SETTIMANA n. 4/03

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approfondimenti
UNA PUNTUALE RIFLESSIONE NELL’ANNO BICENTENARIO DELLA NASCITA DEL GRANDE COMPOSITORE
La religiosità
di Giuseppe Verdi
Tra i tanti aspetti della vita del celebre compositore, anche quello della sua
fede/religiosità non è stato sufficientemente approfondito. Al di là delle parole dello
stesso Verdi, ci sono gesti e testimonianze che lo raccontano almeno come un uomo in
ricerca della verità anche attraverso i personaggi di cui musicato le parole.
settimana 8 settembre 2013 | n° 31
N on solo concerti o iniziative prevedibili in occasione del 200° anniver-
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sario della nascita di Giuseppe Verdi (10 ottobre 1813), ma l’approfondimento della sua religiosità, proprio nell’anno della fede. È un tema oggetto di dibattito: il grande Maestro viene definito da alcuni ateo, da altri agnostico, da altri ancora cattolico convinto…
Ad esempio, per Giuseppe Sinopoli (1946-2001), ne La forza del destino «non c’è alcuna idea di trascendenza. L’atmosfera è assolutamente laica o addirittura denigratoria o irrisoria verso la religione. Molto più che
scene religiose, quelle che dipingono frati e conventi sono scene di costume…». Anche La Vergine degli Angeli «non è un assunto teologico o una disquisizione esistenziale sull’importanza della religione, ma un momento affettivo ed espressivo, in cui il popolo canta e chiede una protezione di cui
sente di aver bisogno. Verdi è lo specchio di una terapia psicoanalitica di
tipo liberatorio. La Vergine degli Angeli è l’espressione di un popolo che
canta un’esigenza espressiva. Per questo è un capolavoro nello stesso senso in cui lo è il Rataplan».1
È bene evitare un’interpretazione ideologica della dimensione religiosa
del Maestro, tenendo anche presente il contesto storico-liturgico del suo
tempo.2 Verdi non amava parlare di sé ed era riservato. Inoltre, la religiosità nel 1800 non veniva manifestata pubblicamente, se non con alcune devozioni. Il popolo “assisteva” in silenzio alla liturgia: ma il senso religioso
della vita Verdi lo ha maturato dalla tradizione cristiana in famiglia.
Verdi ha ricevuto tutti i sacramenti; anche il secondo matrimonio è celebrato a Collages sous Salève (nella Savoia) dall’abate Mermillod, con cui
egli mantenne sempre un ottimo rapporto. Il 26 gennaio 1901, poche ore
prima del trapasso, ricevette la santa unzione da don Adalberto Catena,
parroco della chiesa di San Fedele in Milano, lo stesso che aveva amministrato l’ultimo sacramento ad Alessandro Manzoni, che Verdi considerava
«santo».
Il Maestro era legato all’arcivescovo di Milano, mons. Calabiana, e all’arcivescovo di Genova, mons. Magnasco, che, nel Natale del 1892, concesse la facoltà di celebrare la santa messa nell’appartamento di Palazzo Doria a Genova per desiderio del Maestro e della sposa di seconde nozze.
Nella sua villa di Sant’Agata volle edificare una cappella, per facilitare
la soddisfazione del precetto domenicale anche per i domestici e gli ospiti. Quando Giuseppina Strepponi era inferma, il Maestro era solito spingere
posteriormente la sua carrozzella, tirata a mano da qualcuno dei familiari, per il breve tratto dalla casa all’oratorio. Volle che anche l’ospedale di Villanova, costruito e mantenuto a sue spese, avesse una cappella. All’architetto Camillo Boito, egli disse: «Qui il sacerdote è necessario alle volte più
del medico, e le suore non sembrano creature umane, ma angeli». Anche
a costo di modificare il progetto primitivo, ottenne che la casa di riposo per
musicisti a Milano avesse una cappella interna. Egli raccomandava ai sacerdoti di costruire chiese belle e ampie, promettendo il suo aiuto finanziario.3
In una lettera del 1876 alla contessa Giuseppina Neuroni-PratoMorosini, il Maestro chiese di pregare per lui. Quando il tenore toscano
Fancucelli si lasciò sfuggire una bestemmia per una “stecca”, in una prova
del Rigoletto, si sentì dire da Verdi: «Lascia stare Dio, qui di cani non ci sei
che tu».
Al parroco di Sant’Agata Verdi diede una generosa offerta per la celebrazione di quattro messe per i giovani morti nella guerra d’Africa del
1896.
In una lettera del 9 maggio 1872 a Cesare Vigna, la Strepponi si lamentava del marito: «Questo brigante si permette di essere non dico ateo,
ma certo poco credente, e ciò con un’ostentazione ed una calma da bastonarlo. Io ho un bel parlargli delle meraviglie del cielo, della terra, del ma-
re etc. Mi ride in faccia e mi gela del mio entusiasmo…». In altra occasione ha riconosciuto: «Lo aiutai a pensare a Dio, anche quando meno ci pensava». La sua fede esemplare ha avuto sul Maestro un effetto positivo, favorendo in lui una pratica religiosa più esplicita e convinta. Nella camera
della Strepponi erano molteplici i segni religiosi e anche sul muro, sopra
il letto del Maestro, era appeso un quadro religioso. Ogni anno Verdi si recava in chiesa a Cortemaggiore e sostava a lungo davanti al quadro della
Madonna dipinto dallo Scaramuzza, che ha contribuito ad ispirare La Vergine degli Angeli.
Il pensiero della morte lo ha toccato profondamente fin dagli anni 1838’40 con la perdita dei due figli Virginia e Icilio Romano, nonché della moglie Margherita Barezzi, sposata nel 1836. Chissà quante volte il Maestro
avrà meditato le parole del testamento della Strepponi, la quale lo istituì
erede universale, «pregando l’Altissimo a volerlo proteggere in vita ed in
morte ed a riunirlo a me per l’eternità in un mondo migliore… Addio, mio
Verdi. Come fummo uniti in vita, ricongiunga Iddio i nostri spiriti in Cielo». Verdi ha voluto un funerale (il primo) molto semplice con «un prete,
un cero, una croce», come ha annotato Boito.
Per un maggior approfondimento, poniamo alcune domande a Paola
Mecarelli, musicologa e collaboratrice della Facoltà di musicologia di Cremona (università di Pavia), autrice anche di un saggio sulla rivista Aurea
Parma sul tema religioso in Verdi. La Mecarelli appartiene alla diocesi di
Fidenza, il cui territorio ingloba i centri verdiani più significativi: Roncole, Busseto, Sant’Agata e Villanova.
n Quest’anno ricorre il bicentenario della nascita di Giuseppe Verdi. È un
compositore che ha una bibliografia sterminata. Si può dire ancora qualcosa su di lui?
Non solo si può, ma è doveroso. È verissimo che quanto è stato scritto
su di lui è un mare magnum, tuttavia la questione non è certamente conclusa, e anzi sorprendentemente la figura di Giuseppe Verdi dev’essere ancora approfondita. Penso all’aspetto della “religiosità”, peraltro spesso evocata dai musicologi ma non compiutamente analizzata. In linea di massima, per Verdi si è parlato di una potenziale ricerca della verità, unita a un
fondo di anticlericalismo. In realtà, egli pensava alla Chiesa come ad una
sorta di istituzione che negava in qualche modo la libertà individuale. Non
dimentichiamo che la vita di Verdi si è snodata dagli inizi dell’Ottocento
fino al 1901, e che il compositore ha assistito ad un percorso storico lunghissimo che ha incluso anche l’evento dell’unità d’Italia con il conflitto fra
stato e Chiesa, nella necessità di equilibrare politicamente i due ambiti.
Egli era un fervente ammiratore di Camillo Benso, conte di Cavour, il quale sosteneva la tesi di una “libera Chiesa in libero stato”, e pertanto ha recepito la suggestione storica del momento. Cosa diversa è invece affrontare
la questione del Verdi credente o non credente, e in tale prospettiva va
considerata la sua “religiosità”.
n Verdi era religioso?
Per una buona parte della sua vita Verdi non fu religioso in riferimento alla pratica confessionale, ma tutta la sua produzione musicale fu sempre permeata di grande spiritualità. Per lui la fede fu l’obiettivo di una ricerca continua che espresse attraverso il suo percorso artistico. Un esempio: per il testo del celebre Va’ pensiero dal terzo atto del Nabucco, il librettista Temistocle Solera aveva ripreso il Salmo 137 e fu nel leggere il libretto che gli era stato sottoposto, e in particolare proprio questo passo, che
Verdi si convinse a riprendere l’attività compositiva che voleva abbandonare dopo i primi insuccessi, ma soprattutto dopo i gravissimi lutti che
l’avevano colpito con la morte della moglie Margherita e dei due figli. No-
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n A proposito dell’amicizia tra Verdi e Manzoni...
Tra loro c’era stato qualcosa di misterioso e di delicato che va oltre la
semplice amicizia. In realtà, non ebbero mai rapporti diretti, se si esclude
un incontro propiziato dalla contessa Clarina Maffei insieme a Giuseppina Strepponi. Ma il legame fra Verdi e Manzoni fu comunque molto intenso.
Dopo la morte di Manzoni, in onore e in ricordo dell’uomo venerato,
Verdi compose la Messa da Requiem nella quale mise in luce il dramma
della condizione umana e la questione fondamentale del mondo trascendente che il compositore vuole rappresentare con le parole della liturgia, a
cui la sua musica si piega. Nelle pagine del Requiem si avverte come il Verdi-uomo abbia compreso di non poter eludere l’invocazione a Dio, insita
nel cuore di ciascuno di fronte al mistero della morte. È come il gesto di un
bambino che, aggrappandosi a chi riconosce di averlo generato, manifesta
la sua totale fiducia in lui. È significativo che, per il maestro Ildebrando Pizzetti, «la Messa da Requiem fu un atto di sincera religiosità, e di quella religiosa umiltà che soltanto dei grandi artisti di genio è virtù propria e sublime».
n Anche papa Benedetto, intenditore musicale, ha dedicato parole elogiative al grande Maestro…
Sì, all’esecuzione della Messa da Requiem di Verdi, il 16 ottobre 2010,
il santo padre ha ricordato che il Maestro ha speso l’esistenza a scrutare il
cuore dell’uomo e a mettere in luce nelle sue opere il dramma della condizione umana, i vari stati d’animo che si alternano tra angoscia e speranza. Il papa nota che nel Requiem si passa dal grido della disperazione davanti alla morte all’accorata e sommessa invocazione Libera me, Domine.
Per Benedetto XVI «questa cattedrale musicale si rivela come descrizione
del dramma spirituale dell’uomo al cospetto di Dio onnipotente, dell’uomo
che non può eludere l’eterno interrogativo sulla propria esistenza».
Il fatto che, in una lettera all’editore Ricordi, Verdi si definisca «un po’
ateo» significa anzitutto che egli non si è dichiarato «totalmente ateo». Carlo Nasi ebbe a Sant’Agata alcune confidenze dalla Strepponi circa la religiosità del marito: «Prima magari era anche lui un indifferentone, e lo sono stata anch’io. Ma da parecchi anni, da quando ci siamo sposati, egli non
comincia la giornata e non la chiude senza farsi il segno di croce: ogni domenica va a messa, con ogni tempo, qui o altrove». Don Seletti, che frequentava abitualmente il Maestro a Sant’Agata, diceva che Verdi «era un
buon cristiano e che nel Bussetano avrebbero dovuto essere tutti come
lui».
È significativo, infine, che ne La forza del destino si trovino anche due
storie di conversione e di avvicinamento a Dio: quella di Leonora, che riconosce drammaticamente le sue colpe e decide di ritirarsi in una vita eremitica, e quella di don Alvaro, che lotta tra il mondo e una vita in solitudine con Dio. È pure interessante notare che, nelle due versioni de La forza del destino, quella del 1862 per San Pietroburgo e quella del 1869 per
La Scala di Milano, i finali cambino: nella prima don Alvaro termina la vita suicida, rifiutando l’abito religioso e invocando l’inferno; nella seconda,
invece, egli accoglie le parole del frate guardiano a confidare nel perdono
di Dio e l’opera termina con le parole Salita a Dio. L’amore di Dio offre luce, senso e speranza anche nel buio. È l’apporto della fede.
n Il desiderio di credere non si trasformò mai in vero atto di fede?
Per Verdi la ricerca della fede è sfociata negli ultimi anni nell’abbraccio
con la Chiesa, anche se ciò avvenne con grande pudore e riservatezza come era nello stile del Maestro. Egli infatti, insieme a Giuseppina, cominciò
a frequentare settimanalmente la santa messa. Sono i documenti e le testimonianze a rivelarlo. Nella primavera del 1897 il vescovo della diocesi
di Fidenza, G.B. Tescari, assegnò a un giovane sacerdote docente in seminario e poi vescovo di Lecce, don Alberto Costa, l’incarico di celebrare la
santa messa festiva per quattro mesi nella cappella di Verdi nella Villa di
S. Agata.
La testimonianza di don Costa, pubblicata da La Scure di Piacenza il 30
marzo 1941, rivela: «Ebbi ogni volta l’impressione di trovarmi davanti a
persona che sentiva profondamente la fede. Il Verdi assisteva alla s. messa – (e nei quattro mesi non mancò mai al compimento di un tal dovere di
buon cattolico) – in un atteggiamento devoto, raccolto, non mai seduto,
ma a seconda dei movimenti, in piedi o in ginocchio. Ricordo poi come
mi riconoscevo edificato dal gesto ampio con cui il Maestro si faceva il segno di s. croce. Con Verdi assisteva alla santa messa la pia Giuseppina
Strepponi e, quando erano ospiti della casa, le celebrità del mondo artistico teatrale, tra le quali Arrigo Boito e la cantante Stolz».
Suor Maria Broli, superiora delle suore di Mezzani, narrava che Verdi,
entrato una volta nella cappella dell’ospedale di Villanova insieme a lei e
ad Arrigo Boito, disse a quest’ultimo: «Lèvati il cappello, c’è il sacramento».
n Però l’ultima opera di Verdi, il Falstaff, è considerata un momento dissacratorio e cinico nella rappresentazione dell’umanità.
In tutta la sua produzione Verdi dimostra di non essersi mai sottratto
al pensiero di Dio. Vi sono alcune tappe salienti all’interno della sua musica che lo sanciscono. Oltre alla già ricordata spiritualità espressa nel Nabucco, ci sono esempi emblematici. Nel quarto atto del Macbeth è particolarmente significativa la riflessione che Verdi fa sul tema della coscienza e della responsabilità delle azioni umane. Mi riferisco in particolare all’aria Pietà, rispetto, amore, che è la dimostrazione del senso del peccato provocatore di dolore e di punizione divina. Si pensi anche agli espliciti ricorsi alla Madonna, come La Vergine degli Angeli nel secondo atto
de La forza del destino, o l’Ave Maria intonata da Desdemona nel quarto
atto dell’Otello.
Nelle opere di Verdi è sempre presente un potente desiderio di fede.
Anche nell’Aida, nonostante sia l’unica opera verdiana che non si svolge in
ambiente cristiano e cattolico o biblico, Verdi, pur in un contesto pagano,
non rinuncia a simboleggiare la coscienza di una rinascita come riscatto ai
contrasti e alle ingiustizie in terra. Significativo in tal senso è, infatti, il
congedo dalla vita da parte di Aida e Radames nel finale dell’opera quando essi, consegnati ormai alla morte, intonano quella che è comunque una
preghiera: «O terra, addio, addio, valle di pianti/ Sogno di gaudio che in dolor svanì/ A noi si schiude il ciel e l’alme erranti/ Volano al raggio dell’eterno dì».
Non è la tragedia epica la vera protagonista del melodramma verdiano,
ma è il dramma intimo individuale, che conduce i personaggi verso spontanee invocazioni a Dio. Nel Falstaff, rappresentato per la prima volta nel
1893, Verdi mette in scena la tragedia dell’uomo contemporaneo, una specie di miles gloriosus che si ritiene autosufficiente e quindi è privo di valori, poiché gli unici valori da lui riconosciuti sono le proprie esigenze individuali, senza alcuna proiezione nei confronti degli altri. Il finale dell’opera è significativo. Nella grande fuga conclusiva (dodici parti reali più
l’orchestra) viene detto che Tutto nel mondo è burla, ma non in senso farsesco bensì come tragica mascherata in cui l’uomo accetta la sua autodistruzione rinunciando agli ideali.
Negli anni in cui Verdi componeva il Falstaff, il positivismo dilagava imponendo un’antropologia bastante a se stessa, chiusa al mistero dell’uomo.
Con quest’opera Verdi ha voluto mettere in guardia dal pericolo esistenziale del secolo che è prossimo a venire, quel secolo del relativismo dove
scompare ogni richiamo alla ricerca della verità, e nel quale, proprio per
questo, si consumeranno le più grandi tragedie sociali. Come tutti i geni,
Verdi consegna alla storia la sua profezia attraverso il proprio linguaggio
artistico. Questa mia interpretazione è sostenuta dal fatto che Falstaff fu effettivamente l’ultimo melodramma composto dal Maestro, ma non fu la
sua ultima composizione musicale perché nel 1898 uscirono i Quattro pezzi sacri.
n E questo ha un significato particolare?
Sì, i brani che compongono il ciclo dei Quattro pezzi sacri furono concepiti e composti da Verdi ciascuno in modo autonomo rispetto agli altri
nell’arco degli ultimi dieci anni per essere pubblicati insieme nel 1898, tre
anni prima della morte del Maestro: Ave Maria, Stabat Mater, Laudi alla
Vergine Maria e Te Deum sono un testamento spirituale. Per Benedetto
XVI i pezzi sacri sono «un segno dell’inquietudine spirituale del Maestro,
un segno che l’anelito verso Dio è iscritto nel cuore dell’essere umano, perché la nostra speranza riposa nel Signore».
Si tratta di un progetto di preghiera e di speranza che si sviluppa con
la meditazione sulla figura di Maria, la quale rappresenta e accompagna
la vicenda umana, per concludersi con la struggente dossologia del Te
Deum. I Quattro pezzi sacri sono, in altre parole, la risposta di salvezza che
Verdi identifica per se stesso e per tutti, dopo il forte richiamo al pericolo di autodistruzione che l’uomo può concepire per quella sua negligenza
individualista, raccontata attraverso il Falstaff. Se così non fosse, perché
il Maestro avrebbe chiesto di essere sepolto proprio con la partitura del Te
Deum? Credo che Verdi abbia voluto chiudere la propria esistenza elevando la sua personale lode a Dio. Forse, il bicentenario della nascita del
Maestro potrebbe aiutare a fare una lettura “libera e storicamente documentata” sulla sua religiosità, superando finalmente interpretazioni riduttive o di parte.
a cura di
L. Guglielmoni - F. Negri
1 Bentivoglio L., Il mio Verdi, Ed. Castelvecchi, pagg. 122-123; Prosperi V., La Messa da Requiem di Giuseppe Verdi. Guida all’ascolto, Ed. Calosei, Cortona 1994, pagg. 11-57.
2 Basterebbe leggere l’opera di Antonio Rosmini, Delle Cinque Piaghe della Santa Chiesa,
edito nel 1848, per conoscere meglio la liturgia e la pastorale del tempo.
3 Botti F., Verdi e la religione: note storico-critiche, Anonima Zafferri, Parma 1940; ID.,
Giuseppe Verdi, I Dioscuri, Genova 1990, 2ª ed.
settimana 8 settembre 2013 | n° 31
nostante questi grandi dolori, Verdi non si abbandonò ad una ribellione disperata, ma si fece ispirare dal testo di una preghiera biblica a guardare di
nuovo avanti. E la Bibbia, insieme a Shakespeare, Dante e Manzoni, furono le letture che accompagnarono sempre la sua vita.
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