993).
- Freud: incorporazione dell'oggetto ambivalente amato; l'ombra dell'oggetto ricade sull'Io.
- Abraham: l'Io assume su di sé l'ostilità che spetta all'oggetto per sottrarsi alla ambivalenza.
- Fenichel: il depresso tende ad una unione mistica con l'oggetto onnipotente, cui l'ambivalenza
dà un senso aggressivo.
- Rado: trasformazione dell'affetto in tirannide verso l'oggetto amato.
- Federn: prevalenza della pulsione di morte nella psicosi maniaco-depressiva.
- Sandler & Joffe: aggressività verso la fonte di sofferenza.
- Nacht & Racamier: identificazione aggressiva con l'oggetto.
- Haynal: aggressività provocata dalla mancata accettazione
- Benedetti: rivolgimento all'interno della aggressività non più convogliata all'esterno.
- Scuola Kleiniana: persistenza delle valenze paranoidi (odio ed aggressività) nelle depressioni gravi.
- Jacobson: spostamento della aggressività degli oggetti al Sé.
- Arieti & Bemporad: aggressività espressa come difesa dalla depressione.
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c) La valutazione del paziente suicida
Il rapporto psichiatra-paziente riveste il ruolo più importante di tutta l'attività preventiva; è nello svolgersi di
un rapporto "di fiducia" che possiamo capire l'atteggiamento di chiusura da parte del soggetto che spesso
rifiuta per vergogna o per altre motivazioni di comunicare il gesto; l'esternazione della intenzionalità
suicidaria d'altra parte dipende dalla condizione psicopatologica del soggetto, dalla convinzione ad esempio
che tutto sia finito e che non valga più la pena di continuare a vivere, che nessuno possa aiutarlo.
Motivazioni fornite dai suicidi (Dell’Osso e Coll.,1990)
•
Impatto devastante della malattia.
•
Effetti nel tempo di ricorrere di episodi.
•
Esperienza soggettiva intollerabile della perdita del controllo sui sentimenti e sul proprio pensiero.
•
Disforia ed aggressività sia auto che etero diretta.
•
Sentimenti di violenza, disperazione, isolamento, impossibilità a ricevere aiuto.
•
Convinzione che la condizione attuale sia stabile ed irreversibile.
•
Persistenza ed intrusività dell'idea di morte.
•
Deliri di rovina, ipocondriaci e suggestioni allucinatorie.
Ringel (1953) descriveva una Sindrome pre-suicida e conoscerla può essere di estrema utilità per un aiuto
nella "diagnosi precoce" e più precisamente per un atteggiamento preventivo; il quadro della sindrome è
caratterizzato da tre elementi fondamentali:
1) Aggressività repressa contro se stesso.
2) Fantasie suicide.
3) Einengung cioè una condizione critica e di totale mancanza di prospettive e di sbocchi, sul piano
personale e nei rapporti con gli altri. L'aiuto che si può fornire nella prevenzione del S. consiste nel cercare di
modificare positivamente gli elementi soggettivi ed oggettivi della Einengung. In alcuni casi già la semplice
disponibilità a fornire aiuto può avere un effetto terapeutico.
d) Il Suicidio nell'adolescenza
L'adolescenza è il periodo di transizione tra l'infanzia e l'età adulta, durante il quale avvengono importanti
cambiamenti sia a livello fisico che psicologico dell'individuo, dove il soggetto mette in discussione la
propria identità, il proprio ruolo e riflette sulle proprie aspettative. In questo periodo il giovane è
estremamente attento e sensibile a tutto ciò che lo circonda ed in particolare all'ambiente familiare ed alle
amicizie; è durante l'adolescenza che il soggetto confronta il proprio agire con i precedenti comportamenti o
modi di pensare ed è sempre durante questa fase della vita che si struttura il concetto di sé e si sviluppano le
attitudini verso la sessualità ed il concetto di morte. Ai frequenti sentimenti di incertezza e di insicurezza si
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associano modalità comportamentali "impulsive" e di "emergenza" che si differenziano da quelle di
"previsione" tipiche dell'adulto (Cazzullo, 1989). È tuttavia difficoltoso immaginare una volontà diretta nella
condotta autolesiva; d'altra parte è questo un fenomeno dove spesso risultano essere determinanti
meccanismi di imitazione nei confronti dell'adulto oltre che aspetti di gioco e divertimento.
2-5 ETEROAGGRESSIVITÀ E MALATTIA
a) Comportamenti aggressivi e malattie organiche (Miniati M., Bani A.)
Episodi di irritabilità e disforia, atti aggressivi e reazioni esplosive senza particolari e/o evidenti stimoli
possono verificarsi nel corso di alcune psicosindromi organiche, con una frequenza variabile tra di esse.
Ritardo Mentale
Il Ritardo Mentale è una condizione di mancato o rallentato sviluppo psichico che si associa ad una
compromissione più o meno grave delle componenti cognitive, affettive, motorie e di relazione del soggetto;
in tutte le gradazioni del ritardo mentale è presente una deficienza del controllo degli impulsi ed una labilità
emotiva, caratteristiche queste che si accompagnano spesso ad atti auto-lesivi ed etero-aggressivi. Il soggetto
affetto da ritardo mentale presenta una bassa soglia alle frustrazioni e, d'altra parte, è esposto in particolar
modo alle difficoltà e delusioni che gli provengono dal mondo esterno. Spesso l'unica modalità con la quale
queste persone riescono a dimostrare la propria protesta è quella di compiere atti aggressivi sproporzionati,
che agli occhi degli altri risultano il più delle volte inspiegabili. Il vissuto di frustrazione può portare ad una
tonalità d'umore di fondo caratterizzata da irritabilità ed oppositività, che rende il soggetto non collaborante e
reattivo ai tentativi di educazione e di socializzazione. L'adattamento sociale è sempre compromesso ed in
particolare nelle forme più gravi.
Epilessia
Le condotte aggressive sarebbero caratterizzate da impulsività, irritabilità fino a rabbia distruttiva
solitamente seguite da completa amnesia. Dobbiamo ricordare che l'aggressività esplosiva e la instabilità
dell'umore, la disforia e l'irritabilità, quando non temporalmente collegate con la crisi sono state considerate
espressione della "personalità epilettica" e che d'altra parte, più recentemente, i comportamenti aggressivi nei
periodi intercritici sono da alcuni AA considerati veri e propri sintomi dell'epilessia temporale. Le ipotesi
etiopatogenetiche chiamate in causa di volta in volta, sono state ora il danno organico sottostante al focolaio
epilettogeno, ora il coinvolgimento delle strutture amigdalo-ipotalamiche da parte della scarica epilettogena
(Elliot, 1976); ora alcune motivazioni psicologiche quali l'elevato livello di frustrazione che il soggetto
affetto da epilessia cronicamente presenta (Monroe, 1970). La prevalenza di episodi aggressivi nei pazienti
affetti da epilessia del lobo temporale varia molto a seconda della popolazione presa in esame e certamente
aumenta se prendiamo in considerazione la popolazione ricoverata. Altri studiosi evidenziano la stretta
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relazione tra epilessia e comportamento impulsivo-aggressivo, in particolare quando è interessato il lobo
temporale (Blumer e Benson, 1982).
Disendocrinie (Modificata da Rubinow & Roy-Byre, 1984).
Il fattore endocrino può essere chiamato in causa in condizioni particolari. Abbiamo già accennato alla
sindrome premestruale caratterizzata da una marcata labilità emotiva, irritabilità, ansia, tensione, perdita di
interessi e di energia, cefalea, dolori muscolari ed aumento di peso (American Psychiatric Association,
1994); in questo periodo sono stati descritti più numerosi gli atti di violenza delle donne. Altro fattore che
può essere chiamato in causa è uno stato ipoglicemico: l'ipoglicemia può causare irritabilità, confusione,
aggressività, fino a quadri amnesici o convulsivi. Ipoglicemia intermittente è stata osservata in soggetti con
insulinomi pancreatici che, prima di avere la diagnosi definitiva, hanno presentato gravi alterazioni
comportamentali (Lishman, 1978).
Demenza
È una sindrome dovuta generalmente ad una patologia cerebrale cronica, caratterizzata da alterazione globale
delle funzioni psichiche, intellettive, affettive e comportamentali, pur mantenendo integri i livelli di
coscienza; le alterazioni cognitive sono le più frequentemente compromesse e risultano tali da invalidare le
varie attività sociali e/o lavorative del paziente. Si tratta soprattutto di una patologia che colpisce il soggetto
nell'età senile pur esistendo forme che possono esordire all'età di 45 anni. La causa più comune è la Demenza
tipo Alzheimer, forma degenerativa, seguita da forme multiinfartuali (MID). Negli ultimi anni tuttavia si è
aggiunta una nuova causa di demenza: la infezione da HIV. Nella demenza sono presenti alterazioni del
pensiero astratto, del giudizio critico, delle funzioni corticali superiori ed in particolare della sfera della
memoria. In questa costellazione sintomatologica i disturbi del comportamento rivestono un aspetto
importante e frequenti sono gli episodi di irritabilità, aggressività e perdita di controllo presenti per altro sia
nella malattia di Huntington che nella demenza di tipo Alzheimer (Burns e Coll., 1990; Aarsland e Coll.,
1996).
b) Disturbi Psichici ed eteroaggressività
I comportamenti aggressivi possono far parte del corteo sintomatologico di tutti i disturbi mentali. Il paziente
può sperimentarli come un fenomeno completamente nuovo per lui ed essere lui stesso sorpreso del proprio
atteggiamento, oppure può riconoscere nelle proprie azioni aggressive una parte di sé che già in passato si
era manifestata. La personalità di base, la tolleranza alle frustrazioni il tipo di temperamento, in particolare
quello ipertimico, possono facilitare la messa in atto di un atteggiamento aggressivo, sia etero che
autodiretto, la malattia può accentuare ed aggravare il quadro.
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Schizofrenia
Comportamenti violenti, aggressivi o autodistruttivi in pazienti schizofrenici sono per lo più espressione di
una reazione ad allucinazioni uditive o visive, a deliri di nocumento, di minaccia e di persecuzione dove il
soggetto aggredito rappresenta il persecutore dal quale difendersi. Il paziente affetto da schizofrenia
paranoide, in particolare, può vivere il delirio con grande partecipazione affettiva. Taylor (1985) in uno
studio nel quale analizza gli atti violenti in pazienti schizofrenici, conclude che nell'82% dei casi era presente
uno "stato" di malattia. Gli atti violenti possono inoltre essere conseguenti ad una destrutturazione del
pensiero, ad una dissociazione grave e quindi manifestazione immotivata di un impulso agito (acting out).
Disturbi Affettivi
I comportamenti aggressivi possono essere presenti sia nella malattia depressiva, sia nella fase di
eccitamento maniacale. Nel maniacale i comportamenti violenti nascono soprattutto dalla sensazione di
onnipotenza, sicurezza di sé, dal non riconoscere né accettare limiti alla propria spavalderia, gioia,
esuberanza; ma il maniacale è anche spesso disforico ed impulsivo e non riesce a fermarsi ed a mettersi in
relazione con gli altri. La vivacità della fantasia, l'accelerazione ideica, riducono la capacità di critica e di
riflessione, le azioni sono così avventate, precipitose ed impulsive. Il comportamento violento, a livello di
interpretazione psicodinamica, è considerato conseguente ad un'ipertrofia dell'Io, al bisogno incontrollato di
autoaffermazione; l'euforia e l'energia volitiva sono così spesso alla base di reati. Può essere presente
un'ideazione delirante, sempre orientata in senso megalomanico, sproporzionata alle effettive capacità del
soggetto. Un rapido viraggio del tono dell'umore può verificarsi in qualunque momento della malattia e la
depressione, accompagnata da sentimenti di paura, di inadeguatezza, di perdita di speranza, può condurre il
paziente affetto da Disturbi dell'Umore a comportamenti disperati e ad atteggiamenti suicidari.
L'eteroaggressività del depresso ha invece altro significato e motivazione: il depresso può uccidere per
salvare il figlio dalla distruzione del mondo, può uccidere i familiari per evitare loro le atroci sofferenze che
lui stesso sta vivendo e provando, o uccidere per salvare la vittima da una rovina.
Abuso di sostanze e di alcool
Sono innumerevoli i casi riportati non solo dalla letteratura scientifica, ma anche dalla cronaca di tutti i
giorni sui mass media che evidenziano la stretta relazione tra abuso di alcool e/o di sostanze stupefacenti e
condotte aggressive sia nel soggetto che agisce ma anche nella vittima; in particolare per l'abuso alcoolico
Haberman e Baden hanno messo in evidenza in una loro casistica come il 19,4% di 546 autori di omicidio
erano stati diagnosticati "etilisti" come pure il 41,9% delle vittime. La relazione tra alcoolismo e
comportamenti aggressivi è confermata dai numerosi dati riportati nella letteratura a questo proposito (Lang
e Coll., 1975; Gerson e Coll., 1979; Haberman e Coll., 1974). L'alcool così come altre sostanze abusate
(cocaina, cannabinoidi, oppiacei, LSD, amfetamine) determina nella persona alterazioni biologiche,
psichiche e comportamentali, queste ultime spesso rappresentate da atti di aggressività e di violenza. In
alcune fasi della malattia alcoolica, quando questa determina una alterazione del pensiero (delirio di gelosia)
o di persecuzione o un'alterazione della percezione (voci minatorie, insultanti), l'atto aggressivo si giustifica
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come un tentativo di auto-difesa. Secondo alcuni autori (Vogt, 1985) possono essere identificabili due
modelli situazionali nelle condotte criminose degli etilisti: il primo modello indica la assunzione di alcool
come fattore determinante l'atteggiamento violento, mentre nel secondo assume un ruolo essenziale la
personalità già alterata. Come nell'abuso e nella dipendenza alcoolica così nell'abuso di altre sostanze
possono manifestarsi comportamenti violenti ed in particolare con "stimolanti" quali la cocaina, gli
allucinogeni e più recentemente il crack e l'ecstasy. Se d'altra parte in ogni comportamento tossicomanico
esiste un aspetto aggressivo, ancora una volta dobbiamo ricordare come la condotta tossicofilica sia
interpretata da alcuni studiosi come un "microsuicidio", proponendo nuovamente la stretta relazione tra auto
ed eteroaggressività.
Disturbi d'Ansia
In tutti i Disturbi d'Ansia possono presentarsi condotte aggressive. Una modalità infatti di risposta del
soggetto di fronte ad un pericolo (paura) è quella di opporsi ad esso con una risposta aggressiva, anche se
tuttavia possiamo avere sia una risposta con atteggiamenti di fuga oppure di "blocco psicomotorio". D'altra
parte la paura e l'aggressività possono riconoscere a livello fisiologico alcuni aspetti comuni quali l'aumento
dell'attività del sistema nervoso vegetativo preparatorio nei compoirtamenti di attacco o di fuga. A livello
neurochimico
sembrano
essere
implicati
nella
relazione
panico
ed
aggressività
vari
sistemi
neurotrasmettitoriali con una particolare evidenza del sistema serotoninergico. Tuttavia non costantemente
nei soggetti con DAP l'aggressività viene agita, mentre spesso è presente un'aggressività di tipo indiretto e/o
irritabilità (Castrogiovanni e Coll., 1990). Nel Disturbo da Attacchi di panico il soggetto può quindi
sperimentare una sintomatologia acuta con tendenza a condotte di evitamento ed ansia anticipatoria o
comportamenti aggressivi peraltro non frequenti, tuttavia alcuni AA (George e Coll., 1989) hanno descritto
attacchi di rabbia egodistonica di breve durata; inoltre nel momento della depersonalizzazione e
derealizzazione il soggetto può, per difesa, avere condotte aggressive. Nel Disturbo Ossessivo Compulsivo la
messa in atto di una condotta aggressiva è rara; il soggetto vive con angoscia l'intrusione di una idea, o di una
rappresentazione che non riesce ad allontanare ed è costretto a mettere in atto rituali per alleviare l'ansia che
alimenta la presenza dell'idea. Il passaggio all'atto non è frequente ed il soggetto "si accontenta" di un rituale
scaramantico. Secondo l'interpretazione Freudiana l'aggressività nel paziente ossessivo nasce dalla
frustrazione che il soggetto ha subito per "l'educazione sfinterica" e questa aggressività rimane alla base della
personalità sadico-anale dell'ossessivo che si esprime con ripetuti lavaggi per contrastare la sporcizia e con
ripetuti controlli per contrastare il disordine. Mentre nel paziente "ossessivo" l'atto violento può nascere dalla
voglia di liberarsi da una situazione insostenibile, spesso modificando la direzione da etero ad
autoaggressivo, perché teme di poter fare del male agli altri, il soggetto "fobico" può esternare la propria
aggressività qualora la sua fuga davanti all'oggetto temuto venga ostacolata.
Disturbo del Controllo degli Impulsi
I soggetti affetti dalla patologia in questione compiono ripetutamente atti che: "danneggiano gli interessi
personali del soggetto e quelli di altre persone" con modalità impulsive e con impossibilità di autocontrollo.
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Tali Disturbi comprendono quadri quali la Cleptomania, il Gioco d'Azzardo, la Piromania, la
Tricotillomania. L'APA (1994) raggruppa, assieme a questi sopracitati, il Disturbo Esplosivo Intermittente;
in questo disturbo i comportamenti aggressivi rivestono una importanza primaria. L'aggressività può essere
diretta sia verso le persone sia verso gli oggetti ed in seguito a questi atti non controllati, il soggetto vive
spesso un sentimento di colpa per non essere stato capace di dominarsi; l'impulsività determina quindi
difficoltà relazionali che si evidenziano nelle frequenti sospensioni dalla scuola, nella perdita del posto di
lavoro, nel divorzio, e nell'elevato rischio di incidenti e di carcerazioni. Vengono riconosciute forme ad
etiopatogenesi psicologica e mista (Bach-y-Rita e Coll., 1971). Le ipotesi psicodinamiche riconoscono
diverse posizioni: Alexander (1930) ad esempio, parla di gratificazione che deriva dal comportamento
impulsivo stesso in quanto l'IO non riuscirebbe a respingere impulsi inconsci; Fenichel (1945) parla di una
fissazione alla fase orale concomitante ad altri fattori costituzionali ed esperienze traumatiche precoci.
L'ipotesi comportamentale vede nella impulsività una modalità reattiva appresa, una risposta alla frustrazione
ed alla punizione che non passa attraverso una fase di riflessione. L'ipotesi cognitiva è basata sulla incapacità
da parte del bambino a mantenere l'attenzione per difficoltà nell'operare una discriminazione percettiva,
incapacità inoltre ad inibire una risposta impulsiva e nel mantenere una serie di incombenze (Nuechterlein e
Coll., 1989). A livello clinico-descrittivo Kretschmer (1950) distingueva tre tipi di comportamento
impulsivo: 1) iperormia (reazioni impulsive particolarmente intense e rapide), 2) anormia (reazioni deboli e
rallentate), 3) disormia (reazioni sproporzionate); suddivideva inoltre le azioni impulsive in: esplosive (che
insorgono rapidamente e rapidamente si estinguono) ed a corto circuito quando l'azione non viene
minimamente ponderata. Per Frosh (1977) i Disturbi degli impulsi possono essere suddivisi in: sintomatici e
del carattere .
Disturbi della condotta
È presente una alta comorbidità nei disturbi della condotta con disturbi della affettività e disturbi di ansia.
1- I Disturbi della condotta sono caratterizzati da una modalità ripetitiva e persistente di condotta
antisociale, aggressiva o provocatoria. Tale comportamento, quando raggiunge il suo estremo per quel
determinato individuo, deve condurre a rilevanti violazioni delle aspettative sociali in rapporto all'età, ed è
perciò più grave delle comuni birichinate infantili o ribellioni dell'adolescente. Atti antisociali o criminali
isolati non sono, di per sè, un fondamento per la diagnosi, la quale implica una modalità persistente di
comportamento.
2- I disturbi della condotta possono essere sintomatici di altre condizioni psichiatriche, nel qual caso si deve
codificare la diagnosi di base.
3- I disturbi della condotta in alcuni casi evolvono in un disturbo di personalità antisociale. Essi sono
frequentemente associati con condizioni ambientali psicosociali sfavorevoli, tra cui le relazioni familiari
insoddisfacenti e gli insuccessi scolastici. Essi sono più comunemente riscontrati nel sesso maschile. La loro
distinzione da un disturbo emozionale è ben validata; la loro separazione dalla iperattività è meno chiara e vi
è spesso una certa sovrapposizione.
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4- comportamenti a rischio sono: livelli eccessivi di violenza o spacconeria, crudeltà verso altre persone o
animali, gravi danni a proprietà, incendi, furti, persistente comportamento menzognero, assenze da scuola o
fughe da casa, accessi d'ira inusualmente frequenti e marcati, comportamento provocatorio ed insolente,
disobbedienza marcata e persistente. Una qualunque di queste manifestazioni, se marcata, è sufficiente per la
diagnosi.
5- I criteri di esclusione comprendono rare ma gravi condizioni sottostanti come la schizofrenia, la mania, le
sindromi da alterazione globale dello sviluppo psicologico, la sindrome ipercinetica, la depressione.
6-Non si raccomanda di porre questa diagnosi a meno che la durata del comportamento sopra descritto non
sia di almeno sei mesi.
Disturbi di Personalità
Cloninger recentemente ha proposto un modello bio-psico-sociale del comportamento; lo studioso tenendo
conto degli attuali sviluppi e risultati della ricerca genetica, biochimica, neurofisiologica ha messo in
relazione i vari sistemi neurotrasmettitoriali alle caratteristiche costuituzionali di base ed ha distinto: a) una
tendenza innata alla ricerca delle novità, della esplorazione (NOVELITY SEEKING) nella quale
sembrerebbe maggiormente coinvolto il sistema Dopaminergico, b) una tendenza ad evitare l'eventuale
danno (HARM AVOIDANCE.) nella quale prevarrebbe il sistema Serotoninergico e c) l'attitudine ad
ottenere sempre una ricompensa (REWARD DEPENDENCE), dove il sistema noradrenergico sarebbe
maggiormente interessato (Cloninger C.R., 1986, 1987).
Modulazione dei tre principali neurotrasmettitori
monoaminici sul comportamento-Cloninger (in Barucci M., 92)
Noradrenalina
Dopamina
Serotonina
Vigilanza
Vigilanza
Attenzione
Quiete
Sonno
Sonno REM
Veglia
Sonno profondo
Fame
Fame
Anoressia
Sazietà
Comportamento
Aggressivo
Esploratorio
Ludico
Dominanza
Interspecifica
Intraspecifica
Gregarismo
Sessualità
Inibizione sessuale
Sessualità predatoria
Sessualità parentale
Impulsi
Attivazione
Esaltazione
Modulazione
Attività
Reattività
Attività
Passività
Umore
Tono
Direzione
Soddisfazione
Attitudine
Dipendenza dalla ricompensa
Ricerca della Novità
Evitamento del danno
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I tratti di personalità possono definirsi infine come: "modi costanti di percepire, rapportarsi e pensare nei
confronti dell'ambiente e di se stessi, che si manifestano in un ampio spettro di contesti sociali e personali
importanti". Quando i tratti di personalità così definiti diventano "rigidi e non adattivi" con una
compromissione del funzionamento sociale e/o lavorativo o con una sofferenza soggettiva, costituiscono i
Disturbi di Personalità. L'approccio al disturbo di personalità ha risentito quindi, ora del prevalere degli
aspetti dimensionali ora di quelli categoriali. La caratterizzazione clinica, d'altra parte, deve essere
considerata puramente descrittiva e non implica una costruzione teorica particolarmente "rigida", e come
evidenziano Frances e Widiger (1987), il modello clinico del Disturbo di Personalità altro non è che la
descrizione di tipi ideali che rappresentano l'accentuazione di particolari tipi di personalità. Se quindi la
concettualizzazione del disturbo di personalità ha incontrato numerose difficoltà non ancora risolte, ben più
indaginosa ed incerta appare l'etiopatogenesi dei Disturbi stessi. Le ipotesi psicodinamiche propongono
l'esistenza di traumi psicologici "fantasmatici" o "realmente vissuti" in età infantile ed adolescenziale e, in
questa fase dello sviluppo, viene attribuita grande importanza all'ambiente familiare (Bowlby, 1963; Van Der
Kolk, 1990; Gunderson e Coll., 1988). In letteratura, sempre a questo proposito, vengono chiamati in causa
ora l'interazione tra costituzionalità ed ambiente educativo (Kernberg, 1987; Meissner W., 1984), ora la
presenza di disturbi delle relazioni oggettuali (Model A., 1968; Khan,1979) ora un eventuale arresto o
disturbo evolutivo (Kohut H., 1976).
Il Disturbo di Personalità è quindi caratterizzato da un irrigidimento dello schema di comportamento
quotidiano con la costante presenza di un disadattamento ed una sofferenza soggettiva. Attualmente
l'American Psychiatric Association indica tre gruppi di disturbi di personalità (CLUSTERS) che presentano
caratteristiche in comune: A) Paranoide, Schizoide, Schizotipico; B) Istrionico, Narcisistico, Antisociale,
Borderline, C) Evitamento, Dipendente, Ossessivo-Compulsivo. Il gruppo A presenta soggetti con
comportamenti strani e stravaganti, ora sospettosi, ora distaccati e freddi; il gruppo B è caratterizzato da
comportamenti impulsivi, imprevedibili, a volte drammatici, emotivi ed erratici; il gruppo C è caratterizzato
da ansia, insicurezza, incertezza e timore. Riguardo alla relazione tra comportamenti aggressivi e violenti e
Disturbi di Personalità dobbiamo evidenziare come alcuni di essi presentino una relazione più stretta e
costante. È il caso ad esempio del Disturbo Antisociale di Personalità che con alta frequenza è associato a
condotte eteroaggressive e del Disturbo Borderline per le caratteristiche di instabilità e di facilità di
passaggio all'atto.
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Caratteristiche dei Disturbi di Personalità
Paranoide: caratterizzata da sospettosità abnorme, ipersensibilità, invidia e rigidità, intolleranza, eccessiva
autoconsiderazione e tendenza a pensare che gli altri siano nemici.
Schizoide: caratterizzata da abnorme chiusura dell'individuo ripetto al mondo circostante, tendenza a sognare
ad occhi aperti, eccentricità, diffidenza ed ipersensibilità.
Ossessivo-compulsivo: rigidità, pedanteria, scrupolosità, sentimenti di dubbio, preoccupazioni per regole e
dettagli,perfezionismo abnorme che interferisce nello svolgimento delle azioni.
Istrionico: drammatizzazione, suggestionabilità, labilità affettiva, comportamento seduttivo, tendenza ad
essere al centro dell'attenzione, autocompiacimento.
Da Evitamento: persistente apprensione, preoccupazione di non essere all'altezza delle situazioni,
eccessivobisogno di sicurezza, evitamento di situazioni e contatti sociali per paura di critiche e
disapprovazioni.
Antisociale: stile di vita non conforme alle norme sociali, non rispetto delle leggi, impulsività, aggressività,
irritabilità, irresponsabilità.
Borderline: instabilità affettivo-emotiva con marcata impulsività: "stabili nella loro instabilità". Incapaci a
progettarsi nel presente e nel futuro, con aspetti ora di abulia, astenia ora di esplosività.
Dipendente: il soggetto presenta un eccessivo bisogno di essere protetto e mostra abnorme pauradi essere
abbandonato. Mostra difficoltà nel prendere decisioni e necessita della costante rassicurazione degli altri.
Narcisistico: persistente atteggiamento di grandiosità, necessità di ammirazione. È presente arroganza;
mancanza di empatia.
2-6 Psicopatologia e trattamento del disturbo Borderline di Personalità
Il trattamento dei Disturbi di personalità (DP) pone diversi problemi, che possono essere ricondotti
a due aspetti principali:
1- i disturbi di asse I sono per definizione lifetime e connessi al funzionamento sottostante di
personalità.
2- il problema della comorbidità, per cui il clinico incontra il paziente con DP soprattutto
quando sul piano psicopatologico sono presenti aspetti sintomatologici di sofferenza in asse
I, con quadri di ansia, depressione, bipolarità, possibile manifestazione di decompensazione
psicotica, eventuale uso di sostanze.
I problemi di trattamento sono pertanto spesso riconducibili da un lato ad un trattamento mirato ad
una attenta valutazione psicopatologica dimensionale, dall’altro a trattamenti che incidano sul
funzionamento e adattamento della personalità.
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Approccio psicofarmacologico e intervento psicoterapeutico pertanto si trovano molto spesso
intrecciati come necessità del progetto terapeutico.
a- Inquadramento del Disturbo di personalità borderline (DPB) secondo dimensioni
psicopatologiche
Il Disturbo borderline di personalità ha una prevalenza stimata intorno al 2% della popolazione
generale e riguarda circa uno su 10 pazienti contattati in strutture psichiatriche. E’presente, secondo
studi statunitensi, tra il 30 e il 60% dei pazienti con disturbi di personalità.
Il decorso è molto variabile, più frequentemente con instabilità e variabilità cronica di andamento.
Sono tipici episodi di decompensazione grave affettiva e comportamentale, alternati a periodi di
discreto relativo funzionamento psicosociale, sebbene sul lungo termine la compromissione
psicosociale e lavorativa finisca per caratterizzare il quadro. L’instabilità delle relazioni
interpersonali domina il quadro, con le sue inevitabili ripercussioni sul piano dell’attività lavorativa
e dei rapporti affettivi ed interpersonali, che ne risultano colpite e compromesse. È relativamente
alto il rischio di suicidio, in particolare negli episodi associati di tipo depressivo. Studi di follow up
sembrano suggerire che nel corso degli anni il DPB possa lentamente migliorare, portando una parte
dei soggetti a non soddisfare più tutti i criteri del disturbo. Non è chiaro se si tratti di un effetto non
specifico connesso con il progredire degli anni o se dipenda da altri fattori.
Secondo autori di impostazioni teoriche diverse, problemi relativi all’identità e ai suoi processi di
formazione nelle relazioni precoci, affettive e familiari, avrebbero un ruolo patogenetico di rilievo.
L’esistenza di gravi disturbi precoci nelle relazioni di attaccamento (storia di abusi e violenza,
perdite precoci, abbandoni, disturbi dell’identità, storia familiare disaggregata, ecc.) è documentata
da diversi studi clinici e sembra dare sostegno sia alle teorie di indirizzo psicodinamico, familiare
relazionale che cognitivo.
Sul piano dell’inquadramento e della diagnosi differenziale, va sottolineato come spesso concomiti
la presenza di Disturbi dell’umore. A parte la frequente concomitanza di Episodi depressivi
maggiori, particolare rilievo ha la distinzione verso la componente bipolare (ipomania, stati misti,
episodi maniacali). Il paziente con DPB ha spesso contatto spontaneo con lo psichiatra in occasioni
di manifestazione di depressione, che rappresenta, in senso terapeutico, un’occasione utile per
ingaggiare la persona nel setting di trattamento. Frequente è la presenza concomitante di ansia e
disturbi del sonno, che possono a prima vista simulare un quadro di disturbi dell’area ansiosa. Il
DPB si presenta spesso anche in associazione con disturbi dell’area alimentare, disturbi sessuali e
conflitti sull’orientamento sessuale. Importante è inoltre la diagnosi differenziale verso altri Disturbi
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di personalità, tra cui quello narcisistico, istrionico, paranoide, talora antisociale. Va sottolineato
come, sul piano di funzionamento, spesso i quadri rimandino ad un problema sottostante all’area dei
disturbi dell’identità. Talora può essere presente una temporanea decompensazione verso l’area
psicotica, che può derivare soprattutto ma non esclusivamente dall’abuso di sostanze, in particolare
stimolanti. Possono essere inoltre frequenti sintomi simil-psicotici, con dispercezioni, idee di
riferimento, disturbi dell’immagine corporea, senza configurare la diagnosi di un disturbo dell’area
psicotica, oppure un vero e proprio Disturbo psicotico in comorbidità, specie indotto da sostanze.
La diagnosi differenziale può essere complessa quando l’abuso di sostanze ha avuto inizio
precocemente in età adolescenziale o nella prima vita adulta e il contatto terapeutico avviene vari
anni dopo. In tutti i casi un problema critico è la comorbidità attuale con disturbi da uso di sostanze
come cocaina e amfetamine. È stato spesso suggerito che l’impiego di sostanze nel DPB sia
ricercato dal soggetto quasi a “scopo terapeutico”, sebbene pagato a caro prezzo. Nella maggior
parte dei casi tale impiego complica il quadro di sofferenza, di compromissione psicopatologica e
pone seri problemi per l’impostazione del progetto terapeutico. In casi di abuso/dipendenza da
sostanze importanti, tale aspetto finisce per dominare il quadro e richiedere priorità di intervento in
tale direzione.
La complessità di presentazione del DPB è dunque evidente. Essa pone al clinico, forse più di altri
disturbi psichiatrici, problemi di inquadramento e diagnosi differenziale. Questi non sono solo
un’esercitazione teorica ma possono rappresentare aspetti fondamentali per un corretto invio in
psicoterapia, per stabilire il migliore trattamento farmacologico. Per tentare di offrire una
semplificazione orientativa, può essere utile seguire il piano psicopatologico descrittivo, come
prima tappa del lavoro di inquadramento. Tale approccio può risultare utile come ausilio per
l’impostazione preliminare di trattamento, che sarà successivamente seguita da un progetto
terapeutico più strutturato. Il DPB può essere visto in questa prospettiva come costituito da almeno
queste dimensioni o componenti principali:
1. dimensione ansia/timore;
2. dimensione tristezza/demoralizzazione;
3. dimensione distorsione di realtà (possibili sintomi quasi-psicotici);
4. componente di eventuale uso di sostanze, con disturbi secondari da esso indotti od
associati;
5. le dimensioni rabbia/aggressività;
6. la dimensione dell’impulsività.
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Ai fini di questo tipo di descrizione e inquadramento utile è l’impiego di nuovi strumenti per la
valutazione psicopatologica dimensionale, che integrano l’inquadramento diagnostico categoriale.
Uno strumento di tale tipo è la Scala di Valutazione Rapida Dimensionale (SVARAD). Tale
strumento permette la descrizione clinica delle principali dimensioni psicopatologiche, a
prescindere dalla diagnosi di categoria. Offre pertanto una caratterizzazione quantitativa dei singoli
diversi pazienti. Esso è costituito da 10 diverse dimensioni, per le quali è prevista una specifica
descrizione; apprensione/timore, tristezza/demoralizzazione, rabbia/aggressività, ossessività, apatia,
impulsività,
distorsione
della
realtà,
disorganizzazione
del
pensiero,
preoccupazione
somatica/somatizzazione, attivazione. Nessuna di queste dimensioni individua o si identifica con
una categoria diagnostica precisa. Ad esempio, l’impiego di SVARAD ha permesso di riconoscere,
diversamente da altre scale di valutazione come la Hamilton Depression scale, tre diverse
componenti dimensionali nella depressione, una delle quali è la rabbia/aggressività, insieme alla
dimensione tristezza/demoralizzazione e apprensione/timore. La SVARAD è una scala
eterovalutata. Uno dei vantaggi di questo strumento è la rapidità di somministrazione per il clinico,
a differenza di numerosi altri strumenti. Non richiedendo più di 3-5 minuti, infatti, non impegna e
non sottrae tempo utile alla clinica e alla relazione con il paziente. La scala è stata testata in un
campione ambulatoriale di oltre 1100 pazienti. Ognuna delle dimensioni viene valutata in una scala
graduata. È stato rilevato come essa permetta di riconoscere il differente profilo di casi diversi,
guidando poi alla scelta di un trattamento individualizzato. Le deviazioni standard del profilo medio
SVARAD di un campione di pazienti con diagnosi di DPB secondo il DSM IV, visitati presso
l’ambulatorio della clinica, obiettivano come l’assetto psicopatologico possa essere anche
profondamente diverso da caso a caso.
Sebbene certamente quello psicopatologico descrittivo sia un modello limitato all’aspetto
fenomenologico, riduttivo e non rappresentativo del complesso funzionamento psicodinamico
sottostante, è possibile suggerire come il clinico possa inquadrare dal punto di vista psicopatologico
il paziente borderline secondo questi tre aspetti, a seconda della persona e della fase del disturbo
stesso. Non esiste infatti un progetto terapeutico unico per tutti i pazienti, ma esso va costruito
secondo il tipo di paziente, il profilo psicopatologico, la fase del disturbo in cui il clinico lo
incontra.
Dimensione ansia/timore
La prima componente può andare da semplici sintomi d’ansia, disturbi del sonno, a veri e propri
quadri con attacchi di panico ed angoscia. È sempre opportuno valutare se si tratti di “ansia” o
piuttosto di “attivazione” aspecifica con radice diversa. Un sottofondo bipolare sarà riconosciuto sia
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in base alla presenza di elementi “temperamentali”, di storia familiare, di ricorrenza e fasicità, sia in
base all’apparente vuoto dei contenuti relativi all’oggetto dell’ansia. In tal senso, il DPB può
presentare all’apparenza una sofferenza che indirizza erroneamente verso una diagnosi di ansia
generalizzata. L’ansia in questi casi appare tuttavia più dotata di una componente di irrequietezza,
tensione motoria, di nervosismo aspecifico, relativamente diversa da quella del tipico paziente con
Disturbo d’ansia generalizzata, caratterizzata da tematiche di preoccupazione per la salute dei cari,
apprensione, sentimento di paura con anticipazione, tendenza all’indecisione, psicoastenia,
insicurezza, dubbio patologico e una sfumatura di “ossessività”, senza una storia di “personalità
ansiosa” alle spalle che domina il quadro negli anni dalla prima età adulta in poi. Come sarà
esaminato successivamente, tali sintomi suggeriscono l’impiego di regolatori dell’umore, più che di
ansiolitici di tipo benzodiazepinico ed eventualmente di SSRI di tipo meno attivante.
Dimensione tristezza/demoralizzazione
La dimensione tristezza/demoralizzazione non si identifica con la diagnosi di depressione, sebbene
ne rappresenti una componente importante. La componente depressiva può avere caratteristiche sia
di fondo che più spesso reattive ad eventi, fallimenti, separazioni, sconfitte (tenuto conto della
frequente idealizzazione e facilità alla delusione dei rapporti interpersonali). Più difficilmente
presenta il nucleo di vissuti stabili e perduranti di caduta dell’autostima, sentimenti ed idee di colpa
ed autosvalutazione tipici della personalità ad organizzazione depressiva. È frequente la presenza di
stati “misti”, dove attivazione, rabbia e tristezza risultano miscelati, talora alternati tra loro e
possono “pilotare” il comportamento. La bassa tolleranza alla frustrazione, l’insofferenza possono
favorire in risposta a stati d’animo depressivi “acting out” e reazioni sia nella vita affettiva che
lavorativa. Frammista alla dimensione tristezza o alla depressione è frequente la presenza di rabbia
verso sè od altri, che associata ad impulsività sottostante porta a possibili atti auto od eterolesivi. Il
paziente riferisce a volte di reagire d’impulso a tali sentimenti, non tollerando la sofferenza. Il
rischio di suicidio è alto soprattutto in presenza di questa “miscela” emozionale. In altri casi si
assiste al ferirsi, indursi piccole mutilazioni, tagliuzzarsi, infilarsi spille, bruciarsi con sigarette o
fiammiferi, che viene spiegato talora come fatto per “sentirsi”, per provocarsi un effetto in un
momento di noia. La dimensione di apatia può essere vista nella stessa area di questa, tenendo
presenti anche i sentimento di noia, di vuoto, descritti spesso come tipici del DPB. Spesso sono
causa di comportamenti di ricerca di sostanze attivanti, di situazioni di sfida e prova, di scelte
d’impulso, di ricerca di novità, fino a comportamenti estremi. Sebbene questi sintomi siano tra
quelli meno rispondenti a terapie psicofarmacologiche, l’impiego di antidepressivi non attivanti o
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attivanti a basse dosi, di regolatori dell’umore può rappresentare una scelta terapeutica di aiuto su
questo piano.
La dimensione di trasformazione/distorsione di realtà
Questa dimensione viene intesa come difficoltà a distinguere tra realtà e fantasia, tendenza ad
attribuire significati insoliti, o non condivisibili agli eventi, alle proprie esperienze, con possibile
presenza di deliri o allucinazioni. Non implica disorganizzazione del pensiero, nè sue alterazioni
formali di esso. È evidente che nel DPB per definizione (disturbo di asse II) non vi possono essere
esperienze allucinatorie o deliranti, che chiamano semmai la presenza di una comorbidità psicotica
in atto. È comunque vero che in determinati casi, limitatamente a episodi o brevi periodi, vi può
essere la tendenza ad interpretatività, sfumate, alla reattività emozionale inappropriata secondo un
confine sfumato tra realtà e fantasia. In taluni altri casi, sia nel decorso naturale che in seguito
all’esposizione a sostanze, è possibile la presenza di fenomeni dispercettivi, senza sviluppi deliranti.
In tali casi l’impiego di antipsicotici, sia tipici (bloccanti D2) che atipici (antagonismo 5HT2/D2) .
b- Abuso e dipendenza da sostanze nei soggetti con DBP
Alcol, cannabis, cocaina ed altre sostanze attivanti sono quelle d’impiego più comunemente riferito
nel DPB. L’impiego episodico, con accessi di abuso piuttosto che condizioni di dipendenza, sembra
più caratterizzare questa patologia. La motivazione è diversa a seconda dei casi, e la testimonianza
degli stessi pazienti raccoglie radici differenti, andando dal tentativo di reazione o “cura” ad uno
stato di temporanea depressione, oppure al bisogno di annullarsi (per evitare sensazioni o stati
d’animo angosciosi o sgradevoli), alla ricerca di sensazioni in reazione all’apatia o alla noia con il
piacere di provare, all’insofferenza e ribellione, al “farsi male”. Il quadro cambia completamente
passando dall’impiego occasionale, episodico, all’impiego stabile e sistematico. Questo ha
importanza decisiva ai fini dell’impostazione del trattamento. A seconda del potenziale di
dipendenza della sostanza e della compromissione psicosociale che essa induce, il focus del
trattamento muta dal DPB al Disturbo da dipendenza, che acquisisce prorità di intervento. Due
esempi possono essere lo sviluppo di una dipendenza da alcol e l’impiego cronico di cocaina. Dal
punto di vista farmacologico, l’intervento può essere valido solo se il DPB è primario rispetto alla
dipendenza e se la sostanza ha un potere di dipendenza limitato. In questi casi una terapia
psicofarmacologica AD associata a stabilizzatori può aiutare a “prevenire” oscillazioni dell’umore e
momenti critici che possono precedere e favorire l’assunzione di sostanza.
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c- La dimensione rabbia/aggressività e la dimensione impulsività
Sentimenti e comportamenti di rabbia, comportamenti aggressivi, reazioni d’impulso caratterizzano
una larga parte dei casi di DPB. Possono essere reazioni dovute a scarsa tolleranza a frustrazione,
talora essere dovute a fluttuazioni dell’umore, possono essere espresse verso altri o contro se stessi.
Tono dell’umore depresso, un grado consistente di impulsività, il verificarsi di un evento di perdita
o di una forte delusione, l’innescarsi di una reazione di rabbia, sono i passi preliminare del rischio
di un tentato suicidio. Sentimenti di rabbia possono essere espressi verso persone care, nella
relazione terapeutica, come correlato ogni volta che si sviluppa un attaccamento. Reazioni
d’impulsività possono portare ad acting out nel corso della terapia, così come a interrompere un
trattamento sia psicofarmacologico che psicoterapico, per poi riprenderlo. La scelta di utilizzare
stabilizzatori, in prima ragione legittima, va soppesata nei diversi casi clinici con il rischio di
un’eventuale assunzione impropria o di un reale tentativo suicidario. In tali casi, sebbene meno
adatte psicofarmacologicamente per l’ansiolisi e la riduzione di condizioni di angoscia/malessere, le
benzodiazapine risultano di fatto più sicure e vanno considerate come opzione terapeutica.
Il progetto terapeutico per il trattamento del DPB viene ormai considerato da molti come
necesariamente fondato su intervento psicoterapico, preferibilmente di gruppo, associato a
intervento psicofarmacologico. Tra i farmaci più spesso impiegati vi sono antidepressivi,
stabilizzatori, neurolettici tipici e atipici, protettori per il sonno. È frequente che le combinazioni dei
farmaci debbano essere mutate e riadattate sia come associazione che come dose nello stesso
paziente a seconda della fase terapeutica. Naturalmente, la scelta dell’associazione va volta per
volta valutata in base alle caratteristiche dei singoli pazienti. L’impiego di psicoterapia e
farmacoterapia associate ha come presupposto innanzitutto una mentalità terapeutica aperta che
integri lo stato attuale degli sviluppi della conoscenza nei campi delle neuroscienze e della
psicoterapia applicandola alla clinica.
2-7 Violenza e criminalità
Condotte violente ed omicidi rappresentano un fenomeno molto frequente e la espressività dei modi e dei
mezzi così come le stesse motivazioni sono innumerevoli coinvolgendo sia il microcosmo della persona
"offender" (personalità, salute psichica, relazioni familiari e di lavoro) sia il macrocosmo ( razza, cultura,
classe sociale, religione). Violenza e criminalità sono quindi spesso facce di una stessa medaglia ed oggetto
di studio di sociologi, psichiatri, psicologi e giuristi e criminologi; d'altra parte la definizione di crimine
dipende da una molteplicità di fattori anche se è evidente l'importante influenza del sistema legislativo sulla
definizione dell'atto criminale; tuttavia, come fa notare Volanvka nel suo libro: "La Neurobiologia della
Violenza" (1995), ci sono strette somiglianze tra violenza "criminale" e "non criminale", L'aggressività è
sempre presente in queste condotte come spinta propulsiva all' atto e può avere caratteristiche che ci
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forniscono elementi per i quali siamo in grado di valutare la maggiore o minore intenzionalità e componente
di aggressività e di "crudeltà". Gli approcci della ricerca sono complessi ed eterogenei rifacendosi ora a dati
epidemiologici e statistici ora a variabili più strettamente cliniche a seconda se stiamo stidiando la relazione
tra criminalità ed individuo o ad esempio criminalità e società.
a- L'omicidio
Rappresenta l'espressione più grave della violenza umana anche se da un punto di vista criminologico non
tutti gli omicidi rappresentano un crimine; la nostra trattazione riguarda tuttavia quei comportamenti che
costituiscono una uccisione illecita e che all'atto violento in sè si associa anche la trasgressione della legge
aggravando, da questo punto di vista ,la componente di aggressività. Tradizionalmente le motivazioni
possono essere distinte, in due grandi gruppi (Groesbeck C. J., 1988):
a) razionali, dove quindi è presente un motivo per profitto condizioni sociali o ragioni politiche e religiose,
b) omicidi emotivi per gelosia, vendetta, risentimento e che vengono classicamente definiti passionali.
Gli studiosi di questa materia hanno quindi descritto ora motivazioni consce ora incosce riportando situazioni
quali la vendetta ad una reazione di inferiorità o ad un torto, reazioni di panico; reazioni a conflittualità
intrafamiliari o allargate al gruppo, assassini "sadici".
b- Il rischio, la valutazione del rischio e la previsione della violenza
Nell'uomo il comportamento aggressivo non può essere considerato sempre come l'immediata conseguenza
di un impulso, come avviene nell'animale, ma è spesso il risultato di un'interazione tra elementi
temperamentali, fattori morali e sociali. Distinguere pertanto le condotte aggressive in auto ed etero dirette,
cioè solo sulla base della loro direzionalità, è estremamente riduttivo.
Tuttavia tale distinzione è importante soprattutto per quanto concerne una valutazione generica, che pur non
tenendo conto delle motivazioni psicologiche che stanno alla base del comportamento, possa fornire una
indicazione di predittività. In particolare possiamo dire che un soggetto è prevalentemente autoaggressivo
oppure eteroaggressivo, sulla base del comporamento mostrato in precedenza. Alcuni studi retrospettivi, che
hanno preso in considerazione appunto il tipo di comportamento aggressivo mostrato da pazienti psichiatrici,
hanno evidenziato che alcuni parametri (sesso, età, ecc.) mostrano differenze statisticamente significative a
seconda che noi consideriamo il gruppo dei soggetti autoaggressivi o quello degli eteroaggressivi (Di Fiorino
e coll., 1994). Vari Autori sono concordi nel ritenere che i maschi siano più violenti delle femmine (Pearson
e coll.,1986; Rossi e Coll., 1986); e che le condotte eteroaggressive siano più frequenti nelle fasce d'età
giovanili (Evenson e Coll., 1974). Kempe ed Helfer (1980) hanno osservato come l'aver subìto
maltrattamenti nell'infanzia sia collegato allo svilupparsi di condotte violente in età adulta; conclusione
questa condivisa da altri Autori (Tarter e Coll., 1984; Monane e Coll., 1984; Jaffe e coll., 1986). Alcuni studi
hanno evidenziato una relazione esistente tra abuso di alcool e crimini (Guze e coll., 1962; Shuntich e
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Taylor, 1972) e tra abuso di alcool e omicidio (Felson e Steadman, 1983). Alcune "droghe da strada" (es.
amfetamine, cocaina, allucinogeni) sono state correlate con comportamenti violenti eterodiretti (Menuck,
1983; Nurco e Coll., 1985) (vedi Appendice). Significativa è la relazione tra comportamenti aggressivi e
patologie psichiatriche. Molti studiosi quindi hanno evidenziato una significativa associazione tra
Schizofrenia, Disturbi di Personalità e comportamenti violenti (Tardiff e Sweillam, 1980; Tardiff e
Sweillam,1982; Tardiff, 1984; Pearson e Coll., 1986; Tardiff e Koenisberg, 1985). In uno studio recente
Lucchi (1993) ha segnalato il frequente rilievo anamnestico di disturbi psichiatrici nei genitori.
c- L'Imitazione della aggressività auto ed eterodiretta
È oggetto di controversia scientifica quanto possano scattare meccanismi di imitazione assistendo ad atti di
violenza, nella realtà e nella finzione (effetto Werther). Osservazioni hanno aumentato il credito scientifico
del suicidio per imitazione. A Los Angeles i suicidi ebbero un incremento del 40% dopo il suicidio di
Marilyn Monroe. Motto ha esaminato le variazioni nei suicidi a Detroit avvenuti nel 1968 nel corso di uno
sciopero dei quotidiani durato dieci mesi. Osservò un calo rispetto alle medie dei cinque anni precedenti, che
era statisticamente significativo nelle donne di età inferiore a 35 anni. Una ricerca di Phillips (1974) si è
soffermata sull'effetto suscitato da suicidi di personaggi famosi (criterio di inclusione la comparsa nella
prima pagina del New York Times). In 26 casi, dei 34 considerati, il numero dei sucidi era
significativamente più alto. Hanno concluso che l'adozione di un suicidio possa essere appresa da modelli
fittizi. L'imitazione svolge un ruolo nei suicidi di gruppo o collettivi. In alcuni casi si può isolare dagli altri
il suicidio che è poi oggetto di imitazione, mentre in altri casi si tratta piuttosto di suicidi simultanei legati ad
influenze e suggestioni reciproche e riverberantesi (epidemia) soprattutto nei casi di sette religiose. Anche
l'influsso della trasmissione di comportamenti violenti eteroaggressivi è stato oggetto di studi di psicologia
sperimentale (Bandura, 1973; Berkowitz, 1971). L'ipotesi era che l'esposizione alla proiezione di scene di
violenza, filmate, potesse determinare un aumento significativo di tali comportamenti. Nei primi studi di
Bandura (1963) ad alcuni bambini venivano proposti brevi filmati nei quali dei modelli adulti in modo
alquanto inusuale secondo una certa sequenza, aggredivano un pupazzo, truccato come un clown. I bambini
poi venivano lasciati giocare liberamente in una stanza con molti diversi giocattoli; venivano presto ripetuti i
comportamenti osservati, con l'impiego degli stessi oggetti e degli stessi bersagli, ricalcando quindi le
sequenze della scena filmica. Queste osservazioni hanno dimostrato il forte rilievo dei meccanismi di
imitazione. Gli studi di Bandura si trovarono al centro di una controversia dai toni accesi perché si ritenne
dimostrato il ruolo dei mass media nell'amplificare il livello di violenza nella società. Il grande successo del
libro di Vance Packard "I persuasori occulti" (1957) è stato forse in gran parte determinato dall'ansia che
l'uomo moderno ha nei riguardi di un'influenza dei media subdola e sfuggente. Viene ipotizzato come
messaggi "subliminali" possano giungere alla mente dello spettatore senza che questo ne sia consapevole
oppure attraverso il mascheramento del messaggio. Di attuale interesse è lo studio non ancora sostenuto da
dati certi degli effetti dei messaggi subliminali, in particolare delle suggestioni della musica rock riguardo a
comportamenti violenti (Vokey e Don Read, 1985). L'effetto di imitazione era più marcato quando il
personaggio del film non riceveva una punizione dopo l'aggressione, vi erano elementi per l'identificazione
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(stesso sesso ed età tra personaggio e spettatore). Inoltre una condizione di frustrazione, e la mancata
disapprovazione del comportamento aggressivo da parte degli adulti presenti aumentavano le probabilità dei
comportamenti imitati. Berkowitz ritiene che i film violenti possano svolgere un ruolo facilitatore in
presenza di un bersaglio e di una condizione già predisponente il comportamento aggressivo. La violenza nei
mass media riduce la normale inibizione verso l'aggressività, soprattutto quando sono rilevabili sentimenti di
rabbia e frustrazione (Berkowitz, 1962, 1968). Un punto di vista opposto è quello della ipotesi teorica
catartica. Le esperienze di fiction, come era stato teorizzato per la tragedia, ridurrebbero l'esperienza diretta
di comportamenti apertamente aggressivi. Assistere a comportamenti violenti, ad esempio a sport come la
boxe, funzionerebbero come "valvola di sfogo" (Feshbach, 1955; Levine, 1968).
3- CRIMINOLOGIA
La criminologia è la scienza che studia i reati, gli autori, le vittime, i tipi di condotta criminale (e la
conseguente reazione sociale) e le forme possibili di controllo e prevenzione. È una disciplina sia
teorica che empirica, sia descrittiva che esplicativa, sia normativa che fattuale.
L'oggetto fondamentale di studio è il reato, la cui definizione è esclusivamente sociale. Sono stati
fatti in passato tentativi di arrivare a definire dei crimini naturali, condivisi come tali da tutte le
culture, ma essi hanno portato sostanzialmente ad un nulla di fatto; il reato non è un fatto biologico
o assoluto, ma il frutto di una certa definizione sociale che varia in funzione del tempo (storia) e
dello spazio (geografia), ossia varia da cultura a cultura. Crimine, diritto e cultura sono pertanto
concetti profondamente interrelati tra loro.
Attualmente la criminologia si configura come una scienza multidisciplinare ed interdisciplinare
che ricorre preferenzialmente ad un approccio multifattoriale. Non c'è infatti un'unica causa
universale dell'agire criminoso, bensì una costellazione mutevole di possibili variabili causali.
Queste andrebbero valutate caso per caso nello specifico contesto sociale sotto il profilo della
criminogenesi e della criminodinamica. L'idea dominante è quella della Nuova Difesa Sociale: è
giusto che la società si difenda dalle condotte criminali ma è imperativo il massimo rispetto dei
principi dello stato di diritto, puntando al pieno reintegro nella società per chi ha commesso dei
reati. Ciò è possibile attraverso opportuni trattamenti durante il periodo dentetivo e soprattutto
favorendo il ricorso a misure alternative alla detenzione (ad es. semilibertà, liberazione anticipata,
detenzione domiciliare, affidamento in prova al servizio sociale) e programmi di recupero.
Lo studio delle tossicodipendenze e quello delle malattie mentali, nei possibili risvolti
criminologici, è di competenza di quel ramo della criminologia che è formato dalla psichiatria e
dalla psicopatologia forense. Il maggiore campo applicativo di queste discipline riguarda la
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questione dell'imputabilità, a sua volta collegata alla valutazione della capacità di intendere e di
volere. Per la legge italiana, se manca pienamente la capacità di intendere e/o di volere, il reo non è
imputabile e nei suoi confronti vengono prese delle misure di sicurezza a carattere anche
terapeutico; se invece la capacità di intendere e/o di volere è grandemente scemata, il reo è
imputabile ma la pena è diminuita (e possono essere prese delle misure di sicurezza).
La psichiatria si pone il compito della diagnosi, mentre la criminologia clinica, più correttamente,
quello della criminodiagnosi e della criminogenesi, in rapporto all’art. 40 del c.p. (nesso di
causalità). La criminalistica invece risponde alla domanda sul "come", o sul "dove" è stato
commesso un delitto, l'investigazione criminale risponde alla domanda sul "chi" ha commesso un
delitto. Propriamente, l'investigazione è un settore più ampio dell'investigazione criminale: di fatto,
accanto all'investigazione criminale, esistono l'investigazione giornalistica, l'investigazione in
merito a problemi che non hanno rilevanza penale, e così via).
a- Teorie criminologiche
Sono state proposte molte teorie per spiegare i fenomeni criminali. Esse si possono dividere in:
1-teorie biologiche
2-teorie psicologiche : i modelli di derivazione psicoanalitica come ad esempio la teoria del
delinquente per senso di colpa e la teoria della carenza del Super-Io a sua volta connessa al concetto
di "poliziotto interno", la teoria della deprivazione affettiva di Bowlby e le teorie di derivazione
comportamentista basate sul concetto di condizionamento. In particolare ha avuto notevole
diffusione la teoria della frustrazione-aggressione di Dollard e Miller. Studi sperimentali hanno
provato che la frustrazione (cioè l'impedire a un soggetto di raggiungere una meta od obiettivo
importante per lui) tende a generare aggressività, la quale può scaricarsi sia direttamente sulla causa
o fonte della frustrazione, sia indirettamente su altri soggetti per così dire più accessibili. Secondo
questa teoria dunque alla base del comportamento criminale potrebbe esserci un accumulo di
aggressività da frustrazione. Gli studi di Bowlby hanno invece provato che condizioni precoci di
deprivazione affettiva e relazione possono avere effetti duraturi sulla personalità individuale,
portando alla tendenza ad atteggiamenti rivendicativi e di compensazione, della quale alcune
manifestazioni possono consistere proprio in condotte devianti.
3-teorie sociologiche : teorie ecologiche della criminalità), la teoria delle associazioni differenziali
di Edwin Sutherland, quella delle identificazioni differenziali, la teoria del conflitto culturale, le
teorie fondate sul concetto di anomia (maggiore è la tendenza anomica in una società, maggiore è la
frequenza di reati in quella stessa società). Spesso i comportamenti criminosi si manifestano
nell'ambito di subculture criminali che trasmettono ai propri membri dei valori strutturati tanto
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quanto quelli propri della cultura generale non criminosa di cui le stesse sottoculture fanno parte. I
sociologi hanno anche evidenziato l'importanza dei processi di stigmatizzazione nella formazione
dell'identità criminale e nel suo consolidamento in un vero e proprio progetto di vita deviante. In
altre parole, talvolta è la stessa reazione sociale squalificante ed emarginante nei confronti della
devianza e della criminalità ad agire come fattore criminogeno. La teoria dell'etichettamento
(labelling) punta il dito sulle conseguenze negative della stigmatizzazione ed è alla base
dell'approccio nei confronti della criminalità minorile che si fonda sull'evitare il più possibile la
carcerazione per i minori e la loro esclusione dal normale circuito delle relazioni sociali.
La tendenza della criminologia contemporanea procede verso l'integrazione di più teorie particolari
(biologiche, psicologiche o sociali) in teorie multifattoriali che cercano di interpretare il
comportamento criminoso secondo più parametri esplicativi e a livelli diversi di lettura.
b- Criminologia clinica
Il ramo applicativo della criminologia viene denominato "criminologia clinica". Essa si propone,
soprattutto attraverso l'analisi e l'intervento su singoli specifici casi, di formulare una diagnosi, una
prognosi e una possibile terapia di trattamento relativamente agli autori di reati. La diagnosi punta a
ricostruire i fattori e le condizioni che hanno portato alla genesi e all'esecuzione del reato
(criminogenesi e criminodinamica), la prognosi cerca di valutare la maggiore o minore pericolosità
sociale del delinquente, la terapia prevede interventi di rieducazione e di assistenza psicologica con
l'obbiettivo di risocializzare il reo e consentirgli una piena reintegrazione sociale.
La maggiore o minore pericolosità sociale di un soggetto, nonché di stimare le maggiori o minori
probabilità di recupero sociale per quel soggetto, un modello previsionale che ha avuto notevole
successo in passato è quello sviluppato dai coniugi Glueck. Questo modello ipotizza che tre gruppi
di variabili consentano di prevedere la maggiore o minore probabilità di incorrere in una "carriera
criminale":
1) Variabili legate alla famiglia di origine (clima familiare, atteggiamenti dei genitori, valori o
controvalori trasmessi, etc.).
2) Variabili legate alla struttura della personalità del soggetto (stabilità o instabilità emotiva,
resistenza o meno alla frustrazione, maggiore o minore impulsività, eccetera).
3) Variabili legate ai concreti comportamenti espletati dal soggetto (maggiore o minore precocità di
manifestazione di episodi devianti, tendenza o meno alla recidiva, tendenza o meno a fare uso di
sostanze voluttuarie o stupefacenti, etc.).
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c- La famiglia atomizzata e la crisi d' autorità, come fattori criminogeni di atti aggressivi
La famiglia atomizzata è anche frantumata negli affetti e minata nell'autorità che dovrebbe
principalmente legare i genitori con i figli. L'atomizzazione è figlia della crisi economica e dei
modelli imposti dai mass-media, che inseguono le logiche del consumismo sfrenato: ogni
membro della famiglia è a sé stante. Nella famiglia atomizzata si finisce con il non parlarsi più,
con l’essere estraneo uno con l'altro, pur vivendo insieme. In superficie tutto sembra che scorra,
in realtà al suo interno ognuno vive tenendo per sé i problemi, dolori, ansie e così via. Non c'è un
vero dialogo,la fiducia reciproca e l’autorità sono venute meno.
Comunemente l’autorità è confusa con un certo modo di esercitare il potere o la violenza e intesa
come sinonimo d’autoritarismo. In realtà l’autorità esclude sia la violenza e la forza sia la
menzogna e la persuasione.
La filosofa Hannah Arendt ha studiato molto bene l'autorità ed il nesso che intercorre con il
potere; ella scrive: “Il rapporto d’autorità tra chi comanda e chi obbedisce non si fonda né
su ragioni convincenti né sul potere di chi comanda; l’una e l’altra delle parti in causa
hanno in comune la gerarchia stessa, che entrambe riconoscono giusta e legittima, e nella
quale entrambi hanno un posto fisso e prestabilito”.
A differenza di ciò, oggi, nella famiglia atomizzata è venuto meno il ruolo della madre come
figura autorevole per i figli e l'attenzione è quindi rivolta verso il futuro.
Oggi si prende le distanze dal passato, venendo meno la tradizione d'autorità che legava
l'essere anziani con l'essere giovani. Le madri non trasmettono più alle figlie la tradizione a
divenire mamme. In famiglia spesso gli anziani sono ritenuti un “peso” da sopportare, mentre la
società sembrerebbe non voler garantire loro la pensione, l'assistenza sanitaria, dunque, la
sicurezza di poter invecchiare serenamente, dopo una vita di sacrifici e lavoro. La famiglia
atomizzata è incapace di promuovere e riconoscere l'autorità. I figli atomizzati sono inclini al
vizio ed al vuoto di sé, predisposti così al bisogno psicologico di rimanere delusi, giacché
incapaci a provare veri legami verso gli oggetti e le persone. Non sono stati educati a gestire
l'ansia nelle relazioni personali né ad avere rispetto verso l'altro di sé. Tutto è dovuto e nel
momento in cui qualcosa non concesso un fallimento scolastico, un rifiuto del partner, un lutto,
una delusione amara, una sconfitta cocente li fa sprofondare nel crimine o nel suicidio o in ogni
caso in azioni distruttive, violente o menzognere.
Il potere è realizzato solo dove parole e azioni si sostengono a vicenda, dove le parole non
sono vuote e i gesti non sono brutali, dove le parole non sono usate per nascondere le
intenzioni ma per rivelare realtà, e i gesti non sono usati per violare e distruggere, ma per
stabilire relazioni e creare nuova realtà. La parola autorità deriva dal verbo augere, che vuol
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dire accrescere, elevare. Una persona autorevole riconosce e promuove l'autorità, in un rapporto
gerarchico dove è pacifico chi comanda e chi obbedisce.
La madre che tende più a fare la sorella maggiore oppure il padre che vuole apparire come
l'amico del figlio, sono il segno del fallimento dell'autorità e la crisi del potere. Invece, l'autorità
ed il potere richiedono parole e azioni concordanti, parole verso i figli che non contengano la
menzogna, il trucco o l'inganno; gesti che non siano violenti o brutali, quindi spropositati rispetto
la loro personalità. La punizione al figlio gli deve essere "cucita" addosso come un buon vestito,
vale a dire, né troppo larga né troppo stretta. Oltre all'esempio in positivo, in ogni modo, un
figlio ha bisogno d’affetto e d’amore, da parte dei genitori che devono aiutarlo a crescere e
divenire adulto insegnandogli ad accettare il principio di realtà e il principio di responsabilità.
Essere vuoti di sé vuol dire, che si vive inseguendo le illusioni (ossia, caricando di speranza e
d’attesa un'azione), per poi scontrarsi con la realtà ed infine, perdendo sempre di più l'interesse
verso gli oggetti, le persone, i valori... s’alimenta la disillusione, vale a dire, il bisogno di
rimanere delusi e ricominciare (come in un vortice) con l'illusione che rigenera disillusione.
Chi è vuoto di sé è anche predisposto ad uscire fuori di sé (per es., assumendo alcool o droghe,
giacché alimentano le allucinazioni). In questo modo il pensiero si stacca sempre di più dalla
realtà ed al vuoto di sé sopraggiunge il fuori di sé, uccidendo gli altri o distruggendo
completamente se stessi e chi ci vive accanto.
4- L’ARTETERAPIA
4-1 Origini
Già lo stesso Freud si interessò all’arte. Egli definisce l’artista come “uomo che si distacca dalla
realtà poiché non riesce ad adattarsi alla rinuncia al soddisfacimento pulsionale che la realtà
inizialmente esige, e lascia che i suoi desideri di amore e di gloria si realizzino nella vita della
fantasia” (1911). L’artista, cioè, “trasforma le sue fantasie in una creazione artistica invece che in
sintomi” (ibidem). Per cui, il prodotto artistico per Freud si rivela specchio del mondo interno del
soggetto, delle sue strutture e dei suoi processi psichici, e la creazione artistica diventa materiale di
interpretazione per l’analista, il quale coglie la sublimazione degli impulsi canalizzati.
Anche se appare evidente la concezione patologica dell’arte (Freud coniò anche il termine
patografia), e l’attenzione sul prodotto più che sul processo artistico, resta però il fatto che già Freud
aveva colto la straordinaria peculiarità dell’arte come strumento privilegiato di accesso ed
espressione dei propri contenuti interni, e della propria organizzazione psichica.
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Anche se da un’ottica molto diversa, anche Jung ha parlato di arte come un mezzo per contattare e
esprimere le immagini appartenenti all’inconscio. A differenza di Freud, però, Jung (1966) porta
l’attenzione sul processo creativo, che consiste, a suo parere, nell’attivare le immagini archetipe
inconsce, rielaborarle e tramutarle in un prodotto finito. L’artista è dunque colui che traduce le
immagini archetipe che derivano dal profondo inconscio nel linguaggio del presente, rendendole
così comprensibili a tutti. A partire dalla sua teoria degli archetipi e dal concetto di inconscio
collettivo – diverso dalla visione patologica di Freud - Jung attribuisce, dunque, all’arte un valore
sociale. Del valore sociale dell’arte, in quanto mezzo fondamentale di comunicazione in cui le
emozioni individuali diventano generali e collettive, ha parlato anche Vygotskij. Egli ha inoltre
trattato del concetto di creatività e di immaginazione, ritenuti due momenti integranti e
indispensabili ad una corretta conoscenza della realtà. La creatività stimola alla ricerca di nuove
soluzioni e al cambiamento, dunque l’espressione artistica non è più una fuga dalla realtà, bensì ne
diventa uno strumento di conoscenza fondamentale, caratterizzato da modalità originali e
funzionali. Comunque le vere fondatrici dell’arteterapia sono ritenute Margaret Naumburg e
Edith Kramer. Margaret Naumburg (1947), di stretta derivazione psicodinamica, ha una visione
molto vicina a quella di Freud e considera il prodotto artistico del paziente come uno strumento
d’accesso ai suoi contenuti inconsci, da utilizzare nel corso della terapia come materiale da
interpretare e favorire così l’insight e la risoluzione dei conflitti interni. L’espressione artistica del
paziente è dunque vista ed utilizzata esclusivamente come strumento diagnostico. L’arte, dunque,
come strumento ai fini della terapia, e non arte come terapia, in un’ottica di un processo inverso.
Edith Kramer (1958), invece, si muove da un’ ottica completamente diversa e concentra
l’attenzione sul processo creativo, ritenuto di per sé uno strumento terapeutico. L’espressione
artistica del paziente non è vista solo come mezzo per l’espressione dei conflitti inconsci, ma come
strumento per la loro risoluzione e come risorsa per la crescita e la maturazione personale.
L’arte, dunque, è considerata finalmente, come terapia attiva e trasformativa con una vita a sé.
È dunque dalla Kramer in poi, che si può parlare di arteterapia vera è propria, e cioè, come si è già
detto, con lo spostamento dell’attenzione dal prodotto artistico come materiale da interpretare, al
processo creativo vero e proprio, che, avvalendosi di simboli e metafore, coinvolgendo il soggetto
in attività che implicano un impegno sensoriale e cinestesico, si propone come un mezzo per
identificare ed esprimere le proprie emozioni, e per comprendere e risolvere certe difficoltà.
L’arteterapia come disciplina attinge da una varietà di approcci teorici, come quello psicoanalitico,
quello psicodinamico, quello cognitivista, quello gestaltico e quello dell’analisi transazionale, e, in
generale, da tutti quegli approcci terapeutici che mirano a contattare e riconciliare i conflitti
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emotivi, alla promozione dell’autoconsapevolezza e dell’accettazione di sé, e allo sviluppo di abilità
relazionali e comunicative al fine di stabilire una omeostasi con sé e con l’esterno.
4-2 Contesti
L’arteterapia viene usata nei contesti più vari. Questa diversità rispecchia la natura multidisciplinare
dell’arteterapia e la pluralità degli approcci teorici cui questa fa riferimento, e riflette non solo
l’efficacia della semplice partecipazione ad un attività creativa, ma anche le molteplici funzioni che
questa può svolgere a seconda dei diversi momenti e obiettivi terapeutici. L’arteterapia, infatti,
contribuisce sia alla diagnosi che alla presa in carico, che al trattamento del disagio, fisico
psicologico o sociale che sia, nonché alla prevenzione del disagio stesso.
Per fare ordine possiamo suddividere gli ambiti di applicazione dell’arteterapia in tre grandi aree,
e cioè, quella della terapia, quella della riabilitazione, e quella dell’educazione.
Sin dalla sua nascita l’arteterapia si è subito sviluppata principalmente come strumento di sostegno
nelle cure psichiatriche di persone con gravi disturbi psichici, come ad esempio gli psicotici e gli
autistici (area terapeutica). Il ricorso all’espressione artistica poteva aiutarle a superare le gravi
difficoltà di comunicazione, tipiche delle persone affette da questi disturbi. Tali risultati portarono
ad estendere l’uso di queste tecniche anche a pazienti con disturbi “meno gravi”, come ad esempio
disturbi dell’umore e disturbi d’ansia, nei quali si riscontra grazie all’uso dell’arteterapia (Pasanisi,
2001) un aumento dell’autostima, un consolidamento dell’Io e un miglioramento delle capacità di
socializzazione. I successi ottenuti nell’ambito della terapia portarono, con il passare del tempo, ad
estendere l’uso dell’arteterapia al campo della riabilitazione di soggetti con danni neurologici e con
handicap fisici. Esprimersi in attività creative aiuta queste persone a ridurre la negazione della
disabilità, sviluppare maggiore autonomia personale e sviluppare relazioni sociali. Infatti
“Insegnando alle persone a vedere ciò che le circonda, a esprimere le loro emozioni, e affermando
continuamente che loro, e soltanto loro, possono tracciare quei particolari segni sulla carta o sulla
tela, queste persone hanno maggiori opportunità di conoscere se stesse e il loro diritto di essere
rispettate e di volersi bene” (Warren, 1993). Ma l’uso dell’arteterapia nell’area della riabilitazione
non riguarda solo i disabili. L’arteterapia, infatti, viene spesso usata anche come strumento di
sostegno nel trattamento di malati terminali di AIDS e dei malati oncologici, dove grazie anche ad
un semplice scarabocchio, ballando o assumendo determinate posizioni, è possibile scaricare lo
stress e le tensioni e alleviare quel senso di torpore che spesso fa dimenticare di avere un corpo e di
essere una persona completa. Per quanto riguarda invece l’area dell’educazione, mi riferisco
invece al trend, più nuovo, di utilizzare l’arteterapia anche con persone “normali”, o comunque non
portatrici di disagi specifici, come forma di educazione, appunto, alla sensibilità, alla creatività,
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all’autoconsapevolezza, alla accettazione di sé, a un aumento dell’autostima e della cura di se stessi.
Sono tanti, infatti, le situazioni “nomali” in cui le persone, sia adulti che bambini, avvertono una
situazione di “crisi” e il bisogno di ristabilire l’equilibrio con se stessi e con il mondo esterno (lutti,
separazioni, insuccessi a scuola o nel lavoro, etc.).
L’arteterapia, come abbiamo visto, può aiutare queste persone a contattare, esprimere ed elaborare
le proprie emozioni, ad affrontare i propri conflitti, e a ritrovare la fiducia in sé.
Inoltre, in una società che dà sempre meno spazio ed importanza alla creatività e alla fantasia –
intese nel senso di capacità di esprimere se stesso e di relazionarsi con il mondo in maniera sempre
nuova ed originale, e dunque nel senso di flessibilità e capacità di adattamento – e in un mondo
talmente frenetico e in eccesso di stimolazione che sempre meno conosciamo realmente noi stessi e
le nostre emozioni, l’arteterapia può costituire quello spazio e quel tempo in cui incontrare noi
stessi, esprimere le nostre emozioni, qualunque esse siano, confrontarci con i nostri aspetti più
profondi, e sperimentarci in diverse abilità, per promuovere l’autoconsapevolezza e mantenere o
ritrovare il benessere psicofisico che continuamente viene minato dall’interno e dall’esterno.
4-3 Forme
Tra le forme d’arte principalmente utilizzate in arte terapia si possono menzionare tutte le arti
grafiche, dal disegno alla scrittura; la danza; la musica; il teatro e la cinematografia.
Il disegno e la pittura: Il disegno e la pittura vengono utilizzate in arteterapia per acquisire o
potenziare la capacità di contattare le emozioni e rappresentarle in una dimensione fantastica
attraverso la forma e il colore. Inoltre, richiedendo l’attivazione della coordinazione visuomotoria e
la capacità di movimenti fini e precisi, comporta un giovamento anche da un punto di vista
strettamente motorio.
L’uso della scrittura
La danza: anche per quanto riguarda l’uso della danza sono state elaborate diverse varianti
(biodanza, danzaterapia, danza-movimento terapia), che condividono l’uso del movimento, con o
senza musica, come principale strumento terapeutico. Il presupposto teorico su cui si basano queste
forme di terapia, è quello in base al quale tensioni muscolari e modalità posturali e di movimento
(uso dello spazio, tempi, ritmi, etc.) riflettono tensioni e modalità psicologiche; per cui, lavorare per
prendere consapevolezza e sciogliere tali tensioni fisiche comporta l’entrare in contatto e il risolvere
i blocchi emotivi e psicologici. La danza può essere vista come un dramma, in cui il linguaggio del
corpo sostituisce quello verbale. L’obiettivo principale è mettersi in contatto con il proprio corpo e
dare ascolto alle emozioni che vi albergano, ma i benefici dell’uso del movimento e della danza si
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estendono a più livelli Ad un livello puramente fisico permette di ampliare il repertorio motorio e
migliorare la coordinazione ed il tono muscolare, ad un livello psicologico si interviene sulle
modalità di espressione di sé e sui livelli di adattamento alla realtà, ad un livello sociale, infine, si
lavora sul modo di interagire con il gruppo e dunque sulle capacità comunicativo-relazionali..
La musica: Per quanto riguarda l’uso della musica in terapia si parla principalmente di
musicoterapia. La musica rappresenta uno strumento molto potente soprattutto per la sua valenza
evocativa e regressiva. Fare o ascoltare musica, infatti, attiva le zone ipotalamiche del cervello
legate ai più antichi meccanismi di sopravvivenza, mentre il ritmo riporta al contatto con il ritmo
cardiaco materno in fase intrauterina. La musica, cioè, introduce la persona in un’atmosfera
psicologica dove la relazione con gli aspetti coscienti di sé si indebolisce permettendo di entrare in
contatto con le parti più profonde della psiche. Lo scopo, in generale, è quello di aiutare il soggetto
ad esplorare i vissuti emotivi derivati dal contatto con la musica e rielaborare le immagini e i
ricordi.
Il teatro: L’idea che il teatro potesse avere effetti benefici, e dunque potremmo dire terapeutici,
risale fino ad Aristotele e all’antica Grecia. Gli effetti benefici di cui parlava Aristotele, la catarsi
che derivava dall’assistere ad una tragedia, erano però di tipo passivo, mentre in arteterapia le
tecniche teatrali vengono utilizzate in maniera attiva, come e ai fini della terapia. La scoperta del
teatro quale strumento terapeutico si deve principalmente a Moreno, ideatore dello psicodramma,
ma dopo di lui è stata acquisita e sviluppata dai più svariati approcci terapeutici ed ha trovato largo
impiego nei più diversi ambiti di applicazione. Psicodramma, teatroterapia, drammaterapia,
playback theatre, eccetera, hanno tutti i comune l’utilizzo della drammatizzazione quale principale
strumento terapeutico. Drammatizzare, e cioè tradurre in azione, permette infatti un accesso più
diretto ai contenuti interni del soggetto, che potrà rivivere eventi del passato, elaborare e risolvere i
conflitti riattualizzandoli, esplorare i propri “fantasmi” rendendoli concreti ed esterni a sé e quindi
più accessibili e più facilmente modificabili o, ancora, sperimentarsi in situazioni nuove
accrescendo così le proprie competenze e la conoscenza di sé. Le tecniche derivate dal teatro
utilizzate in arteterapia sono molteplici e svariate anche perché il terapeuta le applica adattandole
via via ai pazienti e alle situazioni e spesso arriva crearne di nuove.
La cinematografia: Musatti (1950) è stato tra i primi ad approfondire gli aspetti e le funzioni
psicologiche del guardare un film, segnalando l’analogia tra sogno e cinema. Sia nei sogni che al
cinema le immagini presentano un carattere di realtà pur non inserendosi nella realtà, rispondono ai
bisogni immaginari e alle pulsioni più intime permettendone la soddisfazione allucinatoria, e sono
sottoposte agli stessi processi intrapsichici: spostamento, proiezione, oblio, eccetera. La seduta
cinematografica, inoltre, presenta tutta una serie di caratteristiche che favoriscono un
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coinvolgimento così forte, come l’oscurità, il volume alto, la posizione rilassata, la passività. “La
visione di un film modifica lo stato di coscienza di una persona: lo spettatore viene proiettato in una
dimensione spazio-temporale in cui esiste solo la storia rappresentata sullo schermo, che annulla,
almeno temporaneamente , la realtà circostante. Questa nuova dimensione è in grado di suscitare
emozioni, indurre alla riflessione su sé stessi e la propria esistenza, inviare spunti per un dialogo,
che produrrà mutamenti in coloro che ne sono coinvolti” (Fata, 2003). I meccanismi psicologici
coinvolti sono principalmente quelli di identificazione, per cui una carenza o un bisogno interno
vengono mitigati attraverso l’identificazione, appunto, delle emozioni e dei vissuti dei personaggi
del film, e la proiezione, per cui si affrontano i conflitti interni o gli aspetti più spiacevoli di sé
cogliendoli, come oggettivi, nei personaggi del film. Quando è possibile, rendere consapevoli tali
processi può essere un momento molto importante di crescita personale.
Le arti possono essere ovviamente utilizzate anche in sinergia. Ad esempio, si può invitare i
soggetti a fare un disegno lasciandosi ispirare dalla musica, o chiedere di rappresentare a livello
teatrale o con la danza un certo brano poetico o musicale. Utilizzare insieme diversi registri
sensoriali e comunicativi, o passare dall’uno all’altro può essere infatti molto utile per promuovere
flessibilità e fluidità e affrontare gli stessi temi da una prospettiva diversa.
4-4 Ruoli e funzioni dell’immagine artistica
- ottimizza e attua una comunicazione interpersonale;
- valorizza la comunicazione non verbale;
- facilita la rappresentazione del percorso dell'esperienza personale;
- permette ed evidenzia la consapevolezza e il confronto del vissuto individuale in relazione a
quello dell'altro;
- valorizza la frantumazione dei linguaggi;
- facilita una ottimale "contaminazione" fra culture differenti;
- portatrice di significati emotivi non convenzionali;
- contenitore flessibile per i problemi esistenziali avendo qualità di ambivalenza e ambiguità;
- attivatrice di modalità di pensiero divergente;
- permette il passaggio dal mondo concreto al mondo simbolico;
- esperienza del piacere (e non del dovere);
- un'esperienza duplice e plastica, (realtà & fantasia - piacere & realtà).
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4-5 Emisfero destro e creatività
Nell’arte terapia è importante scoprire le proprie risorse creative (ovvero la sorgente stessa da cui
dovrebbe nascere la capacita/possibilità di disegnare). Entrambi gli emisferi svolgono funzioni
cognitive superiori ma ciascuno è specializzato in diverse e assai complesse modalità di pensiero,
tra loro complementari. Le funzioni dell'emisfero sinistro sarebbero principalmente di tipo
verbale, analitico e razionale, mentre quelle dell'emisfero destro sarebbero non-verbali,
sintetiche, analogiche e intuitive. I due emisferi collaborano in diversi modi. A volte essi
cooperano con ciascuna metà, contribuendo alle sue specifiche capacità e assumendo quella parte
del compito che meglio si addice al suo modo di elaborazione delle informazioni. A volte invece, i
due emisferi operano singolarmente, vale a dire che uno di essi è attivo e 1'altro è più o meno
inattivo. Possono anche entrare in un conflitto tra loro, per cui una delle metà cerca di fare ciò che
l'altra "sa" di poter fare meglio. Si è potuto rilevare che, tra i due emisferi, quello che tende a
predominare è 1'emisfero sinistro. Ciò è anche dovuto al fatto che la nostra cultura valorizza in
particolar modo le caratteristiche di quest'ultimo. Le funzioni dell'emisfero destro sono: funzioni
intuitive, soggettive, relazionali, globali, libere dal concetto di tempo. Questi sono aspetti poco
apprezzati dalla nostra cultura, e vengono associati alla mano sinistra e al concetto di debolezza.
Basti pensare a come il sistema educativo, nei nostri paesi, sia tutto impostato sullo sviluppo
dell'emisfero verbale, razionale e temporale, a quasi totale discapito dell'emisfero cerebrale destro.
L'insegnamento avviene per gradi, i ragazzi imparano per fasi progressive, secondo uno schema
lineare. Le materie principali appartengono alla sfera verbale e a quella numerica: lettura, scrittura,
aritmetica. Si seguono degli orari. I ragazzi siedono in file. Si fanno domande e si danno risposte.
All'emisfero destro non si insegna quasi nulla. Certo, esistono l'insegnamento artistico e le
applicazioni tecniche, e oggi i programmi scolastici comprendono anche l'educazione musicale, ma
in nessuna scuola si svolgono corsi di immaginazione, di visualizzazione, di tecniche di percezione
spaziale, di creatività come materia autonoma, di intuizione o di inventiva. Le ricerche scientifiche
sulle funzioni cerebrali e sull'elaborazione dei dati visivi hanno dimostrato che la capacità di
disegnare dipende dalla possibilità di accedere all'emisfero destro, "disattivando" in certa
misura quello sinistro. Se il disegnare dipende dall'emisfero destro, ciò significa automaticamente
che tutti disponiamo delle potenzialità necessarie per farlo. Non tutti noi, però, siamo capaci di
utilizzare tali potenzialità, sia perché non siamo mai stati "educati" a farlo, sia perché
semplicemente non ne abbiamo l'abitudine. Di fatto, la maggior parte degli adulti, nel mondo
occidentale, non supera mai di molto il livello artistico raggiunto verso i nove o dieci anni. Questa è
l'età che corrisponde alla crisi dello sviluppo delle capacità artistiche nel bambino. Lo sviluppo
delle capacità artistiche del bambino avviene parallelamente alla maturazione del cervello. Nella
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primissima infanzia i due emisferi non sono specializzati in funzioni differenziate. Il processo di
lateralizzazione - cioè l'affermarsi di specifiche funzioni nell'una o nell'altra metà del cervello avviene per gradi nel corso della fanciullezza insieme all'acquisizione del linguaggio e a quella dei
simboli, che costituiscono l'arte del bambino. Questo processo si completa in genere attorno all'età
di dieci anni, e questo momento coincide con il sorgere dei conflitti nell'espressione artistica, dovuti
al sopravvento del sistema simbolico sulle funzioni percettive, i quali interferiscono con le capacità
di disegnare in modo preciso ciò che si vede. Si potrebbe ipotizzare che la conflittualità sia dovuta
al fatto che il bambino usa la parte "sbagliata" del cervello - quella sinistra - per eseguire un
compito che meglio si addice alla parte destra. Forse il problema sta nel fatto che a quell'età non si
riesce a escogitare un modo proprio per accedere all'emisfero destro, che attorno ai dieci anni è già
specializzato nella funzione del disegno. Inoltre, verso il decimo anno l'emisfero sinistro ha già
consolidato la sua posizione dominante, così nomi e simboli si impongono a scapito della
percezione spaziale e globale, complicando ulteriormente le cose. Ciò che più spesso accade quando
un adulto medio si propone di disegnare, è che il suo emisfero sinistro pretende di svolgere il
compito, pur non possedendo gli strumenti adeguati per farlo. Esso impedisce all'emisfero destro di
entrare in azione, sostituendo la possibilità di vedere in modo analogico, intuitivo, concreto e
globale ciò che si deve disegnare, con simboli precostituiti e rudimentali. Il primo passo da fare
sarebbe dunque quello di eseguire un esame retrospettivo delle proprie espressioni artistiche da
bambini, in modo da poter ripercorrere il costruirsi del proprio sistema di simboli artistici, e, in un
secondo momento, accantonarlo. È di fondamentale importanza, inoltre, imparare ad accedere
autonomamente e con fluidità alle modalità dell'emisfero destro, in modo da poterne fare uso al
momento di disegnare. Nel momento in cui ciò accade, il soggetto entra in uno stato di coscienza
diverso da quello abituale, caratterizzato, tra 1'altro, da un modo distinto di vedere le cose e da una
percezione dilatata del tempo. Imparando a riconoscere questo stato si riuscirà gradualmente anche
ad evocarlo quando necessario. Si fa un passaggio mentale, con due vantaggi: il primo, quello di
entrare in contatto, mediante un atto di volontà cosciente, con la metà destra del cervello,
sperimentando un nuovo tipo di coscienza che potremmo definire lievemente alterata; il secondo,
quello di vedere le cose in un modo diverso. Solo sviluppando queste due capacità si impara a
disegnare. Molti artisti hanno detto di vedere le cose in modo diverso mentre disegnano, e hanno
spesso accennato al fatto che l'essere concentrati su un disegno altera un poco il loro stato di
coscienza. Quel particolare stato soggettivo viene spesso definito come un sentirsi trasportare un
"sentirsi tutt'uno con il disegno" e contemporaneamente ci si accorge di percepire una serie di
relazioni che di solito non si è in grado di cogliere. Non ci si accorge del trascorrere del tempo, e il
mondo delle parole si ritrae dalla coscienza. Chi conosce questa condizione dice di sentirsi vigile,
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ma nello stesso tempo rilassato e privo di ansia, con la mente attiva e in una condizione piacevole,
quasi mistica.
4-6 Esperienza estetica, esperienza artistica e processo terapeutico nell'arte-terapia
Il termine arte-terapia ci propone un interrogativo sul senso del legame tra due distinte categorie;
tale dicotomia trova un superamento all'interno di un approccio terapeutico che ha la sua essenza in
una presa di contatto molto immediata con il livello preverbale e prelogico del vissuto, lì dove
originano il processo primario e la fantasia. L'arte-terapia è oggi qualcosa di notevolmente diverso
da ciò che fu ai suoi esordi, negli anni '40 e '50, quando cominciarono in America i dibattiti attorno
alle prime teorizzazioni, che più volte sono stati sintetizzati nelle formule 'arte come terapia'
(Kramer), o “psicoterapia attraverso l'arte” (Naumberg). Questo specifico processo terapeutico si
differenzia infatti da un approccio volto a integrare l'arte alla psicoterapia come una possibilità
accessoria, o volto a individuare nei processi o nei prodotti cosiddetti artistici un valore di per sé
terapeutico (in virtù della catarsi o della sublimazione); e si configura in modo del tutto diverso da
approcci di tipo comportamentale fondati su metodologie e su esercitazioni predefinite, assegnate al
paziente in base a precisi obiettivi di apprendimento. Si tratta infatti di stabilire una più profonda e
sottile compenetrazione tra i due versanti (arte e terapia), di definire cioè un setting preciso, fondato
sul parallelismo tra processo creativo e processo terapeutico; e di chiarire quale contributo e quale
specificità può portare all'interno del processo terapeutico una sensibilità estetica, rispetto alla
forma della relazione terapeutica, così come alle forme concrete e ai prodotti artistici in cui i vissuti
attivati nella relazione si incarnano. Il travaglio della creazione affonda le sue radici direttamente
nelle prime fasi del vissuto, lì dove la forma coincide con le vicissitudini della forma del proprio
corpo attraverso le cure della madre (nell'essere toccati, tenuti, cullati, carezzati,ecc.), e della forma
che si viene dando al mondo attraverso le prime relazioni con l'oggetto. L'esperienza estetica
affonda dunque le sue radici nel vissuto primario, quando è la madre che dà forma e trasforma seguendo Bollas - l'esperienza interna ed esterna del neonato, prendendosi cura di lui in modi
specifici (lo sfama, lo lava, ecc.). Con la crescita questo potenziale trasformativo viene poi riposto
in altri oggetti (oggetti-soggettivati) concreti o concettuali, investiti della capacità di promuovere un
profondo cambiamento del Sè; l'esperienza artistica occupa in questo contesto un posto di primo
piano. Già Winnicott riteneva che i fenomeni transizionali rimangono parte intrinseca
dell'esperienza dell'individuo adulto, in determinate aree della vita quali l'arte, la cultura, il lavoro
immaginativo o di creazione scientifica, la religione. La creatività viene così posta entro il contesto
dello sviluppo umano: essa permette nel corso della vita al proprio mondo immaginativo di divenire
congruente con l'esterno così che ciascuno possa in parte plasmare il proprio destino, e rendere
plasmabile il confine tra realtà e fantasia, recuperando l'illusione che il mondo esterno possa
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coincidere con il mondo interno, e la fiducia nella propria capacità creativa e trasformativa. Il
setting di arte-terapia si configura in questo senso come un luogo privilegiato in cui la memoria dei
processi arcaici che danno forma all'esperienza può riattualizzarsi: la relazione fisica con i materiali
presenti nel setting riattiva direttamente e concretamente le esperienze di contatto e di
comunicazione preverbale quali si sono date nella storia del paziente, e le particolari relazioni
oggettuali internalizzate; l'immagine acquisisce caratteristiche transizionali (è contemporaneamente
un oggetto percepibile fuori di sé , ma essenzialmente intriso del proprio sé più intimo); mentre la
potenzialità di un atto creativo cui sia il paziente che il terapeuta partecipano, inaugura una
potenzialità trasformativa. Il ricongiungimento ai vissuti più arcaici presuppone forme complesse di
esperienza, dense di caratteristiche percettive ed emotive spesso non esprimibili, o non esauribili,
verbalmente. I vissuti che risalgono alle prime fasi di sviluppo, sono di natura non-verbale e
assumono una forma attraverso l'energia, la sensazione, il ritmo, il peso, il volume, ecc.. Sono
difficili da esprimere in forma verbale, ma piuttosto si esprimono attraverso il mezzo artistico, che
incarna qualità sensoriali e possiede caratteristiche visive. Nell'atto del creare, il gesto, il contatto
con i materiali, la traccia riprendono l'aspetto tattile e sensorio del corpo e lo trasferiscono verso
l'occhio: il processo di dipingere ricalca il processo di presa di distanza del bambino rispetto al
corpo materno, e il processo di separazione psichica, inteso come percorso non lineare ma ciclico.
Se le esperienze primarie vengono quindi rispecchiate nelle immagini e nel lavoro con i materiali,
contemporaneamente vengono smosse dall'uso di appropriati materiali. In questo senso ciò che
viene creato (mi riferisco non tanto al prodotto finito, quanto alle vicissitudini del suo emergere)
non è mai solo traduzione di un pensiero astratto o rappresentazione, ma è espressione inconscia e
incarnata di un vissuto; non pura trascrizione di un vissuto nel concreto, ma rielaborazione del
vissuto stesso e riattivazione di un processo che può essere stato inadeguato, o distorto, o bloccato.
Nel setting il processo terapeutico si attua quindi in un campo tripolare, all'interno della relazione
triadica tra paziente, terapeuta, immagine (anche potenziale). Perché si possa parlare di arte-terapia
nessuna delle tre direttrici della relazione può mancare o fare a meno dell'altra, e ognuna riceve
spessore dalle altre due, riflettendosi in una più complessa dinamica transferale-controtransferale.
Gli strumenti e le diverse possibilità di intervento del terapeuta, così come il senso dei diversi
materiali, o le funzioni dell'oggetto creato, possono essere compresi adeguatamente solo a partire da
questo rapporto triadico. Le possibili tecniche utilizzabili o i parametri di osservazione e di analisi
delle immagini (modo di riempire lo spazio, rapporto figure-sfondo, equilibrio delle parti, colori
usati, movimenti interni, astrazione, volume, ecc.) acquisiscono un potenziale trasformativo solo
all'interno del dialogo terapeutico, a sua volta fondato sulla comune attenzione alle immagini che
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prendono forma. In questo ambito si possono intendere meglio alcune caratteristiche dell'esperienza
estetica:
- il coincidere di oggetto e processo;
- il profondo legame tra forma, contenuto e modalità di creazione;
- il graduale e privilegiato instaurarsi di una comunicazione profonda ed inconsapevole.
L'esperienza viene resa possibile da uno spazio terapeutico protetto e rassicurante, che possa
contenere, sostenere e facilitare (quale holding environment), senza rinunciare a un'atmosfera
giocosa e priva di giudizio. In virtù di questo ambiente, l'esperienza artistica (anche quando rimanga
solo potenziale) può stimolare l'espressione simbolica dei contenuti dell'inconscio e può essere
intesa come il prendere forma di ciò che non aveva forma. Il disegno può configurarsi come un
oggetto transizionale, percepibile fuori di sé e nello stesso tempo investito di una parte molto intima
di sé. L'immagine diviene ponte tra le varie parti del Sé, tra mondo interno e mondo esterno, tra
paziente e terapeuta, tra sé e gli altri membri del gruppo; diviene un veicolo attraverso cui si può
comunicare, e nello stesso tempo si può nascondere ciò che non può, o non può ancora, essere
espresso.
4-7 Psicologia Umanistica e Arteterapia: un'integrazione
Si tratta dell’individuazione di un percorso in cui, con l'individuo cliente/paziente, il terapeuta
ricerca l'accettazione e promuove fasi momentanee di "caos", tese a creare livelli superiori di
ordine e organizzazione. Ciò avviene attraverso processi di crescita interna e di modificazione
creativa dell'ambiente. Armonia, dunque, come realizzazione più piena delle potenzialità
individuali attraverso fasi di luce/ombra; un concetto, questo, ampiamente accolto e sviluppato
dalla Psicologia Umanistica. Il nome "Umanistica" si ricollega idealmente all' umanesimo che, nel
terzo secolo, espresse un concetto innovativo, in cui l'uomo vedeva se stesso e ritrovava la capacità
e la voglia di porsi al centro del proprio mondo, riprendendosi la consapevolezza e la responsabilità
della propria vita, senza delegare il proprio destino a forze occulte, a Dio, alla chiesa o allo Stato.
L'Umanesimo è già Rinascimento ed è l'espressione di quello spirito innovatore che dalla fine del
Trecento e a tutto il Quattrocento avvia un processo di rivitalizzazione culturale e artistica nella
piena coscienza del distacco dai secoli bui del medioevo. Gli Umanisti cercarono l'immagine di se
stessi, una patria dell'anima. Gli Umanisti intesero il passato come punto di riferimento ideale
necessario all'uomo moderno per l'ardita costruzione del suo nuovo destino. La filosofia umanistica
fa dell'uomo il centro dell'universo, lo celebra artefice e arbitro del suo cammino, ne esalta
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l'intelligenza intuitiva e creativa, l'energia con la quale assoggetta la fortuna, il destino, il caso e
costituisce il mondo e il centro della sua storia. L’umanesimo fu un fenomeno che segnò la nascita
della moderna civiltà. Il tema centrale diviene l’uomo con la sua dignità, la sua eccellenza e la sua
creatività che si esprime attraverso una imitazione originale. Homo faber ipsius fortunae: l'uomo è
fabbro della propria sorte; ha, cioè, la possibilità di progettare, forgiare se stesso in mille forme
camaleonticamente diverse. L'uomo deve dunque costruire e conquistare per se stesso il proprio
posto nell'essere. Questa stessa visione dell'uomo la ritroviamo sorprendentemente attuale e viva
nella Psicologia Umanistica integrata con quella del futuro umanesimo, ove l'uomo é ormai senza
Dio (Marx, Feuerbach, Nietzsche, Sartre); c'è un filo, dunque, che lega l'Umanesimo all'altra, più
diretta
e
articolata,
radice
filosofica
della
Psicologia
Umanistica:
l'esistenzialismo.
L'esistenzialismo è stata quella corrente di pensiero europeo del XIX e XX sec. che ha sottolineato
la condizione drammatica dell'uomo assediato dalla solitudine e dall'impotenza del suo "essere
gettato nel mondo", eppure capace di reagire con la creatività e con le sue libere scelte.
Dall'esistenzialismo la Psicologia Umanistica ha mutuato, dunque, l'insofferenza per il pensiero
filosofico e psicologico tradizionale perché accademico, astratto e lontano dalla vita e un'allergia
per le concezioni sistematiche delle scienze. Rilevanza prioritaria ha il rapporto tra uomo e realtà
cioè quel valorizzare il modo personale e unico di vivere la propria realtà che caratterizza ogni
persona, già individuato da Kierkegard; immensa importanza hanno l'impegno, la scelta, la
decisione individuale. Sono temi ampiamente ripresi e interpretati dai grandi pensatori
esistenzialisti (da Heidegger a Jaspers, da Sartre a Camus), come momenti cruciali nel processo di
autorealizzazione dell'essere umano. È esplicitante ricordare la visione di Camus fedele alla radice
libertaria dell' Umanesimo, che non individuò mai nei miti salvazionisti la sorgente della felicità.
Psicologia Umanistica era il nome di una rivista fondata nel 1961 dallo psicologo americano
Anthony Sutich e lo stesso nome fu adottato da Abraham Maslow nel 1962 quando fondò, con un
gruppo di psicologi, una nuova associazione che si proponeva come finalità essenziale di studiare le
dinamiche emozionali e le caratteristiche comportamentali di un'esistenza umana piena e vitale
coagulando intorno a sé un movimento aperto non solo agli specialisti, ma a tutti quelli che ne
condividessero lo spirito, la cosiddetta Terza Forza decisa: contestare le pretese monopolistiche e le
concezioni deterministiche degli indirizzi psicologici già storicamente affermati: la psicologia
dinamica e la psicologia comportamentista. I temi cardine della Psicologia Umanista sono:
- Attenzione sulla persona e sull'esperienza;
- Interesse per qualità umane come la scelta, la creatività, l'autorealizzazione.
- Priorità al bisogno di significatività.
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- Valorizzazione della dignità della persona.
- Interesse allo sviluppo del potenziale di ogni essere umano.
Contribuirono al movimento una quantità di nuove scuole americane ed europee: dalla terapia non
direttiva di Carl Rogers, alla Gestalt di Fritz Perls, all'analisi transazionale di Eric Berne, alla
bioenergetica di Alexander Lowen, dalla psicosintesi di Assagioli alla logoterapia di Franke. Con
profonde differenze metodologiche, ma con in comune la tendenza a privilegiare l'emozione e
l'esperienza, rispetto al concetto e alla teoria, nel processo terapeutico. Nel 1970 si tenne ad
Amsterdam il 1° congresso internazionale di Psicologia Umanistica; una delle tendenze
fondamentali che emerse fu che la persona umana può e deve essere studiata nella sua interezza,
rivendicando la comprensione anziché l'interpretazione, quale strumento ottimale per lo studio
dell'uomo. Su un altro concetto si trovarono a concordare: la tendenza all'autorealizzazione; intuita
già nel 1939 da K.Goldestin neuropsichiatra tedesco e sviluppata poi da C. Rogers, R. May, V.
Franke, C. Buhler, Maslow, ecc. Quali sono dunque, per la Psicologia Umanistica, i significati e le
finalità dell'esistenza? Solo la singola persona può trovare i significati e gli scopi della propria vita,
tuttavia gli psicologi umanisti ritengono che significato e finalità gravitano in tutti gli esseri umani
intorno a due poli cardinali:
- dare e ricevere amore.
- perseguire creativamente una ricerca e/o un impegno.
Da Reich, dai neo-Freudiani e dalla Psicologia Umanistica in particolare saranno poi prese in
considerazione le contraddizioni politico-sociali in una visione storica più profonda per
comprendere l'influenza e l'interazione dell'ambiente sull'individuo. La Psicologia Umanistica, e
con essa l' Arteterapia, si pone, rispetto all'individuo e alla società, come momento integrativo, sia
delle posizioni più antiche che sostenevano l'individuo, sia di quelle positivistiche che invece
assolvevano la società e colpevolizzavano l'individuo, superando anche le concezioni psicanalitiche
nel considerare il contesto in cui la persona vive la sua storia. I nuovi concetti dunque sono:
- Individuo come globalità.
- Vita umana come un "continuum" di comportamenti.
- Concezione olistica della realtà.
Per noi la consapevolezza che ne deriva è che la salute consiste nel realizzare la propria natura,
nell'attualizzare le proprie potenzialità e nel raggiungere la maturità attraverso una crescita
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dall'interno e non un modellamento dall'esterno; quindi tutto ciò che disturba o impedisce
l'autorealizzazione può essere per l'uomo sintomo e causa della perdita della salute stessa.
Dunque, se accettiamo che i bisogni si realizzano solo nel rapporto del singolo con l'ambiente è
evidente come il disagio, la sofferenza, la malattia, sono per l'individuo espressione diretta delle
contraddizioni che si sviluppano oggi nel nostro sistema sociale; sono cioè lo sforzo stesso della
persona per costruirsi dei meccanismi di adattamento nel cercare un equilibrio tra il sé e il non sé;
tra l'io e il tu, tra sé e l'altro, tra sé e l'ambiente. Il terapeuta non ha modelli da fornire. Ha solo la
possibilità di costruire assieme al suo interlocutore, per se stesso e per l'altro, prefigurazioni di
felicità abitanti in mondi possibili, alle quali a volte si può accedere, a volte no. Ciò dipende da tanti
fattori soprattutto però dipende dalla capacità e disponibilità degli interlocutori di abbandonare gli
scenari abituali per saltare o spostarsi in scenari nuovi che l'estro e la tecnica gli suggeriscono.
Abbiamo così identificato il campo d'intervento ove opera l'Arteterapia cresciuta e facente parte del
fertile filone della Psicologia Umanistica e come, mediante Gruppi Terapeutici e d'incontro o
terapia individuale. L'Arteterapia infatti risponde molto bene al bisogno di conoscere se stessi più
profondamente, di dare direzionalità e significato alla vita.
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MATERIALI E METODI
1- COLLOQUIO DI GRUPPO E INDIVIDUALE
BATESON
La premessa epistemologica che orienta e dà una forma alla conoscenza dell’ essere umano è l’
olismo che appartiene alla natura stessa, ossia la sua capacità di generare totalità complesse le
quali possiedono proprietà mancanti alle singole parti. L’interazione tra il soggetto e la realtà è
tale da impedire un’osservazione neutra. L’uomo inoltre è un sistema autocorrettivo, il cui
esserci nel mondo è di tipo interattivo,un circuito di scambi e di coevoluzione.
La possibilità di correzione è legata a un meccanismo retroattivo che mediante il feed-back di
correzione e apprendimento consente di raggiungere una organizzazione più elevata. Si introduce
un’ informazione nel sistema in grado di perturbarne il suo funzionamento.
Un altro importante paradigma è quello della mente umana che,secondo Bateson, per esser tale
deve rispettare sei regole:
9
La mente è un aggregato di parti o componenti interagenti.
9
L’interazione tra le parti è attivata dalla differenza.
9
Il processo mentale richiede un’energia collaterale.
9
Il processo mentale richiede catene di determinazioni circolari o più complesse.
9
Nel processo mentale gli effetti della differenza devono essere considerati
trasformati, cioè versioni codificate della differenza che li ha preceduti.
9
La descrizione e la classificazione di questi processi di trasformazione rivelano una
gerarchia di tipi logici immanenti ai fenomeni.
Il gruppo perciò è una mente collettiva sistemica complessa in cui le relazioni tra i membri sono
attivate dalle loro differenze che producono trasformazioni, possibilmente terapeutiche nel caso
di psicoterapie di gruppo.
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FOULKES
Il suo pensiero relativo all’approccio psicoanalitico applicato alla psicoterapia di gruppo, risentesi
molte influenze tra cui quelle della sociologia,della psicologia della Gestalt e dell’ antropologia
culturale.
L’uomo infatti è un animale sociale, caratterizzato da una naturale tendenza a stabilire relazioni.
Inoltre ,considerando il principio della Gestalt per cui il tutto precede ed è più elementare delle
parti,l’uomo risulta parte di un gruppo che è l’unità fondamentale dell’individuo. Ci si sposta da
un’ottica intrapsichica a una interpersonale e transpersonale, in cui l’uomo è analizzato nel suo
contesto.
Il gruppo terapeutico è visto come uno strumento di cambiamento, che v avrebbe la finalità di
ribaltar il circolo vizioso della situazione psicopatologica per cui come il gruppo fa star male,il
gruppo può guarire.
Nella comunicazione i membri ricercano un senso comune a cui aggiungere l’esperienza personale
per costruire la realtà mentale.
La crescita inizia ad esserci quando emerge la consapevolezza che le affermazioni di ciascun
membro sono assunte come vere ma in maniera parziale, ovvero sono verità parziali di ciascun
osservatore.
Ogni comunicazione però è rilevante e anche risposte e reazioni a comunicazioni iniziali divengono
esse stesse comunicazioni fondamentali. Si crea quindi gradualmente uno spazio per le differenze
dei significati di ogni persona.
Il gruppo è costretto a stabilire e negoziare un linguaggio comune.
L’ascolto e la comprensione favoriscono la comunicazione e lo scambio.
Al di là dell’analisi dell’inconscio collettivo,che è fondamentale in Foulkes, la sua psicoterapia si
incentra sul “qui e ora” ,ovvero sulle relazioni immediate e presenti in gruppo che intensifica e
amplifica gli aspetti sociali e internazionali che nella psicoanalisi vengono messi in luce solo nel
transfert.
ELEMENTI COSTITUTIVI DEL COLLOQUIO PSICOLOGICO INDIVIDUALE:
Il colloquio individuale si incentra maggiormente sulla relazione paziente-terapeuta e su ciò che si
trasferisce in quel rapporto, in quel particolare contesto ambientale e temporale. Quella relazione si
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fa portatrice di relazioni antiche del paziente e dei vissuti emotivi del suo passato fantasmatico
lasciato in sospeso e non risolto.
Se il gruppo aveva una vita a sé, indipendente anche dallo stesso psicologo e il gruppo in un certo
senso era auto terapeutico e trasformativo, ora lo psicologo assume un ruolo di primo piano, anche
coi suoi vissuti e le sue risposte alla domanda di aiuto del paziente.
Qui di seguito sono riportati in modo schematico gli elementi da tenere in considerazione nel
colloquio individuale, e anche dei possibili ostacoli e interferenze.
1) Il Setting, di cui vengono esaminati:
- Setting esterno:
- i significati espliciti ed impliciti dei fattori spaziotemporali;
- la persona dello psicologo stesso;
- significati e psicologo: le loro funzioni e la loro gestione.
- Il setting interno:
- quale assetto stabile dello psicologo nella relazione;
- la funzione di variabile incidente;
- l'andamento del colloquio.
- La costruzione e la gestione del setting.
2) La comunicazione:
Si porrà un particolare accento sulle abilità della comunicazione verbale dello psicologo, senza
tralasciare gli aspetti non verbali.
- La comunicazione viene intesa come:
- elemento costitutivo del colloquio;
- abilità del conduttore nella costruzione di un percorso di conoscenza dell’Altro;
- abilità del conduttore nella costruzione di un percorso di conoscenza di sé;
- abilità del conduttore nella costruzione di un percorso di conoscenza della relazione.
- Comunicazione, aspetti principali:
- Gli atteggiamenti spontanei.
- Gli "errori fondamentali".
- I meccanismi di difesa.
- Le misure di sicurezza.
3) La Relazione:
- Gestire la relazione secondo le finalità.
- La relazione come tecnica.
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- La relazione come feedback.
- Le alleanze.
- Le finalità e gli obiettivi.
- Le fasi del Colloquio Psicologico.
- Le fasi del primo Colloquio in ambito Clinico.
4) Le Tecniche:
- Le tecniche di osservazione.
- Le tecniche di auto-osservazione.
- Le tecniche per l'ascolto.
- Le tecniche per l'empatia.
- Lettura della domanda.
- Raccogliere dati ed elaborare deduzioni.
- Porre le domande secondo gli obiettivi.
- Strategia dell'ascolto e della domanda.
- Tattiche dell'ascolto e delle domande.
- Riformulazioni.
- Restituzione.
2- TEST SULL’IMPULSIVITÀ
La scala dell’inglese Barratt per la misura dell’impulsività è correlato significativamente con azioni
aggressive e misure ADHD. Inoltre è correlato a condotte compulsive di dipendenza come i binge
eating, il consumo di alcol e droghe.
La misura del livello di impulsività generale e specifica è stato davvero importante nel caso di
soggetti borderline caratterizzati proprio dal discontrollo degli impulsi.
Le tre aree prese in esame sono la capacità attentiva, il controllo motorio e la pianificazione
mentale. Sono tre stadi collegati per capire un “acting out” e la sua frequenza.
Monica B. è stata sottoposta a tre somministrazioni per cogliere a piene l’evoluzione de suoi vissuti
rispetto alle pulsioni e al suo modo di esprimerle.
Questo test ha avuto valenza soprattutto in ambito carcerario e psichiatrico ponendo l’attenzione sul
circuito che porta all’azione che in apparenza sembra non avere una ragione, né una modalità di
controllo. Tuttavia l’ attenzione è una componente molto importante in quanto focalizza i pensieri
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su emozioni negative come la frustrazione, la rabbia, l’angoscia, la disperazione le quali sono già da
sé invasive e invalidanti ma che con i riflettori puntati addosso si espandono, si ingigantiscono fino
a divenire mostri da cui non possiamo far altro che essere fagocitati perdendo qualsiasi facoltà di
pensiero e qualsiasi difesa.
La pianificazione mentale è la logica costruzione di un percorso per arrivare alla soluzione di un
problema, ma richiede flessibilità funzionale che spesso è irrigidita o addirittura bloccata dalle
mozioni che interferiscono o da pregiudizi o errori comuni di ragionamento. Questo cocktail è
frastrornante e disorientante.
Infine il controllo motorio è dato dall’abitudine al controllo, dall’educazione ricevuta, dal contesto
ambientale e lavorativo in cui si vive giorno per giorno, dalla supervisione interna ovvero dalla
strutturazione del proprio Super-Io, dal senso di colpa in caso di eventuale perdita di controllo.
3- LO STRUMENTO DELL’ARTETERAPIA
L’arteterapia può essere considerata come l’insieme degli strumenti terapeutici che utilizzano come
principale strumento il ricorso all’espressione artistica allo scopo di promuovere la salute e favorire
la guarigione e il benessere, e si propone come una tecnica dai molteplici contesti applicativi
Le risorse utilizzate sono le potenzialità che ognuno di noi possiede, chi più chi meno, di elaborare
il proprio vissuto e di esprimerlo creativamente; dove educare sta per e-ducere, cioè portar fuori e,
nella pratica terapeutica e riabilitativa, portar fuori dal buio verso una maggiore conoscenza e
consapevolezza.
Il focus dell’arteterapia, più che sul prodotto artistico finale, è sul processo creativo in sé. Ciò che è
importante è soprattutto l’esprimersi, il creare. L’atto di produrre un’ impronta creativa, infatti,
permette all’individuo di accedere agli aspetti più intimi e nascosti di sé, di contattare ed esprimere
le emozioni più recondite e spesso inaspettate, e di sperimentare e potenziare abilità spesso ignorate
o inutilizzate. In questo senso il processo creativo, al di là del contenuto, è già terapeutico in sé.
Ciò non toglie che queste impronte creative, e cioè i prodotti finali dell’espressione artistica,
possano svolgere altre importanti funzioni. Prima di tutto rappresentano per “il creatore” una traccia
di sé, la testimonianza della propria auto-affermazione e il ricordo delle esperienze vissute durante
la sua produzione, e dunque un punto di partenza per ulteriori riflessioni. Inoltre, in quanto
rappresentazione simbolica del mondo interno del soggetto, rappresenta per il terapeuta uno
strumento privilegiato di accesso ai suoi contenuti interni, e dunque un materiale molto ricco ai fini
della diagnosi e di una maggior comprensione del paziente durante il percorso di supporto. Le sue
origini, tuttavia, possono essere rintracciate nell’antico ed eterno rapporto tra cultura, arte, e
sviluppo sociale. “Alcuni autori sono arrivati a suggerire che tra arti e società esiste un legame
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inscindibile: perciò, la salute di una società si riflette nella sua attività artistica, e viceversa.
Analogamente, si è detto che l’esercizio del diritto a produrre la propria impronta creativa può
essere considerato come indice di salute dell’individuo.” (Warren,1993).
Da sempre l’arte è considerata una forma di comunicazione importante, che riesce ad arrivare dove
le
parole
non
riescono
ad
arrivare.
Ciò
è
di
gran
interesse
per
la
psicologia.
In che modo l’arteterapia, e cioè il fare arte, può diventare momento di cura e terapia?
Ci sono una serie di caratteristiche intrinseche al fare arte che rendono l’impegnarsi in questa
attività di per sé terapeutica. È stato dimostrato che quando una persona è immersa in un’attività
creativa riceve una serie di sollecitazioni a livello fisico, intellettuale ed emozionale che portano a
mutamenti organici e psicologici che favoriscono i processi di guarigione.
A queste proprietà benefiche del fare arte, l’arteterapia unisce la guida competente
dell’arteterapeuta, che deve saper utilizzare al meglio questi strumenti, adattandoli via via alle
persone e alle situazioni, e amplificando determinati aspetti a seconda degli obiettivi prefissati.
1- Fare arte riprende le modalità di conoscenza e azione sul mondo tipiche del bambino. Vi è
infatti, come nel gioco infantile, una totale presenza e coinvolgimento verso ciò che si sta vivendo;
vi è la possibilità, e lo stimolo, a prendere confidenza e sperimentarsi in tutte le ipotesi che la realtà
e le proprie potenzialità presentano, e per di più divertendosi, e non con la fatica, e spesso l’ansia,
che invece di solito presenta l’adulto nel momento i cui deve ricercare soluzioni o prendere
decisioni, e che spesso lo porta a rinchiudersi in automatismi e comportamenti fissi e ripetitivi,
sicuramente più comodi e rassicuranti ma anche, appunto, fissi, stabili, non in evoluzione.
In questo senso l’arteterapia, oltre a costituire un mezzo elettivo per “lavorare” con i bambini,
favorisce un allargamento degli schemi abituali con i quali l’adulto vede e si relaziona alla realtà,
sia interna che esterna, e lo stimola a prendersi la libertà di individuare, contattare e sperimentare
tutte le potenzialità inespresse in un clima emotivo più rilassato e ludico.
2- Fare arte coinvolge l’individuo nella sua totalità mente-corpo. L’attività creativa richiede infatti
non solo un impegno intellettivo e cognitivo - legato all’immaginazione e all’ideazione del
‘prodotto artistico ’ - ma anche un impegno percettivo, sensoriale, e motorio, legato alla produzione
artistica in senso stretto. Le tecniche legate all’arteterapia hanno dunque la funzione di porre in
miglior comunicazione soma e psiche, mente e corpo, e di far in modo che vi sia un rapporto più
fluido ed equilibrato, e dunque più sano, tra questi due inscindibili aspetti che ci costituiscono,
troppo spesso vissuti in maniera separata, opposta, conflittuale e alternativa.
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3- Fare arte, nel senso di impegnarsi in un’attività nuova e creativa, promuove inoltre l’attivazione
dell’emisfero destro del cervello, che presiede appunto alle attività creative, alla fantasia,
all’intuizione, alla comunicazione e ai segnali corporei (pensiero analogico). Nella nostra società
contemporanea, e in particolar modo in quella occidentale, il pensiero analogico viene ritenuto di
solito come meno importante rispetto al pensiero logico-razionale, dovuto invece all’attività
dell’emisfero sinistro. In realtà, invece, come necessitiamo di due gambe per poter camminare
correttamente, allo stesso modo abbiamo bisogno dell’attività congiunta dei due emisferi del
cervello per poterci adattare adeguatamente alla mutevole realtà. Il così detto “pensiero laterale”,
infatti, il cui sviluppo viene promosso dall’attivazione dell’emisfero destro, è fondamentale per
arginare i limiti del pensiero logico-formale. Come bene sintetizza il medico psicologo De Bono
(Manzelli, Neuroscienze.net), il pensiero laterale permette di riconoscere i criteri e le idee
dominanti che di solito polarizzano la percezione di un problema, di cercare dunque modalità nuove
di guardare ed operare sulla realtà, e quindi di rendere più flessibile il rigido controllo del pensiero
logico-razionale e stimolare lo sviluppo della creatività. L’arteterapia dunque diviene un’importante
opportunità per dedicare spazio e tempo, e dunque promuovere e potenziare, queste fondamentali
capacità.
4- Fare arte implica il ricorso al linguaggio dei simboli. Dipingere, disegnare, plasmare, danzare,
implicano un’attività nella quale tutti i nostri sensi vengono stimolati e noi veniamo assorbiti nella
nostra totalità. Ciò che proviamo e sperimentiamo si riflette nella nostra produzione artistica in
termini di qualità ed intensità di linee, tratti, colori, movimenti, nel modo in cui usiamo il tempo e
lo spazio, eccetera. Per cui l’espressione artistica si propone come un riflesso, una rappresentazione
simbolica del nostro mondo interno e delle modalità che usiamo nel rapportarci alla realtà.
È proprio la caratteristica di utilizzare il linguaggio dei simboli, e dunque non solo quello verbale,
che rende l’arteterapia un canale privilegiato rispetto alle altre forme di terapia. L’espressione
artistica funge infatti da fattore di protezione e contenimento, e da oggetto mediatore nella relazione
tra l’utente e il terapeuta, e così, pur rispettando i meccanismi di difesa, in qualche modo li aggira e
favorisce la libera espressione di sé, una maggiore autoconsapevolezza e l’attivazione di risorse
creative.
È infatti più facile parlare di un disegno, di una poesia, di un brano musicale, di un film o di
qualsiasi altro prodotto artistico, che parlare di sé, del proprio mondo in modo diretto.
Va aggiunto anche il fatto che l’arteterapia, pur essendo utilizzata anche nel corso di terapie
individuali, si svolge di solito in un contesto di gruppo. La presenza del gruppo svolge infatti
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molteplici funzioni. Prima di tutto, crea quell´atmosfera di spontaneità e quella sensazione di
contenimento necessaria affinché ogni membro possa esprimersi liberamente. Inoltre, consente al
soggetto di rendersi conto di non essere solo in una situazione difficile unica, ma di trovarsi, sia
pure nella specificità dei propri vissuti personali, in una situazione comune ad altri e da altri
"partecipata". L´intero gruppo, infatti, discute e si confronta sui vissuti dei singoli membri, e questo
non solo permette al singolo di percepire una rassicurante sensazione di contenimento, ma offre
anche all´intero gruppo un´importante occasione di confronto, di crescita, di trasformazione.
Per tutte queste caratteristiche intrinseche del fare arte, l’arteterapia riesce a superare i limiti delle
terapie esclusivamente verbali. Facendo ricorso alle modalità infantili, ai più diversi registri
sensoriali e comunicativi, e stimolando la creatività, l’arteterapia permette a tutti, e soprattutto a
chi ha, per qualsivoglia ragione, difficoltà di comunicazione di esprimere emozioni e sentimenti
inibiti, o di cui è difficile parlare; identificare ed affrontare conflitti e blocchi emozionali;
migliorare la conoscenza e il rapporto con il proprio corpo; aumentare l’autoconsapevolezza;
incrementare l’autostima e la percezione di autoefficacia; affermare sé stesso e la propria
identità/individualità; sviluppare nuove strategie di comportamento; incrementare le capacità
relazionali-comunicative.
a- Laboratorio di arteterapia
Nel setting di arte-terapia ogni materiale implica messaggi differenti, e possono essere scelti per
quel particolare paziente nel contesto di una adeguata osservazione , in considerazione delle difese,
del livello di relazioni oggettuali, di struttura dell'Io. Anche in rapporto alle qualità tattili dei
materiali, alle possibilità di controllo o di stratificazione che essi offrono, al grado di
coinvolgimento muscolare necessario, il terapeuta proporrà un materiale piuttosto di un altro, a
seconda della richiesta psicologica del momento: sostenere , confrontare, sfidare, rispecchiare.
Se i primi rapporti con il mondo esterno avvengono attraverso sensazioni corporee, e questo sia su
un piano percettivo che comunicativo, ogni materiale può sostituirsi ai prodotti corporei o al cibo,
come materiali solidi e plasmabili -es. il didò- oppure materiali più liquidi come la tempera –con
richiamo al liquido amniotico e la simbiosi materna- nelle valenze regressive ma anche di scambio
vitale; e può di per sè divenire veicolo di significati psichici.
La materia grezza come la carta da collage, non riceve passivamente, ma possiede qualità
specifiche che le permettono di divenire molte forme ma non ogni forma: l'espressione,
incarnandosi, si svela aldilà e a volte a dispetto delle intenzioni e di ogni progettualità, facendosi
incontro al suo creatore nel foglio che resiste, nella macchia di colore, nell'andamento di una linea,
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nel tono muscolare. Ne può risultare un'immagine che sorprende a volte il suo stesso esecutore. È
dunque l'oggetto creato stesso che, a seconda del momento e della relazione, può svolgere diverse
funzioni. L'oggetto - o il terapeuta attraverso l'oggetto - può cioè assumere il ruolo di oggetto
trasformazionale investito della possibilità di cambiare il Sé del paziente.
Il lavoro di elaborazione può quindi essere portato su un piano di maggiore consapevolezza, ad
esempio attraverso interpretazioni verbali; o rimanere su un livello più simbolico e riferito al
contenuto o alla forma dell'oggetto o al processo che viene concretizzandosi nell'incontro, ad
esempio con interpretazioni più metaforiche, con associazioni verbali, con tecniche di
amplificazione dell'immagine o di parti di essa, o con proposte di materiali. Il terapeuta può in caso
di necessità intervenire sul disegno di un paziente aiutandolo laddove le parole non bastano, come
nel caso di soggetti schizofrenici.
b- FUNZIONI DELL’OGGETTO CREATO
1- L'oggetto creato può assumere in altri contesti funzioni diverse: funzione transizionale, di ponte
tra mondo interno e realtà esterna, tra Sé e altro da Sé, tra paziente e terapeuta (ad esempio nei
momenti che precedono delle separazioni , incorporando elementi del paziente e del terapeuta); o
funzione narcisistica, quale oggetto-Sé, di rispecchiamento e di sostegno del Sé del paziente.
2- Un'altra funzione dell'immagine è quella di contenere e di organizzare l'esperienza interna.
Nel setting di arte-terapia contenuti emotivamente anche troppo densi e concreti, così come la
tendenza all'agito, possono quindi essere sperimentati e ricondotti in una forma simbolica che
nell'esprimerli li contenga, offra una possibilità di intervenire su essi più attivamente e li restituisca
al loro autore in forme meno spaventose.
3- Vi è la funzione di congiunzione triadica tra soggetto-terapeuta-opera. Come davanti ad una
scultura, ad una pittura o ad una danza, l'intervento estetico appartiene a chi ha eseguito l'opera ma
anche a chi la guarda (sintonizzandosi sul ritmo, sui movimenti interni, sulle risonanze), così
nell'incontro terapeutico l'opera - o piuttosto l'operare - del paziente viene accolto da un terapeuta
che ha coltivato durante la sua formazione una sensibilità ed una disponibilità specifica a quel tipo
di ascolto, e che chiamiamo sensibilità estetica, avendo egli stesso sperimentato e affrontato le
peripezie del divenire della forma, e l'indissolubile legame tra creazione e distruzione.
Se quindi possiamo analizzare le caratteristiche del rapporto sia del paziente sia del terapeuta
rispetto all'oggetto creato, dobbiamo evidenziare come emerga spesso una discrepanza tra relazione
diretta paziente-terapeuta e relazione attraverso le immagini: gli aspetti più spaventosi o difesi
possono esprimersi nelle realizzazioni artistiche, a volte contraddicendo quanto emerge nella
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relazione terapeutica; o al contrario può apparire nella forma una forza costruttiva e vitale che non è
arrivata a manifestarsi nella diretta interazione col terapeuta. L'immagine può assolvere cioè un
ruolo particolare ed esprimere valenze diverse (complementari, integrative, riparative) da quelle che
si collocano nel rapporto tra paziente e terapeuta.
Ecco altre importanti funzioni:
4- ludica (per creare in maniera divertente e coinvolgente)
5- narrativa (per raccontare di sé e ripercorrere la propria storia, affermando la propria identità)
6- conoscitiva (per porsi e rispondere a delle domande su di sé e sul rapporto col mondo)
7- proiettiva. Il disegno infatti permette di esplicitare i propri conflitti e le proprie ansie che,
assumendo concretezza e divenendo finalmente qualcosa di esterno a sé, trovano finalmente il
distacco necessario per poter essere affrontate in maniera meno ansiogena quei conflitti e blocchi
emozionali.
Noti sono i numerosi test proiettivi che utilizzano le arti grafiche e in particolar modo il disegno,
come il test della figura umana di Manchover, il test dell’albero e della famiglia di Koch, e il test
della casa di Buck. A prescindere dai test, qualsiasi tipo di disegno contiene ovviamente aspetti
proiettivi, che si ritrovano nel modo in cui viene utilizzato lo spazio (in questo caso il foglio), il tipo
di tratto, e i colori utilizzati.
Il disegno può inoltre essere utilizzato in arteterapia come strumento di analisi delle dinamiche di
gruppo e del modo in cui ciascun soggetto interagisce nel gruppo. Proponendo, ad esempio, un
disegno di gruppo – in cui sia lo spazio (il foglio), che gli strumenti (colori, matite, etc.), che il tema
sono unici per tutto il gruppo – potranno rendersi evidenti le dinamiche di potere all’interno del
gruppo e le modalità che il gruppo elabora per la risoluzione degli eventuali conflitti, nonché il
modo in cui ciascun membro si relaziona al gruppo, alle sue dinamiche di potere e al conflitto in
maniera indiretta ma più chiara.
c- SCELTA DEI MATERIALI
Per quanto riguarda la pittura possono essere utilizzate tutti gli strumenti e tutte le tecniche
pittoriche, come ad esempio i pennarelli, le tempere, gli acquarelli, i colori a dita, il collage e così
via. Va tenuto presente che anche la scelta di un certo strumento ha un valore simbolico:
-
pennarelli, facili da usare e con un tratto nitido e definito, danno sicurezza;
-
le tempere e, ancora di più, i colori a dita sporcano e richiedono un coinvolgimento
maggiore, e infatti di solito non vengono usati da persone con tratti ossessivocompulsivo;
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-
il collage, che richiede un minor impegno creativo perché si tratta solo di
assemblare, viene di solito scelto da persone che si sentono in qualche modo
minacciati da un’attività creativa troppo libera, e che possono controllare e
supervisionare la propria attività;
-
l’uso di più strumenti insieme, è indice di grande flessibilità ed è molto utile nello
sviluppo del pensiero laterale, che esula dagli schemi classici.
Anche il modo in cui i soggetti si avvicinano ed effettuano la scelta ci dice molto di loro.
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PARTE SPERIMENTALE
1- L’ARTETERAPIA IN UN GRUPPO BORDER - WORK IN PROGRESS
Sono nuovamente qui a raccontare del lavoro di sostegno continuato insieme al mio gruppo quel
microsistema che è divenuto sempre più essenziale fino ad arrivare al numero minimo di persone
per costituire un gruppo e cioè tre.
Infatti durante questo percorso anche Paolo ha deciso di abbandonare il gruppo.
Diversi fattori hanno concorso a questa scelta:
-
il tratto narcisistico indubbiamente ha contribuito in quanto Paolo ha una sorta di epidermide
rigida che gli impedisce uno scambio emotivo profondo e un accesso reale all’inconscio;
-
gli eccessivi sbalzi umorali dalla depressione catatonica alla maniacalità aggressiva e
svalutante hanno portato continui strappi alla partecipazione fino alla rottura completa;
-
la difesa primitiva della scissione ha impedito la costruzione di una immagine unitaria del
gruppo e dei suoi molteplici aspetti e vissuti affettivi con un rifiuto nei momenti di maggior
difficoltà;
-
infine una superficiale intellettualizzazione del lavoro di gruppo ha portato a un evitamento
del proprio Sé e di quello degli altri, legata all’angoscia inconsapevole di dover ammettere
la propria fragilità e la necessità dello sguardo dell’Altro per esistere.
Nel gruppo sono rimaste Monica B. e Monica C. che hanno seguito un percorso ancora più intenso
e costruttivo cercando sempre più di mettersi in gioco nonostante le resistenze e tutti i limiti posti
dalla personalità borderline.
Abbiamo continuato con il supporto dell’arteterapia, del test sull’aggressività e anche di un diario
relativo al monitoraggio degli stati d’animo.
Ho infatti introdotto una tecnica prettamente comportamentista,il diario, per provare a contenere
meglio gli agiti e per confrontarsi con tutte le loro emozioni variabili anche nell’arco di pochi
istanti.
L’espressione di Sé senza distruzione è stato un obiettivo sempre più chiaro e fondamentale. Portare
alla luce zone d’ombra, ribadirle, osservarle, ritrovarle nell’altro ha permesso di abbattere anche
solo temporaneamente le paure ancestrali più destabilizzanti come quella di abbandono o di
fallimento dei tentativi verso un’autonomia.
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Fissità e trasformazione sono sempre più i due poli di oscillazione dei ragazzi, oscillazioni talvolta
violente e critiche ma indispensabili per la ricerca di una flessibilità minima per la sopravvivenza
psico-socio-emotiva.
L’aggressività ritorna come tematica, come pulsione ancora a tratti minacciosa per l’integrità del Sé
proprio e altrui. La paura che essa possa esplodere, dirompere e frantumare il mondo intorno , porta
a repressioni castranti e sempre più cumulative di rancore e frustrazione fino all’impossibilità di
gestire la portata di quella rabbia che fuoriesce e deborda senza controllo.
L’unica modalità per ritrovare in parte quel controllo inibitorio sano era dare voce,figura, volto a
quell’impulso difficile da definire e da collocare.
Ho avuto con me due persone attive, partecipi in questo viaggio e progressivamente motivate
sempre più intrinsecamente. La voglia di confrontarsi, di uscire da una palude, di ricadere nel
baratro dell’ angoscia per ritrovare poi la speranza e rialzarsi sono stati elementi essenziali per dare
un senso più profondo, autentico e costruttivo a un lavoro umano davvero complesso e difficoltoso.
Nella scorsa tesi ho raccontato dei primi otto incontri di gruppo, mentre in questa proseguo con altri
dieci.
Ad oggi il gruppo si è concluso anche se non è escluso che alcuni dei ragazzi abbiano l’esigenza di
ritrovarsi.
Infatti il motivo della fine del nostro lavoro è dipeso da un fattore esterno ovvero la decisione del
ex-compagno di Monica C.,padre anche di suo figlio, di non sovvenzionare più il suo percorso
psicologico, in un momento in cui lei ha perso il lavoro e non aveva indipendenza economica.
Maurizio infatti in realtà pretendeva un controllo su Monica con un ricatto affettivo molto forte.
Alla fine come dicevo poco sopra erano rimaste solo lei e Monica B. per cui la fine del gruppo è
stata forzata lasciando aperte future possibilità di proseguimento, ma lasciando anche un vuoto nelle
ragazze dovuto a una separazione non desiderata e non preparata e perciò elaborabile con estrema
difficoltà.
Certamente questa brusca interruzione ha lasciato in me una sensazione di impotenza e un obbligo
di accettare il tutto senza avere potuto accompagnare le ragazze a una condizione più tollerabile e
meno invasiva.
Preciso la presenza comunque di Paolo ancora a un incontro prima di abbandonare definitivamente
il gruppo.
Riepilogo brevemente le personalità dei partecipanti focalizzando l’attenzione sia su gli aspetti
psicologici,sia su quelli socio-ambientali, sia su quelli organici e psichici.
Infatti tutti questi fattori concorrono sinergicamente a costruire realtà complesse e disturbate ma
anche portatrici nella sofferenza di una enorme sensibilità e creatività innovatrici.
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Mi hanno davvero insegnato tanto i miei ragazzi, soprattutto a continuare nonostante tutto a credere
nel mio mestiere di psicologa. Si fatica ad avere riscontri e in certi momenti bisogna accontentarsi
di impercettibili miglioramenti da parte delle persone che ti chiedono aiuto. Fare i conti con i propri
limiti di psicologa e di persona sono state lezioni importanti soprattutto quando l’empatia e l’affetto
reciproci sono emersi e hanno rappresentato le premesse giuste per ottenere qualche risultato.
Monica B. giovane donna che ha da poco superato la soglia dei quarant’anni, presenta una
personalità border che sfocia o in cupe depressioni catatoniche con tentativi di suicidio e
autolesionismo, oppure in dipendenze da alcol o da cocaina per disinibire e render lecite la rabbia e
la pulsione aggressiva. Nutre rancore verso la famiglia di origine che non le ha saputo trasmettere
né amore, né sicurezza, né protezione, né stima in se stessa. Il mondo risulta pericoloso e più forte
di lei. Prova continuamente a difendersi ma fallisce in quanto non si sente all’altezza di questa
battaglia che conduce solo a delusione e sfinimento. Non crede in se stessa e neppure nella bontà
del mondo circostante. Questa visione apocalittica blocca l’espressione delle emozioni, le congela
oppure le scarica con violenza senza il minimo controllo.
La perdita in gravidanza per ben due volte dei figli ha causato lo scatenarsi di vissuti dolorosi, di
perdita, di separazione, di sensi di colpa.
La solitudine affettiva o meglio, l’aver avuto accanto l’uomo di un’altra, un compagno mai suo ha
impedito la realizzazione della sua famiglia ideale, quella perfetta, quella che lei da bambina non è
mai riuscita ad avere. Ha rincorso per una vita questo sogno, nel tentativo di riparare uno strappo
infantile, troppo profondo da ricucire. Ha perso di vista chi le stava vicino, non si accorgeva di
ripetere involontariamente la sofferenza già sperimentata, l’unica d’altro canto che davvero aveva
potuto conoscere.
Si tratta di una donna a tratti molto dolce, pudica, riservata, controllata e attenta all’ascolto, a tratti
corazzata con lo sguardo vuoto o accusatorio e infine a tratti malinconica e sofferente, pronta ad atti
inconsulti per dire di esistere e di essere accettata così come è.
In questa seconda parte del nostro percorso insieme in gruppo, Monica B. è sicuramente stata più
propositiva e ha gradualmente lasciato spazio al gruppo, o meglio gli ha consentito di entrare nel
suo mondo. Il muro della diffidenza è crollato consentendo di lavorare in maniera più collaborativa.
L’ironia è stato un importante strumento di sdrammatizzazione e di accettazione dei propri limiti ,
un mezzo di osservazione di sé e dell’altro più intelligente e costruttivo.
Il processo di consapevolizzazione di se stessa ha spiccato il volo, anche se ciò non ha escluso e non
escluderà in futuro acting out, oppure stati depressivi. Infatti la sintomatologia border è piuttosto
radicata tanto da aver in parte compromesso l’equilibrio psico-socio-affettivo della ragazza.
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L’equilibrio è transitorio e incerto poiché poggia su una struttura instabile e angosciata dalla
separazione da un altro affettivamente significativo. La sua vita è costellata da rapporto instabili di
amore e odio estremi. L’unità dei sentimenti è compromessa dalla scissione che però di tanto in
tanto fallisce portando a tragici vissuti depressivi.
Con l’arteterapia ha avuto un approccio ambivalente legato proprio alla sua personalità che da un
lato ha un bisogno estremo di gettare all’esterno le emozioni, le pulsioni per essere accolta con la
massima comprensione e il totale rispetto ma dall’altro ha un bisogno altrettanto forte di mettersi in
trincea per difendere se stessa da tutto, da tutti e pure da se stessa.
Per questi poli alternati di reazioni passa da lavori artistici di apertura e comunicazione del proprio
mondo verso una condivisione, ad altri più aridi o in cui risulta difficile canalizzare la creatività e
dar forma al proprio vissuto emotivo.
Ha faticato ad accettare l’arteterapia e a mettersi in gioco, ma indubbiamente non si è mai tirata
indietro rispetto a un lavoro o a un impegno come in fondo ha sempre fatto nella sua vita lavorativa
di impiegata. Nonostante infatti il fallimento della ditta avvenuta pochi mesi fa, ha continuato a
impegnarsi con assiduità senza scoraggiarsi e ora sta provando con un amico a rimettere in piedi
una società per affrontare le perdite economiche.
Monica C. , trentottenne madre di un vivace bambino di quasi cinque anni, presenta una personalità
border più intensamente e frequentemente debordante rispetto a Monica B. Infatti la soglia di
sopportazione della frustrazione è inferiore, ed essendo sensibile alle avversità emotive reagisce con
tentativi di suicidio per attirare l’ascolto della sua famiglia e in particolare di un padre anaffettivo e
a tratti violento che lei avrebbe desiderato presente e protettivo .
Tuttavia dopo aver seguito il suo sogno di riconciliazione col padre, un imprenditore focalizzato
sulla carriera e sulla produttività, si sta accorgendo che forse non riuscirà a cambiarlo, ad
avvicinarlo e che l’elaborazione di questo lutto sarebbe indispensabile per stare meglio. Vorrebbe
guardare avanti attraverso l’aiuto di suo figlio ma quasi sempre si volta ancora indietro a cercare
colpe, responsabilità sperando in una ammissione di assenza da parte del padre.
Coabita col padre del figlio, un ingegnere che insiste ancora per mantenere legata a sé Monica senza
accorgersi che lei dipende da lui sul piano economico e di quello della sicurezza ma non su quello
affettivo e sessuale.
Molto labile e incostante risulta suo modo di essere. Fatica davvero a perseverare in un progetto, in
una attività o in una relazione.
Evade attraverso l’alcol, la cocaina e la marijuana, a volte associate agli psicofarmaci.
L’intolleranza al vuoto e al dolore sono accentuati e sempre più espressi verbalmente.
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Emerge anche un abuso sessuale nel suo passato da parte di un estraneo.
Questo ha contribuito a una visione sporca, distorta dei rapporti sessuali, evidenziando anche la
necessità di una costrizione abituale.
Il piacere della relazione sembra sparire a favore di rapporti di dipendenza dannosi ma a cui fino a
ora non è riuscita a sottrarsi.
Vedremo in seguito, descrivendo gli incontri, come le due ragazze abbiano visto reciprocamente
profonde somiglianze, sia nella malattia sia nella sofferenza patita in vicende esperienziali davvero
vicine. Forse tale elemento ha rappresentato una risorsa positiva per la loro crescita.
Un piccolo accenno viene rivolto anche a Paolo M., su cui mi sono soffermata rispetto alla sua
scelta di lasciare il gruppo senza una matura preparazione.
La sua personalità come dicevo è narcisistica ma anche istrionica. Ha rifiutato il padre non
potendolo avere affettivamente. È probabile che non abbia mai superato il complesso edipico,
rimanendo invischiato nella simbiosi materna accompagnato da un terrore e angoscia di castrazione
paterna. Non è riuscito a identificarsi col padre, per cui si è fermato nell’identificazione materna,
senza differenziarsi. Il suo sviluppo psico-affettivo-sessuale si è orientato all’omosessualità.
Il bisogno di avere l’altro per dare un senso a se stesso e di attirarlo con modi eccentrici e discorsi
impressionistici sono altri due punti importanti per comprendere le stranezze di Paolo.
Infine l’altro suo aspetto patologico è l’ossessione compulsiva per l’ordine, la perfezione, gli
schemi rigidi e l’ideale di sé irraggiungibile perché troppo pretenzioso e distante dalla realtà.
Oscillando dalla depressione più lamentosa alla maniacalità abbagliante accompagnata dall’acquisto
compulsivo Paolo ha dovuto lasciare il gruppo e un percorso forse troppo arduo per le sue risorse
attuali e per la sua complessa e invalidante sintomatologia.
Qualcosa, anzi alcune cose hanno accomunato questi tre ragazzi che credo ricorderanno
l’esperienza dell’arteterapia di gruppo:
-
il vuoto interiore e la sofferenza;
-
la solitudine;
-
la sensazione dell’avversità e del pericolo insiti nel mondo circostante;
-
strutture di personalità fragili con gravi difficoltà di funzionamento e adattamento;
-
atti compulsivi di dipendenza;
-
acting out;
-
esplosioni di aggressività;
-
difficoltà a trovare l’unità e il centro della propria personalità;
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-
relazioni affettive dipendenti e patologiche carenti o instabili caratterizzate da forti
ambivalenze di amore e odio;
-
infinito e insaziabile bisogno orale inglobante di affetto e di protezione con difficoltà sullo
scambio affettivo maturo;
-
desiderio di “normalità” e indipendenza.
Procedo quindi a descrivere gli incontri di gruppo che si sono svolti come continuazione degli otto
precedenti descritti nella mia tesi dello scorso anno.
Questo nono ritrovo insieme al decimo sono tuttavia particolari tanto che essi segnano un passaggio
verso una nuova fase del gruppo più consapevole e costruttiva.
In realtà ho visto soltanto Monica C., senza avere potuto prevedere la sua solo presenza. Tuttavia lei
desidera sostenere ugualmente l’incontro individuale con gli strumenti dell’arteterapia.
9° INCONTRO LUNEDI’ 29 GENNAIO 2007
Riprendo il tema del primo incontro, quello del simbolo che possa rappresentare se stessi.
Chiedo a Monica di disegnarlo di nuovo e se ne sente il bisogno, anche di modificarlo.
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Utilizza il gessetto blu per tracciare un triangolo che indica per lei la chiusura nella depressione e la
mancanza di volontà bloccata dentro se stessa. Inoltre il triangolo ricorda la punta dell’iceberg sotto
cui si trova l’inconscio oscuro e inesplorato.
Intorno disegna diversi cerchi simbolo di chiusura rispetto alle relazioni e alle difficoltà.
Infine in mezzo vi sono linee,non più solo figure chiuse, linee che si aprono da uno stesso punto e
che lasciano spazio al desiderio di uscire dalla confusione .
La prima volta aveva sempre usato lo stesso materiale e lo stesso colore per produrre sopra una
serpentina che indicava il tormento e sotto un’onda più morbida e meno ampia che indicava invece
la forza di volontà che mancava.
Le domando se ha notato differenze e se sì di che cosa si tratta.
Mi risponde che non ci sono differenze sostanziale ma che ora è maggiore la consapevolezza della
malattia.
A questo punto le propongo un secondo esercizio e cioè la rappresentazione di una figura umana,
che è un importante test proiettivo per cogliere oltre alla personalità, aspetti quali l’autostima, la
fragilità, la capacità di porsi in relazione con gli altri, i bisogni affettivi e l’equilibrio della persona.
Usa il pastello nero e il commento finale da parte sua è di sorpresa e disgusto per avere disegnato un
mostro.
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Comunque le chiedo un commento e una riflessione sul suo operato.
Dice di avvertire PAURA, poiché il viso di donna rispecchia la madre con gli occhi neri e tristi,
vittima di se stessa. Invece il corpo è quello del padre. Le braccia aperte ricercano protezione visto
che il padre la terrorizza.
Osservo in quel disegno come Monica veda se stessa costituita da parti di altri prese a prestito. Pare
non fondarsi su una differenziazione ma su una dipendenza negativa. Si può cogliere una rigidità di
personalità con schemi poco adattabili e instabilità. Il desiderio di affetto e il senso di abbandono
sono altrettanto presenti: questa bimba così come la si vede è sola in quel grande foglio bianco, lo
occupa ma non poggia da nessuna parte e vorrebbe con queste braccia spalancate trovare qualcuno a
cui aggrapparsi disperatamente. Invece resta lì in sospensione, in attesa perenne e angosciante, tanto
da avere questi occhi spaventati e supplichevoli.
Cerchiamo insieme di condividere quella paura che è la paura di una bambina mai a sufficienza
amata e compresa. Per alcuni attimi rivesto il ruolo di quella madre buona di cui Monica non
sembra avere mai avvertito la presenza. Ciò infatti la alleggerisce da tutta la sua angoscia e paura
esistenziale anche se quella madre non può tornare o non può cambiare. Avverto la sua grande
difficoltà nell’accettare la sua famiglia e il modo in cui essa si è rapportata con lei. Una profonda
rabbia nutre verso il padre e verso la madre, di cui ha interiorizzato un’immagine buia e negativa.
Anzi mi pare quasi che gli agiti che ogni tanto fa Monica, oltre che ad attirare l’attenzione siano il
suo unico modo per rigettare all’esterno, per vomitare l’aggressività e la frustrazione verso la sua
famiglia a cui non riesce a fare male direttamente. Può solo fare del male sé per procurarlo agli altri
e destare ansia e preoccupazione. È una modalità prettamente adolescenziale, ma che non stupisce
affatto in una donna di oltre quarant’anni poiché si tratta di una personalità border confusa e poco
capace o fallimentare nella gestione delle pulsioni.
Monica ha voglia di trovare la sua strada e ha voglia di uscire da quella confusione di
identificazioni come ha mostrato dai suoi lavori.
10° INCONTRO 5 FEBBRAIO 2007
Questa volta Monica esordisce con il suo senso di irritazione per il pietismo che riceve dagli altri.
Non vuole pietà o compassione ma nemmeno prepotenza e imposizione. Avverte una posizione
scomoda in cui solitamente il punto di vista degli altri è distorto il relazione al disturbo psicologico.
Indubbiamente l’ignoranza, la scarsa informazione, la poca sensibilità emotiva e la paura di scoprire
di avere anch’essi qualcosa in comune con chi soffre a livello psico-socio-affettivo porta al rifiuto o
a una vicinanza estraniata. È più facile e comodo alzare una barriera piuttosto che provare a capire e
mettersi in gioco come stanno provando questi ragazzi con l’arteterapia.
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Monica sente INUTILITÀ e VUOTO e vorrebbe non avvertirli con costanza.
La invito a raccontare una FAVOLA, di darle poi un titolo, mettendo lei come protagonista. Le
chiedo di narrare la nascita, le gesta e il finale e infine di trovare un messaggio chiave.
Mi inizia a dire: “ La nascita è come un tunnel bianco che arriva che porta fin dove le vengono
proposte situazioni e scelte da prendere.
Lì avverte l’ansia e la paura innanzi alle proprie responsabilità e ai propri sbagli.
Tutte l sue gesta sono finalizzate a uscire dalla campana e a liberarsi dall’angoscia. Cerca di dare
pugni al vetro con violenza e rabbia per frantumarlo.
Alla fine guarirà, starà meglio, riuscirà ad amarsi e a far star meglio anche gli altri.
Il messaggio è di non chiudersi troppo in se stessi. “
La tipologia della sua favola richiama lo PSICODRAMMA NARRATIVO. Lei si sente intrappolata
nella scelta che fa parte del mondo adulto che si affranca dalla protezione del mondo infantile per
assumere autonomia, capacità di giudizio e di scelta. Di nuovo ritroviamo la paura e
contemporaneamente il desiderio di crescita della tappa adolescenziale.
Monica avverte che questa fase adolescenziale si è già protratta troppo avanti e spera di superarla
per affrontare il suo disagio.
Dice di amare molto scrivere su un diario racconti ed emozioni. Le faccio notare come ciò sia
davvero positivo e utile per scaricare i vissuti, per oggettivarli, analizzarli meglio anche a distanza
di tempo. Inoltre questo è anche un indice del fatto che Monica sia in grado, almeno in buona parte,
di dare una forma, di simbolizzare le emozioni, di comunicarle a sé e agli altri.
La invito a leggere perciò due suoi pensieri che qui di seguito vi riporto.
“Le sensazioni, le emozioni, le ombre che ci attraversano nel tempo per portarci alla deriva di
ricordi passati… il buio violento del silenzio e del vuoto che strangola il cuore imbottito di paure
per un futuro oscuro.”
“La perdita delle capacità, la perdita delle forze, la perdita raggiungere la gioia. È come perdere
una parte di se stessi: l’ansia che avvolge uno spirito inquieto, recluso dentro un labirinto senza
trovare l’uscita”.
Mi trovo innanzi un’anima fragile che tra sconforto e impegno si danna per trovare un senso per se
stessa. Le sue parole sono un grido di bisogno attraverso la sua creatività poetica.
Vorrei che il gruppo potesse ascoltare quel grido e non farla sentire sola in un deserto di convulse
emozioni.
11° INCONTRO 19 FEBBRAIO 2007
In questo incontro ritroviamo per l’ultima volta Paolo insieme a Monica B. e Monica C.
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Dopo alcune assenze chiedo a Monica B. come sta, cosa le è capitato e cosa sente che la disturba e
le crea malessere.
Prima però lascio la parola a Monica C. che è stata presente da sola a due sedute. Parla ai compagni
del suo tentato suicidio come espressione della sua disperazione impulsiva. La convivenza forzata
con Maurizio, l’incapacità di chiudere col passato e in particolare con la figura violenta del padre
che causava angoscia e terrore e la portano a star male.
Paolo le dice che non può pretendere amore da chi non glielo può dare. Anche lui ha avuto problemi
col padre che era anaffettivo così ha reciso il rapporto con lui.
Monica B. sostiene che i genitori sono morti virtualmente quando lei era ragazzina. Tra l’altro non
ha ricordi della sua infanzia, un buco nero che non è mai riuscita a riempire. Probabilmente si è
sempre dovuta difendere dal dolore rimuovendo ciò che turbava una serena crescita. Ciò che resta
solitario in quel buio è la figura del padre, quel fantasma di morte, di violenza, di alcol e
insensatezza. Ora ha di fronte in carne e ossa un padre servizievole, sottomesso quasi a volere
espiare il male provocato, divorato da sensi di colpa. Tuttavia Monica non lo ha perdonato, è
passato troppo tempo e non è possibile porre rimedio ad anni di sofferenza, di incomprensioni, di
assenza o violenza. Dice di sentirsi di marmo innanzi a lui e di non provare nulla, anche se si coglie
nello sguardo e nel tono aspro della voce la sua rabbia e l’impotenza di fronte a un passato
irrecuperabile.
Ricordo loro come questi rapporti malati con la figura paterna siano proprio quelli della triade
VITTIMA-CARNEFICE-SALVATORE.
Un padre carnefice può restare in tale posizione di dominio sempre, oppure ribaltare il ruolo
diventando salvatore per rimediare a colpe e sentirsi utile senza gettare lo sguardo sul proprio
mondo. Altre volte diviene vittima. Ciò che rimane è comunque una relazione patologica di
sfruttamento, non di scambio. Non avviene una crescita di sé, né dell’altro in un invischiamento di
dipendenza perversa.
Metto in evidenza le somiglianze tra le storie e i vissuti delle due Moniche, soprattutto nel rapporto
con il padre aggressivo e nel loro vuoto e nella loro solitudine.
Tuttavia Monica C. ha un figlio e nonostante questo continua a star male e compie brutti gesti di cui
si vergogna ma che pare non riesca a controllare. Monica B. invece ha perduto in gravidanza due
figli che no può più riavere. Una nascita tuttavia costringe anche a perdere lo status di eterno
adolescente per assumere un ruolo impegnativo e per certi versi angosciante, ovvero quello di
genitore. In una struttura di personalità border indubbiamente questo lutto e questa nuova
prospettiva risultano ostacoli di piombo, a tratti ingestibili tanto da fare perdere il controllo.
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Tuttavia anche la perdita di due figli, già vivi e presenti nell’immaginario della madre, è il lutto
peggiore e ancora più grave in un soggetto fragile e sensibile al distacco affettivo.
Chiedo a Paolo cosa sente innanzi a queste due situazioni. Avverte la loro grande fragilità e la bassa
autostima.
Emerge allora la reazione che le due ragazze hanno di fronte a tale vuoto, ovvero la distorsione nel
rapporto col cibo, metafora del bisogno orale dell’amore. Si tratta di un bisogno insaziabile, mai
adeguato. M. B. mangia poco, solitamente caffelatte e fette biscottate, su un versante più anoressico
e punitivo-ascetico. M. C. tende invece ad abbuffate e a modalità compensatorie come il vomito,
più tipiche del versante bulimico.
Si tratta in realtà di due espressioni diverse di uno stesso disagio esistenziale. Da un lato c’è il ritiro
controllato e dettagliato, ossessivo, dall’altro il prendere e il dare senza controllo e misura.
Indubbiamente il problema del controllo degli impulsi si ripropone in maniera massiccia.
Paolo si relaziona al discontrollo degli impulsi attraverso l’acquisto compulsivo al supermercato,
legato al suo vuoto, alla sua mancanza di narcisismo primario.
Li faccio a questo punto lavorare sull’esercizio del “LA FINE DEL TEMPO”.
Si tratta di una fantasia guidata perciò li invito a chiudere gli occhi e a immaginare una situazione
apocalittica. Si trovano in una grotta, intrappolati. Tra venti minuti sanno che esploderà una bomba
atomica e sanno anche che quei venti minuti sono gli ultimi. Poi moriranno.
Chiedo come si sono sentiti, cosa pensano di continuare a rimandare e che farebbero in quegli
ultimi venti minuti di vita.
Monica C. ha avvertito un estremo senso di soffocamento e disperazione. Non ha idea di cosa sta
rimandando. I suoi tentativi di suicidio paradossalmente paiono volere invece affermare la sua
presenza, la sua voglia di vivere. Ha angoscia innanzi alla morte e forse ha un senso di onnipotenza
e di sfida di fronte alla morte.
Monica B. sente soffocamento ma desidera farla finita il prima possibile. In quella grotta pensa ai
propri figli. Ciò che rimanda è la capacità di lottare perché le mancano le energie. Forse teme la
sofferenza costanza e l’impotenza a far fronte a essa.
Paolo avverte un senso di claustrofobia, forse perché inconsciamente sente di perdere il suo
controllo, ma vede la morte come serenità, come giusta fine della sofferenza. Dice di rimandare
continuamente la realizzazione professionale. L’Ideale di se stesso è irraggiungibile. In fondo Paolo
sa di non potersi mettere in discussione, sa di inseguire una illusione. La morte è anche il simbolo
della conclusione del percorso di gruppo di Paolo.
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12° INCONTRO 19 MARZO 2007
Monica C. è stata dimessa dopo un mese dalla Casa di cura dove le è stata stravolta la
farmacoterapia. Cercava quel ricovero come rifugio dagli altri, dal mondo esterno e soprattutto da
se stessa assieme ai suoi conflitti. Al tempo stesso però ha provato una profonda rabbia che sfogava
attraverso pugni al muro.
Appena rientrata a casa è stata colta da un attacco di panico, innanzi a ciò che ha lasciato e ha
ritrovato rinnovato di responsabilità e paure. Crescere il figlio sembra quasi impossibile in certi
momenti e diviene angoscia pura.
L’ansia che avverte anche in gruppo la paragona alla borsa di una donna, una borsa piena di oggetti,
in cui lei ricerca una cosa specifica senza riuscirla a trovare. È perciò costretta a rovesciare tutto per
arrivare a quella cosa, ovvero la sua forza interiore. Sente di avere fatto un passo avanti in un lungo
cammino. Ha avuto anche la soddisfazione che il figlio per la prima volta abbia fatto la pipì da solo
senza utilizzare il pannolone, nonostante abbia già quattro anni.
Le dico che forse suo figlio avverte che lei sta lottando per star meglio e per render sereno anche lui
che ha un gran bisogno della mamma. Anche per lui non è semplice ma vuole crescere nonostante
tutto, sapendo comunque che la mamma lo ama indipendentemente dai suoi problemi.
Monica C. infatti ritiene che questo bimbo così speciale sia un dono che la aiuta a guardare avanti.
Monica B. ha avuto un miglioramento rispetto alla sua situazione economica critica per via del
fallimento dell’azienda in cui lavora e la precarietà della sua occupazione da un lato, problemi di
ipoteca nella permuta della casa dall’altro. Tutto questo le provocava una pressione d’ansia forte
che si è alleggerita. Tuttavia la situazione resta precaria poiché non ha stimoli dall’esterno per
reagire. Non vedendo prospettive innanzi si tiene il vuoto e il dolore dentro fino a che non decide di
“bere” fin al punto di perdere i freni inibitori e di concedersi il pianto e la rabbia che in altra
maniere non riesce a esprimere.
Sottopongo loro di nuovo il TEST BARRATT IMPULSIVITY SCALE (BIS-11), lo stesso
somministrato individualmente prima di iniziare il percorso di gruppo.
Ho potuto cogliere i diversi livelli specifici di impulsività, avendo anche la possibilità di
confrontarli con i risultati precedenti l’iter di sostegno psicologico di gruppo.
L’impulsività è parte del loro disturbo , parte molto attiva e rischiosa. Una parte di essa ha basi
fisiologiche, un’altra psicologiche. Occupandoci della seconda, lo scopo è di imparare un po’ a
controllarla nel tempo, con sforzo e anche con metodo.
Entrambe sono d’accordo su questo punto perché avvertono la pericolosità e il rischio dei loro agiti.
Faccio notare che l’intensità dell’agito è proporzionale solitamente alla quota di angoscia vissuta.
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Monica B. ubriacandosi sfoga l’aggressività non solo su di sé ma anche sugli altri, sia sul piano
verbale che su quello fisico. Gran parte della sua rabbia è legata alla mancanza di amore da parte
della madre. Seguono atti di autolesionismo e tentati suicidi dimostrativi.
Dopo il test chiedo loro un’impressione e Monica C. avvertendo coinvolgimento e rispecchiamento
negli argomenti proposti,sente tremore alle mani e un aumento d’ansia.
Monica B. ha invece colto le sue risposte estreme come espressioni di mancanza di equilibrio.
Invito le ragazze a svolgere un compito a casa, fondamentale per provare a guidare
quell’impulsività da sole, al di fuori del settino di gruppo.
Su un foglio devono indicare i giorni della settimana in corso e segnalare tutti gli atti impulsivi
indicandone anche l’intensità da 1 a 5 dove per cinque si intende un tentativo di suicidio.
Accolgono bene questa iniziativa che supervisioniamo nell’incontro successivo.
Osservando i risultati del test ho notato che per Monica B. c’è una maggiore difficoltà di
concentrazione e attenzione e un lieve aumento dell’aspetto della non-pianificazione legato in parte
al calo motivazionale per il futuro in seguito agli eventi di vita sfavorevoli. C’è un controllo
motorio, tuttavia ancora volubile e influenzato dagli altri due aspetti precedenti.
Per Monica C. si coglie un miglioramento di tutti gli aspetti soprattutto sulla pianificazione. Emerge
un leggero controllo in più sulle azioni.
13° INCONTRO LUNUDI’ 26 MARZO 2007
Entrambe le ragazze portano il diario su cui hanno segnalato i loro stati d’animo negativi
sperimentati durante il corso della settimana, in relazione al contesto, alla motivazione e
all’intensità. Si è trattato di un compito che necessitava di costanza, disciplina e capacità di
analizzare i vissuti con più distacco razionale. In apparenza poteva sembrare banale e inutile ma
questa attività è invece complessa perché obbliga a spostarsi dall’impulsività scatenata da situazioni
emotive estreme a un controllo su di essa e sui fattori a essa correlati.
Ecco il resoconto di Monica B. in cui la scala di intensità di emozioni negative va da minimo di uno
a un massimo di quattro:
-
martedì, mercoledì,giovedì a 2- tristezza;
-
venerdì 4- “il mio cuore sta gelando, vorrei solo spegnermi”;
-
sabato 4- dolore fortissimo e insonnia;
-
domenica 2- dolore più gestibile, si sente stanca e sfinita perché dorme poco e male da venti
giorni a causa dell’angoscia;
-
lunedì 2.
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Monica C. ci legge il suo report:
-
lunedì stress legato al figlio non precisato a livello quantitativo;
-
martedì 4- malinconia e impulsività nel mangiare con vomito autoindotto;
-
mercoledì prima 4 per agitazione e rabbia di aver mangiato carne quando è vegetariana, poi
si inizia a rilassare facendo un quadro e infine lo stato negativo scompare e va a zero poiché
ha soddisfazione dal figlio che finalmente abbandona l’uso del pannolino;
-
giovedì 4- discussione con l’ex compagno con cui è separata in casa in relazione al fatto che
lui non si fida;
-
venerdì 4- non riesce a farsi capire da Maurizio;
-
sabato 2- stanca e depressa, chiarisce con Maurizio, avverte che la forza di volontà è debole;
-
domenica 2- sofferenza gestibile;
-
lunedì 2- si sente piovosa come la giornata.
Chiedo loro come hanno sentito il compito.
M. C. ha sentito l’esercizio come liberatorio. È riuscita a fare “autoterapia” con un quadro su cui ha
attaccato le garze che contenevano gli psicofarmaci durante l’ultimo ricovero. Poi ha dato larghe
pennellate colorate intense di tempera scrivendo alla fine i nomi di tutti i farmaci che assume.
Mi complimento con lei perché sta sperimentando strade più sane per esprimere il malessere e
sublimarlo. Dice che con quel quadro è riuscita a liberarsi dall’angoscia e ha tolto la drammaticità
del problema con una potente e rassicurante autoironia.
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Anche M. B. apprezza molto il lavoro della compagna anche se lei farebbe fatica poiché è chiusa
rispetto all’esterno. Ha avuto difficoltà anche con il compito a casa ma l’ha ugualmente svolto con
impegno e si è così un po’monitorata. Vuole tornare a stare da sola e per ora ha una totale diffidenza
verso gli uomini per via delle esperienze vissute.
M.C. racconta di avere avuto una avventura durante il ricovero e questo episodio ha suscitato la
gelosia di Maurizio nonostante siano da tempo separati. Per lei quell’avventura poteva evolvere ma
l’altro ragazzo, un tossicodipendente l’ha solo manipolata con falso corteggiamento per arrivare al
rapporto sessuale e mollare subito dopo. Monica è stanca di accontentarsi di rapporti sessuali per
colmare il suo grande bisogno di affetto.
Dico loro che diffidare non è sbagliato ma non si può nemmeno creare un muro con il resto del
mondo per via delle delusioni avute. Bisogna un poco alla volta riuscire a tollerare meglio le
frustrazioni e accettare i fallimenti dovuti a se stessi o agli altri.
Chiedo quale sia la loro paura maggiore e se ci sia qualcosa di importante che in gruppo non hanno
mai raccontato.
Emergono gravi esperienze sessuali per entrambe , ovvero rapporti di tipo SADOMASOCHISTA.
In tali rapporti loro non godevano rispetto a subire il dolore fisico, ma non potevano abbandonare il
compagno per via della loro dipendenza analitica e un distruttivo terrore di abbandono e
separazione. Piuttosto che rivivere l’abbandono come accaduto nella famiglia di origine e perdere se
stesse e sperimentare il nulla, scendono a compromessi e accettano la violenza del partner negando
a se stesse la gioia di un rapporto sessuale e sentimentale maturo e gratificante. Il bisogno orale è
superiore a quello genitale. Entrambe ricercano ancora il nutrimento primario perduto troppo
precocemente senza davvero poter elaborare un bisogno adulto più complesso. La relazione viene
distorta e ci si fa del male pensando in fondo di meritarlo, visto che la stima verso di sé è poca.
Rispetto agli interventi dolorosi subiti attraverso fruste, cera calda, mollette sui genitali hanno un
ricordo ancora chiaro e traumatico sul piano psico-affettivo-sessuale.
Chiedo loro se hanno mai provato piacere sessuale.
M. B. ha provato l’orgasmo clitorideo raramente e solo dentro una relazione breve ma comunque
“normale”. Altrimenti ha sempre finto per compiacere l’altro e assicurarsi di mantenere in vita la
relazione.
Dico loro che il diritto al piacere sessuale è di tutti, così come il diritto a scambi costruttivi sani.
Non tutti gli uomini sono come quelli da loro sperimentati, cioè quelli che manipolano sfruttando il
loro enorme bisogno di affetto e violando la loro volontà, piegandola.
Emerge infatti che il ricatto psico-affettivo è l’arma vincente per questi uomini, un potere immenso
che consente loro di ottenere ciò che vogliono, il controllo assoluto dell’altro.
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È possibile uscire da questi schemi relazionali malati iniziando ad osservarli, a riconoscerli, come
hanno fatto le ragazze in questo incontro.
Superare la vergogna del vissuto di molestia, il senso di colpa per averli lasciati fare, il tabù del
sesso che in fondo nelle loro famiglie era condannato, è difficile soprattutto quando le personalità
sono così fragili e minate nella loro integrità, nel nucleo della stima di sé.
Parlare dell’argomento dopo tanti incontri è stato comunque liberatorio e ha consentito un
accoglimento e una condivisione importante: il gruppo ha fatto le veci di quella madre che si prende
cura e restituisce attenuata la sofferenza non altrimenti elaborabile.
14° INCONTRO 3 APRILE 2007
Chiedo a Monica B. come si sente e mi risponde di avere riflettuto molto sull’ultimo incontro e su
quello con la psichiatra e di essersi agitata nell’avere messo a fuoco la gravità di certi problemi: il
suo aspetto MASOCHISTA legato alla convinzione di meritare solo il male dagli altri in quanto
inferiore agli altri.
Continua tuttavia a scrivere il diario delle emozioni:
il giovedì scrive di odiare la solitudine ma di non essere voluta da nessuno.
Ha deciso di prendere a casa un cane, un pastore tedesco per non sentirsi sola, ma ha anche una
paura folle di non saperlo accudire come quando era in attesa del figlio.
Noto che M. B. ha trovato il coraggio per mettersi alla prova, per darsi più fiducia e ritrovare un
briciolo di autostima.
M. C. ha avuto anche lei una settimana tormentata (livello emotivo negativo 3/4) con apatia,
depressione e incubi ricorrenti come quello in cui il padre le fa violenza psicologica e vuol portarle
via il figlio. Emerge la sua costante paura di non avere la risorse per crescere il figlio.
Per rilassarsi fuma hashish. Tuttavia non è sufficiente visto che in mezzo alla folla del supermercato
ha avuto panico e lo stesso quando si è trovata sola in casa.
L’angoscia in entrambe di non essere in grado di curare un soggetto bisognoso come il cane o il
figlio nasconde l’angoscia più profonda di non bastare a se stesse, di non farcela da sole e di avere
sempre bisogno di un altro, di una dipendenza, di un riferimento, altrimenti tutto crolla, tutto perde
il controllo.
Offro loro un rafforzamento dicendo che nonostante le ferite sanno dare amore. Il riconoscimento di
un soggetto di cui loro si occupano e che dipende da loro può mostrare nel tempo che non sono né
cattive, né incapaci, ma piuttosto donne con maggiore autostima e forza interiore per
l’autoaffermazione.
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Ritorno sul tema delle relazioni sadomasochiste, sollevato nello scorso incontro e domando che
traccia ne è rimasta.
M. C. si è ricordata di quando Maurizio le diceva con aggressività di stare zitta durante rapporti di
quel genere. Questo ha lasciato un segno forte. Si è accorta che lui era schematico, statico, rigido e
che lei pur non essendo d’accordo accondiscendeva per timore di perderlo come è sempre accaduto
con il padre.
M. B. invece ha sofferto molto l’assenza del suo ex, Massimo, ma ha colto meglio il suo lato
negativo, quel suo fare imperativo che non dava scelta. Ora in fondo si è tolta l’obbligo di fare sesso
tutte le sere, come se lei avesse dovuto essere perfetta ai suoi occhi, efficiente, all’altezza delle
aspettative e delle fantasie dell’altro, senza però mai riuscirci e con appresso un vissuto di
frustrazione, incompletezza, insoddisfazione e anche umiliazione. Non era se stessa, non provava
piacere nel stare con l’altro che imponeva da solo le regole del gioco, arrabbiandosi e offendendola
se non faceva i giochi perversi che lui aveva in mente. Soffriva in silenzio, recitava un ruolo non
suo fingendo l’orgasmo altrimenti lui avrebbe continuato a torturarla per avere alla fine la conferma
di una sua virilità malata.
Ora l’idea di stare con un uomo le provoca rigetto: la dipendenza, sostiene, è un’arma a doppio
taglio, perché quando perdi l’altro ti senti tu totalmente perso e privo di un centro.
Chiudo l’incontro con una restituzione: il bisogno di dipendenza affettiva da una parte e la spinta
verso l’indipendenza dall’altra sono i due poli di un loro attuale conflitto, in certi momenti molto
aspro che porta ad oscillazioni tra reazioni rabbiose di rivolta in direzione di un distacco, di una
separazione e comportamenti di accondiscendenza forzata. Stanno cercando di crescere e di
affermarsi.
15° INCONTRO 10 APRILE 2007
M. B. racconta come la sua settimana sia stata alquanto grigia, nella scala emotiva che va da 1 a 4,
sarebbe stata tra 3 e 4. Prendersi cura del suo cucciolo, Kira, è impegnativo e pensa di non farcela.
La sua psichiatra le ha detto che difendere il cane è un modo per difendere se stessa, la bambina
poco amata.
Anche io rafforzo questo aspetto, dicendo che il cane può contribuire a risolvere una situazione
passata ancora aperta e dolorosa.
M. C. ha avuto una settimana pesante nel dovere ritrovarsi in mezzo a tutti i parenti e ai loro falsi
affetti. Li ha trovati inadeguati, fuori luogo, non li ha sentiti suoi.
Le dico che potrebbero essersi realmente spaventati dopo il suo tentativo di suicidio ed essersi
accorti almeno in parte della sua sofferenza.
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Un’altra situazione le ha arrecato notevole disturbo, ovvero un tentativo di Maurizio di masturbarla
nel sonno. Lei stava dormendo, si è svegliata ma ha finto di non accorgersi di nulla, reiterando
quello schema relazionale sadomasochista di cui abbiamo parlato. Lei si è sentita violata nella sua
intimità, ma ha paura ad affrontarlo. Lui tra l’altro vorrebbe applicarle il metodo della ipnosi,
insistendo con molta aggressività. Sia lo psichiatra che io le sconsigliamo di farsi ipnotizzare anche
perché bisogna avere gli strumenti adeguati e un a preparazione qualificata per non creare danni.
Inoltre può divenire un ulteriore strumento di manipolazione.
Ciò che emerge per entrambe è questo obbligo a fingere, ad assumere un FALSO SÉ per sentirsi in
mezzo agli altri e corrispondere alle aspettative degli altri, perdendo di vista se stesse.
Sembra che non abbiano dagli altri accettazione e comprensione, ma solo pietà o giudizi.
Propongo a questo punto un esercizio di arteterapia per stemperare la tensione psico-emotiva e per
ritrovare un clima più sereno e ludico in cui lavorare in gruppo, senza scavare troppo con la mente
lucida e razionale.
Le invito a rappresentare di nuovo il simbolo di riconoscimento di ciascuna come era avvenuto nel
primo incontro. Consento l’utilizzo non solo di un materiale, per potersi esprimere meglio. Il
simbolo può essere lo stesso, ma anche diverso dal momento dal momento che sono trascorsi quasi
cinque mesi.
M. B. disegna con un gessetto rosso un cuore a pezzi, anzi frantumato. Il tratto non è uniforme ma
tratteggiato con vigore, direi quasi con estrema forza. Spinge con tale energia che il forte impatto
del gessetto sul foglio bianco crea polvere aggiuntiva. Emerge indubbiamente l’aggressività di
Monica, sempre celata in gruppo e anche nei lavori disegnati precedenti. Inoltreil punto di
spaccatura del cuore è marcato da un netto segno di gessetto nero. Una scissione potente di se stessa
è gettata lì, come un grido di rabbia e dolore e un grido di aiuto. Spiega che ha scelto il rosso perché
quel cuore è colmo di sangue e dolore. L’ha collocato al centro e non è piccolo: si pone di più
all’attenzione dell’altro e cerca di affermarsi, di emergere anche se con estrema sofferenza.
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Monica C. disegna con i gessetti un triangolo marrone in cui dice che la punta rivolta verso l’alto
rappresenta il suo Io visibile, cosciente, mentre il resto del triangolo colorato in nero è il suo
inconscio. I cerchi intorno al triangolo sono le sue chiusure mentre gli sprazzi in mezzo
rappresenterebbero la voglia di chiedere aiuto e di evadere da se stessa. Si coglie una forte difesa di
isolamento affettivo e una intellettualizzazione per non valicare troppo il limite tra il marrone e il
nero e non affrontare una angoscia troppo invasiva.
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Chiedo a entrambe di commentare il simbolo dell’altra.
M. C. di M. B. dice che con pochi tratti e poche parole si esprime, comunica le sue emozioni.
M. B. invece con M. C. dice di condividere la scelta del nero come male, come insoddisfazione,
scomparsa della spontaneità di ridere e del piacere di vivere. Sottolinea come la punta verso l’alto
sia il simbolo del dominio e del controllo razionale in contrasto con la parte sottostante più vasta e
sconosciuta. Chiede a M. C. cosa siano quegli spazzi e risponde che indicano il desiderio di stare
bene e di uscire dalla gabbia del malessere.
Rispetto alla prima volta i simboli sono più complessi e indicano una maggiore consapevolezza di
sé, dei propri limiti, della propria sofferenza e dei propri bisogni. Pare che il lavoro in gruppo abbia
smosso le coscienze e la riflessione a partire dalla non riflessione, dal non verbale, dal basso di
quella piramide disegnata da Monica. È il corpo che dà accesso ai significati molto spesso, più della
parola, con immediatezza, con trasparenza, senza simulazione. Si tratta di una chiave di accesso
ricca per entrare nel mondo delle emozioni, delle pulsioni che si intrecciano, si aggregano, si
contrastano. Le difese dell’io sembrano in parte saltare,entrare in scacco lasciando emergere di più
l’inconscio. L’arteterapia fa leva sul limbo intermedio del preconscio, più duttile, più permeabile
all’esterno e all’interno, consentendo uno scambio costruttivo e accrescitivo.
Basta cambiare il registro comunicazionale per trovare altro, per ampliare il contatto umano e avere
modo di cambiare l’assesto relazionale.
16° INCONTRO 17 APRILE 2007
M. C. ritorna di nuovo sulla relazione con Maurizio che sarebbe la causa di una pessima settimana.
Infatti anche se sono separati in casa, lui la mantiene economicamente e ha deciso di tagliarle una
parte di finanziamenti al fine di farla smettere di fumare spinelli. Inoltre come è già accaduto, lui
l’ha di nuovo masturbata nel sonno, approfittando della situazione. Lei ha finto di continuare a
dormire ma vorrebbe dirgli qualcosa se la situazione si ripete. Tuttavia si trattiene per paura della
sua reazione. Durante la notte ossessivamente sogna di avere rapporti sessuali con il padre.
Le accenno come probabilmente emerga dall’inconscio il desiderio per il padre, di quell’amore
atteso e mai sentito. Ancora non ha risolto questa mancanza e pare che il sogno voglia segnalarlo.
M.C. ritorna al discorso del sogno e dice di essere stata turbata anche da un sogno in cui lei assiste a
un amica che fa sesso orale con altri uomini. Ciò le ha riportato a galla la molestia sessuale subita
nell’infanzia in cui è stata costretta a toccare un uomo che eccitandosi ha eiaculato.
Quella ragazza che osserva in sogno forse è proprio Monica che prova disgusto e angoscia poiché la
sessualità è iniziata con violenza, senza naturalezza, come qualcosa di sporco e inadeguato. Lei era
piccola e magari ha avvertito la superiorità fisica e psicologica dell’uomo adulto. Come si è sentita
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inadeguata per il padre irraggiungibile, così era inadeguata con quell’uomo che ha usato il suo
potere per dominarla. Allo stesso modo tutte le sue esperienze con molteplici uomini sono state di
sottomissione forzata, di abuso sia sul piano fisico che su quello psicologico.
Non riesce a vivere il sesso con serenità perché in esso si annidano i nodi del suo malessere più
profondo. Il piacere è escluso da quella sfera dove sono il potere, la manipolazione e il controllo a
occupare l’intero spazio.
M. C. tuttavia ha trovato un canale dove lasciare le sue emozioni, ovvero l’arte. Infatti di nuovo ha
portato un quadro, fatto insieme a suo figlio di cui è molto fiera e orgogliosa. Di riflesso è anche più
fiera e contenta di se stessa. Dice che il bimbo con un cerchio prova a rappresentare il padre, mentre
lei riporta la foglia fragile disegnata da M. B. Riesce così a esprimere le emozioni in modo più
costruttivo e a interagire con il figlio in sintonia, divertendosi. La creatività accesa li accomuna e il
loro lato infantile è entrato in contatto.
Qui di seguito ho riportato l’immagine di quel lavoro dove M.C. ha anche riportato il suo simbolo.
È come se proseguisse a casa il lavoro di gruppo, nel tentativo di dargli una continuità, un senso,
una collocazione spazio temporale.
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M. B. dice di sentirsi meglio per varie ragioni:
1- Ha iniziato ad adattarsi al nuovo lavoro che non perderà visto che la ditta sta iniziando a
sollevarsi dal fallimento. L’azienda di sole cinque persone le dà l’impressione di una famiglia unita
in cui ciascuno collabora e apprezza il lavoro e il ruolo degli altri. Questa condizione per lei è
particolarmente gratificante dato che nella sua famiglia ciò è mancato, insieme alla stima.
2- La madre le viene più incontro ora che avverte un malessere più contenuto e gestibile. Riescono
ad avvicinarsi a una comunicazione decodificabile e a un minimo scambio utile. Monica infatti ha
chiesto alla madre di stare con lei perché teme di commettere gesti impulsivi. Sembra intravedersi
un briciolo di rispetto tra loro, una debole fiamma verso l’avvicinamento, tuttavia ancora remoto e
precario. Monica pare ricercare quel contenimento e quelle cure mancate da parte della madre,
chiedendole di restare. Forse è tardi, ma in fondo Monica desidera molto avere vicino la madre
anche se spesso dice di odiarla. Ha paura a riavvicinarsi, di attaccarsi per dovere magari di nuovo
perderla e restare sola.
3- È riuscita a riposare bene il fine settimana e a recuperare energie, allentando l’ansia.
4- Ha conosciuto al bar dove va di solito a fare colazione, un ragazzo di 28 anni verso cui ammette
di provare una forte attrazione fisica. Lui l’ha invitata a uscire e lei ha accettato. C’è stato un
approccio ma lei non se l’è sentita di avere un rapporto completo. Lui ha rispettato la sua scelta.
Non si sente all’altezza di uomo a letto e vive male il sesso.
M. C. le dice di non avere paura a rifiutare perché se non se la sente è come se subisse una violenza
e ripetesse situazioni passate. Tuttavia crede che l’incontro possa riaprirla alle relazioni.
Metto in luce come le difese siano meno rigide consentendo l’esperienza che potrebbe aiutarla a
vivere meglio la sessualità, ad accettarsi come donna anche con le sue pulsioni. Potrebbe sentirsi
desiderata, apprezzata rafforzando la stima di sé, anche se quel ragazzo non fosse l’uomo della sua
vita.
Oggi accenno di nuovo agli stili manipolativi, ai ruoli di vittima, carnefice e salvatore a cui sono un
po’ ancorate, anche se si stanno aprendo alla consapevolezza di ciò e a una possibile trasformazione.
Le preparo a un esercizio per AVVERTIRE IL PROPRIO POTERE ED ESERCITARE LA
PROPRIA AUTORITÀ SOSPENDENDO IL RUOLO DELLA VITTIMA.
Si devono alzare in piedi a turno, mostrare prepotenza, senza essere ragionevoli.
Dicono di non farcela ma le aiuto e le autorizzo a esprimere la loro rabbia. Propongo di essere una
persona che le fa arrabbiare così da potere aggredirmi verbalmente.
M. B. vede in me la madre e le dice: “Ti odio!” con tono di astio e rancore.
M. C. invece in me ritrova il ragazzo che amava e che l’ha lasciata e gli dice: ”Stronzo!”
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Mostrano l’emozione della rabbia di una vita, anche se in modo pallido, nel timore di perdere il
controllo e di avere un giudizio negativo da parte mia che mi configuro in parte come l’autorità a
cui si sono sempre sottomesse. Si è intravisto uno spiraglio di catarsi.
17° INCONTRO 24 APRILE 2007
Questo incontro è interamente dedicato a una attività di gruppo di arteterapia.
Per la prima volta invito le ragazze a creare insieme su uno stesso cartellone, senza un tema
prefissato, con la massima libertà di inventiva e di espressione per cogliere l’intesa, la condivisione
e in nuovo creato dai singoli, ma che non rappresenta la semplice somma delle loro individualità.
Assume una prospettiva diversa e impensata. Il risultato è inatteso e carico di simboli, in un
processo in divenire assai divertente, coinvolgente e magico-ludico.
Le ragazze cooperano anche se ciascuna tende a restare nel proprio guscio senza invadere lo spazio
dell’altro. Ognuna occupa circa metà cartello:
-
Monica C. inizia per prima scegliendo la metà sinistra e disegnando le note su uno spartito
azzurro ondulato che ricorda il suo primo simbolo, delle onde. Questo movimento ora
sembra assumere un senso, avere un’armonia e si mescola bene a colori rilassanti come il
verde, o più accesi e vitali come il giallo al centro. La sua impronta è la traccia di sé più
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personale, unica, in cui decide di immergersi nella creazione con un contatto più diretto con
la tempera. Si coglie una sana regressione e un certo abbandono delle resistenze. Si unisce a
Monica B. usando il colore nero da lei scelto, così da unire le loro creazioni.
-
Monica B. con campiture uniformi disegna montagne verdi con affaccio su un lago. Sarebbe
il suo sogno. Ma per arrivare lì c’è una nube nera, che indica avversità e confusione. In
primo piano invece una casa con una porta, i cui bordi sono neri: è una dimora spoglia,
fredda, senza aperture ad eccezione della porta. Tutto è essenziale e desolato, pare ci sia una
enorme solitudine. All’esterno sul prato verde, a fianco della casa troviamo un essere che
Monica non definisce né visivamente, né verbalmente. Ricorda un coniglio, un folletto di
una fiaba, una presenza viva e allegra innanzi a una minaccia di solitudine distruttiva e nera.
La scritta finale di Monica a cornice del lavoro “alla faccia dei reagenti” ha una punta
polemica e ironica verso la massa che non comprende il malessere psicologico e sa solo
consigliare di reagire, come se la depressione e il disagio psichico dipendessero dalla
mancanza di forza di volontà e dalla pigrizia.
Le ragazze confessano di essersi abbandonate all’impulso di esprimersi con scioltezza e libertà,
lasciando fluire le sensazioni, i ricordi, le emozioni, le impressioni per convogliarle su un cartellone
bianco, dove quello che pare vuoto è pieno e pronto per ricreare il mondo interno, un mondo a tratti
caotico e privo di senso ma che in parte ritrova motivazioni e significati tramite il corpo che si fa
veicolo del preconscio.
Entrambe hanno il sogno di una armonia, di un equilibrio pacifico e rassicurante
che pare
lontanissimo. Monica C. cerca di viverlo in questo momento con gioia e speranza, mentre Monica
B. avverte di più l’ostacolo che la separa dal sogno.
Riescono però a intravedere un obiettivo, iniziano a riacquistare una prospettiva per il futuro, senza
ritornare sempre e solo sul passato. Il lavoro è un segnale estremamente positivo della voglia di
superare l’ostacolo e voltare pagina proiettandosi in avanti con più ottimismo e fiducia in se stesse.
18° INCONTRO 4 MAGGIO 2007
La seduta si incentra sul tema della RABBIA e sulla difficoltà di gestirla e i modi per controllarla.
M. B. ammette di avere grossi problemi a gestire l’aggressività e si avere paura che essa si esprima
con violenza.
Le ricordo che affrontare apertamente chi scatena l’aggressività aiuta ad affrontare l’altro senza
perdere il controllo. Ci dice che ciò si manifesta solo nelle relazioni affettive e familiari e non su
quelle lavorative dove in fondo si attacca a un ruolo per dire la sua.
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All’età di vent’anni aveva sbattuto la sorella contro una credenza prendendola a calci e pugni. Ha
sempre in mente questo episodio e teme che possa ripetersi.
Monica C. invece per riuscire a rilassarsi e abbandonare la rabbia si è creata la dipendenza da
spinelli (4 o 5 al dì). Comunica inoltre di essere costretta ad abbandonare la terapia visto che
Maurizio non le dà più soldi. Si è rifiutata di sottoporsi all’ipnosi e pare che lui l’abbia punita in
questa maniera, perpetrando questa relazione di manipolazione sadomasochista.
Spiace a tutte e tre di questa interruzione, soprattutto perché in un momento in cui il gruppo stava
evolvendo, stava assumendo una consistenza e obiettivi più chiari, l’impalcatura crolla senza
preavviso.
Ritornando al tema della rabbia ricordo loro che si tratta di una emozione indispensabile alla
sopravvivenza, che è normale, appartiene a tutti e non possiede connotati morali. Una educazione
rigorosa e repressiva o essere testimoni di violenza non aiutano a esprimerla in modo adeguato,
perpetuando la repressione che indica però anche una castrazione di una parte di sé che prima o poi
preme per emergere.
A questo punto mostro loro un quadro come se fossimo in una galleria e chiedo loro che cosa
trasmettono i colori e che sensazioni avvertono. Si tratta di un quadro informale, anzi per precisione
è uno dei miei lavori, dato che amo l’espressione artistica in modo particolare. Ho utilizzato un
cartoncino giallo e con una spugna ho usato tempera rossa e nera cercando di dar effetti di getto e di
casualità ma creando ugualmente una armonia in quell’apparente disordine.
M. C. ci vede una foresta dall’alto che esprime gioia dai colori.
M. B. al contrario ha una sensazione di tristezza per la presenza del rosso e del nero.
Troviamo vissuti alquanto differenti e ciò dipende dai diversi stati d’animo del momento ma anche
dal diverso retaggio culturale in relazione alla simbologia dei colori. Infatti Monica C. attribuisce
energia e vivacità al rosso, giallo e nero, mentre M. B. coglie l’aspetto del disturbo e dell’irruenza.
Si è trattato di un esercizio di traduzione delle emozioni e di un confronto di vissuti.
Infine invito le ragazze a rappresentare delle MASCHERE tramite il mimo facciale e dare a essa un
nome. M. B. riproduce “il sorriso elastico”in cui sorride solo con gli angoli della bocca e non con
gli occhi. M.C. invece fa “la faccia da culo” in cui si sforza di ridere ma senza sentirlo.
In entrambe lo sguardo è rassegnato, come se fossero condannata a fingere di stare bene nella
società, per non essere compatite, giudicate o derise. Comunque sia non otterrebbero la
comprensione per cui abbandonano se stesse per sfoggiare un Falso-Sé sicuro, felice e in grado di
affrontare la vita.
Le invito ora a gettare quella maschera e a essere se stesse in un momento difficile, riproponendo
l’espressione a loro più consona allo stato d’animo interno.
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M. B. ci mostra l’espressione catatonica, mentre fissa il vuoto, quando il dolore è molto forte.
M. C. all’incirca fa la stessa espressione per cui si chiude in se stessa, si ritira senza espressione
alcuna del volto. Per entrambi il corpo sembra non volere comunicare con l’altro, ma piuttosto
dividere innanzi a un dolore incomprensibile anche a sé.
Ritorniamo al nostro gruppo che sta per chiudersi senza una preparazione e con obiettivi ancora da
realizzare e un sostegno ancora da avere. Tuttavia cerchiamo di lasciarci con alcuni punti di
riferimento da tenere a mente e da assimilare:
-
Guardare al futuro accettando maggiormente i propri limiti ma anche rafforzando le risorse.
-
Accettare di abbandonare relazioni patologiche tenendo a mente di auto osservarsi nel
proprio ruolo per non fissarsi nei panni della vittima rispetto a un carnefice.
-
Lasciare fluire le emozioni magari attraverso l’arte, la scrittura, o la mimica allo specchio,
senza l’angoscia ossessiva di esprimere l’aggressività in maniera esplosiva, cercando
quando si sentono più vulnerabili di qualificare e quantificare giorno per giorno le emozioni.
-
Continuare il processo verso l’autonomia nonostante le resistenze e le paure, per poter
contare più su di sé che non sugli altri senza però sfociare in un clima psicologico di
diffidenza e paranoia.
-
Sperimentarsi anche nelle piccole cose da soli per provare ad affermare il proprio valore e la
propria autostima così spesso labile e minata dall’esterno ma anche dall’interno.
-
Evitare nelle oscillazioni umorali crisi da provocare acting-out.
-
Custodire l’esperienza di gruppo e farne un buon uso nella vita.
2- FOLLOW UP
Monica C.
Mi ha telefonato ad agosto con il desiderio, o meglio il bisogno di potere di nuovo fare parte del
gruppo. Aveva tentato di nuovo il suicidio e si sentiva sol poiché lo psichiatra era in ferie, Maurizio
non la capiva e non le passava più denaro. Disse che l’avrebbero ripresa come sostituta per le
collaborazioni domestiche a tempo determinato. La sospensione del gruppo e di quel riferimento
continuativo l’aveva destabilizzata, anche se in verità il suo contesto era inadeguato. Non sapeva se
avrebbe cresciuto bene il figlio, anche se, a suo dire, ciò che la tratteneva dal togliersi la vita era suo
figlio e il fatto che lui aveva bisogno delle sue cure e della sua presenza.
Il non sentirsi compresa le faceva perdere il controllo.
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Non so più nulla di lei ora anche se temo i suoi agiti e il fatto di non avere più avuto notizie neppure
quando l’ho informata della possibilità di riprendere le attività di gruppo. Monica sapeva di
rischiare tutto in certi momenti, ma voleva sfidare se stessa e gli altri per dimostrare di esistere e di
valere. Il gruppo le forniva un sostegno emotivo e motivazionale per affrontare la vita e le avversità
vista la precarietà del suo sistema emozionale. La brusca interruzione era paragonabile a una
separazione affettiva per certi aspetti devastante e mortifera.
Monica B.
29 OTTOBRE 2007
Su sua richiesta di riprendere il discorso degli incontri di gruppo o individuali ma legati
all’arteterapia, abbiamo ricominciato a vederci abbandonando il gruppo, per mancanza attuale di
adesioni a questa iniziativa.
Monica da giugno dice di avere trovato un miglioramento più stabile nel tempo visto che non ha più
avuto crisi o momenti troppo difficili. Nel lavoro sembra avere trovato un buon equilibrio per cui si
sente utile e gratificata, senza dovere lottare per la sopravvivenza evitando il fallimento. Il lavoro le
garantisce una certa sicurezza interna ed economica.
Con la famiglia continua ad avere un rapporto difficile anche se sembrano avere un rapporto più
pacifico, almeno a livello formale.
Ha smesso la dipendenza da alcol ma oramai è divenuto un rito l’uso di cocaina il venerdì sera. La
sostanza non le crea euforia, esaltazione di sé e delle sue capacità, anzi la fa addormentare. Lei
sostiene che è un modo per stare con gli amici visto che da sola non ne fa uso e non ne sente
neppure il bisogno. Ha una funzione aggregante provocando tachicardia e dandole spinta per parlare
di più, per socializzare. Alla stessa stregua l’alcol la univa ad altri anche se l’obiettivo principale era
consentire l’espressione dell’aggressività. Ora invece si è resa conto che tutto questo è inutile, in
certi casi perfino dannoso.
Ora ha un caro amico, Giulio che si è innamorato di lei, nonostante sia sposato. Lei tuttavia non
contraccambia anche se alcuni giorni fa ha avuto un rapporto sessuale con lui. Dopo questo evento
lui ha deciso di lasciare la moglie. Monica allora ha provato un forte disagio. Teme molto di perdere
l’amicizia di Giulio e di ripiombare nella solitudine. Lui è molto gentile e sensibile nei suoi riguardi
e pare capirla a fondo.
Ammette di non provare orgasmi nei rapporti sessuali, anche se insieme mettiamo in luce come
abbia comunque accesso al piacere. Tuttavia ha una paura folle di perdere il controllo come se le
pulsioni aggressive o sessuali senza distinzione possano essere estremamente pericolose. Tra l’altro
con il suo ex-compagno ha sperimentato solo la violenza di rapporti sadomasochisti.
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Monica è più predisposta ad aprirsi con me e a trattare anche argomenti tabù. Mostra un po’di
sicurezza in più.
Riprendiamo a questo punto il rapporto col il foglio e il materiale da disegno. La sottopongo in
realtà al test della figura umana per potere accedere di nuovo al suo mondo, all’immagine che ha di
sé, anche di fronte agli altri.
Monica disegna con un pennarello rosso un omino stilizzato con appena gli occhi e la bocca girata
con gli angoli verso il basso. Occupa il centro del foglio pur non occupando molto spazio. Dedica
forse un minuto a questo disegno come se avesse paura a descriversi a fondo o come se ciò che
stesse facendo non fosse abbastanza interessante. Le chiedo di commentarlo. Dice di avere fatto
volutamente un disegno stilizzato, privo di tutto, come se fosse un essere umano privo di
sentimenti. È un’immagine vuota. Non sa perché ha scelto il rosso, ma quel colore non le piace, la
infastidisce molto. È incapace di trasmettere atteggiamenti e sensazioni. Mostra soltanto di non
essere felice.
Monica mi comunica molto con questa figura umana così anestetizzata emotivamente. Cerca quasi
di sparire ma è infelice. Avrà superato la sua crisi ma la sua immagine è ancora aleatoria, anche se
traccia bene i suoi confini con l’esterno a differenza della volta precedente due anni prima in cui il
contorno era sottile, impercettibile, in balìa del mondo. La difficoltà ora è affermarsi con vigore e
più ottimismo e fiducia in se stessa.
Le ho poi chiesto di dare un titolo e di commentarlo. L’ha chiamato “INCAPACITÀ
“ perché questa è la sensazione che avverte maggiormente e che la blocca.
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L’ho poi inviata a disegnare un albero utilizzando matite colorate, pennarelli, pastelli a cera o
gessetti a sua scelta. È sempre partita dal centro del foglio, dal tronco, utilizzando il pennarello
marrone con cui tratteggia e non riempie il tronco. Il tratto veloce che non riflette troppo è
immediato. Non gli traccia il bordo lasciando non definito quell’Io che tenta sempre più di collocare
in mezzo. Le radici sono assenti sempre nel tentativo di reprimere le pulsioni e di lasciare in
sospeso il legame con il passato con un vuoto, uno spazio bianco al di sotto. Molta attenzione
invece pone alla chioma che delimita con precisione e con tratti più circolari. È una chioma ricca e
sfumata in cui il bisogno di relazioni emerge in maniera chiara come anche il varco che la divide
però dagli altri. È ricca di vissuti, di emozioni accese, l’albero è verde anche se in mezzo disegna
alcune foglie marroni. Dice che si tratta di un albero in autunno: mette tristezza e per lei indica la
fragilità nel rapporto con gli altri, la solitudine e la perdita.
Rispetto all’albero disegnato lo scorso anno troviamo enormi differenze:
era un albero trasparente, fatto con soffio di matita, spoglio, arido, piccolo e privo di una qualsiasi
collocazione visto che le radici e i rami erano simili, quasi intercambiabili. Lì l’angoscia di
frammentazione era potente e annichilente.
- NOVEMBRE 2006
- NOVEMBRE 2007
5 NOVEMBRE 2007
Monica inizia a parlarmi di un suo sogno ricorrente ovvero quello in cui tenta di riavvicinarsi a una
persona a cui ha voluto bene ma che ora non c’è più nella sua vita (amica, ragazzo, ecc…)
Ogni volta si sveglia di soprassalto con l’angoscia senza riuscire più a tornare a dormire. Infatti
viene rifiutata dall’altro e la perdita è definitiva. Insieme vediamo come lei in fondo osservi delle
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parti di se stessa. La parte che rifiuta è quella che non fiducia in sé e che è convinta a priori di non
valere abbastanza per cui gli altri non la desiderano.
In altri sogni prova rabbia verso un altro senza sapere come comportarsi, quando la rabbia è anche
rivolta a se stessa per non riuscire a imporre le sue idee alla pari di un altro, come se fosse più
debole o inferiore.
Mercoledì è riuscita dire a Giulio di non essere innamorata di lui e di volere soltanto una amicizia.
Infatti le avevo detto di pensare a ciò che voleva davvero e di non sacrificare la sua felicità in nome
di una sicurezza solo per paura di restare sola. Le dico che è stata brava ad affermare ciò che sente e
di essere stata se stessa. Ora non avverte più quel senso di soffocamento e si sente più libera. Ora
Giulio è malinconico e fatica a vederla ma era inevitabile.
Ora le faccio svolgere un esercizio in cui deve scegliere con ciascuna mano un colore e poi mettere i
due colori sul foglio e partire a tracciare linee insieme. Si può fare qualcosa di definito ma anche di
astratto. Basta che segua l’impulso fino a che esso si esaurisce.
Prende con la destra un pastello rosa e con la sinistra uno viola. Parte con entrambe le mani con
grande impeto tracciando in maniera continuativa senza staccare i colori dal foglio circoletti dal
basso verso l’alto. La mano destra segue la parte destra del foglio, mentre la sinistra disegna sulla
parte sinistra cercando in vari momenti la sovrapposizione. Alla fine prova disegnare alcune
foglioline nella parte alta.
La invito a dare un titolo e lei mi risponde “Nuvole soffici e foglie al vento”. Trova la duplicità
nella fragilità ovvero: non solo la fragilità e la labilità, ma anche la libertà di espressione delle
sfumature interne. È come se si fosse liberata con gioia durante quella creazione delle “seghe”
mentali.
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Le domando se ha avuto l’impressione di giocare come un bambino. Mi dice che il bambino non le
ricorda spensieratezza ma piuttosto crudeltà. Da lì ripercorre la sua infanzia infelice in mezzo agli
altri bambini che la escludevano e la deridevano per via di un rachitismo a un braccio. Era in
simbiosi con la madre che la proteggeva e la accompagnava sempre all’ospedale per la terapia
riabilitativa. Con l’inizio delle scuole elementari si è sentita sradicata come l’albero che aveva
disegnato lo scorso anno, e aveva paura. Nessuno la capiva tranne la madre.
Tuttavia quando Monica inizia ad avere 13 anni la madre cambia radicalmente atteggiamento.
Quella che inizialmente voleva essere una ribellione al marito padrone violento, si trasforma in una
sorta di rifiuto dell’intera famiglia, figlie incluse. Divenne aggressiva, esigente, estremamente
critica e acida soprattutto verso Monica, così tanto amata e protetta e ora tanto vezzeggiata.
Era stato l’interesse della madre per un altro uomo che aveva fatto temere anche che la madre
avesse potuto abbandonarla. Questo stravolgimento, terremoto affettivo ha creato in Monica un
trauma, una confusione e un terrore di abbandono con un bisogno costante di amore.
Dopo tanti incontri è emerso il motivo della rabbia e del rancore verso la madre che senza un
motivo valido l’ha abbandonata emotivamente. In una fase delicata di formazione come quella
dell’adolescenza Monica ha sviluppato una personalità border e dipendente anche per questi
decisivi fattori ambientali in relazione a una sua vulnerabilità e sensibilità spiccate.
21 NOVEMBRE 2007
Monica si trova in un periodo più costruttivo e propositivo, con un buono slancio verso il futuro. Sta
sistemando la sua nuova casa di Castenaso con interesse, con un certo zelo che rivela la cura che
cerca di avere verso se stessa. Per motivi economici decide di continuare il percorso ma con una
frequenza di due volte al mese.
Il rituale dell’assunzione di cocaina il venerdì sera prosegue ma ora una psicologa dipendente
proprio dalla cocaina le ha chiesto il favore di andare da un barista che la spaccia per portargliela.
Monica di malavoglia ha accettato dicendole che non lo avrebbe fatto più:non vuole immischiarsi in
faccende delicate e pericolose, favorendo lo spaccio e un danno psicofisico di un altro. Questa
ragazza le avrebbe detto che a gennaio va a disintossicarsi su spinta dei familiari, anche se lei è
convinta di farcela da sola e che si tratta solo di stress lavorativo.
Invito Monica a riflettere su questa ragazza e sul mondo che ruota intorno alla droga: in apparenza
sembra tutto normale ma non lo è visto che il ricorso alla sostanza riempie un vuoto, la noia di
vivere o l’assenza di emozioni.
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Monica si trova in accordo e questo tipo di vita le fa un po’ schifo. Non vuole essere sola, ma le
dico che stare insieme a persone in fondo più sole di lei non la aiuta affatto.
Mi riporta che nelle due ultime settimane ha provato rabbia, irritabilità. Soprattutto verso la sorella
è poco tollerante. Su di lei ha riversato la rabbia che ha accumulato nei riguardi di tutta la famiglia.
Non vorrebbe provarla, le crea disagio. Le ricordo di nuovo come sia un sentimento umano,
normale e persino protettivo. Anzi avvertirla, prenderne consapevolezza diviene importante e
prezioso, soprattutto per evitare che esploda e anche per capire da dove viene e a chi è rivolta.
In questo incontro le propongo un esercizio di collage.
Le ho disposto alcune riviste piene di immagini: Monica dovrebbe sfogliarle, osservare le figure che
le piacciono e quelle che la infastidiscono , cercando di abbandonarsi alle impressioni e non alla
razionalità, senza cercar spiegazioni. Dovrebbe poi ritagliare tre immagini attraenti e tre invece
disturbanti o repellenti separando i due gruppi.
Monica incolla prima le immagini che le creano disturbo e occupa la parte destra del foglio
lasciando vuota la parte di sinistra.
L’immagine delle ragazze in inverno le ricorda la neve che ha sempre odiato, perché le arrecava
tristezza. La neve scende nel silenzio e mette in primo piano la solitudine esistenziale. Decide tra
l’altro di conservare la pagina per intero e la colloca nella parte bassa, quella più legata agli affetti,
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alle pulsioni e ai bisogni primari. Si tratta di una solitudine silenziosa, senza eccessivi lamenti che
però ha bisogno di ricevere una risposta, ha bisogno di essere accolta.
Il ragazzo tatuato invece sembra incarnare la superficialità e la codardia maschile di oggi. Non
riesce a trovare un uomo che si prenda cura di lei s che si assuma delle responsabilità.
Il seno con la bocca invece riporta alla memoria un ricordo estremamente doloroso, ovvero quello
di molestie da parte del marito della sorella quando era più piccola. Prova disgusto e in fondo quella
difficoltà a lasciarsi andare nell’intimità può avere radici lontane e può non essere mai stato
affrontato a causa di un dolore troppo grande da gestire.
Su un foglio posto alla destra del precedente Monica attacca le tre immagini positive e piacevoli.
Non lascia nessuno spazio vuoto in questa occasione.
A sinistra la ragazza con gli addobbi in testa le ricorda il Natale, ricorrenza che vuol affrontare più
positivamente cercando di superare il lutto del figlio morto in dicembre di due anni fa. È un
tentativo coraggioso di rinnovarsi e voltare pagina.
Al centro in alto quasi su un podio c’è l’immagine di un cane che ricorda il suo, Kira, che al
momento è la cosa più bella e importante che ha.
La donna di destra è stata scelta per i colori caldi e intensi che sprigionano gioia e ricordano la
primavera.
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Tutte queste immagini sono parti di Monica, vive, attive e anche scisse.
Decidiamo di rivederle meglio insieme la volta successiva, lasciando così anche uno spazio in
mezzo per la riflessione e la elaborazione.
4 DICEMBRE 2007
Dopo due settimane Monica mi racconta del tentativo fallito di sospendere l’assunzione dello
psicofarmaco il “Mutabon forte”, un neurolettico con cui in fondo ha trovato una certa stabilità
senza troppi effetti collaterali. Ha subito una crisi di astinenza e afferma che i farmaci sono come le
droghe con relativa dipendenza. Non le nego questo ma affermo che i farmaci vanno gestiti proprio
per la loro delicatezza e pericolosità, solo da chi ne è davvero competente.
Essendosi accorta degli scompensi, ovvero di un netto calo energetico e di un ridotto slancio vitale,
ne ha ripreso l’assunzione. Spero di averla persuasa a ricontattare la sua psichiatra di cui per altro ha
grande stima.
Racconta di nuovo dell’amica psicologa tossica che finalmente ha scelto di andare in comunità e di
provare a seguire percorso per smettere di assumere la cocaina. HA crisi di astinenza già molto
invalidanti, con scariche e spasmi quasi epilettici, agiti aggressivi auto ed etero distruttivi.
Tra l’altro ha lasciato debiti con uno spacciatore e ha chiesto la cortesia a Monica di contattarlo per
tranquillizzarlo che restituirà tutto. Monica sente di non volere entrare in un mondo manipolatorio
come quello della droga e sembra intenzionata a volerne restare al di fuori.
La psicologa le ha anche proposto sedute a pagamento a Monica la quale si è rifiutata. Questa
proposta non è stata professionalmente corretta soprattutto quando essendo in un rapporto di
conoscenza approfondita, si confonderebbero i ruoli e soprattutto si perderebbe lo scopo. Tale
psicologa infatti sembra essersi attaccata a Monica come a volere trovare un valido sostituto alla
cocaina e stabilire una dipendenza patologica. Monica è vulnerabile alle relazioni di dipendenza e
sta lottando per rifiutare un rapporto a rischio per il suo precario equilibrio.
Il completamento di Monica ora è realizzare se stessa da sola magari in compagnia di un amico
fidato di cui prendersi cura come il suo cane.
Oggi le propongo un’attività con i colori a olio, lavorando su un preconscio profondo.
Le lascio scegliere i colori e anche i quantitativi. Non prescrivo una forma precisa, la consegna è di
mettere a piacimento e casualmente i colori sul foglio, in maniera grezza, senza usare i pennelli,
volendo anche mescolandoli. Successivamente il foglio deve essere piegato a metà e premuto bene,
soprattutto nei punti in cui lo si desidera di più e si vuole spandere il colore creando effetti
particolari.
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Monica usa tutti colori terra, come giallo chiaro e scuro, arancione, sabbia, marrone e il blu scuro
brillante.
All’apertura del foglio troviamo una enorme macchia pastosa e intensa di forma quasi circolare e
attaccata sopra una ulteriore piccola macchia blu. Lo intitola “IL deserto” perché immediatamente
le ricorda il deserto egiziano visto due anni prima in vacanza. Sembrano non esserci i confini tra il
cielo e la terra. Due sensazioni contraddittorie investono Monica:
-
da un lato lo stupore innanzi alla magnificenza della natura, alla bellezza dei suoi colori, alla
perfezione del cosmo;
-
dall’altro il senso di nullità dell’essere umano, della sua limitatezza in questo universo così
silenzioso.
Monica osserva una somiglianza con le tavole di Rorschach anche se in questo caso è lei l’artefice
delle macchie e lei al tempo stesso l’interprete.
È come se fosse stata investita di una carica importante che ha accettato con orgoglio, scoprendo di
valere di più di quello di cui era convinta.
Può anche ruotare quel foglio e scoprire nuove immagini, come una magnifica farfalla che vola.
Ciò che ha creato lascia spazio a ulteriori fantasie e processi creativi per accedere a se stessa.
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CONCLUSIONI
Le mie considerazioni sono limitate all’osservazione di un percorso triennale, variegato e
tortuoso dove l’evidenza e la validità scientifica non sussistono ma dove indubbiamente
l’esperienza umana e il contatto con il disagio psicologico, psichiatrico ed esistenziale hanno
avuto un ruolo fondamentale per provare almeno in parte ad affrontare e contenere ciò che si è
presentato di volta in volta : rabbia, angoscia, dolore, solitudine, vuoto, impotenza, fragilità,
impulsi dirompenti….
Come già detto nei lavori precedenti di tesi, sono scesa con i ragazzi nel loro mondo e gettare
luce su aspetti per loro sconosciuti e mostruosi, acquistando autoconsapevolezza di tante
sfaccettature, tra le quali:
1) i limiti (che causano sofferenza) e rigidità;
2) le risorse e capacità legate allo slancio vitale infantile, alla creatività e alla sperimentazione
in un setting contenitivo e accogliente come una buona madre;
3) le difese che vorrebbero sentire meno rigide , massicce e invalidanti, ma che per molti
aspetti li hanno salvaguardati da sofferenze ben più profonde;
4) le paure ancestrali, risalenti a un’ infanzia dove l’amore è stato insufficiente o eccessivo, o
sottratto tutto in una volta in modo traumatico;
5) il relazionarsi che risulta spesso stereotipato, legato a ruoli fissi e a uno stile
inconsciamente manipolativo, e non basato su uno scambio sano e costruttivo;
6) le emozioni proprie e altrui e la capacità di identificarsi e condividerle;
7) le pulsioni che non sono sempre impulsi oscuri, incontrollabili, ingestibili ma parti
fondamentali di sé da non reprimere e schiacciare, bensì da indirizzare in canali di
espressione costruttivi come l’arte, la parola e il corpo, così da non essere più distruttivi,
esplosivi e afinalistici come nel caso dell’aggressività auto ed etero diretta;
8) il Super-Io, la coscienza, il tribunale interno che spesso è troppo esigente, critico, sadico e
portatore di ideali di perfezione irraggiungibili, ereditati da famiglie autoritarie, con un
senso costante di fallimento e bassa autostima;
9) la fragilità e vulnerabilità come essere dipendenti da ogni piccolo mutamento interno e/o
esterno con reazioni emotive eccessive che vanno a turbare un equilibrio precario e
sensibilissimo;
10) la dipendenza affettiva che porta alla disperazione e al senso di abbandono nel caso in cui
l’altro lo lasci o nel caso in cui ci sia il timore di un remoto abbandono, con conseguenti
tentativi tragici e distruttivi di sostituzione dell’oggetto amato perduto (droghe, alcol,
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shopping compulsivo, sesso compulsivo, abbuffate o astinenza da cibo, ecc..), oppure
tentavi di drammatizzazione inconscia e teatrale di sofferenza per conservare l’attenzione
dell’altro su di sé e far leva sul senso di colpa dell’altro per non essere lasciato, senza
lasciare l’altro davvero libero di scegliere;
11) La comprensione, accettazione e condivisione empatica ed emotiva-cognitiva in un
gruppo terapeutico per affrontare le incomprensioni all’esterno con maggiore forza e
tolleranza;
12) il bisogno di maturare, conservando l’entusiasmo infantile ma ricercando al tempo stesso
la flessibilità, l’adattamento alla realtà, la tolleranza della mancanza e della
frustrazione più tipiche dell’adulto, così da poter seguire il principio di realtà e incanalare
meglio le pulsioni;
13) assumersi le responsabilità senza sensi di colpa, senza avvertire dentro un peso
insostenibile e insopportabile e senza sentire un senso di inferiorità rispetto al compito,
trovando così il “locus of control” dentro e non fuori di sé, riscoprendo la propria
autodeterminazione;
14) il desiderio di ritrovare un po’di benessere senza rinunciare ai sogni, ma sapendo di
dovere passare attraverso una trasformazione abbandonando la certezza della malattia
e del compromesso che spesso essa porta con sé;
15) l’enorme motivazione necessaria ad affrontare un percorso di crescita senza la sicurezza
del risultato, visto la pervasività dei disturbi di personalità e di una importante componente
neurologica ed ereditaria. Si tratta di conservare questa motivazione, di rinnovarla, di darle
senso ogni volta;
16) La pazienza nel sopportare i tempi lunghi del dolore e della trasformazione da parte sia di
chi sopporta la malattia da dentro, sia di chi la accompagna da fuori, consapevoli entrambi
dell’incertezza del percorso e della sola certezza dell’alleanza terapeutica solida per
progredire e crescere nel profondo;
17) Infine l’importanza di un confronto con gli altri e con se stessi per comprendere la necessità
di una convivenza sociale in cui la rabbia non è un pericolo ma una ulteriore risorsa da
salvaguardare e gestire correttamente.
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