Accusa e difesa dinanzi al principio di preclusione

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Università degli Studi Roma Tre
Facoltà di Giurisprudenza
Corso di Laurea Magistrale in Giurisprudenza
Tesi di Laurea
in
Diritto Processuale Penale
Accusa e difesa dinanzi al principio di
preclusione
Relatore:
Chiar.mo
Laureanda:
Prof. Luca Marafioti
Maria Ludovica Tartaglione
Anno Accademico 2013-2014
INDICE
pag.
Capitolo I
LA PRECLUSIONE PROCESSUALE
1. Nozione e ratio del principio di preclusione
4
2. La ragionevole durata del processo
15
3. Il termine ragionevole come espressione di un equo
processo alla luce dell’art. 6 Cedu
23
Capitolo II
I LIMITI ALL’INIZIATIVA DEL PUBBLICO MINISTERO
1. Gli effetti preclusivi dell’archiviazione sulla riapertura delle
indagini preliminari
34
2. Le ricadute dell’archiviazione sul trattamento processuale
dell’ex indagato
44
3. I poteri del pubblico ministero in seguito alla regressione
del processo
53
4. L’eventuale riflesso preclusivo del procedimento incidentale
sul procedimento principale
63
5. I limiti derivanti dal “ne bis in idem” in relazione alla
litispendenza e al giudicando cautelare
76
2
pag.
Capitolo III
LE PRECLUSIONI ALL’ATTIVITÀ DELLA DIFESA
1. Il riflesso preclusivo del procedimento principale su quello incidentale:
il principio di assorbimento nel riesame cautelare
proposto dall’imputato
87
2. L’impugnazione dell’imputato contumace successiva al
gravame proposto dal difensore: la sentenza Huzuneanu
98
3. L’effetto preclusivo del giudicato esecutivo ed i mutamenti
di giurisprudenza
4. Il “giudicato parziale” come ipotesi di preclusione processuale
Bibliografia
110
119
129
3
Capitolo I
La Preclusione Processuale
1.1 Nozione e ratio del principio di preclusione
L’introduzione del principio di preclusione nell’ordinamento italiano si deve a
Giuseppe Chiovenda1 il quale, con una prima definizione e una successiva
precisazione, elaborò il concetto di preclusione come fenomeno per cui, a seguito
del compimento di determinati atti, o della decorrenza di dati termini, è precluso
alla parte il diritto di compiere altri atti processuali, determinati o meno. La perdita,
l’estinzione, o la consumazione di una facoltà processuale2, aggiungeva il
Chiovenda, si determina in tre ipotesi.
1
CHIOVENDA, Principii di diritto processuale civile, Napoli, 1965, 858 ss. In proposito, v.
CARRATTA, Il fondamento del principio di preclusione nel processo civile, in Il principio di
preclusione nel processo penale, Torino, 2012, 9.
2
Sottolinea GRASSO, Interpretazione della preclusione e nuovo processo civile in primo grado, in
Riv. Dir. Proc., 1993, 639, che l’idea chiovendiana di preclusione è coerente con la nozione di
processo inteso come rapporto giuridico, nel quale si individuano diritti e facoltà e il concetto di
onere è relegato ad ipotesi marginali. Afferma, inoltre, l’Autore che “muovere per l’interpretazione
della preclusione dall’idea della facoltà non esercitata piuttosto che da quella dell’onere
inadempiuto non è indifferente. Se, infatti, come è nella tradizione dottrinale, a base della
preclusione si pone l’esistenza di una facultas agendi, sembra poi lecito ritenere che gli effetti
negativi del mancato esercizio di quella attività debbano di volta in volta formare oggetto di una
apposita previsione che fissi puntualmente la durata di quella facoltà. In mancanza di quella
previsione, la prescrizione circa il momento del compimento dell’atto avrà solo un valore
indicativo della mera opportunità, se non addirittura della convenienza per la parte, e non della
necessità, che l’atto sia compiuto in quel momento. Una tale visione condiziona poi
l’interpretazione dell’intero sistema per il privilegio che si finisce per conferire alla libertà di agire
nell’arco del processo”.
4
Anzitutto, la preclusione sorge qualora la parte non abbia rispettato le cadenze
previste dalla legge per l’esercizio di un diritto; ciò accade in presenza di termini
perentori o nel caso in cui vi sia una rigida predeterminazione normativa dell’ordine
con il quale le attività e le eccezioni delle parti debbano svolgersi. In secondo luogo,
l’istituto opera laddove il titolare di una facoltà abbia compiuto un’attività
incompatibile con l’esercizio della stessa. Infine, lo sbarramento si verifica quando
una facoltà processuale è stata già una volta validamente esercitata dalla parte3.
La preclusione è, dunque, un fatto processuale che determina l’impossibilità
per un soggetto di compiere un atto nell’ambito del procedimento, per l’assenza dei
necessari presupposti4.
Proprio con riferimento al concetto di preclusione, parte della dottrina5 ha, per
lungo tempo, sostenuto l’inesistenza o, meglio, l’inutilità di un significato giuridico
3
CHIOVENDA, Istituzioni di diritto processuale civile, I, Napoli, 1933, 478 ss.
V. CONTI, La preclusione nel processo penale, Milano, 2013, 60. “La preclusione indica
l’impossibilità di compiere un atto per l’assenza dei necessari presupposti. Così il concetto in
esame risulta idoneo a ricomprendere quegli atti che non possono concorrere a far parte della
sequenza procedimentale perché il titolare ha perduto il potere di compierli per estinzione,
consumazione ovvero pregresso svolgimento di un’attività incompatibile. Inoltre, la nozione appare
riferibile agli atti che non possono essere compiuti perché il relativo potere non è riconosciuto
dall’ordinamento per l’assenza dei presupposti necessari (es. regressione fuori dai casi di effettiva
necessità) o per l’esistenza di un ostacolo dovuto ad una pregressa vicenda endo-procedimentale
(es. limiti del potere di ammissione di prove ex officio a fronte dell’inerzia della parte) o
extraprocedimentale (es. limiti ai poteri di azione e di giudizio in presenza di altri procedimenti
conclusi in relazione al medesimo fatto). Ancora, nel concetto in esame rientrano le ipotesi
preclusive dovute all’intersecarsi del procedimento principale con uno o più procedimenti
incidentali. Anche in questo caso, si è di fronte all’impossibilità di procedere al compimento di
determinati atti (o alle valutazioni che ne costituiscono il presupposto) in ragione di pregresse
vicende svoltesi al di fuori del procedimento principale o incidentale ed idonee ad assorbire i
contenuti e le funzioni di peculiari snodi di questi ultimi”. V. anche GUARNIERI, Preclusione (dir.
proc. Pen.), in Noviss. Dig. It., 570 ss.
5
V., in particolare, ATTARDI, voce Preclusioni, in Enc. Dir., XXXIV, Milano, 1985, 909 ss., il
quale afferma che “non solo nell’ordinamento processuale, ma anche nel diritto materiale si
possono verificare, e non con minor frequenza, fenomeni sostanzialmente identici a quelli che la
dottrina, non solo tradizionale, riconduce all’istituto della preclusione”; Id., Per una critica del
concetto di preclusione, in Jus, 1959, 1 ss. Nella dottrina classica del processo penale osservava
FLORIAN, Diritto processuale penale, Torino, 1939, 151, che il concetto di preclusione appare forse
4
5
del principio stesso; altra parte, al contrario, ne ha affermato l’essenzialità al fine di
“assicurare precisione e rapidità di svolgimento degli atti giudiziari”6. Considerando
la “(sua) logica immanenza nel processo”7, l’istituto è un espediente che, attraverso
la fissazione di limiti all’esercizio di determinate facoltà, consente il
raggiungimento della certezza delle situazioni processuali8.
Notevole rilevanza viene attribuita all’istituto anche dalle Sezioni Unite della
Corte di cassazione le quali hanno definito la preclusione “coessenziale alla stessa
nozione di processo, non concepibile se non come una serie ordinata di atti
normativamente coordinati tra loro, ciascuno dei quali, all’interno dell’unitaria
fattispecie complessa a formazione progressiva, è condizionato da quelli che lo
hanno preceduto e condiziona, a sua volta, quelli successivi secondo precise
interrelazioni funzionali” 9.
non munito di valore autonomo, né rivestito di significato preciso; RICCIO, La Preclusione
processuale penale, Milano, 1951, 3.
6
Così CHIOVENDA, Cosa giudicata e preclusione, in Saggi di diritto processuale civile, Milano,
1993, 231 ss.
7
GRASSO, Interpretazione della preclusione e nuovo processo civile in primo grado, cit., 644.
8
Così CHIOVENDA, Cosa giudicata e preclusione, cit., 231. In proposito, v. ORLANDI, Principio di
preclusione e processo penale, in Proc. Pen. e giust., 2011, 2. L’Autore rileva che “sono
connaturati al procedere, inteso come sequenza regolata di atti preordinati a una decisione, il
rispetto dei termini, il divieto di reiterare le domande, il divieto di regressione, il divieto di bis in
idem. Un ordinamento processuale privo o anche solo carente di preclusioni sarebbe inadeguato a
rendere giustizia; sarebbe strumento nelle mani di malintenzionati, capaci di tergiversare e
allungare in definitivamente il tempo della decisione”.
9
Cass., Sez. Un., sent. 28 giugno 2005, Donati, in Dir. Pen. Proc., 2006, 719 ss. In questo senso v.
ANDRIOLI, voce Preclusione, in Noviss. Dig. It., XIII, Torino, 1966, 567, il quale afferma che la
preclusione “rappresenta l’ingrediente di cui non si può fare a meno per costruire la nozione di
processo, inteso come serie di atti delle parti e del giudice cronologicamente ordinati in vista del
provvedimento finale”. L’Autore vede nell’istituto il vero volto strutturale del procedimento e
definisce la preclusione “l’espressione formale del processo stesso”.
6
La preclusione, dunque, diviene strumento tecnico per un ordinato svolgimento
del giudizio, volto ad evitare la ridondanza ingiustificata degli atti del
procedimento10.
Inoltre, in assenza di strumenti preclusivi che regolino la libertà di iniziativa
delle parti si determina il rischio di una deviazione dalla linea che il processo deve
seguire per il raggiungimento rapido e pieno di una pronuncia conforme ai dettami
della giustizia punitiva11.
Nella accezione pubblicistica di dovere di collaborazione per la durata
ragionevole del processo12, la preclusione appare, così, strettamente collegata al
principio dell’autoresponsabilità13 delle parti intesa come il “naturale risvolto della
10
CONTI, Harmonized precedents: le Sezioni Unite tornano sul principio di preclusione, in Dir.
Pen. Proc., 2011, 697 ss. Si ha ridondanza ingiustificata degli atti ogniqualvolta la duplicazione di
una attività processuale non è necessaria ai fini della tutela di un diritto della parte.
11
In questo senso GUARNIERI, Preclusione (dir. proc. Pen.), cit., 570 ss. V. anche CALAMANDREI,
Osservazioni e proposte sul progetto di codice di procedura civile, I, Roma, 1938, 49, il quale
afferma che il modo più efficace per conseguire la celerità del processo “è certo quello di costruire
nel procedimento un compiuto sistema di preclusioni, che, a guisa di sbarramenti sempre più
rigorosi, chiudano l’adito allo stillicidio delle difese ritardate in malafede. Ma anche qui non
bisogna dimenticare che ogni legge processuale deve rappresentare il punto di equilibrio tra due
esigenze che in ogni campo dell’attività umana assai volte si trovano in conflitto: il presto e il
bene”. In proposito afferma TARUFFO, voce Preclusioni, in Enc. Dir., I, Milano, 1994, 795, che
“nessun processo avrebbe una struttura riconoscibile, né raggiungerebbe i requisiti minimi
dell’ordo iudicii, se fosse fondato sull’assoluta libertà delle parti di difendersi come e quando
vogliono”.
12
Prescritta dall’art. 111 Cost.
13
V. anche GRASSO, Interpretazione della preclusione e nuovo processo civile in primo grado, cit.,
641, per il quale la preclusione “si atteggia prima facie quale situazione del mancato tempestivo
svolgimento di una attività senza la quale la parte non può conseguire un certo risultato,e ciò si
esprime perspicuamente con l’idea di un onere inadempiuto”; TARUFFO, voce Preclusioni, cit., 795,
per il quale il ruolo della preclusione nel consentire un ordinato e spedito procedimento viene
svolto “sanzionando processualmente l’inottemperanza delle parti alle norme che regolano l’
ordine, il tempo e le modalità delle loro attività”; CARRATTA, Il fondamento del principio di
preclusione nel processo civile, cit., 19, per il quale “la consumazione del potere o della facoltà
riconosciuta alle parti, al quale corrisponde l’applicazione del principio di preclusione, favorisce, in
primo luogo, l’interesse delle parti ad ottenere in tempi ragionevoli la decisione della controversia;
ma al tempo stesso mira a sollecitare la collaborazione delle parti nel prevalente interesse generale
ad un tale obiettivo”.
7
libertà14”. E’ propria del processo improntato al principio dispositivo, infatti, la
regola per cui “la parte ha da sopportare le conseguenze di ciò che afferma o non
afferma; di ciò che nega o ammette, di ciò che prova o non prova; di ciò che dice o
tace; in breve, del suo contegno processuale”15.
Il principio di autoresponsabilità delle parti, dunque, comporta il sacrificio di
alcune esigenze imposte dalla ricerca della verità materiale16 e mette in luce quello
che viene considerato uno degli aspetti più problematici dell’istituto delle
preclusioni, ovvero la ravvisabilità in esso della “prevalenza dell’aspirazione alla
certezza sull’aspirazione alla giustizia”17. Non sempre, infatti, l’imposizione dei
limiti preclusivi alla attività delle parti ben si concilia con la ricerca della verità
storica.
La natura dialettica del procedimento penale si rinviene, così, nella
contrapposizione tra l’interesse all’accertamento del fatto, attraverso eccezioni e
deduzioni delle parti, e l’interesse alla rapidità, alla buona fede e all’economia
processuale che si risolve facendo valere la preclusione18.
A ben vedere, però, definire il rapporto tra celerità del processo ed esigenza
di giustizia come una “contrapposizione” tra interessi può apparire conclusione
impropria. Risulta evidente, infatti, come sia la certezza sia la celerità sono pur
14
Così IACOVIELLO, Procedimento penale principale e procedimenti incidentali. Dal principio di
minima interferenza al principio di preclusione, cit., 2215.
15
FURNO, Contributo alla teoria della prova legale, Padova, 1940, 64.
16
Così MESSINA, Contributo alla dottrina della confessione, Sassari, 1902, ora in Scritti giuridici,
III, Milano, 1948, 19 ss.
17
ANDRIOLI, voce Preclusione, cit., 567 ss.
18
In questo senso GUARNIERI, Preclusione (dir. proc. Pen.), cit., 570 ss. Aggiunge l’Autore “Il
fatto è che lo Stato ha bisogno di giustizia, ma è anche inderogabile necessità che il processo penale
si svolga il più rapidamente e il più ordinatamente possibile, onde l’adozione del principio
preclusivo”.
8
sempre determinate da esigenze di giustizia19. Basti considerare che anche tempi
processuali eccessivamente lunghi possono portare ad una “ingiustizia”: si veda, ad
esempio, il ritardo per la pronuncia di una sentenza di proscioglimento di un
imputato innocente, o il proscioglimento dovuto proprio a tale ritardo (amnistia,
prescrizione etc.). Persino la condanna dell’imputato colpevole può essere ingiusta
quando questa viene eseguita decorsi molti anni dalla commissione del reato: al
momento del passaggio in giudicato della sentenza, infatti, i parametri di
riferimento di cui all’art. 133 c.p., vista la mutata personalità del reo, potrebbero
giustificare una pena diversa rispetto a quella irrogata20.
In questa ottica, dunque, il principio di preclusione può essere considerato
una soluzione tecnico-processuale attraverso la quale realizzare la ragionevole
durata e il giusto processo21. Infatti, pur trovandosi in antinomia con il principio di
libertà di iniziativa delle parti22, l’istituto in commento rappresenta una forma di
garanzia per l’imputato, necessaria ai fini del giusto processo stesso.
A causa della mancanza di una esplicita e chiara previsione normativa23
l’istituto ha rappresentato un’arma insidiosa nelle mani di una giurisprudenza
“creatrice”24 e non più interprete del diritto, giustificando, tra l’altro, le opinioni di
19
Come previsto ex art. 111 Cost e art. 6 Cedu.
In questo senso LOZZI, voce Preclusioni II, in Enc. Giur. Treccani, vol. XXVI.
21
Come suggerito da IACOVIELLO, Le preclusioni processuali, in Il principio di preclusione nel
processo penale, Torino, 2012, 7.
22
Coma rileva BIAVATI, Iniziative delle parti e processo a preclusioni, in Rivista trimestrale di
diritto e procedura civile, 1996, 483, il principio di preclusione è uno strumento che indebolisce e
svuota il potenziale difensivo delle parti.
23
In proposito, ANDRIOLI, voce Preclusione, cit., 568, afferma che “la nozione di preclusione,
come accade di ogni procedimento intellettuale utilizzato per conferire ordine ai dati positivi e
comporre questi ultimi in sistema, ha formato oggetto di critiche e di ulteriori applicazioni”.
24
Sull’argomento RAMPIONI, “In nome della legge” (ovvero considerazioni a proposito di
interpretazione creativa), in Cass. Pen., 2004, 310 ss.
20
9
chi esclude o ridimensiona fortemente l’impatto della preclusione come principio
generale dell’ordinamento25.
L’uso distorto del principio di preclusione come strumento di manipolazione
di poteri e facoltà26, seppur ai fini di una battaglia alla dilatazione dei tempi
processuali, è stato avvertito anche dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione. Al
riguardo, nella sentenza Donati27, è stato precisato che in assenza di esplicite
statuizioni legislative, la ricostruzione del sistema procedurale effettuata dal
legislatore o dall’interprete deve, necessariamente, attenersi all’art. 12 delle
disposizioni sulla legge in generale28 e che, in nessun caso, può essere affidato
valore precettivo al principio di preclusione a scapito delle garanzie previste
dall’art. 111 Cost. Da questa esigenza deriva, in capo al giudice, un dovere di
bilanciamento degli interessi in gioco: il diritto di difesa e il diritto al
contraddittorio. Diritti, questi ultimi, che non possono in alcun caso essere
sacrificati in nome dell’economia processuale o della ragionevole durata del
procedimento29. Nessun processo, neanche il più rapido potrà essere qualificato
come “giusto” quando la celerità sia frutto del sacrificio di altri valori costituzionali.
Altre recenti pronunce di legittimità, discostandosi dal vincolo prescritto
nella citata sentenza Donati ed erodendo, così, il dato normativo dell’art. 12 delle
25
Come MARZADURi, Opinioni a confronto, in Criminalia, 2008, 249.
V. CONTI, La preclusione nel processo penale, cit., 49, la quale definisce il fenomeno preclusivo
alla stregua di “un cavallo di Troia” nel quale si celano insidiose aggressioni alla legalità del
sistema.
27
Cass., Sez. Un., sent. 28 giugno 2005, Donati, in Dir. Pen. Proc., cit., 719 ss.
28
L’art 12 disp. gen. prevede che nell'applicare la legge non si possa ad essa attribuire altro senso
che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla
intenzione del legislatore. Se una controversia non può essere decisa con una precisa disposizione,
si ha riguardo alle disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe; se il caso rimane
ancora dubbio, si decide secondo i princìpi generali dell'ordinamento giuridico dello Stato.
29
Così SILVESTRI, Le preclusioni nel processo penale, in Arch. Pen., 2011, 547.
26
10
preleggi, hanno operato, invece, nel senso dell’interpretazione “creatrice” di diritto.
Tra le sentenze, accomunate dall’attribuzione ai principi di efficienza e celerità di
un posto privilegiato e sovraordinato rispetto alla tutela delle garanzie delle parti,
paradigmatica è la pronuncia Huzuneanu30.
In tale ultima sentenza è stata dichiarata l’incompatibilità tra “l’esigenza di
assegnare una ragionevole durata al processo, imposta dall’art 111 Cost. e dallo
stesso art. 6 Cedu, e la configurabilità di una duplicazione di impugnazioni,
promananti le une dal difensore, le altre dall’imputato”31. La forzatura interpretativa
ha decisamente sovvertito la scala dei valori tracciata dalla Costituzione, la quale, in
primo luogo, tutela il diritto di difesa. Inoltre, la pronuncia in esame ha contribuito
alla creazione di un effetto-paradosso della ragionevole durata relativo alla
conversione del principio contenuto nell’art 111, comma 2, Cost. “da garanzia
dell’individuo a killer delle garanzie”32.
La trattazione dell’istituto della preclusione come proficuo strumento di
interpretazione logica e sistematica della normativa processuale, deve, dunque,
essere bilanciata con una contestuale valutazione dei rischi che possono derivare
dall’uso di una tecnica ermeneutica senza regole.
Volendo ora passare a un tentativo di classificazione delle varie
manifestazioni processuali della preclusione, un primo criterio può essere quello che
30
Cass., Sez. Un., sent. 31 gennaio 2008, Huzuneanu, in Mass. Uff., n. 238472.
Cass., Sez. Un., 31 gennaio 2008, Huzuneanu, in Cass. pen., 2008, 2358, con nota di DE AMICIS,
Osservazioni in margine ad una recente pronuncia delle Sezioni Unite in tema di rapporti tra
unicità del diritto di impugnazione e restituzione nel termine per impugnare una sentenza
contumaciale di condanna, in Cass.pen., 2008, 2358. Come prevedibile la Corte costituzionale ha
censurato l’interpretazione avallata in sede di legittimità, dichiarando illegittimo l’art. 175, comma
2, c.p.p.
32
RICCI, Noo! (La tristissima sorte della ragionevole durata del processo nella giurisprudenza
della Cassazione: da garanzia in cerca di attuazione a killer delle garanzie), in Riv. Dir. Proc.,
2010, 4, 975.
31
11
distingue le preclusioni interne da quelle esterne. Con la prima accezione si
evidenzia il fenomeno che deriva da comportamenti delle parti o da eventi sorti
all’interno del procedimento penale, con la seconda quello derivante dal rapporto tra
procedimenti penali diversi ed indipendenti33.
Ora, mentre la preclusione interna risulta un istituto “coessenziale alla
nozione stessa di procedimento”34 inteso come insieme normativamente ordinato di
attività processuali, finalizzato alla sollecita conclusione del processo e ad evitare
una ripetizione ingiustificata di atti, la preclusione esterna agisce direttamente
sull’attività di ius dicere impedendo al giudice di pronunciarsi su una questione già
decisa da un altro organo. Il giudicato si configura, così, come “somma
preclusione”35.
In relazione alla causa, invece, la preclusione può essere distinta in
temporale, ordinatoria, logica e consuntiva36.
La prima categoria richiamata fa riferimento a tutte le ipotesi nelle quali la
preclusione sorge a seguito del mancato esercizio di una facoltà prevista entro il
termine stabilito dalla legge. In questo caso la ratio è quella di evitare che le facoltà
33
V. IACOVIELLO, Procedimento penale principale e procedimenti incidentali. Dal principio di
minima interferenza al principio di preclusione, in Cass. Pen., 2008, 2201.
34
ABRUSCI, Decisioni extrapenali e preclusioni nel processo penale, in Il principio di preclusione
nel processo penale, Torino, 2012, 105.
35
CHIOVENDA, Principii di diritto processuale civile, cit., 859 ss, nel senso che “nel corso del
processo la preclusione ha per fine di rendere possibile l’ordinato svolgimento del processo, mentre
a processo ultimato la preclusione ha la funzione di garantire la intangibilità del risultato del
processo”. Il giudicato, tuttavia, si differenzia dalla preclusione poiché solo il giudicato avrebbe
degli effetti che “eccedono i confini del processo, in quanto spinge i suoi effetti indefinitamente nel
futuro”. Ancora, si è differenziata la preclusione dal giudicato sostenendone la operatività nel
processo attraverso il soddisfare l’esigenza di un iter processuale celere ed ordinato mentre il
giudicato incide sul rapporto sostanziale e “opera al di fuori del processo, dopo la consunzione
dell’azione” (RICCIO, La preclusione processuale penale, Milano, 1951). Il giudicato è anche unico
caso di preclusione assoluta, nel senso di poter determinare una situazione definitiva valevole per
tutte le fasi del processo, a differenza delle preclusioni relative che si riferiscono solo a una fase
processuale. Così MASSARI, Il processo penale, Napoli, 1934, 451 ss.
36
RICCIO, La preclusione processuale penale, Milano, 1951, 111 ss.
12
processuali esercitabili dalle parti rimangano indefinitivamente sospese o
irrazionalmente inoperose.
La seconda sottospecie di preclusione nasce dall’irregolare esercizio di una
facoltà processuale. Essa è strettamente connessa al principio di autoresponsabilità
delle parti.
Le preclusioni logiche, invece, derivano dall’impossibilità di conciliare una
attività o facoltà della parte con altre già esercitate. In tal caso, la finalità
dell’istituto è quella di rispettare il principio di non contraddizione.
Infine, nell’ultima classe delle preclusioni rientrano i casi in cui, per il
raggiungimento dello scopo processuale, è già stata esercitata una facoltà. Si parla,
dunque, di consumazione dell’interesse per cui vale il principio del ne bis in idem.
Nonostante le diverse categorie, parte della dottrina37 ha riconosciuto il
valore del principio di preclusione solo in quest’ultimo senso38. Limitare l’ambito di
applicazione della preclusione risulta, infatti, necessario per dare alla stessa una
propria specificità al fine di evitare che venga confusa con altri istituti come, ad
esempio, quello della decadenza39.
37
IACOVIELLO, Procedimento penale principale e procedimenti incidentali. Dal principio di
minima interferenza al principio di preclusione, cit., 2202. Di differente opinione SILVESTRI, Le
preclusioni nel processo penale, in Arch. Pen., 2011, 547 ss.
38
L’unica distinzione accettata è quella tra preclusione assoluta e preclusione condizionata.
Esempio di questa ultima è l’impedimento alla riapertura delle indagini preliminari
successivamente al decreto di archiviazione. La condizione, in questo caso, è il provvedimento
previsto dall’art. 414 c.p.p.
39
Circa la differenza tra preclusione e decadenza v., tra gli altri, CONTI, La preclusione nel
processo penale, cit., 62. L’Autrice afferma che “La decadenza indica la perdita del potere di
compiere un atto in ragione dell’avvenuto decorso del termine perentorio previsto per l’esercizio di
tale facoltà. Chi decade è il titolare del potere di compiere l’atto. Per contro, la preclusione
rappresenta la conseguenza, l’effetto dell’avvenuta decadenza. A causa della perdita del potere di
compiere l’atto -dovuta allo scadere del termine perentorio- l’esercizio della facoltà risulta
precluso. Evidente la diversità degli angoli di osservazione: la preclusione si riferisce non alla
situazione soggettiva del titolare della facoltà, bensì all’impossibilità di esercitarla conseguente alla
decadenza. La causa è riferita alla situazione soggettiva, l’effetto allo sbarramento oggettivo al
13
Considerare il concetto di preclusione al di fuori dei rapporti con la
consumazione del potere40 ha destato preoccupazione anche nei confronti dei
giudici di legittimità41. Infatti, attribuire all’istituto il rango di principio generale,
inteso come “presidio apprestato dall’ordinamento per assicurare la funzionalità del
processo” non appare legittimato dall’art. 12 delle preleggi. In questa ottica, il
rischio torna ad essere quello della manipolazione a scapito delle garanzie
individuali42 . “Al più -dunque- si potrà riconoscere che il principio di preclusione,
nella misura in cui mira a comprimere i tempi del processo, può essere in linea con
il principio di ragionevole durata43, una volta verificata la compatibilità della
preclusione con i contenuti del giusto processo”44.
In conclusione, seppur accompagnato da accezioni di valore semantico non
omogenee e prive di una medesima base logica, è lecito considerare il principio di
preclusione come un fenomeno tipico dell’iter procedimentale, espressione del
conflitto tra accertamento della verità storica ed economia processuale. Tale istituto,
attraverso la perdita o la consumazione delle facoltà processuali delle parti, assicura
precisione, rapidità e certezza al procedimento coerentemente con le esigenze di
efficienza e tutela dei diritti dell’ordinamento.
compimento dell’atto. (…) Occorre ancora precisare che la preclusione non deriva esclusivamente
dall’avvenuta decadenza. Pertanto, la decadenza non rappresenta che una delle molteplici cause
idonee a determinare una preclusione”.
40
Come in Cass., Sez. Un., sent. 28 giugno 2005, Donati, in Dir. Pen. Proc., cit., 719 ss.
41
MARZADURi, Opinioni a confronto, cit., 247.
42
V. Cass., Sez. Un., sent. 31 marzo 2004, Donelli, in Cass. Pen., 2004, 2746; Id., sent. 20
dicembre 2007, Battistella, in Cass. Pen., 2008, 2310; Id., sent. 31 gennaio 2008, Huzuneanu, in
Cass. Pen., 2008, cit.; Id., sent. 16 dicembre 2010, Testini, in Guida dir., 2011, 3, 33. E analisi di
SILVESTRI, Le preclusioni nel processo penale, cit., 558.
43
E non ricondotto ad esso, come invece IACOVIELLO, Procedimento penale principale e
procedimenti incidentali. Dal principio di minima interferenza al principio di preclusione, cit.,
2203.
44
MARZADURI, Opinioni a confronto, cit., 252.
14
1.2 La Ragionevole durata del processo
La clausola finale del secondo comma dell’art. 111 della Costituzione,
introdotta dalla legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 245, riferendosi ad ogni
tipo di processo, dispone che “la legge ne assicura la ragionevole durata”46. Tale
enunciato rappresenta una novità nella Carta del 1948 e conferisce rilevanza
costituzionale all’annosa problematica della lentezza della giustizia.
Prima dell’espressa previsione ex art. 111 Cost., infatti, la questione dei
tempi processuali non trovava esplicita trattazione nella Carta costituzionale e ciò
risultava in evidente disarmonia con la legge fondamentale di altri Paesi europei ed
extraeuropei47 e con le disposizioni della Convenzione europea dei diritti
Legge costituzionale n. 2 del 23 novembre 1999, “Inserimento dei principi del giusto processo
nell’articolo 111 della Costituzione”, in Giuri del 23 dicembre 1999, n. 300. Sulla riforma dell’art.
111 Cost., tra gli altri, BONFIETTI, CALVI, RUSSO, SENESE, Inserimento dei principi del giusto
processo nell’art. 111 della Costituzione, in Questione Giustizia, 2000, 68 ss.; BUONOMO, L’equo
processo tra modifica costituzionale e giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, in
Documenti Giustizia, 2000, 161. La legge, integrativa dell'originaria formulazione dell'art. 111
Cost., è stata definita la più importante legge processuale costituzionale di questi ultimi anni. V.
ZANON, Relazione sulle leggi processuali, in AA.VV., Esperienze e prospettiva della giustizia
italiana, Atti del Convegno di Roma 14-16 novembre 2002. La rilevanza dell'intervento è
comprovata dalle numerose “novelle” volte ad armonizzare la legislazione ordinaria con i principi
enunciati nel nuovo art. 111 Cost. Dalla l. n. 35 del 2000 recante “Disposizioni urgenti per
l'attuazione dell'art. 2 della legge costituzionale di riforma dell'art. 111 Costituzione” per
l'applicazione dei principi del giusto processo ai procedimenti penali in corso, alla l. n. 397 del
2000 recante “Disposizioni in materia di indagini difensive” con la quale si è dato attuazione al
principio costituzionale della parità tra le parti. Di poco successiva è la l. n. 63 del 2001, in materia
di formazione e valutazione della prova, considerata la principale normativa di attuazione del
giusto processo. Meritano, infine, di essere menzionate la l. n. 134 del 2001 sul gratuito patrocinio,
e la l. n. 60 del 2001 in materia di difesa d'ufficio.
46
Il tema dell’eccessiva durata dei processi era ben noto già nel diritto romano. Infatti, nel quadro
generale della distinzione classica fra legitima iudicia che ‘‘... legitimo iure consistunt...’’ e iudicia
che ‘‘...imperio continentur...’’, si era imposto ai primi, con la lex Iulia, a pena di estinzione, un
termine di durata massima pari ad un anno e sei mesi, in Gai IV, §§ 103-104, in COGLIOLO (a cura
di), Manuale delle fonti del diritto romano, 2ª ed., Torino, 1911, 354 ss.
47
V., ad esempio, il comma 2 dell’art. 24 Cost. spagnola del 1978: “tutti hanno diritto ad un
processo senza dilazioni indebite”; il VI emendamento della Costituzione federale degli USA del
1787: «almeno nel processo penale il cittadino (the accused) deve avere il diritto di essere
giudicato sollecitamente (right to a speedy trial)”.
45
15
dell’uomo48. Nel nuovo contesto trova giustificazione il principio di preclusione
all’interno dell’ordinamento.
In tema di durata processuale49, prima della novella del 1999, la
giurisprudenza faceva riferimento al “bene costituzionale dell’efficienza del
procedimento, qual è enucleabile dai principi costituzionali che regolano l’esercizio
della funzione giurisdizionale”50. L’efficienza, dunque, fungeva da parametro
nell’ottica del giudizio di legittimità delle norme che consentivano una
irragionevole dilatazione dei tempi processuali51.
In dottrina52 e, più recentemente, nella giurisprudenza della Corte
Costituzionale53, si è addirittura sostenuto, seppur in modo del tutto incidentale, che
il diritto garantito dall’art. 24 Cost. implica una ragionevole durata del processo. La
Art. 6, comma 1 Cedu che dichiara: “Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata
equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e
imparziale, costituito per legge, il quale sia chiamato a pronunciarsi sulle controversie sui suoi
diritti e doveri di carattere civile o sulla fondatezza di ogni accusa penale formulata nei suoi
confronti. La sentenza deve essere resa pubblicamente, ma l’accesso alla sala d’udienza può essere
vietato alla stampa e al pubblico durante tutto o parte del processo nell’interesse della morale,
dell’ordine pubblico o della sicurezza nazionale in una società democratica, quando lo esigono gli
interessi dei minori o la protezione della vita privata delle parti in causa, o, nella misura giudicata
strettamente necessaria dal tribunale, quando in circostanze speciali la pubblicità possa portare
pregiudizio agli interessi della giustizia.
49
Affermava in proposito GAITO, in Accusa e difesa di fronte ai nuovi istituti: problemi di strategia
processuale, in AA. VV. I giudizi semplificati, Padova, 1989, 10, che, se si voleva rispettare la
ratio della presunzione di non colpevolezza sancita dall’art. 27 comma 2 Cost., “il processo deve
essere meno possibile lesivo per chi lo subisce”, per cui “l’eccessiva lunghezza dello stesso
potrebbe concretare una prassi elusiva del precetto costituzionale”. E ancora la funzione di emenda
della pena, richiamata dal comma 3 dell’art. 27 Cost., potrebbe risultare svuotata se applicata
all’esito di un processo durato troppo a lungo. V. MARZADURI, Commento art. 1 L. Cost.
23.11.1999 n. 2 («Giusto processo»), in Legisl. pen., 2000, 771.
50
Corte Cost., sent. 22 ottobre 1996, n.353, in Cass. Pen., 1997, 647.
51
Sul tema del rapporto tra la preclusione e l’efficienza processuale v. MARAFIOTI, Preclusione: un
principio “senza qualità”?, in Il principio di preclusione nel processo penale, Torino, 2012, 180,
“Come noto, la nozione di efficienza evoca criteri di matrice economica che richiamano il rapporto
tra mezzi e scopi. Senonché, l’esercizio dei diritti delle parti, misurato con il metro delle
valutazioni economiche, rischia di subire restrizioni non consentite”.
52
V. MARAFIOTI, La separazione dei giudizi penali, Milano, 1990, 61 ss.
53
Corte Cost., sent. 22 ottobre 1999, n. 388, in Foro it., 2000, I, 1071.
48
16
celebrazione di un giudizio entro termini ragionevoli può integrare, così, una delle
estrinsecazioni del diritto di difesa54.
Il tema di un procedimento che abbia una durata ragionevole non può essere
considerato a sé. L’argomento è sistematicamente connesso alla contemporanea
realizzazione delle altre esigenze individuate dall’articolo 111 Cost. e che
caratterizzano il “giusto processo”.
Il nuovo dettato costituzionale coordina le garanzie individuali con le ragioni
di efficienza processuale, senza pregiudicare le altre tutele predisposte dalla Carta a
favore dell’imputato. In tal modo la novella risponde alla domanda di giustizia,
intesa come realizzazione di un esercizio corretto della giurisdizione55.
In relazione alla natura del principio della ragionevole durata del processo, la
dottrina si divide. Da una parte, infatti, vi è chi56, forte anche degli orientamenti
interpretativi maturati intorno alle norme di fonte internazionale, vede nel principio
richiamato un diritto fondamentale dell’imputato. L’oggettiva disuguaglianza delle
parti, tipica del processo penale, giustifica il riconoscimento, in capo all’imputato,
di una maggiore protezione nei confronti di inerzie e ritardi imputabili al pubblico
ministero.
54
PINELLI, La durata ragionevole del processo fra Costituzione e Convenzione europea dei diritti
dell'uomo, in Giur. Cost., 1999, 132 ss., sottolinea l'ambiguità dell'accostamento tra l'art. 24 Cost. e
il principio di ragionevole durata del processo. In ogni caso l’art. 111 e l’art. 24 Cost., nelle parti
che qui interessano, hanno due oggetti diversi: l’art. 24 attribuisce al singolo il diritto soggettivo a
che il suo processo abbia una ragionevole durata, così che il suo diritto di azione sia reso effettivo;
l’art. 111, invece, si rivolge al legislatore, al quale viene imposto il precetto di assicurare la
ragionevole durata della generalità dei processi.
55
Così SIRACUSANO, La durata ragionevole del processo quale metodo della giurisdizione, in Dir.
Pen. e proc., 2003, 6, 757 ss. CHIAVARIO, Il «dopo-riforma» del processo penale italiano nel
tempo delle riforme in Europa, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1991, 788.
56
AMODIO, Ragionevole durata del processo, abuse of process e nuove esigenze di tutela
dell’imputato, in Dir. Pen. Proc., 2003, 797. ODDI, La Corte di Cassazione e l’utilizzo spinto, in
chiave ermeneutica, del principio costituzionale della «ragionevole durata» del processo (ovvero:
di due casi emblematici di «eccesso» di… interpretazione costituzionalmente conforme), in
Costituzionalismo.it, 3, 2010.
17
L’interpretazione garantista della ragionevole durata, inoltre, sarebbe
coerente con il terzo comma dell’art. 111 Cost. che riconosce all’imputato il diritto
di disporre “del tempo e delle altre condizioni necessarie per preparare la sua
difesa”. E’ dunque la difesa, nella gerarchia dei valori, a poter influire sui tempi
processuali, dilatandoli se indispensabile57.
Anche la Corte Costituzionale58, nell’affermare che l’amministrazione della
giustizia deve avvenire in tempi ragionevoli, ha più volte sostenuto, in ogni caso,
che l’esigenza di tempi brevi non può giustificare lesioni al diritto di difesa né alla
garanzia del contraddittorio59. I giudici della Corte hanno dichiarato la prevalenza
del diritto di difesa su qualsivoglia pretesa di economia processuale affermando,
inoltre, che “una diversa soluzione introdurrebbe una contraddizione logica e
giuridica all’interno dello stesso articolo 111 Cost., che da una parte imporrebbe
una piena tutela del principio del contraddittorio e dall’altra autorizzerebbe tutte le
deroghe ritenute utili allo scopo di abbreviare i procedimenti”60. Un processo non
57
Anche lo stampo della carta fondamentale suggerisce una interpretazione soggettiva del principio
della ragionevole durata del processo. Tutte le norme concernenti il processo penale, infatti, sono
concepite a tutela della persona chiamata a rispondere di un reato (libertà personale, presunzione di
non colpevolezza, diritto di difesa, giudice naturale), e non si vede perché solo la previsione di
tempi ragionevoli per il processo dovrebbe essere considerata espressione di una esigenza sociale.
58
Corte cost., ord. 19 dicembre 1991, n. 480, in Cass. pen., 1992, 1971, relativamente allo sciopero
degli avvocati e alla possibile nomina di un difensore d'ufficio, si è affermato che occorre
individuare un criterio selettivo idoneo a contemperare gli interessi in gioco. Dal testo della
motivazione si evince, infatti, che il processo penale, non può subire una stasi ingiustificata a causa
dell'astensione del legale di fiducia, ma al contempo la celebrazione del dibattimento senza quel
difensore danneggerebbe l'imputato, il quale risente il pregiudizio di un'assistenza tecnica
insufficiente.
59
Corte Cost., sent. 3 febbraio 1994, n.16, in Giur. Cost., 1994, 126, ha affermato, ad esempio, che
benché l'udienza preliminare si caratterizzi per la sua “essenziale scheletricità”, ove le indagini
suppletive del pubblico ministero sopravvengano in tempi tali da non consentire un'adeguata difesa,
spetti al giudice regolare le modalità di svolgimento dell'udienza, anche attraverso differimenti
congrui che consentano alla difesa di attrezzarsi adeguatamente. Occorre, in sostanza, che
l'esigenza di celerità non prevalga sulle cadenze dell'attività difensiva ma che si contemperi con la
garanzia effettiva del contraddittorio.
60
Così Corte Cost., sent. 30 novembre 2009, n. 317.
18
giusto, perché carente sotto il profilo delle garanzie, non è conforme al modello
costituzionale, quale che sia la sua durata.
Nell’ottica soggettiva, il principio della ragionevole durata si atteggia a
criterio informatore di un modello processuale in cui le garanzie difensive devono
aver già trovato effettiva tutela. Appare, così, corretto ritenere che il canone
costituzionalizzato nell’articolo 111 Cost. rappresenta un “meta principio, un
criterio regolatore dei principi che incide, in quanto tale, sulle modalità di esercizio
dei diritti”61.
Intendere, al contrario, la celerità processuale come principio a carattere
immediatamente precettivo62, di pari valore rispetto alle altre garanzie processuali,
cela inevitabilmente risvolti pericolosi63. Il rischio che si corre è quello di una
deriva antigarantista che manipola il buon andamento e la celerità del procedimento,
a scapito delle altre garanzie del giusto processo64. Conseguentemente, perché un
61
ORLANDI, Principio di preclusione e processo penale, cit., 5, 4 ss.
IACOVIELLO, Procedimento penale principale e procedimenti incidentali. Dal principio di
minima interferenza al principio di preclusione, in Cass. Pen., 2008, 2201.
63
FERRUA, Il “giusto processo”, Bologna, 2007, 61 ss.: «Funzione cognitiva del processo,
imparzialità del giudice, diritto di difesa, sono primari valori di giustizia. La ragionevole durata
svolge un ruolo sussidiario, come condizione di efficienza, qualità avverbiale di una giustizia che
può essere più o meno tempestiva. Il termine “sussidiario” non va inteso in senso riduttivo, designa
semplicemente un ordine logico, una cadenza nella definizione dei valori. Il concetto di
ragionevole durata implica già la scelta di un modello processuale, caratterizzato da certe garanzie
(come il contraddittorio davanti a un giudice imparziale, il diritto all’impugnazione nei limiti
previsti dall’art. 111, 7° comma, Cost. e dall’art. 14, 5° comma, del Patto internazionale sui diritti
civili e politici, ecc.); e può quindi essere definito solo a partire da quel modello che va
prioritariamente individuato. Sarebbe assurdo tentare di definire prima una nozione di ragionevole
durata, a cui poi adattare le garanzie del “giusto” processo. Anteposta al contesto delle garanzie,
l’idea di ragionevole durata risulta assolutamente vuota, capace di sospingere, nella sua arbitrarietà,
verso esiti di giustizia sommaria». Così anche MARAFIOTI, Scelte difensive dell’indagato e
alternative al silenzio, Torino, 2000, 93.
64
Corte Cost., sent. 30 novembre 2009, n. 317. L’eventualità di un bilanciamento tra diritto di
difesa e celerità processuale deve quindi essere esclusa giacché i due principi richiamati non
possono essere comparati. Non si tratta, infatti, di un vero bilanciamento, ma di un “sacrificio puro
e semplice” sia del diritto al contraddittorio sancito dall’art. 111 Cost., sia del diritto di difesa
stesso. La ragionevole durata deve essere intesa, perciò, come un obiettivo da perseguire entro i
rigidi confini delimitati dalle altre garanzie previste dalla Costituzione. V. DEL COCO, Incidente
62
19
istituto possa ritenersi in contrasto con il precetto della ragionevole durata, non
basta che esso sia suscettibile di comportare un allungamento dei tempi processuali,
bensì è necessario che lo stesso non arrechi alcun contributo alla difesa
dell’imputato65.
Altra parte della dottrina66 è, invece, orientata all’interpretazione della
ragionevole
durata
come
canone
oggettivo
di
esercizio
della
funzione
giurisdizionale. L’articolo 111 Cost., a ben vedere, è posto nella Costituzione nella
parte relativa alle norme sulla giurisdizione (Parte II, Titolo IV, Sezione II) e non in
quella dedicata ai “diritti e doveri dei cittadini” (Parte I, Titolo I). La scelta della
collocazione della norma suggerisce una lettura oggettiva dei principi relativi al
giusto processo, tra cui quello della ragionevole durata che non va inteso, quindi,
unicamente in chiave garantista. Un processo per essere giusto deve raggiungere
risultati credibili, e la credibilità appare saldata alla tempestività della risposta
giurisdizionale67.
cautelare e procedimento principale, in Il principio di preclusione nel processo penale, Torino,
2012, 45.
65
Così Corte cost., sent. n. 148, 2005, che -nel dichiarare l’infondatezza di una questione di
costituzionalità dell’art. 97, comma 4, c.p.p., sollevata in riferimento agli artt. 3 e 111, comma 2,
Cost.- argomenta: “La norma impugnata ha lo scopo [...] di assicurare all’imputato una difesa
dotata di certi standard qualitativi, ritenuti evidentemente idonei dal legislatore a garantire
l’effettività del diritto di difesa”. “Il ritardo nella definizione del processo che può, in ipotesi,
derivare dal meccanismo di sostituzione del difensore previsto dalla norma stessa risulta, dunque,
tutt’altro che ingiustificato, proprio in quanto tale meccanismo è posto a presidio di un diritto
costituzionalmente garantito; il che basta ad escludere la lesione del principio di ragionevole durata
del processo”. “A tale principio, infatti, possono arrecare un vulnus solamente norme procedurali
che comportino una dilatazione dei tempi del processo non sorretta da alcuna logica esigenza, non
essendo in altro modo definibile la durata ragionevole del processo se non in funzione della
ragionevolezza degli adempimenti che ne scandiscono il corso e ne determinano i tempi”.
66
Così SIRACUSANO, La durata ragionevole del processo quale metodo della giurisdizione, in Dir.
Pen. e proc., cit., 757 ss.
67
Su questa linea interpretativa si è attestata anche una giurisprudenza della Corte europea che ha
sottolineato la necessità che la giustizia venisse amministrata “senza ritardi tali da comprometterne
l'efficacia e la credibilità”, Corte eur. dir. umani, 24 ottobre 1989, H. c. Francia, in Riv. int. dir.
uomo, 1990, 85.
20
Sia secondo l’interpretazione soggettiva che per quella oggettiva, in ogni
caso, il fine del principio della ragionevole durata è rappresentato dalla certezza
delle situazioni giuridiche. La pendenza del processo crea incertezza del diritto, e
l’incertezza non solo è un costo sociale, ma è anche già di per sé una pena per
l’imputato. La celerità mira, dunque, a tutelare il soggetto dalla protrazione della
sofferenza per un tempo irragionevole e dal rischio di reiterazione di processi per il
medesimo fatto68.
Ai fini di una maggiore precisione sarebbe necessaria una definizione chiara
del concetto di “ragionevolezza”. Questa, però, non si rinviene né all’interno della
Costituzione, né tanto meno nell’ambito delle pronunce giurisprudenziali. Il canone,
dunque, può essere inteso come espressione di una esigenza di efficienza69.
In altri termini, la durata necessaria per assicurare il perseguimento dei valori
essenziali del processo è per definizione ragionevole.
I tempi sono irragionevoli, invece, nella misura in cui vengono garantite alle
parti facoltà ridondanti e inutili rispetto a un processo efficiente e giusto. In questo
senso, dunque, ogni attività che eccede la struttura essenziale del processo delineata
Considerando che il ritmo del tempo ragionevole è “un ritmo sociale, prima ancora che
cronologico”. Così IACOVIELLO, Procedimento penale principale e procedimenti incidentali. Dal
principio di minima interferenza al principio di preclusione, cit., 2203. Ciò spiega perché la
revisione a favore del condannato non contrasta con il principio ex art. 111 Cost., laddove
contrasterebbe con esso la revisione contra reum. Quest’ultima non è prevista dal nostro
ordinamento processuale, se non potenzialmente nell’ipotesi aggiunta dalla sentenza n. 113 del
2011 della Corte Costituzionale (sentenza in cui la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale
dell’art. 630 c.p.p., nella parte in cui non prevede un diverso caso di revisione della sentenza o del
decreto penale di condanna al fine di conseguire la riapertura del processo, quando ciò sia
necessario, ai sensi dell’art. 46, par. I, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e
delle libertà fondamentali, per conformarsi ad una sentenza definitiva della Corte europea dei diritti
dell’uomo).
69
IACOVIELLO, Procedimento penale principale e procedimenti incidentali. Dal principio di
minima interferenza al principio di preclusione, cit., 2203.
68
21
dalla Costituzione risulta inefficiente ogni qual volta non sia giustificata da esigenze
di giustizia e tutela dei diritti al contraddittorio e di difesa.
22
1.3 Il termine ragionevole come espressione di un equo processo alla luce
dell’art. 6 Cedu
Ancora prima della espressa previsione costituzionale70, il principio della
durata
ragionevole
del
processo
ha
trovato
autorevole
riconoscimento
nell’ordinamento italiano con la ratifica71 della Convenzione europea dei diritti
dell’uomo72. Questa, infatti, al primo comma dell’articolo 6 prevede che “ogni
persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed
entro un termine ragionevole” 73.
Tale ultima disposizione determina un diritto soggettivo individuale e
personalmente azionabile dai soggetti interessati dinanzi alla Corte europea di
Strasburgo74.
In una prospettiva diversa rispetto a quella appena menzionata si colloca,
invece, la ragionevole durata che la legge deve assicurare per ogni processo secondo
l’articolo 111 Cost.75. La disposizione costituzionale, infatti, prevede un principio
70
Vedi art. 111, secondo comma, Cost.
Si tratta della legge 4 agosto 1955, n. 848.
72
La Convenzione europea dei diritti dell’uomo è stata firmata a Roma il 4 novembre 1950.
73
L’articolo 6 Cedu prevede le garanzie minime che ogni stato di diritto deve assicurare ai fini di
un equo processo.
74
L’articolo 19 CEDU prevede esplicitamente la creazione della Corte europea dei diritti
dell’uomo la quale deve assicurare il rispetto degli impegni derivanti alle Alte Parti contraenti dalla
Convenzione e dai suoi protocolli. Con l’entrata in vigore del Protocollo XI (11 maggio 1994), in
base alle modifiche apportate all’art. 34 CEDU, chiunque può ricorrere personalmente dinanzi alla
Corte di Strasburgo per la tutela internazionale dei suoi diritti, sia nei confronti degli Stati stranieri,
che del Paese di appartenenza. Per un’esaustiva panoramica della giurisprudenza della Corte
europea sul principio in parola v. MEDDA-OCTAVE-RICCI-ROAGNA, La ragionevole durata dei
processi, in Doc. giust., 2000, 137 ss.; IAI, La durata ragionevole del procedimento nella
giurisprudenza della Corte europea, in Riv. Dir. Proc., 1999, 549 ss.
75
AMODIO, Ragionevole durata del processo, abuse of process e nuove esigenze di tutela
dell’imputato, in Dir. Pen. e proc., cit., 797 ss. La norma contenuta nella seconda parte dell’art.
111 comma 2 Cost. è formulata in termini che attribuiscono alla speditezza del processo il valore di
una “garanzia oggettiva” intesa come forma di tutela destinata ad operare non nell’interesse
dell’imputato, ma a vantaggio dello stesso sistema che deve poter raggiungere senza ingiustificati
ritardi il suo traguardo nell’iter di accertamento della verità. Secondo l’Autore, però, non può
71
23
generale a cui il legislatore76 deve attenersi per la produzione di norme idonee a
consentire il celere svolgimento dei processi. Inoltre, di riflesso, in base all’art. 111
Cost. i giudici della Consulta hanno il potere di dichiarare incostituzionale ogni
disposizione da cui conseguono tempi procedimentali eccessivamente lunghi e,
comunque, attività processuali poste in essere dalle parti, non giustificate da
garanzie difensive o da esigenze repressive77.
In base al nostro sistema di giustizia costituzionale, affinché la violazione del
diritto ad un processo di durata ragionevole possa giungere all’esame della Corte
Costituzionale, è necessario che la violazione stessa derivi da una disposizione di
legge illegittima78.
I casi in cui è possibile rilevare il ritardo processuale in una norma risultano,
però, poco frequenti79. In vero, sono i comportamenti delle parti o delle autorità
giurisdizionali, o comunque le circostanze di fatto80, a causare l’allungamento dei
condividersi l’enfasi con la quale viene letta la formulazione letterale della norma costituzionale.
Ritenere che il disposto normativo sia talmente sganciato dal piano soggettivo da indurre a
concludere che l’interesse tutelato è solo quello della buona amministrazione della giustizia
significa alterare il senso letterale della norma. È evidente, infatti, che la locuzione “ne assicura” si
riferisce al processo e alla garanzia del contraddittorio tra le parti. Di qui la conferma che
destinatari dello “speedy trial” sono i soggetti che assumono la qualità di parte nella sede
processuale.
76
SACCUCCI, Le due “prospettive” della durata ragionevole del processo tra diritto internazionale
e diritto interno, in Giur. Cost., 2002, 3105 ss.
77
TROCKER, Il nuovo articolo 111 della Costituzione e il «giusto processo» in materia civile: profili
generali, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2001, 404; CHIARLONI, Il nuovo art. 111 Cost. e il processo
civile, in Riv. Dir. Proc., 2000, 1110 ss.; COMOGLIO, Le garanzie fondamentali del giusto
processo, in La nuova Giurisprudenza civile commentata, Milano, 2001, 29 ss. L’Autore sottolinea
che qui si tratta di una “riserva di legge”, garanzia generica e barriera di protezione costituzionale.
78
Sul ruolo svolto dalla Corte costituzionale quale giudice delle leggi e non dei comportamenti v.
CHIAVARIO, Cultura italiana del processo penale e Convenzione europea dei diritti dell’uomo:
frammenti, appunti, e spunti per una “microstoria”, in Riv. Int. Dir. Uomo, 1990, 445 ss.
79
MARZADURI, Commento art. 1, cit., 773, segnala la problematicità dell’operazione volta a
determinare i casi in cui la previsione della durata ragionevole può essere posta a fondamento di
declaratorie di illegittimità costituzionale.
80
D’AIUTO, Il principio della “ragionevole durata” del processo penale, Napoli, 2007, 86 ss.
FERRUA, Il processo penale dopo la riforma dell’articolo 111 della Costituzione, in Quest. Giust.,
2000, 52.
24
tempi del procedimento. Il ricorso alla Consulta per la tutela del diritto previsto
dall’art. 111 Cost. risulta, dunque, un rimedio poco efficace, in quanto meramente
eccezionale.
Ogni qualvolta l’irragionevole durata del procedimento è stata dedotta di
fronte alla Corte Costituzionale, infatti, non si è inteso tanto tutelare il diritto
dell’imputato a vedere rapidamente risolto il proprio giudizio, quanto, piuttosto,
garantire il buon funzionamento del sistema di amministrazione della giustizia81.
La principale differenza tra l’articolo 111 Cost. e l’articolo 6 Cedu dipende,
quindi, dalla diversa modalità di osservanza della ragionevole durata del processo82.
In ambito comunitario, coerentemente con la natura della Convenzione
europea, la celerità del procedimento giudiziario assume una dimensione soggettiva.
La Cedu nasce, infatti, come strumento internazionale diretto alla protezione dei
diritti fondamentali dell’uomo83. Il diritto che l’articolo 6 tutela è l’equo processo84
81
Si pensi, ad esempio, alla sentenza Corte Cost., n. 10 del 1997, in Giur. Cost., 1997, 77. In
questo caso la questione di legittimità costituzionale era relativa all’art. 37, secondo comma, c.p.p.,
nella parte in cui, a fronte della riproposizione di una istanza di ricusazione basata sui medesimi
motivi, faceva divieto al giudice di pronunciare la sentenza fino a che non fosse intervenuta
l’ordinanza di inammissibilità o di rigetto di tale ulteriore istanza di ricusazione.
82
D’AIUTO, Il principio della “ragionevole durata” del processo penale, cit., 38.
83
CHIAVARIO, Grande criminalità e diritti dell’uomo nell’odierna fase di travaglio nelle
democrazie europee, in Doc. giust., 1997, 321, rileva che la Corte europea ha il solo potere di
dichiarare le violazioni della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e non può pronunciarsi
sulla legittimità delle leggi interne. La Corte, infatti, ha sempre rifiutato il ruolo di giudice delle
legislazioni nazionali in quanto tali, riservandosi il più confacente ruolo di giudice delle violazioni
concrete dei diritti e delle libertà fondamentali della persona.
84
La nozione di equo processo si deve alla Magna Charta del 15 giugno 1215 e, in generale, al
diritto anglosassone, prima inglese e poi americano, in cui matura l’espressione “due process”.
Oggi la formula si trova consacrata, sotto varie dizioni, in molte Costituzioni, a iniziare da quella
americana, nella quale, al V emendamento del Bill of Rights approvato nel 1791, si parla di "due
process of law". La stessa si trova anche nella Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, New
York 1948 (articolo 10: "everyone is entitled in full equality to a fair and public hearing by an
independent and impartial tribunal”), nel Patto internazionale sui diritti civili e politici, New York
1966 (articolo 14: "everyone shall be entitled to a fair and public hearing by a competent,
independent and impartial tribunal established by law") e nella Convenzione americana sui diritti
umani del 1969 (articolo 8: "every person has the right to a hearing, with due guarantees and
25
regolato in modo tale da favorire il perseguimento di una decisione giusta 85 e nel
rispetto delle garanzie procedurali86. Il Patto internazionale dei diritti civili e
politici87 e lo stesso articolo 6, comma 3, Cedu definiscono i principi del giusto
processo indicati dalla Convenzione europea "minimum rights" e "minimum
guarantees". Con tali formule si è voluto affermare che nessun procedimento
giudiziario può essere considerato equo se esso non rispetta almeno gli standards
minimi dettati dalla Carta convenzionale.
Sul piano comparativo è rilevante notare che, mentre in Italia il principio
della ragionevole durata si è affermato solo in tempi recenti, quest’ultimo ha sempre
rivestito un ruolo fondamentale negli ordinamenti di common law. Già i giuristi88
del primo ‘800, infatti, dichiaravano che “justice delayed is justice denied”,
within a reasonable time, by a competent, independent, and impartial tribunal, previously
established by law").
85
Ovvero basata su una ricostruzione “veritiera e razionalmente controllabile del caso concreto o,
meglio, delle affermazioni fattuali che lo compongono”. CARRATTA, Prova e convincimento del
giudice nel processo civile, in Riv. Dir. Proc. 2003, 27, ivi 36 e ss. V. anche PIVETTI E NARDIN, Un
processo civile per il cittadino (Lineamenti di una proposta di riforma della procedura civile), in
www.magistraturademocratica.it, 2005, “occorre anche che il processo si svolga in modo tale da
tendere ad una decisione giusta, oltre che sollecita. “Giusto processo”, infatti, non significa
esclusivamente processo conforme alle altre regole specifiche e agli altri principi espressamente
consacrati nel nuovo art. 111 o in altre norme costituzionali riguardanti il processo”.
86
Cfr. FERRAJOLI, L’etica della giurisdizione penale, in Questione giustizia, 1999, 483. V. anche
MONTELEONE, Il giusto processo civile, in Il giusto processo nell’esperienza storico
comparatistica. Atti del seminario tenutosi a Palermo il 19 giugno 1999, Palermo, 1999, 83.
L’Autore in un momento immediatamente precedente alla riforma costituzionale dell’art. 111
Cost., ricollegando il concetto di processo giusto alla giusta decisione, trae la conclusione per cui il
sistema delle preclusioni, ponendo limiti alla ricerca della verità, conduce a sentenze ingiuste e
quindi è contrario al valore del “giusto processo”.
87
Il Patto, firmato a New York il 16 dicembre 1966, è un trattato delle Nazioni unite nato
dall’esperienza della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’uomo.
88
Come William Gladstone e Jeremy Bentham, giuristi inglesi vissuti nella prima metà del XIX
secolo.
26
sottolineando, così, la stretta relazione che intercorre tra il concetto di giustizia e
quello di celerità processuale89.
In ambito comunitario la previsione di un processo rapido risponde alla
finalità, individuata dalla stessa Corte europea, di evitare che una persona sotto
accusa resti troppo a lungo nell’incertezza della propria sorte90. La rilevanza del
principio della ragionevole durata, poi, è stata riconosciuta anche dalla
Commissione di Venezia91 la quale ha sottolineato, in occasione del rapporto sul
problema dell’eccessiva lunghezza del processo, che “una giustizia rapida ed
efficiente è una componente essenziale di quel sistema che si è soliti definire come
stato di diritto”92. Le garanzie previste dall’equo processo, infatti, rischiano di
89
Il right to a speedy trial si ritiene abbia origini risalenti alla Magna Charta del 1215. Sullo
stampo della prima Carta dei diritti fondamentali della storia, poi, il principio fu inserito nel VI
emendamento della Costituzione americana, nel 1791.
90
Corte eur., 10 novembre 1969, Stogmuller (serie A n. 9) § 5. La ratio del principio, dunque, è
quella di tutelare indistintamente imputati colpevoli e innocenti dalle conseguenze morali e
materiali di un processo eccessivamente lungo, qualunque sia il suo esito. Di opinione diversa
ANGIOI-RAIMONDI, La ragionevole durata del processo in Europa, Napoli, 2011, 4, per cui “Tale
diritto è volto a tutelare il (potenziale) destinatario di una decisione favorevole, che, se emanata
prima, avrebbe ridotto le conseguenze sfavorevoli connesse allo svolgimento del processo, mentre
in principio danneggia il destinatario di una decisione sfavorevole, per il quale il prolungamento
della durata dell’incertezza giuridica concomitante allo svolgimento del processo, comporta un
vantaggioso differimento delle conseguenze sfavorevoli della decisione”.
91
La c.d. Commissione di Venezia è un organo consultivo creato all’interno del Consiglio
d’Europa nel maggio 1990 e formalmente denominato “The European Commission for Democracy
Through Law”. Nata con l’obiettivo di assistere i Paesi in transizione e di condurli gradualmente ad
uniformarsi agli standard che caratterizzano gli ordinamenti degli Stati membri del Consiglio
d’Europa, per quanto concerne in particolare l’affermazione dei principi democratici e dello stato di
diritto, la Commissione ha consolidato il ruolo di fornire strumenti di interpretazione, studio e
consulenza, nell’ottica di rafforzare continuamente i fondamenti della democrazia in Europa e il
patrimonio giuridico condiviso dagli Stati membri.
92
European Commission For Democracy Through Law, Study on the Effectiveness of National
Remedies in Respect of Excessive Length of Proceedings, 22 dicembre 2006, 20. “The undue
postponement of judicial decisions may result in a denial of justice for the parties to the
proceedings (…). In more general terms and in the longer run, it risks to affect the confidence
which the general public places in the capacity of the State to dispense justice, to decide disputes,
and, very importantly, to punish crimes as well as to prevent and deter future crimes. This may
cause or even incite the recourse by individuals to alternative means of dispute settlement or
dispensation of punishment. The deleterious effects on the rule of law of such a situation are
evident”.
27
essere svuotate di valore da una giustizia mal amministrata con tempi
irragionevolmente lunghi che ne compromettano l’efficienza e la credibilità93.
A ben vedere, l’ampiezza della formula adoperata dalla Convenzione dei
diritti dell’uomo nell’art. 694 determina l’impossibilità di predeterminare con
precisione il tempo del procedimento penale95. La sua durata, infatti, dipende da
circostanze che possono variamente combinarsi tra loro e che devono essere
esaminate dalla Corte europea per verificare se l’eccessivo protrarsi del
procedimento sia giustificabile o se lo Stato convenuto sia responsabile della
violazione della disposizione convenzionale96.
A tal fine, a partire dalla sentenza Neumeister97, i giudici di Strasburgo hanno
elaborato quattro criteri per valutare la durata ragionevole del processo: la
complessità del caso, la condotta delle parti, il comportamento delle autorità
competenti ed, infine, la rilevanza della causa per il soggetto ricorrente.
Il primo parametro di riferimento comprende una serie di circostanze
processuali che sono state, di volta in volta, identificate dalla Corte europea. Vi
rientrano l’espletamento di perizie durante il procedimento, l’ampiezza della
documentazione che il giudice deve esaminare, la necessità di compiere atti
Corte eur., H. c. Francia, serie A, n. 162, ha affermato: “En exigeant le respect du “délai
raisonnable”, la Convention souligne l’importance qui s’attache à ce que la justice ne soit pas
administrée avec des retards propres à en compromettre l’efficacité et la crédibilité”.
94
La norma, infatti, fa solo generico riferimento al “reasonable time”.
95
La stessa Corte Costituzionale, inizialmente, nell’escludere valore costituzionale alla norma
convenzionale ha evidenziato come tale disposizione “non propone alcun criterio concreto ma solo
un’enunciazione vaga ed elastica”. Corte Cost., sent. 1 febbraio 1982, n.15, in Giur. Cost., 1982, I,
85.
96
D’AIUTO, Il principio della “ragionevole durata” del processo penale, cit., 45.
97
Corte eur., sent. 27 giugno 1968, Neumeister c. Austria, serie A n.8.
93
28
investigativi all’estero, il numero elevato di accusati98 o testi e la sussistenza nel
processo di un vincolo di pregiudizialità99. In alcune decisioni della Corte di
Strasburgo100 compare, poi, un riferimento alla “complessità in diritto”; i giudici
europei hanno sostenuto, ad esempio, che l’applicazione di una nuova legge a un
caso concreto rende ragionevole l’allungamento dei tempi della decisione 101. Tutti
questi fattori, dilatando le dimensioni del processo, possono giustificare un
ampliamento della sua durata.
Per quanto riguarda la condotta delle parti bisogna specificare che
sull’imputato non incombe alcun onere di collaborazione attiva con gli organi del
processo102. Ciò, però, non significa che sia legittimata ogni condotta dilatoria e
ostruzionistica della parte stessa. Anzi, il comportamento posto in essere
dall’imputato, sotto questi profili, è oggetto di valutazione da parte della Corte
europea che, nelle ipotesi prospettate, non può addebitare l’allungamento dei tempi
processuali all’operato delle autorità giurisdizionali nazionali103.
98
Il processo reso abnorme dalla pluralità di imputati o di addebiti loro rivolti è un tema
particolarmente delicato, poiché coinvolge sia le esigenze di celerità sia quelle di accertamento, che
non possono essere sacrificate. V. GAJA, La ragionevole durata del processo Valpreda, in Riv. Dir.
Internaz., 1974, 427, secondo il quale sarebbe eccessivo ricavare dall’art. 6 CEDU l’esigenza di
evitare qualsiasi ritardo, che, in talune circostanze, può essere giustificato da un interesse superiore.
99
Cfr. Commiss. Eur., R. 15 dicembre 1980, secondo cui nessuno di questi elementi è decisivo,
considerato singolarmente. Bisogna esaminarli separatamente e cercare di individuare in quale
misura essi hanno potuto influire sulla durata della procedura.
100
V., ad esempio, Corte eur., 8 dicembre 1983, Pretto, serie A n.71.
101
Corte eur., 25 giugno 1987, Captano, serie A n.119, in Foro it. 1987, 385.
102
In base al principio del nemo tenetur se detegere. D’AIUTO, Il principio della ragionevole
durata del processo penale, cit., 51.
103
V. Corte eur., sent. 15 luglio 1982, Eckle, cit. Più incisiva la posizione della Corte di Cassazione
per cui si rendono necessari, per poter assicurare in concreto la durata ragionevole dei processi,
senso di responsabilità delle parti e lealtà processuale. Cass. Sez. Un., 28 novembre 2001, in Riv.
Giur. Edil., 2003, I, 643, “le parti, a differenza del passato, condividono con il giudice la
responsabilità dell’andamento del processo e debbono assumersi conseguentemente gli oneri
connessi all’esercizio dei loro poteri. Le parti non hanno più solo poteri limitativi dell’autorità del
giudice, ma condividono con il giudice la responsabilità dell’andamento del processo”.
29
Un discorso diverso va fatto per quelle condotte dell’imputato che
costituiscono estrinsecazione del diritto di difesa: la garanzia della celebrazione di
un processo in tempi ragionevoli, infatti, deve essere contemperata con l’esigenza di
“disporre del tempo e delle facilitazioni di cui la parte necessita per preparare la sua
difesa”104. Non tutte le condotte dilatorie dell’imputato, dunque, possono essere
censurate dalla Corte di Strasburgo.
In ogni caso l’orientamento europeo condanna le iniziative processuali che,
sebbene riconducibili nell’alveo del legittimo esercizio del diritto di difesa, in
definitiva non rappresentano altro che lo strumento per raggiungere scopi dilatori105.
Un ulteriore criterio elaborato dagli organi europei per valutare la
ragionevole durata del processo è costituito dal comportamento delle autorità
giudiziarie competenti. I giudici della Cedu imputano allo Stato la responsabilità
della violazione, ad esempio, qualora l’organo giudicante non risolva prontamente
questioni procedurali semplici106, o quando emerga un suo comportamento passivo
104
Art 6, paragrafo 3, CEDU.
Corte eur., 26 luglio 1971, Ringeisen c. Austria, nella quale la Corte ha rilevato come sulla
durata complessiva del procedimento abbiano influito le ripetute iniziative dell’imputato, dirette
ora ad ottenere la libertà provvisoria, ora a richiedere la ricusazione, ora la remissione del giudizio.
A tal proposito, nell’ordinamento interno, la Corte di cassazione ha, più volte, fatto ricorso al
concetto di abuso del diritto di difesa. Se da una parte non incombe sulla parte alcun obbligo di
collaborazione attiva con gli organi del processo, infatti, dall’altra non possono giustificarsi tutte le
condotte dilatorie dell’imputato. V. Cass., sez. un., sent. 29 settembre 2011, Rossi. In questo caso i
giudici di legittimità hanno rilevato come l’avvicendamento di ben otto difensori, realizzato a
chiusura del dibattimento secondo uno schema reiterato non giustificato da alcuna reale esigenza
difensiva, non avesse altra funzione che ottenere una dilatazione dei tempi processuali al fine di
lucrare la declaratoria di estinzione dei reati per prescrizione. In ogni caso, si incorre nell’abuso del
diritto solo nei casi in cui l’atto della difesa esula dagli scopi ai quali il diritto è preordinato e tale
atto incide su una sfera di interessi meritevoli di tutela.
106
Cfr. Corte eur., 10 dicembre 1982, Foti c. Italia, in Cass. Pen., 1983, 512 ss, in cui la violazione
dell’articolo 6 CEDU venne addebitata allo Stato italiano a causa delle modalità di conduzione del
procedimento da parte dell’autorità giudiziaria.
105
30
o negligente nella direzione del processo107 ovvero nel caso in cui venga impiegato
molto tempo per la redazione della sentenza108.
Secondo la Corte europea rientrano nel parametro in esame anche le
disfunzioni e i ritardi che derivano da una erronea organizzazione del sistema
giudiziario e dalla carenza di risorse umane necessarie alla tempestiva definizione
delle controversie109. Al contrario, non sussiste violazione dell’articolo 6 Cedu nel
caso in cui l’eccessiva durata del processo, provocata dall’ingente numero di
procedimenti, costituisca un fatto temporaneo ed eccezionale e lo Stato si attivi
immediatamente predisponendo strumenti idonei a porre rimedio alla situazione110.
L’ultimo criterio elaborato dalla giurisprudenza di Strasburgo è la rilevanza
della causa per il soggetto ricorrente. Il parametro viene utilizzato per valutare i casi
in cui si esige una diligenza eccezionale in capo all’autorità giudiziaria ai fini di una
maggiore speditezza del processo, poiché un’eccessiva lentezza può comportare
gravi conseguenze al godimento di diritti fondamentali da parte del ricorrente.
I giudici europei, applicando la regola della “posta in gioco”, hanno stabilito
che eccedono i termini ragionevoli di durata prescritti dalla Cedu i giudizi che, pur
presentando questioni di fatto e di diritto complesse, non sono stati condotti con la
eccezionale celerità richiesta dal caso specifico. I diritti fondamentali che più spesso
107
Cfr. Corte eur., 25 giugno 1987, Captano c. Italia, cit.
V. Corte eur., 10 febbraio 1995, Allenet de Ribemont c. Francia, in Riv. Internaz. Uomo, 1995,
473. In questo caso il giudice aveva impiegato trentatre mesi per redigere la sentenza.
109
La Corte europea dei diritti dell’uomo ha, infatti, più volte affermato che “la Convenzione
vincola gli Stati contraenti ad organizzare il proprio sistema giudiziario in modo tale da permettere
ad esso di rispondere alle condizioni dell’art.6, paragrafo 1, segnatamente riguardo alla durata
ragionevole”. Cfr Corte eur. 25 giugno 1987, Baggetta, in Riv. Internaz. Uomo, 1988, 102.
110
Tra le numerose sentenze dei giudici Cedu orientate in tal senso, v. Corte eur., 6 maggio 1981,
Bucholz, serie A n.42. L’onere di provare il sovraccarico e l’adozione dei rimedi spetta al Governo
convenuto: v. Corte eur., 24 ottobre 1989, H. c. Francia, in Riv. Internaz. Uomo, 1990, 83.
108
31
sono stati ritenuti rilevanti ai fini delle censure della Corte europea sono il diritto
alla salute111 e alla libertà112.
In relazione alla rosa di garanzie assicurate dall’articolo 6 Cedu, la
violazione del principio della ragionevole durata è quella che ha richiamato
maggiormente l’attenzione della Corte di Strasburgo nei confronti dell’Italia. Sono
numerosi gli ordinamenti giuridici degli Stati contraenti che hanno difficoltà a
garantire un tempo ragionevole ai processi. L’Italia, tuttavia, si è distinta per il
numero delle censure subite. Invero, al progressivo aumentare dei ricorsi da parte di
cittadini italiani che lamentavano l'eccessiva durata dei procedimenti giudiziari, ha
fatto seguito il più alto numero di condanne inflitte a uno Stato contraente la
Convenzione europea dei diritti dell'uomo, per violazione dell'art. 6 Cedu113.
L’esigenza di rimediare alla situazione interna, in assenza di qualsivoglia
strumento finalizzato a far valere eventuali violazioni della disposizione
convenzionale, ha portato all’adozione in Italia, il 24 marzo 2001, della legge n. 89,
111
V. Corte eur., 8 febbraio 1996, Commissione c. Danimarca, in Danno e resp., 1999, 184, con
commento di IZZO, La posta in gioco e la ragionevole durata del processo nelle azioni promosse
per il risarcimento del danno da contagio da HIV. V. anche Corte eur., 31 marzo 1992, X. c.
Francia, in Riv. Internaz. Uomo, 1992, 660. In questo caso un giovane aveva iniziato la procedura
per ottenere l’indennità davanti al tribunale amministrativo dovutagli per contaminazione dal virus
dell’Aids a seguito di una trasfusione di sangue. A causa della lentezza del procedimento, però, egli
non era riuscito ad ottenere l’indennità prima del decorso fatale della malattia. I genitori, adita la
Corte di Strasburgo, ottennero un equo indennizzo per l’eccessiva durata del processo, riconosciuta
in forza delle eccezionali circostanze di specie.
112
V. Corte eur., 25 settembre 1992, Herczegfalvy c. Austria, in cui i giudici hanno affermato che
le persone sottoposte a misure cautelari hanno diritto a una diligenza particolare nella trattazione
della causa da parte delle autorità giudiziarie competenti.
113
Tali rilievi hanno condotto la Corte europea a riconoscere che in Italia vi fosse ormai una prassi
amministrativa di violazione dell’articolo 6, paragrafo 1, Cedu. In particolare, infatti, con la
sentenza Bottazzi c. Italia, del 28 luglio 1999, i giudici di Strasburgo hanno rivolto un monito nei
confronti dello Stato italiano affermando che “la reiterazione delle violazioni constatate dimostra
che vi è un accumulo di inadempienze di identica natura e troppo numerose perché si possa
considerarle incidenti isolati. Tali inadempienze riflettono una situazione che perdura, alla quale
non si è ancora rimediato e per la quale i soggetti a giudizio non dispongono di nessuna via di
ricorso interna. Tale accumulo di inadempienze è, pertanto, costitutivo di una prassi incompatibile
con la Convenzione”.
32
la c.d. “legge Pinto”114. Tale norma riconosce all’individuo il diritto di adire la
Corte di Appello al fine di ottenere un’equa riparazione dei danni patrimoniali e
non, subiti dall’imputato a seguito dell’accertata violazione del principio della
ragionevole durata del processo, come previsto dall’articolo 6, paragrafo 1, Cedu115.
La legge citata nasce con il duplice intento di rendere effettivo il principio
enunciato dall’articolo 111 della Costituzione e di dare una risposta concreta alle
pressioni della Corte europea dei diritti dell’uomo. Tuttavia, la norma ricordata non
ha raggiunto gli scopi sperati. Essa, infatti, non agisce sulla struttura del processo
affinché ne sia garantita la celere conclusione, bensì è volta a rimediare, tramite la
riparazione dei danni patiti in ragione delle lungaggini del procedimento, agli effetti
distorsivi provocati da un sistema processuale inefficiente116.
Il problema della durata del processo, quindi, rimane una questione aperta,
sia in ambito nazionale che comunitario117.
Come si evince chiaramente dalla relazione al disegno di legge in parola, “l’ingorgo dei ruoli
italiani” da problema nazionale era diventato di portata internazionale. Vi si legge, infatti, che “la
massa di ricorsi abbattutasi sulla Commissione europea dei diritti dell’uomo (…) ha creato
all’organo di giustizia europeo, presso il quale le pendenze relative all’Italia erano già in numero
elevatissimo, gravi problemi organizzativi e di funzionamento, nonché serie preoccupazioni sul
possibile impatto di tale contenzioso sugli altri organi comunitari di protezione dei diritti umani,
cioè la Corte europea dei diritti dell'uomo ed il Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa,
suscettibili tutti di essere interessati da tali procedure allorché esse superino il vaglio della
Commissione”.
115
SACCUCCI, Riparazione per irragionevole durata dei processi tra diritto interno e Convenzione
europea, in Dir. Pen e proc., 2001, 893 ss. SANNA, La durata ragionevole dei processi nel dialogo
tra giudici italiani ed europei, Milano, 2008, 151 ss.
116
Si tratterebbe, come lo definisce SCALABRINO, L’irragionevole durata dei processi italiani e la
l. 24 marzo 2001, n. 89: un commodus discessus, in Riv. Int. Dir. Uomo, 2001, 380, di un
“provvedimento tampone”. In realtà, come ricorda SACCUCCI, Riparazione per irragionevole
durata dei processi tra diritto interno e Convenzione europea, cit., 2001, 893, originariamente la
legge Pinto avrebbe dovuto prevedere una serie di misure volte all’accelerazione dei processi.
Oggi, però, il testo definitivo non propone alcuna soluzione al problema della durata irragionevole
dei procedimenti giudiziari, limitandosi ad affrontare solo gli aspetti patologici che ne
presuppongono il permanere.
117
D’AIUTO, Il principio della ragionevole durata del processo penale, cit., 57.
114
33
Capitolo II
I Limiti all’iniziativa del pubblico ministero
2.1 Gli effetti preclusivi dell’archiviazione sulla riapertura delle indagini
preliminari
In base all’articolo 125 disp. att. c.p.p. il pubblico ministero presenta al
giudice per le indagini preliminari la richiesta di archiviazione quando ritiene che
gli elementi probatori acquisiti nelle indagini non sono idonei a sostenere l’accusa
in giudizio. Il g.i.p., in tal caso, effettua un controllo sul mancato esperimento
dell’azione118 che è indispensabile per garantire il rispetto del principio di legalità e
del principio di uguaglianza e, nel contempo, l’obbligatorietà dell’azione penale119.
Il principio di obbligatorietà120, infatti, impone al p.m. “il dovere di dedurre
la pretesa punitiva dello Stato chiedendo all’organo giurisdizionale di pronunziarsi
in ordine ad una determinata imputazione”121 e al giudice quello di vigilare sul
rispetto di tale obbligo. Attraverso l’archiviazione il principio richiamato è limitato
dall’esigenza di evitare l’instaurazione di processi superflui per l’infondatezza della
notitia criminis122.
In base all’art. 409, comma 2, c.p.p. il g.i.p. può non accogliere la richiesta del p.m. In tal caso
fissa la data dell’udienza in camera di consiglio.
119
V. LOZZI, Lezioni di procedura penale, Torino, 2011, 389.
120
Il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, sancito dall’articolo 50 c.p.p., è imposto
dall’articolo 112 Cost. per cui “il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale”.
121
LOZZI, Lezioni di procedura penale, cit., 99.
122
Così Corte Cost., sent. n. 88 del 1991, “limite implicito alla stessa obbligatorietà, razionalmente
intesa, è che il processo non debba essere instaurato quando si appalesi oggettivamente superfluo. Il
118
34
A seguito del provvedimento previsto dall’art. 409 c.p.p., il g.i.p., su richiesta
del pubblico ministero, può123 autorizzare con decreto124 la riapertura delle indagini
nel caso in cui emerga l’esigenza di nuove investigazioni. L’archiviazione inibisce,
dunque, ogni eventuale attività investigativa che riguarda la medesima notizia di
reato125. In tal caso, l’effetto ostativo viene meno solo attraverso un atto motivato
del giudice per le indagini preliminari126.
Rilevante ai fini dello studio dell’istituto è la questione che riguarda la sorte
dell’azione penale elevata dal pubblico ministero successivamente ad un
provvedimento di archiviazione, qualora manchi il decreto di riapertura delle
indagini127.
problema dell’archiviazione sta nell’evitare il processo superfluo senza eludere il principio di
obbligatorietà ed anzi controllando caso per caso la legalità dell’inazione”.
123
Il dubbio circa la compatibilità tra un eventuale divieto d’indagine da parte del g.i.p. e il
principio di obbligatorietà dell’azione penale ha portato parte della dottrina ad affermare che
l’autorizzazione del giudice è un atto dovuto. V. KOSTORIS, voce Riapertura delle indagini, in Enc.
Dir., XL, Milano, 1991, 350. In questo senso anche Cass., sez. II, 5 febbraio 1991, Ventrilla, in
Giur. It., 1992, II, 602., che ha annullato, quale provvedimento non consentito dalla legge, il
diniego di autorizzazione opposto dal g.i.p. alla richiesta di riapertura del p.m. A bene vedere, però,
ciò comporterebbe la dissolvenza di una garanzia legislativamente prevista, privando di senso
logico lo stesso articolo 414 c.p.p.
124
Corte cost., sent. 12 gennaio 1995, n. 27, in Giur. Cost., 1995, 257, ha precisato che “l’atto
autorizzatorio non può essere sostituito da un atto equipollente; più in particolare, dall’applicazione
della misura cautelare da parte del giudice per le indagini preliminari; un atto al quale va negata sia
qualsivoglia valenza surrogatoria del decreto di autorizzazione previsto dall’art. 414 c.p.p., sia la
condizione di implicito presupposto dell’esistenza di tale decreto”.
125
GIOSTRA, L’archiviazione. Lineamenti sistematici e questioni interpretative, Torino, 1994, 94.
L’Autore afferma che “non è pensabile che una persona sottoposta a lunga custodia cautelare, il cui
caso sia archiviato con ordinanza dal giudice su richiesta del pubblico ministero, si veda
l’indomani, per capricciosa iniziativa di quest’ultimo, nuovamente sottoposta a procedimento
penale”. In altre parole l’efficacia ostativa del provvedimento di archiviazione va direttamente
ricollegato al carattere afflittivo delle indagini che precedono la sua emanazione. Così CAPRIOLI,
Archiviazione della notizia di reato e successivo esercizio dell’azione penale, in Riv. It. Dir. Proc.
Pen., 1995, 1371.
126
La possibilità di rimuovere gli effetti ostativi del provvedimento di archiviazione fa sì che esso
venga classificato da CONTI, La preclusione nel processo penale, cit., 321, come “il più tenue degli
esiti procedimentali”.
127
Sul punto, in dottrina si veda tra tutti CAPRIOLI, Archiviazione della notizia di reato e successivo
esercizio dell’azione penale, cit., 1371 ss. LOZZI, Lezioni di procedura penale, cit, 400 ss.
ORLANDI, Effetti preclusivi dell’archiviazione e procedimento cautelare, in Cass. Pen., 1998, 3291
ss.
35
Alla luce della giurisprudenza della Corte Costituzionale128, in base
all’indirizzo interpretativo prevalente129, in tale evenienza, al magistrato d’accusa è
precluso il promovimento dell’azione penale130. In carenza di autorizzazione del
g.i.p., dunque, “è l’instaurabilità di un nuovo procedimento e, quindi, la
procedibilità a essere impedita”131. Ne consegue che il giudice è tenuto a prendere
atto della causa di improcedibilità, dichiarando con sentenza che “l’azione penale
non doveva essere iniziata”132.
Tale orientamento giurisprudenziale accosta l’efficacia dell’art. 414 c.p.p. a
quella strictu sensu preclusiva derivante dal giudicato penale descritta dall’articolo
649 c.p.p133. La giurisprudenza, così, interpreta il principio del ne bis in idem in
128
Corte cost., sent. 12 gennaio 1995, n. 27, in Giur. Cost., cit., 257. La Consulta ha affermato che
“il nuovo codice di rito penale assegna un’efficacia (limitatamente) preclusiva al provvedimento di
archiviazione. Ciò è reso esplicito dallo stesso art. 414, in base al quale, dopo l’archiviazione,
l’inizio di un procedimento è subordinato al provvedimento autorizzatorio del giudice”.
129
Tra cui LOZZI, Lezioni di procedura penale, cit., 400, che afferma “Delle due l’una: o si ritiene
che la violazione dell’articolo 414 c.p.p. determina gravi conseguenze processuali rendendo
improcedibile l’azione penale, oppure si ritiene che la violazione dell’art. 414 non abbia alcuna
conseguenza ed allora la mancata previsione di una sanzione processuale appare contrastare in
modo palese con l’art. 24 Cost. e con l’art. 3 Cost.”.
130
Secondo DANI, voce Revoca della sentenza di non luogo a procedere, in Dig. Disc. Pen., XII,
1997, “la previsione dell’art. 414 c.p.p. è fortemente criticabile dove prevede la necessità di una
autorizzazione per compiere ciò che per il pubblico ministero è compito istituzionale.” Il
provvedimento di archiviazione, infatti, “a differenza della sentenza di non luogo a procedere, non
è provvedimento giurisdizionale e non ha alcuna efficacia preclusiva”.
131
Corte Cost., sent. 12 gennaio 1995, n. 27, cit. Nella giurisprudenza di legittimità v. Cass., sez.
IV, sent. 13 aprile 2006, Calà, in Arch. Nuova proc. Pen., 2007, 499, con nota di CARBONE,
Efficacia preclusiva del provvedimento di archiviazione ed ordine di imputazione coatta del g.i.p.
In tale occasione è stato affermato che è abnorme il provvedimento con cui il giudice per le
indagini preliminari non dichiarando il difetto di procedibilità a causa della mancata autorizzazione
alla riapertura delle indagini, già conclusasi con un precedente provvedimento di archiviazione,
ordina l’imputazione coatta all’esito dell’udienza camerale ex art. 409 c.p.p. ritenendo che i
sopravvenuti elementi investigativi dimostrino la fondatezza della notitia criminis. Il giudice adito
con la nuova richiesta di archiviazione non preceduta dall’istanza di riapertura delle indagini,
viceversa, avrebbe dovuto disporre tale provvedimento ai sensi dell’art. 414 c.p.p., per la
sussistenza di una improcedibilità.
132
Cfr. artt. 529, 469 e 425 c.p.p.
133
CAPRIOLI, Archiviazione della notizia di reato e successivo esercizio dell’azione penale, cit.,
1377.
36
modo da estenderne gli effetti anche nell’ambito endoprocedimentale134 superando
il dato strettamente letterale della norma135.
Non tutta la giurisprudenza si è conformata alla Corte Costituzionale nel
rinvenire una condizione di improcedibilità nella violazione dell’articolo 414 c.p.p.
Una seconda interpretazione giurisprudenziale136, infatti, sostiene che
l’efficacia ostativa del provvedimento di archiviazione determina la nullità assoluta
dell’atto di esercizio dell’azione penale senza una preventiva richiesta di riapertura
delle indagini. In base a tale orientamento, l’invalidità processuale dell’azione è
conseguenza della violazione dell’art. 178 lett. b)137 che si riferisce alla
inosservanza di “disposizioni concernenti l’iniziativa del pubblico ministero
nell’esercizio dell’azione penale”138.
134
Si tratta di una interpretazione in linea con lo scenario europeo in tema di ne bis in idem
internazionale. Infatti, l’art. 54 della Convenzione applicativa dell’accordo di Schengen ha una
applicazione tradizionale più ampia di quella che traspare dal mero dato letterale, pervenendo alla
conclusione che l’operatività di tale norma non postula una “sentenza definitiva”. Ciò in coerenza
con la natura dell’accordo, volto ad evitare che, in un’ottica di necessaria realizzazione di uno
spazio giudiziario comune, si verifichino reiterazioni di procedimenti su un’identica re giudicanda.
135
MACCHIA, Nota a Corte Cost. 12 gennaio 1995, n. 27, in Cass. Pen., 1995, 1150, precisa che “
ciò che resta precluso dall’archiviazione è la possibilità di rimettere sotto inchiesta la medesima
persona al di fuori del controllo del giudice, così da evitare che resti affidato all’arbitrio del
pubblico ministero il potere di indagare sostanzialmente un determinato soggetto per una
determinata ipotesi di reato. Il che permette di escludere la possibilità di costruire una
assimilazione quanto mai opinabile tra giudicato e decreto di archiviazione sul piano dell’identità
di effetti preclusivi che dagli stessi verrebbero a scaturire”.
136
Cfr., Cass., sez. VI, sent. 11 maggio 2004, Manchisi. Analogamente, Cass. sez. I, sent. 4 marzo
2010, Greco, Ced. Cass., 246668; Cass., sez. IV, sent. 1 luglio 2008, p.m. c. G.A. In dottrina v.
GIOSTRA, L’Archiviazione, Torino, 1994, 102, nonché DI VITO, L’indebita autorizzazione alla
riapertura delle indagini tra riflessi sanzionatori e rimedi impugnativi, in Dir. pen. proc., 2002,
341.
137
In disposto con l’articolo 179 c.p.p.
138
La violazione dell’articolo 414 c.p.p., tuttavia, riguarda esplicitamente le indagini preliminari e
solo indirettamente l’esperimento dell’azione penale. Così ORLANDI, Effetti preclusivi
dell’archiviazione e procedimento cautelare, cit., 3295, che non condivide l’interpretazione della
nullità assoluta dell’azione penale elevata senza il previo provvedimento di riapertura delle
indagini.
37
Secondo parte della dottrina139, poi, la sanzione dell’inutilizzabilità140
attinente agli atti investigativi non autorizzati dal g.i.p.141 è sufficiente a garantire la
tutela processuale dell’imputato rispetto alla riapertura “discrezionale” delle
indagini. L’azione penale esperita dal p.m. è valida, ancorché esercitata al termine
di un’indagine irritualmente instaurata142, ma il giudice non può utilizzare gli
elementi raccolti durante la stessa indagine al fine di verificare la fondatezza
dell’accusa.
In tal caso, quindi, a seguito della richiesta di rinvio a giudizio da parte del
p.m. il g.u.p. deve fissare l’udienza preliminare e decidere rebus sic stantibus143.
Dal canto suo, la giurisprudenza di legittimità si è conformata 144 ai dicta
della Corte Costituzionale145. Recentemente, le Sezioni Unite146 hanno precisato che
in mancanza dell’autorizzazione giudiziale a riaprire le indagini si determina una
“preclusione all’esercizio dell’azione penale per quello stesso fatto reato,
oggettivamente e soggettivamente considerato, da parte del medesimo ufficio del
V. CAPRIOLI, Archiviazione della notizia di reato e successivo esercizio dell’azione penale, cit.,
1371 ss. CORDERO, Procedura penale, 8a ed., Milano, 2006, 434. ORLANDI, Effetti preclusivi
dell’archiviazione e procedimento cautelare, cit., 3291 ss.
140
L’inutilizzabilità è una sanzione processuale prevista unicamente per le prove e per gli elementi
probatori. Questa è rilevabile anche d’ufficio, in ogni stato e grado del procedimento, qualora la
prova sia stata acquisita in violazione dei divieti stabiliti dalla legge processuale penale.
141
L’inutilizzabilità deriva, secondo l’opinione prevalente, dall’art 191 c.p.p., in quanto gli atti
sono compiuti in violazione di un divieto implicito, mancando l’autorizzazione del g.i.p. alla
riapertura delle indagini. Secondo altri, invece, la ratio della sanzione processuale si ricava dalla
applicazione estensiva dell’art. 407, comma 3, c.p.p.
142
ORLANDI, Effetti preclusivi dell’archiviazione e procedimento cautelare, cit., 3295.
143
In tale evenienza la vicenda sfocerà presumibilmente in una sentenza di non luogo a procedere,
per le stesse ragioni che avevano fondato la precedente archiviazione. Tuttavia il rinvio a giudizio
non è da escludere, anche alla luce delle possibili integrazioni probatorie previste dagli articoli 421
bis e 422 c.p.p.
144
Non sono mancate, in ogni caso, isolate pronunce di stampo differente. V. Cass., Sez. I, 30
novembre 1995, Greco, in C.E.D. Cass., n. 203871; Cass., Sez. I, 1 ottobre 1996, Palumbo, ivi, n.
206004; Cass., Sez. II, 12 novembre 1996, Palazzo, ivi, n. 206362; Cass., Sez. VI, 24 giugno 1998,
Migliaccio, ivi, n. 212910.
145
Corte cost., sent. 12 gennaio 1995, n. 27, in Giur. Cost., cit.
146
Cass., Sez. Unite, 24 giugno 2010, Giuliani, in Guida dir., 2010, 43, 86.
139
38
pubblico ministero”147. L’archiviazione, quindi, comporta un vero e proprio effetto
ostativo endoprocedimentale il cui ambito di operatività, però, è circoscritto al solo
ufficio giudiziario in cui è stato disposto il decreto previsto dall’art. 409 c.p.p.148.
I rischi di tale impostazione sono evidenti: l’archiviazione disposta da un
determinato ufficio non impedisce al pubblico ministero di un diverso tribunale di
iniziare un’indagine sulla medesima vicenda149. A pagarne le conseguenze è, così,
la legittima aspettativa dell’indagato circa la stabilità degli esiti investigativi150.
Inoltre, la possibilità di nuove iniziative investigative de eadem re et persona
favorisce l’elusione dei limiti cronologici apposti dall’articolo 407 c.p.p. alle
indagini preliminari con evidente pregiudizio per il privato151.
Tali effetti appaiono inaccettabili se solo si considera che la previsione di
termini di durata alle attività investigative mira a preservare l’indagato
A parere delle Sezioni unite, la nozione di “stesso fatto” comprende sia le componenti
soggettive e oggettive dell’addebito, sia gli aspetti esterni al fatto di reato, e cioè l’autorità che ha
proceduto all’investigazione. In mancanza di omogeneità tra uno o più di tali elementi è chiaro che
si è in presenza di un “fatto diverso” e quindi il potere del pubblico ministero di investigare ed
esercitare, poi, l’azione penale rimane integro e non condizionato.
148
Con tale precisazione la Corte di Cassazione ha distinto in modo più netto l’ effetto preclusivo
dell’archiviazione rispetto al vero e proprio ne bis in idem previsto dall’articolo 649 c.p.p. che ha,
invece, efficacia estesa erga omnes.
149
CENTORAME, Effetti preclusivi dell’archiviazione, in Il principio di preclusione nel processo
penale, cit., 135.
150
CAPRIOLI, Archiviazione della notizia di reato e successivo esercizio dell’azione penale, cit.,
1371.
151
Così anche ORLANDI, Effetti preclusivi dell’archiviazione e procedimento cautelare, cit., 3294,
3298, per il quale “ è vero che anche i magistrati del p.m. devono osservare le regole sulla
competenza previste per i giudici (art. 51, comma 3, c.p.p.) , per cui di norma legittimato ad
indagare sul fatto archiviato è lo stesso ufficio che ha disposto l’archiviazione. E’ anche vero, però,
che il controllo sulle attribuzioni del p.m. è meno rigoroso di quello sulla competenza del giudice.
Inoltre, gli atti posti in essere dal rappresentante della pubblica accusa incompetente, sarebbero
validi quanto quelli dell’organo competente” (art. 54 bis, comma 4, c.p.p.). Secondo l’Autore,
dunque, una corretta applicazione della disciplina di cui all’art. 414 c.p.p. richiede di distinguere a
seconda che le indagini si svolgano “simultaneamente”, ovvero in sequenza rispetto a quella
archiviata. Nel primo caso il difetto di autorizzazione non dovrebbe esplicare alcun effetto
preclusivo. Diversamente, nella seconda eventualità l’archiviazione ha efficacia ostativa, in quanto
si può ritenere che il pubblico ministero abbia omesso di prestare la dovuta attenzione circa gli
epiloghi investigativi cui sono approdati altri uffici giudiziari e, quindi, devono farsi ricadere su di
lui le conseguenze patologiche di un’indagine incautamente avviata su addebiti già archiviati.
147
39
dall’afflittività di un procedimento potenzialmente interminabile che, già di per sé,
svolge un ruolo persecutorio nei confronti del soggetto.
Tra le problematiche legate all’interpretazione giurisprudenziale in
commento vi è l’ipotesi di un procedimento archiviato, riaperto di fronte ad un
ufficio diverso dal precedente e che, proprio per difetto di competenza del secondo
giudice, torna ad essere trattato nella sede in cui era stato emanato il decreto ex art.
409 c.p.p152. In tal caso, si deve ritenere che se il procedimento si riavvia in una
nuova sede, la condizione di procedibilità prevista dall’art. 414 c.p.p. non sortisce
più alcun effetto153 a prescindere dal fatto che poi gli atti tornino al primo ufficio.
Sostenere,
al
contrario,
la
sussistenza
dell’effetto
preclusivo
dell’archiviazione e la necessità, quindi, di ottenere un provvedimento di
autorizzazione alla riapertura delle indagini porterebbe a conseguenze paradossali.
Infatti, se il trasferimento del procedimento avviene durante le indagini, può
accadere, ad esempio, che il g.i.p. non autorizzi la richiesta ex art. 414 c.p.p. In
questo caso il procedimento rimarrebbe irrimediabilmente pendente: vale a dire
iscritto come notizia di reato nell’apposito registro in una sede, ma privo di un
soggetto legittimato a chiudere le indagini dopo il trasferimento in altra sede154.
La Corte di Cassazione, nella sentenza Giuliani, ha giustificato la sua interpretazione “limitante”
dell’effetto preclusivo dell’archiviazione affermando che è impossibile per il pubblico ministero
venire a conoscenza delle precedenti archiviazioni, poiché non esiste un registro accessibile a tutti
sulle notizie di reato. Se si sfrutta tale argomento, ben si potrebbe dire che quando il processo arrivi
nuovamente alla sede in cui era stato archiviato, l'ufficio d'accusa potrebbe conoscere tale
precedente, e pertanto scatterebbe l'effetto preclusivo.
153
Così APRATI, Efficacia preclusiva locale del provvedimento di archiviazione, in Dir. Pen. e
Proc., 2011, 4, 422.
154
Nel caso in cui, poi, il trasferimento avvenga dopo l'esercizio dell'azione penale, la questione si
complicherebbero ulteriormente. Da una parte si ha l'azione penale esercitata legittimamente dal
pubblico ministero "incompetente"; dall'altra l'azione penale che diviene improcedibile nella sua
sede di competenza, a causa del vincolo preclusivo della precedente archiviazione. Ne deriverebbe
un paradosso.
152
40
La Corte di cassazione, con la suddetta sentenza Giuliani155, non ha solo
circoscritto l’operatività dell’effetto preclusivo dell’archiviazione ad un unico
organo inquirente. La pronuncia, infatti, afferma anche che l’ostacolo procedurale
riguarda, esclusivamente, l’apertura delle indagini sullo stesso fatto, intendendosi,
così, la notitia criminis che presenta il medesimo contenuto di quella archiviata156.
Il giudice, quindi, attraverso l’analisi degli elementi essenziali costitutivi del
reato è chiamato a svolgere un confronto tra il fatto oggetto dell’archiviazione e
quello posto a fondamento della nuova richiesta. In particolare, il giudice deve
valutare la condotta del soggetto, nella sua natura attiva o omissiva, l’evento, inteso
come modificazione del mondo esterno e il nesso causale tra i due elementi
richiamati157. L’identità tra i due fatti, inoltre, deve riguardare le persone coinvolte
nell’indagine archiviata, anche se il loro nome non è stato precedentemente iscritto
nel registro delle notizie di reato158. Ove vi sia disomogeneità tra uno o più elementi
155
Cass., Sez. Unite, sent. 24 giugno 2010, Giuliani, cit.
Trib. Vercelli, ord. 3 dicembre 1992, Barisone, in Giur. It., 1993, 639, afferma che “ il decreto
di riapertura delle indagini preliminari è necessario soltanto per il compimento di nuove
investigazioni nell’ambito del medesimo procedimento già archiviato, ma non anche per lo
svolgimento delle indagini relative al diverso procedimento instauratosi a seguito di una successiva
notizia di reato riguardante lo stesso fatto.” Ciò poiché l’art. 414, comma 2, c.p.p. contempla una
“nuova” iscrizione della notizia di reato che “non avrebbe senso in presenza di una successiva
notizia di reato (diversa da quella archiviata)”.
157
Parametri tracciati nella sentenza Finocchiaro, Cass., sez. un., 20 marzo 2000, la quale riprende i
criteri elaborati in precedenza da Cass., sez. I, sent. 11 giugno 1996, Morici, ove si affermava che
la verifica si incentra sul contenuto della notitia criminis, ovvero sulla identità o meno delle
componenti oggettive del fatto reato, e non sull’identità della notizia di reato.
158
L’efficacia preclusiva del provvedimento di archiviazione contro ignoti (art. 415 c.p.p.) è
discussa. Nella giurisprudenza della Corte di Cassazione v. Sez I, sent. 1 ottobre 1996, Palumbo, in
Cass. Pen., 1997, 2773, in cui si ritiene che anche l’archiviazione contro ignoti si configura come
ostacolo per la riapertura di una indagine in ordine alla medesima notizia di reato. L’opinione
opposta è sostenuta da Cass., Sez I, sent. 14 marzo 1997, Giordano, ivi, 2771.
156
41
identificativi non sarà necessario alcun provvedimento autorizzativo da parte del
g.i.p159.
Ai fini di una precisa delimitazione dell’efficacia preclusiva del decreto di
archiviazione resta da analizzare lo scenario delle nuove indagini svolte dal p.m. ai
sensi dell’articolo 414 c.p.p.
La riapertura della fase preliminare del procedimento archiviato non può
avvenire in seguito ad una mera rivalutazione degli elementi precedentemente
acquisiti poiché “un ordinamento che imponesse all’attività inquirente del p.m.
cadenze e limiti temporali rigorosi, soggetti a controlli giurisdizionali, e poi gli
consentisse di riaprire indagini concluse con il provvedimento di archiviazione,
secondo sue insindacabili propensioni, entrerebbe in contraddizione con se
stesso”160.
Interpretando la previsione dell’art. 414 c.p.p. come uno strumento per
colmare le lacune investigative ascrivibili all’inerzia dell’accusa161 la dottrina
maggioritaria162 ritiene, comunque, che nelle nuove investigazioni rientrino anche
gli elementi probatori che avrebbero potuto essere assunti in precedenza dal p.m.
CARLI, Preclusione e riapertura delle indagini preliminari nell’art. 414 c.p.p., in Giur. It.,
1993, 642.
160
Così GIOSTRA, L’Archiviazione, cit. V. anche Corte Cost., sent. 12 gennaio 1995, n. 27, cit., per
cui una mera rivalutazione degli elementi già acquisiti al procedimento “comporterebbe la
violazione delle norme caducative di cui all’art. 407 c.p.p., circa i termini di durata massima delle
indagini preliminari”.
161
In nome del principio di obbligatorietà dell’azione penale previsto dall’articolo 112 Cost. Contra
v. CAPRIOLI, Archiviazione della notizia di reato e successivo esercizio dell’azione penale, cit.,
1380, per il quale “Accogliendo la richiesta di archiviazione, e rinunciando ad avvalersi della
facoltà che gli attribuisce l’art. 409 comma 4 c.p.p., il giudice per le indagini preliminari non
dichiara solo l’infondatezza della notizia di reato, ma riconosce anche la completezza rebus sic
stantibus delle indagini svolte.” Non richiedere l’esistenza di un quid novi per riaprire le indagini,
dunque, sarebbe illogico.
162
Tra cui LOZZI, Lezioni di procedura penale, cit., 395.
159
42
Un ulteriore problema relativo all’efficacia preclusiva dell’archiviazione
concerne il caso in cui le “nuove investigazioni” poste in essere dal p.m.
successivamente alla legittima riapertura delle indagini preliminari, si rivelino
probatoriamente insignificanti. In tale ultima ipotesi, secondo una lettura garantista
dell’art. 414 c.p.p.163, il provvedimento di archiviazione deve conservare la propria
efficacia ostativa. Non essendo, infatti, mutato il quadro probatorio, mancano i
presupposti per il riacquisto del potere di azione del pubblico ministero. Se il p.m.
potesse richiedere liberamente il rinvio a giudizio sulla base dei medesimi elementi
precedentemente ritenuti non idonei a sostenere l’accusa, l’effetto preclusivo
dell’archiviazione diventerebbe una garanzia del tutto fittizia per l’indagato164.
CAPRIOLI, Archiviazione della notizia di reato e successivo esercizio dell’azione penale, cit.,
1380.
164
Per CAPRIOLI, Archiviazione della notizia di reato e successivo esercizio dell’azione penale, cit.,
1383, aderendo a tale interpretazione, tuttavia, si corre il rischio di garantire al soggetto il cui
procedimento è stato archiviato un trattamento più favorevole di quello riservato al soggetto
prosciolto ex art. 425 c.p.p, in violazione dell’art. 3 Cost. Dopo la revoca della sentenza di non
luogo a procedere, infatti, il p.m. non è soggetto ad alcuna preclusione circa il nuovo esperimento
dell’azione penale. Così KOSTORIS, voce Revoca della sentenza di non luogo a procedere, in Enc.
Dir., XL, Milano, 1989, 289. Contra anche SAMMARCO, La richiesta di archiviazione, Milano,
1993, 344 ss. L’Autore, infatti, afferma che “Una volta che le indagini siano state riaperte, il
pubblico ministero non necessariamente dovrà procedere all’acquisizione di ulteriori elementi a
carico dell’indagato, ma potrà legittimamente esercitare l’azione penale anche sulla base degli
stessi elementi in precedenza ritenuti insufficienti a sostenere l’accusa in giudizio, e quindi posti a
fondamento della richiesta di archiviazione, purché li abbia rivalutati in chiave accusatoria”.
163
43
2.2 Le ricadute dell’archiviazione sul trattamento processuale dell’ex
indagato
Il trattamento processuale dell’indagato destinatario di un provvedimento di
archiviazione assume particolare rilievo nell’ambito della prova testimoniale.
Infatti, l’efficacia preclusiva dell’art. 414 c.p.p. sulla riapertura delle indagini
conferisce al provvedimento in esame un grado di stabilità che, facendo “cessare
ogni immanenza procedimentale nei confronti del soggetto interessato” 165, ha
portato parte della giurisprudenza166 a considerare l’ex indagato testimone comune
nel procedimento per un reato connesso o collegato167. Tale ultima ricostruzione
comporta rilevanti problemi di coerenza sistemica con evidente sacrificio del diritto
al silenzio, corollario fondamentale del diritto di difesa168.
La questione169 dello status da attribuire all’indagato connesso o collegato
qualora nei suoi confronti sia stata disposta l’archiviazione è legata ad una lacuna
165
Così Cass. pen., Sez. un., sent. 17 dicembre 2009, De Simone, in Cass. pen., 2010, 2583 ss.
V., tra gli altri, Trib. Fermo, 11 febbraio 2003, in Arch. nuova proc. pen., 2003, 145; Corte App.
Milano, Sez. III, ord. 5 febbraio 2003, in Foro ambr., 2003, 323; Trib. Messina, 9 luglio 2002, R.A.
ed altri, in Giur. merito, 2003, 750; Trib. Foggia, 21 febbraio 2002, Taricone, ivi, 2002, 464; Corte
App. Roma, 26 agosto 1999, in Temi rom., 2000, n. 1, II, 289; Trib. Fermo, 20 aprile 1999, Bonora,
in Arch. nuova proc. pen., 1999, 412; Trib. Perugia, 29 marzo 1996, Capponi, in Rass. giur. umbra,
1996, 480;
167
Commenta CONTI, Le sezioni unite ed il silenzio della Sfinge: dopo l’archiviazione l’ex
indagato è testimone comune, in Cass. Pen., 2010, 2601, che l’interpretazione, a ben vedere,
fondandosi sulla teoria della irrevocabilità sostanziale del provvedimento di archiviazione,
“configurerebbe una incompatibilità a testimoniare “a fisarmonica”, suscettibile di allargamenti o
restrizioni a seconda dell’interpretazione del caso concreto unita ad una valutazione prognostica (e
talora profetica) circa l’acquisibilità futura di altre prove. Il tutto, ovviamente, al di là di
qualsivoglia aggancio normativo espresso nella disciplina di riferimento”.
168
In questo senso CENTORAME, Effetti preclusivi dell’archiviazione, in Il principio di preclusione
nel processo penale, cit., 137.
169
In dottrina v. GIANNUZZI, Dichiarazioni dell’indagato nei cui confronti sia stata pronunciata
archiviazione: incompatibilità con l’ufficio di testimone? Annosa questione mai risolta, in Cass.
Pen., 2005, 2233. TETTO, Capacità di testimoniare e garanzie difensive del “dichiarante”: la
difficile collocazione processuale dell’esame del testimone/indagato per un reato probatoriamente
collegato destinatario di un provvedimento di archiviazione, in Arch. Nuova proc. Pen., 2003, 307.
166
44
dell’ordinamento legislativo. La legge 63 del 2001170, infatti, modificando la
materia dell’incompatibilità a testimoniare ha introdotto, con l’art. 197bis c.p.p., la
figura del testimone assistito ridefinendo, in tal modo, le tradizionali posizioni
soggettive del testimone comune e delle persone di cui all’art. 210 c.p.p. L’art.
197bis c.p.p., tuttavia, non specifica quale deve essere la sorte delle dichiarazioni
fornite dal destinatario di un provvedimento di archiviazione.
La questione, così, è rimessa nelle mani della giurisprudenza di legittimità.
Secondo un primo indirizzo171, prevalente sia in dottrina che nelle pronunce
della Corte di Cassazione fino al 2009172, i soggetti de quibus possono essere
equiparati agli imputati con procedimento pendente. Ciò significa che l’ex indagato
si trova in una posizione di incompatibilità assoluta con l’ufficio di testimone nel
procedimento contro un soggetto coimputato nel medesimo reato o in processo
connesso a norma dell’art. 12, lettera a) c.p.p.
L’assunzione delle dichiarazioni di tale categoria di soggetti avviene secondo
le modalità dell’esame previsto dall’art. 210 c.p.p. con la possibilità di non
FANULI-LAURINO, Incompatibilità a testimoniare e archiviazione dopo la legge sul c.d. giusto
processo: un nodo apparentemente irrisolto, in Cass. Pen., 2002, 3937.
170
Legge 1 marzo 2001, n. 63, recante “Modifiche al codice penale e al codice di procedura penale
in materia di formazione e valutazione della prova in attuazione della legge costituzionale di
riforma dell'articolo 111 della Costituzione”.
171
In questo senso AMODIO, Giusto processo, diritto al silenzio e obblighi di verità dell’imputato
sul fatto altrui, in Cass. pen., 2001, 3587; APRILE-SILVESTRI, La formazione della prova penale
dopo le leggi sulle indagini difensive e sul “giusto processo”, Milano, 2002, 225 ss.; BARGIS,
Testimonianza, in Enc. dir., Annali, II, Milano, 2009, 1103; BRICCHETTi, Le figure soggettive della
legge sul giusto processo, in Dir. pen. proc., 2001, p. 1277; CARCANO- MANZIONE, Il giusto
processo. Commento alla legge 1° marzo 2001, n. 63, Milano, 2001, 19 ss.; CONTI, La riduzione
dell’incompatibilità a testimoniare (art. 197 c.p.p.), in Giusto processo. Nuove norme sulla
formazione e sulla valutazione della prova (legge 1° marzo 2001, n. 63), Padova, 2001, 292;
D’ANDRIA, Le nuove qualifiche soggettive create dalla l. n. 63 del 2001 e la riforma dell’art. 64
c.p.p., in Cass. pen., 2002, 856; DANIELE, Lacune della disciplina sulla testimonianza assistita, ivi,
2005, 719; FERRUA, Il “giusto processo”, cit., 176; MOROSINI, Il “testimone assistito” tra
esigenze del contraddittorio e tutela contro l’autoincriminazione (art. 197-bis c.p.p.), cit., 315.
172
Cass. pen., Sez. un., sent. 17 dicembre 2009, De Simone, in Cass. pen., cit. ha comportato un
netto cambiamento di posizione.
45
rispondere e senza l’obbligo, al contrario penalmente sanzionato, di dire la verità.
Qualora si tratti, invece, di procedimento connesso in base all’art. 12 c) c.p.p. o
collegato secondo l’art. 371 b) c.p.p., nell’ipotesi in cui il soggetto abbia reso
dichiarazioni che riguardano la responsabilità di altri, trova applicazione la
disciplina sulla testimonianza assistita prevista dall’art. 197 bis c.p.p173.
Quest’ultima posizione si fonda sul principio del nemo tenetur se detegere174
che, in tale circostanza, deve essere letto nella sua interpretazione più estensiva.
La possibilità di riaprire le indagini con l’autorizzazione del g.i.p., infatti, fa
sorgere il rischio che le dichiarazioni del soggetto destinatario dell’archiviazione
vengano utilizzate ai fini della richiesta prevista dall’art. 414 c.p.p., con evidente
pregiudizio per il testimone.
La limitata portata preclusiva dell’archiviazione rispetto a quella del ne bis in
idem, che a norma dell’art. 649 c.p.p. tutela i provvedimenti definitivi menzionati
dall’art. 197 c.p.p. per limitare i casi di incompatibilità a testimoniare, rende,
dunque, il provvedimento di cui all’art. 409 c.p.p. instabile. L’incertezza
processuale che ne deriva comporta l’esigenza di maggior tutela nei confronti del
testimone “archiviato” 175.
173
In questo senso, tra le numerose pronunce, v. Cass. pen., Sez. VI, sent. 7 ottobre 2008, Russo, in
C.E.D. Cass., n. 242386; Cass. pen., Sez. II, sent. 9 luglio 2008, Manticello, ivi, n. 241298; Cass.
pen., Sez. II, sent. 10 aprile 2008, Dell’Utri, in Cass. pen., 2009, 3941; Cass. pen., Sez. III, sent. 8
giugno 2007, Pontoriero, in Giur. it., 2008, 450; Cass. pen., Sez. V, sent. 15 marzo 2007, Grimaldi,
in Cass. pen., 2008, 1987; Cass. pen., Sez. VI, sent. 1° febbraio 2005, Gilbo, ivi, 2006, 3710; Cass.
pen., Sez. IV, sent. 19 febbraio 2004, Cagnino, ivi, 2005, 2038 (con espressi richiami ai contenuti
della ord. n. 76 del 2003); Cass. pen., Sez. II, sent. 15 maggio 2003, Scumaci, in C.E.D. Cass., n.
226279.
174
V. GREVI, Nemo tenetur se detegere, Milano, 1972.
175
Così TODARO, Chiaroscuri in tema di incompatibilità con l’ufficio di testimone in caso di
archiviazione e di non luogo a procedere, in Cass. Pen., 2011, 409.
46
Un secondo orientamento giurisprudenziale176, minoritario, ha equiparato la
posizione dell’imputato per il quale è stata disposta l’archiviazione a quella
dell’imputato giudicato con sentenza irrevocabile ammettendone sempre l’esame
nelle forme della testimonianza assistita177.
Tale ultima tesi muove dalla critica della funzione di garanzia nei confronti
dell’autoincriminazione attribuita all’art. 197 c.p.p. La norma citata, al contrario,
viene interpretata come mero divieto probatorio preordinato ad assicurare
l’attendibilità e la genuinità della prova. Il principio del nemo tenetur se detegere,
secondo tale indirizzo, è tutelato dagli artt. 198, comma 2, e 63 c.p.p., che, da soli,
fanno venir meno la ragione sostanziale per estendere l’incompatibilità a
testimoniare a coloro che sono destinatari di un provvedimento di archiviazione. Il
testimone, infatti, non può essere costretto a deporre su fatti dai quali potrebbe
emergere una propria responsabilità penale178, a prescindere dalla sua posizione
processuale.
176
V. Cass. pen., Sez. V, sent. 12 novembre 2008, Tanzarella Belvedere e altro, in C.E.D. Cass., n.
242004; Cass. pen., Sez. V, sent. 25 settembre 2007, Costanza, in Cass. pen., 2008, p. 2812; Cass.
pen., Sez. VI, sent. 28 febbraio 2007, Simonetti, ivi, 2008, 1490. Così FANULI, La prova
dichiarativa nel processo penale, Torino, 2007, 42 ss.
177
La normativa che consente ai soggetti definitivamente giudicati di assumere la qualità di
testimoni nei procedimenti connessi o collegati non ancora definiti richiama la rule relativa alla
completition of proceedings vigente nel sistema britannico. Il coimputato in un procedimento
separato diventa testimone d’accusa (competent witness) sul fatto addebitato all’imputato soltanto
se la sua posizione sia stata definita con un proscioglimento, con una condanna, con una decisione
a seguito di un plea of guilty o con un nolle prosequi del Procuratore generale. Qualora, invece, sia
ancora pendente il suo procedimento per il medesimo fatto, l’accomplice non può diventare
testimone a carico dell’imputato, per evitare che con la propria deposizione alteri la verità dei fatti,
in vista del conseguimento di particolari benefici personali. Cfr. CARR-BEAUMONT, Law of
Evidence, Londra, 1996, 31. La disciplina dell’acquisizione delle dichiarazioni del co-accused
risale al Criminal Evidence Act del 1898 (Section 1, lett. f), comma 3) ed è rimasta invariata anche
dopo il Criminal Justice Act del 2003.
178
Art. 63, comma 1, c.p.p.
47
In questo contesto sono intervenute le Sezioni Unite della Corte di
Cassazione179, affermando che l’indagato nei cui confronti sia stato emesso
provvedimento di archiviazione può essere sentito come testimone comune. La
pronuncia muove dall’importanza del diritto al silenzio quale corollario del
costituzionale diritto di difesa. Quest’ultimo diritto, tuttavia, presuppone che vi sia
un’accusa
da
cui
“difendersi”
la
quale,
appunto,
può
ravvisarsi
solo
nell’imputazione a seguito dell’azione penale.
L’archiviazione, invece, è una iniziativa esattamente antitetica all’esercizio
dell’azione e, dunque, fa cessare nei confronti della persona interessata ogni
esigenza di tutela difensiva180.
Inoltre, la riapertura delle indagini, a parere della Corte, costituisce una
eventualità “sostanzialmente assimilabile, e anzi probabilisticamente inferiore a
quella della possibile apertura nei confronti di qualsiasi altro soggetto”181, motivo
per cui è sufficiente la garanzia generale contro l’autoincriminazione prevista
dall’art. 198, comma 2, c.p.p.
La richiamata pronuncia, tuttavia, pare porsi in contrasto con il principio di
uguaglianza sancito dall’art. 3 Cost. Infatti, mentre il contributo probatorio della
persona assolta con sentenza irrevocabile rientra nell’ambito della testimonianza
assistita anche se già di per sé tutelata dal ne bis in idem, il soggetto “archiviato”
179
Cass. pen., Sez. un., sent. 17 dicembre 2009, De Simone, in Cass. pen., cit.
A ben vedere, sguarnire di garanzie la fase delle indagini preliminari è in netta controtendenza
rispetto al progressivo aumento delle formalità, del peso e della rilevanza di tale momento
procedimentale che ha caratterizzato in modo sempre più netto l’evoluzione del processo penale a
partire dagli ultimi anni ’90. In questo senso CONTI, Le sezioni unite ed il silenzio della Sfinge:
dopo l’archiviazione l’ex indagato è testimone comune, cit., 2603.
181
Cass. pen., Sez. un., sent. 17 dicembre 2009, De Simone, in Cass. pen., cit.
180
48
depone senza l’assistenza di un difensore correndo, così, il rischio di vedere riaperto
il procedimento a proprio carico182.
Invero, una coerente interpretazione dell’art. 12 disp. prel. induce a ritenere
applicabile il regime dell’incompatibilità a testimoniare prevista dall’art. 197 c.p.p.
solo ai soggetti che attualmente rivestono la qualità di imputato o, in forza della
clausola generale dell’art. 61 c.p.p.183, di persona sottoposta a indagini preliminari.
L’avvenuta archiviazione, dunque, spezza il collegamento interpretativo con le
norme di garanzia previste a favore dei soggetti imputati184.
Un ulteriore argomento impiegato dalle Sezioni Unite 185 per escludere la
persona destinataria di un provvedimento di archiviazione dal novero dei soggetti
che non possono assumere l’ufficio di testimone si fonda sui rapporti che
intercorrono tra gli artt. 196 e 197 c.p.p. Quest’ultima disposizione, infatti, viene
interpretata come deroga alla regola generale dell’art. 196 c.p.p. che sancisce il
potere-dovere in capo ad ogni individuo di testimoniare186.
Al riguardo si è evidenziata l’inidoneità dell’art. 63 c.p.p. ad impedire, in concreto, l’ipotetica
riapertura delle indagini: le dichiarazioni contra se rese, in quanto “tracce” di indagini, seppur non
utilizzabili direttamente nei confronti del dichiarante, potrebbero, tuttavia, integrare l’esigenza
delle nuove investigazioni richieste dall’art. 414 c.p.p.
183
L’art. 61 c.p.p. estende all’indagato ogni disposizione relativa all’imputato, salvo che sia
diversamente stabilito.
184
Cass. pen., Sez. un., 17 dicembre 2009, De Simone, in Cass. pen., cit.
185
Cass. pen., Sez. un., 17 dicembre 2009, De Simone, in Cass. pen., cit
186
Il principio trae le sue origini dall’art. 2 Cost. relativo ai doveri di solidarietà sociale, e dall’art.
111 Cost., i cui commi 2 e 3 riconoscono il diritto a confrontarsi con l’accusatore e il principio del
contraddittorio nella formazione della prova. In questo senso FANULI-LAURINO, Incompatibilità a
testimoniare e archiviazione dopo la legge sul c.d. giusto processo: un nodo apparentemente
irrisolto, cit., 3951.
182
49
Così, dalla natura eccezionale della previsione dell’art. 197 c.p.p. deriva il
divieto di estensione analogica187 della norma e, quindi, la tassatività delle ipotesi
che escludono l’obbligo di deporre.
L’archiviazione, che non è espressamente prevista dall’art. 197 c.p.p., non
rientra, dunque, nei provvedimenti conclusivi del processo che fanno sorgere
l’incompatibilità a testimoniare.
Tale ultima conclusione, tuttavia, non convince la dottrina188. Da un punto di
vista prettamente dogmatico, infatti, tra l’art. 196 e 197 c.p.p. non vi è un rapporto
“regola generale-deroga”, essendo la capacità e la compatibilità a testimoniare
concetti ben distinti. La prima situazione giuridica indica l’idoneità di un soggetto
ad assumere, astrattamente, la veste di testimone in relazione a qualsivoglia vicenda
procedimentale. L’incompatibilità, invece, riguarda il soggetto che, pur essendo
capace, a causa della posizione assunta o dell’attività già esercitata in quel
medesimo procedimento è privo di legittimazione a deporre in relazione a un
determinato processo189.
Nel caso specifico dell’art. 197 c.p.p. il legislatore ha privato determinati
soggetti della legittimazione e testimoniare in base a due ordini di ragioni. Il primo
è la salvaguardia della validità gnoseologica dell’accertamento dei fatti,
scongiurando “il rischio di una deposizione inficiata da uno scarso tasso di
L’art. 14 delle preleggi esclude l’applicazione analogica delle norme eccezionali. Ponendosi
come deroga rispetto alla disciplina generale, le disposizioni speciali non possono essere estese a
soggetti, casi, luoghi e tempi non esplicitamente contemplati dalla lettera della norma. MARTINO,
L’incompatibilità a testimoniare: problemi vecchi e nuovi, in Ind. pen., 2002, 1037.
188
V., tra gli altri, TODARO, Chiaroscuri in tema di incompatibilità con l’ufficio di testimone in
caso di archiviazione e di non luogo a procedere, cit., 414.
189
Così TODARO, Chiaroscuri in tema di incompatibilità con l’ufficio di testimone in caso di
archiviazione e di non luogo a procedere, cit., 414. Sull’argomento v. anche CONSO, voce
Capacità processuale penale, in Enc. Dir., VI, 1960, 138 ss.
187
50
attendibilità a causa del conflitto tra dovere di dichiarare il vero e interesse a non
edere contra se”190. Il secondo è l’intento di tutelare il diritto al silenzio, correlato al
principio del nemo tenetur se detegere, e di impedire l’autoincriminazione di un
soggetto coimputato o imputato in un procedimento connesso a norma dell’art. 12
c.p.p. o per un reato collegato secondo l’art. 371, comma 2, lett. b).
In conclusione, sia che l’ex indagato per il quale è stata disposta
l’archiviazione venga considerato un testimone comune, sia che nei suoi confronti si
estenda l’incompatibilità a deporre prevista dall’art. 197 c.p.p., vi è il rischio che il
sistema processuale degeneri in prassi giuridicamente inaccettabili.
Volendo sostenere la tesi del testimone comune, infatti, appare illegittima la
diversità del grado di tutela assicurato dalla legge al soggetto irrevocabilmente
giudicato rispetto a quello “archiviato”, che, anzi, stante la natura precaria del
provvedimento di cui all’art. 409 c.p.p. necessiterebbe di maggiori garanzie.
Dall’altra parte, però, non è ipotizzabile un meccanismo che, ad esempio,
consenta ad un soggetto indagato di sminuire, discrezionalmente, il valore
probatorio delle deposizioni accusatorie del querelante191. Infatti, in base all’art. 192
e al comma 6 dell’art. 197 bis c.p.p. le dichiarazioni rese dal coimputato del
medesimo reato, da persona imputata in un procedimento connesso o dal testimone
assistito
sono
assoggettate
all’obbligo
di
riscontri
che
ne
confermino
l’attendibilità192. Dunque, se si ritiene che al soggetto “archiviato” spetti una
TODARO, Chiaroscuri in tema di incompatibilità con l’ufficio di testimone in caso di
archiviazione e di non luogo a procedere, cit., 413.
191
Cfr. CONTI, Le sezioni unite ed il silenzio della Sfinge: dopo l’archiviazione l’ex indagato è
testimone comune, cit., 2595.
192
La giurisprudenza di legittimità ha tentato in più occasioni di stabilire il quantum di riscontri
necessario in relazione alla qualifica del dichiarante. Si veda Cass, sez V, 10 aprile 2006,
Brancatelli e altri, in Guida dir., 2006, 95. Alcuni giudici di merito hanno prospettato, infatti, che la
190
51
qualifica diversa da quella di teste comune, sarà sufficiente una strumentale controquerela da parte dell’imputato per rendere l’accusante imputato in procedimento
collegato e limitare, così, il libero convincimento del giudice.
qualifica di testimone assistito, con il relativo obbligo di verità, rendesse meno pregnante la
necessità del riscontro delle dichiarazioni; cfr. Ass. Palermo, 18 aprile 2007, in Giur. Merito, 2008,
2607. In dottrina MARCIANÒ, La concreta incidenza dell’obbligo di verità al carico del
dichiarante: un criterio essenziale per la valutazione del contenuto probatorio delle dichiarazioni
rese, in Arch. Nuova proc. Pen., 2008, 595.
52
2.3 I poteri del pubblico ministero in seguito alla regressione del
procedimento penale
L’art. 50, comma 3 c.p.p. prevede che l’esercizio dell’azione penale “può
essere sospeso o interrotto soltanto nei casi espressamente previsti dalla legge”.
Tale disposizione sancisce il principio dell’irretrattabilità dell’azione penale che
deve progredire “senza soste”193 fino alla conclusione del processo, uscendo, così,
una volta esperita, dal potere discrezionale del pubblico ministero194.
Il concetto di irretrattabilità, corollario dell’obbligatorietà dell’azione penale,
e’, al tempo stesso, strettamente collegato al principio di non regressione del
processo195. Quest’ultimo, infatti, preclude la retrocessione del procedimento penale
ad una fase antecedente che si è validamente conclusa196.
Così GALLUZZO, Commento all’art. 50 c.p.p., in Codice di Procedura Penale, a cura di
Lattanzi-Lupo, Milano, 2013, 987.
194
Tale vincolo non va inteso in senso assoluto. Infatti, è certamente non consentito al p.m.
revocare l’azione penale precedentemente esperita chiedendo l’archiviazione degli atti. Nulla osta,
però, a che il pubblico ministero , dopo la formulazione dell’imputazione, si determini a richiedere
l’emissione di una sentenza di proscioglimento. Il principio di irretrattabilità è salvo, poiché sulla
domanda dell’accusa interviene pur sempre la pronuncia del giudice. Così AMATO, La legittima
regressione del procedimento svincola dall’irretrattabilità dell’azione penale, in Guid. Dir., 2003,
79. Di opinione contraria Cass., sez. I, sent. 9 dicembre 1999, Hyseni, secondo cui, una volta
intervenuti la richiesta di rinvio a giudizio o il decreto di citazione, il p.m. non potrebbe più
chiedere l’archiviazione né, tanto meno, la sentenza di proscioglimento, ostandovi il principio di
irretrattabilità dell’azione penale.
195
Il principio di non regressione appare ancora più accentuato nel codice vigente rispetto al codice
abrogato, stante la netta distinzione tra procedimento e processo (individuata dall’esercizio
dell’azione penale), posto che tutta la fase delle indagini preliminari precede l’esercizio dell’azione
penale. Per tale ragione apparirebbe ancora più assurda la retrocessione ad una fase precedente
successivamente ad un valido esercizio dell’azione. La maggiore importanza acquisita dal principio
di non regressione emerge, altresì, dal rilievo che si è ulteriormente ridotto il numero delle
eccezioni di tale principio nella fase dibattimentale. Nel codice abrogato, tra le altre, un’eccezione
certa al principio in commento era data dall’art. 504 c.p.p. in virtù del quale il giudice, chiudendo il
dibattimento introdotto con il rito direttissimo, poteva disporre che si procedesse con istruzione
formale. Così LOZZI, Lezioni di procedura penale, cit., 584, che individua nell’art. 521, comma 2,
l’unica eccezione al principio di non regressione nel “nuovo” codice procedurale. La norma
prevede che il giudice accertando la diversità del fatto (rispetto a quello indicato nell’imputazione)
emersa nel dibattimento, disponga la trasmissione degli atti al pubblico ministero. La
giurisprudenza della Corte di cassazione ha affermato che la regressione del procedimento, nel
193
53
Tuttavia, nonostante la vigenza di tale principio all’interno dell’ordinamento,
vi sono circostanze in cui il procedimento retrocede legittimamente. Ciò avviene, ad
esempio, nei casi tassativi in cui l’esercizio dell’azione penale è invalido197 o
comunque viziato198, ovvero allorché ricorrono condizioni che impediscono, ex lege
o in virtù di legittimo apprezzamento del giudice, l’ulteriore corso del processo199.
In tali situazioni, l’organo giudicante è tenuto a restituire gli atti al p.m.
determinando, così, un ritorno alla fase delle indagini preliminari.
Una volta regredito il procedimento, la dottrina si interroga su quale potere
effettivamente spetti al pubblico ministero che si vede trasmessi gli atti dal giudice.
senso di ritorno dalla fase del dibattimento a quella delle indagini preliminari, non è di per sé una
circostanza inaccettabile. Se l’atto del giudice è espressione di un potere riconosciuto
dall’ordinamento, infatti, si è in presenza di un regresso “consentito”, anche se i presupposti che ne
legittimano l’emanazione siano ritenuti sussistenti in modo errato. In materia, rileva CONTI, La
preclusione nel processo penale, cit., 92, “Al rafforzamento del principio di non regressione ha
contribuito indirettamente la giurisprudenza in materia di computo dei termini di custodia cautelare
in caso di arretramento procedimentale. Come è noto l’art 303, comma 2 c.p.p. stabilisce che, in
tale ipotesi, i termini intermedi decorrono di nuovo relativamente a ciascuno stato e grado del
procedimento dalla data del provvedimento che dispone il regresso. All’evidenza dell’ipotesi in
oggetto si pone l’esigenza di determinare il termine finale che risulta comunque insuperabile, pena
la scarcerazione automatica del detenuto. A seguito di accesi contrasti tra la Cassazione e la Corte
Costituzionale, quest’ultima ha dichiarato illegittima la norma appena ricordata nella parte in cui
non prevede che, in caso di regressione ad una fase precedente, il termine ultimo è quello finale
intermedio relativo alla fase alla quale il processo è regredito (art. 304, comma 6 c.p.p.). Inoltre, a
parere del Giudice delle leggi, ai fini del computo di tale limite temporale, occorre tenere conto di
tutti i periodi di custodia cautelare “comunque” sofferti nel corso del procedimento e, dunque,
anche anteriormente alla regressione (C. Cost., 22 luglio 2005, n. 299, in Cass. Pen., 2005, 3246).
La Corte Costituzionale, ispirandosi al favor libertatis, ha affermato che “le limitazioni della libertà
connesse alle vicende processuali devono rispettare il principio di proporzionalità, posto che
contrasterebbe con il giusto equilibrio tra le esigenze del processo e la tutela della libertà una
disciplina della detenzione cautelare priva di limiti di durata ragguagliati, da un lato, alla pena
prevista per il reato contestato o ritenuto in sentenza e, dall’altro, alla concreta dinamica del
processo e alle diverse fasi in cui esso si articola”.
196
LOZZI, Lezioni di procedura penale, cit., 583.
197
E’ l’ipotesi, ad esempio, del decreto di citazione nullo per vizi che attengono al decreto stesso e
non, semplicemente, alla sua notificazione.
198
Come nel caso in cui il giudice si ritiene incompetente ex artt. 22 e 23 c.p.p. e ordina la
trasmissione degli atti al pubblico ministero che si trova presso il giudice competente.
199
Si pensi all’ipotesi del decreto penale revocato per irreperibilità del destinatario. O anche al caso
della richiesta di decreto penale respinta perché il giudice, nell’assenza delle condizioni per
pronunciare una sentenza di proscioglimento ex art. 129 c.p.p., ritenga mancante, insufficiente o
contraddittoria la prova ovvero ritenga erronea o insufficiente la pena indicata. V. art. 459, comma
3 c.p.p.
54
L’interpretazione maggioritaria200 sostiene che il magistrato dell’accusa non
sia affatto vincolato nelle proprie scelte potendo egli, liberamente, reiterare
l’esercizio dell’azione penale anche con modalità diverse dalla precedente201,
ovvero richiedere l’archiviazione della notitia criminis. Ciò avviene sia quando il
p.m. destinatario della restituzione degli atti è lo stesso che ha precedentemente
esercitato l’azione, sia quando esso appartiene a un ufficio differente.
Quest’ultima ipotesi si verifica, ad esempio, nel caso in cui il giudice del
dibattimento, che si ritiene incompetente, lo dichiara con sentenza e ordina la
trasmissione del fascicolo al pubblico ministero presso il giudice competente 202. In
tale caso, configurare un vincolo nei confronti del p.m. all’esercizio dell’azione
penale, sulla base di un richiamo al principio di irretrattabilità203, può portare a
conseguenze inaccettabili. Il secondo p.m., infatti, potrebbe trovarsi in presenza di
un quadro probatorio insufficiente o considerare irrilevante il fatto senza, però,
poter chiedere l’archiviazione.
Tra tutti AMATO, La legittima regressione del procedimento svincola dall’irretrattabilità
dell’azione penale, cit., 77.
201
In questo senso specifico v. Cass., sez. I, sent. 10 aprile 2001, De Siena.
202
La Corte Cost., con sent. 11 marzo 1993, n. 76, ha dichiarato illegittimo l’art. 23 c.p.p. nella
parte in cui dispone che quando il giudice del dibattimento dichiara con sentenza la propria
incompetenza per materia, ordina la trasmissione degli atti al giudice competente anziché al p.m.
presso quest’ultimo. Nel 1996, sent. n. 70, ha esteso l’illegittimità anche al caso di incompetenza
per territorio.
203
Come ha dichiarato la Corte di Cass., sez. II, sentenza 10 marzo 1998, Corbelli, secondo cui il
pubblico ministero investito del procedimento da giudice dichiaratosi incompetente è vincolato dal
già intervenuto esercizio dell’azione penale e non può, perciò, richiedere l’archiviazione. In
applicazione del principio di irretrattabilità dell’azione penale la Corte ha rigettato il ricorso del
pubblico ministero con il quale si deduceva l’abnormità del provvedimento del g.i.p. che, ricevuta
la richiesta di archiviazione di una notitia criminis per la quale era già stata esercitata l’azione
davanti al giudice incompetente, aveva restituito gli atti al p.m. ritenendo che a quest’ultimo non
fosse consentita attività diversa dall’emissione di un nuovo decreto di citazione a giudizio.
200
55
Sempre in tema di restituzione degli atti al pubblico ministero, la
giurisprudenza di legittimità204, non senza opinioni contrarie205, ha dichiarato
abnorme206, in quanto estraneo al sistema processuale, il provvedimento del g.i.p.
che respinge la richiesta di archiviazione di un procedimento per cui era stato
precedentemente richiesto il decreto penale di condanna rigettato per incertezza del
quadro probatorio. La trasmissione degli atti al p.m. era stata disposta dal giudice
adducendo il principio di irretrattabilità dell’azione penale, in considerazione del
fatto che l’azione era già stata esercitata207.
A voler seguire l’opzione ermeneutica del giudice “censurato” il p.m. non
potrebbe neanche proseguire le indagini per colmare le lacune probatorie
evidenziate nel rigetto della richiesta di decreto penale. Egli dovrebbe, bensì,
richiedere il rinvio a giudizio sulla base di quegli stessi elementi già ritenuti
204
Cass., sez. V, 14 gennaio 2005, n. 5659. In senso conforme anche Cass., sez. V, 27 novembre
2002, n. 4883, e Cass., sez. V, sent. 19 giugno 2003, n. 26480, in Guida dir., 2003, 75.
205
V., ad esempio, Cass., sez. I, 23 giugno 2009, n. 35185, per la quale la restituzione degli atti al
p.m. in seguito al rigetto della richiesta di decreto penale non giustifica la proposizione della
richiesta di archiviazione, perché presuppone l’avvenuto esercizio dell’azione penale.
206
In tema di provvedimento abnorme e regressione del processo v. anche Cass., sez. un., sent. 20
dicembre 2007, Battistella, in Guida dir., 2008, 11, 60 ss., con nota di LORUSSO, Una scelta di
efficienza processuale che non legittima forzature o abusi. In questa sede i giudici di legittimità
hanno ritenuto abnorme il provvedimento con cui il giudice dell’udienza preliminare, rilevata la
sommarietà e la genericità della descrizione del fatto contenuta nella richiesta di rinvio a giudizio,
ha disposto la restituzione degli atti al pubblico ministero. La Corte di cassazione ha affermato
l’esistenza di un potere-dovere di collaborazione tra il giudice e il pubblico ministero nella
progressiva definizione dell’accusa, vincolata agli indefettibili requisiti della chiarezza e della
precisione. Lo strumento idoneo a tale fine è stato ravvisato nell’art. 423 c.p.p. sulla modifica
dell’imputazione, il che induce a ritenere la restituzione degli atti al p.m. un rimedio decisamente
sproporzionato e lesivo della funzionalità del processo. Tale provvedimento, infatti, come la
declaratoria di nullità dell’azione, comporta una indebita regressione del procedimento in netta
frizione con il principio di irretrattabilità dell’azione penale. In ogni caso le Sezioni Unite hanno
specificato che nell’ipotesi di inerzia del pubblico ministero dinanzi alle pressioni del giudice
quest’ultimo potrà avvalersi del potere di restituzione degli atti nell’ottica di una extrema ratio
finalizzata alla composizione di un conflitto altrimenti insuperabile. Tale rimedio è lecito in base
alla applicazione analogica dell’art. 521, comma 2 c.p.p. che configura un possibile epilogo
dell’udienza preliminare irrimediabilmente afflitta da “un vizio dell’atto imputativo” non altrimenti
emendabile.
207
A detta della Corte, coartare le scelte del p.m. nel senso della riproposizione dell’imputazione
comporta l’instaurazione di processi “bagatellari” ed irragionevoli.
56
inidonei dal giudice nel rito speciale originariamente esperito. Ciò in evidente
contrasto con la regola di cui all’art. 125 disp. att. c.p.p., secondo la quale il p.m. fa
istanza di archiviazione quando ritiene non fondata la notizia di reato per inidoneità
del materiale acquisito a sostenere l’accusa in giudizio208.
La questione dell’estensione dei poteri che residuano in capo al pubblico
ministero in seguito alla regressione del processo è stata più volte affrontata, ad
esempio, in tema di giudizio direttissimo e giudizio immediato. Anche in questi
contesti, la dottrina e la giurisprudenza hanno assunto posizioni contrastanti tra loro.
In base all’art. 60 c.p.p., nelle ipotesi richiamate, l’imputazione è formulata
secondo i presupposti previsti dagli artt. 449 e 453 c.p.p. E’ questo, dunque, il
momento in cui, seguendo i criteri previsti dal codice di rito, l’azione viene
esercitata e il processo, propriamente detto, ha inizio. Ciò nonostante, la richiesta
del p.m. può ancora essere rigettata.
Come previsto, in particolare, dagli artt. 452 e 455 c.p.p. in tema di giudizio
immediato, infatti, il g.i.p., qualora il procedimento speciale risulti promosso “fuori
dai casi previsti”209, dispone, con ordinanza210 irrevocabile211, la restituzione degli
atti al p.m.
Così AMATO, La legittima regressione del procedimento svincola dall’irretrattabilità
dell’azione penale, cit., 78.
209
Art. 452 c.p.p.
210
In realtà nel caso del giudizio immediato, nel silenzio del legislatore, è controverso se il
provvedimento di rigetto e di contestuale restituzione degli atti al p.m. abbia la forma
dell’ordinanza o del decreto. V. MARZO, Giudizio immediato, in La giustizia penale differenziata,
Torino, 2010, 824.
211
Tale provvedimento, in virtù del principio di tassatività dei mezzi di impugnazione e in assenza
di una puntuale previsione di impugnabilità, non è soggetto a gravame. Non è nemmeno prevista la
notifica dello stesso alle parti private, coerentemente con la mancata previsione della notifica della
richiesta stessa.
208
57
A questo punto della vicenda processuale, parte della dottrina212 esclude che
il p.m. possa richiedere l’archiviazione ritenendo che la regressione del
procedimento avviene al solo scopo di consentire il compimento degli atti
indispensabili per la riformulazione, secondo le regole, della richiesta di rinvio a
giudizio. Vi è di più: il magistrato dell’accusa non avrebbe neanche il potere di
completare le indagini preliminari213 inidonee a costituire la prova evidente richiesta
dall’art. 453 c.p.p.214
Secondo tale interpretazione215, la richiesta di archiviazione viola l’art. 112
Cost. L’istanza del p.m., infatti, esprime la volontà di quest’ultimo di ritrattare
l’azione penale esperita con la precedente scelta di giudizio speciale216. Inoltre,
sempre con la richiesta di archiviazione, il pubblico ministero riconosce,
implicitamente, l’infondatezza della notitia criminis, ciò contrastando con
212
Così PAOLOZZI, Profili strutturali del giudizio immediato, in I giudizi semplificati, a cura di
GAITO, Padova, 1989, 233. ILLUMINATI, Il giudizio immediato, in Giust. Pen., 1989, 716.
213
Fatta eccezione delle indagini “integrative, successive alla richiesta di rinvio a giudizio,
indirettamente autorizzate dall’art. 419, comma 3, c.p.p.”. Così ILLUMINATI, Il giudizio immediato,
in Giust. Pen., cit. 716. In ogni caso è preclusa al giudice rimettente la possibilità di sollecitare il
pubblico ministero a compiere ulteriori attività investigative. Tale decisione è prerogativa esclusiva
del p.m. Così PAOLOZZI, Profili strutturali del giudizio immediato, in I giudizi semplificati, cit.,
232.
214
ILLUMINATI, Il giudizio immediato, in Giust. Pen., cit. 716.
215
Secondo ILLUMINATI, Il giudizio immediato, in Giust. Pen., cit. 716, “posto che l’iniziativa del
p.m. diventa inequivocabilmente non più ritrattabile solo nel momento in cui il giudice per le
indagini preliminari accoglie la richiesta di giudizio immediato, sarebbe più logico concludere che
l’azione penale sia in realtà esercitata, e il processo abbia inizio, non con la richiesta, ma al
momento del decreto che dispone il giudizio.” L’Autore ravvisa una conferma di tale impostazione
nel fatto che “la richiesta non viene notificata all’imputato autonomamente, ma insieme al decreto:
quindi anche la conoscenza dell’imputazione viene rinviata al momento in cui il giudizio
immediato è stato ammesso.
216
Cfr. PAOLOZZI, Profili strutturali del giudizio immediato, cit., 233. In proposito NAPPI, Guida al
codice di procedura penale, Milano, 1995, 628, afferma che, qualora si ritenesse che il pubblico
ministero, a seguito della restituzione degli atti, riacquisti il potere di chiedere l’archiviazione, si
introdurrebbe nell’ordinamento un’ipotesi di ritrattabilità dell’azione penale non prevista dalla
legge e perciò difficilmente conciliabile con il principio di obbligatorietà dell’azione penale
previsto dall’art. 112 Cost.
58
l’evidenza della prova che egli stesso aveva addotto come motivazione nella
precedente richiesta di giudizio immediato.
La tesi riportata, tuttavia217, non convince altra parte della dottrina218.
Anzitutto, quest’ultimo orientamento dottrinario219 esclude che la richiesta di
archiviazione configuri una violazione dell’art. 112 Cost. Tale disposizione, infatti,
nel sancire l’obbligatorietà dell’azione impone di “evitare valutazioni di opportunità
nelle determinazioni circa l’esercizio dell’azione penale”, e non anche di portare
avanti i processi “a tutti i costi”.
Precludere, inoltre, al p.m. di integrare le indagini preliminari significa
vanificare lo scopo delle norme che prevedono la restituzione degli atti in tutti i casi
in cui il giudice ritiene che l’azione processuale non è stata validamente esperita.
Ciò assume maggiore rilevanza nell’ipotesi in cui non sia ancora decorso il termine
previsto dall’art. 405 c.p.p.
Secondo la dottrina220, quindi, la regressione del processo alla fase delle
indagini preliminari, che avviene con la restituzione degli atti al pubblico ministero,
lascia impregiudicati i poteri di scelta dell’organo requirente. Il p.m. può, così,
riproporre l’azione nelle forme ordinarie o, se ve ne sono gli estremi, avanzare una
217
Nonostante appaia più aderente al dato letterale delle disposizioni coinvolte. Così MARZO,
Giudizio immediato, cit., 825.
218
V. NAPPI, Guida al codice di procedura penale, cit., 416. MACCHIA, voce Giudizio direttissimo,
in Dig. D. pen., V, Torino, 1991, 541 ss. SELVAGGI, voce Giudizio immediato, ivi, 1994, 559.
RIVELLO, Il giudizio immediato, Padova, 1993, 198.
219
NAPPI, Guida al codice di procedura penale, cit., 416.
220
V. NAPPI, Guida al codice di procedura penale, cit., 416. MACCHIA, voce Giudizio direttissimo,
cit., 541 ss. SELVAGGI, voce Giudizio immediato, cit., 559. RIVELLO, Il giudizio immediato, cit.,
198.
59
nuova richiesta di rito speciale o, ancora, proseguire nelle indagini e chiedere
l’archiviazione221.
Tale ultima impostazione dottrinaria222 risulta maggiormente rispettosa delle
ragioni di economia processuale che hanno spinto il legislatore a prevedere i giudizi
semplificati, le quali non possono essere disattese in sede di interpretazione delle
norme che regolano gli stessi223. Appare irragionevole, poi, ritenere che il pubblico
ministero debba obbligatoriamente chiedere un rinvio a giudizio al solo fine di
ottenere una inevitabile sentenza di proscioglimento qualora, a seguito delle nuove
indagini, l’accusa non sia più sostenibile224.
Inoltre, la richiesta di giudizio semplificato da parte del p.m. può essere
interpretata come fattispecie condizionata225. L’esercizio dell’azione penale, così,
non si perfeziona fino al momento dell’accoglimento dell’istanza stessa. Salvando il
principio di irretrattabilità, ove il giudice abbia rigettato la richiesta l’azione si deve
intendere come mai esercitata226.
221
ZANETTI, Il Giudizio direttissimo, in I procedimenti speciali in materia penale, a cura di PISANI,
Milano, 1997, 407. In questo senso, in ambito diverso, anche Cass., sez III, sent. 7 dicembre 2011,
n. 45708. In tale caso la Corte di Cassazione ha dichiarato che “la restituzione degli atti al p.m. a
seguito della contestazione, in dibattimento, di un fatto diverso da quello descritto nell’imputazione
comporta la regressione del procedimento alla fase delle indagini preliminari, sicché
legittimamente il g.i.p. può disporre, nei presupposti di legge, l’archiviazione per tale fatto.
222
Oltretutto espressamente ammessa dall’art. 436, comma 4, c.p.p. per il caso della riapertura delle
indagini successiva alla revoca della sentenza di non luogo a procedere.
223
Una norma che imponesse un processo fin da subito destinato al proscioglimento dell’imputato,
infatti, comporterebbe un inutile allungamento dei tempi del procedimento penale.
224
In tal senso v. SELVAGGI, voce Giudizio immediato, cit., 559, secondo il quale appare
“incongruo che il p.m. debba chiedere un rinvio a giudizio nel quale egli stesso -a seguito delle
ulteriori indagini espletate- non crede, al solo fine di ottenere una sentenza di proscioglimento”.
225
SELVAGGI, voce Giudizio immediato, cit., 559, parla di “esercizio dell’azione penale sottoposto
alla condizione risolutiva dell’accoglimento della domanda stessa”.
226
La sola istanza di instaurazione del rito speciale da parte del p.m., infatti, non è in grado di
provocare “l’avvio della serie giuridicamente ordinata e necessitata di atti che ha come epilogo
indefettibile la decisione giurisdizionale”. Così DOMINIONI, voce Azione Penale, in Commentario
del nuovo codice di procedura penale, a cura di Amodio-Dominioni, Milano, 1989, 293.
60
Secondo parte della dottrina227 il rito speciale invalidamente richiesto dal
magistrato dell’accusa è sanzionato con la nullità assoluta prevista dagli artt. 178 e
179 c.p.p. per la violazione delle norme inerenti l’esercizio dell’azione penale da
parte del p.m. In realtà, però, non è possibile ricondurre al regime della nullità le
scelte discrezionali dell’organo requirente. Su tale presupposto, infatti, altra parte
della dottrina228 preferisce riportare il caso in esame all’interno dell’istituto
dell’inammissibilità.
L’azione, così come in concreto esercitata, è inammissibile per mancanza
degli specifici presupposti richiesti dall’art. 453 c.p.p. ai fini dell’instaurazione del
giudizio immediato. La richiesta dell’accusa, dunque, deve intendersi come mai
effettuata229.
In conclusione, e in termini più generali, alla luce degli orientamenti
dottrinari richiamati, appare piuttosto corretto affermare che qualora avvenga una
legittima regressione del processo non è ravvisabile, in capo al p.m., alcuna
preclusione circa l’esperimento dei suoi originari poteri in materia di esercizio
dell’azione penale. Il pubblico ministero, dunque, “viene ad essere reinvestito di
tutti i poteri ad esso spettanti”230 e il controllo giurisdizionale del giudice
sull’istanza che segue le nuove determinazioni del magistrato d’accusa deve
prescindere dalla valutazione della precedente restituzione degli atti. Una soluzione
227
DE CARO, Il giudizio direttissimo, Napoli, 1996, 192.
V. NAPPI, Guida al codice di procedura penale, cit., 417.
229
Così MARZO, Giudizio immediato, cit., 826, per la quale, inoltre, “l’azione non può ritenersi
validamente esercitata senza che l’imputato ne sia a conoscenza poiché se il suo esercizio segna il
passaggio dal procedimento al processo, di nessun ingresso nella fase processuale si può parlare se
l’imputato non ne viene quantomeno informato.” Quest’ultima esegesi ha il pregio di non dover
attribuire efficacia preclusiva alla mera restituzione degli atti al p.m. ma è ostacolata dal principio
di tassatività delle invalidità processuali. In questo senso CIARNIELLO, Commento all’art. 452
c.p.p., in Codice di Procedura Penale, a cura di Lattanzi-Lupo, Milano, 2013, 933.
230
Corte Cost., sent. 26 settembre 1990, n. 447, in Giur. Cost., 1990, 2678.
228
61
differente, infatti, determinerebbe conseguenze irragionevoli ed in contrasto con la
coerenza del sistema processuale.
62
2.4 L’eventuale riflesso preclusivo del procedimento incidentale sul
procedimento principale
Nell’ottica della salvaguardia della ragionevole durata del processo e dei
limiti applicativi imposti dalla tutela dei diritti delle parti, lo studio del principio di
preclusione trova terreno fertile nell’ambito del rapporto tra il giudizio incidentale e
il giudizio di merito231.
In particolare, il problema concerne l’efficacia preclusiva, nel procedimento
principale, del giudicato sugli indizi cautelari232. Si tratta, dunque, di comparare la
valutazione provvisoria sulla colpevolezza in sede incidentale e la decisione del
giudice riguardante l’istanza di rinvio a giudizio esperita dal pubblico ministero.
231
V. MENNA, La ragionevole durata del processo in relazione ai sindacati incidentali ed ai
processi cumulativi, in Dir. Pen. e Proc., 2011, 924, DEL COCO, Incidente cautelare e
procedimento principale, in Il principio di preclusione nel processo penale, cit., 35 ss.,
SANTALUCIA, L’incidenza del giudizio cautelare sulle decisioni del merito: brevi note a margine
della sentenza n. 121/2009 della Corte Costituzionale, in Cass. Pen., 2009, 3294 ss. In termini
generali, il rapporto tra procedimento principale ed incidenti è informato ad un principio di
autonomia, o di c.d. minima interferenza. Cfr. CONTI, La preclusione nel processo penale, cit., 369.
D’altro canto, si registrano alcune recenti pronunce che hanno tentato di derogare al principio di
impermeabilità del procedimento principale considerando precluse in tale fase le questioni
concernenti la competenza del giudice e l’inutilizzabilità della prova decise dalla Corte di
cassazione nel corso dell’incidente cautelare. In tema di competenza, la decisione su tale profilo
adottata in sede incidentale resta ferma per tutte le fasi successive del giudizio, salva la
sopravvenienza di fatti nuovi che inducano a riesaminare la determinazione assunta. Così Cass.,
sez. I, sent. 29 aprile 2011, De Vito Piscitelli, in Foro it., 2011, 605, con nota di SILVESTRI, Verso
la semplificazione dei rapporti tra procedimento principale e procedimenti incidentali?. Per ciò
che concerne l’effetto preclusivo della dichiarazione di inutilizzabilità di intercettazioni in sede
cautelare, la Corte di cassazione è giunta ad identiche conclusioni. V. Cass., sez. I, sent. 12 ottobre
2011, Adamo, in Ced 252181.
232
V. SILVESTRI, Opinioni a confronto su preclusioni processuali e ragionevole durata del
processo, cit., 257, “E’ diffusa l’opinione che identifica nella disciplina dei procedimenti relativi
alle misure cautelari personali uno dei fattori più rilevanti dell’appesantimento e della lentezza del
processo penale, contraddistinto dalla esasperata moltiplicazione di procedimenti incidentali,
dall’intreccio talora inestricabile di questi con il procedimento principale e dalla reiterazione delle
questioni di fatto e di diritto che formano oggetto delle decisioni conclusive degli uni e dell’altro:
decisioni cautelari non vincolanti, per giunta, rispetto alla soluzione delle medesime questioni
dibattute nel procedimento principale”.
63
Nella vigenza del vecchio codice il principio di impermeabilità del
procedimento principale agli esiti del cautelare non era messo in dubbio. In un
modello inquisitorio, a causa della natura strettamente sommaria e dell’assenza di
garanzie del rito incidentale, l’applicazione della preclusione al giudizio di merito
avrebbe comportato l’aggiramento di ogni difesa della parte233.
Per lungo tempo, successivamente all’introduzione del “nuovo” codice di
rito, in verità, i rapporti tra i procedimenti sono stati ancora caratterizzati da un alto
grado di autonomia234. Il principio di impermeabilità del giudizio di merito, infatti,
ha un preciso fondamento logico-sistematico. Esso rappresenta il naturale riflesso
dell’impostazione accusatoria del procedimento penale che riserva alla fase
strettamente processuale l’accertamento della responsabilità dell’imputato235.
L’ordinamento risponde, così, ad esigenze di tutela del diritto di difesa del soggetto,
che, di contro, non verrebbero rispettate in una fase a cognizione sommaria e priva
di contraddittorio quale è quella cautelare236.
233
Così IACOVIELLO, Procedimento penale principale e procedimenti incidentali. Dal principio di
minima interferenza al principio di preclusione, cit., 2194.
234
Il grado di autonomia e impenetrabilità del procedimento principale rispetto al procedimento
cautelare è confermato anche dal tenore di alcune norme. Ad esempio, l’art. 278 c.p.p. prevede che
nel procedimento de libertate non assumono rilievo giuridico alcuni elementi (come le circostanze
del reato, la recidiva o la continuazione), di cui il giudice di merito, invece, deve tener conto.
Anche l’art. 432 c.p.p., nel disporre che i provvedimenti cautelari devono essere trasmessi insieme
al fascicolo dibattimentale, indirettamente ne evidenzia l’estraneità rispetto al contenuto del
fascicolo. Così DEL COCO, Incidente cautelare e procedimento principale, in Il principio di
preclusione nel processo penale, cit., 50. V., poi, Cass., sez. unite, 12 ottobre 1993, Durante, in Riv.
It. Dir. Proc. Pen., 1994, con nota di GASTALDO, Sulla persistenza dell’interesse all’impugnazione
dei provvedimenti cautelari revocati, 1610, in cui la Corte affermò l’assoluta autonomia del
procedimento principale, posto al riparo da qualsiasi incidenza delle statuizioni cautelari.
235
Tale impostazione si rinviene anche nell’art. 111 Cost. che, tra i principi del giusto processo,
impone che la prova si formi nel contraddittorio tra le parti, salve le eccezioni previste dal quinto
comma.
236
Cfr. DEL COCO, Incidente cautelare e procedimento principale, cit., 55, e Corte Cost, sent. 24
aprile 2009, n. 121, con nota di SANTALUCIA, L’incidenza del giudizio cautelare sulle decisioni del
merito: brevi note a margine della sentenza n. 121/2009 della Corte Costituzionale, cit., 3294.
Quest’ultima afferma anche che “l’esclusione di effetti condizionanti del giudizio cautelare sul
procedimento principale vale a scandire, salvaguardandola, la distinzione tra la fase delle indagini
64
L’evoluzione del sistema normativo237 ha, però, sensibilmente ridotto le
differenze tra i giudizi di gravità indiziaria e di responsabilità, aprendo, così, la
strada a possibili effetti preclusivi di un procedimento sull’altro238.
Il percorso di avvicinamento tra le valutazioni ha avuto inizio con
l’inserimento, all’interno dell’art. 273 c.p.p., del comma 1bis239, il quale impone,
anche in sede di apprezzamento dei gravi indizi di colpevolezza, l’applicazione
delle disposizioni degli artt. 192240, 195, 203 e 271 c.p.p. La norma richiamata, in
preliminari e quella del processo. Essa trova significativa eco, altresì, nella necessaria diversità fra
il giudice dell’incidente cautelare e il giudice chiamato a pronunciarsi sul merito dell’imputazione,
conseguente al regime delle incompatibilità (art. 34 c.p.p., quale risultante a seguito degli interventi
di questa Corte)”.
237
Nel nuovo assetto normativo l’impianto personalistico accolto dalla Costituzione ha fatto sì che
i beni coinvolti negli incidenti cautelari siano diventati “valori forti” di pari livello rispetto a quelli
in gioco nel procedimento principale. Così CONTI, La preclusione nel processo penale, cit., 374. In
materia v. SPANGHER, Evoluzione ed involuzione del sistema cautelare, in Studi in onore di Mario
Pisani, a cura di Corso, Milano, 2010, 804, “il progressivo rafforzamento delle garanzie difensive
rischia di far assumere al provvedimento cautelare sempre più i connotati dell’anticipazione della
pena. Invero la tendenza a rendere omogenei i presupposti dell’applicazione delle misure cautelari,
rispetto ai criteri valutativi degli elementi indiziari, finisce per omologare premesse delle cautele e
giudizi di responsabilità. Inoltre, il sempre più accentuato e penetrante sviluppo dell’attività
difensiva, nel merito della posizione del soggetto in vinculis, finisce per rendere o rischia di rendere
più stabile il provvedimento, al di la della variabile delle esigenze cautelari”. V. anche
GUARDIANO, I nuovi standards valutativi e gli epiloghi decisori nell’udienza preliminare, in La
nuova disciplina delle impugnazioni dopo la “legge Pecorella”, a cura di Gaito, Torino, 2006, 60
ss.
238
Si rileva, infatti, che ad oggi tutte le questioni di diritto, processuali e sostanziali, possono essere
sollevate nel procedimento incidentale ed in quello principale e successivamente riproposte in sede
di impugnazione. La possibilità di una pluralità di pronunce sulla medesima quaestio, talvolta
anche contrastanti tra loro, fa sorgere la necessità della statuizione di specifici meccanismi
preclusivi.
239
Art. 11, l. 1 marzo 2001, n. 63.
240
Va precisato che l’art. 273, comma 1 bis c.p.p. richiama espressamente solo i commi 3 e 4
dell’art. 192. In proposito Cass., sez. IV, 10 ottobre 2012, Tritella, in Guida dir., 2013, 8, 85, che
sulla nozione di gravi indizi cautelari specifica che “è necessario utilizzare in caso di presenza di
prove indirette il canone di valutazione di cui all’art. 192 comma 2 c.p.p. occorre cioè anche ai fini
cautelari che gli indizi siano “plurimi, precisi e concordanti”. Né, in senso contrario, potrebbe
valere il fatto che non sia formalmente richiamato il comma 2 dell’art. 192 in seno all’art. 273
c.p.p., perché il codice di rito, nel pretendere, perché possa essere adottata una misura cautelare, la
presenza di “gravi indizi di colpevolezza”, non può che richiamare, implicitamente, anche il citato
comma 2 dell’art. 192 che costituisce un canone di prudenza nella valutazione della “probabilità”
di colpevolezza necessaria per esercitare il potere cautelare (…). Del resto, l’art. 192, comma 2, ha
un ruolo differente rispetto all’art. 273: indica, infatti, i criteri in base ai quali può ritenersi
acquisito un fatto a valenza probatoria, mentre l’altra disposizione, propria della sede cautelare,
prevede che in tale materia valgono criteri di valutazione probatoria basati sul canone della
65
tal modo, ha operato una tendenziale omologazione dei “parametri di valutazione e
utilizzabilità del materiale conoscitivo oggetto delle decisioni del giudice della
cautela e di quello di merito”241, estendendo al giudizio incidentale i canoni del
giusto processo242.
L’apice di detto percorso di parificazione si è raggiunto nel 2006. Con la
legge n. 46243, infatti, è stato introdotto il comma 1 bis dell’art. 405 c.p.p.244 il quale
ha previsto in capo al p.m. l’obbligo di richiesta di archiviazione ogniqualvolta la
Corte di cassazione si sia pronunciata in ordine all’insussistenza dei gravi indizi di
colpevolezza, e non siano stati acquisiti, successivamente, ulteriori elementi a carico
del’indagato. La norma, introducendo una “inedita direzione di marcia della
preclusione dal procedimento cautelare al procedimento principale”245, rovescia il
rapporto fisiologico tra giudizio de libertate e giudizio di merito.
L’intento del legislatore del 2006246 era quello di evitare, contrastando una
prassi diffusa247, che il pubblico ministero esercitasse “caparbiamente” l’azione
penale in base ad accuse la cui inconsistenza era stata già accertata dai giudici di
“probabilità” (di colpevolezza), in deroga al principio dell’”al di là di ogni ragionevole dubbio”
operativo in sede di giudizio”.
241
Cass., sez. un., 30 maggio 2006, Spennato, in Cass. Pen., 2007, 46.
242
La Corte di Cassazione, a tal proposito, ha parlato di “giusto processo cautelare”. Cass., sez. un.,
30 maggio 2006, Spennato, cit.
243
L. 20 febbraio 2006, n. 46, c.d. Legge Pecorella.
244
Tra i tanti, VALENTINI, Interferenze inedite tra la vicenda cautelare e l’esercizio dell’azione
penale: il comma 1 bis dell’art. 405 c.p.p., in Cass. Pen., 2006, 4272 ss., VALENTINI, La dubbia
legittimità costituzionale dell’art. 405, comma 1 bis c.p.p.: questioni sollevate e questioni da
risolvere, in Cass. Pen., 2008, 3645 ss., ALONZI, L’art. 405 comma 1 bis c.p.p.: un inedito quanto
stravagante obbligo di inazione, in Il nuovo regime delle impugnazioni tra Corte Costituzionale e
Sezioni Unite, a cura di Filippi, Padova, 2007, 63 ss., GIOSTRA, Una norma in difficoltà di senso: il
nuovo comma 1 bis dell’art 405 c.p.p., in Impugnazioni e regole di giudizio nella legge di riforma
del 2006. Dai problemi di fondo ai primi responsi costituzionali, a cura di Bargis, Torino, 2007,
353 ss.
245
Cit. DEL COCO, Incidente cautelare e procedimento principale, cit., 54.
246
La riforma, che ha inciso principalmente sul regime delle impugnazioni nel processo penale, ha
subito forti critiche e numerosi interventi della Corte Costituzionale.
247
Come rileva Corte Cost., sent. 24 aprile 2009, n. 121, cit.
66
legittimità248. Partendo dalla premessa che il processo penale, di per sé, è una
pena249, la norma va interpretata come strumento volto ad anticipare la liberazione
del detenuto. Tale esito, infatti, secondo l’impostazione scelta dal legislatore,
risulterebbe scontato a fronte del giudizio qualificato della Corte di cassazione. La
preclusione, dunque, sorgeva con uno scopo deflattivo, come rimedio preventivo
all’instaurazione di processi inutili250.
La disposizione, tuttavia, ha avuto vita breve. Con la sentenza n. 121 del
2009251, infatti, la Corte Costituzionale ne ha dichiarato l’illegittimità per violazione
degli artt. 3 e 112 Cost. La Consulta ha ritenuto la norma irragionevole per un
triplice ordine di motivi.
In primo luogo è stata rilevata la diversità tra le regole di giudizio che sono
alla base della cognizione cautelare e quelle che legittimano l’azione penale. La
valutazione circa la gravità indiziaria richiesta dall’art. 273 c.p.p. implica “un
giudizio prognostico di elevata probabilità di colpevolezza”252 basato sui soli
248
Come risulta dai lavori parlamentari e dalla relazione alla proposta di legge n. 5301, i cui
contenuti sono stati riversati nell’emendamento che ha inserito la disposizione in commento nella
legge 46 del 2006.
249
Così CARNELUTTI, Lezioni sul processo penale, I, Roma, 1947, 35. Affermava, infatti, l’Autore
“non è dato giudicare senza punire né punire senza giudicare; in altre parole non vi è atto del
giudizio il quale non cagioni una sofferenza a chi è giudicato”. Aggiunge, poi, “il processo
medesimo è una tortura. Fino a un certo punto, dicevo, non si può farne a meno; ma la cosiddetta
civiltà moderna ha esasperato in modo inverosimile e insopportabile questa triste conseguenza del
processo. L’uomo, quando è sospettato di un delitto, è dato ad bestias come si diceva una volta dei
condannati offerti in pasto alle fiere. La belva, l’indomabile ed insaziabile belva, è la folla…
Appena sorto il sospetto, l’imputato, la sua famiglia, la sua casa, il suo lavoro sono inquisiti,
perquisiti, denudati alla presenza di tutto il mondo. L’individuo, così, è fatto a brani e l’individuo,
ricordiamoci, è il solo valore che dovrebbe essere salvato dalla civiltà”.
250
Così SANTALUCIA, L’incidenza del giudizio cautelare sulle decisioni del merito: brevi note a
margine della sentenza n. 121/2009 della Corte Costituzionale, cit., 3305.
251
Corte Cost, sent. 24 aprile 2009, n. 121, cit.
252
La Corte di Cassazione, sez. un., 21 aprile 1995, Costantino, in Cass. Pen., 1995, 2843, in
materia di gravi indizi di colpevolezza ai fini della misura cautelare, ha affermato che questi si
qualificano come “elementi a carico, di natura logica o rappresentativa, sia diretti che indiretti, i
quali – resistendo a interpretazioni alternative e contenendo tutti o soltanto alcuni degli elementi
strutturali della corrispondente prova- non valgono di per sé a dimostrare oltre ogni dubbio
67
elementi già acquisiti dal p.m. e funzionale unicamente agli scopi della misura
cautelare di tipo statico253.
Di contro, in base all’art. 125 disp. att. c.p.p.254 la decisione sull’esercizio
dell’azione penale si fonda sulla valutazione della superfluità o meno del passaggio
alla fase processuale e, quindi, dell’accertamento giudiziale di responsabilità255. In
questo caso il giudizio del g.i.p. è di tipo dinamico perché egli deve tener conto non
solo dello stato degli atti, quanto anche di ciò “che può ritenersi ragionevolmente
acquisibile nella fase dibattimentale, quale sede istituzionalmente preordinata alla
formazione della prova nel contraddittorio delle parti”256.
l’attribuibilità del reato all’indagato con la certezza propria del giudizio di cognizione e, tuttavia,
quantitativamente e qualitativamente apprezzati nella loro consistenza e nella loro coordinazione
logica, consentono di prevedere che, attraverso la futura acquisizione di ulteriori elementi, saranno
idonei a dimostrare tale responsabilità, fondando nel frattempo una qualificata probabilità di
colpevolezza”.
253
Di diversa opinione SANTALUCIA, L’incidenza del giudizio cautelare sulle decisioni del merito:
brevi note a margine della sentenza n. 121/2009 della Corte Costituzionale, cit., 3304, per il quale
il giudizio cautelare si fonda su valutazioni di tipo dinamico. Infatti, sia nel caso in cui sia
affermata la gravità indiziaria, sia nel caso in cui sia negata, il giudice “si proietta
nell’apprezzamento del dato probatorio acquisibile, per asserire la potenzialità di sviluppo del dato
investigativo o per attestarne l’insignificanza. Il dato indiziario è necessariamente colto nella
prospettiva di evoluzione tracciata dal procedimento principale”. Secondo l’Autore, dunque, gli
indizi sono gravi solo se fanno prevedere sviluppi probatori coerenti.
254
Secondo cui il pubblico ministero chiede l’archiviazione per infondatezza della notitia criminis
quando gli elementi acquisiti “non sono idonei a sostenere l’accusa in giudizio”.
255
La sentenza del 2009 compie un esplicito richiamo a Corte Cost., sent. 15 febbraio 1991, n. 88.
A tale proposito va rilevato che nel 1991 la lettura dell’art. 125 disp. att. avallata dalla Corte
Costituzionale era imperniata sul principio dell’in dubio pro actione. Il p.m., secondo tale
interpretazione, avrebbe dovuto esercitare l’azione penale ogniqualvolta lo stato degli atti di
indagine, seppur insufficiente e lacunoso, avesse indotto a prevedere un esito favorevole per
l’accusa. Il principio della completezza delle indagini, così, lasciava spazio a quello della
completabilità delle stesse. Di contro, la dottrina maggioritaria più recente sostiene la necessità di
un innalzamento del quantum probatorio ai fini dell’impulso processuale, coerentemente con la
regola prevista dall’art. 425 c.p.p. Sarebbe contraddittorio un sistema che da un lato prevede la
possibilità per il p.m. di esperire una azione penale debole e, dall’altro, impone al giudice di inibire
l’accesso in dibattimento alle azioni sfornite di adeguato supporto probatorio. In questo senso v.
DEL COCO, Incidente cautelare e procedimento principale, in Il principio di preclusione nel
processo penale, cit., 57; MARAFIOTI, Scelte auto difensive dell’indagato e alternative al silenzio,
cit., 278.
256
Corte Cost., sent. 24 aprile 2009, n. 121, cit. La sentenza afferma che “la valutazione degli
elementi ha luogo non nell’ottica del risultato dell’azione, ma in quella della superfluità o no
dell’accertamento, rappresentando la traduzione in chiave accusatoria del principio di non
superfluità del processo”, citando Corte Cost., sent. 15 febbraio 1991, n. 88.
68
Accertata la diversità intrinseca dei due giudizi257 bisogna considerare gli
effetti distorsivi che possono derivare dall’accostamento delle valutazioni di merito
e de libertate.
La base probatoria, infatti, può risultare insufficiente a confermare l’esistenza
del fumus commissi delicti, ma ciò non esclude che gli elementi indiziari raccolti
siano tali da giustificare una richiesta di rinvio a giudizio258. Dunque, il fatto che
non sussistano i gravi indizi di colpevolezza non implica, necessariamente, un
dibattimento superfluo259.
Il secondo profilo addotto dalla Corte Costituzionale a fondamento della
pronuncia di illegittimità dell’art. 405, comma 1 c.p.p. riguarda l’eterogeneità del
materiale probatorio posto alla base della decisione incidentale e di merito.
Nel procedimento cautelare, infatti, il p.m. ha un potere di selezione riguardo
agli elementi di prova da sottoporre al giudice per ottenere l’applicazione della
Circa la diversità dei due giudizi v. Cass., Sez. un., 30 maggio 2006, Spennato, cit., 46. “Diverso
è senz’altro nei due accertamenti il grado di conferma dell’ipotesi accusatoria. In quello posto a
base della decisione definitiva sulla regiudicanda, la conclusione è sorretta da un quadro probatorio
completo e non suscettibile di ulteriori aggiornamenti o variazioni, con l’effetto che ogni margine
d’incertezza resta superato. Nell’accertamento incidentale de libertate, invece, (…) la conclusione
inferenziale della relativa delibazione è assunta sulla base di dati conoscitivi ancora suscettibili di
accrescersi ed evolversi con l’apporto di ulteriori informazioni che stimolano la continua verifica
della capacità dell’ipotesi accusatoria di resistere a interpretazioni alternative”.
258
CONTI, Incostituzionale la richiesta coatta di archiviazione: la Consulta tra principio di
incidentalità e di preclusione, in Dir. Pen. e proc., 2009, 1374.
259
L’affermazione è corretta anche in senso inverso: una provvisoria prognosi di colpevolezza in
sede cautelare può non trovare corrispondenza in una condanna legittimata dalle prove acquisite in
dibattimento. Sulla base di tale ragionamento Corte Cost., sent. 71 del 1996, dichiarò illegittimi gli
artt. 309 e 310 c.p.p. per violazione degli artt. 3, 24 e 111 Cost., nella parte in cui precludevano al
giudice dell’impugnazione cautelare il controllo sulla sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza,
qualora nei confronti dell’indagato fosse stato emesso il decreto di rinvio a giudizio. In questa sede
la Consulta osservò che la valutazione alla base del rinvio a giudizio è eterogenea rispetto
all’apprezzamento della gravità indiziaria, attenendo soltanto alla necessità del dibattimento. Il
decreto che dispone il giudizio, dunque, non poteva essere considerato assorbente rispetto alla
valutazione dei gravi indizi di colpevolezza. La preclusione introdotta dagli artt. 309 e 310 c.p.p.
appariva alla Corte “gravemente lesiva del diritto di difesa”.
257
69
misura260. Tale facoltà è motivata dall’esigenza di evitare che la richiesta cautelare
possa pregiudicare le indagini in corso con una prematura discovery del materiale
acquisito. Il magistrato d’accusa, dunque, può decidere di allegare solo parte degli
atti investigativi261.
Viceversa, la richiesta di rinvio a giudizio, in base all’art. 416 c.p.p., si
fonda, necessariamente, sull’intero fascicolo delle indagini del p.m.
Inoltre, la valutazione sulla gravità indiziaria deve effettuarsi attraverso una
base probatoria che tenga conto dell’inviolabilità della libertà personale262. Da una
parte, gli elementi posti a fondamento del provvedimento devono avere “una
pregnanza maggiore”263 rispetto a quelli necessari al rinvio a giudizio. Dall’altra,
essi possono risultare “precari”, non essendo, ad esempio, utilizzabili in
dibattimento264.
Salvo che per gli elementi probatori a favore dell’imputato. Secondo l’art. 291 c.p.p., infatti,
questi ultimi devono tutti essere presentati al giudice cautelare.
261
Secondo MENNA, La ragionevole durata del processo in relazione ai sindacati incidentali ed ai
processi cumulativi, cit., 924, “rimandare ad un momento successivo l'utilizzo di elementi che
servono a superare i dubbi di reità del soggetto non consente di ritenere raggiunta una vera gravità
indiziaria e, quindi, superata la presunzione di innocenza.
262
CONTI, Incostituzionale la richiesta coatta di archiviazione: la Consulta tra principio di
incidentalità e di preclusione, cit., 1374. A ben vedere, la questione delle misure cautelari
costituisce, di per sé, un paradosso dei sistemi accusatori. Da un lato, esse, comportando una
limitazione della libertà personale che coincide con la pena, imporrebbero un accertamento
tendenzialmente equivalente a quello necessario per la sentenza di condanna. Da un altro lato, lo
scopo stesso della misura richiede una valutazione rapida, dunque sommaria e allo stato degli atti.
Se si pretendesse un accertamento coincidente con quello del giudizio principale, invece, la misura
non potrebbe mai essere adottata prima della fine del processo ed il procedimento incidentale non
avrebbe ragion d’essere.
263
Così IACOVIELLO, Procedimento penale principale e procedimenti incidentali. Dal principio di
minima interferenza al principio di preclusione, cit., 2194.
264
Rileva CONTI, Incostituzionale la richiesta coatta di archiviazione: la Consulta tra principio di
incidentalità e di preclusione, cit., 1375, “Qualora, poi, si fosse pervenuti ad una omologazione
delle due regole di giudizio in oggetto e del materiale utilizzabile, vi sarebbe stato il rischio di una
vis attractiva in senso inverso. Il concetto di “gravità indiziaria” avrebbe potuto essere alleggerito
fino a coincidere con lo standard probatorio necessario per l’esercizio dell’azione penale” con
evidente violazione della tutela del diritto di libertà personale.
260
70
Ne deriva la possibilità che il g.i.p. si trovi a dover valutare del materiale
probatorio differente in un procedimento rispetto all’altro. Nulla esclude, dunque,
che un giudizio di insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza possa coesistere
con quello di sostenibilità dell’accusa265.
Infine, la Consulta, nella sentenza del 2009, ha osservato che il giudizio della
Corte di cassazione in materia cautelare è una valutazione di legittimità e non di
merito. Il sindacato de libertate riguarda la correttezza e la logicità della
motivazione del provvedimento impugnato266 e l’eventuale annullamento di
quest’ultimo non implica automaticamente l’inesistenza dei gravi indizi di
colpevolezza.
La parte della dottrina267 che non condivide la dichiarazione di
incostituzionalità dell’art. 405, comma 1 bis c.p.p. della Corte Costituzionale rileva
che la norma in questione configura una preclusione solo in capo al pubblico
ministero268 senza vincolare la valutazione del g.i.p., il quale conserva, invece, il
265
Cfr. MENNA, La ragionevole durata del processo in relazione ai sindacati incidentali ed ai
processi cumulativi, cit., 921 ss.
266
Contra SANTALUCIA, L’incidenza del giudizio cautelare sulle decisioni del merito: brevi note a
margine della sentenza n. 121/2009 della Corte Costituzionale, cit., 3309, “è ben possibile che la
cognizione della Corte di Cassazione investa direttamente la gravità indiziaria, come nelle ipotesi
della pronuncia che rigetti il ricorso del pubblico ministero avverso l’ordinanza emessa dal
tribunale in sede di riesame cautelare che abbia revocato la misura coercitiva.”
267
V. IACOVIELLO, Procedimento penale principale e procedimenti incidentali. Dal principio di
minima interferenza al principio di preclusione, cit., 2210 ss., SANTALUCIA, L’incidenza del
giudizio cautelare sulle decisioni del merito: brevi note a margine della sentenza n. 121/2009 della
Corte Costituzionale, cit., 3299 ss., e altri.
268
La disciplina della archiviazione coatta nulla prevedeva per il caso in cui il p.m. disattendesse
all’obbligo imposto dall’art. 405, comma 1 bis c.p.p. In proposito v. GUERRERIO, Quale sanzione
per l’obbligo (disatteso) del p.m. di chiedere l’archiviazione ex 405 c.p.p.?, in Dir. Pen. e proc.,
2007, 799, per il quale l’omessa richiesta di archiviazione determinava una improcedibilità della
successiva azione penale dovuta alla mancata verifica giurisdizionale sulla fondatezza
dell’inazione. La situazione era assimilata a quella del pubblico ministero che esercita l’azione
penale senza avere chiesto la riapertura delle indagini preliminari. Per IACOVIELLO, Procedimento
penale principale e procedimenti incidentali. Dal principio di minima interferenza al principio di
preclusione, cit., invece, ne derivava inammissibilità.
71
potere di rigettare la richiesta coatta di archiviazione ove ritenga che siano
necessarie ulteriori indagini o che debba essere formulata l’imputazione269.
Tale replica, tuttavia, non è sufficiente a “riscattare” la norma dalla censura.
La disposizione, infatti, “altera la logica propria dell’archiviazione”270 che finisce
per trasformarsi in una sanzione extra ordinem per le iniziative cautelari
inopportune del p.m.271 e che risultano essere in palese contrasto con l’art. 112
Cost.272. L’istituto dell’archiviazione impedisce, così, che l’azione penale venga
inopportunamente esercitata quando, invece, lo scopo originario è quello di
garantire che l’azione stessa non venga indebitamente omessa273.
Inoltre, la norma censurata, nella sua vigenza, aveva dato origine a un
meccanismo paradossale per cui da una parte si costringeva il pubblico ministero a
chiedere un provvedimento antitetico rispetto al proprio potere d’azione, dall’altra,
269
In tal senso, BRICCHETTI PISTORELLI, Suprema Corte: vincolo inedito per il P.m., in Guida dir.,
2006, 63, GARUTI, Dall’inappellabilità, in Dir. Pen. e proc., 2006, 811, GIOSTRA, Una norma “in
difficoltà di senso”, in Impugnazioni e regole di giudizio nella legge di riforma del 2006, a cura di
Bargis e Caprioli, Torino, 2007, 356, TURCO, Misure interdittive revocate ed interesse ad
impugnare: un nuovo approdo ermeneutico imposto dall’obbligo di richiesta archiviativa ex art.
405, comma 1 bis, c.p.p.?, in Cass. pen., 2007, 4634. Per ADORNO, La richiesta “coatta” di
archiviazione, in Novità su impugnazioni e regole di giudizio, a cura di Scalfati, Milano, 2006, 33,
a tale conclusione induceva anche la collocazione sistematica della nuova norma all’interno
dell’art. 405 che concerne le determinazioni del pubblico ministero e non nell’art. 408 o 411 che
disciplinano i casi di archiviazione. In senso critico, ALONZI, L’art. 405 comma 1-bis: un inedito,
quanto stravagante obbligo di inazione, in Il nuovo regime delle impugnazioni tra Corte
costituzionale e Sezioni Unite, a cura di Filippi, Padova, 2007, 87 ss. In giurisprudenza, per il
rilievo che il giudice non fosse obbligato a disporre l’archiviazione, Cass., Sez. II, 21 aprile 2006,
Plataroti, Cass., Sez. VI, 15 novembre 2006, Campodonico, in CED Cass., n. 235887. Ad avviso
della Suprema corte la nuova disciplina faceva sorgere un “diritto” all’archiviazione che poteva
essere vantato dall’indagato, in assenza di elementi sopravvenuti. V. anche Cass., Sez. V, 5 luglio
2006, De Flavis, in CED Cass., 235326. Sul punto, in dottrina, FERRUA, Impugnazioni, Cassazione
a rischio paralisi, in Dir. giust., 2005, 36, 106.
270
Corte Cost., sent. 24 aprile 2009, n. 121, cit., 3297.
271
Sanzione, per altro, inaccettabile sul piano costituzionale perche discriminante tra le posizioni
degli indagati in rapporto ad attività addebitabili all’accusa. Cit. Corte Cost. 121/2009.
272
L’art. 112 Cost. prevede l’obbligatorietà dell’azione penale. Tale principio non esclude che
l’ordinamento possa subordinare l’esercizio dell’azione a specifiche condizioni (v. ad esempio,
Corte Cost., sent. n. 114 del 1982), ma tali circostanze devono risultare razionali e non devono
produrre disparità di trattamento. La ratio dell’obbligatorietà, infatti, è proprio quella di garantire
l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge penale. Cfr. Corte Cost., sent. n. 88 del 1991.
273
V. Corte Cost., sent. 24 aprile 2009, n. 121, cit., 3297.
72
il giudice era legittimato ad imporre al p.m. la stessa condotta che la disposizione
gli aveva vietato di tenere274. Tutto ciò, poi, senza che il magistrato dell’accusa
potesse esperire alcun rimedio. Il decreto di archiviazione, infatti, non era
impugnabile275.
L’esito di una tale ricostruzione era una ingiustificata disparità di trattamento
in presenza di fattispecie sostanzialmente identiche, nonché un pericoloso
disincentivo per il pubblico ministero a richiedere una misura cautelare
ogniqualvolta vi era il rischio di un rigetto da parte del giudice276.
La Corte Costituzionale, dunque, sancisce l’assenza di limiti preclusivi ai
poteri del pubblico ministero dovuti all’incidenza del procedimento cautelare su
quello principale, lasciando, così, l’ordinamento processuale privo di uno strumento
idoneo ad arginare le azioni penali deboli e “temerarie”. La Consulta, tuttavia, nella
medesima sede, non esclude che il legislatore possa, in particolari condizioni,
prevedere delle norme che agiscano nello stesso verso preclusivo della disposizione
censurata277.
L’istituto, poi, non rispettava la condizione minimale di coerenza di qualsiasi meccanismo di
controllo, e cioè la necessità che il parametro di valutazione sia identico per il controllato e per il
controllante.
275
Rileva SANTALUCIA, L’incidenza del giudizio cautelare sulle decisioni del merito: brevi note a
margine della sentenza n. 121/2009 della Corte Costituzionale, cit., 3307, che la previsione di un
rimedio impugnatorio in capo al p.m. sarebbe stata illogica e contraddittoria.
276
Cfr. DEL COCO, Incidente cautelare e procedimento principale, cit., 65, che evidenzia la
distorsione che si verrebbe a creare a causa dell’art. 405 c.p.p. nelle ipotesi in cui nel giudizio
principale siano coinvolti imputati rimasti estranei alla vicenda cautelare. L’archiviazione
coinvolgerebbe anche questi soggetti, nei confronti dei quali non vi è stata, però, alcuna
“consumazione del potere”.
277
Corte Cost., sent. 24 aprile 2009, n. 121, cit., 3295, per cui “non può escludersi
pregiudizialmente e in assoluto la compatibilità costituzionale di disposizioni che, in particolari
frangenti e per particolari aspetti” determinino una influenza delle vicende cautelari sul
procedimento principale. Tuttavia, la Corte ha fissato un vincolo: meccanismi del genere debbono
attuare “solidi canoni di razionalità quanto a presupposti ed effetti”.
274
73
A tale proposito, va rilevato che nel 2008 è stato introdotto il c.d. giudizio
immediato custodiale278. In base al “nuovo” comma 1 bis dell’art. 453 c.p.p. il
pubblico ministero richiede il rito immediato, anche oltre i termini di cui all’art. 454
c.p.p., per il reato in relazione al quale l’indagato si trova in stato di custodia
cautelare. La valutazione dei gravi indizi, così, assorbe la scelta sull’esercizio
dell’azione penale, precludendo il giudizio dinamico sulla idoneità degli elementi a
sostenere l’accusa279.
La norma, attualmente, è l’unico esempio codificato di influenza del giudizio
incidentale su quello di merito, e anche in relazione ad esso sono stati sollevati
dubbi di legittimità280. Si ripropone, infatti, la questione della intrinseca diversità
delle regole di giudizio sottese al procedimento principale e a quello cautelare.
Inoltre, la norma sembra mossa da intenti di economia e ragionevole durata del
processo, ma, in realtà, “determina un improprio irrigidimento dei tempi e dei
278
D.l. 23 maggio 2008, n. 92, convertito in l. 24 luglio 2008, n. 125.
In ragione di tale efficacia, vi è chi ritiene che il giudice non debba limitarsi ad un controllo
meramente notarile sulla avvenuta emissione del provvedimento cautelare, bensì possa sindacare
alla luce dell’intero fascicolo, il quadro probatorio esistente a carico dell’imputato al momento
della richiesta di giudizio immediato. V. VALENTINI, La poliedrica identità del nuovo giudizio
immediato, in Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica, a cura di Mazza e Viganò, Torino,
2008, 300.
280
ORLANDI, Note critiche, a prima lettura, in tema di giudizio immediato “custodiale” (art. 453,
1° comma bis, c.p.p.), in Osservatorio del processo penale, 2008, 3, 12. Il profilo che ha suscitato
le critiche più accese in dottrina è rappresentato dal fatto che il g.i.p. deve rigettare la richiesta del
pubblico ministero soltanto qualora - nel lasso di tempo che intercorre tra l’istanza di giudizio
immediato e la decisione sulla stessa - l’ordinanza che dispone la custodia sia stata revocata o
annullata per sopravvenuta insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza (art. 455, comma 1bis).
Ove viceversa, la revoca o l’annullamento siano disposte in un momento successivo, non è prevista
alcuna retroattività pro reo di tali provvedimenti e l’imputato resta assoggettato al rito immediato.
La disciplina è tacciata di incostituzionalità per disparità di trattamento poiché l’imputato è
sottoposto o meno a giudizio immediato a seconda che il provvedimento di annullamento o revoca
intervenga in un momento anteriore o in un momento successivo al decreto del giudice che decide
sulla richiesta del pubblico ministero.
279
74
modi”281 del rito speciale, sacrificando la garanzia per l’imputato dell’udienza
preliminare.
In conclusione, fin quando persisteranno sostanziali differenze tra il giudizio
di merito e i giudizi incidentali è auspicabile che il principio di impermeabilità
regoli i rapporti tra questi. E’, infatti, il requisito della duplicazione di valutazioni
identiche che rende necessaria la previsione della preclusione. In caso contrario, un
uso generalizzato dell’istituto in questione porta solo a distorsioni del sistema
processuale282.
281
DEL COCO, Incidente cautelare e procedimento principale, in Il principio di preclusione nel
processo penale, cit., 62.
282
Sottolinea MARZADURI, Opinioni a confronto su Preclusioni processuali e ragionevole
durata del processo, cit., 253 che “le differenti basi cognitive e le differenti regole di giudizio su
cui si fondano i provvedimenti cautelari e quelli del procedimento principale paiono limitare
fortemente, se non eliminare del tutto, la possibilità di apprezzare come consumato il potere
esercitato in sede incidentale”.
75
2.5 I limiti derivanti dal “ne bis in idem” con riguardo alla litispendenza e
al giudicando cautelare
L’attribuzione del rango di principio all’istituto della preclusione si deve a
una serie di pronunce delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione che, negli ultimi
anni, ne hanno esaltato il ruolo all’interno dell’ordinamento processuale283.
Gli studi della Corte muovono dalla natura plurioffensiva della violazione del
principio del ne bis in idem nell’ambito del procedimento penale. La duplicazione
dei giudizi o delle fasi del processo, infatti, lede la certezza delle situazioni
giuridiche statuite da una decisione irrevocabile, diminuisce l’efficienza del sistema
a causa dello spreco di risorse umane e materiali, con ripercussioni negative sulla
ragionevole durata del processo, e, soprattutto, viola il diritto civile e politico della
persona già giudicata a non essere perseguita per il medesimo fatto284.
All’interno dell’ordinamento, il principio è previsto dall’art. 649 c.p.p., il
quale circoscrive il divieto di bis in idem al solo caso in cui il primo giudizio sia
stato definito con un provvedimento irrevocabile285. E’ chiaro, però, che il disvalore
283
Cass., Sez. Un., sent. 28 giugno 2005, Donati, in Cass. Pen., 2006, 28 ss., Cass., Sez. Un., sent.
31 marzo 2004, Donelli, in Cass. Pen., 2004, 2740 ss., Cass., Sez. Un., sent. 16 dicembre 2010,
Testini, in Guida dir., 2011, 15, 46 ss.
284
In questo senso v. CONTI, La preclusione nel processo penale, cit., 74, LEO, Ne bis in idem e
principio di preclusione nel processo penale, in Corr. Merito, 2006, 2, 239, MAGGIO, Con la
“litispendenza cautelare” le Sezioni Unite intervengono sul catalogo delle preclusioni alle
iniziative del pubblico ministero, in Proc. Pen. e giust., 5, 2011, 90.
285
Il principio è sancito anche da numerosi trattati e Convenzioni a cui l’Italia aderisce. Tra questi,
lʹart. 4 del Protocollo VII della Cedu stabilisce, al comma 1, che “nessuno potrà essere perseguito o
condannato penalmente dalla giurisdizione dello stesso Stato per unʹinfrazione per cui è già stato
scagionato o condannato a seguito di una sentenza definitiva conforme alla legge ed alla procedura
penale di tale Stato.”
Nell’ambito dell’Unione Europea, termini sostanzialmente sovrapponibili sono utilizzati allʹart. 50
della Carta di Nizza che sancisce il diritto a non essere perseguito per lo stesso reato per il quale è
già intervenuta nellʹUE una sentenza penale definitiva, conforme alla legge; lʹart. 54 della
Convenzione di applicazione dellʹaccordo di Schengen, poi, prevede che una “persona che sia stata
76
delle duplicazioni del procedimento non si esaurisce nel rischio di una doppia
condanna: il processo, infatti, è, già di per sé, un costo non indifferente per
l’individuo e il sistema ne dovrebbe ridurre al minimo il peso.
L’intervento dei giudici di legittimità, quindi, si è reso necessario per
colmare la lacuna normativa dovuta all’assenza di rimedi espressi a fronte di
situazioni in palese contrasto con il principio in commento come, ad esempio, la
litispendenza di più procedimenti dinanzi allo stesso giudice, e la carenza di effetti
della pendenza del giudizio de libertate286.
In primo luogo, le Sezioni Unite hanno affrontato la questione concernente
l’effetto preclusivo della sentenza non definitiva287. In particolare, si è trattato di
stabilire l’idoneità di quest’ultima ad impedire un secondo processo, su un
medesimo fatto288, nella stessa sede giudiziaria.
Seguendo l’analisi della Corte di Cassazione, l’art. 28 c.p.p., in materia di
litispendenza, presuppone giudici differenti in conflitto di competenza tra loro289 e,
giudicata con sentenza definitiva in una Parte contraente non può essere sottoposta ad un
procedimento penale per i medesimi fatti in unʹaltra Parte contraente (…)”.
286
V. Cass., Sez. Un., sent. 7 aprile 1998, n. 4265, in Cass. pen., 1998, 1951, per la quale
l'apparente silenzio del legislatore non implica sempre l'inesistenza di una regola: “compito
indeclinabile dell'interprete è quello di attribuire, caso per caso, alla omessa menzione del fatto il
significato più coerente con la ratio legis, con il contesto normativo delineato dal sistema e con gli
interessi tutelati ed i fini effettivamente perseguiti''.
287
Cass., Sez. Un., sent. 28 giugno 2005, Donati, cit.
288
L'identità del fatto sussiste, secondo le Sezioni Unite, quando si riscontra una corrispondenza
storico-naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi elementi costitutivi,
ovvero condotta, evento, nesso causale e avuto riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di
persona.
289
In proposito, la sentenza in commento ha dichiarato che non vi è conflitto di competenza
nell’ipotesi in cui il tribunale e la Corte di Appello della stessa sede procedano per il medesimo
fatto. Il differente grado di giudizio, infatti, non rileva ai fini di cui all’art. 28 c.p.p., bensì riguarda
la competenza meramente funzionale degli organi giurisdizionali. Così, precedentemente, Cass.,
sez. I, sent. 23 ottobre 2002, Auriemma, in CED 222484.
77
per tale ragione, non è riferibile al caso concreto290. Ugualmente, è stata esclusa la
possibilità di applicare alla situazione di specie il comma 2 dell’art. 28 c.p.p. sui
conflitti “impropri”, non essendo ravvisabile la situazione di stallo della attività
processuale che la norma è finalizzata a risolvere291. Al contrario, la piena capacità
di entrambi i giudici fa correre il rischio della formazione di due giudicati
potenzialmente legittimi ed indipendenti.
Da ultimo, la Cassazione ha dichiarato inapplicabile al caso in esame il
rimedio della sospensione del processo che si trova allo stato più avanzato al fine
della successiva riunione dei procedimenti. Infatti, nonostante fino ad allora la
prassi per prevenire conflitti tra giudicati andasse in tale senso, le ipotesi di
sospensione del giudizio devono ritenersi tassative, e non spetta alla Corte
estenderne l’applicazione292.
Esclusa
la
possibilità
di
ricorrere
agli
strumenti
ordinari
offerti
dall’ordinamento per risolvere la menzionata questione, dunque, i giudici di
legittimità hanno ricercato una soluzione all’interno dell’ambito applicativo del
divieto di bis in idem293.
Precedenti pronunce della Corte di Cassazione, di contro, avevano affermato l’applicabilità
dell’art. 28 c.p.p. anche in casi di litispendenza dinanzi al medesimo ufficio giudiziario. V. Cass.,
sez I, 23 novembre 2004, Murati, in CED 222078. Nella vigenza del “vecchio” codice,
l’orientamento maggioritario prevedeva la risoluzione della questione mediante il ricorso alla
disciplina dei conflitti propri di competenza. V. Cass., sez. I, sent. 5 dicembre 1988, n. 2643, in
Giust. pen., 1989, III, 407.
291
Il comma 2 dell’art. 28 c.p.p. prevede che in caso di contrasto tra giudice dell’udienza
preliminare e giudice del dibattimento, entrambi chiamati a giudicare il medesimo fatto attribuito
alla medesima persona, prevale la decisione del giudice del dibattimento.
292
Cass., Sez. Un., 28 giugno 2005, Donati, cit.
293
Anche Corte Cost., sent. 12 luglio 2001, n. 318, del resto, pronunciandosi sulla questione di
legittimità dellʹart. 649 c.p.p. nella parte in cui si riferisce soltanto a decisioni passate in giudicato,
ha rilevato che ʺnon compete a questa Corte indicare la norma processuale da applicare al caso di
specie, nè stabilire se, nellʹipotesi di precedente sentenza di condanna per il medesimo fatto non
ancora passata in giudicato, debba aversi riguardo a quanto disposto dallʹart. 649 c.p.p. o se, in
ossequio ad una accezione più piena del principio ne bis in idem, tale che in esso sia compreso il
290
78
La ricostruzione giuridica non ha teso ad estendere l’operatività dell’art. 649
c.p.p. anche al caso in cui non si sia formato il giudicato, quanto, piuttosto, ad
intendere l’articolo come “singolo punto di emersione”294 del principio del ne bis in
idem, al quale deve essere riconosciuto il carattere generale di “antidoto” agli abusi
del processo, in sintonia con gli obiettivi di razionalità, legalità e funzionalità del
sistema.
Pertanto, se il divieto di reiterazione dell’azione costituisce un principio
generale dell’ordinamento, allo stesso deve guardarsi, ai sensi dell’art. 12 delle
preleggi, per colmare la ravvisata lacuna normativa295.
La Corte, poi, nei passaggi della pronuncia rileva la matrice del principio di
ne bis in idem: quest’ultimo è uno dei molti volti che assume la preclusione nel rito
divieto di sottoporre a procedimento penale una stessa persona più di una volta per il medesimo
fatto, debba trovare applicazione lʹart. 529 c.p.p.”. V. anche Corte Cost., 6 marzo 2002, sent. n. 39,
che, chiamata a risolvere la questione di legittimità costituzionale dellʹart. 34 c.p.p. nella parte in
cui non prevede lʹincompatibilità del giudice dellʹudienza preliminare che, per il medesimo fatto,
abbia già disposto il rinvio a giudizio della stessa persona, ha dichiarato la manifesta infondatezza
della questione, osservando che ʺè da escludersi che il giudice possa essere chiamato a pronunciarsi
una seconda volta sullʹipotesi accusatoria in vista dellʹapertura di un nuovo giudizio, e ciò sia che
debba aversi riguardo a quanto disposto dallʹart. 649 c.p.p., sia che trovi applicazione il principio
del ne bis in idem in unʹeccezione più ampia di quella risultante dal predetto art. 649 e tale da
impedire lʹeventualità di procedimenti simultanei, rendendo applicabile, anche in tal caso, lʹart. 529
c.p.p., la cui previsione possa ragionevolmente estendersi a comprendere le ipotesi in cui lʹazione
penale non abbia da avere corso in un procedimento poiché già promossa in un altroʺ.
294
Cass., Sez. Un., sent. 28 giugno 2005, Donati, cit.
295
Cfr. Cass., Sez. Un., 16 dicembre 2010, Testini, cit. Sull’interpretazione estensiva effettuata
dalla Cassazione v., in termini critici, MARZADURI, Opinioni a confronto, cit., 246, “La Corte
sembra dimenticare che la regolamentazione del procedimento penale viene ricondotta all’interno
di una riserva di legge (…). Si può altresì rilevare come, nell’ambito di una materia per la quale
opera la riserva di legge, l’espresso e limitato collegamento sancito nell’art. 649 c.p.p. del ne bis in
idem alle sole sentenze irrevocabili, non solo ne impedisca una applicazione diretta ulteriore, del
resto correttamente esclusa dalla Corte, ma possa anche alimentare letture contrastanti la tesi
secondo cui sarebbe invocabile l’operatività di un generale divieto di bis in idem permeante l’intero
ordinamento processuale penale e indipendente, per l’appunto, dalla stabilità formale delle
decisioni coinvolte”.
79
penale, quale strumento processuale volto ad assicurare l’equilibrio tra le esigenze
di giustizia, celerità e certezza dell’ordinamento296.
Proprio la preclusione si presta a risolvere la questione della litispendenza di
procedimenti in gradi diversi nella medesima sede giudiziaria. In tal senso, infatti,
l’istituto agisce impedendo al pubblico ministero di riesercitare l’azione penale già
esperita per il medesimo fatto da parte dello stesso ufficio297. Così, ove i termini
della res iudicanda restino immutati, il potere di agire, di cui l’ufficio del p.m. era
titolare, deve considerarsi consumato e l’eventuale seconda azione deve essere
dichiarata improcedibile298.
D’altronde, un sistema processuale che lascia alla discrezionalità del
pubblico ministero la possibilità di reiterare l’instaurazione del processo nei
confronti della stessa persona, “oltre a risultare palesemente illogico, si pone in
grave frizione sia con il principio di legalità, sia con i canoni del giusto
processo”299.
296
In proposito v. ORLANDI, Principio di preclusione e processo penale, cit., 6, per il quale
ravvisare un principio di preclusione latente nel sistema “appare corretto, perche non contrasta con
garanzie individuali. Non comporta compressioni del diritto di difesa o di altre garanzie reputate
essenziali al giusto processo”.
297
La Corte di Cassazione specifica che una tale lettura non è in contrasto con l’obbligatorietà
dell’azione penale prevista dall’art. 112 Cost., in quanto la non reiterabilità dell’azione è una
conseguenza della sua irretrattabilità, nonché effettiva attuazione dei principi del giusto processo
sanciti dall’art. 111 Cost.
298
La preclusione-consumazione paralizza non solo la promovibilità dell’azione, ma altresì il
potere di ius dicere del giudice del medesimo ufficio investito precedentemente della cognizione
sull’identica regiudicanda. Ai fini della possibilità di dichiarare l’improcedibilità dell’azione
penale, v. Corte Cost., sent. 12 gennaio 1995, n. 27, cit., la quale ha affermato che l’operatività
dell’art. 529 c.p.p. “non è limitata ai casi di difetto delle condizioni di procedibilità espressamente
enumerate nel Titolo III del Libro V del codice di procedura penale, ma può essere
ragionevolmente estesa fino a comprendere tutte le ipotesi in cui per quel medesimo fatto lʹazione
penale non avrebbe potuto essere coltivata in un separato procedimento perché già iniziata in un
altroʺ.
299
Cit. CONTI, La preclusione nel processo penale, cit., 79. L’Autrice aggiunge, poi, “E’ appena il
caso di sottolineare, peraltro, come la decisione non sembri insistere oltre misura sul divieto di ne
bis in idem come presidio a tutela dell’individuo, giacché in proposito resta l’obiezione che il
condannato ben potrebbe avere interesse ad un nuovo procedimento al fine di ottenere
80
Un ulteriore ambito in cui i giudici di legittimità hanno affermato
l’immanenza del principio di preclusione all’interno dell’ordinamento è quello del
c.d. giudicando cautelare.
In tale caso la questione ha riguardato gli effetti preclusivi del gravame de
libertate ancora pendente su ulteriori possibili iniziative cautelari del pubblico
ministero. L’argomento è stato affrontato nelle due celebri sentenze Donelli e
Testini300.
In particolare, nella seconda pronuncia, la Corte di cassazione ha precisato
che la preclusione non è un principio monolitico né, tanto meno, le si può attribuire
un ruolo rigido. Questo istituto, infatti, deve adattarsi alle specifiche caratteristiche
del contesto in cui viene applicato e differente risulta essere il suo utilizzo, ad
esempio, tra il procedimento principale e quello incidentale.
Nel giudizio di merito è pacifico che qualora il pubblico ministero proceda
nei confronti di un soggetto per un fatto già oggetto di un precedente processo, la
preclusione opera in base ad un criterio cronologico che inibisce la seconda azione
per effetto della prima. Tale semplice meccanismo non è sempre automatico in
ambito cautelare301.
l’assoluzione con prevalenza dell’esito liberatorio ai sensi dell’art. 669 c.p.p.”. In proposito v.
ORLANDI, Principio di preclusione e processo penale, cit., 6, che, circa l’efficacia del principio di
preclusione nell’ambito in esame afferma “l’imputato non vanta alcun diritto a veder completato
l’iter del secondo processo per poi vedersi sottoposto, ex art. 669 c.p.p., alla sentenza più
favorevole. Al contrario, il ne bis in idem è principalmente norma pensata nel suo interesse, come
limite al potere repressivo dello Stato e la regola dell’art. 669 c.p.p. è tesa, manifestamente, a
rimediare in ritardo una situazione patologica che non si è potuta prevenire con l’effetto preclusivo.
Quest’ultimo è la regola (capace di sostanziare un principio sistematico), mentre l’art 669 c.p.p.
rappresenta il rimedio eccezionale a una situazione che non si sarebbe dovuta produrre”.
300
Cass., Sez. Un., sent. 31 marzo 2004, Donelli, cit.,2740 ss., Cass., Sez. Un., sent. 16 dicembre
2010, Testini, cit., 46 ss.
301
In proposito, v. CONTI, La preclusione nel processo penale, cit., 357.
81
In quest’ultimo contesto, invero, bisogna considerare la natura perennemente
in fieri delle valutazioni che spettano al giudice investito delle istanze delle parti302.
Ai fini dell’operatività della preclusione, perciò, non basta un mero concorso di
iniziative cautelari nei confronti della medesima persona e per lo stesso fatto.
Affinché si possa parlare di duplicazione di procedimenti, contraria al principio del
ne bis in idem, è indispensabile che le due iniziative siano fondate sugli stessi
elementi303.
Ogni mutamento della base probatoria, infatti, è di per sé sufficiente ad
inibire l’efficacia del giudicato e del giudicando cautelare. Ciò rispecchia
l’intrinseca instabilità dei provvedimenti cautelari che devono adeguarsi,
costantemente, all’evoluzione delle circostanze che ne costituiscono i presupposti e
che legittimano la restrizione della libertà personale dell’indagato304.
302
Cfr. CONTI, La preclusione nel processo penale, cit., 358.
Solo in questo caso, dunque, opera il principio di preclusione, attraverso il criterio di priorità
temporale, come avviene nel procedimento principale.
304
La natura dei provvedimenti cautelari implica la necessità di un bilanciamento costante tra l’
esigenza di tutela della collettività dalla pericolosità del soggetto, e la tutela della libertà personale.
Il binomio efficienza-garanzia assume in questo ambito una valenza delicata che rischia di essere
sbilanciata dall’uso distorto del principio di preclusione. Rileva MAGGIO, Con la “litispendenza
cautelare” le Sezioni Unite intervengono sul catalogo delle preclusioni alle iniziative del pubblico
ministero, cit., 87, che “le esigenze cautelari sono del tutto mutevoli, volatili ed estemporanee,
dunque insuscettibili di irrigidirsi in un giudicando che tale non può mai essere, proprio per la
connotazione effimera del “periculum”. Cfr. GALLUCCIO MEZIO, La resistibile ascesa del
“giudicando” cautelare, in Il principio di preclusione nel processo penale, cit., 151, il quale
afferma che, stante la sua funzione esclusivamente processuale, il procedimento cautelare necessita
di “congegni di costante adeguamento allo status dell’imputato destinatario della misura al mutare
delle situazioni di fatto sottese all’emissione del provvedimento”. Il carattere rebus sic stantibus del
giudicato cautelare, dunque, è garanzia di libertà e appare imposto dal principio di presunzione di
innocenza che esclude la mera funzione specialpreventiva della custodia cautelare.
303
82
L’effetto preclusivo che ne deriva, dunque, opera allo stato degli atti305,
ovvero solo nel caso in cui le circostanze poste alla base del provvedimento
rimangano invariate.
Qualora il pubblico ministero si trovi in possesso di nuovi elementi 306 ritenuti
utili ai fini della richiesta cautelare, e sia già pendente un giudizio di impugnazione
su di una precedente istanza, egli potrà decidere, discrezionalmente, se far valere
detti elementi con una nuova iniziativa o produrli nel procedimento di
impugnazione.
A parere dei giudici di legittimità, ferma la possibilità di far valere i nova
nell’impugnazione, già affermata dalla sentenza Donelli307, sarebbe inaccettabile
imporre al p.m. la sede in cui produrre i nuovi elementi poiché i tempi processuali
necessari all’esito del giudizio di impugnazione potrebbero compromettere la
possibilità di rispondere prontamente al periculum in mora che l’accusa intende
fronteggiare mediante la richiesta cautelare.
V. Cass., Sez. Un., sent. 16 dicembre 2010, Testini, cit., “la preclusione opera rebus sic
stantibus, cioè solo in caso di sostanziale immutazione della situazione presupposta, e solo in
riferimento alle questioni dedotte e non anche a quelle deducibili”. Precedentemente Cass., Sez.
un., 8 luglio 1994, Buffa, in Dir. Pen. proc., 1995, 69 ss., ha affermato che l’effetto preclusivo
consegue solo alle pronunce cautelari e non anche alla mancata instaurazione del procedimento
incidentale. Tale ricostruzione sottolinea che gli effetti delle pronunce cautelari vengono ricondotti
alla mera preclusione processuale, e non al giudicato in senso proprio, il quale evoca una situazione
di immutabilità e definitività incompatibile con la natura contingente dei provvedimenti cautelari.
Cfr. LORUSSO, Una impropria utilizzazione del concetto di giudicato penale: il c.d. ne bis in idem
cautelare, in Cass. Pen., 1994, 650. L’Autore rileva la contraddizione in termini dal punto di vista
logico e semantico di espressioni quali “giudicato allo stato degli atti” o “giudicato rebus sic
stantibus” ed afferma che “il termine giudicato evoca una situazione di immutabilità, mentre il
definire un accertamento allo stato degli atti e, ancora di più rebus sic stantibus reca in sé l’idea
della ipoteticità e, dunque, della sua instabilità”.
306
Per “nuovi elementi” si intendono sia quelli sopravvenuti che quelli preesistenti, già noti al p.m.
ma non posti a fondamento della richiesta cautelare, o semplicemente non valutati dal giudice. V.
Cass., sez. VI, sent. 1 febbraio 2007, Di Silvestro, cit.
307
Cass., Sez. Un., sent. 31 marzo 2004, Donelli, cit., 2740 ss. Con tale sentenza, diretto precedente
della pronuncia Testini, i giudici di legittimità avevano affermato che qualora il pubblico ministero
si determini a coltivare contemporaneamente una nuova richiesta cautelare e il precedente
procedimento impugnatorio per il medesimo fatto, resta preclusa al g.i.p., nella pendenza
dell’appello, la potestà di statuire ancora in ordine alla medesima domanda.
305
83
Del resto, è prassi legittima la proposizione, da parte del soggetto indagato,
di istanze di revoca della misura308 basate su elementi nuovi, mentre è in corso un
procedimento cautelare relativo al medesimo processo309. Appare, dunque, illogico
differenziare la posizione dell’accusa da quella della difesa dato che, aggiunge la
Corte, le esigenze di tutela della collettività, perseguite dal p.m., sono parimenti
incompatibili con “improprie e inutili dilazioni, quali quelle che deriverebbero da
intralci procedurali, a volte anche di lunga durata”310.
L’argomento che conduce ad una applicazione simmetrica del principio di ne
bis in idem alle due parti del processo, d’altro canto, lascia perplessa parte della
dottrina311.
A parere di quest’ultima, infatti, in ambito processuale la posizione occupata
da accusa e difesa non appare affatto assimilabile. La salvaguardia della libertà
dell’indagato, derivante dal principio del favor libertatis, prevale sull’interesse
pubblicistico impersonato dal p.m., che, a differenza di quanto avviene nel caso del
308
La revoca è sempre attivabile dal soggetto in quanto è uno strumento essenziale non solo a
valutare ex ante le condizioni di applicabilità della misura cautelare, ma anche ex post la
persistenza delle stesse, al fine di garantire l’attualità dei presupposti richiesti dalla legge per i
provvedimenti de libertate. In questo senso v. Cass., Sez. un., sent. 31 maggio 2000, Piscopo, in
Cass. Pen., 2000, 2977. Non si può, comunque, affermare che l’istituto sia totalmente immune agli
effetti preclusivi di una precedente istanza dell’indagato. La giurisprudenza maggioritaria, infatti,
rinvede riflessi dell’istituto nella possibilità, per il giudice investito della richiesta di revoca, di
limitarsi a richiamare per relationem le decisioni di precedenti giudizi de libertate, qualora vi sia
una effettiva duplicazione di questioni.
309
La proposizione dell’istanza di revoca fondata sui nova non è causa di inammissibilità
dell’impugnazione già proposta avverso la misura cautelare. Non implica, infatti, né acquiescenza
circa l’originaria legittimità del provvedimento, né la consumazione della facoltà di impugnare, non
avendo la richiesta di revoca natura di impugnazione. V. GALLUCCIO MEZIO, La resistibile ascesa
del “giudicando” cautelare, cit., 152.
310
Cass., Sez. Un., sent. 16 dicembre 2010, Testini, cit.
311
V. GALLUCCIO MEZIO, La resistibile ascesa del “giudicando” cautelare, cit., 153.
84
diritto soggettivo, ben può vedersi temporaneamente paralizzato da “intralci
procedurali”312.
Il ne bis in idem, dunque, va interpretato come una garanzia ad personam313,
volta ad inibire la reiterazione di iniziative dell’accusa che ledono la tutela dei diritti
del soggetto314.
Tornando al contenuto della sentenza Testini, va specificato che la possibilità
di produrre i nova in una seconda domanda cautelare si trova in rapporto di
alternatività con il potere di produrre gli stessi nel procedimento d’appello già
instaurato. Una volta effettuata la scelta, la soluzione concorrente resta preclusa al
pubblico ministero.
Secondo tale impostazione, dunque, la pendenza del giudizio incidentale non
impedisce di reiterare l’istanza cautelare. E’, semmai, il rinnovato esercizio
dell’iniziativa ad esplicare effetti preclusivi sul procedimento di appello315, inibendo
al p.m. la possibilità di produrre nuovi elementi probatori.
La ratio del favor per la preservazione della libertà del soggetto si evince chiaramente dall’art.
310, comma 3, c.p.p. Tale norma, infatti, prevede l’esecutività immediata dell’annullamento del
provvedimento coercitivo in sede di riesame. Per quanto riguarda, invece, il provvedimento
limitativo della libertà personale disposto dal giudice su appello del p.m., la sua efficacia è sospesa
fino a che la decisione non sia divenuta definitiva.
313
In questi termini GALLUCCIO MEZIO, La resistibile ascesa del “giudicando” cautelare, cit., 154.
314
A parere dell’Autore la ratio del ne bis in idem è quella di proteggere interessi contrapposti a
quelli di cui l’organo di accusa è portatore. Precludendo la reiterazione dei giudizi, infatti, tutela la
persona già irrevocabilmente giudicata dalla persecuzione ai fini della repressione penale. La
preclusione, dunque, colpisce logicamente solo chi è investito del potere di duplicare
l’instaurazione del processo, dunque il pubblico ministero.
315
In proposito v. MAGGIO, Con la “litispendenza cautelare” le Sezioni Unite intervengono sul
catalogo delle preclusioni alle iniziative del pubblico ministero, cit., 87, per il quale “L’unico
limite preclusivo, alla fine, pare dunque attenere non tanto alla domanda, com’è proprio dei
concetti richiamati di litispendenza o giudicato, quanto piuttosto all’utilizzabilità processuale del
nuovo materiale istruttorio: nel senso che questi elementi potranno essere utilizzati a supporto della
richiesta successiva, soltanto se non siano già prodotti nel gravame, e viceversa. Da questo punto di
vista potrebbe affermarsi che le Sezioni Unite vogliano addirittura scongiurare la possibilità del
verificarsi di preclusioni, dovesse insorgere ex abrupto un’esigenza cautelare, cosicché con
l’alternativa imposta al pubblico ministero si vuole semplicemente evitare che sulla medesima
situazione – trattandosi di regiudicanda fondata sul medesimo “novum” – si corra il rischio di
312
85
La pronuncia in commento mostra, così, una marcata attenzione alle esigenze
che possono spingere l’accusa a propendere per la reiterazione dell’istanza
cautelare, come la necessità di fronteggiare in tempi rapidi il pericolo dato dallo
stato di libertà dell’indagato. Tale sensibilità ha portato ad affermare una sostanziale
equivalenza delle due strade percorribili dal p.m. tenendo in scarsa considerazione i
rischi di duplicazione che possono derivare da una seconda richiesta incidentale
dell’accusa316.
In conclusione, va rilevato che, anche nell’ambito del giudicato cautelare, il
polimorfo principio della preclusione può essere interpretato in un verso che lede le
stesse esigenze che ne legittimano l’esistenza all’interno dell’ordinamento. Parte
della dottrina, infatti, ha affermato che la ricostruzione del sistema effettuata dalla
sentenza Testini rischia di sfociare in meccanismi che obliterano del tutto “le
ragioni di economia processuale e di razionalizzazione sistematica che
rappresentano la base giustificativa della preclusione, la quale impedisce la
moltiplicazione dei procedimenti incidentali de libertate, per di più facendo
dipendere l’operatività di detto istituto da scelte discrezionali del pubblico ministero
che incidono sulla libertà dell’indagato”317
pervenire a soluzioni contrastanti, formando un duplice titolo cautelare ugualmente efficace.” V.
anche GALLUCCIO MEZIO, La resistibile ascesa del “giudicando” cautelare, cit., 156, per il quale
“Tale ricostruzione si pone in aperto contrasto con l’efficacia ordinariamente riconosciuta al ne bis
in idem. Il divieto infatti è generalmente ricondotto alla categoria della preclusione processuale in
forza di un fenomeno di consumazione del potere conseguente al suo precedente esercizio. Il che
legittimerebbe l’idea (…) che al pubblico ministero sia precluso di reiterare l’azione fino
all’esaurimento del giudizio incidentale da lui stesso innescato”.
316
In proposito v. ORLANDI, Principio di preclusione e processo penale, cit., 8. L’Autore critica
l’equivalenza delle opzioni, avendo riguardo alla tutela del diritto di difesa. Afferma, infatti, che “è
motivo di comprensibile sorpresa che una simile equivalenza sia affermata come premessa dalla
quale trarre una norma giurisprudenziale destinata a incidere così pesantemente sull’esercizio del
diritto di difesa.”
317
Cit. SILVESTRI, Le preclusioni nel processo penale, cit. 550.
86
Capitolo III
Le Preclusioni all’attività della difesa
3.1 Il riflesso preclusivo del procedimento principale su quello incidentale: il
principio di assorbimento nel riesame cautelare proposto dall’imputato
La preclusione nell’ambito del processo penale nasce come strumento
correttivo delle duplicazioni che possono sorgere all’interno del procedimento. La
funzione di tale istituto è quella di tutelare, indirettamente, il soggetto indagato
dagli effetti lesivi di una durata irragionevole del processo.
Non mancano, tuttavia, circostanze in cui la preclusione è stata utilizzata
dalla giurisprudenza per limitare i diritti processuali della difesa stessa318. Un caso,
ad esempio, è quello dell’efficacia preclusiva del decreto di rinvio a giudizio sulla
possibilità, per l’imputato, di vedere riesaminato dal tribunale de libertate il
provvedimento cautelare emesso nei suoi confronti. A tale proposito, non si può
prescindere dal considerare il rapporto che intercorre tra il procedimento principale
e quello cautelare.
Da un lato, il richiamato rapporto è, da sempre, improntato su un principio di
autonomia, o di c.d. minima interferenza319. Per contro, è stato ritenuto che il
318
V., ad esempio, Cass., Sez. Un., sent. 31 gennaio 2008, Huzuneanu, in Cass. Pen., 2008, 2358,
Cass., Sez. Un., Liotta, in Foro it., 1996, 351, Cass., Sez. Un., sent. 29 settembre 2011, Rossi, in
Cass. Pen., 2012, 2410.
319
Così CONTI, La preclusione nel processo penale, cit., 369.
87
principio di impermeabilità e di non interferenza costituiscono una fonte di
“squilibrio, di disfunzionalità e di irrazionale sviluppo del processo”320.
Nonostante l’eterogeneità funzionale dei due momenti processuali, al fine di
non compromettere l’unicità e la funzionalità stessa dell’ordinamento diventa
essenziale la previsione di efficaci strumenti di coordinamento tra gli stessi321.
Una concezione rigorosa dell’autonomia del procedimento di libertà rispetto
a quello di merito, dunque, risulta inaccettabile322. Tale impostazione conduce alla
paradossale conseguenza di ritenere possibile la rivalutazione del presupposto dei
gravi indizi di colpevolezza in qualsiasi momento del processo e, quindi, anche
dopo l’eventuale intervento di una sentenza di condanna. Ciò, “in aperta antinomia
con la coerenza stessa del sistema”. Infatti, seguendo questa impostazione ne
deriverebbero due pronunce giurisdizionali sulla medesima quaestio: “una
incidentale e di tipo prognostico e l’altra di merito, e come tale suscettibile di
passaggio in giudicato”323.
Le interferenze del giudizio principale sul piano cautelare, di conseguenza,
sono state definite fisiologiche dalla dottrina324. Le valutazioni nel merito, infatti,
320
Cit. IACOVIELLO, Procedimento penale principale e procedimenti incidentali. Dal principio di
minima interferenza al principio di preclusione, cit. 2198.
321
In proposito v. NEGRI, Fumus commissi delicti, in La prova per le fattispecie cautelari, Torino,
2004, 80. L’Autore afferma che “vi sono due vocazioni…in tendenziale attrito: l’autonomia delle
due sfere e il principio di unicità del sistema di riferimento. Spinta oltre un certo grado la frizione
risulterebbe intollerabile, talché appare necessario, a pena di salvezza dell’unità referenziale di
fondo, ipotizzare l’esistenza, pur nell’assenza di meccanismi di osmosi normativamente previsti, di
una qualche permeabilità dei due universi valutativi.
322
Osserva ORLANDI, Provvisoria esecuzione delle sentenze e presunzione di non colpevolezza, in
Presunzione di non colpevolezza e disciplina delle impugnazioni, Milano, 2000, 146, che
sussistono interferenze tra i due giudizi “giacché i fatti da accertare sono gli stessi”.
323
Corte Cost., sent. 15 marzo 1996, n. 71, in Arch. Pen., 1996, 131.
324
Così MAFFEO, Giudizio immediato custodiale ed evidenza della prova: la posizione della Corte
di Cassazione, in Dir. Pen. proc., 2010, 557. Circa i provvedimenti allo stato degli atti v. anche
LORUSSO, Provvedimenti “allo stato degli atti” e processo penale di parti, Milano, 1995, secondo
il quale la previsione di tali provvedimenti è “naturalmente correlata allo svolgersi progressivo del
88
sono connotate dalla completezza degli accertamenti, a prescindere dalla definitività
degli stessi, e ben possono incidere su quelle decisioni incidentali che “per loro
struttura si caratterizzano per la provvisorietà delle valutazioni allo stato degli
atti”325.
Alcuni strumenti processuali utilizzati dalla giurisprudenza per coordinare gli
esiti dei giudizi effettuati nei due diversi procedimenti sono espressamente previsti
dal codice di rito e, perciò, non creano problemi di interpretazione. Questo è il caso,
ad esempio, dell’art. 300 c.p.p. il quale sancisce l’immediata perdita di efficacia
delle misure cautelari in conseguenza della pronuncia di non luogo a procedere, di
archiviazione o di proscioglimento, o, ancora, dell’art. 532 c.p.p. secondo cui il
giudice ordina la liberazione dell’imputato in stato di custodia cautelare qualora
venga emessa sentenza di proscioglimento.
Un problema di interpretazione sorge, tuttavia, nei casi in cui i rapporti tra le
valutazioni di merito e quelle incidentali non sono regolati dalla legge. A tal
proposito è intervenuta la Corte Costituzionale326 la quale ha sancito la presenza,
all’interno
dell’ordinamento
processuale,
del
cosiddetto
principio
di
assorbimento327.
In base a tale principio, qualora intervenga una decisione di merito che
contiene in sé una valutazione di incisività tale da “assorbire” l’apprezzamento dei
processo, alla sua realtà ontologicamente dinamica che richiede, non di rado, decisioni provvisorie,
decisioni parziali o decisioni definitive ma anticipate”.
325
Così MAFFEO, Giudizio immediato custodiale ed evidenza della prova: la posizione della Corte
di Cassazione, cit., 562.
326
Corte Cost., sent. 15 marzo 1996, n. 71, cit.
327
Il principio di assorbimento, nei suoi termini generali, ha trovato frequente riconoscimento
anche da parte della giurisprudenza di legittimità. Tale principio è stato traslato dal diritto penale,
al fine di dare piena attuazione al principio del ne bis in idem di cui all’art. 649 c.p.p. non
invocabile in caso di valutazione de libertate contrastante con il giudizio di merito principale.
89
gravi indizi di colpevolezza richiesti dall’art. 273 c.p.p., può dirsi ragionevolmente
precluso il riesame su questi ultimi da parte del tribunale de libertate328.
In effetti, appare ragionevole ritenere che il giudice dell’impugnazione
incidentale non può prescindere dalle conclusioni già raggiunte da quello di merito,
dato che è insito nel concetto di cautela un carattere di strumentalità rispetto al
procedimento principale329.
Ad esempio, nel caso in cui sia stata già accertata la fattispecie criminosa,
un’indagine sulla sussistenza del fumus commissi delicti sarebbe contraria ad
esigenze di economia e coerenza processuale330. La duplicazione delle valutazioni
sul medesimo oggetto, infatti, non solo implica un inutile dispendio di risorse
umane e materiali, ma rischia anche di sfociare in due esiti contrastanti, ledendo il
principio della certezza del diritto.
Sulla base del principio di assorbimento, dunque, la sentenza di condanna,
seppur non definitiva, è idonea ad assorbire la valutazione dei gravi indizi di
colpevolezza e, quindi, a produrre gli effetti preclusivi nei confronti del reo che
intende impugnare il provvedimento cautelare331. In tale ipotesi, infatti, viene meno
lo stesso interesse del soggetto alla procedura del riesame332.
328
Sempre che il quadro degli elementi probatori non presenti variazioni successive a tale
decisione. V. Cass., sez. un., 20 novembre 2000, Cacciola, Ced Cass. 218222.
329
Così DANIELE, Fumus delicti ex art. 273 c.p.p. e decisione di rinvio a giudizio, in Riv. It. Dir.
Proc. Pen., 2003, 1014. Nello stesso senso v. CALAMANDREI, Introduzione allo studio sistematico
dei provvedimenti cautelari, Padova, 1936, 21, FOSCHINI, Le cautele penali, in Scuola pos., 1956,
127.
330
In dottrina, si è ritenuto, facendo leva sul dettato degli artt. 303, comma 1 lett. d) e 307, comma
2 lett. b) c.p.p., che l’accertamento richiesto dall’art. 273 c.p.p. trova nella sentenza di condanna la
massima completezza possibile. NEGRI, Fumus commissi delicti, in La prova per le fattispecie
cautelari, cit., 289.
331
Cfr. CHIAVARIO, voce Libertà personale, diritto processuale penale, in Enc. Giur., vol XIX,
Roma, 1990, 12. In questo senso v. Cass., sez. I, sent. 16 febbraio 2012, Canzonieri, in Arch. Pen.,
2012. I giudici di legittimità sono stati chiamati a valutare la legittimità dell’ordinanza emessa, ai
sensi dell’art. 309 c.p.p., dal Tribunale di Reggio Calabria, il quale, rigettando la richiesta di
90
Si tratta, ora, di stabilire se anche la decisione di rinvio a giudizio possa
assorbire l’apprezzamento richiesto dall’art. 273 c.p.p. ai fini della misura cautelare.
In base ad una prima impostazione333, sostenuta da una parte della
giurisprudenza fin dall’entrata in vigore del codice del 1988, a seguito del
ricevimento del decreto che dispone il giudizio è precluso al giudice del riesame
verificare la presenza dei gravi indizi di colpevolezza334. Il provvedimento previsto
riesame, confermava l’ordinanza del g.i.p. che applicava al ricorrente la misura della custodia
cautelare in carcere. L’imputato ha presentato ricorso per Cassazione ritenendo che nonostante la
sentenza di primo grado, la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza dovesse essere valutata dal
Tribunale adito e non semplicemente ricavata dal decisum della sentenza dibattimentale. La Corte
ha ribadito la necessaria applicazione del principio elaborato da giurisprudenza e dottrina,
dell’assorbimento del giudizio cautelare nel giudizio di primo grado. Ciò si esplica ancor più nelle
ipotesi di “decisione di condanna che intervenga nella pendenza del giudizio cautelare di rinvio,
dovendo il Tribunale, investito della regiudicanda cautelare, giudicando in sede di rinvio, procedere
a rivalutare la consistenza degli indizi prendendo atto del dato storico dell’intervenuta sentenza di
condanna non definitiva dell’imputato”. V. anche Cass., sez. V, sent. 9 aprile 1997, Fazio, in Arch.
Nuova proc. Pen., 1997, 670. In tali casi il giudice dell’impugnazione cautelare ha la facoltà di
motivare la propria decisione per relationem, richiamando le ragioni che sono alla base della
sentenza di condanna. Ciò solo nel caso in cui le dette ragioni sono conosciute o facilmente
conoscibili da parte dell’interessato, evenienza che non si verificherebbe quando la redazione della
motivazione della sentenza di condanna venga differita ai sensi dell’art. 544 c.p.p. Così Cass., sez.
un., sent. 3 luglio 1996, Moni, in Ced Cass. n. 205257.
332
Cass., sez. VI, 19 giugno 2008, Scozia, in Cass. pen., 2009, 3928.
333
V. Cass., sez. VI, sent. 27 maggio 1995, Pisani, in Mass. Cass. Pen.,1995, n.2, 17; Cass., sez. I,
sent. 17 ottobre 1994, Secci, in Mass. Cass. Pen., 1995, n.3, 68; Cass., sez. I, sent. 11 ottobre 1994,
Falcone, in Mass. Cass. Pen., 1995, n.2, 73, e altri. Rilevanti tre pronunce delle Sezioni Unite del
25 ottobre 1995: Cass., sez. un., Liotta, in Foro it., 1996, 351; Id., Riillo, in Foro it., 351; Id.,
Trimarchi, in Foro it., 351.
334
Seguendo tale impostazione l’assorbimento non opererebbe esclusivamente nell’ambito del
giudizio di riesame, bensì esplicherebbe i suoi effetti pure nel procedimento di appello, di
cassazione e di revoca, e, ancora prima, nello stesso procedimento di applicazione della misura
cautelare. Le sezioni unite, inoltre, con le tre sentenze del 1995 precisarono che si è in presenza di
analoga preclusione tutte le volte in cui la rivalutazione della gravità indiziaria si risolve in un
contrasto con altre statuizioni adottate nell’ambito del medesimo processo, a fondamento delle
quali fosse posta la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza. Al riguardo, furono indicati, oltre
alla sentenza di condanna, il decreto che dispone il giudizio immediato e l’instaurazione del
giudizio direttissimo, il quale si fonda sull’arresto in flagranza o sulla confessione convalidati dal
giudice. Cfr. DIOTALLEVI, La possibilità di rivalutare i gravi indizi di colpevolezza per il reato per
cui è stata applicata una misura cautelare dopo l’emissione del decreto di rinvio a giudizio: le
Sezioni unite ricompongono il quadro giurisprudenziale tra pronunce della Corte costituzionale e
arrets di legittimità, in Cass. Pen., 2003, 4008.
91
dall’art. 429 c.p.p. limita, dunque, il controllo de libertate sulla sola sussistenza
delle esigenze cautelari di cui all’art. 274 c.p.p335.
Detta interpretazione si fonda sull’assunto per cui il decreto di rinvio a
giudizio può essere emesso solo ove emerga, rebus sic stantibus, la prova piena
della colpevolezza del soggetto336. L’art. 425, comma 3 c.p.p., infatti, nel disporre
che venga pronunciata sentenza di non luogo a procedere quando gli elementi
acquisiti risultano “insufficienti, contraddittori o comunque non idonei a sostenere
l’accusa in giudizio”337, impone una regola di giudizio simile a quella prevista in
caso di sentenza di assoluzione. Il comma 2 dell’art. 530 c.p.p., invero, prevede tale
335
Tale impostazione è stata ripresa da Cass., sez. II, sent. 14 novembre 2000, Tavanxhiu, in Cass.
Pen., 2001, 3485, nonostante una precedente pronuncia della Corte Costituzionale in senso
contrario, alla luce delle modifiche della disciplina dell’udienza preliminare apportate dalla l. 479
del 1999, c.d. Carotti. Sulla riforma, v. BRICHETTI, Chiusura delle indagini preliminari ed udienza
preliminare, in AA. VV., Il nuovo processo penale davanti al giudice unico, Milano, 2000, 421;
TORTORA, Il giudice dell’udienza preliminare dopo la legge Carotti, in Giur. It., 2000, 885;
BARAZZETTA, Gli snodi processuali. La nuova udienza preliminare ed i riti speciali, in Indice
Pen., 2000, 501. La maggioranza dei commentatori, nel sottolineare i piú estesi poteri decisori che
vengono attribuiti al giudice dell’udienza preliminare, ha fortemente criticato tale innovazione,
sostenendo che l’attribuzione di poteri inquisitori avrebbe snaturato la funzione del giudice della
udienza preliminare. In questo senso v. PANSINI, Con i poteri istruttori attribuiti al Gup il codice
retrocede allo schema inquisitorio, in Diritto e Giustizia, 2000, 2, 60. La sentenza Tavanxhiu fa
leva sul notevole ampliamento dei poteri istruttori e decisori del g.u.p. e afferma che il decreto che
dispone il giudizio è ormai il risultato di un apprezzamento di merito prognostico di responsabilità,
assimilabile e sovrapponibile a quello di qualificata probabilità di colpevolezza richiesto ai fini
della gravità indiziaria. La pronuncia, in ogni caso, ha raccolto commenti sfavorevoli ed è poi
rimasta isolata.
336
Cfr. DANIELE, Fumus delicti ex art. 273 c.p.p. e decisione di rinvio a giudizio, cit., 1030. Per
una interpretazione analoga v. AMODIO, Lineamenti della riforma, in Giudice unico e garanzie
difensive. La procedura penale riformata, a cura di Amodio e Galantini, Milano, 2000, 31.
337
L’art. 425 c.p.p. è stato modificato nel 1993, con la legge n. 105. L’originaria stesura
dell’articolo prevedeva un’udienza preliminare che doveva costituire un filtro “dalle maglie molto
larghe”, idonee a trattenere solo le imputazioni che suggerissero una prognosi del tutto sfavorevole
quanto agli esiti dibattimentali. Il legislatore del 1998, infatti, era stato mosso dall’intenzione di
evitare una nuova previsione di attività puramente istruttoria durante l’udienza preliminare. Tale
disegno era coerente con il nuovo assetto accusatorio del processo penale, che prevedeva la
centralità assoluta della verifica dibattimentale. Con la riforma del 1993 viene eliminato il requisito
dell’evidenza che in precedenza rappresentava il discrimen entro cui circoscrivere l’ambito della
regola di giudizio che presiedeva all’adozione della sentenza di non luogo a procedere. In questo
modo, di riflesso, l’apprezzamento sotteso al decreto di rinvio a giudizio è divenuto, secondo parte
della dottrina, un accertamento positivo di colpevolezza. V. DIOTALLEVI, La possibilità di
rivalutare i gravi indizi di colpevolezza per il reato per cui è stata applicata una misura cautelare
dopo l’emissione del decreto di rinvio a giudizio: le Sezioni unite ricompongono il quadro
giurisprudenziale tra pronunce della Corte costituzionale e arrets di legittimità, cit., 406 ss.
92
esito del dibattimento qualora “manca, è insufficiente o è contraddittoria la prova
che il fatto sussiste”.
Stando a tale ricostruzione, il provvedimento che dispone il giudizio contiene
una prognosi sulla condanna dell’imputato analoga a quella richiesta ai fini della
misura cautelare. Essa è, dunque, idonea ad assorbire quest’ultima valutazione338.
La tesi dell’effetto assorbente della traslatio iudicii, d’altro canto, è stata
affrontata dalla Corte Costituzionale che, con una importante pronuncia del 1996339,
ha dichiarato illegittimi gli artt. 309 e 310 c.p.p. nella parte in cui, secondo il
“diritto vivente”, non consentivano al giudice di procedere all’accertamento dei
gravi indizi di colpevolezza successivamente alla pronuncia del decreto previsto
dall’art. 429 c.p.p.
L’apprezzamento del merito che chiude l’udienza preliminare, a parere della
Consulta, non si sviluppa secondo un canone, sia pur prognostico, di colpevolezza o
di innocenza dell’imputato, ma si fonda sull’intento di delibare se, nel caso di
specie, risulta o meno necessario dare inizio al processo vero e proprio340. Il rinvio a
giudizio, dunque, è imposto ogniqualvolta risulti utile l’istruzione dibattimentale, a
prescindere dalla previsione dell’esito del procedimento.
Pertanto, precludere l’accertamento dei gravi indizi di colpevolezza equivale
ad “introdurre nel sistema un limite che si appalesa irragionevolmente
discriminatorio e, al tempo stesso, gravemente lesivo del diritto di difesa, per di più
338
Cfr. BASSI, Sulla valutazione dei gravi indizi di colpevolezza dopo il decreto che dispone il
giudizio, in Cass. Pen., 2002, 3725.
339
Corte Cost., sent. 15 marzo 1996, n. 71, cit.
340
Così CONTI, La preclusione nel processo penale, cit., 384.
93
proiettato nella specie verso la salvaguardia di un bene di primario risalto quale è
quello della libertà personale”341.
A causa della “resurrezione” di pronunce di segno contrario rispetto alla
posizione della Consulta342 successivamente alla riforma dell’udienza preliminare
del 1999343, è stato necessario, nel 2002, l’intervento delle Sezioni unite della Corte
di cassazione344.
Mediante tale ultima sentenza i giudici di legittimità hanno precisato che gli
effetti della declaratoria di incostituzionalità del 1996345 non sono stati intaccati
dalle modifiche apportate dalla legge citata sul tipo di valutazione che determina il
passaggio al dibattimento346.
341
Corte Cost., sent. 15 marzo 1996, n. 71, cit. V. anche Cass., sez. I, 27 febbraio 2002, Ndreca, in
Cass. Pen., 2002, 3721, in cui la Cassazione precisa che la tesi dell’assorbimento condurrebbe a
una irragionevole disparità di trattamento rispetto agli imputati per reati in riferimento ai quali non
è prevista l’udienza preliminare. Quest’ultimo argomento non appare, tuttavia, decisivo. Come
rileva BASSI, Sulla valutazione dei gravi indizi di colpevolezza dopo il decreto che dispone il
giudizio, cit., 3731, infatti, la disparità di trattamento, in tale caso, è insita nella diversità delle
imputazioni, che, fin dall’origine, danno luogo a discipline processuali distinte.
342
Cass., sez. II, sent. 14 novembre 2000, Tavanxhiu, cit.
343
Legge n. 479 del 1999, c.d. Carotti. V. TORTORA, Il giudice dell’udienza preliminare dopo la
legge Carotti, cit.
344
Cass., sez. un., 26 novembre 2002, Vottari, in Guida dir., 2003, 91, con nota di LEO, Le Sezioni
unite escludono la tesi dell’assorbimento: nessuna preclusione al sindacato incidentale.
Sull’argomento v. DANIELE, Fumus delicti ex art. 273 c.p.p. e decisione di rinvio a giudizio, cit.,
1030, DIOTALLEVI, La possibilità di rivalutare i gravi indizi di colpevolezza per il reato per cui è
stata applicata una misura cautelare dopo l’emissione del decreto di rinvio a giudizio: le Sezioni
unite ricompongono il quadro giurisprudenziale tra pronunce della Corte costituzionale e arrets di
legittimità, cit., 406 ss.
345
Corte Cost., sent. 15 marzo 1996, n. 71, cit.
346
La stessa Corte costituzionale, con l’ordinanza n. 185 del 2001 ha affermato che le significative
e rilevanti modifiche che la legge n. 478 del 1999 ha apportato alla disciplina della udienza
preliminare, “pur avendo contribuito a ridefinire, in termini di maggior pregnanza, la struttura, la
dinamica ed i contenuti decisori di quella fase, non ne hanno tuttavia mutato le connotazioni
eminentemente processuali che ne contraddistinguono l’essenza”. Ciò atteso che “la funzione
dell’udienza preliminare era e resta quella di verificare -sia pure alla luce di una valutazione
contenutistica più penetrante rispetto al passato- l’esistenza dei presupposti per l’accoglimento
della domanda di giudizio formulata dal p.m., cosicché ad una richiesta in rito, non può non
corrispondere, in capo al giudice, una decisione di eguale natura, proprio perché anch’essa calibrata
sulla prognosi di non superfluità del sollecitato passaggio alla fase dibattimentale”. In tale ultima
fase, invece, “lo sviluppo delle serie probatorie e l’oggetto del contraddittorio si proiettano, non
verso una statuizione destinata unicamente a regolare il futuro iter del processo, ma verso una
94
La previsione di poteri di integrazione del materiale conoscitivo in capo al
giudice dell’udienza preliminare, afferma la Corte di cassazione, non influisce sul
tipo di valutazione effettuata a conclusione di questa fase processuale. Il giudice,
pur movendosi implicitamente anche nella prospettiva della probabilità di
colpevolezza dell’imputato resta, comunque, ancorato alla regola di giudizio per la
verifica dell’effettiva utilità del passaggio al dibattimento347. E’ possibile, quindi,
che venga disposto il giudizio anche quando sia insussistente il fumus commissi
delicti.
Analizzando l’intrinseca diversità del giudizio de libertate rispetto a quello
da cui scaturisce il decreto di rinvio al dibattimento risalta, poi, un dato
fondamentale per quanto riguarda la possibilità di riesaminare i gravi indizi di
colpevolezza dopo detto decreto. Mentre l’art. 429 c.p.p. concerne solo lo status di
soggezione al dibattimento, la decisione cautelare ha ad oggetto la libertà personale
dell’imputato e per tali provvedimenti gli artt. 13, comma 2 e 111 Cost. prescrivono
sentenza chiamata a definire direttamente il merito della regiudicanda e suscettibile di assumere i
caratteri e la forza del giudicato”. Tuttavia, successivamente, con le sentenze n. 224 del 2001 e n.
335 del 2002, la Consulta ha riconosciuto che a seguito delle importanti innovazioni introdotte nel
1999, all’incremento degli elementi valutativi necessariamente corrisponde un apprezzamento del
merito ormai privo del carattere di sommarietà precedente alla riforma. L’udienza preliminare,
dunque, “ha perduto la sua iniziale connotazione quale momento prettamente processuale”.
347
Cit. Cass., sez. un., 26 novembre 2002, Vottari, cit. Il passaggio al dibattimento può risultare
utile non solo quando sia prevedibile che il processo si concluderà con l’accoglimento dell’ipotesi
accusatoria, ma anche quando appaia ragionevole ritenere che il giudizio contribuirà a risolvere la
situazione di incertezza che si sia presentata in udienza preliminare. In questo senso DANIELE,
Fumus delicti ex art. 273 c.p.p. e decisione di rinvio a giudizio, cit., 1031.
95
l’obbligo di motivazione, esaustiva e logica348, nonché la piena ed immediata
riesaminabilità della misura restrittiva349.
Se si accoglie la tesi dell’assorbimento, il giudice dell’impugnazione
incidentale sarebbe costretto ad attenersi al dispositivo del decreto di rinvio a
giudizio che, per sua natura, contiene solo una indicazione sommaria delle fonti di
prova, senza alcun riferimento alle ragioni della decisione350. In tal modo,
l’ordinanza cautelare risulterebbe priva della motivazione completa richiesta dalla
legge.
Alla sostanziale mancanza di motivazione del provvedimento di rinvio si
affianca, poi, la caratteristica di inoppugnabilità di quest’ultimo. L’errore
eventualmente commesso dal giudice nel ritenere sussistente il requisito del fumus
commissi delicti risulterebbe, perciò, di fatto, irrimediabile per tutto il corso del
primo grado con un’evidente violazione delle norme costituzionali.
La rilevata asimmetria delle garanzie dei due giudizi, pertanto, impedisce di
riconoscerne l’equivalenza e, con essa, la possibilità di applicare al caso in esame il
principio di assorbimento.
Alla luce delle più recenti pronunce giurisdizionali, dunque, non può dirsi
precluso il potere del giudice dell’impugnazione cautelare di valutare la sussistenza
In applicazione della disposizione costituzionale, l’art. 292, comma 2 lett. c) c.p.p. prevede che
l’ordinanza cautelare contenga l’indicazione sia degli elementi di fatto da cui gli indizi che
giustificano in concreto la misura sono desunti, sia dei motivi per i quali gli elementi di fatto
assumono rilevanza, nonché dei motivi per i quali sono stati considerati non rilevanti gli elementi
forniti dalla difesa.
349
Riesaminabilità anche nel merito, secondo la direttiva 59/7 della legge delega per il “nuovo”
c.p.p.
350
La carenza dei motivi nel decreto di rinvio a giudizio si giustifica mediante l’esigenza di evitare
che il giudice della successiva fase dibattimentale possa comunque essere influenzato nel decidere
dalle valutazioni conclusive del giudice dell’udienza preliminare. V. Cass., sez. un., sent. 26
novembre 2002, Vottari, cit.
348
96
dei gravi indizi di colpevolezza nonostante l’imputato sia stato rinviato a giudizio.
Conseguentemente, è fatto salvo il diritto della parte ad ottenere il riesame del
provvedimento restrittivo della libertà personale, previsto dall’art. 111, comma 7
Cost.
97
3.2 L’impugnazione dell’imputato contumace successiva al gravame proposto
dal difensore: la sentenza Huzuneanu
Una delle materie in cui l’applicazione del principio di preclusione ha
sollevato i dibattiti più accesi, dando luogo, tra l’altro, ad una serie di decisioni
giurisprudenziali ravvicinate e contrastanti tra loro, concerne il diritto ad impugnare
dell’imputato contumace351. Per comprendere i termini della questione bisogna
precisare che, nel 2005352, il legislatore ha eliminato dall’art. 175 c.p.p. la
disposizione secondo cui la domanda di gravame del difensore impedisce la
proposizione da parte del condannato ignaro dell’istanza di rimessione in termini353
ai fini del giudizio di appello. La lacuna normativa che ne è derivata ha determinato
perplessità e dubbi circa l’interpretazione del frutto della richiamata riforma.
351
V. DE AMICIS, Osservazioni in margine ad una recente pronuncia delle Sezioni Unite in tema di
rapporti tra unicità del diritto di impugnazione e restituzione nel termine per impugnare una
sentenza contumaciale di condanna, in Cass. Pen., 2008, 2362. CALABRESE, La decisione sul
ricorso del difensore quale causa non codificata di inammissibilità dell’impugnazione successiva
del contumace, in Giur. It, 2008, 2025. LI VOLSI, Esercizio della potestà di impugnare del
contumace dopo la pronuncia sul gravame del difensore diventata esecutiva: una questione aperta,
in Ind. Pen., 2008, 661. LOGLI, Impugnazione del difensore e restituzione in termini dell’imputato
contumace, in Giur. It., 2009, 721. SANTORO, Partecipazione al processo effettiva solo con
duplicazione di impugnazioni, in Guida dir., 2008, 15, 76.
352
Ci si riferisce al decreto legge 21 febbraio 2005, n. 17, convertito nella legge 22 aprile 2005, n.
60. In materia v. GARUTI, Nuove norme sulla restituzione nel termine per l’impugnazione di
sentenze contumaciali o decreti di condanna, in Dir. pen. proc., 2005, 683 ss., CASSANO, Giudizio
in contumacia e restituzione nel termine, Milano, 2008, 63 ss.
353
La riforma ha provveduto, inoltre, ad invertire l’onere della prova. Oggi, infatti, non spetta più
al contumace provare di non essere stato a conoscenza dell’instaurazione del processo a suo carico;
bensì tale incombenza grava sull’autorità giudiziaria che deve accertare, e dimostrare, l’eventuale
conoscenza del procedimento da parte dell’imputato. Nel comma 2 bis dell’art. 175 c.p.p., poi, è
stato previsto che la richiesta di restituzione nel termine debba essere presentata entro trenta giorni,
invece che dieci, da quando si è avuta effettiva conoscenza del provvedimento. La norma specifica,
inoltre, che, in caso di estradizione dall’estero, il termine per la presentazione della richiesta
decorre dalla consegna del condannato.
98
Detta modifica è risultata necessaria a seguito delle numerose censure della
Corte Europea dei diritti dell’uomo nei confronti dell’Italia354. I giudici di
Strasburgo hanno reputato l’art. 175 c.p.p. uno strumento non idoneo ad assicurare
la tutela del diritto di difesa del contumace. La disciplina della restituzione in
termini, infatti, non prevede la possibilità per il condannato in absentia di ottenere
un nuovo giudizio355. L’impossibilità, per il soggetto contumace, di procedere in tal
354
V. Cedu, sent. Sejedovic c. Italia, 10 novembre 2004, o, ancora, CEDU, sent. Colozza c. Italia,
12 febbraio 1985.
355
Numerose sono state le occasioni anche per la giurisprudenza di legittimità di affrontare la
tematica della restituzione in termine, alla luce del dettato europeo. Si pensi al caso Cass., Sez. I,
sent. 12 luglio 2006, n. 32678, Somogyi, in CED Cass. n. 235035 nel quale la Cassazione ha
affermato che, in tema di restituzione in termine, per proporre impugnazione contro una sentenza
contumaciale, il giudice è tenuto a conformarsi alla decisione della Corte europea dei diritti
dell’uomo che, in accoglimento del ricorso proposto dal condannato, abbia riconosciuto il carattere
non equo del processo celebrato in absentia. Pertanto, il diritto al nuovo processo non può essere
negato invocando l’autorità del pregresso giudicato formatosi in ordine alla ritualità del giudizio
contumaciale che si è svolto nel rispetto della normativa processuale interna. V. anche Cass., Sez. I,
sent. 1 dicembre 2006, n. 2800, Dorigo, in CED Cass. n. 235447, in cui i giudici di legittimità
hanno affermato che il giudice dell’esecuzione è tenuto a dichiarare, a norma dell’art. 670 c.p.p.,
l’ineseguibilità del giudicato quando la Corte europea abbia accertato che la condanna sia stata
pronunciata in violazione delle regole sull’equo processo sancite dall’art. 6 della Convenzione
europea ed abbia riconosciuto al condannato il diritto alla rinnovazione del giudizio, anche se il
legislatore abbia omesso di introdurre nell’ordinamento un adeguato mezzo per l’instaurazione del
nuovo procedimento. Cfr. MONTAGNA, Processo contumaciale e pubblicità dell’udienza nella
prospettiva di un dialogo tra Corti, in Arch. Pen., 2012, 1, 7, per la quale l’insieme delle modifiche
apportate nel 2005 ha migliorato il meccanismo dei rimedi per l’imputato contumace, ma non può
dirsi che abbia pienamente soddisfatto le esigenze di garanzia del giudizio per il contumace
incolpevole. Invero, per tale soggetto continua a sussistere soltanto la possibilità di usufruire - una
volta restituito nel termine per impugnare - del giudizio d’appello, nel cui ambito, tra l’altro, la
rinnovazione dell’istruzione dibattimentale per l’imputato contuma-ce è connessa alla sussistenza
di presupposti coincidenti con quelli all’origine previsti dall’art. 175, comma 2, c.p.p. Senza
contare, poi, che nel giudizio d’appello, non possono essere esercitate facoltà e diritti che soltanto
nel giudizio di primo grado trovano realizzazione (si pensi alla scelta dei riti o al diritto alla prova).
Ne discende che, se è pur vero che l’intervento del legislatore realizzato nel 2005 a proposito
dell’art. 175 c.p.p. acquisisce rilievo quale “risposta” del nostro ordinamento alle sollecitazioni
sovranazionali, è altrettanto vero che i rimedi in quell’occasione approntati continuano a non
soddisfare in pieno i parametri sovranazionali inerenti al diritto dell’accusato di prendere
personalmente parte al processo. Significativa, sotto questo profilo la decisione della Corte di
Strasburgo del 25 novembre 2008, Cat Berro c. Italia, con cui si evidenzia come il legislatore
attraverso le modifiche apportate all’art. 175 c.p.p. abbia sopperito ad alcune delle carenze
normative dalla stessa Corte in passato censurate ed in qual modo sia, però, necessario atten-dere
l’interpretazione che la giurisprudenza darà della mutata norma.
99
senso lede i principi comunitari ogniqualvolta non sia provato che il condannato ha
rinunciato in maniera non equivoca al proprio diritto di difendersi356.
Sulla scorta dell’intervento legislativo del 2005 si sono formati diversi
orientamenti giurisprudenziali, alcuni dei quali di stampo garantista357, altri, invece,
meno innovativi e legati al disposto dell’art. 175 c.p.p. precedente la riforma 358. Da
una parte, infatti, è stato affermato il primato del diritto di difesa su qualsivoglia
interesse alla durata del processo. Sulla base di tale presupposto, dunque, al
Cedu, sent. Sejedovic c. Italia, 10 novembre 2004 ha ricordato che “per quanto non
espressamente menzionata al paragrafo 1 dell’art. 6, la facoltà per l’accusato di prendere parte
all’udienza discende dall’oggetto e dalla ratio dell’insieme dell’articolo”. Tale norma, invero, non
menziona in modo esplicito il diritto alla partecipazione del processo, come accade, invece,
nell’art. 14 § 3 lett. d del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, firmato a New York
il 16 dicembre 1966. Tuttavia, il § 3 dell’art. 6 Cedu, alle lettere c, d, e, attribuisce all’accusato
diritti che egli è in grado di realizzare soltanto attraverso una partecipazione personale all’udienza.
I giudici proseguono affermando che “se una procedura che si svolge in assenza dell’imputato non
è in sé incompatibile con l’art. 6 della Convenzione, resta il fatto che vi è un diniego di giustizia
quando un individuo condannato in absentia non può ottenere successivamente che una
giurisdizione statuisca di nuovo, dopo averlo sentito nel rispetto delle esigenze dell’art. 6 della
Convenzione, sul merito dell’accusa in fatto ed in diritto, ove non sia stabilito in maniera non
equivoca che egli ha rinunciato al suo diritto di comparire e di difendersi”. Pertanto, “un
condannato che non può essere considerato rinunciante in maniera non equivoca a comparire deve
in ogni circostanza poter ottenere che una giurisdizione statuisca nuovamente sul merito
dell’accusa”. Avuto riguardo, poi, alla natura della violazione riscontrata, e tenuto conto del fatto
che la vicenda di specie aveva rivelato “l’esistenza nel sistema giuridico italiano di un difetto, in
conseguenza del quale ogni persona condannata in contumacia che non sia stata informata in
maniera effettiva delle accuse potrebbe vedersi privare di un nuovo processo”, la Corte
conclusivamente ha ritenuto che lo Stato convenuto dovesse “sopprimere ogni ostacolo legale che
possa impedire la riapertura del termine per proporre appello o la tenuta di un nuovo processo nei
confronti” del contumace inconsapevole che non abbia rinunciato in maniera non equivoca al
proprio diritto a comparire.
357
V., ad esempio, Cass., sez. I, sent. 16 ottobre 2006, n. 34468 ove si afferma che la disciplina
della restituzione nei termini per impugnare la sentenza contumaciale prevista dall’art. 175 c.p.p. è
di natura speciale rispetto alle regole generali sulle impugnazioni. Ne consegue che ad essa non è
applicabile il principio di unicità del diritto di impugnazione. Una volta provata la non conoscenza
del processo dell’imputato, quindi, quest’ultimo ha diritto di ottenere la restituzione nei termini per
proporre appello anche laddove la sentenza sia stata impugnata dal difensore. La sentenza, inoltre,
sottolinea che l’effetto naturale della rimessione in termini è costituito dal giudizio di appello e non
potrebbe considerarsi appagante un meccanismo che consentisse all’imputato di essere rimesso in
termini ai soli fini del ricorso per Cassazione contro la sentenza di appello richiesta dal difensore.
L’eventuale rapporto tra i due giudicati che sorgono sulla base di due impugnazioni, aggiunge,
deve essere risolto secondo il meccanismo previsto dall’art. 669 c.p.p. per i contrasti tra sentenze
definitive.
358
V. Cass., sez. II, sent. 19 aprile 2006, Barbaro, in CED 234655, o Cass., sez. V, sent 5 giugno
2003, Gori, in CED 228308.
356
100
contumace è riconosciuto il diritto di ottenere la restituzione in termini anche
quando ciò comporta una duplicazione delle impugnazioni: una che proviene dal
difensore ed una da parte del condannato359.
Il secondo orientamento giurisprudenziale, invece, nega la portata innovativa
delle modifiche dell’art. 175 c.p.p. Solo una espressa previsione normativa, si
sostiene, è in grado di introdurre all’interno dell’ordinamento una forma di doppio
gravame360.
Di qui, un primo tentativo di porre fine alla questione circa l’interpretazione
del “nuovo” sistema di remissione in termini è stato compiuto nel 2008 dalle
Sezioni Unite della Corte di cassazione, con la nota sentenza Huzuneanu 361. In
questo caso, i giudici di legittimità hanno accolto la soluzione conservatrice, volta a
riconoscere un effetto preclusivo all’impugnazione proposta dal difensore nei
confronti delle successive iniziative del contumace. La pronuncia richiamata muove
dal principio di unicità del diritto di impugnazione e in essa si afferma che ciò
costituisce un caposaldo del sistema processuale362. Il gravame, infatti, anche se
proposto dal difensore, produce effetti esclusivamente nei confronti dell’imputato
ed è, quindi, da considerarsi come proveniente da quest’ultimo. Una volta
359
In questo senso v. Cass., sez. I, sent. 21 giugno 2006, De Los Reyes, in CED 234834, e Cass.,
sez. I, sent. 7 dicembre 2006, Virzì, in CED 235292.
360
Cass., sez. II, sent. 19 aprile 2006, Barbaro, cit.
361
Cass., sez. Un., sent. 31 gennaio 2008, Huzuneanu, cit. In dottrina v. SANTORO, Partecipazione
al processo effettiva solo con duplicazione di impugnazioni, in Guida Dir., 2008, 15, 86, e
MONTAGNA, Processo contumaciale e pubblicità dell’udienza nella prospettiva di un dialogo tra
Corti, cit., 7.
362
Afferma, infatti, Cass., Sez. Un., sent. 31 gennaio 2008, Huzuneanu, cit.: “D’altra parte il
principio di unicità del diritto di impugnazione, già enucleato come criterio fondamentale del
sistema delle impugnazioni nel previgente codice di rito, deve ritenersi senz’altro presente anche
nel codice attuale, giacché, pur in presenza di un ruolo di maggior pregnanza assegnato al difensore
delle parti in genere e dell’imputato in specie -al punto da essere iscritto tra i “soggetti” del nuovo
processo- è fuor di dubbio che, ancorché il difensore stesso risulti normativamente legittimato a
proporre personalmente l’atto di impugnazione, è l’imputato, e solo questo, che ne subisce gli
effetti, continuando ad essere la parte del giudizio di impugnazione”.
101
intervenuta la decisione sul merito, dunque, il diritto ad impugnare si ritiene
consumato.
Inoltre, la Corte di cassazione ripercorre le conclusioni a cui è pervenuta la
precedente sentenza Donati del 2005363. In tale ultima pronuncia è stato affermato
che le situazioni di litispendenza non riconducibili alla categoria dei conflitti di
competenza di cui all’art. 28 c.p.p., come nel caso Huzuneanu, devono essere risolte
con la dichiarazione di impromovibilità della seconda azione, in applicazione del
principio del ne bis in idem. Il nucleo di detto fondamentale principio processuale,
infatti, è rappresentato dalla preclusione che mira a realizzare la coerenza e l’ordine
nel processo attraverso il divieto di duplicazione di un potere già esercitato.
Se il legislatore avesse realmente voluto introdurre nel sistema la possibilità
di reiterare l’impugnazione di una sentenza, poi, avrebbe anche provveduto a
regolare le situazioni scaturenti da una duplice domanda di gravame, come, ad
esempio, la convivenza di due differenti giudicati sul medesimo oggetto.
Al fine di risolvere tale conflitto, sottolineano le Sezioni Unite del 2008, non
può considerarsi adeguato il rimedio previsto dall’art. 669 c.p.p.364. Quest’ultimo,
infatti, disciplina la composizione di situazioni patologiche, per l’eventualità in cui
sia stato violato il ne bis in idem. La norma non può essere utilizzata, quindi, per
regolare una ipotesi fisiologica di due giudicati che si sono formati in modo
legittimo a causa del concorso di strumenti impugnatori365.
363
Cass., Sez. Un., sent. 28 giugno 2005, Donati, cit.
Contrariamente a quanto affermato da alcune precedenti sentenze. V. Cass., sez. I, sent. 16
ottobre 2006, n. 34468, cit.
365
Cfr. CONTI, La preclusione nel processo penale, cit., 96.
364
102
Con uno slancio esegetico, i giudici di legittimità proseguono affermando
che l’interpretazione garantista volta ad escludere l’effetto preclusivo della richiesta
di gravame del difensore è contraria agli artt. 111 Cost. e 6 Cedu e, dunque,
impraticabile366. Infatti, la duplicazione dei gravami è incompatibile con l’esigenza
di assegnare una ragionevole durata al processo, imposta dalla Costituzione e dalla
norma convenzionale.
Le garanzie normativamente stabilite per il contumace dal codice di rito e
dalle statuizioni della Corte europea367 devono, allora, essere necessariamente
bilanciate con gli altri interessi costituzionalmente protetti368, come, appunto, la
ragionevole durata del processo. Ne consegue che i principi convenzionali possono
essere ritenuti incompatibili con la Costituzione “allorché mirino ad estendere la
366
In vero, lo stesso istituto della contumacia presenta dei profili che fanno dubitare della
compatibilità costituzionale di quest’ultimo rispetto ai principi previsti dall’art. 111 Cost. Ciò se si
tiene conto che il processo in absentia non può realizzare appieno i principi del contraddittorio.
Movendo da tale premessa, è stato più volte proposto di inserire nell’ordinamento dei meccanismi
sospensivi in caso di contumacia inconsapevole, sulla falsariga di quello previsto dall’art. 71 c.p.p.
per l’incapacità dell’imputato di partecipare coscientemente al processo. In questo senso, tra l’altro,
è andata l’ordinanza con cui il Tribunale di Pinerolo, nel 2006, ha sollevato la questione di
legittimità costituzionale di una serie di articoli del codice di rito “nella parte in cui non prevedono
la sospensione obbligatoria del processo nei confronti degli imputati ai quali il decreto di citazione
in giudizio sia stato notificato previa emissione del decreto di irreperibilità”. La questione,
dichiarata non fondata, ha comunque permesso alla Corte costituzionale di affermare che la stessa
Cedu non accorda, in tema di processo in absentia, garanzie maggiori di quelle previste dall’art.
111 Cost., e che queste ultime sono sufficienti a tutelare i diritti della persona. Corte Cost., 5 aprile
2007, n. 117, in Giur. Cost., 2007, 1118, con nota di IAFISCO, Il giusto processo all’imputato
irreperibile all’esame della Corte costituzionale.
367
Si fa riferimento alle sentenze della Corte europea circa il trattamento dell’imputato contumace.
Tra queste, v. quelle di censura nei confronti dell’Italia. CEDU, sent. Sejedovic c. Italia, 10
novembre 2004, o, ancora, Cedu, sent. Colozza c. Italia, 12 febbraio 1985.
368
La Cassazione, in proposito, ha ricordato le “sentenze gemelle” del 2007, in cui la Corte
Costituzionale aveva affermato che le pronunce della Corte europea non sono incondizionatamente
vincolanti ai fini del controllo di costituzionalità delle leggi nazionali. Il "margine di
apprezzamento" nazionale "può essere determinato avuto riguardo soprattutto al complesso dei
diritti fondamentali, la cui visione ravvicinata e integrata può essere opera del legislatore, del
giudice delle leggi e del giudice comune, ciascuno nell'ambito delle proprie competenze". Tale
valutazione, infatti, deve sempre ispirarsi al bilanciamento di interessi e vincoli in gioco.
103
portata garantista di una norma laddove una simile esegesi appaia limitativa di altre
istanze come il délai rasonable369”.
Alla luce del principio di preclusione inteso come consumazione di un diritto
processuale, l’affermazione dell’unicità dell’impugnazione appare ineccepibile sul
piano teorico370. Tuttavia, la Corte di cassazione371 pare non valutare con attenzione
i presupposti che consentono di parlare, propriamente, nel caso di specie, di
“unicità” dell’impugnazione e di consumazione del relativo diritto372.
In vero, un potere si estingue solo se risulta previamente esercitabile e,
dunque, conosciuto dal titolare, o se l’atto sostitutivo posto in essere è davvero
idoneo ad esaurirne gli scopi e le potenzialità.
Ebbene, nel caso dell’impugnazione del difensore ciò non si configura.
La richiesta di gravame, infatti, è effettuata prima che il contumace venga a
conoscenza del processo, in un momento in cui il potere non è esercitabile dal suo
diretto detentore. Peraltro, per poter considerare un atto equipollente rispetto ad un
altro, e quindi ad esso sostituibile, è necessario che tra i due vi sia contestualità e
piena sovrapponibilità, nei tempi e negli effetti. Pertanto, nel caso in esame, risulta
difficile ragionare, ex ante, in termini di unicità delle impugnazioni e, soprattutto, di
consumazione del potere da parte del difensore.
369
Cit. CONTI, La preclusione nel processo penale, cit., 100. Su tale punto bisogna aggiungere che
le Sezioni unite hanno escluso che il principio di coesistenza dell’impugnazione del difensore con
quella del contumace si possa ricavare dalle pronunce della Cedu nei confronti dell’Italia. La Corte
europea, infatti, ha menzionato come strumenti di adeguamento dell’ordinamento ai principi
convenzionali soltanto “o la possibilità di coltivare un appello il cui termine è incolpevolmente
decorso per il contumace inconsapevole e non rimandante”, o “un meccanismo analogo ad una
sorta di purgazione del giudizio contumaciale”. I rimedi previsti invece non ipotizzano
l’introduzione di un doppio giudizio impugnatorio. Cit. Cass., Sez. Un., sent. 31 gennaio 2008,
Huzuneanu, cit.
370
Cfr. MARZADURi, Opinioni a confronto, cit., 248.
371
Cass., Sez. Un., sent. 31 gennaio 2008, Huzuneanu, cit.
372
Così CONTI, La preclusione nel processo penale, cit., 100.
104
Nonostante l’evidente opinabilità dei risultati raggiunti dalla sentenza
Huzuneanu, l’orientamento quivi affermato ha influenzato la giurisprudenza
successiva tanto da spingere la prima Sezione della Corte di cassazione a sollevare
la questione di legittimità dell’art. 175 c.p.p. nella parte in cui, così come
interpretato nel diritto vivente, preclude la restituzione nel termine del contumace
qualora il difensore abbia già impugnato la sentenza di condanna373.
Nel dichiarare fondata la questione di incostituzionalità374, la Corte
Costituzionale, nel 2009, ha affermato che un diritto fondamentale, quale quello
all’impugnazione della sentenza di condanna, può essere consumato soltanto dal suo
titolare375. Quest’ultimo può essere sostituito nell’esercizio del potere “solo nei
limiti strettamente necessari a sopperire alla sua impossibilità di esercitarlo ma non
deve trovarsi di fronte all'effetto irreparabile di una scelta altrui, non concordata 376 e
potenzialmente dannosa per la sua persona”. E’ illegittimo, quindi, il sistema che
373
Cass., Sez. I, sent. 2 luglio 2008, n. 35555, Vangjelai, in CED Cass., n. 240578. Va rilevato che
il giudice a quo aveva sollevato la questione di legittimità dell’art. 175 c.p.p. anche nella parte in
cui non consente all’imputato restituito nel termine l’esercizio del diritto alla prova. La questione,
tuttavia, è stata dichiarata manifestamente inammissibile per difetto di rilevanza.
374
Corte Cost., sent. 4 dicembre 2009, n. 317, in Giur. Cost., 2008, 4747, con nota di UBERTIS,
Sistema multilivello dei diritti fondamentali e prospettiva abolizionista del giudizio contumaciale.
V. anche ARMONE, La Corte Costituzionale, i diritti fondamentali e la contumacia di domani, in
Foro it., 2010, 1, 359, ROMBI, Nuovi equilibri nei rapporti tra impugnazioni del difensore e
restituzione nel termine dell’imputato contumace, in Riv. Dir. Proc., 2011, 299.
375
V. LA ROCCA, Il rapporto tra il diritto all'impugnazione personale e la pregressa impugnazione
del difensore: riesame e mandato d'arresto europeo, in Giur. It., 2013, 11 ss. ”Nella pratica, solo il
diretto interessato, poiché la presenza della sola difesa tecnica non è idonea ad assicurare la
realizzazione di un effettivo contraddittorio, è in grado di rilevare l'eventuale falsità di circostanze
promananti dagli elementi prodotti dall'accusa, di suggerire confutazioni e proporre verifiche; solo
l'imputato è in grado di portare quel contributo conoscitivo rilevante per la ricostruzione del fatto
storico e per la sua difesa”.
376
Va sottolineato che la legge Carotti, n. 479 del 16 dicembre 1999 ha modificato l’art. 571 c.p.p.
eliminando, ai fini dell’impugnazione del difensore, la necessità della procura speciale. Di
conseguenza, il difensore del contumace, sia esso di fiducia o d’ufficio, si è trovato privo di vincoli
nella scelta di impugnare la sentenza adottata a seguito di procedimento in absentia. Resta ferma,
comunque, la possibilità per l’imputato di togliere efficacia all’impugnazione proposta dal
difensore nei modi previsti per la rinuncia, secondo quanto disposto dall’art. 571, comma 4, c.p.p.
A detta di parte della giurisprudenza questo intervento ha contribuito ad affermare la prevalenza
della difesa tecnica su quella personale.
105
non prevede uno strumento idoneo ad evitare che un atto consumato da un soggetto
diverso da quello legittimato a farlo produca effetti irremovibili.
L’analisi della Consulta verte, in particolar modo, sui principi affermati dalla
Corte di Strasburgo circa la posizione dell’imputato nel processo penale377.
Quest’ultimo è considerato titolare del diritto ad essere presente al procedimento a
suo carico, potendovi, però, volontariamente rinunciare. Ne consegue, logicamente,
che il soggetto deve sempre essere consapevole della pendenza di un processo nei
suoi confronti e poter usufruire di strumenti preventivi o restitutori nel caso non sia
stato possibile informarlo.
L’art. 175 c.p.p., poi, è stato valutato anche in relazione all’art. 117 Cost.,
quale veicolo di rilevanza della Convenzione europea dei diritti dell’uomo
all’interno dell’ordinamento. In particolare, la Consulta si è soffermata sulla
incidenza della ragionevole durata del processo prevista dall’art. 6 Cedu
La Corte Costituzionale ricorda, a tal proposito, che il diritto dell’imputato a partecipare
personalmente al processo che lo riguarda è sancito dal Patto internazionale relativo ai diritti civili
e politici, firmato a New York il 16 dicembre 1966, ratificato e reso esecutivo in Italia in base alla
legge 25 ottobre 1977, n. 881, art. 14, comma 3, lettera d). Il medesimo diritto, nello spazio
europeo, è garantito, poi, dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa che, con la risoluzione
del 21 maggio 1975, n. 11, ha precisato i criteri da seguire nel giudizio in assenza dell’imputato,
stabilendo, tra le “regole minime”, che “ogni persona giudicata in sua assenza deve poter
impugnare la decisione con tutti i mezzi di gravame che le sarebbero consentiti qualora fosse stata
presente” (raccomandazione n. 7). L’art. 3 del Secondo Protocollo addizionale alla Convenzione
europea di estradizione, adottato a Strasburgo il 17 marzo 1978, ratificato e reso esecutivo in Italia
in base alla legge 18 ottobre 1984, n. 755 prevede, inoltre, che l’estradizione di un condannato, ai
fini dell’esecuzione di una pena inflitta mediante provvedimento reso in contumacia, possa essere
subordinata al fatto che la Parte richiedente fornisca “assicurazioni ritenute sufficienti per garantire
alla persona la cui estradizione è chiesta il diritto ad un nuovo procedimento di giudizio che tuteli i
diritti della difesa”. L’art. 5 della Decisione quadro del Consiglio dell’Unione europea del 13
giugno 2002 (2002/584/GAI), relativa al mandato d’arresto europeo ed alle procedure di consegna
tra Stati membri, aggiunge la Corte, dispone: “Se il mandato di arresto europeo è stato emesso ai
fini dell’esecuzione di una pena o di una misura di sicurezza comminate mediante decisione
pronunciata in absentia, e se l’interessato non è stato citato personalmente né altrimenti informato
della data e del luogo dell’udienza che ha portato alla decisione pronunciata in absentia, la
consegna può essere subordinata alla condizione che l’autorità giudiziaria emittente fornisca
assicurazioni considerate sufficienti a garantire alle persone oggetto del mandato di arresto europeo
la possibilità di richiedere un nuovo processo nello Stato membro emittente e di essere presenti al
giudizio”.
377
106
sull’interpretazione delle norme interne. A tal riguardo, la Corte Costituzionale
afferma che il rispetto degli obblighi internazionali da parte del legislatore “non può
mai essere causa di una diminuzione di tutela rispetto a quelle già predisposte
dall’ordinamento interno, ma può e deve, viceversa, costituire strumento efficace di
ampliamento della tutela stessa”378. I giudici delle leggi, così, hanno ribadito il
principio di massima espansione delle garanzie379.
Naturalmente, anche nell’applicare il criterio del maximum standard alle
norme costituzionali deve essere compreso il bilanciamento tra i principi ispiratori
provenienti dalle disposizioni convenzionali e gli altri interessi costituzionalmente
protetti, cioè “con le altre norme costituzionali, che a loro volta garantiscono diritti
fondamentali che potrebbero essere incisi dall'espansione di una singola tutela”380.
Ad ogni modo, “il risultato complessivo dell'integrazione delle garanzie
dell'ordinamento deve essere di segno positivo, nel senso che dall'incidenza della
singola norma Cedu sulla legislazione italiana deve derivare un plus di tutela per
tutto il sistema dei diritti fondamentali”381.
Smentendo l’esegesi della sentenza Huzuneanu, la Consulta aggiunge, però,
che non è in alcun modo possibile operare detto bilanciamento tra il diritto di difesa
e il principio di ragionevole durata che la Corte di cassazione ha inteso tutelare
mediante la preclusione. Una diversa soluzione, infatti, introdurrebbe una
Corte Cost., sent. 4 dicembre 2009, n. 317, cit. In vero, l’art. 53 della Convenzione stessa
stabilisce che l’interpretazione delle norme Cedu non può implicare livelli di tutela inferiori a quelli
assicurati dalle fonti nazionali.
379
Tale importante principio era stato precedentemente affermato dalla sentenza n. 311 del 2009.
Sull’argomento v. DI GIOVINE, Come la legalità europea sta riscrivendo quella nazionale. Dal
primato delle leggi a quello dell’interpretazione, in Dir. Pen. cont., 2013, 159.
380
Corte Cost., sent. 4 dicembre 2009, n. 317, cit. Il punto ricalca l’interpretazione data dalla Corte
nelle precedenti sentenze gemelle del 2007, n. 348 e 349.
381
Così Corte Cost., sent. 4 dicembre 2009, n. 317, cit.
378
107
contraddizione logica e giuridica all'interno dello stesso art. 111 Cost. il quale “da
una parte, si troverebbe ad imporre una piena tutela del principio di difesa e del
contraddittorio e, dall'altra, autorizzerebbe tutte le deroghe ritenute utili allo scopo
di abbreviare la durata dei procedimenti”382.
Un processo carente sotto il profilo delle garanzie, dunque, non può essere
definito giusto, a prescindere dalla sua durata383.
Su tali presupposti la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità
dell’art. 175, comma 2 c.p.p.384. Ancora una volta, una pronuncia giurisdizionale
382
Cit. Corte Cost., sent. 4 dicembre 2009, n. 317, cit. Cfr. LA ROCCA, Il rapporto tra il diritto
all'impugnazione personale e la pregressa impugnazione del difensore: riesame e mandato
d'arresto europeo, cit., 11.
383
La Corte Costituzionale aggiunge che se si operasse un bilanciamento fra diritto di difesa e
ragionevole durata si perverrebbe ad un sacrificio puro e semplice, sia del diritto al contraddittorio
che del diritto di difesa, entrambi “garantiti da norme costituzionali che risentono dell'effetto
espansivo dell'art. 6 Cedu e della corrispondente giurisprudenza della Corte di Strasburgo”,
destinati a primeggiare, per i loro contenuti, rispetto ai principi dell'unicità del diritto
all'impugnazione e del divieto di bis in idem, da cui non possono essere tratte conclusioni limitative
di un diritto fondamentale.
384
Nel medesimo senso della pronuncia del 2009 della Corte Costituzionale, ma in ambito
cautelare, v. Cass. pen., Sez. III, sent. 14 febbraio 2013, n. 10603, con nota di LA ROCCA, Il
rapporto tra il diritto all'impugnazione personale e la pregressa impugnazione del difensore:
riesame e mandato d'arresto europeo, cit., 11. In questo caso la Cassazione ha ritenuto legittima la
richiesta di riesame reiterata personalmente dal soggetto detenuto all'estero in attesa della consegna
per l'esecuzione del mandato d'arresto europeo, nonostante la pregressa istanza presentata dalla
difesa tecnica nell'imminenza dell'emissione del provvedimento cautelare. Rileva l’Autore che la
garanzia del diritto al controllo sui provvedimenti giurisdizionali, per avere effettività, non può
essere "consumata" dall'atto del difensore che, talvolta, e soprattutto in sede di incidente cautelare,
può agire di propria iniziativa: il diritto del difensore di richiedere il riesame dell'ordinanza che
dispone una misura coercitiva sussiste, invero, in via autonoma rispetto al quello dell'interessato. E
tale autonomia, in tutti i casi in cui quest'ultimo non abbia avuto effettiva e materiale contezza del
provvedimento a suo carico, fa sì che il suo diritto al controllo non possa considerarsi precluso
dalla precedente istanza presentata dalla difesa tecnica. Il "giusto processo cautelare" è un
corollario fondamentale ed ineludibile del "giusto processo" e se non fosse ammesso come
categoria, tutto l'impianto del "giusto processo" potrebbe essere vanificato proprio nelle fasi iniziali
del procedimento e in un momento cruciale qual è quello della restrizione della libertà personale.
Ne deriva che, così come nel processo principale, anche in quello incidentale de libertate possano
verificarsi dinieghi di giustizia qualora il prevenuto, che subisce la restrizione dei suoi diritti, non
possa ottenere che una giurisdizione statuisca di nuovo, dopo averlo sentito nel rispetto delle
esigenze di cui all'art. 6 Cedu, sulla fondatezza del quadro indiziario, ove non sia stabilito in
maniera non equivoca che egli abbia rinunciato al suo diritto di comparire e di difendersi innanzi al
tribunale della libertà o che abbia prestato il consenso all'impugnazione proposta dal suo difensore.
108
incide sull’istituto della preclusione troppo spesso utilizzato come incauto
strumento di soluzione delle lacune normative, dando luogo, così, a risultati
pericolosi sul fronte della tutela dei diritti dell’imputato.
109
3.3 L’effetto preclusivo del giudicato esecutivo ed i mutamenti di
giurisprudenza
La nozione di “giudicato esecutivo”385 è un concetto di natura convenzionale
utilizzato in senso atecnico per affermare i limitati effetti “autoconservativi” dei
provvedimenti adottati dal giudice dell’esecuzione386. A ben vedere, infatti, le
decisioni prese in tale sede sono revocabili e, quindi, insuscettibili di passare in
giudicato.
Le differenze tra giudizio di cognizione e giudizio di esecuzione387, tenuto
conto della natura rebus sic stantibus degli accertamenti di quest’ultimo,
impediscono di utilizzare, in sede esecutiva, concetti ed istituti propri del
procedimento di merito. Più correttamente, dunque, la capacità di resistenza
giuridica delle ordinanze emesse in base all’art. 666, comma 6 c.p.p. deve essere
ricondotta al concetto della mera preclusione388.
385
Tale locuzione è utilizzata al fine di indicare i limiti della riproposizione di incidenti di
esecuzione fondati sulle medesime ragioni di fatto e di diritto. V. MANCUSO, Il giudicato nel
processo penale, Milano, 2012, 382.
386
Cfr. Cass., Sez. un., sent. 21 gennaio 2010, Beschi, in Guida dir., 2010, 27, 70, con nota di
MACCHIA, La modifica interpretativa cambia il diritto vivente e impone di rivalutare la posizione
del condannato. V. anche RUSSO, Il ruolo della law action e la lezione della Corte europea dei
diritti umani al vaglio delle Sezioni Unite. Un tema ancora aperto, in Cass. Pen., 2011, 26 ss.
387
Tenuto conto delle peculiarità di accertamento giudiziale a contenuto limitato del giudizio di
esecuzione, cit. Cass., Sez. un., sent. 21 gennaio 2010, Beschi, cit.
388
Il principio di preclusione, anche in tale ambito, deriva dal principio di ne bis in idem. V. Cass.
pen., sez. VI, sent. 26 novembre 1993, n. 3586, secondo la quale “la regola del ne bis in idem
presenta carattere generale essendo connaturata alla stessa ratio dell’ordinamento processuale e,
pertanto, con i dovuti adattamenti, è applicabile alle procedure di cognizione e di esecuzione, al
processum libertatis e ad ogni forma di impugnativa, di riesame e di revoca di provvedimenti
giudiziali, in ordine alle quali assume anche la funzione di garanzia dell’osservanza della tassatività
delle ipotesi e dei relativi termini assoluti di decadenza”. Nel caso di specie la Cassazione,
applicando il principio di preclusione ha ritenuto inammissibile la reiterazione da parte del
condannato, in assenza di fatti nuovi, dell’istanza di revoca della sentenza per abolizione del reato,
già respinta in precedenza.
110
Si deve valutare, poi, che nel procedimento di esecuzione il giudice non
effettua mai valutazioni di merito sul fatto e ciò comporta, necessariamente, una
diversa regolamentazione dell’efficacia preclusiva dell’esito del giudizio. Le
richieste incidentali del condannato, infatti, possono essere riproposte in qualsiasi
momento, con il solo limite che la nuova istanza non costituisca la mera
riproduzione di una richiesta precedentemente rigettata.
Mediante tale previsione il legislatore ha inteso creare un filtro processuale ai
fini della tutela dell’economia e dell’efficienza del processo contro le istanze di
instaurazione dell’incidente cautelare che siano meramente dilatorie389.
Al tempo stesso, per evitare valutazioni sommarie che possano pregiudicare i
diritti dell’interessato, i presupposti affinché operi la preclusione sono
rigorosamente delimitati dall’art. 666, comma 2 c.p.p. Detto articolo, infatti,
prevede che il giudice a quo dichiari inammissibile la richiesta di procedimento
esecutivo quando questa è “basata sui medesimi elementi” della precedente. Il
rigetto di tale successiva istanza, dunque, è lecito solo se segue ad una effettiva
comparazione volta a stabilire se, pur avendo ad oggetto lo stesso petitum, le due
richieste facciano leva su presupposti di fatto o su motivi di diritto differenti. In
questo caso, la preclusione non opera e il giudice è tenuto a fissare la data
dell’udienza in camera di consiglio, a meno che l’istanza appaia manifestamente
infondata.
Si tratta, ora, di stabilire cosa abbia inteso il legislatore con l’espressione
“medesimi elementi”, e quali siano i limiti di operatività di detta preclusione. I
La ratio della previsione dell’art. 666 è resa esplicita dalla relazione al progetto preliminare del
codice di rito. V. CONSO GREVI NEPPI MODONA, Il nuovo codice di procedura penale dalle leggi
delega ai decreti delegati, vol. IV, Il progetto preliminare del 1988, Padova, 1990, 1425.
389
111
giudici di legittimità390, a tal proposito, hanno indicato come medesimi elementi
tutte le questioni sia di fatto che di diritto che hanno formato oggetto della
precedente decisione o che sono state fondate su presupposti già dedotti391.
Alla luce di tale impostazione, ne deriva la necessità di stabilire se le
pronunce dei giudici di legittimità possono essere considerati elementi tali da
innovare il diritto vivente.
Sul punto, la Corte di cassazione ha elaborato due diversi orientamenti.
Un primo indirizzo interpretativo392, prevalente fino al 2010, afferma che le
evoluzioni giurisprudenziali non sono assimilabili al mutamento del dato normativo
e, dunque, non possono rappresentare un nuovo elemento di diritto idoneo a rendere
ammissibile la riproposizione di una richiesta già precedentemente respinta dal
giudice dell’esecuzione. Resta, quindi, ferma la preclusione del c.d. giudicato
esecutivo poiché i limiti del riesame dei provvedimenti adottati in tale sede devono
ritenersi rigorosi.
L’altro orientamento giurisprudenziale393, invece, sostiene che la mutata
interpretazione di una norma ben può integrare una nuova motivazione giuridica in
grado di legittimare la riproposizione di una istanza al giudice. Ciò, poi, è
390
Cass., Sez. un., sent. 21 gennaio 2010, Beschi, cit. In tale sede i giudici di legittimità hanno
rilevato la genericità e l’ambiguità della norma in esame.
391
In proposito, si veda la decisione 3 settembre 2009 della Corte di giustizia che, con riguardo al
principio dell'autorità del giudicato, ha affermato il principio di diritto secondo il quale in assenza
di una normativa comunitaria in materia, le modalità di attuazione del principio dell'autorità di cosa
giudicata rientrano nell'ordinamento giuridico interno degli Stati membri in virtù del principio
dell'autonomia procedurale di questi ultimi. Esse non devono tuttavia essere meno favorevoli di
quelle che riguardano situazioni analoghe di natura interna (principio di equivalenza) né essere
strutturate in modo da rendere in pratica impossibile o eccessivamente difficile l'esercizio dei diritti
conferiti dall'ordinamento giuridico comunitario (principio di effettività).
392
V. Cass., sez I, sent. 11 marzo 2009, Cat Berro, in CED 243810, Cass., sez. V, sent. 27 aprile
2004, Giovannini, in CED 229868, Cass., sez. I, sent. 28 marzo 1995, Marchesi, in CED 201624.
393
Cfr. Cass., sez V, sent. 24 febbraio 2004, Aragno.
112
particolarmente valido se l’evoluzione della giurisprudenza è cristallizzata in una
pronuncia delle sezioni unite della Corte di cassazione.
A porre fine alla questione sono intervenuti i giudici di legittimità con la
sentenza Beschi394. Il caso specifico concerneva una richiesta di indulto. Il
condannato si era visto rigettare una prima istanza per la carenza dei presupposti
necessari al provvedimento, valutata dal giudice sulla base dell’interpretazione
accolta dal diritto vivente. Successivamente, le Sezioni Unite hanno mutato
indirizzo circa tale impostazione. Ora, poiché sulla base del nuovo orientamento
l’indulto avrebbe dovuto essere concesso, il reo aveva reiterato la richiesta
adducendo, quale elemento nuovo rispetto alla precedente istanza, proprio il
mutamento esegetico della Corte di cassazione395.
Ebbene, con riferimento alla pronuncia in commento, i giudici di legittimità
hanno affermato che deve considerarsi nuovo elemento di diritto, idoneo a superare
lo sbarramento previsto dall’art. 666, comma 2 c.p.p., anche il mutamento di
giurisprudenza. Tale conclusione è la diretta conseguenza di una esegesi delle
norme interne posta in essere alla luce della nozione di “diritto” ricavabile dalla
Cedu.
La Corte europea dei diritti dell’uomo, infatti, ha ravvisato, in tale ultimo
assunto, la convivenza del diritto di produzione legislativa con quello di derivazione
giurisprudenziale396. Una simile interpretazione “allargata” muove dalla necessità di
394
Cass., Sez. un., sent. 21 gennaio 2010, Beschi, cit.
Cfr. CONTI, La preclusione nel processo penale, cit., 257.
396
Cedu, Grande Camera, Scoppola c. Italia, 17 settembre 2009. In tale sede la Corte europea ha
ricordato che nell’art. 7 Cedu il termine law è utilizzato in un significato identico a quello con il
quale esso ricorre nell’intero testo della Convenzione. Si tratta di una nozione che ricomprende sia
la legge statale, sia il diritto di produzione giurisprudenziale e richiede requisiti qualitativi come
l’accessibilità e la prevedibilità. In dottrina v. GAMBARDELLA, Il caso Scoppola: per la Corte
395
113
appianare le differenze tra gli ordinamenti di civil law e quelli di common law
fondati sullo stare decisis. Ma non solo. Tale impostazione è la conseguenza
inevitabile di una precisa constatazione: a causa del proprio carattere generale, il
testo della legge non può presentare una precisione assoluta. Le formule più o meno
vaghe di cui si serve il dato normativo necessitano dell’interpretazione del giudice
per essere applicate al caso concreto. Pertanto, è essenziale, ai fini della conoscenza
di una norma, la cooperazione tra potere legislativo e potere giudiziario397.
Il reale significato della legge, aggiunge la Corte, in un determinato contesto
socio-culturale, “non emerge unicamente dalla mera analisi del dato positivo, ma da
un più complesso unicum, che coniughi tale dato con l’atteggiarsi della relativa
prassi applicativa”398. Il giudice riveste, quindi, un ruolo fondamentale nella
“concretizzazione” della norma e nell’evoluzione della stessa, da cui non si può
prescindere.
L’ordinamento convenzionale, dunque, pur assegnando un ruolo centrale al
principio di legalità attraverso l’art. 7 Cedu399, ne offre una lettura estensiva che
europea l’art. 7 Cedu garantisce anche il principio di retroattività della legge penale più
favorevole, in Cass. Pen., 2010, 2020. Da tale considerazione scaturisce che, nel sistema
convenzionale, il principio di legalità penale prescinde dalla riserva di legge, con una netta
divaricazione rispetto a quanto espressamente previsto dall’art. 25, comma 3 Cost. Così CONTI, La
preclusione nel processo penale, cit., 283.
397
In ogni caso l’evoluzione interpretativa del diritto in ambito penale deve essere coerente con il
nucleo essenziale del reato e deve rendere comunque la fattispecie ragionevolmente prevedibile. A
tal proposito, la Corte di giustizia, sez. II, sent. 8 febbraio 2007, Groupe Danone c. Commissione
delle comunità europee, in Cass. Pen., 2007, 2200, ha affermato che si può ancora parlare di
prevedibilità quando l’interessato è tenuto a consultare un legale per valutare le conseguenze che
una determinata azione può sortire.
398
Cass., Sez. un., sent. 21 gennaio 2010, Beschi, cit.
399
L’art. 7 Cedu pur enunciando formalmente solo il principio di irretroattività, è stato interpretato
dalla giurisprudenza e dalla dottrina nel senso che esso delinea, nell’ambito del sistema europeo di
tutela dei diritti dell’uomo, i due fondamentali principi penalistici nullum crimen sine lege e nulla
poena sine lege. La norma, inoltre, presenta ulteriori contenuti particolarmente qualificanti, resi
progressivamente espliciti dalla giurisprudenza della Corte europea, che vi ha incluso il principio di
114
tiene in considerazione, più del dato formale, la norma “vivente” che risulta
dall’interpretazione dei giudici.
A ben vedere, poi, la richiamata posizione della Corte europea dei diritti
dell’uomo sulla portata del concetto di diritto non si discosta molto da quanto
affermato dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 276 del 1974. In
quest’ultima occasione, infatti, il giudice delle leggi ha dichiarato che il giudizio di
costituzionalità di una norma deve necessariamente guardare al “diritto vivente”,
inteso come insieme di norme “non quali appaiono proposte in astratto, ma quali
sono operanti nella quotidiana applicazione dei giudici”400.
Tra le pronunce giurisprudenziali che concorrono a formare tale diritto, un
ruolo centrale è ricoperto da quelle emesse dalla Corte di cassazione, in ragione del
compito di nomofilachia che questa svolge all’interno dell’ordinamento401. E’
sufficiente, infatti, una decisione di legittimità su un caso di interpretazioni
contrastanti per determinare il vincolo del diritto vivente, e ciò ai fini della
salvaguardia di principi costituzionali. L’uniforme interpretazione della legge,
determinatezza delle norme penali, il divieto di analogia in malam partem, il principio della
retroattività della legge meno severa e la legalità materiale.
400
Corte Cost., sent. 23 giugno 1956, n. 3.
401
Rileva l’ineffabilità dei concetti di “orientamento giurisprudenziale” e di “diritto vivente” DI
GIOVINE, Come la legalità europea sta riscrivendo quella nazionale. Dal primato delle leggi a
quello dell’interpretazione, in Dir. Pen. cont., 2013, 166. L’Autrice sottolinea che l’interrogativo
su tali concetti evoca il paradosso del sorite: cosi come non può stabilirsi quanti granelli fanno un
mucchio, nemmeno è possibile fissare il numero di sentenze che fanno un diritto vivente. Con
riferimento all’individuazione dell’overruling rilevante nella pronuncia delle Sezioni Unite,
prosegue sottolineando che la Corte di Cassazione interviene di fronte alla assoluta centralità della
questione oppure per sedare un contrasto giurisprudenziale: “ dunque, in situazioni ben diverse, se
non opposte, a quelle in cui un orientamento giurisprudenziale dovrebbe ritenersi consolidato (…) e
comunque, forse, neanche mancano ragioni per dubitare che le sentenze a Sezioni Unite siano
precedenti anche solo persuasivi, considerata la cattiva prova che costantemente da di sé la
funzione normofilattica del giudice di legittimità anche nella sua più autorevole composizione”.
Sulla vaghezza del concetto di “mutamento giurisprudenziale” v. anche NAPOLEONI, Mutamento di
giurisprudenza in bonam partem e revoca del giudicato di condanna: altolà della Consulta a
prospettive avanguardistiche di (supposto) adeguamento ai dicta della Corte di Strasburgo, in
www.penalecontemporaneo.it.
115
invero, significa uguale trattamento dei cittadini in ossequio a quanto previsto
dall’art. 3 Cost. Inoltre, la convivenza sistematica all’interno dell’ordinamento
nazionale di sentenze contrastanti lede entrambi i corollari del principio
costituzionale di legalità: l’esigenza di certezza del diritto e la sua tassatività.
Tornando a quanto riferito dalla sentenza Beschi402, la necessità di
interpretare l’art. 666, comma 2 c.p.p. in modo conforme alla Cedu e ai dicta della
Corte Costituzionale porta a ritenere che l’intervento di una pronuncia delle Sezioni
unite che modifichi il precedente assetto e che integri, dunque, un nuovo “diritto
vivente”, impone la rivalutazione della posizione del condannato. Tale novum,
infatti, è rilevante ai fini del superamento della preclusione.
Questa ricostruzione, oltre a garantire il rispetto di detti diritti fondamentali
appare più coerente con la natura stessa del procedimento esecutivo. Tale fase
successiva alla condanna, infatti, è strumentale alla funzione rieducativa della pena
e alla risocializzazione del condannato. Ne consegue la particolare flessibilità delle
norme che disciplinano detto momento del procedimento, proprio ai fini di un
adeguamento costante della pena alle esigenze del caso specifico403.
Ogni preclusione, dunque, deve essere esclusa quando una precedente
decisione negativa di applicazione dell’indulto si fonda su una interpretazione della
norma non conforme al diritto vivente404. Ciò, in particolar modo, alla luce del
402
Cass., Sez. un., sent. 21 gennaio 2010, Beschi, cit.
V. CONTI, La preclusione nel processo penale, cit., 261: “Dunque, un’esegesi che amplii la
tutela del condannato appare conforme alla ratio sottesa all’art. 666, comma 2 c.p.p. norma, per
altro, informata al principio del minimo pregiudizio, in base al quale il filtro sulle istanze
dell’interessato deve attenersi al controllo indispensabile per assicurare la celerità e la ragionevole
durata, prevenendo esclusivamente l’inutile proliferazione di richieste basate su identici
presupposti”.
404
Quanto al profilo comunitario, V. CONTI, La preclusione nel processo penale, cit., 261, che
afferma “il Supremo Collegio ha rilevato che sarebbe certamente non conforme a tale ordinamento
403
116
diritto fondamentale della libertà della persona che verrebbe leso dal rigetto
dell’istanza del condannato.
In caso di pronuncia di inammissibilità della richiesta, poi, si incorre nel
rischio di ledere anche l’art. 3 Cost. Nel dichiarare inammissibile l’istanza di
indulto il giudice dell’esecuzione, infatti, violerebbe il principio di uguaglianza
determinando una irragionevole disparità di trattamento tra condannati per reati
dello stesso tipo, commessi tutti prima della data di operatività dell’indulto.
Va comunque precisato che non ogni mutamento di giurisprudenza legittima
il superamento della preclusione prevista dall’art. 666 c.p.p. Ad esempio, non
produce tale effetto una nuova interpretazione in malam partem di norme di diritto
sostanziale. E’ noto, invero, che sia l’ordinamento convenzionale405 sia quello
nazionale406 prevedono il principio di irretroattività della legge più sfavorevole al
reo.
Inoltre, non può valere a rimuovere l’effetto ostativo derivante da una
pronuncia del giudice esecutivo neanche il mero sopravvenire di una sentenza della
Corte di cassazione che esprime un indirizzo minoritario, diverso da quello seguito
dall’ordinanza di rigetto della medesima istanza. Tale pronuncia di legittimità,
infatti, non assume il valore di ius superveniens all’interno del procedimento
esecutivo.
la preclusione rigida sulle questioni di diritto già decise, pur in presenza di un successivo contrasto
dell’interpretazione accolta con norme comunitarie e con convenzioni che vincolano gli Stati
membri. La giurisprudenza della Corte di giustizia, infatti, per quanto riconosca in via generale la
rilevanza del giudicato nazionale, ne relativizza il valore in situazioni particolari in cui le
corrispondenti modalità di attuazione siano strutturate in modo tale da rendere impossibile, o
eccessivamente difficile, il concreto esercizio di diritti previsti dall’ordinamento giuridico
comunitario (c.d. principio di effettività).
405
Art. 7 Cedu.
406
Art. 25 Cost. e art. 2 c.p.
117
In conclusione, va rilevato che il procedimento esecutivo rientra tra gli
ambiti di applicazione del principio di preclusione ma anche che quest’ultimo non
può che essere recessivo di fronte alla superiore esigenza di tutela del diritto di
uguaglianza e di libertà del condannato.
118
3.4 Il “giudicato progressivo” come ipotesi di preclusione processuale
L’esigenza di assicurare stabilità all’accertamento definitivo operato dal
giudice rappresenta la sintesi tra l’interesse statuale a tutelare l’autorità della
giurisdizione, l’interesse individuale del soggetto imputato ad evitare di essere
perseguito più volte per il medesimo fatto, e quello collettivo alla certezza delle
situazioni giuridiche407.
Nonostante si sia registrata una progressiva accentuazione dell’aspetto
garantista del principio di stabilità del giudicato408 in seguito alla modifica dell’art.
111 Cost.409, la tutela dell’imputato garantita dal ne bis in idem si offusca
ogniqualvolta l’avvio di un secondo accertamento sul medesimo fatto si configura
non come persecuzione, bensì come possibilità di miglioramento della condizione
del condannato410. Questo è quanto viene prospettato, ad esempio, dalla Corte di
407
Cfr. CONTI, La preclusione nel processo penale, cit., 216.
Cfr. NORMANDO, Il valore, gli effetti e l’efficacia del giudicato penale, in Esecuzione e rapporti
con autorità giurisdizionali straniere, a cura di Kalb, Torino, 2009, 12. Afferma l’Autore che
“Anche se radicati pregiudizi culturali e ideologici continuano a propugnare il mito
dell’intangibilità del giudicato, inizia ad emergere la presenza di un valore preminente: la
necessaria conformità della sentenza a esigenze di giustizia anche successivamente
all’irrevocabilità (…). Il riconoscimento della giurisdizionalità della fase esecutiva e l’introduzione
di una pluralità di rimedi revocatori del giudicato penale scandiscono la profonda evoluzione”.
409
Legge costituzionale n. 2 del 23 novembre 1999, “Inserimento dei principi del giusto processo
nell’articolo 111 della Costituzione”, in Giuri del 23 dicembre 1999, n. 300. Sulla riforma dell’art.
111 Cost, tra gli altri, BONFIETTI, CALVI, RUSSO, SENESE, Inserimento dei principi del giusto
processo nell’art. 111 della Costituzione, cit., 68 ss.
410
In questi termini CONTI, La preclusione nel processo penale, cit., 218. L’Autrice porta in
esempio il caso in cui ci si trovi dinanzi ad un condannato definitivo il quale , fuori dai casi nei
quali risultano esperibili le vie degli incidenti di esecuzione o della revisione, dalla rivisitazione
della decisione irrevocabile o dall’apertura di un nuovo processo potrebbe trarre una aspettativa
verso un epilogo più mite. Ciò si evince, peraltro, dalla disciplina dell’art. 669 c.p.p. La norma,
infatti, in presenza di una pluralità di sentenze irrevocabili impone di dare esecuzione alla
pronuncia più favorevole, in deroga al criterio della priorità temporale, corollario del principio del
ne bis in idem. L’autore conclude rilevando che l’irrevocabilità e l’effetto preclusivo del giudicato
rappresentano un presidio all’interesse statale all’autorità della giurisdizione. Soltanto allorché
l’individuo giudicato sia protetto da un provvedimento peggiorativo, infatti, può dirsi
effettivamente esistente una ratio di tutela soggettiva.
408
119
cassazione che riconosce valore, all’interno dell’ordinamento, al cosiddetto
“giudicato progressivo”411.
Tale forma di giudicato si crea nelle ipotesi in cui i giudici di legittimità,
chiamati a decidere sull’impugnazione di una sentenza, pronunciano annullamento
parziale e rinviano la questione al giudice ad quem. In proposito, bisogna precisare
che l’art. 624 c.p.p. prevede che quando la Cassazione dispone l’annullamento con
rinvio la sentenza ha autorità di cosa giudicata nelle parti della decisione che non
hanno connessione essenziale con quelle rimesse all’esame del giudice
competente412.
411
In proposito, rileva CHINNICI, Brevi note in tema di giudicato progressivo, in Arch. Nuova proc.
Pen., 2000, 235, “Il fenomeno viene indicato indifferentemente con i termini di giudicato
“progressivo” o “parziale”: il giudicato progressivo coinciderebbe, in sostanza, con il giudicato
parziale. La variante lessicale ci sembra, tuttavia, che colga nel segno allorché si vogliano
sottolineare due diversi aspetti del fenomeno: il termine “giudicato parziale” può attagliarsi, infatti,
alla decisione già pronunciata, e quindi alla “verità storica” ricostruita e cristallizzata nel decisum;
l’altro, “giudicato progressivo”, esprime piuttosto un concetto strettamente legato all’iter
processuale: guarda, cioè, alla res iudicata attraverso il percorso processuale, il quale, nel dirigersi
verso l’accertamento del fatto, la responsabilità dell’autore e la punibilità dello stesso riduce
progressivamente lo spazio del thema decidendum. Il termine “giudicato progressivo” sembra,
quindi, idoneo ad indicare gli esiti intermedi del processo concepito, come strumento di
conoscenza, o, se si preferisce, di ricostruzione di fatti storici la quale, tuttavia, può cogliersi non
tout court ma in progressione: scandita cioè, per fasi e gradi, da una serie di norme che prevedono
limitazioni, vincoli e passaggi necessari per gli esiti intermedi e finale del processo.”
412
L’art. 624 c.p.p. ricalca in toto la disposizione dell’art. 545 del precedente codice Rocco. L’art.
624, comma 2 c.p.p. precisa anche che quando occorre, la Cassazione di chiara nel dispositivo quali
parti della sentenza diventano irrevocabili. In mancanza di tale dichiarazione, la Corte può essere
sollecitata dal giudice competente per il rinvio dal pubblico ministero presso tale giudice o dalla
parte privata interessata. Meno problematica risulta l’ipotesi in cui la Cassazione disponga il c.d.
annullamento totale con rinvio dell’intera sentenza impugnata. In tal caso, “il giudice di rinvio è
investito di pieni poteri di cognizione e può -salvi i limiti nascenti da eventuale giudicato internorivisitare il fatto con pieno apprezzamento ed autonomia di giudizio ed, in esito alla compiuta
rivisitazione, addivenire a soluzioni diverse da quelle del precedente giudice di merito o
condividerne le conclusioni purché motivi il proprio convincimento sulla base di argomentazioni
diverse da quelle ritenute illogiche o carenti in sede di legittimità. Ne deriva che eventuali elementi
di fatto e valutazioni contenute nella pronuncia di annullamento non sono vincolanti per il giudice
del rinvio, ma rilevano esclusivamente come punti di riferimento al fine della individuazione del
vizio o dei vizi segnalati e non, quindi, come dati che si impongono per la decisione demandatagli.”
Così, Cass., sez. V, sent. 21 settembre 2010, Gambino, in CED 248413.
120
Nei casi in cui l’annullamento parziale è “improprio”413, se riguarda, cioè,
uno o più capi autonomi della sentenza, non si pongono questioni particolari e la
formazione progressiva del giudicato è comunemente ammessa414. Il provvedimento
impugnato, infatti, è formalmente unico ma, nella sostanza, contiene molteplici
decisioni su altrettanti capi di imputazione che corrispondono a differenti reati ed
ogni parte è, di per sé, indipendente e idonea ad essere eseguita415.
Problemi esegetici sorgono, invece, nelle ipotesi di annullamento parziale
“proprio” che si configura allorché vengano annullati uno o più punti di uno stesso
capo416. Ciò avviene, ad esempio, nei casi in cui la pronuncia di legittimità
413
Sul concetto di annullamento parziale improprio v. GIALUZ, Sub. Art. 624 c.p.p., in Codice di
procedura penale commentato, a cura di Giarda, Spangher, Milano, 2010, 7530.
414
PIERDONATI, Formazione “progressiva” del giudicato penale, in Il principio di preclusione nel
processo penale, cit., 90. V. anche SPANGHER, Questioni aperte in tema di giudizio d’appello, in
Riv. Dir. Proc., 1996, 707 ss. In questo senso anche nel caso in cui la decisione riguardi più
imputati dello stesso o di reati diversi. Al riguardo v. LAVARINI, L’esecutività della sentenza
penale, Torino, 2004, 40 ss.
415
Cass., sez. V, sent. 2 luglio 2004, n. 2541, in CED 230891, ha stabilito che “quando la decisione
irrevocabile in relazione all’affermazione di responsabilità, anche per uno solo o per alcuni dei reati
contestati contenga già l’indicazione della pena minima che il condannato deve comunque espiare,
questa deve essere messa in esecuzione in quanto l’eventuale rinvio disposto dalla Corte di
cassazione relativamente ad altri reati non incide sull’immediata eseguibilità delle statuizioni
residue aventi propria autonomia.” In tal caso la Corte ha rigettato il ricorso, fondato sul
presupposto della non eseguibilità della condanna per essere stata essa parzialmente annullata con
rinvio della cassazione in relazione ad una delle imputazioni, in accoglimento della richiesta di
applicazione della disciplina del reato continuato. Ha ritenuto la Corte che il parziale annullamento
con rinvio pronunciato in sede di legittimità, ed afferente al solo reato di detenzione di armi, non
incide sull’irrevocabilità della condanna definitivamente pronunciata per le altre imputazioni, tra
cui l’associazione mafiosa, atteso che anche l’eventuale più favorevole pronuncia rescissoria -in
ipotesi di riconoscimento della continuazione- non produrrebbe effetto sulla pena in concreto
irrogata”.
416
Sulla distinzione tra annullamento parziale proprio e improprio v. BUSETTO, Annullamento
parziale e declaratoria della prescrizione nel giudizio di rinvio, in Cass. Pen., 1997, 2484. In
merito al concetto di capo ed a quello di punto, v. Cass., sez. un., sent. 19 gennaio 2000, Tuzzolino,
in CED 216239. “La nozione di capo della sentenza è riferita soprattutto alla sentenza plurima o
cumulativa caratterizzata dalla confluenza nell’unico processo dell’esercizio di più azioni penali e
dalla costituzione di una pluralità di rapporti processuali, ciascuno dei quali inerisce ad una singola
imputazione, sicché per capo deve intendersi ciascuna decisione emessa relativamente ad uno dei
reati attribuiti all’imputato. Può quindi affermarsi che il capo corrisponde ad un atto giuridico
completo, tale da poter costituire da solo, anche separatamente, il contenuto di una sentenza. Il
concetto di punto della decisione ha una portata più ristretta, in quanto riguarda tutte le statuizioni
suscettibili di autonoma considerazione necessarie per ottenere una decisione completa su un capo,
tenendo presente, però, che non costituiscono punti del provvedimento impugnato le
121
conferma la decisione di merito per quanto riguarda l’accertamento del fatto e
l’affermazione della responsabilità penale dell’imputato e, contestualmente, impone
la fase rescissoria davanti al giudice del rinvio per rivalutare il quantum della pena.
In merito a tale contesto, l’interpretazione dell’art. 624 c.p.p. ha creato non
pochi contrasti tra la dottrina e la giurisprudenza, entrambe ferme su posizioni
opposte. In particolare, la questione ruota attorno al significato che deve essere
attribuito al termine “parti della sentenza” e a cosa abbia inteso riferirsi il legislatore
disponendo che tali parti hanno autorità di cosa giudicata. La giurisprudenza
dominante417 afferma che sono “parti” della sentenza non solo i capi ma anche i
singoli punti all’interno del capo. Dunque, anche a questi ultimi deve essere
riconosciuta autorità di cosa giudicata quando non vengono toccati dalla censura
della Corte di cassazione.
A parere dei giudici di legittimità, i punti relativi alla responsabilità del
soggetto e all’accertamento del fatto, rimasti estranei alla sentenza di annullamento,
argomentazioni svolte a sostegno di ciascuna statuizione. I punti della decisione coincidono con le
parti della sentenza relative alle statuizioni indispensabili per il giudizio su ciascun reato e dunque,
in primo luogo, all’accertamento della responsabilità ed alla determinazione della pena, che
rappresentano, appunto, due distinti punti della sentenza. Ne consegue che ad ogni capo
corrisponde una pluralità di punti della decisione, ognuno dei quali segna un passaggio obbligato
per la completa definizione di ciascuna imputazione, sulla quale il potere giurisdizionale del
giudice non può considerarsi esaurito se non quando siano stati decisi tutti i punti, che costituiscono
i presupposti della pronuncia finale su ogni reato, quali l’accertamento del fatto, l’attribuzione di
esso all’imputato, la qualificazione giuridica, l’inesistenza di cause di giustificazione, la
colpevolezza, e, nel caso di condanna, l’accertamento delle circostanze aggravanti e attenuanti e la
relativa comparazione, la determinazione della pena, la sospensione condizionale di essa, e le altre
eventuali questioni dedotte dalle parti o rilevabili d’ufficio”. V. anche PETRELLA, Le impugnazioni
nel processo penale, Milano, 1965, 124, per il quale “ogni sentenza resa nei confronti di più
imputati o che riguarda più imputazioni comprende tanti capi quanti sono gli imputati e quante
sono le imputazioni contestate a ciascun imputato…”.
417
V. Cass., sez. un., sent. 19 gennaio 2000, Tuzzolino, cit., Id., sent. 26 marzo 1997, Attinà, in
CED 207640, Id., sent. 19 gennaio 1994, Cellerini, in CED 196886, Id., sent. 11 maggio 1993,
Ligresti, in CED 193418, Id., sent. 23 novembre 1990, Agnese, in Cass. Pen., 1991, 734 ss.
122
non sono legati da connessione essenziale418 con il punto relativo alla pena e,
quindi, divengono immediatamente irrevocabili419. In questo modo, il giudice del
rinvio non può, in alcun caso, modificare le statuizioni concernenti l’an della
418
Essenzialmente connesse sono le parti della sentenza in rapporto di interdipendenza con quelle
annullate. La relazione deve essere tale per cui “l’annullamento di una statuizione comporti
necessariamente il riesame delle altre non espressamente colpite dall’annullamento. La parte
annullata, dunque, deve costituire “una premessa indispensabile rispetto all’altra disposizione, che,
per il rapporto di causalità deve esserne dipendente”. Cit. Cass., sent. 7 luglio 1987, Di Giovine, in
Giust. Pen., 1988, 530. V. anche Cass., sez. un., sent. 23 novembre 1990, Agnese, cit., per la quale
la connessione cui fa riferimento l’art. 624 c.p.p. è un concetto che appare ben più ristretto della
connessione ex art. 12 c.p.p. giacché quest’ultima tipologia di legami giuridicamente rilevanti,
idonea a giustificare la riunione dei procedimenti ed alcune deroghe alla competenza del giudice,
nulla ha a che vedere con quella imprescindibile interdipendenza che deve sussistere in relazione
all’oggetto delle diverse decisioni, perché soltanto questo rapporto è capace di attrarre alla
cognizione del giudice di rinvio statuizioni che, altrimenti, sarebbero precluse dal giudicato. Ad
avviso di tale pronuncia “il rapporto di connessione essenziale, richiesto quale condizione
imprescindibile per attrarre alla cognizione del giudice di rinvio le disposizioni della sentenza non
comprese tra quelle annullate, va inteso come necessaria interdipendenza logica e giuridica tra le
diverse statuizioni, di guisa che l’annullamento di una di esse rende inevitabile il riesame di quelle
parti che, perché non suscettibili di autonoma decisione, impongono un rinnovato giudizio. Ma
siffatto rapporto non esiste in relazione all’accertamento dell’esistenza di un reato e della
responsabilità dell’autore quando sia rimessa in discussione soltanto la concedibilità di attenuanti
generiche o il giudizio sulla pericolosità sociale degli autori di quel reato”. Le sezioni unite del 19
gennaio 1994, Cellerini, hanno, inoltre, escluso che esista connessione essenziale in presenza “di
una connessione meramente probatoria”.
419
In proposito v. Cass., sez. I, sent. 20 marzo 2000, n. 2071, in CED 215949, secondo cui “attesa
la regola generale della formazione progressiva del giudicato, consacrata dall’art. 624 c.p.p., deve
ritenersi che quando la decisione divenga irrevocabile in relazione alla affermazione di
responsabilità e contenga già l’indicazione della pena minima che il condannato deve comunque
espiare la stessa vada posta in esecuzione”. In tale caso, tuttavia, “è doveroso precisare che tale
situazione (l’esecuzione della parte di sentenza che non è oggetto di giudizio di rinvio) può
verificarsi solo se il giudice di merito, nella sentenza di condanna, abbia ottemperato al dovere
processuale di specificare l’entità della pena ritenuta congrua per il reato base e l’entità dei singoli
aumenti o delle singole diminuzioni effettuati per ogni circostanza; obbligo che, nella maggior
parte delle sentenze di condanna, viene purtroppo disatteso”. Così, FIORDALISI, Giudicato
progressivo e recidiva, Torino, 2008, 25. V. anche Cass., sez. un., sent. 26 marzo 1997, Attinà, cit.,
“potendo intervenire in momenti distinti l’accertamento della responsabilità e l’irrogazione della
pena e non essendo quest’ultima elemento costitutivo del reato, non è extra ordinem la concezione
di una definitività decisoria che, attenendo all’accertamento della responsabilità dell’autore del
fatto criminoso e ponendo fine all’iter processuale su tale parte, crei una barriera invalicabile
all’applicazione di cause estintive del reato, sopravvenute alla sentenza di annullamento ad opera
della Cassazione o eventualmente già esistenti e non prese in considerazione, benché non si sia
ancora connotata dall’esaustività la regiudicata per il permanere del residuo potere cognitivo del
giudice di rinvio in ordine alla determinazione della pena a lui devoluta (…) la posizione di chi è
stato conclusivamente giudicato e di chi ancora attende la definizione del giudizio di rinvio per la
determinazione della pena è identica con riferimento al giudicato formatosi sull’accertamento del
reato e sulla dichiarazione della responsabilità. Al contrario, non sarebbe giusto che l’imputato,
durante il tempo necessario per la determinazione della pena, si avvantaggiasse dall’estinzione per
prescrizione del reato in ordine al quale è già stato irretrattabilmente giudicato colpevole; ne la
contestualità tra dichiarazione di responsabilità e inflizione della pena è un precetto costituzionale”.
123
colpevolezza dell’imputato, neppure al fine di dichiarare l’intervenuta prescrizione
del reato o un’altra causa estintiva tra quelle previste dall’art. 129 c.p.p420.
L’esigenza che sottende tale ultima interpretazione giurisprudenziale è,
evidentemente, quella di limitare il rischio di prescrizione dei reati che il protrarsi
della fase rescissoria inevitabilmente favorisce421. Nonostante l’art. 129 c.p.p.
costituisca una indiscutibile estrinsecazione del favor rei all’interno del codice di
rito, l’ordinamento è pur sempre tenuto ad assicurare la ricerca dell’effettività dei
mezzi punitivi e rieducativi che, spesso, devono cedere il passo all’estinzione dei
reati in nome di principi quali la certezza delle situazioni giuridiche e l’economia
processuale.
La lettura che la Corte di cassazione dà dell’art. 624 c.p.p., dunque,
attribuisce alla sentenza di condanna annullata solo sul punto della pena il pieno
valore di giudicato.
Infatti, secondo Cass., sez. un., sent. 23 novembre 1990, Agnese, cit., l’art. 129 c.p.p. “altro non
è che la rappresentazione normativa di un principio di carattere generale nel quale convivono e si
armonizzano due anime, il favor libertatis, nella sua più lata accezione, e il rispetto dell’economia
processuale (…). Tutto ciò però non autorizza a ritenere che (…) il giudice possa prescindere da un
presupposto al quale è strettamente subordinato il suo potere decisorio, e cioè la pendenza di un
procedimento avente ad oggetto l’accertamento del fatto contestato e della responsabilità del suo
autore. Né può quella norma, nel pur doveroso rispetto della rilevanza dei principi ai quali è
ispirata, superare la barriera del giudicato ed essere applicata quando il giudizio sull’attribuibilità di
un reato ad un soggetto si sia ormai irrevocabilmente concluso”. Tali considerazioni sono coerenti
con la natura del giudizio di rinvio. Commenta, in proposito, CONTI, La preclusione nel processo
penale, cit., 225, “Questo, infatti, se è conseguente ad una sentenza di annullamento parziale, non
consiste nella pura e semplice prosecuzione del giudizio a conclusione del quale venne emessa la
sentenza annullata, ma rappresenta una fase a sé stante, caratterizzata dal condizionamento che
scaturisce dalla sentenza della Corte di cassazione che lo ha disposto. Il suo oggetto non può essere
diverso o più ampio rispetto a quello devolutogli o di quello che è attratto per effetto della
connessione essenziale con la parte annullata; esso, inoltre, non può svilupparsi al di fuori del
paradigma che il giudice di legittimità ha tracciato attraverso l’enunciazione dei principi di diritto
applicabili all’ipotesi esaminata”.
421
Le ragioni di politica criminale sono identificabili in numerose pronunce. V., ad es., Cass., sez.
un., sent. 26 marzo 1997, n. 4904, cit.
420
124
Ora, partendo dal presupposto che gli effetti essenziali del giudicato
riguardano l’irrevocabilità e l’esecutività della sentenza422, risultano evidenti alcune
incongruenze esegetiche importanti.
In primo luogo, le stesse Sezioni unite della Corte di cassazione423 che
elaborarono il concetto di giudicato parziale ne hanno escluso gli effetti esecutivi424.
L’eseguibilità di una sentenza di condanna, invero, presuppone che quest’ultima sia
divenuta definitiva nel suo complesso e si sia formato, così, un vero e proprio
titolo425. Il termine condanna, infatti, “è utilizzato per qualificare l’intero
provvedimento
giurisdizionale,
che
comprende
il
riconoscimento
della
responsabilità dell’imputato in ordine ad un determinato reato e l’applicazione della
pena relativa, intesa come determinazione e quantificazione”426. La sentenza
L’art. 648 c.p.p., così come l’art. 576 del codice di rito del 1930, definisce il carattere
dell’irrevocabilità della sentenza proprio in funzione della successiva esecuzione del
provvedimento. Un ulteriore effetto del giudicato è che la sentenza divenuta irrevocabile può essere
acquisita, ai fini della prova di un fatto in essa accertato, nell’ambito di un altro procedimento,
secondo quanto disposto dall’art. 238 bis c.p.p.
423
V. Cass., sez. un., sent. 26 marzo 1997, n. 4904, cit., Cass., sez. un., sent. 19 gennaio 1994,
Cellerini, cit., Cass., sez. un., sent. 23 novembre 1990, Agnese, cit.
424
Cass., sez. un., sent. 23 novembre 1990, Agnese, cit. afferma che non può ritenersi valido
argomento di confutazione della tesi che configura la formazione del giudicato parziale il fatto che
la sentenza non sia eseguibile. La coincidenza che spesso di verifica nella prassi applicativa tra
irrevocabilità ed esecutorietà della sentenza nulla toglie alla distinzione teorica tra i due concetti.
Infatti, puntualizza, “una cosa è la possibilità dell’attuazione delle definitive decisioni, contenute in
una sentenza, ed altra cosa, ben diversa, è l’irrevocabilità della pronuncia in relazione allo sviluppo
del rapporto processuale”.
425
Così Cass., sez. un., sent. 11 maggio 1993, Ligresti, cit. Ad avviso di DINACCI, Il giudizio di
rinvio nel processo penale, Padova, 2002, 204 ss., “vi sono ipotesi in cui all’accertamento della
commissione di un illecito penale non consegue l’applicazione della relativa sanzione. Si pensi alle
scusanti o al perdono giudiziale per i minori. Non è, quindi, contraria al nostro ordinamento l’idea
di una decisione che renda definitivi i soli aspetti relativi all’accertamento della sussistenza
dell’illecito e della responsabilità dell’imputato e impedisca l’operare di eventuali cause estintive
del reato, pur permanendo un residuale potere cognitivo del giudice del rinvio in ordine alla
quantificazione della sanzione. A ben vedere, infatti, se il rinvio concerne la sola pena, che verrà
ricalcolata, ma non può essere eliminata, non si vede perché debba consentire di stravolgere anche
la decisione sull’esistenza del fatto di reato e sulla responsabilità dell’imputato che ne costituisce
presupposto ormai intangibile.”
426
Così Cass., Sez. I, sent. 28 settembre 1994, Ponzetta, in Cass. pen., 1996, 127 ss., con nota di
JANNELLI, La definizione costituzionale del giudicato penale: conseguenze sull'ammissibilità del
c.d. giudicato parziale o progressivo, in Cass. pen. 1996, 130.
422
125
cassata, dunque, non è idonea a rappresentare titolo esecutivo, bensì, secondo
l’interpretazione della Corte427, può solo generare una serie di limiti ai poteri
decisori del giudice di rinvio, quale, ad esempio, l’applicazione dell’art. 129 c.p.p.
La richiamata esegesi della giurisprudenza maggioritaria, talvolta, ha portato
a conseguenze paradossali. E’ stata, ad esempio, esclusa l’applicabilità dell’art. 129
c.p.p. anche quando, a seguito del riconoscimento in sede di rinvio di una
circostanza attenuante, o dell’insussistenza di una aggravante precedentemente
attribuita al reato, si determina l’abbassamento della soglia della pena edittale al di
sotto del limite che permette la maturazione della prescrizione 428. In tal caso, però,
la connessione tra il reato base e le circostanze è evidente, cosicché il giudice
dovrebbe dichiarare la causa estintiva del reato stesso429.
Pertanto, alla luce delle numerose zone d’ombra che investono la nozione e
la legittimazione normativa del cosiddetto giudicato progressivo, la dottrina ha più
volte ribadito la propria diffidenza nei confronti dell’idea di un giudicato che si
forma sui singoli punti della sentenza430. La stessa definizione di irrevocabilità
427
Cass., sez. un., sent. 26 marzo 1997, n. 4904, cit., Cass., sez. un., sent. 19 gennaio 1994,
Cellerini, cit., Cass., sez. un., sent. 23 novembre 1990, Agnese, cit.
428
PIERDONATI, Formazione “progressiva” del giudicato penale, in Il principio di preclusione nel
processo penale, cit., 97. In tal senso, Cass., sez. II, sent. 14 marzo 2007, n. 12967, in CED
236462, ha stabilito che “l’annullamento parziale della sentenza di condanna, limitatamente
all’esclusione di una circostanza aggravante, implica la formazione del giudicato relativamente alla
parte della sentenza che concerne l’affermazione di responsabilità, in quanto quest’ultima non ha
connessione essenziale con la parte oggetto di annullamento, sicché è impedita l’operatività nel
giudizio di rinvio di una causa sopravvenuta di estinzione del reato, quale la prescrizione.”
429
In questo senso v. Cass., sez. V, sent. 19 dicembre 1997, n. 4307, in CED 211070, in cui si
afferma che “nell’ipotesi in cui con la sentenza di annullamento venga confermato il reato base ma
rinviata al giudice di merito la valutazione sulle circostanze, non può dirsi che il fatto reato nella
sua interezza abbia ormai autorità di giudicato, stante la connessione essenziale tra il reato base e le
circostanze. Pertanto, qualora il giudice del rinvio, investito sul punto dalla sentenza di
annullamento, ritenga l’esistenza delle attenuanti e la loro prevalenza sulle aggravanti, e, per tale
ragione, si concretizzi il tempo della prescrizione, è tenuto a dichiarare estinto il reato”.
430
Afferma in proposito CORDERO, Procedura penale, cit., 1180, “Non esiste giudicato sul punto o
sulla questione. I giudicati nascono sull’intera res giudicanda.”
126
indicata nel codice di rito431 è strettamente collegata alla inoppugnabilità della
sentenza, originaria o sopravvenuta, con i mezzi ordinari di impugnazione. Da tale
punto di vista, quindi, non sono irrevocabili le pronunce di annullamento parziale
proprio poiché all’esito del giudizio di rinvio ben può essere riproposto il ricorso
per Cassazione avverso la decisione del giudice. Così, anche nei casi in cui la Corte
di cassazione censuri solo alcuni punti di un capo di imputazione, la sentenza intera
deve considerarsi annullata a prescindere dal fatto che il giudizio di rinvio
riguarderà solo le parti del provvedimento indicate dalla decisione dei giudici di
legittimità.
Su tali rilievi, la dottrina432 preferisce qualificare il fenomeno della stabilità
delle parti della sentenza non cassate, così come previsto dall’art. 624 c.p.p., come
preclusione e non come giudicato. La preclusione, più precisamente, in questo
contesto, è intesa come consumazione del potere decisorio del giudice di rinvio di
rivalutare i punti già trattati, decisi e non annullati dalla Corte di cassazione433.
Si tratta, in tal caso, di preclusione con efficacia endoprocessuale, limitata,
cioè, al solo procedimento in corso a differenza di ciò che avviene nella fattispecie
della cosa giudicata i cui effetti, invece, “eccedono i confini del processo in quanto
proiettati indefinitivamente nel futuro”434. Se, dunque, il giudicato penale “incide su
un rapporto sostanziale in quanto atto di specializzazione della volontà della legge,
consistente nella condanna e nella assoluzione” e, quindi, “opera al di fuori del
431
V. art. 648 c.p.p.
Tra gli altri CORDERO, Procedura penale, cit., 1163, FIORDALISI, Giudicato progressivo e
recidiva, cit., 25, PIERDONATI, Formazione “progressiva” del giudicato penale, in Il principio di
preclusione nel processo penale, cit., 89 ss.
433
PIERDONATI, Formazione “progressiva” del giudicato penale, in Il principio di preclusione nel
processo penale, cit., 102.
434
LOZZI, Preclusioni, cit., 2.
432
127
processo”, la preclusione soddisfa, piuttosto, esigenze di certezza all’interno del
procedimento”435.
Bisogna aggiungere, inoltre, che detta preclusione ha portata relativa436. In
vero, dopo la sentenza di annullamento devono ritenersi salvi i poteri decisori ex
officio del giudice, il quale, coerentemente con il principio del favor rei, è libero
anche nel procedimento di rinvio di applicare ai sensi dell’art. 129 c.p.p. le cause di
non punibilità e di dichiarare l’estinzione del reato437.
Il principio di preclusione, così, garantisce “un punto di equilibrio sostenibile
tra efficienza del sistema e giusto processo”438, poiché permette di conciliare
l’esigenza del rispetto del ne bis in idem con il superiore interesse della tutela del
diritto di difesa.
Al contrario, la diversa soluzione proposta dalla giurisprudenza rischia,
ancora una volta, di urtare contro canoni indiscussi dell’ordinamento processuale
quali il principio di legalità, l’inviolabilità della libertà personale e la presunzione
d’innocenza mediante la manipolazione di norme439 e principi440 dai contorni
“incerti e insicuri”441.
435
RICCIO, La preclusione processuale penale, cit., 95.
Cfr. PIERDONATI, Formazione “progressiva” del giudicato penale, in Il principio di preclusione
nel processo penale, cit., 102.
437
La giurisprudenza ha abbracciato di rado tale impostazione. V. Cass., sez. I, sent. 1 giugno
2000, n. 7548, in CED 216427. Si deve ricordare che l’art. 129 c.p.p. impone al giudice di
dichiarare determinate cause di non punibilità “in ogni stato e grado del processo”.
438
Cit. PIERDONATI, Formazione “progressiva” del giudicato penale, in Il principio di preclusione
nel processo penale, cit., 103.
439
Il riferimento è all’art. 624 c.p.p., già definito “Imprecisa formula legislativa” da CIANI, Sub.
Art. 624 c.p.p, in Commento al nuovo codice di procedura penale, coordinato da Chiavario, Torino,
1991, 305.
440
Ci si riferisce al principio di ne bis in idem.
441
PIERDONATI, Formazione “progressiva” del giudicato penale, in Il principio di preclusione nel
processo penale, cit.,99.
436
128
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