Intervento in occasione del Premio Nocco

GUSTAVO GHIDINI
Intervento in occasione del Premio Nocco
Luiss Guido Carli - 7 aprile 2005
1. Vorrei cominciare da dove Gustavo Visentini ha concluso la sua appassionata e lucida analisi. In particolare, vorrei chiedermi e chiedervi: perché non siamo andati avanti?
Perché siamo impantanati in questo criptodirigismo affidato a una concentrazione bancaria che - trasparenza a parte - è al massimo capace, come dice Visentini, di “diluire le
crisi assorbendole, ma con ciò rendendo inefficiente l’allocazione delle risorse”?
Una sorta di amministrazione controllata dell’azienda Italia in crisi…
Questa situazione non cade dal cielo, non avviene per caso. Personalmente credo personalmente, con tutta la soggettività dell’opinione - che in Italia una cultura liberale
dell’economia non abbia attecchito, nel profondo, nel panorama dei grandi attori politici, economici, sociali.
2. Attenzione, però, a una essenziale precisazione preliminare, legata all’esperienza storica italiana ed europea. La cultura liberale dell’economia di cui parliamo qui non è certo quella degli slogan del neoliberismo banale - intellettualmente e politicamente - del
‘lasciamo fare al mercato’. È, piuttosto, quella che valorizza la libertà economica come
fattore dinamico soggetto a una responsabilità sociale. È la rivoluzione liberale
dell’economia con la quale F. D. Roosevelt ha risollevato gli USA dalla Grande Crisi e
che poneva sullo stesso piano la libertà di iniziativa e libertà dal bisogno. Ed è, pochi
anni dopo, quella della soziale Marktwirtschaft che presiedette al miracolo economico
europeo, alla ripresa postbellica. È quella stessa scritta nella nostra Costituzione con il
congiunto richiamo alla libertà di iniziativa e al rispetto dei valori e degli interessi racchiusi nella nozione di utilità sociale.
Ricordiamolo bene: la via europea allo sviluppo è storicamente ancorata a questa
sintesi. È su questa sintesi che si fonda il progresso delle nazioni europee: che non co-
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noscono, né vogliono conoscere, le profonde divisioni e le profonde esclusioni sociali
che il sistema nordamericano ha conosciuto dopo aver ripudiato il modello rooseveltiano e quello, che ne voleva costituire il proseguimento, della Great Society di Lyndon
Johnson.
E anche oggi, pur sotto il peso dei diversi fattori che impongono una revisione dei
tradizionali modelli di welfare, ricordiamo che le nazioni europee più avanzate mantengono e anzi puntano a rafforzare gli essenziali cardini della coesione sociale: gli ammortizzatori della flessibilità del lavoro, e la qualità dei servizi pubblici. Guardiamo a ciò
che insegna, ad esempio, il programma di investimenti sociali di Gordon Brown in UK,
o nelle nazioni scandinave.
3. Ma tutto questo non comporta affatto - e proprio quegli esempi maggiori ci confermano, anche sul versante su cui ora mi concentrerò - che, come accennavo all’inizio, si
possano contraddire, nei fatti, quegli elementari postulati di economia liberale così efficacemente riassunti da Visentini.
Come giudicare, da questo punto di vista, le irrisorie risorse pubbliche che
l’Italia destina alla ricerca, primo motore della competitività del sistema? Metà, sul PIL,
di quelle che destinano i paesi industrialmente avanzati dell’UE: la metà! [In compenso
(…) poche settimane fa, si sono aumentate, nel disinteresse generale, le tasse sui brevetti, strumento principe di protezione dei frutti della R&D.]
E come giudicare, poi, la frenata, sotto gli occhi di tutti, delle politiche di liberalizzazione delle public utilities? Non sembra paradossale che proprio il ceto politico che
ha fatto della libertà economica una delle sue principali parole d’ordine abbia nei fatti
rallentato, una volta al governo, processi di liberalizzazione avviati da altri attori politici
figli di una cultura di radici dirigiste?
Ma la contraddizione è purtroppo più vasta-bi-partisan, come si usa dire. Basti
pensare al fuoco amico che lungo l’iter parlamentare ha impregnato via via di contraddizioni dirigistiche la legge di riforma sui Servizi Pubblici Locali, in una convergenza di
interessi protezionistici e assistenziali che fa tutti contenti: l’Ente Locale che non perde
un ruolo forte nella gestione - in quella gestione dalla quale proclama di volersi ritirare e i privati che dalla partnership del socio-istituzione traggono fecondi auspici di privilegio, ben simbolizzati dalla dilagante prassi dell’affidamento c.d. in house degli appalti
in barba ai principi e dettami comunitari sulle gare aperte.
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E che giudizio dare, poi, del comportamento complessivo che, nella storia economica italiana contemporanea, ha tenuto il sistema delle imprese per affrontare in mare
aperto le sfide dell’economia di mercato?
Delle banche ha già parlato Visentini, e non torno quindi sul tenace protezionismo che caratterizza il settore. Vorrei, invece, accennare alla storica carente propensione del mondo dell’impresa, nel suo complesso, a reinvestire in innovazione, a entrare in
settori traenti – anziché uscirne ingloriosamente, come nel caso dell’informatica e della
chimica fine.
Ricordate il Bengodi degli anni ’80 in cui grandi gruppi ingrassavano i bilanci
col ‘fare finanza’ ben più che col ‘fare industria’? Ripeto, doverosamente e volentieri,
parlo di propensione maggioritaria: tutti conosciamo realtà imprenditoriali ammirevolmente impegnate nei settori delle biotecnologie, ad esempio, o delle nanotecnologie,
della microelettronica, e nell’aggiornamento tecnologico anche di produzioni c.d. mature. Per non dire dell’impegno innovativo nel campo delle telecomunicazioni. E altro ancora.
Ma è difficile sottrarsi all’impressione che, complessivamente, si tratti di eccezioni. Ed è pure difficile - sull’altro cruciale punto, quello delle crisi aziendali, giustamente sottolineato da Visentini - sottrarsi all’impressione che la tendenza prevalente del
mondo dell’impresa sia quella di cercare protezione in quel ‘sistema bancario concentrato, sotto la direzione di BdI’ - e aggiungo io: inevitabilmente anche del governo di
turno - ‘diluitore di crisi’. Qui sì che funzionano gli ammortizzatori (finanziari), con tutte le loro implicazioni protezionistiche - certo non di timbro liberale, certo non di economia di mercato.
Che dire, infine, della storica pressione corporativa esercitate dalle organizzazioni dei commercianti sugli assetti e le regole del comparto distributivo, dove si pongono lacci e lacciuoli sia alla libertà di prezzo - ma solo all’ingiù, notate, solo rispetto ai
ribassi (consumatore sovrano!) - sia a quella di insediamento, ostacolata da vari alibi
pseudoambientali e pseudourbanistici. Così si protegge l’inefficienza del piccolo commercio rispetto ai suoi alti costi marginali: si aiuta cioè a conservare l’inefficienza, anziché a superarla con politiche fiscali e creditizie incentivanti ristrutturazioni aziendali e
organizzazioni comuni di servizi, capaci appunto di abbattere fisiologicamente il costo
marginale.
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4. Mi sento di gettare meno croci addosso agli altri attori sociali: i lavoratori e i consumatori. Anch’essi, certo, dimostrano spesso nei fatti una scarsa cultura del mercato aperto. Le antiche radici stataliste, l’illusione che lo stato sociale possa essere un dispensatore illimitato di provvidenze e protezioni hanno inciso non poco sull’atteggiamento
anche di questi attori rispetto all’economia di mercato e al rapporto Stato-mercato.
Ricordo un’inchiesta promossa circa tre anni fa da Italia Lavoro sui LSU della
provincia di Napoli: la propensione ad accettare un lavoro vero in luogo del sussidio di
disoccupazione, era condizionato, per un ampio numero di intervistati, alla breve distanza da casa, all’ottenimento di un part-time e simili.
Ciò detto, se spostiamo lo sguardo più in alto, alla politica delle grandi organizzazioni sindacali, non possiamo non riconoscere che esse hanno compiuto un notevole
sforzo di accettazione di esigenze di competitività aziendale, in particolare per quanto
riguarda la c.d. flessibilità del lavoro. Uno sforzo tanto più notevole in quanto è rimasta
inadempiuta la promessa, e la prospettiva, di una seria politica di ammortizzatori sociali,
la cui carenza protratta sta trasformando la flessibilità in precarietà per un alto numero
di lavoratori.
Quanto ai consumatori, siamo ancora all’infanzia di una cultura della cittadinanza, e nell’infanzia si commettono molti errori. La ricerca di costante protezione è uno di
questi, e si è recentemente espresso, fra gli altri, nella richiesta di essere tenuti indenni
da rischi del mercato finanziario connessi a investimenti tipicamente ‘di rischio’, e di
alto rischio, anzi, in concreto, a fronte della abnormità manifesta - manifesta a chiunque
- di certi livelli di interesse. Detto questo, possiamo ignorare la clamorosa inefficienza
del sistema dei controlli a tutela del pubblico risparmio?
Possiamo ignorare la trave mentre rileviamo la pur robusta pagliuzza? Possiamo
ignorare che mentre il Congresso statunitense ha reagito con estrema prontezza e durezza allo scandalo Enron, con forti misure preventive di futuri abusi, il nostro Parlamento
non ha saputo sin qui sfornare, a due anni dai noti ripetuti scandali, altro che pannicelli
tiepidi, che più tiepidi non si può?
5. Come concludere? Che nessuno dei grandi attori dell’economia italiana possa essere
oggi il motore di quella rivoluzione liberale dell’economia che Visentini giustamente
invoca concludendo la sua relazione? Forse sì, se li consideriamo singolarmente, isolatamente. Forse no - e spero che non sia un wishful thinking - se prendiamo atto del pur
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recente manifestarsi di un comune denominatore di grave preoccupazione, e insieme di
un nuovo comune senso di responsabilità rispetto all’incombere del rischio di declino.
Le reciproche aperture di credito e dialogo fra sindacati e Confindustria, la sempre più
condivisa attenzione, da parte degli attori economici e sociali, per l’esigenza di urgente
e intensa promozione dell’innovazione, e quindi della competitività del sistema industriale, consentono una ragionata speranza in una nuova stagione di cooperazione dialettica mirata alla modernizzazione del sistema Italia. Le stesse polemiche - un tempo impensabili- che scuotono santi e santuari - un tempo intoccabili - del mondo bancario, sono un altro segno di risveglio in questa direzione.
Va, quindi, condivisa, in questa precisa direzione – e, ripeto, nel solco di una visione rinnovata, ma fedele alle radici ideali, di economia sociale di mercato l’esortazione del Presidente della Repubblica, energicamente condivisa dal presidente
della nostra Università, a ‘fare squadra’. Esortazione antica: come non rifarci
all’apologo di Menenio Agrippa e al suo richiamo all’esercizio responsabile,
nell’interesse della res publica, della funzione di ciascuna parte sociale? Ed esortazione
modernissima, se è vero, come anch’io credo, che solo uno sforzo congiunto, e coeso, e
‘senza sconti’ per nessuno, a cominciare da chi ha più potere, e quindi più responsabilità - possa raggiungere l’intensità necessaria per battere il rischio di declino: il rischio,
additato da Luigi Einaudi ai primi del Novecento, che l’Italia diventi una “colonia di
consumo” (Lezioni di politica sociale, 1916!)
Insomma, e concludo, occorre puntare su uno sforzo congiunto di tutti per aumentare la qualità liberale della nostra economia, nella salvaguardia dei postulati fondamentali della coesione sociale. Solo così riusciremo a buttare la troppa zavorra protezionistica che abbiamo a bordo. Questo sforzo causerà sconquassi, ribalterà troni, rimescolerà tante carte: ma, vivaddio, sarà il vento vitale - l’ultimo! - a cui spiegare le vele
oggi semi-ammainate della nostra economia, così da reggere ai sempre più alti marosi
della competizione mondiale.
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