recensioni diritto di critica per web

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SABRINA MILANI - 3ª LICEO SCIENTIFICO VIDA
Un “realismo” che ha come oggetto la menzogna che si trasforma in pretesto per parlare d’altro.
Così si esprime Antonio Latella nell’intervista a cura di Patrizia Bologna parlando dello spettacolo
“Il servitore di due padroni” in scena Martedì 28 gennaio al teatro Ponchielli di Cremona.
Nell’intenzione di mantenere un rapporto con la tradizione, di fatto non rispettata, Latella, il regista,
crea in chiave del tutto originale e decostruttiva una scena apparentemente convenzionale. Il sipario
si apre su una scenografia puramente verosimile, ne fanno parte le porte di un ascensore,
l’aspirapolvere della cameriera, una televisione nel contesto della Hall di un albergo. Lo sfondo che
a metà spettacolo è drasticamente eliminato dagli attori stessi insieme alla stabilità del pubblico che
si trova così smarrito davanti al palco vuoto, è la tela su cui si muovono i colori che Arlecchino, il
servitore, non indossava così come la maschera, del tutto assente. Gli altri personaggi infatti sono
chiazze di colore abilmente manovrati dalla drammaturgia di stampo minimalista di Ken Ponzio
immersi in un’aura di ambiguità,rivoluzione e nuove identità. Quindi la psicologia dei personaggi è
totalmente sgretolata e sul palco vuoto senza limiti espressivi si dà pieno adito all’esplorazione di
nuovi territori comunicativi. Innumerevoli sono stati i rimandi alla contemporaneità come del resto
vuole la rivisitazione, per cui si è parlato di creme antirughe, cover colorate e la ormai onnipresente
lingua inglese alla televisione a cui più volte Pantalone decide di riferirsi per “pensare”. Strappa un
applauso il monologo della cameriera, una martellante carrellata che di fatto tocca con la giusta
intensità il consenso del pubblico. Un ritmo perpetuo quello della scena sancito anche
dall’incessante corsa sul palco dei personaggi che si corona nel nudo pseudo integrale di Beatrice;
nonché dal “lazzo della mosca” che non fa che aumentare la sensazione di ridondanza già avvertita.
Il fatto è che il pubblico armato di pellicce e cappotti si avvia senza tante cerimonie all’uscita del
teatro dopo un breve applauso agli attori alla fine dello spettacolo. Insomma un’opera a cui non si
può rimanere indifferenti simile all’arte moderna, amarla è immediato come altrettanto facile è
odiarla.
SOFIA RAGLIO - 1ª LICEO CLASSICO MANIN
Il 28 gennaio al Teatro Ponchielli arriva uno spettacolo fatto per far parlare di sé, che divide il
pubblico tra entusiasmo e disapprovazione. Il servitore di due padroni, regia di Latella, ha colto
l’essenza del teatro di Goldoni e ne ha fatto il pretesto per portare in scena una tematica importante,
quale il ruolo del teatro contemporaneo. Il testo di Goldoni e la drammaturgia di Ken Ponzio si sono
uniti in una rilettura innovativa della commedia, un gioco sulle parole, le lingue e le didascalie.
Contemporaneità e tradizione convivono e vestono i diversi personaggi, colori che si mischiano
nell’unico bianco di Arlecchino. Il cast eccellente è capace di trascinare il pubblico nella delirante
catena di maschere e finzioni sovrapposte. Incesti, sessualità confuse, pubblicità, reality show,
telecronaca, messi sul palco senza timore per riportare il pubblico nell’atmosfera della scandalosa
rivoluzione e toccante critica sociale che Goldoni aveva fatto due secoli fa. Un affascinante
metateatro, dove maschere, rottura dell’ illusione scenica, monologhi toccanti ed etimologie
imprescindibili si fondono in un’unica criptica metafora. La rappresentazione tradizionalista non è
altro che una maschera del vero teatro, che viene tolta insieme alle pareti della scenografia.
Arlecchino è l’attore e la sua libertà, se sarà il pubblico tradizionalista a muovere i suoi fili, morirà
dietro la maschera del suo personaggio e il teatro non sarà altro che ciò che viene rappresentato nel
finale: una maschera che porta avanti la monocorde recitazione di testi il cui significato si
affievolisce come il lume di una candela. Per questo Latella ha il coraggio di far rivivere di nuova
arte e significato un testo del passato, trasformandolo in quel contenitore vuoto che è l’arte, dove lo
spettatore è viaggiatore ed esplora se stesso attraverso le suggestioni di una regia geniale. Latella ha
spiegato attraverso il teatro cosa il teatro e l’arte dovrebbero essere in un’architettura perfetta dalla
lettura molteplice.
SOFIA POLITI - 1ª LICEO MANIN
La sera del 28 gennaio,il palco del Teatro Ponchielli ha ospitato la messinscena del regista Antonio
Latella: “Il servitore di due padroni”,tratto dall’opera di Goldoni. La rappresentazione ha avuto
come interpreti attori versatili,da Roberto Latini,nelle vesti di Arlecchino,a Federica Fracassi,nei
panni di una Beatrice alias Federico Rasponi. Lo spettacolo si è diluito nell'alternanza di parti
narrative,con l'interessante uso di un telefono,e parti attoriali, distanti dalla figurazione goldoniana
di due secoli e mezzo fa. La drammaturgia di Ken Ponzio è infatti volta ad una realtà
contemporanea,al fine di utilizzare lo spettacolo come strumento per mettere in luce le infinite
possibilità del teatro,basandosi anche sulla tradizione. Esperimento riuscito,ma non
apprezzato,soprattutto dal pubblico di giovani che ha gremito il teatro,i quali hanno reagito solo in
occasione di linguaggi scurrili e scene erotiche. Una rappresentazione troppo spinta,in alcuni
momenti di cattivo gusto,che ha fatto desistere molti sulla scelta di rimanere fino a spettacolo
concluso. Se l'intento del regista era quello di smantellare il teatro,in tutti i sensi,ci è riuscito. Una
messinscena troppo diretta e a volte incomprensibile,nonostante l'alto livello degli interpreti.
Quando anche l'ultima luce si è spenta,il pubblico borbottante,non ha risposto calorosamente agli
inchini finali. D'altronde l'imposizione di immagini così forti,non può che provocare
turbamenti,nonostante il teatro serva da stimolo per apprendere realtà diverse. Alla fine occorre
però ricordare che,ciò che davvero apporta miglioramenti,è la capacità di rimanere nei limiti,perché
si possono realizzare grandi cose semplicemente avendo l'umiltà di fare le cose semplici.
NICCOLO’ SAVARESI - 3ª LICEO CLASSICO
Scandaloso, non capisco niente, cosa gli salta in mente, in 50 anni che sono a teatro non ho mai
visto nulla del genere: queste sono solo alcune delle lamentele che hanno pervaso la platea del
Ponchielli, non solo a fine spettacolo, ma, purtroppo, anche durante; la causa di questo vespaio è
stato il Servitore di due padroni, uno dei capolavori di Carlo Goldoni, portato in scena dal regista
Antonio Latella nella riscrittura di Ken Ponzio. In realtà, Goldoni è soltanto un pretesto: dalle
vicende amorose contrastate dei giovani Silvio e Clarice, il cast, straordinario, guida gli spettatori
verso una nuova realtà, grazie a un delicato processo di destrutturazione. Così la scenografia, un
meraviglioso anonimo interno di hotel in penombra, viene smontato da quegli stessi personaggi che
fino a poco prima vi avevano agito. A questo punto lo spettacolo libera tutta la propria potenza
espressiva, al di là di ogni tradizione, schema, convenzione, e si trasforma in un rito, il cui atto
finale mostra agli occhi del pubblico la morte di un ideale, simboli di una lotta contro un mondo
statico e falso schiacciati e annientati dai loro avversari; la ribellione è domata e chi non vuole
soccombere deve farsi servo dei vincitori, esserne umiliato, pur di poter covare un sogno di libertà
in segreto. Memorabile il monologo di Smeraldina, personaggio che sembra marginale e che per
lungo tempo si muove sullo sfondo, ma che sorprendentemente si esibisce in un commovente inno
alla spontaneità e all’amore, forza vitale che muove il mondo, che però, non è stato gradito da molti
fra il pubblico. Pur essendo stato uno spettacolo molto dinamico e, per certi versi, fisico, ciò che
veramente ha dominato la scena è stata la Parola, un mezzo per convincere, sedurre, persuadere,
minacciare, ingannare, arma a doppio taglio che sa ispirare, ma che può farti il deserto attorno: “le
parole sono molto importanti”. E’ vero, Goldoni è morto e non tornerà mai indietro, ma ciò che è
stato fatto con il Servitore di due padroni è stato come riportarne in vita il genio innovatore e
rivoluzionario grazie ad un intelligente adattamento del testo, che non ha perso nulla della sua
carica originale, nonostante alcune necessarie modifiche; ci sarà stato un motivo se Goldoni
impiegò anni prima di essere applaudito dal pubblico del ‘700.
MATILDE PASSAMONTI - 5ª LICEO SCIENTIFICO
Larva embrionale che deve il suo divenire adulto a una metamorfosi: così è il teatro de "Il servitore
di due padroni" che appare come il manifesto primo e provocatorio di un nuovo modo di fare e di
intendere teatro. L'allestimento di Latella mantiene infatti intatte per un tratto tutte le convenzioni
del teatro tradizionale: scenografia realistica - la hall di un albergo che vede lo stare insieme di
persone intrecciate da legami complessi- battute divertenti, personaggi classici; questo stadio larvale
un po' d'intrattenimento è però presto superato: la muta avviene letteralmente e fisicamente, con gli
attori che smontano le pareti della hall, bozzolo che deve essere distrutto, se si vuole permettere che
un nuovo essere ne esca. Così, quando cadono il sipario e il palco, i costumi, la scenografia, quello
che rimane è ancora teatro, ma lo è in modo più intenso e più assoluto. Come un profumiere che
arriva per sottrazione di odori superflui all'essenza principale, così smontando quelle pareti si libera
un teatro essenziale che si respira, che si annusa, perchè non è più denso, non più fisico. E' naturale
che questo processo non sia rapido e indolore: lo spettacolo richiede da parte del pubblico uno
sforzo importante, ma ascoltando la sala nei momenti di respiro si sente un mormorio di
discussione, di domanda, di dubbio: è forse questo un grande valore da riconoscere, che il teatro è e
deve essere critica consapevole, discussione accesa e animata, recitare mai fine a sè stesso, ma vivo
sempre e vissuto animatamente. La riflessione in sala durante lo spettacolo è infatti inevitabile,
suscitata da un rivolgersi diretto e disperato di Smeraldina ai ragazzi, in cui invoca commossa
un'apertura, un prepararsi, un essere pronti a qualcosa che non sia piatto o rodato da secoli di
tradizione e in questo Brighella aiuta svelando in certi tratti le regole di questo nuovo gioco, di
questo nuovo fare teatro: "le parole sono importanti" prima dei costumi, prima delle scene. Ed è
meraviglioso quindi che lo spettacolo faccia mormorare non per la qualità della recitazione - attori
perfetti ed eccezionali, tutti - o del testo, ma per la sua portata rivoluzionaria, sconvolgente,
intimidatoria e provocante, di significato.
MARCO RIZZI – 5ª ITIS TORRIANI
Slancio di innovazione nel ricordo della tradizione. L’espressione riassume il pensiero de “Il
servitore di due padroni”, la commedia di ispirazione goldoniana accolta da un Ponchielli
incuriosito e talora perplesso. Fin dalle prime scene gli attori, grazie alla loro forte carica di
passionalità, hanno saputo coinvolgere e creare una notevole comunicazione con il pubblico. In
particolare i giovani, liberi dall'acquisizione dell'impianto scenico tradizionale, hanno apprezzato
con entusiasmo le novità apportate all'opera. Si tratta certamente di un lavoro audace, frutto di
un’armonica collaborazione tra il regista Antonio Latella e il drammaturgo Ken Ponzio. Il risultato
è alquanto originale, per certi aspetti geniale, capace di richiamare a sé la versione ormai
consolidata di Giorgio Strehler e nello stesso tempo di stravolgerla. A partire dal protagonista,
interpretato da un intenso Roberto Latini: al pubblico si presenta un Arlecchino/Truffaldino –nome
usato nella versione classica- un po’ intimista un po’ irriverente, dalle venature a volte
malinconiche. L’abito non più multicolore ma bianco etereo, simboleggia come nel personaggio
ciascun spettatore possa ritrovare e riflettere angosce, dubbi, percezioni senza vincoli di schemi
preconcetti. L’ambientazione consiste in un elegante hotel di Venezia, luogo emblema dell’adattarsi
passeggero, del provvisorio e talvolta dell’incognito. La commedia, seppur atto unico, è divisa in
due parti: nella prima il filo conduttore è il gioco dell'inganno di origine goldoniana, ma qui segnato
da un accentuarsi di toni di ambiguità, di aspetti enigmatici: la fatica di affermare se stessi e di
essere qualcosa diverso da sé, in un'alternanza di ruoli che solo alla fine viene scoperta. Dal
momento in cui gli attori smontano la scenografia, si avverte il passaggio alla seconda parte drammatica e quasi surreale- incentrata sul tema dello smascheramento, sul portare alla verità ciò
che prima era fittizio. Malgrado le radicali trasformazioni che questa rilettura offre, affiora come
elemento costante l’anima della commedia tradizionale. O meglio, da una parte la tradizione sembra
che viaggi in parallelo come slegata dalla versione moderna; dall’altra parte invece essa appare fusa
con l’opera e parte integrante di essa.
LORENZO VEZZINI - 5ª LICEO SCIENTIFICO
Latella colpisce ancora, e divide il Ponchielli: davanti agli entusiasti, infatti, un nutrito gruppo di
difensori della rappresentazione fedele mostra un certo disgusto. Pur cripticamente il regista mostra
però un grande rispetto per l’opera di Goldoni in contenuti e intenti. Egli prosegue l’opera di
distruzione della maschera stereotipata iniziata dal veneziano puntando sulla più complessa auto-
costruzione dell’uomo moderno: un inno alla spontaneità, ma anche e soprattutto una liberazione
degli istinti. Di carne sul fuoco da bruciare ce n’è molta: in tutti i personaggi imperversa la falsità:
sia nel modo moderato e interessato di Pantalone e del Dottor Lombardi, borghesi in giacca e
cravatta, sia nel modo esasperato e folle di Beatrice/Federigo Rasponi e del suo amante Florindo,
due travestiti a metà. Questa spessa coltre di falsità è impersonata dalla maschera per eccellenza
Arlecchino, il bravissimo Roberto Latini: tutto e niente, ovvero un dotato imitatore di ciò che i suoi
padroni vogliono. La sensazione è davvero quella che il classico goldoniano sia sfuggito di mano e
infatti dopo circa mezz’ora di spettacolo disorientante, ma divertente, iniziano alcuni “imprevisti”.
Di fronte a una Clarice più abituata al pilates che al pensare, Beatrice si scopre lesbica in un
appassionato bacio. Smeraldina, la cameriera interpretata dalla eccellente Lucia Peraza Rios, si
lancia diretta al pubblico in un bellissimo e poetico monologo inneggiante alla sincerità. Dopo che
persino Silvio, il romantico, mette esplicitamente in dubbio le battute assegnategli, Arlecchino
muore. La finzione infatti comincia a sciogliersi e le maschere colano bollenti giù dai volti di chi
con più impegno le aveva costruite. In una scena che lascia a bocca aperta nella sua brutalità ed
efficacia, Beatrice impazzisce in mezzo a un’ambientazione che viene smontata. Lo spettacolo
potrebbe terminare qui, breve, ma intenso, lasciando un emozione da elaborare agli spettatori; ma
purtroppo Arlecchino vuole, invano, resuscitare. Segue un finale ingarbugliato e noioso, tra
citazioni non brillanti (persino il Vangelo) e scene irritanti (Il Lazzo della mosca ripetuto quasi tre
volte). Il lungo finale, nel voler consolidare il messaggio, riduce la portata incendiaria di una critica
a una società fatta di apparenze, ma non le impedisce di restare viva. Capolavoro sfiorato.
LORENZO PASETTI – 3ª LICEO SCIENTIFICO
Innanzitutto voglio fare i miei complimenti ad Antonio Latella perché rovinare un capolavoro come
“Il servitore di due padroni” di Carlo Goldoni è un’impresa davvero difficile, e lui c’è riuscito.
Basta osservare le reazioni di chi era presente al teatro Ponchielli di Cremona la sera del 28
gennaio: volti sconvolti ovunque; gente impressionata da uno spettacolo incomprensibile. Per capire
meglio basta fare una breve descrizione della rappresentazione; per quanto riguarda la prima parte
la narrazione è stata abbastanza lineare e comprensibile, ma improvvisamente tutto è degenerato:
gente che si dimena e corre seminuda per il palco, scenografie smantellate e un inutile “lazzo della
mosca” di cui nessuno ha capito il senso e che è stato ripetuto inutilmente per quattro o cinque
volte! Inolte la volgarità di fondo che caratterizza tutto lo spettacolo è davvero inaccettabile;
possono anche starci le parolacce spesso presenti nei dialoghi, ma a un certo punto si arriva ad
un’oscenità improponibile per un teatro. L’unico mio complimento va agli attori che, nonostante il
copione orribile che si sono ritrovati a dover rappresentare, hanno fatto un ottimo lavoro, recitando
in maniera ottima, correndo e saltando (inutilmente) da una parte all’ altra della scena. Anche l’idea
di rappresentare un Arlecchino vestito di bianco, invece del solito personaggio multicolor, è
innovativa e carina, peccato solo che tutto il resto fosse sbagliato. Persino il fatto di descrivere la
scena attraverso il telefono poteva essere un’idea fantastica, ma il continuo e ossessivo ripetersi
della parola “pausa” ha reso odiosa questa innovazione. In conclusione, dovendo dare un commento
all’ “opera”; direi che se Latella per “modernizzare” intendeva “rovinare” allora ha fatto un lavoro
eccezzionale.
FRANCESCA BALESTRERI - 3ª LICEO SCIENTIFICO VIDA
Arlecchino vestito di bianco. Emblematico ed esplicativo di tutta l’opera: la rivoluzione parte
proprio da questo. Arlecchino è vestito completamente di bianco. Addio alle vecchie e care
losanghe colorate, benvenuto a qualcosa di nuovo. La vicenda di questo “Servitore di due padroni”
non ricalca il modello goldoniano delle origini. La scena è costituita da uno spazio ampio,
accogliente, dove si incontrano i primi personaggi: Brighella “locandiere” (Speziani), la cameriera
Smeraldina (Peraza Rios), la giovane Clarice (Valgoi) figlia del ricco Pantalone (Franzoni).
Quest’ultimo, venuto a conoscenza della morte del fidanzato della ragazza, il torinese Federigo
Rasponi, subito si preoccupa di richiamarne un vecchio spasimante con l’intenzione di stipulare un
altro contratto matrimoniale. Il nuovo, apparentemente tranquillo, assetto delle cose viene sconvolto
da un personaggio vivace e acrobatico, nella favella oltre che nell’atteggiamento. “Egli non è
morto!” è la rivelazione sconvolgente di questo Arlecchino biancovestito (Latini). Da qui in poi la
storia si complica enormemente: intrighi, legami segreti, accordi bugiardi, intuizioni smentite e poi
riconfermate nel dubbio, fintanto che le fila della vicenda scorrono veloci via dalle dita dello
spettatore, lasciandovi, probabilmente anche qualche brutto graffio. Ma questo dolore un po’
stordito sarà davvero un male? Spunti per riflettere la pièce ne offre parecchi, temi universali che
sembrano voler svelare la realtà, e forse non solo quella teatrale. Gli equivoci personaggi di
Florindo (Cacciola), amante di Beatrice (Fracassi), nei panni maschili del misterioso fratello
Federigo, si intrecciano in stretti nodi di finzione, a tratti con tinte alquanto dissolute, con gli altri
protagonisti che portano allo sgretolamento totale della psicologia dei personaggi, che differiscono
e disorientano per vocabolario e costume (abbigliamenti che variano dal moderno, all’ottocentesco),
creando un effetto di straniamento che contribuisce grandemente al clima di generale menzogna e
forzatura. E infondo appare giusto così: ogni personaggio è un mondo a sè stante, che interagisce
con i suoi vicini solo per soddisfare la proprie esigenze: trovano così spazio l’indecisione
tragicomica di Clarice, la pateticità dell’innamorato, il presunto amore paterno (i figli sono ciò
fruttano e non ciò che sono), la profondità inaspettata, piacevole e rivoluzionaria della cameriera e
infine, la tragica solitudine di ognuno di fronte a se stesso e alle proprie menzogne, un dramma
finale silenzioso, assurdamente silenzioso, dopo il chiasso a tratti comico precedente. Drammaturgia
di Ken Ponzio e regia di Antonio Latella, “per servirvi”.
FEDERICA TORCHIANA - 4ª LICEO SCIENTIFICO VIDA
Il Servitore di due padroni di Antonio Latella, in scena il 28 gennaio al Teatro Ponchielli, lascia il
pubblico spiazzato, indeciso, confuso. Il riferimento a Goldoni riempie platea e palchi e certamente
ci si aspetta molto da questo spettacolo, eppure, dopo solo mezz'ora, c'è già chi inizia a guardare
l'orologio, annoiato. La comicità è greve, oscillante tra voluta e accidentale, che strappa solo un
risolino momentaneo; i dialoghi procedono a rilento e vedono gli attori costretti a sforzare la voce
per alzare il tono dove forse neppure servirebbe; la storia non si evolve nel modo classico, ma
appare disorganica e spesso incomprensibile. L'interpretazione magistrale degli attori e la loro
estrema credibilità coinvolgente li fa apparire realmente come le maschere che intrepretano.
L'estrema professionalità anima l'intera compagnia, partendo da Roberto Latini (Arlecchino), il cui
dinamismo si trasmette efficacemente al pubblico, passando per la stereotipata ragazza-oca Clarice
(Elisabetta Valgoi) e la cameriera senza istruzione Smeraldina (Lucia Peraza Rios), che vede il
mondo per quel che realmente è, fino ad arrivare a Massimiliano Speziani (Brighella), al contempo
personaggio e narratore. Tuttavia, l'eccezionale trasformazione degli attori in personaggi non basta
a salvare una storia che già nel testo si presenta come uno spettacolo di logoramento, che sfianca lo
spettatore con un climax di brutture umane, che culmina quando la scena viene smontata, mostrando
la realtà come una continuazione del palco, dove tutti noi indossiamo una maschera e recitiamo una
parte. Per quaranta minuti il regista inganna la platea, convincendola che la fine sia prossima. Al
contrario, trascina la commedia, che si trasforma in un'implicita accusa alla società, alle tradizioni,
al pubblico stesso. Alla fine in molti neppure sanno cosa pensare. Perchè il passeggero italiano,
unico tra tutti i suoi colleghi internazionali, dopo un lungo volo, applaude? Dunque, perchè il
pubblico, diviso in due tra coloro che si sono fermati alle apparenze e si alzano in piedi solo per
andarsene e quelli che, al contrario, stanno ancora cercando un significato in ciò che hanno visto, si
ritrova inevitabilmente ad applaudire? Perchè finalmente è atterrato l'aereo.
FABIO BULGARINI – 3ª LICEO CLASSICO MANIN
Martedì 28 Gennaio una folla rumoreggiante è uscita per lo più insoddisfatta, quando non
sconcertata, dal teatro Ponchielli di Cremona in seguito alla visione del controverso spettacolo tratto
dalla celebre commedia “Il Servitore di Due Padroni” di Goldoni. Non ci si poteva aspettare
risultato più provocatorio da un regista come Latella, che già era stato in grado di far parlare di sé
attraverso il contestato “Un Tram che si chiama Desiderio”. Come più volte ha ammesso lo stesso
regista, lo spettacolo che egli propone non è la rappresentazione fedele del testo originale, bensì una
profonda rivisitazione dello stesso, che è solo un punto di partenza da cui Latella dà l’ avvio ad una
sopraffina riflessione sulla psicologia dei personaggi, messi a nudo dinnanzi al pubblico nelle loro
perversioni, nelle loro paure e nei loro desideri più inconfessabili. Ne emerge la figura di un Uomo
falso, ingannatore di se stesso prima ancora che degli altri; la protagonista dello spettacolo è infatti
un’ umanità ben riassunta dalla figura di Truffaldino (Arlecchino), un saltimbanco privo di una
personalità ferma, un mellifluo e al tempo stesso irresistibile attore, in grado di conquistare
interamente la scena senza risultare ingombrante (un merito che va tutto al grande ed atletico
Roberto Latini). La dinamicità e la tradizione quasi circense della Commedia Nuova è stata inserita
all’ interno di un’opera concepita per fare affidamento sui dialoghi e le assurdità degli intrecci più
che sull’ atletismo degli attori, i quali hanno ben conferito una nota acrobatica per nulla in
dissonanza con la storia voluta da Goldoni. Il testo, come si diceva, è totalmente riadattato e poco
rimane dell’ opera originale se non il filo conduttore della trama, il quale poi però si perde in una
dimensione atemporale, in cui i dialoghi, dapprincipio strettamente legati all’ intreccio originale,
sfumano vieppiù in una dimensione trascendente, in cui i pensieri dei personaggi rincorrono gli uni
gli altri, staccandosi definitivamente dal mondo di Goldoni per entrare in una dimensione quasi
lirica, come se i protagonisti si trovassero a recitare in un mondo surreale in cui si trovano ad essere
nudi dinnanzi a loro stessi. La nudità è del resto messa in scena: un nudo disperato ed esasperato,
che nella magistrale interpretazione di Federica Fracassi colpisce lo spettatore non tanto per la
nudità in sé, ma per lo struggimento che comunica. Dalla leggiadria di una commedia si è
catapultati d’ improvviso nella drammaticità di una tragedia, che è la tragedia di una maschera,
Arlecchino, che perde se stessa, ma che è al tempo stesso la tragedia di un’ umanità che non si
riconosce più, vittima dei suoi stessi raggiri. Come si accennava prima, il pubblico (che si è
mantenuto abbastanza tollerante per tutta la durata dello spettacolo) non ha reagito al meglio, deluso
nell’ aspettativa di vedere uno spettacolo in toto fedele a Goldoni. Non sono mancati risate ed
applausi, forse meno di quanti ne avrebbe meritati un’esibizione così ardita e così fenomenale come
quella di martedì sera, fosse solo per la impeccabile maestria dimostrata da ciascun attore sul
palcoscenico. Numerosi sono stati i volti scandalizzati, ma non ci si scandalizzi di fronte ad un
provocazione, che in quanto tale non potrà mai essere volgare quando densa di un significato
importante come quello espresso da Latella nel suo spettacolo: l’ Uomo, posto di fronte alla sua
Nudità, si smarrisce e del resto lo smarrimento è parte ineluttabile del suo destino.
ENRICO GALLI - 3ª LICEO SCIENTIFICO
Martedì sera al Teatro Ponchielli di Cremona è stato messo in scena “Il servitore di due padroni” di
Carlo Goldoni rivisitato in chiave moderna con la regia di Antonio Latella e con drammaturgia di
Ken Ponzio. Spettacolo che già si preannunciava ricco di colpi di scena e veramente insolito, come
già successo a Venezia, non è passato indifferente e ha riscosso poco successo. E’ quasi sembrato, a
prima vista, un’accozzaglia indeterminata di vari tipologie di teatro, senza un filo logico e senza un
conduttore tra le varie scene. Per i primi venti minuti, infatti, il pubblico è immerso in un’atmosfera
che ricorda l’ambiente “goldoniano” e quello della Commedia dell’arte: il dialetto di Pantalone, che
quasi è un “ricco-squattrinato”, è veneziano puro e vengono introdotte le figure di Brighella come
servo astuto e direttore dell’albergo in cui si sviluppa la vicenda. Però si può riscontrare da subito
un elemento insolito: il telefono in cui Brighella parla quasi senza senso. Da qui la vicenda si
sviluppa con un ritmo quasi irrefrenabile e velocissimo degno di una poesia futurista e come
un’onda, alla fine, travolge lo spettatore che rimane quasi assente, attonito e incredulo di ciò che ha
visto. Durante la rappresentazione il linguaggio diventa sempre più volgare e spinto e sembra
ripreso dal sermo cotidianus di Plauto e anche lo scopo è simile: mira soltanto a far sorridere i più
giovani proprio come accade per il nudo di Beatrice-Federigo Rasponi e per altre scene licenziose e
troppo volgari che non ci si aspetta di trovare a teatro. Inoltre la mancanza di senso logico ricorda il
“Teatro dell’assurdo” ma in parallelo viene studiato il materialismo, la tristezza e l’abbandono della
società moderna che, come il “lazzo della mosca” di Arlecchino, sembra impossibile fermare e si
riscontra nel monologo di Beatrice. Il risultato è ambiguo e sconcertante, intrigante ma anche molto
poco apprezzabile. Infatti durante la rappresentazione uno spettatore ormai deluso e stanco risponde
con un chiaro: “Avanti?!” allo scalpiccio di Arlecchino sul palco. Lo spettacolo purtroppo poco
apprezzato viene salutato con flebili applausi e poco riverenze dal pubblico che si dirige
velocemente all’uscita completamente distrutto e sconvolto.
CRISTINA MORRA - 4ª LICEO SCIENTIFICO
Il 28 gennaio al teatro Ponchielli di Cremona è andato in scena il tanto atteso ‘Servitore di due
padroni’. La storia,come si può intuire dal titolo, è liberamente ispirata (e l’avverbio è d’obbligo)
all’opera di Goldoni. Il pubblico era stato messo in guardia sulla non conformità della sceneggiatura
al testo tradizionale eppure Antonio Latella, il regista, ha comunque lasciato tutti sbigottiti (chi
positivamente, chi no): dell’opera goldoniana, infatti, si può dire che abbia conservato e attualizzato
solo il tratto rivoluzionario. La vicenda è ambientata nella hall di in un lussuoso hotel veneziano. Le
musiche e le luci sono semplici ma comunque suggestive ed efficaci. Lo spettacolo, in un solo atto,
appare chiaramente diviso in un due parti: una,potremmo dire, più tradizionalista, nel complesso
piacevole e non troppo difficile da comprendere; la seconda, invece, una vera e propria rivoluzione,
affascinante sotto alcuni punti di vista, caotica e poco comprensibile sotto altri. L’obiettivo di
Latella,d’altronde, non era certo quello di esaltare o seguire la tradizione, anzi nel ‘Servitore di due
padroni’ egli si confronta e poi rompe definitivamente con essa. I personaggi all’inizio seguono i
ruoli loro attribuiti dalla storia originale, pur mostrando già di stare un po’ stretti in quei panni fin
troppo rigidi e fittizi; l’elemento che fa da collegamento con la seconda parte è il telefono di
Brighella (Massimiliano Speziani) con cui egli comunica al pubblico ciò che sta per accadere
infrangendo così la finzione scenica; e nella seconda parte è proprio questo che succede: basta
artifici e basta menzogne, i personaggi si liberano di identità che non sentono loro, fanno cadere le
maschere e mostrano i loro lati più ribelli e perversi,così come la scenografia che viene
letteralmente smontata. Il regista mostra, pure se in un modo forse troppo diretto per un pubblico
poco abituato alla novità, che il teatro può ancora evolversi,spogliarsi della finzione che per secoli
l’ha caratterizzato,diventare da verosimile a vero, avere così un nuovo ruolo nella società e una
nuova immagine: di tutto ciò Latella ce ne ha voluto dare un primo esempio,ancora rudimentale e
da perfezionare, ma certamente non da disprezzare.
ANGELO BRECCIA - 5ª LICEO SCIENTIFICO
Tripudio di porte che continuamente vengono aperte e chiuse, all’interno delle quali non è possibile
scorgere nulla perché nulla vi è in realtà contenuto, lo spettacolo di Antonio Latella è volto
certamente a sconvolgere lo spettatore, a creare in lui dei sentimenti forti siano essi negativi o
positivi. L’ambientazione è suggestiva e al tempo stesso totalmente alienante, il regista sceglie
infatti di collocare la trama goldoniana all’interno di un hotel moderno e avulso da qualsiasi
contesto materiale. Si potrebbe dire che l’hotel è metafisico, un’allegoria del teatro stesso, a tal
punto che nell’ultima mezz’ora di spettacolo l’albergo viene totalmente smantellato dagli attori per
lasciare spazio al nudo palcoscenico che mostra il suo scheletro agli spettatori. La recita nel suo
complesso risulta però piuttosto delirante e alquanto lontana dal testo originale, seppure diversi
spunti ne vengano presi. Il delirio complessivo riesce comunque a mantenere una certa razionalità,
fino a quello che si potrebbe interpretare come punto di rottura definitivo ovvero il monologo della
cameriera. Dopo questo lungo stacco infatti la rappresentazione comincia ad accentuare le sue
tonalità grottesche, fino a culminare nella lunghissima resurrezione e metamorfosi di Arlecchino,
che occupa l’ultima mezz’ora di spettacolo. Questa parte dello spettacolo è però troppo esasperata,
tanto da diventare quasi irritante per lo spettatore. Latella non è certo nuovo a lavori provocatori ed
espliciti come questo (molto sottolineata la scena di baci saffici tra le due principali attrici), infatti
già la scorsa stagione aveva presentato “Un tram che si chiama desiderio” facendo largo uso di
effetti sonori e luminosi alquanto forti e invadenti nei confronti dello spettatore che vengono
riproposti seppure in misura molto più morbida anche in questo spettacolo.
MATTEO BONAGLIA - LICEO SCIENTIFICO
Ambiguo. Questa è l’unica parola che può descrivere realmente la rivisitazione in chiave moderna
de “Il servitore di due padroni” messa in scena da Antonio Latella al teatro Ponchielli di Cremona
in data 28 gennaio 2014. All’interno della povera rappresentazione di una sfarzosa hall un
Arlecchino bianco è portato a rivivere la sua storia, ma le tematiche proposte sono ben più attuali di
quelle del 1745, anno di pubblicazione del testo originale. Tuttavia il lato geniale del regista si
rivela solamente nella conclusione, proponendo agli spettatori un atto inedito, caratterizzato dalla
rimozione della scenografia per discutere dei problemi che i personaggi saranno costretti ad
affrontare nell’immediato futuro. La disperazione porta quindi via ogni risata con una nudità
ostentata. L’effetto è stato un mormorio diffuso. Le battute venete sono spesso sostituite da
parafrasi in italiano, francesismi, inglesismi o semplici suoni e, tralasciando la sorprendente
conclusione, il riso rimane il filo conduttore degli eventi presentando un Pantalone senza pantaloni
e un Florindo rockstar. La gestualità molto curata sdrammatizza in modo eccelso gli atti di violenza,
quelli a sfondo sessuale e, unita ad una valida retorica caratterizzata da un registro basso ma curato
e dall’assenza di musica, riesce ad introdurre con il favore del pubblico temi come l’omosessualità,
la politica e la storia. Nulla è lasciato al caso e, come Brighella riporta fedelmente agli ascoltatori
ogni avvenimento, così Arlecchino mostra con acrobazie e brevi battute lo stereotipo di uomo
ignorante in cerca di un’identità. Nel complesso lo spettacolo, contrapposto all’omonimo
allestimento di Strehler, può generare indignazione, se si è abituati ad una visione classica, ma
sviluppa allo stesso tempo interessanti questioni sulla nostra società. Per questo, anche se
l’interpretazione del regista in un primo tempo può non piacere, una rivalutazione è quasi
obbligatoria.
ANTONIO CARNEVALI - 1ª LICEO CLASSICO
Il Servitore di due padroni, inscenato da Antonio Latella e Ken Ponzio, è uno spettacolo tanto
socialmente impegnato quanto esteticamente orribile. L’opera è stata divisa in due parti, cosa resa
molto pesante dall’assenza di un intervallo. Per la prima ora e mezza ha avuto luogo la
rappresentazione della commedia goldoniana vera e propria. Per quanto riguarda questa parte dello
spettacolo facciamo molta fatica a individuare punti positivi a parte la bravura degli attori (spiccano
un Arlecchino pressoché perfetto e un Brighella frizzante e molto calato nella parte). Abbiamo
trovato la regia molto scarna, simmetrica e squallida, squallore che culmina nell'altezza inadeguata
degli sfondi, che mostrano muri e fili elettrici del palco. Anche le luci erano veramente tristi, in
quanto non solo molto statiche e poco espressive, ma anche troppo intense quando le porte delle
camere ai lati del corridoio si aprivano, facendo sembrare semplici porte di stanze d’albergo i
cancelli del Paradiso. A peggiorare la situazione è in primis il fatto che non tutto ciò che dicono i
personaggi si capisca, in quanto parlano o in veneziano o con accenti stranieri, e secondariamente
l'utilizzo di uno humor non proprio sofisticato, come dimostra la scena dove Pantalone entra in
scena senza pantaloni, o anche l’esagerata entrata in scena di Florindo, che risulta più che mai fuori
luogo.Veniamo ora alla seconda parte dello spettacolo, quella che arriva quasi a riscattare questo
obbrobrio. E’ qui che l’opera si delinea per quello che è: metateatro nudo e crudo (come la stessa
Fracassi a fine spettacolo). I personaggi smontano la scena e si identificano nel pubblico, o
addirittura nell’intera società odierna, e comandano al povero Arlecchino ogni singolo movimento
da fare. Pregevole collegamento con l’inizio dello spettacolo, nel quale Arlecchino esegue gli stessi
movimenti, accentuando la finzione dello spettacolo. Certamente sono numerosissimi gli spunti di
riflessione generati da questa rappresentazione, ma complessivamente il messaggio trasmesso è
molto criptico e difficile da interpretare. La commedia si presenta come una completa rivisitazione
dell’opera originale di Goldoni, che sembra essere semplicemente un pretesto per arrivare a lanciare
un messaggio tanto negativo quanto realistico di critica al teatro moderno e, perché no, anche alla
società.
ANDREA BERGONZI - 5ª LICEO SCIENTIFICO
L’artista moderno, mi pare, lavora per esprimere un mondo interiore, il movimento, l’energia, altre
forze interiori”: così definisce l’artista e dunque l’arte moderna il grande pittore statunitense,
rinomato esponente dell’Espressionismo Astratto, Jackson Pollock. Questa espressione dinamica e
travolgente è pilastro portante della controversa opera “Il servitore di due padroni” ( in scena in
serata unica il 28 Gennaio al teatro Ponchielli di Cremona). Una trasposizione teatrale di una
dialettica tra passato e presente, tra ordinato classicismo - tradizionalismo e modernismo
minimalista ed astratto, tra l’energia vitale e la voglia di vivere e la disperazione più nera. La scena
si apre su un palco ricco di oggetti di scena e luci, relativamente originale - accettabilmente e
comprensibilmente rivisitato - ma rispondente all’opera goldoniana di riferimento, ammodernato
essenzialmente nell’ambientazione, un hotel anni ’50, e nei costumi. La rappresentazione parte
movimentata, fresca, frizzante, ricevendo reazioni attive di un pubblico divertito e coinvolto.
All’improvviso, il caos irrompe, distrugge e corrode una vicenda in corso, di cui lo spettatore aveva
oramai iniziato a immaginarsi una possibile, ragionevole conclusione. I personaggi impazziscono,
investiti da un furor inevitabile e dirompente. Riecheggiano rumori turpi, grida disumane, atti
osceni e versi orgasmici, inizialmente affrontati dal pubblico con il riso - la più comune forma di
reazione all’imbarazzo - e poi con rabbia crescente, fomentata da un senso incontrollabile di fastidio
e nervosismo nevrotico. Lo spettatore assiste impotente alla decostruzione di un Teatro
Tradizionale, che principia come sottile parodia - dal personaggio-autore Brighella, incarnazione di
un “ordine prestabilito” , a quello di Smeraldina con quel suo metateatro populista - e si corona con
lo smantellamento della scena iniziale e lo svelamento di un ribaltamento sostanziale del testo
goldoniano. Vero protagonista è quindi il Teatro, che evolve, come in una irreversibile
metamorfosi, da “standardizzata” fissità a puro astrattismo, vivo solo e sempre nella sensibilità del
destinatario. Questa rappresentazione, ricchissima peraltro di profonde citazioni pirandelliane e
shakespeariane, è evidentemente costruita su tale riflessione: meravigliosa!
ALESSANDRO COLOMBARI - 3ª LICEO SCIENTIFICO
E come il teatro suole stupire gli spettatori trasportandoli in nuovi mondi tutte le volte che apre il
sipario, così il 28 gennaio il Ponchielli di Cremona ha ospitato sul palcoscenico un’atipica
rappresentazione del rinomato “Servitore di due padroni” di Goldoni. Questa volta siamo stati
catapultati in un interno di albergo, riconducibile a tempi a noi non distanti; il termine “catapultati”
rende bene l’idea di come il regista, Antonio Latella, abbia condotto gli ospiti del teatro nella
rappresentazione della commedia: uno sballottamento continuo. Oltre a una trama già non troppo
semplice da seguire a confondere si è aggiunto un susseguirsi di scene sconnesse e in alcuni punti
fin troppo volgari. In tutto questo qualche buona idea è stata apprezzata, come quella di svestire
Arlecchino dei variopinti colori che tappezzano da sempre il suo abito, un Arlecchino tutto da
colorare con le impressioni del pubblico, che lo vede nelle vesti di ben due maschere nel servire i
suoi padroni; oppure la drastica “messa a nudo” del palcoscenico, smontato dalla scenografia per
mezzo degli stessi attori, simbolo dello smantellamento persino dell’ultimo baluardo del palco, la
menzogna, oltre a quella vi è la sua vera essenza; o ancora un Brighella direttore dell’albergo e allo
stesso tempo voce narrante del copione, comunicante nel ruolo per mezzo di un telefono, come
fosse appunto una voce esterna onniscente. Questo tipo di idee rende una commedia di altri tempi
contemporanea, non l’uso spropositato di volgarità! Un tentativo di avvicinare il pubblico più
giovane? Un’immedesimazione nel gergo che siamo molto spesso abituati a sentire di questi tempi?
La sola certezza è che come trovata non è stata molto apprezzata, specialmente da una fascia di
spettatori più matura. E che dire del monologo sostenuto da Arlecchino? Interminabile e mal posto
nel contesto della trama: le intenzioni di Goldoni infatti erano ben altre, mostrare la fatica della
Maschera nell’affrontare mille peripezie per riuscire a soddisfare le necessità dei suoi padroni, non
mostrare un dramma interiore. Dunque lo spettacolo diciamo pure che purtroppo non è riuscito a
trasmettere un messaggio positivo, respingendo gli spettatori dall’essere partecipi di una vicenda
dall’intelaiatura di per se vicina a noi oggi.
VERONICA BETTONI - 2ª LICEO MANIN
Scene dirette, forti, spinte. Il lavoro di un regista che osa moltissimo, raggiungendo forse il troppo
che stroppia. Lo sconvolgimento totale delle aspettative e degli schemi. Un’azione scenica
impetuosa, brusca, che unisce la sublime maestria degli attori a copioni che affascinano e
confondono allo stesso tempo, e che culminano in momenti estremi, di grande drammaticità. Lo
spettacolo “Il servitore di due padroni” andato in scena martedì sera al Ponchielli è stato qualcosa di
cui è difficile dare l’idea a chi non era presente. Il tradizionalissimo testo di Goldoni è stato
completamente rivisitato e ridiscusso dalla regia di Antonio Latella e dalla drammaturgia di Ken
Ponzio, e sembra rappresentare solo un pretesto, un punto di partenza per andare oltre e interrogarsi
sul teatro, sul rapporto tra persona e personaggio, tra individuo e maschera, toccando temi sempre
scottanti come l’amore e il denaro, ma anche l’omologazione dell’individuo e i travestitismi. Un
corridoio d’albergo - con le porte dell’ascensore che si aprono e si chiudono e un televisore che
trasmette ininterrottamente - fa da sfondo alla vicenda, ambientata al giorno d’oggi e incentrata sul
fidanzamento tra i giovani Clarice e Silvio, improvvisamente rotto dall’arrivo di Beatrice Rasponi,
una ragazza intraprendente interpretata da Federica Fracassi, che per impossessarsi della dote di
Clarice si finge il fratello Federigo Rasponi, promesso sposo di Clarice, creduto morto. Con lei
arrivano il suo servo Arlecchino - un intenso Roberto Latini che non ha nulla dell’attore tradizionale
e che veste significativamente di bianco - che si rivelerà poi essere Federigo, e l’amante Florindo.
Dopo varie scene imprevedibili, spesso provocatoriamente all’insegna della lussuria e dell’oscenità,
il filo narrativo si assottiglia sempre più, fino a che la stessa scenografia viene smontata sulle note
di uno Stabat Mater e lascia il posto a qualcosa di indefinibile, incomprensibile. Ecco allora che si
cerca di indagare il teatro, la menzogna, la finzione, e un climax ascendente di irrazionalità,
degenerazione che culmina con il nudo di Beatrice e con Arlecchino che ripete più volte, in maniera
ossessiva e disperata, il famoso lazzo della mosca. Lo spettatore rimane stordito da scene che danno
l’idea di essere geniali ma che rimangono infine essenzialmente troppo astruse. Vi sono numerosi
spunti interessanti, ma non sviluppati, inconclusi e inconcludenti, tanto che risulta difficile capire
cosa voglia comunicare il regista. Allo spettatore rimangono un qualche interrogativo non ben
identificato e poche risposte.
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