La scala di seta di Gioachino Rossini ingresso speciale scuole 10

FENICE EDUCATION 2014-2015
Atelier Malibran nell’ambito del Festival «Lo spirito della musica di Venezia» 2015
La scala di seta di Gioachino Rossini
direttore Francesco Pasqualetti
regia: Bepi Morassi
scene e costumi: Accademia di Belle Arti di Venezia
Orchestra del Teatro La Fenice
allestimento Fondazione Teatro La Fenice
ingresso speciale scuole 10€
Teatro Malibran ore 19.00
mercoledì 24, venerdì 26 e domenica 28 giugno - giovedì 2 luglio e sabato 4 luglio 2015
INFO: [email protected] - tel.041786541 tel. 041786681
ROSSINI - LA VITA E LE OPERE a cura di Laura Cesari
Rossini nasce a Pesaro il 26 febbraio 1892, pochi mesi dopo la morte di Mozart.
È figlio d’arte: il padre Giuseppe, detto il Vivazza, ispettore ai macelli e fervente
repubblicano, suona la tromba ed il corno nella banda cittadina; la mamma,
Anna Guidarini, canta con bella voce di soprano nei teatri di provincia. Il
vivacissimo Gioachino trascorre l’infanzia e la prima giovinezza frequentando
assiduamente i palcoscenici e le chiese, dove si guadagna da vivere cantando. A
dieci anni fa il primo incontro con le opere di Mozart, Cimarosa e Haydn a Lugo,
nella ricca biblioteca del suo primo maestro, il Canonico Giuseppe
Malerbi. Dal 1806 frequenta al Conservatorio di Bologna la classe di
contrappunto di Padre Mattei, un severo maestro verso il quale proverà sempre
affetto e riconoscenza. Non ancora dodicenne, compone le Sei Sonate per archi,
prima testimonianza di un istinto prodigioso, e intorno al 1807 si cimenta per la
prima vola nel genere operistico, con quel
Demetrio e Polibio che debutterà a Roma solo
sei anni più tardi.
Nel 1810, abbandonati gli studi musicali (con
grande sdegno di Padre Mattei, che arriverà a
giudicarlo «il disonore della sua scuola»!),
Rossini intraprende con spavalda sicurezza
l’ardua carriera dell’operista. Tutto nella sua
giovinezza si svolge nel segno dell’entusiasmo e
della fretta: fretta di guadagnare, di scrivere per
i teatri, di piacere al pubblico, fretta di vivere, di
corrispondere alla sua natura. La musica sarà
sempre per lui una gioia e un istinto: desideroso
di conoscere e sperimentare, sin da
giovanissimo si impossessa con naturale facilità
di tutto ciò che può essergli utile, analizzando le
partiture dei grandi maestri, soprattutto di
Haydn e di Mozart, il musicista che adora e che
fu per lui - come ricorderà molti anni più tardi «l’ammirazione della mia giovinezza, la
disperazione della mia maturità, la
consolazione della mia vecchiaia.»
La memoria prodigiosa, la capacità di
assimilare i diversi stili, la straordinaria abilità
nel gestire il successo e nell’accattivarsi il favore
del pubblico contribuiscono al rapido avvio di
una brillantissima carriera. Bello e simpatico,
intelligente e spiritoso, Rossini entra nel mondo
dell’opera agevolato dalla diretta conoscenza
delle sue regole e da un’istintiva natura di
operista, e scopre subito che la sua cifra è
quella del ritmo. Il 3 novembre
1810 al Teatro di San Moisé di Venezia va in
scena La cambiale di matrimonio, primo tra i
lavori rossiniani ad affrontare la prova del
palcoscenico, nel quale si manifesta già una
brillante verve comica. Quest’opera gli frutta i
primi guadagni - quaranta scudi - e fa di lui
«il prediletto del pubblico e l’idolo dei
gondolieri». A soli diciott’anni Rossini si avvia
a conquistare il suo
spazio in un mondo dominato dalle
convenzioni, dai capricci dei cantanti e dalle
esosità degli impresari.
In ambito teatrale la parabola artistica
rossiniana si compie nel breve spazio di
nemmeno vent’anni, dal 1810 al 1829, e può
essere suddivisa in tre periodi, corrispondenti
alla sua permanenza in aree geografiche
diverse. Il primo periodo va dal 1810 al 1814,
allorché egli staziona nell’Italia settentrionale
(Venezia, Milano, Bologna, Ferrara), e vede il
prevalere della produzione
comica. Nel giro di cinque anni Rossini
compone ben tredici opere, imponendosi
all’attenzione del pubblico e degli impresari
teatrali. La forza trascinante della sua musica
rende accettabili
anche i libretti più triti e banali, e attraverso i
travolgenti «crescendo», la lirica spontaneità
delle linee melodiche e la ricca polifonia
vocale dei f inali sembra ridare vita a
situazioni e personaggi di per sé usurati e
inconsistenti. Intorno al simpatico
compositore, che si circonda di ammiratori e
amici buontemponi, cominciano a fiorire
aneddoti e battute; nasce la leggenda di un
Rossini uomo ed artista olimpico e burlone,
sensibilissimo al fascino femminile ed amante
della buona tavola.
Dopo i primi successi arriva il debutto
prestigioso alla Scala, dove nel settembre del
1812 egli trionfa con La pietra del paragone
(cinquantadue repliche!). L’anno seguente
vede la nascita di quattro opere destinate ai
teatri veneziani, tra cui Tancredi e L’Italiana
in Algeri. Pur dedicandosi assiduamente al
genere buffo, Rossini è attratto da quello
serio, più aperto a soluzioni innovative, e il
primo approccio col teatro tragico avviene appunto
con Tancredi, una par titur a che conquista
immediatamente i veneziani. Nella sua Vie de Rossini
Stendhal testimonia che l’aria «Di tanti palpiti» era
cantata da tutta Venezia e afferma che in quest’opera
tutto «è semplice e puro. Non vi è lusso; è il genio in
tutta la sua ingenuità o, se mi si permette questa
espressione, è il genio ancora vergine.» Rossini non ha
ancora compiuto ventun’anni.
Gli amici veneziani hanno ben presto una nuova
occasione per festeggiare il giovane maestro: si tratta
questa volta di un’opera buffa, una spassosissima
‘turcheria’. L’Italiana in Algeri scatena la fantasia di
Rossini in un magico, assurdo gioco, condotto nel
duplice segno di una dirompente allegria e di una
profonda scienza musicale (ma Padre Mattei, dopo
averla ascoltata, sbotta indignato: «Gioachino ha
vuotato il sacco!»). L’anno successivo, con Il Turco in
Italia, composto per La Scala di Milano, Rossini
procede ulteriormente sulla via della riforma del
genere
buffo, che egli sgancia poco per volta dalle forme,
ormai abusate, care alla tradizione napoletana.
Impostosi come il compositore italiano di maggior
successo e completata la conquista del florido
mercato dell’Italia del Nord, Rossini accetta l’offerta
di un grande impresario - Domenico Barbaja - e dal
1815 svolge nei teatri napoletani e romani la duplice
funzione di organizzatore teatrale e compositore.
Infaticabile e sempre attento agli umori del pubblico,
egli procede alternando partiture innovative ad altre
restaurative. Durante questo secondo periodo - che
potremmo chiamare «napoletano» - Rossini realizza
l’unificazione musicale dell’Italia, finora divisa in
scuole e teatri tra loro antagonistici.
Per comprendere quale orizzonte si apra dinnanzi a
questo geniale e impaziente ventitreenne, è bene
ricordare che nei primi decenni dell’Ottocento l’Italia
è ancora divisa non solo geograf icamente e
politicamente ma anche culturalmente. A Napoli,
dopo la dominazione di Murat e la restaurazione
dell’Ancien Régime, la vita musicale si svolge in
numerosi teatri ben organizzati, frequentati da un
pubblico attento e aggiornato, dotati di complessi orchestrali e corali di
prim’ordine, con cantanti eccellenti e mezzi economici adeguati. Per la prima
volta Rossini può programmare il lavoro in tempi lunghi ed elaborare le proprie
idee drammatiche con una certa libertà, vincolato solo dalla volontà di ottenere
quel successo di pubblico al quale non intende rinunciare.
Per contro il giovanissimo musicista, giunto a Napoli preceduto dalla fama di
«rivoluzionario», deve affrontare gli intrighi e le palesi ostilità dei dotti insegnanti
del Conservatorio e dei colleghi che, invidiosi della sua rapida fortuna, lo
accusano di non aver neppure concluso gli studi! Rossini affronta da par suo la
sfida gettandosi a capofitto nel lavoro e guidando con mano abile e ferma i teatri
napoletani. Nel contempo scrive per essi dieci nuove opere, nove delle quali
«serie», e compone alcuni lavori, per lo più buffi, per i teatri romani, tra cui Il
barbiere di Siviglia (Teatro Argentina - febbraio 1816), la più nota ed eseguita tra
le sue opere. La partitura del Barbiere, che ricalca gli stilemi e le forme dell’opera
buffa, costituisce una delle più straordinarie testimonianze della prodigiosa
creatività del pesarese: nel serrato susseguirsi di melodie accattivanti, ritmi
trascinanti, esilaranti trovate teatrali e preziose invenzioni timbriche.
La vita privata e pubblica di Rossini si fa sempre più frenetica e stressante: il
superlavoro, i gravi doveri, la necessità di difendersi da chi contesta con
accanimento il suo potere e il valore della sua musica pesano su di lui e offuscano
la sua immagine
allegra e vitale; in quel continuo bisogno di creare attorno a sé un’atmosfera
serena, circondandosi di amici fidati, sembra nascondersi la paura della
solitudine.
Nel dicembre 1816 vede la luce Otello, destinato a diventare una delle opere più
popolari dell’Ottocento, la cui fama sarà offuscata soltanto dalla nascita
dell’omonimo capolavoro verdiano. L’anno seguente Rossini mette in scena, a
pochi mesi di distanza, due opere accostabili al genere «semiserio» (un genere che
predilige gli ambienti borghesi, la cui azione si incentra per lo più su una figura
femminile ingiustamente oppressa e nel quale si fondono tipicamente elementi
comici e patetici): La Cenerentola (Roma, teatro Valle, gennaio 1817) e La gazza
ladra (Milano, Teatro alla Scala, maggio 1817). La prima è una partitura in bilico
fra l’astrazione comica e un tenero, malinconico patetismo; la seconda
appartiene ad un genere intermedio di teatro musicale, nato nello scorcio del
XVIII secolo: la cosiddetta «opera semiseria», di ambientazione borghese, nella
quale convivono liberamente il comico e il patetico. Nell’autunno dello stesso
anno va in scena al San Carlo di Napoli Armida, coraggioso e convincente revival
del dramma cavalleresco caro al melodramma settecentesco. Nel marzo del 1818
Rossini trionfa nello stesso teatro con l’azione tragico-sacra in tre atti Mosé in
Egitto: un lavoro singolare, simile ad un grande Oratorio, che colpisce il pubblico
napoletano per l’imponenza e la profondità della concezione teatrale.
Dopo il Mosé Rossini attraversa un periodo di cattiva salute. Il superlavoro, la
tensione accumulata nello sforzo di apparire sempre olimpicamente
imperturbabile, nonostante le amarezze procurategli da alcuni scritti ingiuriosi
pubblicati da meschini pubblicisti nostrani e da alcuni critici tedeschi che
contestano il successo degli italiani e quello di Rossini in particolare, cominciano
a pesare sul suo sistema nervoso e sul suo fisico. Si ammala e a Napoli si diffonde
la notizia della sua morte! Fatti i debiti scongiuri e rimessosi in salute, egli torna
al lavoro e ottiene un grande successo di critica con una partitura di stampo
tradizionale, Ricciardo e Zoraide (San Carlo, dicembre 1818). Cade invece
Ermione (marzo 1819), singolare tentativo di avvicinamento al dramma classico
francese. Maggior fortuna tocca, nell’autunno successivo, a La donna del lago,
tratta da un romanzo di Walter Scott, in cui alcuni elementi tradizionali molto
graditi dal pubblico - il lieto fine, gli acrobatici virtuosismi, la suddivisione
«restaurativa» dei ruoli vocali (nell’opera vi è anche un mezzosoprano en travesti)
- si coniugano ad un clima già per alcuni versi preromantico. Le suggestive
sfumature della raffinata orchestrazione e le soavi melodie colpiscono, tra gli
altri, un sensibilissimo spettatore: Giacomo Leopardi.
Tra le opere drammatiche dei due ultimi anni napoletani,
ricordiamo l’imponente Maometto II, che va in scena al San Carlo nel dicembre
1820. Rossini dà l’addio al glorioso teatro partenopeo con Zelmira, progettata
per una tournée viennese e composta pertanto con cura particolare e con
l’intento di esaltare le doti vocali e artistiche della sua compagna Isabella Colbran
(già amante del Barbaja e protetta dal re), che, dopo una lunga relazione segreta,
egli sposa il 16 marzo 1822 nella tenuta di lei a Castenaso, presso Bologna. Gli
sposi partono quindi per Vienna, dove li attende una grande stagione d’opera al
Teatro Italiano di Porta Carinzia, organizzata dal Barbaja, ancora ignaro del
legame che li unisce. Una sera Rossini si reca ad un concerto in cui si esegue,
presente l’autore, la Terza Sinfonia di Beethoven. Nel vedere il grande, infelice
collega, assorto e quasi isolato dalla sordità, egli prova una grande pena. L’innata
delicatezza gli suggerisce di nascondersi per non distrarre il pubblico. L’Abate
Carpani gli procura un colloquio con Beethoven, che ha parole di elogio per il
Barbiere. Nel tentativo di alleviare la miseria e la solitudine in cui vive il grande
artista tedesco, Rossini progetta di raccogliere i fondi necessari per acquistargli
una piccola casa, ma l’idea non trova alcun concreto
appoggio tra i colleghi.
La fama di Rossini si è frattanto saldamente affermata in tutta Europa. Le sue
opere più richieste trionfano in tutti i teatri del mondo, i suoi altissimi compensi,
oculatamente amministrati, fanno di lui un uomo ricchissimo: come scrive Philip
Gossett, «Nella prima metà dell’Ottocento non vi fu compositore che eguagliasse
il prestigio, la ricchezza, il successo, l’influenza artistica di Rossini». Al suo rientro
in Italia, Rossini scrive Semiramide per il Teatro La Fenice di Venezia: sarà l’ultimo
capolavoro creato per un pubblico italiano e Rossini sente «la necessità di
codificare la propria concezione della classicità mediando i vecchi schemi
attraverso la consapevolezza derivata dalle esperienze intercorse.» (Quattrocchi)
Dopo un soggiorno londinese ricco di successi, onoreficenze e lauti compensi (ma
funestato da una terrificante traversata della Manica in tempesta), nel 1824
Rossini giunge a Parigi, dove viene nominato «Direttore della musica e della
scena» al Théâtre Italien, dietro l’impegno di comporre alcune opere in lingua
francese. Lo stipendio annuo è di 20.000 franchi! Inizia così il terzo ed ultimo
periodo, che vede l’ingresso trionfale del pesarese nel mondo musicale e nei
grandi teatri parigini. Dopo aver preso familiarità con la prosodia francese, nel
giugno 1825, in occasione dei festeggiamenti per l’incoronazione di Carlo X,
Rossini presenta al Théâtre Italien una cantata scenica: Il viaggio a Reims. Il
pubblico parigino, nonostante la bellezza di molti brani, accoglie con freddezza il
nuovo lavoro, tanto che l’autore lo ritira dopo tre rappresentazioni,
ripromettendosi di riutilizzarne la musica.
Rossini guida come un dittatore la vita musicale parigina, ma dietro alla sua
immagine brillante di uomo di successo e animatore di salotti aristocratici si cela
una crescente perturbazione nervosa, aggravata dalla crisi del suo matrimomio:
Isabella, ritiratasi dalle scene, è caduta nel vizio del gioco e si abbandona a spese
pazze; il felice rapporto sta per concludersi con una dolorosa separazione. Dopo
trentaquattro anni vissuti intensamente, in preda a un’incessante tensione
creativa, ora Rossini si sente vecchio. Vorrebbe scuotersi, comporre qualcosa di
nuovo, ma per il momento si limita al rifacimento del Maometto II, che va in
scena nel 1826 al Théâtre Italien con il nuovo titolo di La siège de Corinthe. È un
trionfo. Rossini viene nominato «Compositore di Sua Maestà il Re e Ispettore del
canto e di tutti i teatri e Istituti di musica», una carica creata apposta per lui e che
gli rende 25.000 franchi all’anno. L’anno seguente egli realizza una nuova versione
del Mosé, più vicina allo stile francese del grandopéra: Moïse et le Pharaon.
Le due ultime partiture teatrali rossiniane costituiscono l’esaltazione e il
compimento dei due filoni fondamentali della sua produzione operistica: il
comico e il serio. Mentre sta già pensando a Guglielmo Tell di Schiller, egli
compone in soli quindici giorni, con la sua proverbiale velocità, il «melodramma
giocoso» Le Comte Ory (per il quale ricicla molte idee del Viaggio a Reims):
un’opera al tempo stesso esilarante e toccante, più vicina al genere comicosentimentale che a quello buffo. Come nelle altre partiture francesi,
l’orchestrazione rivela un’accuratezza nuova, in particolare nell’impiego dei Legni.
L’opera ottiene, oltre al meritato trionfo, un grande successo di cassetta: l’editore
Troupenas acquista lo spartito per la somma sbalorditiva di sedicimila franchi!
Ma dai circoli musicali più all’avanguardia
si lancia ora frequentemente contro il compositore italiano l’accusa di essere un
«reazionario».
Per farci un’idea della violenza degli attacchi leggiamo ciò che Hector Berlioz
confessa di aver pensato prima di riconoscere lealmente la grandezza del collega:
«[...] il cinismo melodico, il disprezzo dell’espressione e delle convenienze
drammatiche, la riproduzione continua di una formula cadenzale, l’eterno e
puerile crescendo e la brutale gran cassa di Rossini, mi esasperavano al punto di
impedirmi di riconoscere persino nel suo capolavoro (Il Barbiere), del resto così
finemente strumentato (e senza gran cassa), le scintillanti qualità del suo genio.
Mi sono chiesto allora più di una volta come avrei potuto fare per minare il teatro
Italiano e farlo saltare durante una serata di spettacolo, con tutta la sua
popolazione rossiniana.» Non dissimili devono essere stati i sentimenti del
giovane Wagner, che ne farà ammenda nel 1860 recandosi a visitare il vecchio
maestro italiano per esprimergli la propria stima. Rossini è comunque la massima
autorità musicale di Francia e, nel campo della musica teatrale, del mondo. La
posizione raggiunta e il rispetto per l’arte che rappresenta gli suggeriscono di
musicare un soggetto nuovo, imbevuto dei più alti valori del Romanticismo. Egli
sceglie il terzo dramma della Libertà di Schiller - Guglielmo Tell -, rappresentato
per la prima volta nell’agosto del 1819. Con quest’opera Rossini si avventura su
un terreno per lui del tutto nuovo, ma la coscienza artistica e l’entusiasmo con il
quale si accinge al lavoro, nella villa dell’amico banchiere Aguado, compiono il
miracolo. Il pubblico della prima (Théâtre de l’Academie Royale de Musique, 3
agosto 1829) è stupito e sconcertato: Guglielmo Tell, pur conservando
l’equilibrata struttura formale e la classica compostezza tipiche dello stile
rossiniano, ha un respiro nuovo, epico ed universale; in esso il musicista
antiromantico sa cogliere ed esprimere quel senso della natura, della famiglia,
degli affetti, della civile convivenza e quell’anelito alla libertà che saranno propri
della poetica e dell’etica romantica. Massimo Mila scrive che con quest’opera
Rossini «[...] dimostrò
che volendo avrebbe potuto difendere il suo primato nelle nuove condizioni
dell’arte prodotte dal Romanticismo. Ma avrebbe dovuto far forza a se stesso: ciò
che l’artista era in grado di intuire con la chiaroveggenza del genio, all’uomo
ripugnava.»
Dopo Guglielmo Tell, pur rimanendo al centro della vita musicale europea,
Rossini non scriverà più opere. Con la consueta, garbata autoironia, egli
giustificherà il proprio silenzio affermando di avere «troppa soggezione
dell’autore dell’ultima per trovare la lena di comporre altre opere», e precisando:
«scrivevo opere quando le melodie venivano a cercarmi e sedurmi, ma quando
capii che toccava a me andarle a cercare, nella mia qualità di scansafatiche
rinunciai al viaggio e non volli più scrivere». Il ciclo si chiude, i prototipi dei generi
operistici sono fissati, il testimone ora passa ai maestri del romanticismo italiano,
a Bellini, Donizetti, Verdi, che troveranno sempre in lui un amico e un consigliere.
Ora Rossini alterna ai soggiorni parigini i lunghi periodi che trascorre nella sua
bella casa bolognese. Ma nel 1831, dopo un viaggio in Spagna ospite di Aguado durante il quale compone alcuni brani per uno Stabat Mater, su incarico
dell’Arcivescovo di Siviglia - viene colpito da un gravissimo esaurimento nervoso.
Isabella è lontana, accanto a lui da tempo c’è Olimpia Pélissier, una piccola
avventuriera che si prodiga come premurosa infermiera e scaltra consolatrice
della sua solitudine. Nel 1837 Rossini si separerà da Isabella e nel 1846, dopo la
morte di quest’ultima, sposerà la Pélissier. Il suo ‘silenzio’ non è comunque totale:
nel 1835 compone le Soirées musicales, una raccolta di dodici deliziose ariette da
camera, e nel 1841, nonostante l’aggravarsi delle sue condizioni di salute, termina
lo Stabat Mater, che nel gennaio 1842 ottiene a Parigi un clamoroso successo di
pubblico e critica.
Dal 1839 Rossini è consulente perpetuo del Liceo Musicale di Bologna dove nel
1848 viene coinvolto, suo malgrado, nello scoppio dei moti rivoluzionari. Il 27
aprile, mentre si affaccia al
balcone per ringraziare la banda militare venuta a rendergli omaggio, alcuni
facinorosi lo accusano pubblicamente di essere un reazionario spilorcio e codino.
La cosa lo turba profondamente: parte il giorno dopo per Firenze e nemmeno le
preghiere di padre Ugo Bassi lo convincono a rientrare. Tornerà a Bologna solo
nel settembre 1850 per allontanarsene definitivamente nel 1851, dopo un altro
increscioso incidente: alcuni amici abbandonano polemicamente la sua casa
allorché egli riceve la visita - del tutto inattesa - del Governatore austriaco. Offeso
ed amareggiato, il compositore pesarese si rifugia ancora a Firenze, modifica il
testamento con il quale lasciava tutti i suoi beni al Liceo Musicale di Bologna e
liquida tutti i suoi affari. In preda a continue crisi di ipocondria (non dorme, non
mangia, arriva al punto di pensare alla morte), nell’aprile del 1855 egli parte per
Parigi in una vettura di posta, con grande gioia dei francesi e di Olimpia, che odia
il nostro paese. Non rivedrà più l’Italia.
A Parigi la salute di Rossini migliora poco a poco, fino alla completa guarigione,
ed egli riprende la propria vita, piacevole ed oziosa. Ora l’anziano maestro abita
in uno spazioso appartamento in Boulevard des Italiens e d’estate si trasferisce
nella bella villa che si è fatto costruire a Passy, un sobborgo parigino; nel mezzo
del salone troneggia la statua di Padre Mattei, sopra il cancello d’ingresso una
cetra avverte quando il padrone è in casa. Rossini invecchia serenamente fra le
belle cose raccolte durante una vita di lavoro e di trionfi, allietato dalla presenza
dei molti amici, ricco e onorato come un re. Ai suoi famosi «sabati
musicali» (rinomati anche per le ottime cene preparate con le specialità
gastronomiche fatte arrivare dall’Italia) intervengono artisti di ogni nazionalità ed
esponenti dell’alta finanza e dell’aristocrazia. Il padrone di casa troneggia a
capotavola e, dopo cena, accompagna al pianoforte i cantanti suoi ospiti o
esegue con inimitabile grazia alcuni piccoli brani che compone quasi di nascosto:
brevi, deliziose melodie che con civetteria egli chiamerà Péchés de vieillesse e che
si rifiuterà sempre di far pubblicare, nonostante le allettanti offerte degli editori.
Dopo tanta musica scritta per accontentare il pubblico, egli può ora permettersi
di comporre per sé, in assoluta libertà, divertendosi a punteggiare di spiritose
armonie lo stile pianistico romantico, tanto di moda, e dimostrando ancora una
volta di possedere, oltre ad una lucida, disincantata intelligenza, un totale
dominio del materiale compositivo e un vivo senso dell’umorismo, sia pure
talvolta velato da improvvise malinconie.
Philip Gossett osserva acutamente: «Si può dire che Rossini non abbia mai
mutato ideali. Quando nel 1829 aveva abbandonato la composizione, il mondo
stava cambiando; quando riprende la penna, la sua musica presagisce una
tendenza neoclassica che troverà nel suo giovane ammiratore Saint-Saëns uno dei
primi promotori, e che farà sentire i suoi effetti anche nella musica di Stravinskij.
Così come da giovane aveva definito una volta per tutte la natura dell’opera in
musica nella prima metà dell’Ottocento, ora con i Péchés de vieillesse, con la
musica che la Parigi colta si affolla ad ascoltare ai “Samedi soirs”, Rossini esercita
il suo incantesimo su una nuova generazione di compositori francesi.»
Intorno al 1863 inizia il tempo del presagio di morte. Rossini compone un’altra
opera religiosa, la Petite Messe Solennelle. Sotto l’arguzia delle parole che il
maestro annota all’inizio e alla fine della partitura si cela una profonda
emozione: «Buon Dio. Eccola fatta questa povera piccola messa. Ho scritto della
musica sacra o della dannata musica? Ero nato per l’opera buffa, e tu lo sai bene!
Poca scienza, un po’ di cuore, ecco tutto. Sii dunque benedetto, e concedimi il
Paradiso. G. Rossini - Passy 1863.» Questa «piccola», ma sublime e modernissima
Messa (che viene eseguita in forma privata il 14 marzo 1864 nel palazzo del conte
Pillet-Will), suscita commozione ed ammirazione. «L’opera affascina musicisti più
giovani che vedono in Rossini non solo il grande maestro, ma una nuova miniera
di scoperte armoniche, melodiche, timbriche. Tutta Parigi fu in piedi e fiumi di
parole inondarono i giornali. Con l’Agnus Dei finale, Rossini ha toccato il vertice
[...] con il pensiero rivolto alla morte, consapevole del suo ultimo colloquio con
la musica, nel quale ha voluto dolcemente e serenamente spegnere la propria
voce.» (Rognoni)
Il 26 settembre 1868 si dà un grande pranzo nella residenza di Passy. Alla fine il
maestro si mette al pianoforte e canta con la sua ancor bella voce di baritono una
nuova elegia, Les adieux a la vie, piena di accenti nostalgici. Tutti sono commossi.
È questa l’ultima serata in casa Rossini. Dopo una dolorosa malattia e due
interventi chirurgici, il musicista italiano muore alle undici di sera del 13
novembre, mentre Parigi sta già preparando i festeggiamenti per il suo
compleanno.
I funerali sono grandiosi per concorso di popolo e di personalità giunte da tutto il
mondo. Dopo la momentanea sepoltura al cimitero di Père Lachaise, a
Montmartre, la salma del maestro viene trasportata tra un’immensa folla
commossa e silenziosa fino alla cattedrale di Firenze, dove riposa accanto a
Galileo e Michelangelo, Machiavelli e Foscolo, Alfieri e Cherubini.
[Tratto da Laura Cesari, Una piccola opera ‘veneziana’ di Gioachino Rossini, Dispensa didattica
Fondazione Teatro la Fenice,1998]
GIUSEPPE MARIA FOPPA
Giuseppe Maria Foppa (Venezia, 12
luglio 1760 – Venezia, 1845) è stato
un librettista italiano, autore di
oltre 80 libretti a cavallo tra la fine
del Settecento e l'inizio
dell'Ottocento. Fu attivo
essenzialmente nella sua città
natale, anche se compose opere
anche per i teatri di Milano,
Genova, Padova, Reggio Emilia,
Pistoia, Bologna e Firenze[1].
Autore di numerosi libretti d'opera
(specialmente di genere farsesco), è
ricordato soprattutto per i testi che
furono poi musicati da Gioachino
Rossini per i teatri veneziani:
segnatamente, le tre farse L'inganno
felice, La scala di seta, Il signor
Bruschino e il dramma Sigismondo.
Diverse furono le sue riduzioni di
lavori di Carlo Goldoni (fra cui La
bottega del caffè, musicata nel 1801
da Francesco Gardi, per il quale
l'anno successivo scriverà il testo
della farsa Il convitato di pietra, il
medesimo tema tratto da Tirso de
Molina e soggetto del Don Giovanni
mozartiano). Nel 1840 pubblicò a
Venezia un volume di Memorie
storiche, integrato nel 1842 da
un'appendice.
Produzioni librettistica
Foppa scrisse i testi di numerose
farse (genere al tempo molto in
voga nei teatri veneziani ma non
solo), fra cui Gli artigiani (per
Pasquale Anfossi, 1795, data al
Teatro alla Scala di Milano),
L'intrigo della lettera (per Simone
Mayr, 1797), Lo spazzacamino
principe e Le donne cambiate (per Marcos António Portugal, andate in scena
rispettivamente nel 1794 e nel 1797), Teresa e Claudio (per
Giuseppe Farinelli, 1801), Un buco nella porta (per
Francesco Gardi, 1804, Teatro San Benedetto di Venezia).
Nel genere serio scrisse, per la stagione di Carnevale del
1796 alla Scala, il libretto di Giulietta e Romeo, da William
Shakespeare, musicato da Nicola Antonio Zingarelli. Legato
prettamente all'opera comica, cessò di scrivere libretti
durante gli anni dieci dell'Ottocento, pur vivendo poi fino
al 1845.
Per il teatro pubblicò scrisse diversi altri libretti, tra cui
Romilda ovvero La fedeltà coniugale (dramma del 1799), Il
suddito fedele (dramma, 1800), le farse giocose Un
avvertimento ai gelosi, e L'amante anonimo (1804, per il
Teatro Carcano), la traduzione dal tedesco della farsa da
anonimo Il cavatore di tesori, la tragicommedia Don
Gusmano e il dramma tragico Matilde ossia la donna
selvaggia (del 1807).[2]
Suoi libretti furono musicati anche da Gaspare Spontini,
Carlo Coccia (La verità nella bugia, Una fatale
supposizione, Euristea), Stefano Pavesi e Sebastiano
Nasolini.
1. Fonte: Musicsack
2.Fonte: Biblioteca.accademiadeifilodrammatici.it
[Tratto da Wikipedia, l'enciclopedia libera]
LA TRAMA a cura di Martina Buran
Giulia, pupilla del vecchio Dormont, aspetta di liberarsi dello sciocco servitore
Germano per fare uscire dalla sua stanza Dorvil, giovane che ha sposato in
segreto, cui dà accesso alla camera tramite una scala di seta che getta dalla
finestra.
Appena uscito Germano, prima di congedarsi dalla sua amata, Dorvil manifesta
la sua preoccupazione per l’imminente arrivo di Blansac, giovane pretendente che
Dormont ha destinato a Giulia. Ma la
ragazza ha un piano segreto: far sì che
Blansac corteggi la cugina Lucilla, a cui
piace molto, in modo tale da non
intralciare il suo amore per Dorvil. Per
organizzare questo piano chiede l’aiuto
di Germano, il quale niente negherebbe
alla sua padroncina, a maggior ragione
nel momento in cui Giulia gli fa
intravedere qualche possibile
ricompensa (duetto Io so ch’hai buon
cuore). Egli deve sostanzialmente spiare
se Blansac corteggi Lucilla.
Nel frattempo arriva Blansac,
accompagnato da Dorvil, chiamato a
testimone delle imminenti nozze.
Dorvil cerca di dissuadere Blansac dal
maritarsi, specialmente con Giulia che
– tutti sanno – lo sposerebbe solo per
volere del suo tutore. Blansac accetta
la sfida e dice a Dorvil di spiarlo in
segreto, per vedere quanto possano
essere efficaci le sue doti seduttive.
Dor vil, un po’ inquieto, accetta,
mentre anche Germano assiste di
nascosto alle mosse di Blansac. Giulia,
dal canto suo, vuole provocare
Blansac, per essere certa che sia un
buon marito per sua cugina (quartetto
Si che unito a cara sposa).
Germano, accortosi che anche Dorvil
spia i due promessi sposi, li avvisa. Tutti
rimangono confusi e, mentre Dorvil cerca di mascherare la propria gelosia, se la
prendono con l’indiscrezione di Germano. Blansac rimane solo e incontra Lucilla,
alla quale fa subito la corte, corrisposto. Involontariamente Germano sente i
lamenti di Giulia, delusa dalla reazione di Dorvil, e scopre che, col favore delle
tenebre, la ragazza attende un uomo, che fa salire tramite una scala di seta nella
sua stanza (aria Il mio ben sospiro e chiamo).
Germano equivoca una volta di più e si convince che l’ospite di Giulia sia Blansac.
Subito narra la novità a Blansac e a Lucilla che, indispettita, si mette a spiare
l’incontro, cui attende anche il curioso Germano.
Giunge mezzanotte, e Giulia appresta la scala dalla quale Dorvil sale nella sua
camera (finale Dorme ognuno in questo soglie).
La ragazza non fa in
tempo a rassicurarlo
della propria fedeltà,
che dalla scala
giunge anche
Blansac. Dor vil si
n a s c o n d e
immediatamente,
ma anche Blansac
deve fare subito lo
stesso perché il
tutor e, accor tosi
della
scala
penzolante dal
balcone, è su tutte le
furie.
Dormont
scopre a uno a uno
tutti i convenuti nei
r i s p e t t i v i
nascondigli.
A
Dorvil e Giulia non
resta che confessare
il loro matrimonio
che, avvenuto con il
consenso della zia,
anche Dormont deve
benedir e, mentr e
Blansac si dichiara
contento di prendere
la moglie Lucilla.