Il “corpo transessuale” in una prospettiva simbolico-ermeneutica: tra mancanza, desiderio e decostruzione. di Alessandro Taurino, Università degli Studi “Aldo Moro” di Bari Paola Bastianoni, Università degli Studi di Ferrara Parole chiave: transessualismo, corpo, sessualità, genere, identità Introduzione: obiettivo del contributo ed interrogativi di fondo Avendo come riferimento teorico-concettuale l’interconnessione tra i costrutti di sesso, genere, identità, corpo, sessualità, il presente contributo intende affrontare la discussione sugli elementi fondativi che, a livello discorsivo, è possibile rilevare all’interno del piano semantico definito dal complesso rapporto tra i costrutti di corpo e transessualismo, assumendo una prospettiva ermeneutica tesa ad interrogarsi sui significati che il corpo transessuale, come istanza simbolica, può assumere nell’attuale teorizzazione sul genere, sul sesso, sull’identità sessualmente connotata, sul corpo sessuato e sulle rappresentazioni delle differenze sessuali e di genere in un’ottica decostruttiva trans-dicotomica, ossia orientata a superare ogni rigida dicotomia che ingabbi le multiformi possibilità di espressione delle attuali configurazioni della soggettività sessuale. Gli interrogativi che animano le riflessioni che si intende sviluppare sono pertanto i seguenti: come può essere inteso il transessualismo in una prospettiva teorico-concettuale che bypassa l’approccio clinico-nosografico? Che cosa rappresenta il corpo transessuale? Quali connotati simbolici esso assume o può assumere? Quali sono le implicazioni dinamiche insite nel processo di riattribuzione chirurgica del sesso/genere nel percorso di transizione MtF o FtM? Il corpo transessuale è il rappresentante di un’identità in fieri o l’epifania di una soggettività di genere che necessita un adeguamento/allineamento alle istanze interne di un desiderio che deve fare i conti con precisi processi di categorizzazione socio-culturale della sessualità? Che rapporto c’è tra mancanza e desiderio nel vissuto del corpo transessuale? Prima di approfondire l’analisi dei costrutti alla base dei contenitori semantici appena introdotti, vediamo che cosa si intende per transessualismo attraverso il riferimento a quanto indicato nel DSM-IV-TR (Diagnostic and Statistical Manual of mental disorders, IV edizione-Text Revision, 2000). Il transessualismo in un’ottica clinico-nosografica: i criteri diagnostici del DSM-IV-TR Facendo riferimento al paradigma clinico-psicologico, è possibile rilevare che il transessualismo compare nel DSM-IV-TR (2000) tra i disturbi dell’identità di genere (DIG), attraverso l’indicazione dei seguenti criteri diagnostici: - una forte e persistente identificazione con il sesso opposto (non solo un desiderio di qualche presunto vantaggio culturale derivante dall’appartenenza al sesso opposto). L'individuo non deve presentare una condizione di intersessualità (es. sindrome di insensibilità agli androgeni o iperplasia surrenale congenita). Deve esserci un disagio clinicamente significativo o compromissione in ambito sociale, lavorativo e nelle relazioni interpersonali. Nei bambini il disturbo si manifesta con quattro o più dei seguenti sintomi: 1)desiderio ripetutamente affermato o insistenza di essere dell’altro sesso; 2)nei maschi preferenza per il travestimento o per l’imitazione dell’abbigliamento femminile; nelle femmine, insistenza nell’indossare solo tipici indumenti maschili; 3)forti e persistenti preferenze per i ruoli del sesso opposto nei giochi di simulazione, oppure persistenti fantasie di appartenere al sesso opposto; 4) intenso desiderio di partecipare ai tipici giochi e passatempi del sesso opposto; 5)forte preferenza per i compagni di gioco del sesso opposto. Negli adolescenti e negli adulti, l’anomalia si manifesta con sintomi come desiderio dichiarato di essere dell’altro sesso, farsi passare spesso per un membro dell’altro sesso, desiderio di vivere o di essere trattato come un membro dell’altro sesso, oppure la convinzione di avere sentimenti e reazioni tipici dell’altro sesso. - persistente malessere riguardo al proprio sesso o senso di estraneità riguardo al ruolo sessuale del proprio sesso. Nei bambini l’anomalia si manifesta con uno dei seguenti sintomi; nei maschi l’affermazione che il proprio pene o i propri testicoli li disgustano, o che scompariranno, o affermazione che sarebbe meglio non avere il pene o avversione verso i giochi di baruffa e rifiuto dei tipici giocattoli, giochi e attività maschili; nelle femmine, rifiuto di urinare in posizione seduta, affermazione di avere o che crescerà loro il pene, o affermazione di non volere che crescano le mammelle o che vengano le mestruazioni, o marcata avversione verso l’abbigliamento femminile tradizionale. Negli adolescenti e negli adulti, l’anomalia si manifesta con sintomi come preoccupazione di sbarazzarsi delle proprie caratteristiche sessuali primarie o secondarie (per esempio richiesta di ormoni, interventi chirurgici, o altre procedure per alterare fisicamente le proprie caratteristiche sessuali, in modo da assumere l’aspetto di un membro del sesso opposto), o convinzione di essere nati del sesso sbagliato. Sulla base di queste indicazioni, è assolutamente evidente che i paradigmi che organizzano la descrizione del “disturbo” sono fortemente ancorati ad una visione della sessualità che vede come criterio fondante la “normalità” dell’identità di genere, la rigida impalcatura alla base del modello della congruenza (Taurino, 2005, 2007; Bonnes,1988); modello che stabilisce che: a)esistono caratteristiche psicologiche stabili e pervasive, a livello di assetto di personalità, che differenziano i due sessi; b)tali caratteristiche si presentano in modo bipolare, e quindi reciprocamente escludentesi, rispetto a un'unica dimensione denominabile di mascolinità-femminilità; c)il benessere psicologico e il buon adattamento individuale risultano tanto maggiori quanto più gli individui si collocano decisamente verso uno dei due poli di tale continuum ed in modo congruente con il proprio sesso biologico di appartenenza. Questo modello analizza i soggetti sulla base di un paradigma che, in tema di definizione dei criteri inerenti la distinzione maschio-femmina, postula una stretta interdipendenza tra sesso biologico e specifiche tipizzazioni psicologiche sessualmente connotate. Il sesso viene considerato come un sistema unidimensionale, in cui maschile e femminile compaiono come poli opposti, reciprocamente escludentesi e negativamente correlati, caratterizzati da specifiche connotazioni che risultano anch’esse negativamente correlate. Il modello della congruenza stabilisce in modo netto le differenze tra la personalità maschile e femminile attraverso la definizione di un sistema bipolare/dicotomico entro cui vengono collocati, in modo altrettanto dicotomico, i comportamenti e i tratti degli individui, rivelando nel contempo l’importanza dell’adeguamento dei comportamenti di uomini a donne in modo congruente al proprio sesso. Se tale modello tende a stabilire la correlazione tra sesso biologico e dimensione maschile e/o femminile “sperimentalmente” individuata, ne deriva che l’identità dei soggetti viene inscritta all’interno della dimensione biologica, ponendo l’assunto di base che il dimorfismo dei sessi/generi affonda le sue radici nel sesso in quanto dato naturale (ipotesi dell’approccio biologico). Si approda di conseguenza ad un fondamentalismo biologico (Taurino, 2003, 2005) secondo il quale la radicalizzazione della differenza tra i sessi dipende esclusivamente dalla biologia, ossia dall’essere maschi o femmine; condizione che a sua volta implica il possedere, o meglio il dover possedere, caratteristiche psicologiche, oggettivamente misurate e misurabili, ritenute in modo arbitrario come proprie del maschile o del femminile stesso. Essere biologicamente maschi o femmine, vuol dire dunque non solo comportarsi in modo congruo rispettivamente ad una tipologia di mascolinità e femminilità rilevata su base empirica, ma soprattutto assumere ed incarnare specifici tratti che rispondono a specifiche e coercitive attese sociali. Risulta pertanto inammissibile la possibilità di una decostruzione di tale rigido determinismo, affermando una necessaria ed imprescindibile corrispondenza tra sesso biologico (avere un pene o una vagina), sesso psicologico (vissuto di femminilità o mascolinità fortemente ancorati all’appartenenza biologica al femminile o al maschile), e potremmo anche dire vissuto del corpo (inscritto in tale simmetria biologico-sessuale) ed orientamento sessuale (da considerarsi solo ed esclusivamente secondo il paradigma eterosessuale). L’approccio alla base del DSM-IV sostiene pertanto che alla base della disforia di genere o del disturbo dell’identità di genere vi sia proprio la non coincidenza, in termini di deterministica congruenza bio-psicologica, tra sesso biologico e sesso psicologico, con tutti gli elementi correlati a tali strutture (tra cui orientamento sessuale e vissuto corporeo). Per inciso va ribadito che anche in ambito clinico si sta assistendo un radicale ripensamento della questione legata alle disforie di genere. Attualmente alcuni gruppi di ricerca (nello specifico quello coordinato e diretto da Anne Vitale) propongono una revisione di tale voce nel manuale DSM-V (in uscita nel 2011) che passa attraverso un ricollocamento clinico delle situazioni di disforia di genere. La proposta è che si elimini dal DSM la voce “disturbo dell’identità di genere”, collocando invece la condizione del transessualismo dell’ambito dei disturbi d’ansia. Ne deriva che il transessualismo sarebbe da definire come un Disturbo d'Ansia da Deprivazione dell'Espressione di Genere (Gender Expression Deprivation Anxiety Disorder o, in sigla, GEDAD). Questa revisione implica che rispetto al transessualismo venga messo in evidenza non un disturbo dell’identità (il che porrebbe l’equivalenza transessualismo=identità disturbata), quanto più che altro una correlazione tra transessualismo e disturbo d’ansia collegato alla deprivazione di espressione dell’identità di genere. Nel DSM IV e DSM IV-TR, l'inserimento del termine “disturbo di identità di genere” tra i disturbi psicosessuali porta a pensare che l'individuo con questa condizione abbia un disturbo psicosessuale, caratterizzato dal rifiuto del proprio corpo e della propria identità per una disfunzionalità di matrice sessuale. I recenti studi, tuttavia, hanno mostrato chiaramente che la maggior parte dei soggetti che presentano una disforia di genere hanno un ottimo senso di sè e sono acutamente consapevoli del fatto che la propria identità non sia allineata con il proprio sesso biologico. Tale deprivazione del bisogno dell’espressione della propria identità di genere porta pertanto a sviluppare un disturbo d’ansia con una combinazione di depressione, spersonalizzazione, paura, rabbia, senso di colpa e altre costellazioni patologiche di seria entità. Il corpo transessuale in una prospettiva simbolico-ermenutica: potere della decostruzione o trappola della riconferma del dimorfismo sessuale? Secondo un approccio simbolico-ermeneutico che bypassa il quadro clinico-nosografico, il discorso sul corpo transessuale deve essere inserito nella complessa prospettiva teorico-discorsiva relativa alle implicazioni dell’applicazione di una cultura delle differenze (Rapaport, 1989) all’ambito della sessualità, attraverso l’immediato rimando alla considerazione che l’attuale processualità socioculturale rende visibili specifiche configurazioni del genere, dell’identità di genere, della differenza, del ruolo sessuale, dell’orientamento sessuale, che necessitano una possibilità di esser lette/interpretate secondo una prospettiva che supera l’ottica patologizzante. Noi oggi viviamo un momento di radicale innovazione dei principi di interpretazione della realtà e delle tradizionali rappresentazioni di sessualità, così come di mascolinità e di femminilità (Taurino, 2008, 2010). L’esito immediato è la necessità di riconoscimento di tutta una serie di nuove configurazioni soggettive ed identitarie sessualmente connotate che fanno della differenza il criterio fondativo per eccellenza. Il riferimento è a soggettività “eccentriche” (De Lauretis, 1987, 1999), interpretate come strane e bislacche; soggettività al confine, al limite; soggettività “ibride” che sconvolgono, attraverso una forma di simbolico nomadismo, il sistema delle opposizioni dicotomiche (Braidotti, 1995, 2003). Soggettività che definiscono una propria posizione in un percorso di continua e perenne oscillazione tra categorie contrapposte, oltrepassando i confini standardizzati, e mettendo profondamente alla prova logiche dualistiche, quali maschile-femminile, eterosessuale-omosessuale, normale/patologico, etc. Si tratta di soggettività connotate da un’identità in fieri, in divenire; soggettività flessibili che pongono continue interrogazioni sui significati e i significanti di una sessualità naturale, ovvia, lineare e scontata (Haraway, 1995). Soggettività che pongono in essere la necessità di svelare i meccanismi alla base del sistema di organizzazione socio-sessuale del genere fondato sul paradigma patriarcale/eterosessuale, rivelando che tale sistema non è in grado di comprendere e contenere, se non nella forma della negazione, del controllo, della sorveglianza-punizione (Foucault, 1972, 1976, 1978, 1985a, 1985b), realtà sessuali che sfuggono alla pretesa naturalità della sessualità. Collocato all’interno di tale piano semantico, il transessualismo e soprattutto il corpo transessuale si carica di un radicale potenziale eversivo poiché, cessando di porsi come entità fisiologica determinata una volta per tutte, diviene il crocevia di forti attribuzioni semantiche della sessualità, campo simbolico di significati da cui passa la possibilità di revisione e ristrutturazione dell’identità di genere. In linea con le implicazioni insite nella teorizzazione queer, il corpo transessuale si impone come negazione della dichiarazione di un’appartenenza biologica che segna destini immodificabili; un corpo come luogo possibile ed auspicabile di un’identità opzionale; un corpo capace di auto-narrarsi, superando ogni precedente territorializzazione, compresa quella definita dall’identità maschile o femminile. Un corpo che diviene sede di commistioni. Un corpo come significante paradossale. Un corpo come reificazione cyborg (Haraway, 1995). Un corpo come tramite di messaggi politici ed ideologici. Un corpo in transito. Il corpo transessuale consente di comprendere che i processi di categorizzazione valoriale delle diverse configurazioni dell’identità sessuale e di genere non si ancorano ad un ambito di definizione oggettiva dell’esistente, quanto più che altro ad un campo di concezioni ideologicamente connotate che sono l’esito di precise impostazioni discorsive orientate a creare criteri di legittimità e illegittimità socio-culturale. Questa interpretazione permette di acquisire strumenti di lettura critica della realtà socio-sessuale, in grado di evidenziare/riconoscere che la performatività del discorso patriarcale/eterosessuale legittima tutta una serie sia di identificazioni sociali lecite (uomo e donna eterosessuali, mascolinità e femminilità eterosessuali) sia di contesti di esercizio di funzioni e ruoli legittimi (famiglia eterosessuale, coniugalità eterosessuale, genitorialità eterosessuale). Definisce nel contempo un contenitore di realtà che vengono estromesse dal logos sociale, facendo sì che esse si configurino come delle identificazioni/configurazioni illecite. Il transessualismo si colloca proprio in quella “zona di non senso” che evoca la presenza fantasmatica di un esterno rifiutato e da rifiutare, quel campo dell’impensabile, di ciò che è e deve restare al di fuori della simbolizzazione e del linguaggio. Il transessualismo diviene reificazione dell’abiezione (Butler, 1996) in quanto irrompe a livello simbolico attraverso lo scivolamento in una spazio di espressione di un’identità che intende sfuggire alla dicotomia legittimità-illegittimità, come unico paradigma inclusivamente possibile. Il transessualismo, come condizione identitaria queer (De Lauretis, 1990), è la reificazione di una forma di soggettività che irrompe contro una normatività regolativa della sessualità su base biologica. La soggettività transessuale supera e va oltre il sesso per la costruzione di un processo di acquisizione autodeterminata del genere desiderato e desiderante, mancato e mancante. Il transessualismo veicola senso di una trasformazione che è il passaggio lungo, difficile, pieno di ostacoli, doloroso e socialmente regolato, dall’uno all’altro dei due sessi anatomici, dall’uno all’altro dei due generi (maschile e femminile). Il transessualismo legittima l’esistenza di una soggettività alla ricerca di un proprio posizionamento o ri-posizionamento di genere in quello spazio simbolico che soddisfa il desiderio di autenticità, come tensione alla reificazione dell’ideale di sé. Il transessuale è un soggetto mutante (Alfano Miglietti, 1997, 2001) che conferisce alla trasformazione, al transito uno statuto politico potentissimo teso a negare il piano omologante della regolamentazione sociale dell’identità di genere sulla base del fondamentalismo biologico. Il corpo transessuale promuove simbolicamente la necessità di individuare configurazioni identitarie trasversali più complesse e pluralizzate, strutture identitarie plurali, che intendono recuperare nuovi codici di significazione socio-culturale della sessualità e/o delle soggettività sessualmente connotata. Il corpo transessuale pone le premesse per guardare alla differenza di genere, o meglio, alle differenze di genere, attraverso un approccio rappresentazionale/mentale che, destrutturando la dogmaticità di visioni deterministiche, porti a decostruire, rivedere, reinterpretare, rielaborare, ridefinire, i vecchi modelli attraverso cui si può guardare al genere, al sesso, all’identità di genere, alle soggettività di genere. Assumere questa impostazione vuol dire superare quel sistema rigido di necessaria ed insormontabile “congruenza” che porta ad considerare come unica modalità possibile/legittima/legittimabile, il nascere maschi o femmine, il sentirsi rispettivamente maschi o femmine in modo congruente al sesso biologico. Il transessualismo permette di mettere a fuoco lo spazio che esiste tra il genere e il sesso, incuneandosi potentemente nella contrapposizione tra sesso e genere e reificando il fatto che il genere non deve essere visto come la rappresentazione culturale di un dato biologico, ma come quel processo culturale che produce nel corpo la possibilità di realizzarsi in due sessi distinti (Butler 1990, 1993, 1994). Il transessualismo dimostra che le morfologie maschili e femminili in base alle quali vengono naturalizzate le differenze di genere si possono modificare, rivelando che il corpo può essere visto come un dato plastico se si interconnette il vissuto corporeo al costrutto di identità di genere come identità che si può ri-conquistare, ri-definire sulla base sia del superamento di una mancanza, sia di un allineamento tra istanza desiderante interna e ricostruzione di una morfologia genitale attraverso l’intervento di ri-attribuzione chirurgica del sesso/genere. Ma, seguendo le implicazioni insite in quest’ultima considerazione, il transessualismo si impone realmente, in termini simbolici, come quel terreno di battaglia contro la definizione della maschilità “naturale” e della femminilità “naturale” ? La plasticità del corpo che approda alla definizione del sesso opposto a quello biologico (di nascita), si configura come un attacco all’idea che ci sia un singolo, conoscibile, vero sesso maschile o femminile in ciascun corpo umano (Domurat Dreger 1998; Fausto-Sterling, 2000; Kessler, 1998), oppure come la riproposizione di una visione fortemente dicotomica dei caratteri di genere e delle morfologie sessuali? Su questo secondo piano della riflessione, il transessualismo, da dimensione ermeneutica di esercizio del potere della decostruzione, corre il rischio di rivelarsi ed imporsi come una trappola simbolica che riduce la possibile declinazione della plasticità del corpo al rafforzamento di una visione dualistica del genere. Come scrive Sassatelli (1999, 2005), le odierne prassi mediche sembrano sfidare l'idea che il sesso biologico sia incontrovertibile, ma in realtà rafforzano la visione dualistica del genere. Lo smistamento delle persone in due e solo due sessi distinti sembra rivolta essenzialmente a prevenire una sovversione di quella che Butler (1990) ha definito “matrice eterosessuale”. L’ossatura portante delle storie di molti transessuali è quella di una soggettività il cui genere è imprigionato in un corpo dal sesso sbagliato- e quindi la necessità di ripristinare un allineamento “naturale” tra sesso e identità di genere (Bolin 1988; Shapiro 1991). Su questo piano, il transessualismo, sembrerebbe lasciare inalterato l’allineamento normativo di sesso-generesessualità. Attraverso la propria capacità di mettere adeguatamente in scena il genere femminile o maschile il transessuale MtF o FtM può conquistarsi l’appartenenza sessuale desiderata, soprattutto mediante l’intervento di ri-attribuzione chirurgica di un sesso che definisce il genere. Così facendo, il sesso torna ad imporsi come dato fondazionale (Sassatelli, 2005), e a ritroso, a partire dal genere, si rischia di realizzare quella particolare catena normativa tra dicotomia sessuale- da intendersi come l'insieme di criteri biologici in base ai quali le persone vengono ascritte al dimorfismo sessuale- e il genere- ovvero il complesso degli attributi personali culturalmente determinati che rispondono alle aspettative sociali legati all’identità sessualmente connotata in termini maschili o femminili-. Sembrerebbe pertanto auspicabile resistere alla tentazione di trasformare "il transessuale" in una sorta di figura topica per quanto riguarda la performatività del genere e sovversiva per quanto riguarda le norme sull'identità sessuale (Sassatelli, 2005), dal momento che il genere deve essere considerato come una costruzione culturale instabile e non rigidamente definita, il cui scopo è "delimitare e contenere la minacciosa assenza di confini tra i corpi e tra le pratiche del corpo, assenza che altrimenti farebbe esplodere le strutture istituzionali e organizzazionali delle ideologie sociali" (Epstein, Straub 1991). Pur all’interno di tale cautela e di una limitazione dell’enfasi interpretativa sul “dato sovversivo” del transessualismo, tuttavia riteniamo che sia di fondamentale importanza ribadire che il corpo transessuale tenta di decostruire la dinamica ingabbiante e stigmatizzante del determinismo biologico, l’ipostatizzazione del potere del concetto di sesso con tutti gli esiti essenzialisti e riduttivistici ad esso correlati. Pur aprendo un’interrogazione circa il possibile “tradimento” dell’istanza decostruttiva insita nel costrutto di genere in termini post-strutturalisti come dimensione demolitiva della dicotomicità dell’identità sessualmente connotata e socialmente regolamentata/normativizzata, ciò che il corpo transessuale dimostra, con la sua stessa epifania, è la possibilità di una auspicabile costruzione di un percorso di accesso dalla mancanza al desiderio, laddove la mancanza non viene più intesa come una sorta di inesorabile mutilazione che preclude la possibilità della realizzazione di sé e delle dimensioni vitali dell’identità, quanto più che altro come la matrice generativa di un desidero che riattiva un processo di riconquista di sé, di autodeterminazione, sulla base dell’adesione alle profonde istanze di un’identità che, sebbene rispetto al costrutto di genere rischi di riconfermare il fondamentalismo dismorfico, abbatte comunque le barriere di una rigida biologia da non intendersi più come destino. 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