Neoplasie in “Enciclopedia del Novecento” – Treccani
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Neoplasie in Enciclopedia Novecento
Neoplasie
CONDIVIDI
Enciclopedia del Novecento (1979)
di Francesco Squartini e Luigi Califano
NEOPLASIE
Oncologia umana
di Francesco Squartini
sommario: 1. Introduzione. 2. Epidemiologia e frequenza: a) i tipi più frequenti di
tumori umani; b) tumori in aumento e in diminuzione; c) influenza del sesso; d)
distribuzione geografica; e) classe sociale e ambiente; f) associazioni particolari.
3. Errore diagnostico: a) idoneità e attendibilità dei materiali statistici in
oncologia; b) gradi di accuratezza diagnostica; c) confronto fra diagnosi cliniche
e anatomopatologiche; d) errore diagnostico reale e apparente; e) effetto sulle
indagini di frequenza e di distribuzione; f) variazioni in rapporto al sesso, all'età e
al periodo considerati. 4. Predisposizione genetica: a) suscettibilità cromosomica
CATEGORIE
al cancro; b) suscettibilità mendeliana recessiva; c) suscettibilità mendeliana
dominante o familiare; d) predisposizione genetica ai cancri più comuni; e)
indagini sui gemelli monocori; f) conclusioni. 5. Cause del cancro umano: a)
BIOCHIMICA in Chimica
fattori cancerogeni professionali; b) inquinamento ambientale; c) cancerogeni
nella dieta; d) cancerogenesi latrogena; e) abitudini di vita e voluttuarie; f)
parassiti e virus oncogeni; g) prevenzione e screening delle sostanze cancerogene.
6. Immunodepressione e malignità: a) l'ipotesi della ‛sorveglianza immunologica';
b) implicazioni cliniche; c) difetti immunologici e tumori; d) regressione
spontanea dei tumori; e) azione immunosoppressiva dei cancerogeni; f) critiche
sperimentali all'ipotesi e conclusioni. 7. Storia naturale della malattia neoplastica
nell'uomo: a) fasi della malattia neoplastica; b) il modello del cancro mammario;
c) altri comuni tipi di cancro umano; d) rappresentazione schematica della
malattia neoplastica nell'uomo. 8. Precursori morfologici: a) definizione; b)
analisi della definizione; c) acquisizioni sperimentali; d) variabilità e molteplicità
strutturale; e) classificazione patogenetica; f) iprecursori morfologici del cancro
umano; g) attuali indirizzi di ricerca e conclusioni. 9. Progressione tumorale: a)
definizione; b) fonti di informazione; c) caratteri tumorali acquisibili per
progressione; d) principi generali (regole) della progressione tumorale; e) esempi
e considerazioni; f) meccanismi di progressione; g) notazioni critiche. 10.
Diffusione metastatica: a) definizione e vie di metastatizzazione; b) fasi della
metastatizzazione; c) distribuzione delle metastasi al tavolo anatomico; d) fattori
che influenzano la metastatizzazione. 11. Manifestazioni cliniche, problemi di
diagnosi e di prognosi: a) durata clinica; b) comportamenti particolari; c) fattori
morfologici di prognosi; d) diagnosi precoce; e) sindromi paraneoplastiche; f)
marcatori biologici e morfologici. 12. Stato attuale della terapia: a) chemioterapia;
b) agenti chemioterapici; c) meccanismi di azione; d) protocolli terapeutici; e)
limiti e danni della chemioterapia; f) terapia ormonale; g) immunoterapia; h)
PATOLOGIA in Medicina
BIOCHIMICA in Biologia
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via parenterale
APPROFONDIMENTI
IN TRECCANI
Neoplasie si trova anche nelle opere
ENCICLOPEDIA DEL NOVECENTO II SUPPLEMENTO
(1998)
conclusioni. 13. Tumori dell'infanzia e dell'adolescenza: a) peculiarità e problemi;
b) epidemiologia e frequenza; c) quadri di patologia; d) curve di distribuzione; e)
possibili fattori causali. 14. Principali tipi di tumori maligni negli adulti: a) cancro
della mammella; b) cancro del polmone; c) cancro dell'intestino; d) cancro dello
stomaco; e) leucemie e linfomi. 15. Conclusioni. □ Bibliografia.
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NEOPLASIE
1. Introduzione
NeoplasieCause e prevenzione, di Bruce N. Ames, Lois
S. Gold e Walter C. WillettOncologia clinica, di Georges
Le neoplasie o tumori, che indubbiamente assurgono a protagonisti nella patologia
di questo secolo, sono ancora oggi entità biologiche e malattie poco conosciute, per
le quali si può dire che manchi persino una definizione pienamente soddisfacente.
Infatti, ‟poiché la natura e le cause dell'accrescimento tumorale restano ignote, le
definizioni esistenti sono in realtà delle descrizioni e, come tutte le descrizioni,
alcune sono migliori di altre" (v. Walter e Israel, 19672). Fra queste, la definizione
fornita da Willis (v., 1948 e 19674) sembra contenere tutti i concetti essenziali insiti
nello sviluppo di una neoplasia e perciò merita di essere citata: ‟Tumore è una
massa abnorme di tessuto, il cui accrescimento eccede quello dei tessuti normali, è
incoordinato con quello, e persiste nella stessa maniera eccessiva dopo cessazione
degli stimoli che lo hanno provocato". In tal modo una neoplasia si distingue dalle
proliferazioni finalistiche di natura infiammatoria e riparativa, dalle iperplasie e
Mathé e Paolo PontiggiaOncologia sperimentale, di
Giancarlo VecchioCause e prevenzione di Bruce N.
Ames, Lois S. Gold e Walter C. WillettSOM...
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ENCICLOPEDIA DEL NOVECENTO I SUPPLEMENTO
(1989)
NEOPLASIE
NEOPLASIEOncologia umanadi Francesco
Squartinisommario: 1. Introduzione. 2. Sequenza degli
eventi nella cancerogenesi: a) iniziazione e promozione;
b) origine monoclonale; c) fasi dell'evoluzione. 3.
Modelli di trasformazione. 4. Meccanismi di progre...
dalle malformazioni con eccesso di tessuto.
Qualsiasi tipo di cellula o tessuto dell'organismo uma- no, sebbene con frequenze
diversissime, può dare origine allo sviluppo di un tumore. Poiché i tumori, nella
maggior parte dei casi, conservano una qualche rassomiglianza morfologica con le
cellule e i tessuti di origine, le classificazioni e le nomenclature in uso sono
generalmente su base istogenetica. A questo proposito si deve ricordare che una
neoplasia è per prima cosa e fondamentalmente un problema di morfopatologia.
Infatti non esiste ancora la possibilità di diagnosticare con certezza un tumore
senza o al di fuori dell'osservazione morfologica, che può essere anche solo
macroscopica (sebbene sia difficile formulare un giudizio conclusivo con la sola
osservazione a occhio nudo o mediante lente di ingrandimento), ma quasi sempre
oggi è microscopica e cioè istologica sui tessuti o citologica sulle cellule isolate (v.
Ashley, 19783).
Sul piano anatomoclinico assume tuttavia importanza fondamentale, dopo quella
morfologica, la classificazione basata sul comportamento dei tumori. Infatti, i
tumori di ogni tipo cellulare possono mostrare un'ampia gamma di comportamenti
che riguardano ad esempio la differenziazione morfologica, la velocità di
accrescimento, le modalità di diffusione, il grado di pericolosità per l'ospite. Alcuni
tumori crescono lentamente, solo nel luogo di origine, non invadono i tessuti vicini
e non causano pericoli al paziente, salvo il caso di particolari sedi o complicanze:
questi sono i tumori innocenti o benigni. Altri tumori dello stesso tipo cellulare
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ALTRI APPROFONDIMENTI
VOCABOLARIO
neoplasia
neoplaṡìa s. f. [comp. di neo- e -plasia]. – 1. In medicina,
lo stesso che neoformazione, tumore. 2. In fitopatologia,
particolare tipo di neoformazione che consiste in una
proliferazione anomala e indefinita di cellule, su fusti,
rami o radici
neoplasico
neoplàṡico agg. [der. di neoplasia] (pl. m. -ci). – Lo
stesso che neoplastico.
Vedi tutti
crescono invece rapidamente, invadono i tessuti contigui, si diffondono attraverso
impianti successivi metastatici a distanza e alla fine uccidono l'ospite se non sono
trattati o rimossi precocemente: questi sono i tumori maligni. Fra gli uni e gli altri
esistono talora anche forme di confine, provviste appunto di un comportamento
intermedio, le quali indicano quanto sia arbitraria quella distinzione netta che per
necessità siamo soliti fare a scopo diagnostico e prognostico nel campo dei tumori
fra l'innocenza e la malignità (v. Willis, 19674).
Nella maggior parte dei casi è fortunatamente semplice, attraverso un esame
istologico, stabilire per le esigenze pratiche se un tumore è benigno o maligno. Tali
criteri di diagnosi istologica possono, per i motivi detti, fallire in certi casi, ma su di
essi si basa generalmente ancora oggi la condotta del medico e la terapia. Il
problema anatomoclinico dei tumori nell'uomo riguarda essenzialmente le
neoplasie maligne alle quali pertanto questa rassegna è in prevalenza dedicata. I
tumori maligni di derivazione epiteliale, riguardanti la cute, le mucose e le
strutture ghiandolari, vengono generalmente indicati col nome di carcinomi o
cancri. I tumori maligni di derivazione connettivale o mesenchimale, riguardanti i
tessuti di sostegno, vengono invece generalmente indicati col nome di sarcomi.
Altri tumori hanno derivazioni e nomi particolari. Questo è ad esempio il caso dei
tumori delle sierose (pleura, pericardio, peritoneo) e del tessuto nervoso.
Uno dei fatti che più colpiscono a proposito dei tumori maligni umani è il loro
progressivo aumento di frequenza. Ciò non è vero in assoluto, poiché vi sono
tumori, come ad esempio il cancro dello stomaco e del collo dell'utero, che
mostrano da vari anni tendenza alla diminuzione, ma è certamente vero per le
neoplasie nel loro complesso. Queste, come causa di morte, nel corso del nostro
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secolo sono per lo meno quadruplicate e occupano oggi il secondo posto fra tutte le
cause di morte, dopo le malattie cardiovascolari (v. Lilienfeld e altri, 1972).
Alcuni motivi di questo continuo e impressionante aumento di frequenza sono
facilmente intuibili. L'aumento della durata media della vita incide di certo in
maniera rilevante sulla frequenza dei tumori maligni, poiché questi sono
generalmente malattie dell'età media-avanzata (v. Strong, 1968). La scomparsa
come causa di morte di gran numero di malattie, specie infettive, che oggi si
possono curare, è di conseguenza uno dei motivi dell'aumento di frequenza dei
tumori. Un'altra causa può essere trovata nelle possibilità di diagnosi delle
neoplasie maligne oggi nettamente migliorate rispetto al passato prossimo e
remoto. Ma purtroppo gran parte dell'incremento registrato nella morbilità e
mortalità per tumori dipende certamente dalle anormali condizioni di vita, dalle
abitudini dietetiche e voluttuarie, dall'inquinamento ambientale a opera di
cancerogeni cui ci ha condotti nel tempo lo sviluppo della nostra civiltà (v. Hueper
e Conway, 1964).
Era opinione diffusa in passato che i tumori dell'uomo fossero spontanei, cioè
originati a caso. Gli studi epidemiologici, quelli riguardanti gli ambienti di lavoro, e
quelli, sempre più analitici, sui fattori di rischio nei vari tipi tumorali, vanno
scoprendo sotto i nostri occhi un'impressionante costellazione di cause dei tumori
umani (v. Hiatt e altri, 1977). Diviene perciò sempre meglio evidente il loro
meccanismo di induzione e la fondata presunzione che molti, con accorgimenti
opportuni, si potrebbero evitare.
Una caratteristica che sfugge al profano circa la ma- lattia neoplastica nell'uomo è
la sua lunga durata complessiva. Infatti, la fase clinica che va dalla diagnosi alla
morte in casi di esito infausto è relativamente breve, di mesi o di 1-2 anni. Ma
questa è preceduta in genere da una serie di tappe evolutive silenti o poco
appariscenti che spesso impiegano parecchi anni prima di raggiungere la soglia
della diagnosi clinica (v. Foulds, 1969-1975). Uno sguardo alla storia naturale della
malattia neoplastica nell'uomo, alle sue varie fasi successive, alla progressione
attraverso la quale per gradi il tumore raggiunge stadi di crescente autonomia,
induce a riflessioni e approfondimenti di notevole interesse pratico. Infatti, molte
misure preventive e tentativi terapeutici avrebbero probabilmente successo se
applicati precocemente, nella fase preclinica delle neoplasie maligne e ciò spinge
alla ricerca di nuove informazioni di base sulle prime fasi dello sviluppo tumorale
nei loro aspetti morfologici e biologici (v. Antony e altri, 1976). Solo per questa
strada si potrà giungere veramente a una diagnosi precoce dei tumori maligni
nell'uomo, che è il presupposto di una terapia efficace.
L'epidemiologia, la frequenza, i margini di errore, la predisposizione, le cause, il
controllo immunologico, le tappe evolutive, i precursori morfologici, la
progressione, la diffusione metastatica, e il profilo anatomoclinico dei principali
tipi di neoplasie maligne umane saranno analizzati nei capitoli seguenti per
sottolineare di volta in volta lo stato delle conoscenze, i problemi aperti, le linee
dominanti di ricerca e le speranze di soluzione.
2. Epidemiologia e frequenza
Parlare di frequenza dei tumori in senso generale è impossibile, poiché ciascuno
dei vari tipi tumorali è fortemente condizionato dal sesso, dalla razza, dal gruppo
etnico (cioè dalla costituzione genetica), dall'ambito geografico considerato, dal
tipo di civiltà e quindi dalle abitudini di vita, dall'ambiente (per esempio città o
campagna), dall'alimentazione, dal lavoro, ecc. Vi sono tuttavia alcuni tipi di
tumori maligni molto più frequenti di altri, qualunque sia la popolazione e la
latitudine considerate.
a) I tipi più frequenti di tumori umani
Nel nostro paese, considerando i due sessi insieme e i soggetti adulti, sulla base dei
certificati di morte, la graduatoria per apparati, organi o sistemi vede al primo
posto i tumori dell'apparato digerente (49,5%), seguiti da quelli dell'apparato
genitale compresa la mammella (18,6%), respiratorio (11,2%), emopoietico (5,7%),
urinario (3,8%), nervoso (2,6%), di sostegno (ossa + connettivi: 1,7%), cutaneo
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(1,3%), endocrino (0,6%) e di altre sedi varie (5%). I tumori degli apparati
digerente, genitale, respiratorio ed emolinfopoietico sono dunque da soli
responsabili dell'85% dei decessi per tumori (v. Squartini e Bolis, 1966).
Tenendo prevalentemente presenti la razza bianca, il nostro tempo e l'emisfero
occidentale, i 10 tipi di tumori più frequenti come causa di morte sono, in ordine
decrescente, nell'uomo: il cancro del polmone, il cancro dell'intestino, le leucemie e
i linfomi, il cancro dello stomaco, il cancro della prostata, il cancro del pancreas, il
cancro del rene e delle vie urinarie, le neoplasie del sistema nervoso, il cancro del
fegato e delle vie biliari, i tumori del cavo orale e della faringe. Nella donna è invece
al primo posto il cancro della mammella, seguito dai cancri dell'intestino e
dell'utero, dalle leucemie e dai linfomi, dai tumori dell'ovaio, dai cancri dello
stomaco, del polmone, del pancreas, del fegato con le vie biliari e del rene con le vie
urinarie (v. Lilienfeld e altri, 1972). Ne consegue che le neoplasie maligne di gran
lunga più comuni nei due sessi sono quelle dell'intestino, del polmone, degli organi
emolinfopoietici, della mammella e dello stomaco, seguite a qualche distanza dalle
neoplasie del pancreas, della prostata, dell'utero, dell'ovaio, del rene e vie urinarie,
del sistema nervoso, del fegato e vie biliari, del cavo orale e faringe.
Questo ordine di frequenza delle neoplasie, desunto dalle statistiche di mortalità,
non rispecchia esattamente quello della incidenza assoluta dei singoli oncotipi
come malattie. Nelle statistiche di morbilità per tumori, infatti, meno frequenti e
conosciute, per la difficoltà di collezionare i dati relativi, sono ad esempio fra le
prime posizioni i tumori della cute e in posizione di rilievo spesso anche i tumori
del cavo orale. Queste neoplasie, poiché facili da diagnosticare precocemente per la
loro sede, si possono curare e raramente sono oggi causa di morte (v. Ashley,
19783).
b) Tumori in aumento e in diminuzione
Esaminando le frequenze dei tumori umani durante un lungo periodo di anni, si
possono notare per i vari tipi tendenze alla diminuzione, alla stabilità o all'aumento
che rivestono importanza nel formulare previsioni per il futuro prossimo e
nell'indirizzare le ricerche sui possibili fattori causali. Mostrano attualmente
tendenza alla diminuzione i tumori del cavo orale e della faringe e quelli dello
stomaco nell'uomo, come pure i tumori dell'esofago, stomaco, laringe, cervice
uterina, vie urinarie e tiroide nella donna. Mostrano invece tendenza all'aumento
nei due sessi i tumori del polmone, del pancreas, del rene, del sistema nervoso e
degli organi emolinfopoietici, e nella donna ancora i tumori dell'ovaio. Sono infine
stazionari nell'uomo i tumori dell'esofago, delle vie urinarie, della tiroide e nella
donna quelli della mammella, del cavo orale e della faringe. Tendenze irregolari
mostrano gli altri tipi di tumori (v. Lilienfeld e altri, 1972).
c) Influenza del sesso
La marcata influenza del sesso sulla frequenza dei tumori umani non si limita a
quella, già registrata, relativa ai tumori degli organi della riproduzione e sessuali
secondari, ma coinvolge la maggior parte dei tipi tumorali. Con poche e rare
eccezioni si può dire che gli uomini hanno in genere un'incidenza di neoplasie più
elevata delle donne. Il carcinoma primitivo del fegato è nettamente più frequente
nell'uomo che nella donna, con ogni probabilità per differenze di ordine endocrino.
Il cancro della cute è pure più frequente nell'uomo che nella donna, fatta eccezione
per il melanoma. Anche il cancro del polmone e delle vie respiratorie in genere
mostra una netta predilezione per il sesso maschile, ciò che può dipendere in parte
da una diversa abitudine al fumo, ma probabilmente anche da cause endocrine.
Nell'uomo sono inoltre più frequenti che nella donna i cancri delle labbra, del cavo
orale, della faringe, delle ghiandole salivari, dell'esofago, dello stomaco, del
pancreas e delle vie urinarie. Il sesso è in grado di influenzare anche la
leucemogenesi, che più frequentemente interessa gli uomini. Al contrario nella
donna sono più frequenti i tumori della tiroide e, forse, i melanomi (v. Toh, 1973).
d) Distribuzione geografica
La distribuzione dei tumori nei vari organi non è uniforme, come si è già
accennato, nelle diverse parti del mondo essendo fortemente influenzata da un
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fattore geografico che in parte rispecchia predisposizioni razziali, ma in parte è la
conseguenza di profonde differenze alimentari, igieniche e ambientali. Per
esemplificazione, nella tab. I si riferiscono in percentuale le frequenze di morbilità
relative ai principali oncotipi ricavate da quattro fra i più accurati Registri dei
Tumori attualmente esistenti e precisamente quelli di Birmingham in Inghilterra,
del Quebec in Canada, di Puerto Rico nei Caraibi e di Ibadan nell'Africa tropicale
(v. Doll e altri, 1970; v. Ashley, 19783).
Tabella 1
La frequenza di cancri dell'esofago e dello stomaco è particolarmente elevata a
Puerto Rico, come del resto si osserva anche in altre parti del mondo (Giappone). Il
cancro dell'intestino è invece molto meno frequente nei paesi poveri (Puerto Rico,
Ibadan) che in quelli industrializzati (Birmingham, Quebec), ciò che sembra
dipendere da una diversa composizione della dieta e delle feci. Il cancro del fegato
è particolarmente frequente in Africa e lo stesso si osserva lungo una fascia estesa
ai paesi costieri poveri della Cina meridionale. Sono queste geograficamente le
regioni della dieta carente, squilibrata per scarsezza in genere di proteine, da cui
discende una carenza di fattori epatoprotettivi, un'elevata frequenza di
degenerazione grassa del fegato nei bambini (una sindrome nota col nome
indigeno di Kwashiorkor), di cirrosi epatica nei giovani e di carcinoma del fegato
in età più avanzata, favorito anche dalla presenza di particolari agenti cancerogeni
nella dieta.
I cancri della mammella sono molto più frequenti nei paesi a più elevato tenore di
vita (Birmingham, Quebec) che a Puerto Rico e Ibadan, un fatto da porsi in
relazione con differenze, oltre che genetiche, nella riproduzione, nell'allattamento
al seno, nell'alimentazione e nelle abitudini di vita. Il cancro dei genitali femminili
è più frequente in Africa, forse per motivi igienici, così come accade per i tumori
emolinfopoietici a causa della presenza in questa zona geografica del linfoma di
Burkitt (o linfoma Africano), l'unica neoplasia dell'uomo per la quale sia stata
dimostrata un'eziologia virale. Il cancro del polmone è invece di gran lunga più
frequente nelle regioni industrializzate d'Inghilterra (v. Ashley, 19783). Molte di
queste differenze geografiche, come si vede, riflettono particolari associazioni o
carenze di fattori causali sui quali si ritornerà in seguito. Il cenno che ne è stato
fatto è sufficiente, tuttavia, a sottolineare l'utilità degli studi di patologia geografica
nella ricerca dei fattori causali in oncologia.
e) Classe sociale e ambiente
La classe sociale di appartenenza, come suggerito del resto da alcuni dati
precedenti, ha pure importanza nello sviluppo dei tumori umani. Sono più
frequenti oggi nelle classi agiate i tumori della mammella e dell'intestino. Sono più
frequenti invece nelle classi povere i tumori dello stomaco e della cervice uterina.
Come la classe sociale, anche l'ambiente di vita influenza marcatamente
l'oncogenesi: nei paesi industrializzati, e per prevalenti motivi di inquinamento
ambientale, il cancro del polmone è nettamente più frequente fra gli abitanti delle
città che fra quelli delle campagne. Ciò ha condotto all'identificazione del ‛rischio
urbano' e allo studio accurato della polluzione atmosferica come premessa per un
risanamento ambientale (v. Willis, 19674).
f) Associazioni particolari
Nelle ricerche epidemiologiche più recenti, mirate all'identificazione di specifici
fattori causali o predisponenti dei tumori umani, sono state identificate
associazioni particolari e significative fra determinati consumi, nelle diverse aree
geografiche o da parte di diverse popolazioni, e frequenza di taluni tipi di cancro.
Un'associazione diretta, marcata e significativa è stata così rilevata nei paesi
occidentali fra consumo di sigarette pro capite e mortalità per cancro del polmone
(v. U.S. Department of..., 1964). Un'associazione analoga è stata dimostrata fra
contenuto in grammi giornaliero di grassi nella dieta e mortalità per cancro della
mammella (v. Fratkin, 1976). È stata inoltre messa in evidenza un'associazione
geografica fra cancro del colon e della mammella nella donna, probabilmente
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basata sulla composizione della dieta (v. Drasar e Irving, 1973).
3. Errore diagnostico
La breve esposizione che precede sulla frequenza e sull'epidemiologia del cancro
umano, non sarebbe completa e appieno valutabile nel suo significato se qui non si
facesse cenno delle disponibilità di materiali, delle difficoltà di metodo, e dei
margini di errore insiti nelle indagini statistiche sui tumori umani. Ciò consentirà
fra l'altro di illustrare le basi anatomopatologiche della malattia neoplastica, dalle
quali non si può prescindere senza rischiare largamente di sbagliare.
a) Idoneità e attendibilità dei materiali statistici in oncologia
La validità di un'indagine statistica dipende in primo luogo dall'idoneità e
dall'attendibilità del materiale su cui essa si basa. La scelta di materiale idoneo è
problema statistico, alla cui soluzione debbono guidare i criteri del metodo del
campione, sufficientemente ampio, omogeneo e rappresentativo dell'universo che
si intende studiare. Ma l'attendibilità di un materiale per uso statistico in oncologia
umana dipende invece soltanto dal grado di accuratezza con cui i singoli casi che lo
compongono sono stati diagnosticati, ed è perciò essenzialmente un problema di
patologia. Capita molto spesso di osservare, nelle statistiche sui tumori, che il
materiale giudicato idoneo per un determinato studio non sia del tutto attendibile
e, viceversa, che un materiale attendibile non sia del tutto idoneo.
b) Gradi di accuratezza diagnostica
Willis (v., 19674) distingue quattro gradi di accuratezza crescente per le diagnosi di
tumore, che sono: I) diagnosi a mezzo di sola visita medica; II) diagnosi a seguito
di visita medica corredata da esami speciali (fisici, chimici, ematologici, radiologici,
endoscopici, operatori) esclusa la biopsia; III) diagnosi a seguito di esame
istologico di tessuti rimossi chirurgicamente (biopsia); IV) diagnosi a seguito di
autopsia: a) senza conferma istologica o b) con conferma istologica. Soltanto i casi
con diagnosi di grado IV) tipo b) possono considerarsi certi in senso assoluto. In
tutti gli altri casi vi è la possibilità di un errore diagnostico, tanto più grande man
mano che si sale dal grado IV) al I). Nelle diagnosi di grado I) la precisione è,
ovviamente, assai scarsa, sebbene la frequenza di diagnosi esatte, come dire il
livello di attendibilità, possa variare di molto in rapporto alla preparazione del
medico, alla sede (superficiale o profonda) del tumore, all'ambiente urbano (con
specialisti qualificati) o rurale (con prevalenza di medici generici e minore
coscienza sanitaria nelle popolazioni) da cui i casi provengono.
Di qui discende la necessità di conoscere con esattezza per ogni indagine statistica
in tema di tumori il tipo di materiale usato, da cui poter valutare con sufficiente
rapidità e approssimazione il grado di attendibilità dei risultati. Va rilevato,
tuttavia, che difficilmente esistono le condizioni per lavorare su materiale
omogeneo quanto a livello di accuratezza diagnostica, e che ancor più rara in
pratica è la possibilità di utilizzare materiali appartenenti ai gradi di precisione
massima o assoluta.
Per conoscere, ad esempio, se la frequenza dei tumori maligni sia aumentata nel
tempo e se l'aumento sia reale o fittizio, per indagare sulla distribuzione geografica
dei tumori, per stabilire statisticamente se e quali rapporti esistano fra l'incidenza
dei tumori nell'uomo e una qualsiasi delle variabili di interesse (tipo etnico,
ambiente, alimentazione, abitudini, lavoro, condizioni sociali), ci si deve
abitualmente servire di materiali compositi, cioè non omogenei. I certificati di
morte rappresentano la principale sorgente di questi materiali, almeno da noi. Le
diagnosi riportate sui certificati di morte sono una mescolanza dei quattro gradi di
precisione diagnostica elencati sopra, con larga prevalenza dei gradi inferiori. Ne
consegue che buona parte delle indagini statistiche in tema di tumori sono viziate
in partenza da un errore, del quale è tuttavia possibile valutare la portata sulla base
di studi che a tale problema hanno fornito un contributo di dati attraverso il
confronto fra le diagnosi cliniche e anatomopatologiche per neoplasie maligne nel
materiale autoptico (v. Squartini e Barola, 1965).
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c) Confronto fra diagnosi cliniche e anatomopatologiche
Nel confronto fra diagnosi cliniche e autoptiche, per qualsiasi tipo di neoplasia
maligna (X) si possono verificare cinque eventualità: (A) la diagnosi clinica di X è
corretta, cioè verificata dall'autopsia; (B) manca una diagnosi clinica di neoplasia
maligna; X è scoperto all' autopsia; (C) una neoplasia maligna è diagnosticata
clinicamente, ma la sede è sbagliata (ad esempio si scambiano le metastasi nel
fegato di un cancro gastrico per neoplasia primitiva del fegato) o non specificata
(ad esempio neoplasia dell'addome), e X è scoperto all'autopsia; (D) la diagnosi
clinica di X è errata (è l'eventualità opposta a quella che precede: ad esempio si
scambia una neoplasia primitiva del fegato per metastasi di cancro gastrico e si
diagnostica perciò un cancro dello stomaco inesistente), l'autopsia rivela un tumore
maligno primitivo diverso da quello clinico; (E) la diagnosi clinica di X è errata,
nessun tumore maligno di alcun tipo è rivelato dall'autopsia (v. Willis, 19674). A
scopo indicativo nella tab. II sono riportati i dati di uno studio personale sugli
errori diagnostici rilevati da 695 autopsie consecutive effettuate a Perugia su
soggetti portatori di neoplasie maligne o supposti tali (v. Squartini e Barola, 1965).
d) Errore diagnostico reale e apparente
Quindi, il numero reale delle neoplasie maligne riscontrate al tavolo anatomico (X)
è espresso da A + B + C (dove B + C sono gli errori diagnostici per difetto), mentre
il numero totale di diagnosi cliniche di X è dato da A + D + E (dove D + E sono gli
errori diagnostici per eccesso). La lettura della tab. II suggerisce alcune
considerazioni interessanti. Le diagnosi cliniche esatte per il totale delle neoplasie
sono pari a 70,1%. I casi falsi negativi (29,9%) sono compensati in parte dai falsi
positivi (17,8%), ma rimane uno scarto negativo pari a 12,1%. Analizzando i singoli
tipi tumorali si osservano notevoli variazioni di frequenza nelle diagnosi esatte, che
rendono particolarmente attendibili i dati relativi a certe neoplasie (mammella,
cute, utero, ovaio, leucemie e linfomi) e largamente inattendibili i dati riguardanti
altre neoplasie per le quali la diagnosi esatta si rivela difficile (pancreas, prostata,
fegato, colecisti, rene), sebbene un certo compenso agli errori sia fornito in ogni
caso dalle diagnosi false positive. Numerosi tumori infine sono in posizione
intermedia con una frequenza di diagnosi esatte oscillante fra il 65 e il 70%.
Tabella 2
e) Effetto sulle indagini di frequenza e di distribuzione
Il compenso di alcuni errori diagnostici a opera di altri errori diagnostici introduce
nel materiale clinico un fattore involontario di correzione che può rivelarsi nello
stesso tempo utile e dannoso sotto il profilo statistico: è indubbiamente utile
quando i casi registrati nei certificati di morte vengono usati per stabilire le
frequenze dei vari tipi di tumore, mentre è invece dannoso quando si intende
procedere a ulteriori analisi sulla distribuzione dei tumori, considerando l'età, il
sesso, il tipo etnico, la residenza, la condizione sociale, l'attività professionale, ecc.,
dei soggetti portatori. Infatti, in tal caso, non è tanto grave la mancata inclusione
nel gruppo considerato di soggetti portatori del tumore che si studia (B + C),
quanto è grave l'inclusione al loro posto di altri soggetti portatori di tumori di altre
sedi o anche privi di tumore (D + E). L'attendibilità delle indagini di questo tipo
sarà quindi tanto minore quanto più grande risulterà il rapporto D + E/A. Nel
materiale illustrato in tab. II tale rapporto è di 1 : 4 per la serie intera. Ciò significa
che per ogni quattro casi corretti uno è sbagliato. Naturalmente il rapporto varia
molto da tumore a tumore, passando da 2 : 1 per le neoplasie del fegato a 1 : 21 per
quelle dell'utero.
Questi dati, largamente concordanti con altri riferiti (v. Willis, 1948; v. Münck,
1952; v. Locatelli, 1956), si riassumono in breve nelle seguenti proposizioni. Vi
sono vari tipi di tumore per i quali le indagini statistiche, sia di frequenza che di
distribuzione, svolte sui materiali di uso più comune (certificati di morte),
comportano un errore assai piccolo, trascurabile o addirittura nullo. Vi sono altri
tumori idonei solamente per indagini di frequenza, o di distribuzione, e altri ancora
che condurrebbero a risultati inattendibili in ogni caso. L'errore diagnostico
apparente è sempre più piccolo di quello reale, a causa delle diagnosi cliniche di
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tumore false positive che compensano in varia misura i casi di tumore reale
clinicamente non diagnosticati. La misura dell'errore diagnostico apparente è quasi
sempre di segno negativo. I casi clinici falsi positivi, che favoriscono le indagini di
frequenza, ostacolano ovviamente quelle di distribuzione, fino a renderle del tutto
inattendibili quando la proporzione fra casi falsi e veri superi i limiti tollerabili.
f) Variazioni in rapporto al sesso, all'età e al periodo considerati
Nelle femmine l'errore diagnostico apparente è minore che nei maschi, anche dopo
esclusione dei tumori del sesso, per i quali la diagnosi è più facile. Ciò non dipende
da un maggior numero di diagnosi esatte nel sesso femminile, ma al contrario da
un maggior numero di false diagnosi di tumore. La frequenza di diagnosi false
positive aumenta fortemente con l'età dei soggetti causando una riduzione
progressiva dell'errore diagnostico apparente, nonostante il contemporaneo
aumento di quello reale. L'aumento nella frequenza di diagnosi esatte verificatosi
nel tempo in conseguenza del miglioramento delle condizioni diagnostiche generali
è in pratica annullato dalla concomitante diminuzione, per gli stessi motivi, delle
diagnosi false positive (v. Squartini e Barola, 1965).
Chi si interessa a problemi di statistica oncologica e usa le cartelle cliniche o i
certificati di morte come materiali può trarre da questa breve elencazione di fatti
utili spunti di meditazione. E tuttavia auspicabile che indagini dello stesso tipo
vengano ripetute su altri materiali e con criteri standard. Solo in tal modo, infatti,
si potrà raggiungere una somma di casi sufficientemente ampia e rappresentativa,
dalla quale sia lecito trarre non solo indicazioni ma precisi indici di correzione,
direttamente applicabili allo studio dei problemi.
4. Predisposizione genetica
L'esistenza di una predisposizione genetica al cancro, in certi casi, è dimostrata da
numerosi esempi e non può essere oggi messa in dubbio. Il quesito da porre è se
quegli esempi di suscettibilità ereditaria allo sviluppo dei tumori siano solo
curiosità scientifiche, per quanto interessanti, o se non siano invece segnali
intimamente connessi con l'origine del cancro in generale. E la risposta è difficile,
quanto del resto lo è un'illustrazione sintetica e chiara del problema.
a) Suscettibilità cromosomica al cancro
La suscettibilità genetica al cancro può essere classificata come cromosomica,
mendeliana recessiva e mendeliana dominante (v. Knudson, 1973). Numerose
anomalie cromosomiche predispongono notoriamente allo sviluppo dei tumori.
Nella sindrome di Down, o mongolismo, dovuta a un'anomalia cromosomica con
trisomia 21 (cioè caratterizzata da un extracromosoma nella coppia cromosomica
21), o con trisomia 21-22, vi è un'incidenza di leucemia valutata 10-20 volte
maggiore di quella dei soggetti normali della stessa età (v. Miller, 1970). Una
maggiore incidenza di leucemia si osserva anche in altre trisomie, come nella
sindrome di Klinefelter, caratterizzata da ipogonadismo (v. Sohn e Boggs, 1974), la
quale predispone pure al cancro mammario (v. Harnden e altri, 1971). La trisomia
18 è stata trovata associata a tumore di Wilms, un tumore maligno embrionale del
rene (v. Bove e altri, 1969). La sindrone da delezione D, caratterizzata da delezione
del braccio lungo del cromosoma 13, si associa spesso a retinoblastoma (v. Orye e
altri, 1974). Il cromosoma Filadelfia, un piccolo cromosoma anomalo originato per
delezione o traslocazione di parte del cromosoma 21, si associa molto spesso a
leucemia mieloide cronica (v. Nowell e Hungerford, 1961; v. Harnden, 1977).
L'eventualità che tutti i cancri possano essere associati con delezioni o anomalie
cromosomiche sembra assai remota. Piccole delezioni potrebbero comunque essere
difficili da dimostrare, per cui sarebbe anche difficile verificare sperimentalmente
una simile ipotesi. Tuttavia le moderne tecniche in uso per l'identificazione di
singole bande cromosomiche potranno facilitare tali studi e ci si può perciò
aspettare che nuovi dati chiariscano tale argomento nel prossimo futuro (v.
Knudson, 1973).
b) Suscettibilità mendeliana recessiva
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Varie anomalie e sindromi congenite ereditate come carattere mendeliano
autosomico recessivo sono pure associate con particolare frequenza ai tumori
dell'uomo. La sindrome forse più nota in questo senso è lo Xeroderma
pigmentosum, un'anomalia cutanea causante spiccata sensibilità alla luce del sole,
caratterizzata da zone di atrofia e da aree isolate e confluenti di cheratosi più o
meno pigmentate. Su questa base si originano spesso e presto nel corso della vita
carcinomi cutanei a cellule basali, o meno frequentemente a cellule squamose, o
melanomi. La malattia si osserva all'incirca in un soggetto ogni 250.000. Il
meccanismo causale dei cancri in questa condizione è ormai in parte conosciuto. Si
tratta di un errore congenito del metabolismo in cui un enzima necessario per la
riparazione dei danni indotti dalla luce ultravioletta è difettivo (v. neoplasie:
Oncologia sperimentale). L'enzima in questione è implicato nelle fasi precoci della
riparazione che conduce alla escissione di dimeri di timina (v. Cleaver. 1968; v.
Robbins e altri, 1974).
L'albinismo, un'anomalia ereditaria dovuta a un gene mendeliano recessivo,
opposta ma in certo senso comparabile con lo Xeroderma pigmentosum, è pure
causa di cancri cutanei nei portatori. Gli albini sono uno su 10.000 nella
popolazione europea ma molto più numerosi presso altri gruppi etnici, come gli
indiani Cuna nei Caraibi. Essi mostrano una grande riduzione della pigmentazione
degli occhi, dei capelli e della cute, che è causa di particolare sensibilità alla luce del
sole. Se non protetti da vestiti e lenti affumicate, tali soggetti sviluppano perciò
giovanissimi una cheratosi attinica maligna e spesso finiscono per sviluppare un
cancro a cellule squamose della cute. Il meccanismo della cancerogenesi in questo
caso non è noto, ma una mutazione genica vi è sicuramente coinvolta (v. Heston,
1976).
Varie malattie con difetti immunitari, con o senza anomalie del timo, che si
trasmettono in genere come caratteri recessivi legati al sesso, predispongono
particolarmente allo sviluppo di leucemie, linfomi o altri tumori, se i soggetti non
muoiono prima per malattie infiammatorie intercorrenti dovute al deficit
immunitario. È questo il caso della agammaglobulinemia di Bruton, della sindrome
di Di George (aplasia timica), della sindrome di Wiscott-Aldrich (depressione
selettiva delle immunoglobuline M e della immunità cellulare), della sindrome di
Louis-Bar o atassiateleangectasia (ipoplasia timica marcata con linfopenia e deficit
di immunoglobuline A ed E; v. Smith, 19777). In questi casi, comunque, il
meccanismo genetico favorente la tumorigenesi sembra da ricercare almeno in
parte nella depressione del sistema immunitario causata dall'assenza o
dall'ipoplasia degli organi o degli stipiti cellulari immunocompetenti. Sui rapporti
fra depressione immunitaria e cancro si avrà motivo di tornare appresso.
c) Suscettibilità mendeliana dominante o familiare
Le neoplasie e le sindromi neoplastiche che si trasmettono ereditariamente come
caratteri mendeliani dominanti sono anche familiari perché appunto emergenti in
più membri della stessa famiglia. Queste forniscono forse la più diretta evidenza
che le modificazioni genetiche possono avere importanza nell'origine del cancro. In
tali casi il gene responsabile è altamente penetrante per cui il tumore diventa una
manifestazione fenotipica comune. Vi sono casi di tumori a sede determinata come
unica manifestazione della sindrome e casi di lesioni multiple coesistenti, a
differenti sedi, neoplastiche e non neoplastiche.
Un esempio del primo tipo è dato dal retinoblastoma, un tumore retinico di tipo
embrionale. Non tutti i casi di retinoblastoma, specie monolaterale, sono ereditari.
Ma tutti gli individui affetti bilateralmente sono portatori del gene dominante che
causa il retinoblastoma, per cui la probabilità che la loro prole sia portatrice del
gene e affetta da retinoblastoma è del 50% (v. Schappert-Kimmijser e altri, 1966).
Le persone portatrici del gene hanno una probabilità del 95% di sviluppare il
retinoblastoma, mentre per quelle che non lo possiedono le probabilità sono meno
di una su 20.000 individui (v. Knudson, 1971).
Sebbene con frequenza assai minore del retinoblastoma, numerosi altri tumori
embrionali, quali il neuroblastoma e il tumore di Wilms del rene o nefroblastoma,
sono stati osservati in più membri della stessa famiglia. Tuttavia non è possibile
affermare che la diversità di frequenza rispetto al retinoblastoma rispecchi una
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reale differenza di comportamento: infatti il retinoblastoma è eccezionale non solo
come esempio di neoplasia trasmissibile quale carattere ereditario dominante, ma
anche come esempio di tumore maligno curabile. Il risultato è quello di un gran
numero di soggetti affetti, curati, che sopravvivono e sono così in grado di produrre
una prole, affetta, il cui studio ha permesso appunto di chiarire la trasmissione
della malattia come carattere ereditario dominante. Le possibilità di sopravvivenza
per gli altri tumori embrionali sono invece molto minori (v. Knudson, 1973).
Altri tumori a carattere familiare, per i quali si suppone o si è dimostrato un
modello di trasmissione ereditaria dominante, sono il feocromocitoma (del sistema
nervoso simpatico), qualche forma di melanoma, le adenomatosi endocrine
multiple (tumori interessanti contemporaneamente due o più ghiandole endocrine:
ipofisi, paratiroidi, tiroide, pancreas insulare, surrene; o tumori di stipiti cellulari
endocrini: carcinoide bronchiale e intestinale) e la poliposi del colon, che pure
rappresenta un modello fra i più noti (v. Knudson, 1973).
L'aspetto più importante della poliposi ereditaria multipla del colon è che quasi
ogni soggetto che ne è portatore se non viene curato muore di carcinoma del colon
prima dei 50 anni. Vi sono varie forme di poliposi intestinale, tutte caratterizzate
da marcata predisposizione al carcinoma (v. McConnell, 1966). L'età media di
morte nei casi sottoposti a trattamento terapeutico è sui 40 anni, cioè molto più
bassa di quella per carcinoma del colon nella popolazione generale, che si aggira
sui 70 anni (v. Veale, 1965). La frequenza della sindrome è fortunatamente bassa
(dell'ordine di 1 caso su 6.850 individui). I polipi rappresentano lesioni
iperplastiche preneoplastiche da cui i carcinomi prendono origine per
progressione.
d) Predisposizione genetica ai cancri più comuni
Tutti gli esempi e i casi di cui si è fin qui parlato, di estrema importanza sul piano
speculativo per una comprensione dei rapporti fra eredità e cancro, ne hanno poca
in pratica, poiché la frequenza dei tumori considerati è nel complesso bassa.
Particolare interesse rivestono perciò gli studi genetici volti a stabilire l'influenza
dell'eredità sullo sviluppo dei cancri più comuni nella popolazione generale (v.
Mulvihill e altri, 1977).
La maggior parte degli studi genetici sul cancro della mammella ha condotto alla
conclusione che nelle parenti di pazienti affette da cancro mammario la frequenza
di tali neoplasie è da due a tre volte superiore a quella dei controlli. Il legame fra
fattore ereditario e alcuni cancri mammari emerge più chiaramente se si opera una
distinzione dei cancri della mammella in premenopausali (spesso associati con
lesioni mammarie preneoplastiche benigne, con tumori tiroidei e con eccessiva
produzione di estrogeni ovarici) e postmenopausali (più spesso associati invece con
ipertensione, obesità, diabete mellito e iperfunzione surrenalica). Infatti, nel primo
tipo, le parenti mostrano un significativo eccesso di cancri della mammella in
confronto ai controlli, che nel secondo tipo manca (v. Anderson, 1971 e 1972). La
predisposizione genetica è inoltre più evidente nei casi di cancro bilaterale della
mammella e di cancro della mammella in età giovane.
Per i cancri dell'utero, che si sviluppano in due distinte sedi con profili anatomoclinici indipendenti, quello della cervice mostra ben pochi segni di essere correlato
a fattori ereditari (v. Rotkin, 1966) mentre quello dell'endometrio è decisamente in
rapporto con una predisposizione ereditaria, come può desumersi dalla sua
frequente familiarità e dalla sua rimarchevole incidenza nelle parenti delle donne
portatrici (v. Lynch, 1967).
Per i cancri del polmone, dell'intestino, dello stomaco, condizionati da fattori
ambientali, le indagini genetiche sono meno indicative. Comunque un elevato
numero di casi, più o meno rilevante e significativo, nei parenti di pazienti
portatori rispetto ai controlli opportunamente selezionati, è stato più volte riferito.
Analoghi risultati sono stati forniti per il cancro della prostata (v. Knudson, 1973; v.
Heston, 1976).
e) Indagini sui gemelli monocori
Un tentativo classico per l'identificazione di fattori genetici nei tumori, è quello
applicato allo studio delle leucemie e dei linfomi attraverso il confronto fra coppie
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di gemelli identici (monozigoti) e non identici (dizigoti). I primi derivano da uno
stesso uovo fecondato, per cui se un fattore genetico causante leucemia è presente
nei gameti, questo dovrebbe manifestarsi con la sua azione in entrambi i gemelli. I
secondi derivano invece da due diverse uova fecondate, per cui il loro patrimonio
cromosomico è diverso e la possibilità dell'esistenza di un eventuale fattore
genetico comune per la leucemia è remota. Nei gemelli monozigoti si è trovato un
tasso di concordanza per la leucemia infantile del 25%, mentre solo tre casi di
concordanza risultano descritti nella letteratura per i gemelli dizigoti, nessuno dei
quali ben documentato (v. MacMahon e Levy, 1964). Se pertanto un gemello
monocore cade affetto da leucemia il fratello ha una probabilità su 4 di sviluppare
una leucemia, che spesso appare nel giro di settimane o mesi. Nonostante che
questi dati sui gemelli suggeriscano fortemente l'azione di fattori genetici nella
leucemia infantile, gli studi sui parenti dei portatori di leucemie o linfomi non
hanno fornito risultati altrettanto evidenti o comunque particolarmente indicativi
in questo senso.
f) Conclusioni
Il problema dei rapporti fra eredità e cancro nell'uomo rimane dunque aperto (v.
Mulvihill e altri, 1977). Le conoscenze attuali in questo campo sono a un punto
critico, per cui non mette conto soffermarsi su modelli e ipotesi formulati per
spiegare il cancro umano come una malattia da mutazione somatica (v. Knudson,
1977; v. Strong, 1977; v. Mulvihill e altri, 1977). Oggi, tenendo presente la generalità
dei casi e non solo le eccezioni, si può soltanto anticipare che una certa
predisposizione ereditaria ai tumori sembra esistere e avere probabilmente
importanza, anche se essa non è in grado di produrre da sé l'evento (neoplasia)
senza l'intervento di fattori causali.
5. Cause del cancro umano
Uno dei mutamenti di opinione più significativi della medicina moderna è quello
intervenuto nel suo atteggiamento riguardo alle origini del cancro umano. Prima
della seconda guerra mondiale, i cancri erano considerati malattie spontanee,
inevitabilmente connessi con l'età, per i quali vi era poco da fare da parte del
medico oltre a formulare una diagnosi precoce che consentisse al chirurgo e al
radiologo di curarli. Oggi è comune leggere che l'80 o il 90% di tutti i cancri hanno
un'origine ambientale e sono dovuti a inquinamento industriale, ad abitudini
innaturali, ai contenuti e alle preparazioni della dieta, ai medicamenti, ecc. (v. Doll,
1977).
In realtà si conoscevano anche nel passato tumori dovuti a cause ambientali, ma
questi erano pochi per tipo come per numero di persone interessate e perciò
potenzialmente controllabili. Erano noti alcuni tipi di ‛tumori professionali', di cui
il più famoso e primo a essere studiato fu il cancro della vescica, che causava la
morte fra i lavoratori delle fabbriche di coloranti a base di anilina (v. Case e altri,
1954). I cancri del volto e della cute scoperta, più frequenti nelle campagne, fra i
marinai, ecc., erano attribuiti alle radiazioni solari. Alcuni cancri del labbro erano
posti in relazione col fumo della pipa, altri del cavo orale con l'abitudine di
masticare tabacco. Oggi, invece, per quasi tutti i tipi di cancro cominciano a
conoscersi, in maniera più o meno approssimata, le cause o i gruppi di cause e non
vi è tanto necessità di insistere sulla natura indotta dei tumori umani quanto di
fornire un panorama ordinato e schematico delle loro principali cause.
Queste si possono dividere in: a) fattori professionali, cioè collegati a un tipo di
lavoro; b) inquinamento atmosferico e ambientale (acqua, suolo), che
prevalentemente coinvolge gli abitanti delle città e delle zone industriali; c) uso di
erbicidi, pesticidi e conservanti, che riguardano l'attività agricola e l'industria
alimentare; d) dieta, importante sotto molti aspetti che vanno dagli squilibri o
carenze, alla composizione chimica, a quella fisica, agli additivi alimentari, al modo
di preparazione e cottura dei cibi, alle eventuali sostanze inquinanti e al
condizionamento sulla flora batterica intestinale; e) medicamenti, responsabili dei
tumori iatrogeni; f) fumo di tabacco e altre abitudini nocive; g) parassiti; h) virus
oncogeni. In questo ambito si ritiene oggi che vadano cercate le origini della
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maggior parte dei tumori umani, tenendo presente che tali fattori possono agire,
anzi spesso agiscono associati. Il problema, come si vede, è di primaria importanza
per i suoi riflessi nel campo della prevenzione tumorale, attraverso la diminuzione
e il controllo del rischio oncogeno ambientale (v. Hiatt e altri, 1977).
a) Fattori cancerogeni professionali
Alla categoria dei fattori cancerogeni professionali appartiene ormai una lunga lista
di agenti: le radiazioni ionizzanti fra cui il radon (minatori di uranio, spatofluorite,
ematite: cancro del polmone), i raggi X, il radium (radiologi: cancro della cute;
verniciatori di quadranti luminosi: tumori delle ossa) e i raggi ultravioletti
(contadini, marinai: cancro della cute); gli idrocarburi policiclici aromatici
contenuti nella fuliggine, nel catrame, nel petrolio (spazzacamini: cancro dello
scroto; operai dei gasometri: cancro della cute; molti altri lavoratori dell'industria:
cancro dei polmone); le naftilammine, la benzidina, il 4-amminodifenile (lavoratori
di industrie coloranti, chimiche, della gomma: cancro della vescica); l'asbesto
(lavoratori di materiali refrattari come l'amianto: tumori della pleura); l'arsenico
(lavoratori delle concerie, delle fonderie, minatori d'oro: cancro della cute e del
polmone); il bisclorometiletere (lavoratori di resine a scambio ionico: cancro del
polmone); il benzolo (lavoratori di colle e vernici: leucemia); il cloruro di polivinile
(lavoratori della plastica: angiosarcoma del fegato); il cromo, il nichel, l'olio
isopropilico (lavoratori delle raffinerie e industrie relative: cancro dei seni nasali e
del polmone) (v. Hiatt e altri, 1977).
La lista tende col tempo ad allungarsi, perché molte altre sostanze sono sospettate
di rischio potenziale (v. Hueper e Conway, 1964). Ma è da rilevare che molti dei
sopraricordati rischi oncogeni professionali sono da tempo sotto controllo o
attraverso la cessazione delle attività industriali più rischiose o dell'uso dei
materiali cancerogeni, o attraverso la modificazione dei procedimenti industriali in
modo da ridurre l'esposizione degli operai addetti. Fatta eccezione forse per le
radiazioni ultraviolette, il numero dei lavoratori esposti è inoltre limitato rispetto
alla popolazione totale, per cui si è indotti a concludere che il rischio professionale
può giustificare solo un numero molto limitato del totale dei cancri (v. Doll, 1977).
b) Inquinamento ambientale
L'inquinamento ambientale - atmosferico, del suolo e delle acque - potrebbe avere
maggiore importanza poiché a esso si trova esposta non intenzionalmente la
popolazione generale. Cancerogeni come gli idrocarburi policiclici aromatici
prodotti dalla combustione del carbone, del legno, del petrolio a uso di
riscaldamento, l'arsenico, presente fra l'altro nella carta delle sigarette, i pesticidi
come il DDT, i composti N-nitrosi usati come erbicidi e presenti nell'aria, nel
tabacco e nel cibo, l'asbesto, comunemente presente nell'atmosfera delle città
industriali, il cloruro di polivinile, entrato in ogni casa con l'uso quotidiano dei
recipienti in plastica, il fluoro e il cloro usati per la fluorazione e la clorazione delle
acque e che nell'acqua producono composti non del tutto innocui, le radiazioni
ionizzanti, in lento ma costante aumento nell'ambiente, possono dunque essere
responsabili di cancri nella popolazione generale. Difficile anche qui stabilire però
in quale proporzione essi contribuiscono al totale delle neoplasie dell'uomo (v.
Hiatt e altri, 1977).
Alcuni studi quantitativi sembrerebbero limitare l'importanza di simili cancerogeni
ambientali per la particolare esiguità delle dosi di esposizione. È stato calcolato che
gli abitanti delle grandi città inglesi, a causa della combustione per riscaldamento
domestico, sono esposti a circa un centesimo della dose di benzopirene inspirato
dagli operai delle industrie del gas di carbone (v. Doll e altri, 1972). Per il cloruro di
polivinile, è noto che la dose giornaliera assorbita nel cibo dai recipienti di plastica
è circa 50 milioni di volte minore di quella ricevuta giornalmente dai primi
lavoratori della plastica che erano realmente esposti al rischio di sviluppare
angiosarcomi del fegato (v. Barnes, 1976). Anche l'asbesto atmosferico delle città è
circa un decimilionesimo della concentrazione ritenuta accettabile nelle industrie
del settore (v. Doll, 1977).
Queste misurazioni sembrerebbero ridurre il significato delle polluzioni industriali
come causa primaria o importante di cancri nell'uomo. Ma rimane difficile stabilire
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quale proporzione sia in definitiva da attribuire ai rischi, modesti ma diffusi e per
di più combinati, di questi cancerogeni.
c) Cancerogeni nella dieta
La dieta rappresenta una sorgente alternativa di fattori cancerogeni per l'uomo e,
dopo essere stata ingiustamente trascurata, va oggi riscuotendo presso i ricercatori
l'interesse che apparentemente merita. La dieta può intervenire nella
cancerogenesi degli organi dell'apparato digerente o anche di altri apparati con vari
meccanismi. Una carenza di proteine nella dieta è probabilmente, come già detto,
la causa o una concausa della elevata frequenza di cirrosi e di cancri del fegato che
si verificano nelle regioni dell'Africa e dell'Asia meridionale. La dieta dei paesi
industrializzati occidentali, particolarmente ricca di grassi e povera di scorie
indigeribili fibrose, potrebbe avere responsabilità notevoli per il cancro
dell'intestino e di altri organi.
La composizione della flora batterica intestinale dipende infatti dalla dieta e in
particolare dal contenuto in grassi della dieta, che stimolano l'incremento dei
batteri anaerobi quali i clostridi lecitinasi-negativi. La quantità di grasso nella dieta
determina anche la quantità di steroidi biliari (colesterolo e prodotti di
degradazione dei sali biliari) che raggiungono il colon. A sua volta la flora
intestinale è in grado di produrre metabolicamente dagli steroidi biliari
cancerogeni chimici (v. Hill, Drasar e altri, 1971) ed estrogeni (v. Hill, Goddard e
altri, 1971). I primi potrebbero causare il cancro dell'intestino, i secondi quello
della mammella (v. Hill, 1977). Inoltre, le feci povere di scorie indigeribili sono
meno voluminose, per cui il loro transito è più lento e il ristagno aumenta così il
tempo di esposizione della mucosa intestinale ai cancerogeni in esse eventualmente
contenuti.
Altri rischi oncogeni della dieta possono provenire dalle sostanze chimiche
impiegate in agricoltura per la produzione degli alimenti (erbicidi, pesticidi,
anticrittogamici), dagli additivi chimici, dai preservanti (per es. i nitriti), dai
conservanti e soprattutto dai contaminanti biologici. Aspergillus flavus, un fungo
comune che si sviluppa prontamente nel grano, nel granoturco, nelle nocciole, ecc.,
conservati in ambienti e in condizioni climatiche inadatte, produce una
micotossina, l'aflatossina B1, che è uno dei più potenti cancerogeni epatici
sperimentali oggi conosciuti, attivo in dose di microgrammi. Studi epidemiologici
condotti presso le popolazioni dell'Africa e dell'Asia meridionale, che consumano
larghe quantità di cereali mal conservati, hanno dimostrato una correlazione fra
incidenza di epatocarcinoma e contenuto di aflatossina nella dieta in quelle zone (v.
Alpert e altri, 1971). La cicasina, un costituente delle noci di cicade, è un altro
cancerogeno naturale dotato di potenzialità neoplastica per l'uomo. Un certo
numero di piante dell'Africa, del Sudamerica e del- l'Asia producono alcaloidi che
potrebbero essere cancerogeni (v. Schoental, 1968). Da ciò derivano nuovi
problemi pratici e di studio che appunto oggi si sta cercando di risolvere.
Un'ulteriore possibilità di azione cancerogena della dieta dipende dal modo di
cottura delle vivande. Molti tipi di sostanze organiche scaldati a temperature di
combustione producono catrami cancerogeni artificiali e ciò non è certo senza
significato culinario. L'abitudine di arrostire, cuocere alla griglia, friggere, tostare e
affumicare i cibi potrebbe produrre infatti piccole quantità di idrocarburi
cancerogeni artificiali e la loro ingestione quotidiana potrebbe essere causa non
marginale dei comuni cancri del tubo digerente. I grassi portati ad alte
temperature, per esempio quelli ripetutamente usati per friggere, sembrerebbero
essere i più pericolosi. Il benzopirene, uno fra i più comuni cancerogeni della serie
degli idrocarburi aromatici, è stato ritrovato in quantità significative nella carne e
nel pesce affumicati (v. Bailey e Dungal, 1958) e nella polvere di caffè tostato (v.
Hueper e Payne, 1960).
d) Cancerogenesi iatrogena
I medicamenti compongono un'altra categoria di cancerogeni per l'uomo. La lista
di medicine e trattamenti pericolosi è assai lunga e comprende i raggi X usati a
scopo diagnostico e terapeutico e i mezzi di contrasto radiologici come il thorotrast
(tumori in ogni sede, leucemie e linfomi), gli idrocarburi cancerogeni contenuti
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negli unguenti e nei lassativi (cancri della cute, dello stomaco, dell'intestino), gli
agenti citostatici alchilanti (melphalan, ciclofosfammide: leucemia mieloide), il
cloramfenicolo (leucemia mieloide), gli estrogeni (cancri della mammella,
dell'utero), l'arsenico (cancri della cute, del polmone), la clornafazina (cancro della
vescica), la fenacetina (cancro della pelvi renale), gli immunosoppressivi (linfomi e
altre neoplasie), il fenilbutazone (leucemie) a cui se ne devono aggiungere altri
potenziali, come suggerito dalla loro azione cancerogena sugli animali, quali
l'isoniazide, la griseofulvina, il tannino, il tiouracile, i glicocorticoidi, i ciclammati,
gli steroidi anabolizzanti, i derivati della rauwolfia (v. Schmähl e altri, 1977).
Vi sono anche esempi di cancerogenesi iatrogena nel campo della chirurgia, quali il
sarcoma da corpo estraneo e da cicatrice (v. Ott, 1970), il cancro primitivo dello
stomaco operato (v. Hilbe e altri, 1968), i tumori del colon conseguenti a
ureterosigmoidostomia (v. Mueller e Thornbury, 1973) e i tumori cutanei in sede di
cicatrici da vaccinazione antivaiolosa (v. Schmähl e altri, 1977). Il significato delle
medicine e dei trattamenti medici nell'insorgenza dei cancri in generale può essere
difficilmente valutato in termini quantitativi. L'impressione è che il rischio
iatrogeno non possa fornire un contributo rilevante al rischio totale, sebbene in
alcuni paesi esso possa essersi reso responsabile di percentuali discrete di cancri in
particolari età (infanzia) o sedi del corpo (v. Doll, 1977).
e) Abitudini di vita e voluttuarie
Importanza non secondaria come cause di cancro umano hanno anche alcune
abitudini voluttuarie o di vita condizionate dalla nostra civiltà, fra cui sono
essenzialmente da considerare il fumo di tabacco, l'alcool e, nel sesso femminile, le
abitudini sessuali, l'allattamento al seno, il numero dei figli e l'età al primo parto.
Da studi epidemiologici prospettivi e retrospettivi, chimici, sperimentali e
morfologici è emerso con indubitabile chiarezza il legame esistente fra fumo di
tabacco e cancro del polmone. Relazioni analoghe sono state trovate anche fra
fumo di tabacco e cancri del cavo orale, della laringe, dell'esofago e della vescica. I
prodotti di combustione del tabacco contengono benzopirene e altre sostanze
cancerogene. I forti fumatori sono notevolmente più inclini a sviluppare cancro del
polmone dei non fumatori e mostrano all'autopsia lesioni premaligne più frequenti
nell'albero bronchiale (v. U.S. Department of..., 1964). L'abuso di alcool è collegato
con maggiori incidenze di cancri della bocca, faringe, laringe ed esofago, sebbene il
meccanismo non sia noto (v. Willis, 19674).
Il cancro della cervice uterina è più frequente nelle donne che hanno molti
partners, intensa attività sessuale, numerosi figli, probabilmente a causa di
infezione venerea da virus erpetico che in tal modo contraggono (v. Kessler e altri,
1974). Infine, il pratico abbandono dell'allattamento al seno, la riduzione nel
numero dei figli e soprattutto la primiparità tardiva o attempata, divenute
abitudini di vita nei paesi occidentali, sono in stretto rapporto con l'incremento di
cancri della mammella verificatosi durante questo secolo (v. Severi e Squartini,
1962; v. MacMahon e altri, 1973).
f) Parassiti e virus oncogeni
Chiudono questo vasto panorama di cause del cancro umano le infestioni da
parassiti e le infezioni da virus oncogeni. Fra le prime sono da ricordare quelle da
schistosomi, frequenti in Egitto, in Giappone e in altri paesi orientali, e da
Clonorchis sinensis, frequente nella Cina meridionale. In entrambi i casi il
meccanismo che conduce al cancro è quello dell'infiammazione cronica. Gli
schistosomi penetrano allo stato larvale attraverso la cute, seguono il sistema
venoso e raggiungono così la vescica o l'intestino crasso determinandovi infezioni
croniche granulomatose e poi tumori; Clonorchis sinensis, attraverso la vena porta,
passa dall'intestino al fegato, ove determina granulomi seguiti nel tempo dallo
sviluppo di tumori.
Il capitolo dei virus oncogeni è il più recente fra quelli dei fattori che
contribuiscono alla eziologia del cancro umano e tuttavia e gia ricco di dati
significativi. Il linfoma di Burkitt (v., 1968) e il carcinoma giovanile del
naso-faringe, noto con il nome di linfoepitelioma, si manifestano solo in individui
infetti con virus di Epstein-Barr (v. Epstein e altri, 1964), un herpesvirus oncogeno
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contenente DNA diffuso nel genere umano, ove causa anche la mononucleosi
infettiva (v. neoplasie: Oncologia sperimentale). Il DNA virale è presente in tutte le
cellule tumorali, nelle quali determina l'espressione di neoantigeni virali. La
produzione virale da parte delle cellule tumorali può essere attivata in laboratorio.
È difficile pensare di ottenere in laboratorio prove migliori di queste per
dimostrare la natura virale dei tumori nominati. L'unico tentativo non facile che
rimane da fare è quello di prevenire la malattia con un vaccino specifico (v.
Epstein, 1976).
Vi sono indicazioni, come si è già detto, che un herpesvirus di tipo II possa essere
causalmente associato al cancro della cervice uterina (v. Rapp, 1974), ma tali
indicazioni sono ancora incomplete e necessitano di conferma (v. Doll, 1977). La
patologia sperimentale suggerisce inoltre fortemente che le leucemie (v. Gross,
1951) e il cancro della mammella (v. Bittner, 1936) possano avere un'ori- gine
virale. Ma fin'ora nell'uomo sono state trovate solo prove tenui o indirette della
presenza di virus causali in queste malattie. I virus oncogeni in questione sono
RNA virus (oncornavirus) e una prova indiretta della loro presenza è il riscontro di
un enzima virale, la DNA polimerasi RNA-dipendente o trascrittasi inversa, che
rappresenta appunto un marcatore biochimico specifico degli oncornavirus quando
si ritrovi associato con RNA ad alto peso molecolare (v. Spiegelman e altri, 1970 ; v.
Schlom e Spiegelman, 1971).
Nel caso del cancro mammario umano le tenui prove accumulate nell'ultimo
decennio sulla possibile presenza e attività di un virus causale possono sintetizzarsi
come segue : a) sporadica dimostrazione di particelle B, l'espressione morfologica
del virus dei tumori mammari murini, nel latte di donna (v. Moore e altri, 1971); b)
presenza di trascrittasi inversa associata con RNA ad alto peso molecolare nel latte
di donna (v. Schlom e altri, 1972); c) omologia fra RNA del virus murino e RNA
citoplasmatico del cancro mammario umano negli studi di ibridazione molecolare
competitiva (v. Spiegelman e altri, 1972; v. Vaidya e altri, 1974); d) anticorpi
neutralizzanti il virus dei tumori mammari murini nel siero di donna (v. Charney e
Moore, 1971); e) reazione immunologica crociata fra virus dei tumori mammari
murini e cancro mammario umano nei test di ipersensibilità cellulare con leucociti
in vitro (v. Black e altri, 1974 e 1976). Questi dati sono tuttavia ancora in attesa di
un'interpretazione unitaria e sono ritenuti al momento insufficienti per sostenere
un'eziologia virale del cancro della mammella nell'uomo (v. Squartini, I virus
oncogeni..., 1977). Potrà forse gettar luce in futuro su questo e analoghi problemi di
oncologia umana la recente acquisizione sperimentale che oncornavirus come
quello dei tumori mammari del topo possono essere trasmessi anche per via
genetica come provirus germinali (v. Bentvelzen e altri, 1970).
g) Prevenzione e screening delle sostanze cancerogene
Fra i numerosi fattori causali del cancro umano ricordati si possono verificare
interazioni e sinergismi di azione che portano a potenziamento degli effetti. Alcune
interazioni, come quella fra asbesto o radiazioni ionizzanti e fumo di tabacco per il
cancro del polmone, e ancora quella fra alcool e fumo di tabacco per il cancro
dell'esofago, sono state dimostrate.
Nel concludere è giusto sottolineare il grande compito che aspetta l'organizzazione
sanitaria del futuro, impegnata a tradurre questo panorama di fatti in efficaci
misure di prevenzione. Un problema preliminare a questo compito è quello di
sperimentare test relativamente rapidi per valutare in futuro la pericolosità delle
innumerevoli sostanze che la nostra società industriale riversa ogni anno
nell'ambiente. Infatti, i tradizionali test di cancerogenicità nei piccoli animali di
laboratorio sono troppo lunghi, della durata di 1-3 anni, e costosi. I test di
cancerogenicità in vitro sono più brevi, ma presentano qualche difficoltà
applicativa (v. Heidelberger, 1973 e 1977). Perciò recentemente l'interesse si è
concentrato sul fatto che i cancerogeni noti sono in genere anche mutageni, cioè
sostanze in grado di produrre mutazioni nel patrimonio genetico cellulare (v.
Hollaender, 1971; v. Montesano e Bartsch, 1976). L'identificazione dei cancerogeni
attraverso test di mutagenesi nei Batteri e nella drosofila (v. Vogel, 1977) potrebbe
perciò, per la rapidità e la semplicità dei test, risolvere il problema almeno a livello
dello screening più grossolano. In una eventuale scala di approfondimento del
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rischio oncogeno di sostanze sconosciute, il test di cancerogenesi in vitro potrebbe
poi rappresentare il secondo livello e quello su animali di laboratorio il terzo,
necessario per quei composti che richiedano un'attivazione metabolica (v. Hiatt e
altri, 1977). Con questo armamentario si potrebbe in futuro controllare gli effetti
sull'ambiente delle sostanze chimiche nocive e prevenire così forse in larga parte il
cancro umano.
6. Immunodepressione e malignità
L'ipotesi che la risposta immunitaria rappresenti un efficace meccanismo di difesa
contro le neoplasie ha avuto una grande influenza nelle ricerche sul cancro degli
ultimi 20 anni. I lavori si contano a migliaia anche se i risultati sono fin qui
contraddittori e scarsi. In particolare ha preso solido sviluppo il concetto che i
meccanismi immuni possano prevenire lo sviluppo di tumori incipienti e,
reciprocamente, che le deficienze immunitarie possano favorire lo sviluppo
tumorale. Tale concetto ha trovato la sua formulazione più articolata e completa
nella teoria generale della ‛sorveglianza immunologica' da parte di Burnet (v., 1963,
1964 e 1967).
a) L'ipotesi della ‛sorveglianza immunologica'
Il primo accenno all'ipotesi si trova in una considerazione del 1957, secondo la
quale ‟non è affatto impossibile che piccoli accumuli di cellule tumorali possano
svilupparsi e, a causa delle loro nuove potenzialità antigeniche, provocare
un'efficace reazione immunitaria con regressione del tumore e nessun segno clinico
della sua esistenza" (v. Burnet, 1957). Il termine sorveglianza immunologica fu
usato la prima volta nel 1963 (v. Burnet, 1963) e la prima elaborazione compiuta
dell'ipotesi fu illustrata l'anno seguente (v. Burnet, 1964). Il concetto della
sorveglianza immunologica può essere riassunto come segue: ‟negli esseri viventi
con lunga durata della vita, come la maggior parte dei vertebrati a sangue caldo,
trasformazioni genetiche ereditabili devono essere comuni nelle cellule somatiche e
una proporzione di queste rappresenta un passo verso la malignità. E quindi per
una necessità dell'evoluzione che dovrebbe esservi qualche meccanismo per
eliminare o inattivare tali cellule mutanti potenzialmente pericolose e viene
postulato che questo meccanismo sia di carattere immunologico" (v. Burnet,
Immunological surveillance..., 1970).
L'ipotesi poggia dunque sui presupposti che quando dette cellule aberranti con
potenzialità proliferativa compaiono nell'organismo queste possiedano nuove
determinanti antigeniche e che quando una quantità sufficiente di nuovo antigene
è stata prodotta questa dia inizio a una risposta immunologica dipendente dal
timo, l'organo preposto all'immunità cellulare, la quale porterebbe alla
eliminazione delle cellule aberranti, all'incirca nello stesso modo in cui viene
rigettato un trapianto (v. Burnet, The concept of..., 1970). Nella definizione del
concetto di sorveglianza immunologica sono perciò impliciti i due assiomi
fondamentali e precisamente: a) che le cellule tumorali possiedano antigeni
diversi; b) che tali antigeni possano essere riconosciuti come estranei provocando
una risposta immune basata sugli immunociti timo-dipendenti (v. Burnet,
Evaluation of..., 1970).
b) Implicazioni cliniche
Le implicazioni cliniche di un concetto così formulato sono ovviamente rilevanti.
Indipendentemente dalle cause che, nelle varie circostanze, producono i tumori,
questi infatti, se una sorveglianza immunologica esiste, avrebbero maggiori o
minori possibilità di svilupparsi come malattie a seconda dello stato immunologico
del soggetto portatore (v. Burnet, Immunological surveillance, 1970).
Le principali conseguenze cliniche prevedibili sulla base dell'ipotesi presentata
sono infatti le seguenti: a) il cancro dovrebbe avere più possibilità di manifestarsi
in quei periodi della vita in cui l'efficacia del sistema immunitario è bassa, vale a
dire il periodo perinatale e l'età avanzata; b) le malattie genetiche che producono
difetti immunologici dovrebbero essere associate con un'eccessiva frequenza di
neoplasie maligne; c) gli agenti immunosoppressivi fisici (raggi X) e chimici
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(medicamenti) dovrebbero aumentare le probabilità di neoplasie; d) quando tessuti
che comunemente soggiacciono allo sviluppo di tumori vengono esaminati per
individuarvi la presenza di foci istologici di malignità in individui non selezionati
(per es. nel materiale autoptico di soggetti senza segni clinici di neoplasia), tali foci
dovrebbero essere trovati in numero maggiore di quanto prevedibile dalla specifica
incidenza delle neoplasie cliniche a quel livello in base all'età e al sesso considerati;
e) anche se la sorveglianza immunologica dovrebbe essere inefficace per tumori che
hanno raggiunto la soglia clinica, ci si potrebbe in rari casi aspettare una
regressione spontanea di cancri già diagnosticati; f) essendo postulato dell'ipotesi
che la risposta immune alle cellule maligne è fornita dai linfociti timo-dipendenti,
ci si dovrebbe aspettare che la prognosi dopo rimozione chirurgica dei tumori sia
migliore per i tumori mostranti adiacenti accumuli e infiltrazione di linfociti, che
non per quelli sprovvisti di tale reazione (v. Burnet, Immunological surveillance...,
1970).
c) Difetti immunologici e tumori
Un confronto fra queste previsioni e l'osservazione anatomoclinica offre svariati
punti di sostegno all'ipotesi della sorveglianza immunologica contro i tumori
maligni. La malattia neoplastica è caratteristicamente collegata all'età e per la
maggior parte dei tipi di cancro le curve di frequenza crescono in progressione
logaritmica secondo l'età. Questa concentrazione di cancri nei gruppi di età più
avanzate può essere collegata con il ben noto declino della risposta immunitaria
conseguente all'età. L'altro periodo di inefficienza immunologica è quello fetale e
peri- natale; e forse a questo è collegato il fatto che i tumori maligni dei bambini,
per quanto molto meno frequenti di quelli dei soggetti adulti e anziani, mostrano
una curva rapidamente decrescente dalla nascita fino al periodo postpuberale (v.
Squartini e Bolis, 1966).
L'associazione non casuale dei tumori maligni con difetti genetici del sistema
immunitario è già stata qui ricordata (v. sopra, cap. 4). Le rassegne più estese in
questo settore di ricerca, aperto circa un quarto di secolo fa da Bruton (v., 1952)
con la scoperta dell'agammaglobulinemia nei bambini (v. immunologia e
immunopatologia: Immunologia generale), sottolineano la particolare propensione
dei pazienti con difetti immunologici congeniti a sviluppare neoplasie maligne (v.
Bergsma e Good, 1968), più evidente, come è comprensibile, per quelle condizioni
che consentono una maggiore sopravvivenza, essendo più lentamente di altre letali,
come l'atassia-teleangectasia e la sindrome di Wiskott-Aldrich (v. Dent e altri,
1968; v. Kersey e altri, 1973).
L'influenza favorente dei trattamenti con agenti immunosoppressivi sullo sviluppo
di tumori maligni ha pure qualche solido punto di riferimento nell' osservazione
clinica. Il trapianto renale, un recente progresso della nefrologia, ha il suo rischio
iatrogeno, poiché richiede per attecchire un intenso e continuo trattamento con
immunosoppressivi. Nei soggetti sottoposti a trapianto, ormai molto numerosi,
sono stati ripetutamente descritti tumori maligni a prevalente tipo di linfomi (v.
Dent e altri, 1968; v. Kersey e altri, 1973). Le irradiazioni con raggi X, che
rappresentano un potente mezzo immunosoppressivo, ma nello stesso tempo
anche mutageno, usate a scopo terapeutico, aumentano di 10-15 volte il rischio di
neoplasie nell'uomo (v. Doll, 1963).
d) Regressione spontanea dei tumori
Le indagini istologiche su materiali autoptici e bioptici alla ricerca di cancri occulti,
microscopici, in soggetti clinicamente liberi da neoplasie, hanno ripetutamente
segnalato la frequenza, del tutto incoordinata con l'aspettazione, di foci
microscopici di carcinoma nella tiroide, nella prostata, nella mammella, nel collo
dell'utero, o di neuroblastoma nel surrene, molti dei quali evidentemente non
hanno alcuna chance di raggiungere la soglia clinica, forse per regressione
spontanea o per controllo efficace a livello microscopico.
‟La regressione spontanea di un cancro già manifesto è così rara che essa è
divenuta quasi il miracolo tipo per giustificare una canonizzazione moderna" (v.
Burnet, Immunological surveillance..., 1970). Tali casi comunque senza dubbio si
manifestano e sono ormai numerosi quelli riferiti nella letteratura medica, ben
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documentati e competentemente diagnosticati su base clinica e istologica (v. AA.
VV., Spontaneous regression..., 1976). In un'esauriente rassegna sull'argomento
Everson (v., 1964) e poi Everson e Cole (v., 1966) e Cole (v., 1976) ne hanno
collezionati 176 e uno dei fatti emergenti in tale raccolta è che più della metà dei
casi, ben 98, appartengono a quattro tipi tumorali: l'ipernefroma, il
neuroblastoma, il melanoma e il coriocarcinoma. Si tratta di tumori di soggetti
relativamente giovani per i quali, con eccezione del neuroblastoma - un tumore
embrionale che mostra talora la capacità di maturare, trasformandosi così nel
corso dell'evoluzione da maligno in benigno (v. Willis, 1962; v. Evans e altri, 1976) l'ipotesi di una regressione su base immunologica appare fondata e senza
alternative razionali (v. Burnet, Immunological surveillance..., 1970). A questi si
può aggiungere il linfoma di Burkitt, un tumore da virus dei bambini africani, già
ricordato, le cui cellule possiedono neoantigeni virali e che talora è stato visto
regredire (v. David e Burkitt, 1968; v. Ziegler, 1976).
Un notevole numero di contributi anatomopatologici ha infine dimostrato il
significato prognostico favorevole degli infiltrati linfatici peritumorali e delle
iperplasie linfatiche o reticolari reattive nei linfonodi prossimi alle sedi tumorali (v.
Black e altri, 1955; v. Fisher e altri, 1975; v. Ioachim, 1976).
e) Azione immunosoppressiva dei cancerogeni
Un altro dato, che può avere rilievo per eventuali applicazioni eziologiche del
concetto esposto, è quello della immunodepressione prodotta dai fattori oncogeni
sia chimici, sia fisici e virali, ben dimostrato dalle ricerche sperimentali. Così si è
persino postulato che i cancerogeni agiscano come tali in quanto agenti
immunosoppressivi (v. Burnet, 1967).
Ma le numerose ricerche hanno chiarito che l'azione diretta del cancerogeno sul
sistema immunitario dell'ospite è un fattore, sebbene necessario, però non
sufficiente per l'effetto oncogeno e che questo può essere dissociato da quello
immunodepressivo del cancerogeno, diminuendo quindi l'interesse per questa
associazione (v. Stutman, 1973).
f) Critiche sperimentali all'ipotesi e conclusioni
Per quanto il concetto della sorveglianza immunologica dei tumori sembri ben
fondato, a esso negli anni più recenti sono state mosse varie critiche sulla base di
dati sperimentali (v. Prehn, 1972 e 1974; v. Stutman, 1975). Le principali obiezioni
sono le seguenti: a) non tutti i tumori sono antigenici; b) i tumori iniziali,
cosiddetti in situ perché ancora non hanno invaso i tessuti vicini, non sono
riconosciuti immunologicamente dall'ospite; c) nella maggior parte dei sistemi
sperimentali il meccanismo di difesa immunitaria, che pure esiste, è inefficace e
tardivo piuttosto che rappresentare un meccanismo di sorveglianza contro i tumori
incipienti; d) i tumori sperimentali da cancerogeni chimici e virali, nei quali i
principi della sorveglianza sembrano effettivi, sono abnormemente immunogenici
e possono rappresentare artefatti di laboratorio i quali magari nulla hanno a che
vedere con la malattia neoplastica spontanea o naturale; e) i tumori che più
comunemente insorgono in soggetti con difetti immunitari congeniti o sottoposti a
trattamenti con immunosoppressivi sono in genere linfomi, cioè tumori delle
cellule del sistema immunitario (v. Stutman, 1977).
Tuttavia, sebbene i punti cardinali dell'ipotesi sulla sorveglianza immunitaria siano
stati in tal modo posti in discussione dagli esperimenti condotti su animali (v.
Stutman, 1975), l'attrazione di questa teoria è rimasta pressoché immodificata ed
essa ha continuato a essere considerata più come un dogma che come un'ipotesi di
lavoro, anche perché le sue implicazioni cliniche appaiono tuttora sostanzialmente
corrette e rispettate. Comunque, il fatto più importante, che l'ipotesi stessa ha
contribuito a controllare, dimostrare e sottolineare, è che un qualche meccanismo
generale di difesa immunitaria esiste nella biologia del cancro. Indipendentemente
dal suo significato nella sorveglianza contro i tumori incipienti, è auspicabile che
tale meccanismo possa essere incrementato al fine di realizzare concrete possibilità
di immunoterapia (v. Prehn, 1974). Lungo questa linea convergono le innumerevoli
ricerche e i problemi attuali in tema di immunologia dei tumori.
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7. Storia naturale della malattia neoplastica nell'uomo
Tra il momento in cui, silenziosamente, la malattia neoplastica comincia e quello in
cui ci si accorge della sua presenza intercorre un periodo di tempo più o meno
lungo che si designa come periodo di latenza o tempo di induzione e si definisce
come ‟il periodo che passa fra la prima esposizione al cancerogeno e la comparsa
del tumore" (v. Steiner, 1953).
a) Fasi della malattia neoplastica
Durante il periodo di latenza si verificano in realtà più fenomeni. Infatti, alla prima
applicazione di un cancero- geno non seguono spesso per qualche tempo
modificazioni apprezzabili a livello istologico, sebbene modificazioni dei caratteri
biologici, chimici e ultrastrutturali delle cellule costituenti il tessuto possano
realizzarsi anche in maniera istantanea o in brevissimo tempo. Dopo un certo
periodo cominciano in genere a manifestarsi lesioni chiamate preneoplastiche,
perché con frequenza precedono lo sviluppo di un carcinoma. Spesso tali lesioni
non mostrano alcun attributo di malignità attuale, ma l'analisi del loro
comportamento biologico per mezzo dei trapianti consente di dimostrarne negli
animali la natura precancerosa (v. DeOme e altri, 1959), È nell'ambito di queste
lesioni che si realizza di solito la trasformazione maligna (v. Foulds, The histologic
analysis... II, 1956; v. Squartini e Rossi, 1962; v. Squartini e Severi, 1964). Quando
la trasformazione maligna si è verificata, inizia lo sviluppo di una popolazione
cellulare autonoma che però può essere apprezzata clinicamente soltanto quando,
per aver superato certe dimensioni, essa diviene palpabile o comunque valutabile
attraverso la semeiologia fisica, radiologica, scintigrafica o la sintomatologia
soggettiva e obiettiva (v. Severi e Squartini, 1955).
Corollari di quanto detto sopra sono che la malattia neoplastica nell'uomo ha in
genere una lunga durata, talora di parecchi anni, e che la sua fase clinica è come la
punta di un iceberg, per la maggior parte sotto il livello clinico e perciò ben poco
conosciuta.
b) Il modello del cancro mammario
Un esempio che particolarmente bene serve a illustrare le fasi della malattia
neoplastica è fornito dal cancro della mammella, il più frequente nel sesso
femminile e uno dei più frequenti in assoluto, particolarmente studiato in questo
secolo appunto per la sua frequenza, per la sua gravità, per la sua accessibilità e
anche per il fatto che dispone di uno dei modelli sperimentali meglio conosciuti (v.
Squartini, 1966).
Nel modello sperimentale, come nel cancro della mammella umana, un pieno
sviluppo dell'albero ghiandolare mammario è richiesto prima che compaiano
alterazioni apprezzabili le quali condurranno poi alla formazione di un tumore. La
mammogenesi può essere definita quindi come la prima tappa della cancerogenesi
mammaria. La mammogenesi procede dalle gemme; ciascuna gemma sviluppa dei
dotti, i dotti terminali sviluppano gli alveoli e quando la proliferazione alveolare è
avanzata compaiono i lobuli mammari. Al termine dello sviluppo, l'albero
ghiandolare della mammella, visualizzato nelle tre dimensioni, somiglia quindi
molto a un albero con i suoi rami (i dotti) e le foglie o i grappoli di frutta (i lobuli e
gli acini). Queste strutture sono strettamente dipendenti dagli ormoni per il loro
sviluppo e per il loro mantenimento.
La seconda tappa nella cancerogenesi mammaria sperimentale e umana è
rappresentata di solito da lesioni iperplastiche, preneoplastiche alveolari, ducturari
o dottali. La lesione preneoplastica più nota nel modello murino è rappresentata
dai noduli di iperplasia alveolare. Questi somigliano ai lobuli normali, ma
differiscono da essi perché dotati di maggiore autonomia, cioè meno dipendenti
dagli ormoni dei lobuli a loro simili (v. Squartini, 1959; v. DeOme e altri, 1962).
Recenti studi morfologici e trapianti hanno mostrato che anche nella mammella
umana vi sono lesioni, come i lobuli atipici e i lobuli postmenopausali persistenti,
da interpretare come possibili lesioni preneoplastiche (v. Wellings e altri, 1975; v.
Jensen e altri, 1976).
C'è oggi qualche discussione a tale riguardo circa il destino di alcune lesioni
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preneoplastiche, che sembrano incapaci di progredire verso il cancro,
comportandosi quindi più come neoplasie abortive che come vere preneoplasie (v.
Sinha e Dao, 1975; v. Dao, 1977). Ma ciò non invalida l'accordo generale circa
qualche tipo di alterazione morfologica che precede, nei vari modelli tumorali, la
trasformazione maligna.
La terza tappa nella cancerogenesi mammaria è rappresentata dall'accrescimento
tumorale maligno che segue l'iperplasia focale. Comunque, quando la
trasformazione maligna si manifesta nelle lesioni mammarie, queste sono di solito
ancora nella fase preclinica. Quindi, la quarta tappa della malattia neoplastica
mammaria è rappresentata dalla fase clinica del cancro che segue quella preclinica
(v. Squartini, 1962).
c) Altri comuni tipi di cancro umano
Tali considerazioni, derivate da un'osservazione dei fatti morfologici, clinici e
sperimentali che precedono e accompagnano lo sviluppo del cancro mammario,
non sono peculiari a questo ma possono applicarsi o estendersi al cancro umano in
generale. Limitando i riferimenti alle neoplasie più comuni, potranno servire come
orientamento i dati seguenti.
Il cancro dell'intestino è spesso preceduto da e associato a lesioni focali
iperplastiche benigne indicate col nome di polipi adenomatosi o villosi. In
particolari condizioni genetiche, come si è già detto (v. sopra, cap. 4), i polipi sono
numerosissimi e la trasformazione di uno o più di questi in cancro è praticamente
la regola che conduce a morte i pazienti in età giovane. Ma anche il più usuale
carcinoma dell'intestino è associato con polipi sporadici, dei quali talvolta è
possibile cogliere la trasformazione maligna (v. Spratt e altri, 1958; v. Spratt e
Watson, 1971). Una malattia oggi non rara del colon, la colite ulcerosa cronica, che
decorre per lo più lentamente con ulcerazioni e proliferazioni polipoidi della
mucosa su base infiammatoria irritativa, favorisce con frequenza significativa lo
sviluppo di un carcinoma del colon nel giro di 10 o 20 anni (v. DeDombal, 1968; v.
Devroede e altri, 1971). Ciò dà un'idea della lentezza, delle possibili concause e delle
successive tappe morfologiche nel cancro intestinale.
Nello stomaco sono pure noti polipi e poliposi che con alta frequenza si
trasformano in cancro, ma sono tuttavia rari. Più frequenti invece sono altre
associazioni con lesioni, come la gastrite cronica, l'anemia perniciosa, o l'ulcera
peptica cronica, che nel giro di molti anni possono talora esitare in cancro. I cancri
delle labbra, del cavo orale, della laringe e quelli della mucosa bronchiale nei
fumatori possono essere preceduti per lunghissimo tempo da lesioni
ipercheratotiche benigne meglio note col nome di leucoplachie, le quali a questi
livelli sono considerate lesioni precancerose.
I dermatologi hanno potuto riconoscere e classificare varie lesioni che precedono di
anni lo sviluppo dei comuni cancri della cute. E i ginecologi, in associazione con i
citopatologi, hanno nettamente ridotto la mortalità per cancro del collo dell'utero
imparando a riconoscere una serie sequenziale di lesioni da modeste a gravi
(iperplasia, displasia, carcinoma in situ o non invasivo) preliminari all'insorgenza
del carcinoma invasivo (v. Johnson e altri, 1964; v. Burghardt, 1973).
d) Rappresentazione schematica della malattia neoplastica nell'uomo
Questi concetti possono essere riassunti in uno schema in cui la malattia
neoplastica è rappresentata da una linea orizzontale con quattro segmenti o fasi e
precisamente: la fase biologica della cancerogenesi caratterizzata da assenza di
lesioni istologiche, la fase premaligna morfologica, caratterizzata da lesioni
preneoplastiche, la fase preclinica del cancro caratterizzata in genere da aspetti di
invasione locale e la fase clinica del cancro caratterizzata in genere da diffusione
metastatica a distanza (v. tab. III; v. Severi e Squartini, 1955). Il tempo che
intercorre fra (a) e (d) è il periodo di latenza ed esso sembra durare parecchi anni
nell'uomo. Durante questo periodo molte misure preventive e terapeutiche
probabilmente avrebbero successo e ciò stimola all'acquisizione di nuove
informazioni circa le fasi tumorali precoci. Si deve imparare a conoscere quali
lesioni sono veramente preneoplastiche, quando queste sono reversibili e quando
divengono irreversibili. Si deve provvedere una definizione più precisa delle fasi
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preinvasiva e invasiva precoce del cancro preclinico. Il tempo che intercorre tra (d)
ed (e) è quello che conosciamo meglio, specialmente a causa dei nostri insuccessi
(v. Squartini, 1978).
Tabella 3
Precisazioni ulteriori suggerite a questo schema sono state recensite, riassunte e
analizzate in dettaglio di recente (v. Foulds, 1975). La prima fase, detta fase A o fase
iniziatoria, è descritta come una zona più o meno estesa di ‛neoplasia incipiente'
con ciò intendendosi una capacità di sviluppo neoplastico superiore a quella che il
tessuto possedeva prima dell'applicazione del cancerogeno, senza apprezzabili
alterazioni morfologiche. Sarebbe dunque un cambiamento di stato nel
comportamento biologico delle cellule a ‛iniziare' la neoplasia dando origine,
secondo le numerose terminologie usate, a ‛zone trasformate senza modificazioni
morfologiche', o ‛campi neoplastici potenziali', o ‛tessuti normali predisposti', o
semplicemente a ‛tessuti iniziali'. In realtà nella fase A si possono osservare
modificazioni morfologiche di scarso rilievo indicate come A1 e A2. Le lesioni A1
sono ‛stigmate di esposizione' o puri effetti locali del danno aspecifico inflitto ai
tessuti dai cancerogeni, specie se potenti. Le lesioni A2 comprendono una
mescolanza di lesioni proliferative transitorie e banali che non prendono parte
ulteriore nello sviluppo della neoplasia.
La seconda fase della malattia neoplastica, detta fase B, è la continuazione senza
alcun limite netto della precedente ed è caratterizzata da lesioni del gruppo B, che
sono le lesioni precancerose o preneoplastiche, passibili fra loro di ulteriore
distinzione secondo la minore (B1) o maggiore (B2) tendenza alla malignità. Queste
sono in genere lesioni focali spesso multiple le quali si sviluppano nella zona di
‛neoplasia incipiente' della fase A e da esse potrà successivamente iniziare la
trasformazione maligna. Ma, indipendentemente dalla probabilità che una
neoplasia maligna emerga in una lesione B, c'è una definita e talora elevata
probabilità che essa emerga direttamente dai tessuti normali limitrofi inclusi nella
zona di ‛neoplasia incipiente' definita (o predestinata o commissionata) dall'azione
del cancerogeno nella fase A senza l'intervento di alcuna lesione del gruppo B. Vi
sono ormai dati anatomoclinici sufficienti per sottolineare l'importanza di questo
rilievo che, lungi dall'annullare, riqualifica il concetto di precancro.
Con la trasformazione maligna ha inizio la fase avanzata o fase C della malattia
neoplastica caratterizzata dall'‛invasione' e dalla ‛metastatizzazione', i due aspetti
cardinali della ‛malignità', non necessariamente associati (v. Foulds, 1975). Anche
questa fase si suddivide in due tempi successivi (C1, C2), per indicare gradi
progressivamente crescenti di malignità mediante sigle che possono perciò servire
anche a distinguere il cancro preclinico (C1) da quello clinico (C2). Poichè
l'invasione locale è il presupposto della metastatizzazione, dipenderà dalla
precocità della diagnosi clinica se le metastasi compaiono in fase C1 o C2.
Tornando ai corollari di questa impostazione concettuale della malattia
neoplastica, basata come si è visto su solide evidenze anatomocliniche, balzano
dunque in piena luce le possibilità ancora esistenti di ricerca e di intervento nel
corso di fasi meno gravi, meno conosciute e, si prevede, meglio trattabili e
controllabili per interrompere il corso delle neoplasie. Tali possibilità di intervento
e di ricerca sono essenzialmente collegate a una definizione, uno studio e un
trattamento migliori dei precursori morfologici del cancro e a un maggiore
chiarimento dei meccanismi della progressione tumorale che regolano il passaggio
fra le varie fasi della malattia neoplastica. A questi argomenti sono dedicati i due
capitoli seguenti.
8. Precursori morfologici
a) Definizione
Nei tre quarti di secolo trascorsi da quando il termine ‛precancerosi' venne usato
forse per la prima volta a proposito di alcune malattie della pelle (v. Dubreuilh,
1898), non si è riusciti a ottenere una definizione univoca del suo significato.
Infatti, questo termine è ancora oggi largamente usato per indicare, e purtroppo
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per confondere fra loro, due concetti assai diversi. Secondo uno di questi concetti,
preneoplasia o precancro è una lesione istologica che non mostra alcuna tendenza
invasiva, ma che diverrà inevitabilmente cancerosa. Secondo l'altro concetto
precancro è invece una lesione istologica ritenuta capace, su base statistica, di dare
origine al cancro con frequenza significativa. La prima di queste interpretazioni
sembra a chi scrive troppo restrittiva, mentre la seconda appare più appropriata
per una condizione patologica che, in quanto tale, è soggetta a innumeri variabili e
sottratta a ogni regola precisa. La definizione che segue discende dalle premesse
svolte nel capitolo precedente e tiene conto di queste considerazioni: ‟Per lesione
precancerosa si intende una condizione sopraggiunta di tipo biologico o
morfologico di un tessuto, caratterizzata dalla tendenza a evolvere in cancro" (v.
Severi e Squartini, 1973).
b) Analisi della definizione
Per una migliore comprensione del significato è opportuno qualche breve
commento alle parti che compongono la definizione. ‟Condizione sopraggiunta" sta
a significare che l'inizio della lesione precancerosa si identifica con un preciso
cambiamento di stato del tessuto colpito il quale, a seguito di tale cambiamento,
acquista potenzialità evolutive nel senso dei tumori prima non possedute. Non è
tanto la lesione apprezzabile a livello morfologico che ha importanza, quanto ciò
che si trova alla sua origine. Spesso l'applicazione di un cancerogeno è seguita da
alterazioni (regressive, infiammatorie) non essenziali per la cancerogenesi: infatti,
con dosi opportunamente ridotte, queste possono mancare senza che l'occorrenza
dei tumori ne sia modificata. La lesione precancerosa è dunque tale in quanto
provocata da una modificazione cellulare non necessariamente irreversibile, ma
certo persistente e capace di favorire, attraverso lo squilibrio che determina,
l'instaurarsi di modificazioni cellulari successive e progressivamente più gravi.
Rispetto al tempo, la condizione precancerosa si può instaurare in qualsiasi
momento della vita, quindi anche prima della nascita, come probabilmente accade
nel caso dei tumori congeniti o di quelli derivanti dalle malformazioni, dagli
amartomi e dalle vestigia dello sviluppo embrionale (v. Squartini e Bolis, 1966; v.
Severi e Squartini, 1969). La locuzione ‟di tipo biologico o morfologico" sottolinea
il concetto che una lesione precancerosa non comincia nè si esaurisce nelle
alterazioni della struttura istologica del tessuto interessato, ma in genere preesiste
a questa come una condizione biologica prima che morfologica (v. Berenblum,
1949; v. Severi e Squartini, 1955 e 1956). All'inizio del periodo di latenza la lesione
precancerosa può interessare il livello ultrastrutturale, oppure non raggiungere
neanche quella soglia e svolgersi per esempio a livello biochimico (‛lesione
biochimica': v. Cameron e Spector, 1961). Per quanto la fase iniziale e
morfologicamente muta della malattia neoplastica non sembri avere al momento
utilità pratica, questo non giustifica che essa venga trascurata.
‟Con tendenza a evolvere in cancro" esprime il concetto caratterizzante della
definizione. Tendenza sembra infatti la parola più appropriata per indicare che la
trasformazione di una lesione precancerosa in cancro non è inevitabile e non è
nemmeno solo casuale o possibile, ma rappresenta invece un evento probabile. Per
mantenere ampiezza sufficiente alla definizione si deve ammettere che la
frequenza, o probabilità, della trasformazione è variabile da lesione a lesione, in
rapporto a fattori che solo in parte possono essere indicati. La dipendenza dallo
stimolo causale (v. DeOme e altri, 1959, 1961 e 1962) e il tempo necessario alla
trasformazione (v. Mühlbock e altri, 1952) sono due di questi fattori resi noti dalla
patologia sperimentale. I noduli preneoplastici di iperplasia alveolare della
mammella del topo sono strutture ormonodipendenti (v. Nandi e altri, 1960; v.
Nandi, 1961), per cui la rimozione o la cessazione dello stimolo che le sostiene ne
può causare la scomparsa (v. Squartini, 1960 e 1966). Per quanto i noduli di
iperplasia alveolare siano presenti a decine nel sistema mammario di topi
suscettibili infettati con il virus di Bittner (v. Nandi, 1963), solamente uno o
pochissimi cancri hanno realmente il tempo di manifestarsi (v. Olivi e altri, 1958).
Un giudizio preciso circa l'evoluzione delle lesioni precancerose è reso anche
difficile dalla loro aspecificità sul piano morfologico. Per rimanere nello stesso
esempio, i noduli di iperplasia alveolare della mammella del topo sono pressoché
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indistinguibili a livello morfologico (v. Severi e altri, 1958), istochimico (v.
Harkness e altri, 1957) e biochimico (v. DeOme e altri, 1956) dalla adenosi
fisiologica della gravidanza. Inoltre, lo stesso tipo di lesione si ritrova sia in topi
portatori del virus di Bittner, sia in topi geneticamente uguali che ne sono privi (v.
Pitelka e altri, 1964). Ma a dispetto della loro somiglianza morfologica i noduli
sviluppati dai primi hanno un'alta probabilità e quelli sviluppati dai secondi una
bassa probabilità di trasformarsi in cancro (v. Blair e DeOme, 1962). Sebbene gli
esempi sopra riferiti provengano da studi di oncologia sperimentale, vi sono pochi
dubbi che circostanze analoghe siano operative anche nel campo delle precancerosi
umane.
c) Acquisizioni sperimentali
Gli studi sulla morfologia del periodo di latenza nei tumori sperimentali hanno
condotto a tre constatazioni di rilievo: a) la costanza di lesioni morfologiche nei
tessuti prima della malignità attuale; b) la variabilità e aspecificità di tali lesioni; c)
la loro natura frequentemente solo microscopica o subclinica. Nei sistemi meglio
studiati di tumori sperimentali la lesione ‛benigna' rappresenta, salvo eccezioni, un
passaggio pressoché obbligato fra tessuto normale e neoplasia maligna, cosicché la
sequenza consueta di eventi che si osserva è: tessuto normale → lesione benigna →
neoplasia maligna. Ciò vale per la cancerogenesi cutanea (v. Berenblum, 1954),
mammaria (v. De Ome, 1963), polmonare (v. Squartini e altri, 1966), delle
ghiandole endocrine (v. Bielschowsky e Horning, 1958), ecc. Le lesioni premaligne
hanno un volto diverso da tessuto a tessuto e talora anche in uno stesso tessuto.
Per esempio, il cancro della mammella del topo può prendere origine da noduli di
iperplasia alveolare, che sono lesioni microscopiche acinose (v. DeOme e altri,
1959), da placche, che sono lesioni palpabili a struttura ductulare cosi chiamate per
la loro forma (v. Foulds, The histologic analysis... II, 1956), o da papillomi dei dotti
(v. Orr, 1956). Inoltre, uno stesso tipo di lesione osservato nel medesimo tessuto in
gruppi di ospiti diversi, può, talvolta molto frequentemente, altre volte molto
raramente, sviluppare un cancro. Un esempio in questo senso è già stato fornito
sopra (v. Blair e DeOme, 1962).
Se la lesione premaligna è molto piccola, il cancro che da questa si sviluppa ne
cancella rapidamente le tracce, per cui l'impressione è che il cancro abbia preso
origine da un tessuto normale. Se invece la lesione premaligna è palpabile, diviene
possibile seguirne la morfologia e il comportamento prima, durante e dopo la
trasformazione maligna. Il sistema dei tumori mammari del topo fornisce un
bell'esempio di queste due diverse situazioni attraverso i noduli di iperplasia
alveolare e le placche (v. Squartini e Rossi, 1962). Nelle seconde, palpabili, la
trasformazione assume di solito l'aspetto di un'area focale con struttura diversa, la
quale progressivamente si estende guadagnando l'intera lesione premaligna e
mostrando talora gli attributi della malignità (v. Foulds, The histologic analysis. II,
1956). Nei noduli di iperplasia alveolare rimane invece difficile seguire al
microscopio la trasformazione (v. Squartini e Rossi, 1960).
L'osservazione sperimentale recente che i noduli di iperplasia alveolare, mantenuti
indefinitamente a mezzo di trapianto, di rado divengono maligni (v. Nandi, 1977), e
che nella cancerogenesi chimica della mammella del ratto, pure in presenza di
numerosi noduli di iperplasia alveolare, i tumori maligni prendono origine da
porzioni di ghiandola apparentemente normali (v. Sinha e Dao, 1975; v. Dao, 1977),
ha dato origine a qualche scetticismo circa il reale significato delle lesioni
preneoplastiche. Ma tale scetticismo è facilmente superato se si considera il fatto
che queste lesioni, ove pure non rappresentino la sede della trasformazione
neoplastica, rimangono sempre segni premonitori di malignità che avrà luogo nelle
loro vicinanze e se si riflette sulla possibilità che l'area del tessuto inizialmente
modificato dall'azione del cancerogeno responsabile dell'accresciuto rischio di
malignità sia più estesa di quella mostrante la lesione morfologica (v. Foulds,
1975).
d) Variabilità e molteplicità strutturale
Nell'uomo, in dipendenza del tessuto di origine, dei fattori causali e, forse, di altri
elementi ancora sconosciuti, le alterazioni che precedono la malignità attuale
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possono assumere il volto dell'iperplasia, della displasia, della metaplasia, della
neoplasia benigna in forma di papilloma, polipo, adenoma o simili, della
disontogenia, ecc. Un'iperplasia diffusa persistente è fertile terreno per lo sviluppo
della malignità. Un esempio tipico è dato dallo struma o gozzo tiroideo. Intorno ai
primi decenni di questo secolo il cancro della tiroide era circa 8 volte più frequente
nelle aree geografiche con gozzo endemico che nelle altre. Una certa prevalenza del
cancro tiroideo nelle regioni gozzigene esiste anche oggi, sebbene non sia più
evidente come in passato. Ciò è dovuto al largo impiego di sali iodati introdotti a
scopo profilattico dopo il 1920 nelle aree gozzigene a deficienza di iodio, da cui si
può concludere che la profilassi del gozzo è una profilassi del cancro della tiroide
(v. Winder, 1952).
La displasia di un tessuto, che significa crescita non solo in eccesso ma anche
incoordinata dei singoli costituenti, più spesso della semplice iperplasia
rappresenta un ponte fra la normalità strutturale e la malignità. Esempi tipici in
questo caso sono forniti dalla mastopatia fibrocistica, che precede talvolta il cancro
mammario (v. Severi, 1952; v. Black, 1976), e dalla displasia epiteliale del collo
dell'utero, che prelude al carcinoma in situ e al cancro manifesto (v. Burghardt,
1973). Un altro tipo di lesione premaligna è la metaplasia, cioè una
differenziazione, per esempio epiteliale, anomala per il tessuto od organo che si
considera mentre è normale altrove. Tipico è il caso della metaplasia squamosa o
epidermoide degli epiteli mucosi di rivestimento (del labbro, della lingua, della
laringe, ecc.). Frequente è pure il caso che la malignità si realizzi in tumori benigni
quali gli adenomi o polipi adenomatosi e i papillomi o polipi villosi dell'intestino
crasso, o i fibroadenomi della mammella nel caso dei sarcomi di questa ghiandola.
Un terreno particolare, infine, per l'insorgenza della malignità è dato dalla
disontogenia, cioè dalla condizione di alterato rapporto dei tessuti embrionali
(amartomi), dalle malformazioni propriamente dette e dai teratomi (v. Willis,
1962). Come si vede, molte fra le lesioni premaligne appartengono alla categoria
dei processi progressivi. Ma non è questa una regola applicabile a tutte. Ve ne sono
alcune che iniziano come processi regressivi. Basterà ricordare in proposito la
cirrosi epatica (v. Berman, 1962) e, per le aree geografiche in cui le è riconosciuto
un significato premaligno, l'ulcera peptica dello stomaco (v. Hirafuku, 1962).
Anche in queste lesioni, tuttavia, la fase regressiva mette poi in movimento un
meccanismo di riparazione che porta a proliferazione dei tessuti. La sequenza
irritazione → danneggiamento → riparazione costituisce infatti una delle vie
alternative attraverso cui si può giungere al cancro.
e) Classificazione patogenetica
Un tentativo di classificare le lesioni premaligne su base patogenetica è stato fatto
suddividendo gli stati precancerosi in: a) disontogenetici, comprendenti le
anomalie riconducibili a disturbi dello sviluppo embrionale (amartomi,
malformazioni, teratomi, ecc.); b) iperplasiogeni, insorgenti sulla base di
un'irritazione cronica di natura infettiva, fisica o chimica che causa rigenerazione
di tessuti (focolai luposi, cicatrici da ustione, ulcere da raggi, ecc.); c) disendocrini,
derivanti da alterazioni nell'equilibrio ormonale (mastopia fibrocistica, iperplasia
cistica dell'endometrio, ipertrofia prostatica, ecc.; v. Steiner, 1953). È improbabile
che in questo schema trovino posto tutte le possibili lesioni premaligne e sarebbe
perciò utile prevedere una quarta categoria per le lesioni miscellanee. Ma bisogna
riconoscere a tale classificazione criteri di semplicità, logica e utilità sufficienti a
mantenerla valida. Del resto, ogni altra base classificativa, dall'aspetto istologico
all'evoluzione clinica, dal momento eziologico alla distribuzione topografica,
risulterebbe impropria per lesioni tanto vaghe nelle cause quanto variate nella
struttura e imprevedibili nel comportamento.
f) I precursori morfologici del cancro umano
La lista dei precursori morfologici del cancro umano è lunghissima. Se ne elencano
molti della cute (cheratosi senile, da agenti fisici e chimici, xeroderma
pigmentosum, nevo giunzionale, infiammazioni croniche, cicatrici da ustioni, ecc.),
della mammella (papillomi dei dotti, carcinoma lobulare in situ, mastopatia
fibrocistica, lobuli atipici e postmenopausali, fibroadenomi, ecc.), dell'endometrio
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(iperplasia cistica postmenopausale, iperplasia adenomatosa atipica, polipi, ecc.),
della cervice uterina (displasia, metaplasia squamosa, carcinoma in situ, ecc.),
dello stomaco (polipi adenomatosi, gastriti croniche, ulcera peptica, anemia
perniciosa, ecc.), dell'intestino (polipi adenomatosi, adenomi villosi, colite ulcerosa
cronica, ecc.), del fegato (cirrosi emocromatosica, cirrosi volgare, iperplasia dei
dotti biliari, ecc.), della vescica (papillomi, cistiti croniche, bilharziosi, estrofia,
ecc.), del polmone (cicatrici, metaplasie e iperplasie atipiche del rivestimento dei
bronchi, tumourlets, ecc.), e praticamente di qualsiasi altra sede (v. Severi, 1962; v.
Severi e Squartini, 1973; v. AA. VV., Early lesions..., 1976; v. AA. VV., 1977).
Queste lesioni sono parte integrante del processo di sviluppo del cancro (v. Gullino,
1977) e a esse dovrebbero essere dedicati studi più approfonditi volti alla ricerca di
forme di controllo del cancro durante la fase premaligna, di nuovi metodi per
selezionare gli individui esposti a maggior rischio, e di più accurati marcatori
diagnostici che rendano possibile una migliore definizione della preneoplasia e dei
suoi rapporti con la neoplasia invasiva (v. Antony e altri, 1976).
g) Attuali indirizzi di ricerca e conclusioni
Sul piano sperimentale non mancano possibilità di approfondire la conoscenza dei
caratteri delle lesioni preneoplastiche attraverso studi come quelli, per esempio,
sulle loro proprietà angiogeniche e sulla loro trasformazione nei trapianti. Oggi
infatti è possibile trapiantare lesioni umane in topi atimici, cioè geneticamente
privi del sistema immunitario, in modo da seguirne l'evoluzione nel tempo (v.
Jensen e Wellings, 1976). Inoltre, le conoscenze sui fenomeni vascolari che
accompagnano la trasformazione maligna consentono di esplorare un'altra via
interessante. I tumori maligni per svilupparsi hanno bisogno di un'adeguata trama
di vasi sanguigni e sono in grado di indurne lo sviluppo, attraverso un fattore
angiogenico ancora sconosciuto, quando un loro frammento viene trapiantato (v.
Folkman e Cotran, 1976). Tale proprietà è comune anche alle lesioni premaligne,
perciò in grado di attecchire (v. Gimbrone e Gullino, 1976), mentre manca ai tessuti
normali, che infatti non attecchiscono se sprovvisti di trama vascolare.
L'identificazione del fattore angiogenico nelle lesioni premaligne potrebbe quindi
consentire un'identificazione di quelle tra tali lesioni capaci di progredire verso il
cancro.
A ottanta anni dal giorno in cui fu intuito forse per la prima volta, l'argomento dei
precursori morfologici del cancro rimane dunque uno dei più affascinanti e aperti
problemi di patologia. E più che mai aperto alla sperimentazione sugli animali e
conserva intatto il suo fascino per il patologo che ancora non dispera di poter
predire un giorno il futuro delle lesioni. Oggi purtroppo il ventaglio dei possibili
precursori morfologici è estremamente ampio e il loro significato biologico è spesso
indecifrabile. Ciò porta a conclusioni forse non troppo soddisfacenti sul piano
pratico.
Infatti, poiché tanti sono i possibili precursori morfologici del cancro e tanto
difficile è valutare le loro intrinseche possibilità di progressione, si deve concludere
che una prevenzione del cancro per questa via sarebbe difficile. Ma il problema va
visto in prospettiva. Oggi, l'osservazione di una lesione preneoplastica in un
paziente dovrà condurre alla sua rimozione ove questa sia possibile, e potrà servire
per aumentare la sorveglianza ed eliminare le cause che possono essere rimosse,
ammesso che si sia ancora in tempo (v. Severi e Squartini, 1973). In futuro è
prevedibile si disponga di una risposta o di una soluzione pratica soddisfacenti per
i tre principali scopi attuali della ricerca sui precursori morfologici del cancro, che
sono essenzialmente: la diagnosi precoce, l'interruzione dello sviluppo neoplastico
nelle popolazioni ad alto rischio e la comprensione dell'essenza della malattia
neoplastica (v. Farber, 1976).
9. Progressione tumorale
Qualche cosa è cambiato nella rigidità con cui, in tempi passati, veniva intesa la
separazione fra una fase e l'altra della malattia neoplastica e soprattutto fra
precancro e cancro. Negli ultimi decenni si è affermata infatti l'opinione che lo
sviluppo di un tumore avvenga per ‛progressione' (v. Foulds, 1949, The histologic
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analysis... II, 1956, 1969 e 1975; v. Squartini, 1964), cioè attraverso la progressiva
acquisizione di nuovi caratteri permanenti (v. Rous e Beard, 1935), senza dunque
alcun salto drammatico fra l'innocenza e la malignità (v. Willis, 19674). In base a
queste vedute diviene sempre più difficile fissare un punto definito di
demarcazione fra (b) e (c) (v. tab. III). Sopra tale concetto della progressione
tumorale, che direttamente incide sulla storia naturale della malattia neoplastica e
sul significato stesso di lesione premaligna, come su quello di lesione maligna, è
pertanto opportuno fermare l'attenzione dedicando a esso qualche riflessione.
a) Definizione
‛Progressione' è la comparsa di modificazioni qualitative stabili, ereditabili e
irreversibili in uno o più caratteri di un tumore in accrescimento (v. Foulds, 1949).
In senso lato questo termine è perciò usato per indicare l'intero ciclo di sviluppo di
una neoplasia attraverso successive modificazioni qualitative, permanenti e
irreversibili dei suoi caratteri (v. Foulds, 1951). Sotto questo profilo la progressione
si differenzia dalla ‛modulazione', termine che è stato suggerito come il più
appropriato per indicare l'occorrenza di quelle variazioni di portata minore,
temporanee e reversibili, nella struttura e/o nel comportamento di un tumore
dovute di solito a fattori ambientali (v. Foulds, The histologic analysis... I, 1956).
Attraverso la progressione i tumori guadagnano un'autonomia sempre maggiore
nei confronti dell'ambiente e dell'ospite. Da ciò deriva che il concetto di
progressione è indissolubilmente legato a quello, opposto, di ‛dipendenza' (o
responsiveness) dei tumori. ‛Dipendenza' indica infatti la capacità delle cellule di
un tumore di rispondere agli stimoli estrinseci di qualsiasi natura (ormoni, agenti
chemioterapici, cancerogeni chimici, ecc.), quale frequentemente si osserva nelle
fasi precoci dello sviluppo di una neoplasia.
b) Fonti di informazione
Le principali fonti di informazione sulla progressione sono rappresentate, come
Foulds (v., 1954) suggerisce, dallo studio, condotto con idonei mezzi clinici e
patologici, della storia naturale dei tumori negli animali c nell'uomo,
dall'osservazione della risposta dei tumori agli stimoli estrinseci, e dal trapianto dei
tumori, che si rivela utile sia come test per lo studio della reversibilità di certi
caratteri tumorali (modulazione), sia perché, prolungando nel tempo la vita del
tumore, offre possibilità maggiori per il manifestarsi della progressione e per lo
studio delle fasi tardive di questa.
c) Caratteri tumorali acquisibili per progressione
I ‛caratteri' elencati appresso forniscono un'esemplificazione rappresentativa di
quelle che sono le più usuali modificazioni qualitative irreversibili cui i tumori
vanno incontro nel corso del loro sviluppo: aumento della velocità di
accrescimento, diminuzione dei segni morfologici visibili di differenziazione
cellulare (per es., perdita della funzione secernente o di altre funzioni similari),
indipendenza dalle influenze ormonali o da altri stimoli estrinseci, capacità di
infiltrare i tessuti adiacenti, capacità di sviluppare riproduzioni metastatiche a
distanza, ampliamento del raggio di trapiantabilità, acquisizione della capacità di
svilupparsi in forme e ambienti diversi dagli usuali (per es., trasformazione di un
tumore solido in tumore ascite), ecc. (v. Klein e Klein, Some experiments..., 1958).
È attraverso la progressiva acquisizione ditali caratteri biologici e morfologici che i
tumori, inizialmente dipendenti e differenziati, si trasformano, nel corso della loro
evoluzione, in tumori indipendenti e altamente indifferenziati.
d) Principi generali (regole) della progressione tumorale
L'analisi effettuata da Foulds (v., 1949, 1956 e 1969) su vasti materiali ha portato
all'individuazione di alcune regole o principi generali della progressione tumorale.
Tali principi sono i seguenti.
1. Progressione indipendente dei tumori multipli: la progressione si manifesta
indipendentemente in differenti tumori di uno stesso individuo. Questa regola si
applica assai bene a numerosi esempi di tumori multipli dell'uomo e degli animali e
il suo significato principale è che la progressione è un fenomeno inerente al tumore
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e non all'ospite.
2. Progressione indipendente dei caratteri: la progressione di differenti caratteri in
uno stesso tumore avviene in maniera indipendente. Questa regola, anch'essa
largamente applicabile, conduce alla più generale proposizione che la struttura e il
comportamento dei tumori sono determinati da numerosi caratteri elementari i
quali, entro ampi limiti, sono variabili indipendentemente e capaci di progressione
indipendente, per cui possono essere assortiti e combinati in una varietà di modi.
L'esistenza di legami fra certi caratteri tumorali non può essere disconosciuta.
Tuttavia, ciò non diminuisce la validità del principio della progressione
indipendente dei caratteri elementari, come rivela la sua indubbia utilità
nell'interpretazione di quel fenomeno tanto complesso quanto oscuro che è la
‛malignità' (v. Foulds, 1954).
3. La progressione è indipendente dall'accrescimento: essa può infatti manifestarsi
indifferentemente sia in cellule tumorali latenti, sia in tumori il cui sviluppo si era
arrestato, o in fase di regressione, o in via di accrescimento. Da questa terza regola
derivano due corollari di notevole importanza pratica: a) un tumore, quando
diviene clinicamente manifesto, può essere in qualsiasi stadio di progressione; b) la
progressione è indipendente dalle dimensioni e dalla durata clinica di un tumore.
4. La progressione può essere continua o discontinua: essa può cioè realizzarsi
attraverso modificazioni graduali o per salti improvvisi. Ciò significa che più di un
gradino dell'ipotetica scala dei caratteri di progressione può essere saltato in molti
casi.
5. La progressione può svilupparsi secondo vie diverse o modelli alternativi i quali
possono condurre a punti di arrivo diversi o uguali.
6. La progressione non raggiunge sempre il suo punto terminale nel corso della vita
dell'ospite primario: questo principio, di frequente osservazione in patologia
sperimentale, e di grande importanza pratica, non necessita di esemplificazioni.
e) Esempi e considerazioni
Tali principi sono applicabili così ai tumori indotti negli animali, come ai tumori
dell'uomo. Fra i sistemi di tumori sperimentali e umani che meglio si prestano a
dimostrare la generale applicabilità dei principi della progressione si possono
citare: i tumori cutanei, i tumori delle vie urinarie, i tumori delle ghiandole
endocrine e degli organi terminali del sistema endocrino (mammella, utero). Fra i
tumori umani i seguenti esempi sono particolarmente adatti per illustrare la
validità del principio della progressione indipendente dei caratteri tumorali. I
cosiddetti ‛tumori misti' delle ghiandole salivari possiedono gli attributi morfologici
locali della malignità, ma non metastatizzano salvo rare eccezioni (v. Thackray e
Lucas, 1974). Alcuni tumori tiroidei sono definiti adenomi proprio per la mancanza
di segni evidenti di invasione locale, ma metastatizzano (v. Squartini e Severi,
1964). I cancri della mammella, e persino le loro metastasi, sono sovente ancora
dipendenti per l'accrescimento dagli stimoli ormonali dell'ospite (v. Currie e
Illingworth, 1958; v. McGuire e altri, 1975; v. De Sombre e altri, 1976). Varie linee
cellulari di cancri mammari umani coltivate in vitro mostrano di essere dipendenti
dagli estrogeni, o dal progesterone, o dagli androgeni, ecc. (v. i contributi di
Lippman e altri, 1976).
Il concetto della progressione tumorale e in particolare il principio della
progressione indipendente dei caratteri tumorali, indicano dunque che non esiste
la possibilità di una demarcazione netta fra precancro e cancro, e conducono
quindi al superamento di ogni rigida contrapposizione fra queste due parole. Lo
studio del comportamento biologico dei tumori associato alla conoscenza della loro
struttura morfologica ha dimostrato che la dipendenza è peculiare dei periodi
precoci delle neoplasie e corrisponde largamente alla fase premaligna. La
progressione sopprime la dipendenza, realizzando il passaggio verso l'autonomia
totale che corrisponde largamente alla fase maligna. Tuttavia la dipendenza può
essere parzialmente mantenuta, anche per lunghi periodi, da tumori in
progressione e la progressione non si arresta quando la malignità morfologica è
raggiunta, ma si estende oltre, essendo responsabile di modificazioni successive nei
caratteri dei tumori.
Lo schema della malattia neoplastica illustrato in precedenza (v. tab. III) configura
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pertanto una situazione teorica nella quale tutti i caratteri di malignità vengono
acquisiti contemporaneamente dal tumore. In realtà, la maggior parte dei tumori
esibisce una comune associazione di caratteri clinici e patologici fra loro
rispondenti o armonici, ciò che consente di mantenere nella pratica quotidiana la
distinzione insostituibile fra malignità e benignità. Tuttavia, una progressione
‛sfasata' dei caratteri tumorali è largamente possibile, come si è visto, e deve essere
sempre tenuta presente dal patologo come dal clinico.
f) Meccanismi di progressione
Circa i meccanismi della progressione tumorale vari dati sono stati accumulati a
sostegno dell'ipotesi di una selezione clonale operativa nella prima come nelle
successive fasi dello sviluppo neoplastico (v. Prehn, 1976). Per clone si intende la
popolazione cellulare discendente da un'unica cellula progenitrice. Si è già detto
che il processo iniziale della cancerogenesi consiste in una modificazione
potenziale o latente sopra una larga zona di tessuto. Ma i dati suggeriscono che
questa è il risultato dell'amplificazione clonale di un'alterazione ereditabile
manifestatasi dapprima in una sola cellula. Anche le tappe successive della
cancerogenesi è verosimile che avvengano attraverso un analogo meccanismo di
selezione clonale. Si ritiene infatti che le mutazioni spontanee siano molto
frequenti nelle popolazioni di cellule tumorali. Quindi, una popolazione cellulare
premaligna o maligna non mostra di solito omogeneità genetica. Ciò comporta una
proliferazione competitiva di differenti doni cellulari dentro la stessa popolazione.
Se uno di questi è provvisto di una maggior resistenza agli stimoli ambientali, o di
una più elevata velocità di accrescimento, esso può sopravanzare gli altri. In tal
modo l'indipendenza di una popolazione di cellule tumorali può progressivamente
aumentare attraverso selezioni clonali successive su base mutativa (v. Klein e
Klein, Some experiments..., 1958; v. Prehn, 1976).
Un esempio visivo di questo fenomeno si ha nello studio della progressione dei
tumori mammari del topo gravidico-dipendenti o placche verso stadi di crescente
autonomia. Le placche sono tumori con struttura tubulare organoide che crescono
in gravidanza e spariscono dopo il parto. Quando vi si manifesta, la progressione di
solito appare come un'area focale rotondeggiante di struttura diversa dentro la
placca. Dopo il parto la placca residua regredisce, ma non così l'area di
progressione focale. Per cui il corso clinico del tumore sarà irrevocabilmente
modificato, dipendendo ora dal potenziale di accrescimento e dal livello di
differenziazione cellulare del focolaio di progressione (v. Foulds, The histologic
analysis... II, 1956; v. Squartini e Rossi, 1959; v. Squartini, 1966).
In certi casi la progressione tumorale potrebbe essere dovuta a perdita di taluni
isoantigeni da parte delle cellule neoplastiche, oppure ad acquisita resistenza di
queste verso l'azione di isoanticorpi specifici (v. Klein e Klein, Some experiments...,
1958). In conclusione, e senza entrare nei particolari di altri meccanismi possibili,
la progressione dei tumori è il risultato di modificazioni cellulari successive le quali
non seguono sempre o necessariamente la stessa strada, ma possono viaggiare
lungo vie diverse che conducono allo stesso risultato finale, la neoplasia,
divergendo però circa i meccanismi citologici di dettaglio (v. Klein e Klein, A
system..., 1958).
g) Notazioni critiche
La progressione tumorale, un concetto come si vede solidamente fondato e
costruito in 40 anni di osservazioni ed esperienze, non è tuttavia risparmiata da
notazioni critiche che preludono, su basi sperimentali, a ipotesi alternative.
Recentemente, per spiegare la lunga durata della malattia neoplastica, è stato
proposto che le cellule trasformate siano inibite nel loro accrescimento dalle cellule
normali contigue, per cui lo sviluppo tumorale sarebbe procrastinato a quando l'età
o eventuali fattori promoventi riducono in maniera assoluta o relativa la
popolazione cellulare limitrofa normale consentendo alle cellule trasformate, senza
necessità per esse di ulteriori mutazioni, di sfuggire al controllo e così realizzare dal
‛tumore potenziale' la malattia neoplastica reale (v. Nandi, 1978).
10. Diffusione metastatica
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Un tumore maligno non sarebbe la malattia drammatica e tanto spesso mortale che
tutti conosciamo se non avesse la capacità di metastatizzare, cioè di diffondersi
riproducendosi a distanza. La diffusione metastatica rappresenta perciò un
fenomeno fondamentale nel comportamento anatomoclinico di una neoplasia e
quindi la sua conoscenza risulta indispensabile alla comprensione della dinamica
di questa malattia.
a) Definizione e vie di metastatizzazione
Metastasi è la ripetizione nell'ospite di un tumore, separata da questo e originata
da cellule o frammenti di esso trasportati a distanza lungo le vie naturali. La
metastatizzazione è conseguenza della diffusione locale diretta del tumore
primitivo che avviene per infiltrazione dei tessuti lungo gli interstizi intercellulari o
i vasi linfatici (permeazione linfatica) e per invasione di vene, capillari, arterie,
cavità celomatiche (cavi pleurici, pericardico, peritoneale), spazi cerebrospinali e
cavità epiteliali (tubo digerente, vie urinarie, vie respiratorie o lume
tracheobronchiale).
L'infiltrazione e l'invasione diretta aprono quindi al tumore primitivo cinque vie
naturali per la metastatizzazione e precisamente: i vasi linfatici, i vasi sanguigni, le
cavità celomatiche, gli spazi cerebrospinali (più precisamente lo spazio
subaracnoideo in cui circola il liquor) e le cavità epiteliali (v. Willis, 19674). Solo le
prime due vie hanno però rilevanza generale, mentre le altre, e specialmente le
ultime due, sono seguite solo in un limitato numero di casi particolari.
b) Fasi della metastatizzazione
Qualunque sia la via, il processo di metastatizzazione si svolge in tre fasi
successive: il distacco e la penetrazione di cellule neoplastiche nelle vie naturali, il
trasporto (oppure la caduta) e l'arresto di queste cellule in sedi diverse
dell'organismo, l'impianto o attecchimento e lo sviluppo da esse di tumori
secondari (metastasi) indipendenti da quello primitivo (v. Consolandi, 1960).
Il distacco dal tumore primario e la penetrazione di cellule neoplastiche nelle vie
naturali dipende da numerosi fattori (v. Consolandi, 1960) quali la crescita
progressiva del tumore (v. Willis, 1948), l'aumento della pressione tessutale (v.
Young, 1959), la necrosi dei vasi tumorali, la liberazione di sostanze diffusive a
opera del tumore (v. Coman, 1953), la modificazione della sostanza fondamentale
del connettivo (v. Gasic e altri, 1960), la reazione stromale, la diminuzione della
mutua coesione fra le cellule neoplastiche (v. Ambrose, 1958), l'attività ameboide di
queste (v. Fujiwara, 1959), la struttura istologica, il grado di differenziazione, il
corredo cromosomico (v. Yoshida, 1959) e la progressione tumorale (v. Wallace,
1961; v. Leighton, 1967; v. Squartini e altri, 1968).
Il trasporto a distanza dal tumore primario di cellule neoplastiche lungo le vie
naturali è un evento passivo che dipende dalla via seguita e dalle leggi fisiche
inerenti. Nelle cavità celomatiche o nei lumi epiteliali il trasporto si identifica con
la caduta dei frustoli neoplastici. Negli spazi cerebrospinali il trasporto di cellule
neoplastiche sembra avvenire per sedimentazione entro il liquor. Nel caso dei vasi
linfatici rimane sempre difficile stabilire dove finisca l'infiltrazione (permeazione
linfatica) e dove cominci il trasporto di cellule a distanza secondo corrente, da
stazione a stazione. I vasi sanguigni, che nel trasporto di cellule o di emboli
neoplastici hanno pure il significato passivo di canali di trasferimento,
costituiscono perciò l'unica grande via di metastatizzazione per la quale il problema
dell'arresto dei frustoli neoplastici circolanti assuma rilevanza e concretezza tali da
consentire e indurre a studi più razionali (v. Wood e altri, 1961; v. Squartini e altri,
1968; v. Willis, 19732).
Per intendere i problemi che seguono è opportuno premettere alcuni richiami
essenziali sul circolo sanguigno in generale ricordando che dal cuore sinistro,
attraverso l'aorta, il sangue ossigenato è trasportato a ciascun organo ove giunge
per mezzo di un'arteria afferente, si sfiocca nella rete di capillari destinati alla
nutrizione dell'organo, da questi viene convogliato nella vena efferente che,
attraverso le cave, lo scarica nel cuore destro. Il cuore destro spinge tutto il sangue,
attraverso l'arteria polmonare, nel circolo capillare dei polmoni per l'ossigenazione
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e le vene polmonari si incaricano quindi di raccoglierlo scaricandolo nel cuore
sinistro. Le reti capillari, a causa delle piccole dimensioni dei lumi capillari
(intorno a 10µ), funzionano da filtri per eventuali contenuti solidi (emboli) del
sangue: quelle dei singoli organi per il sangue destinato all'organo, quelle dei
polmoni per il sangue refluo attraverso le vene da tutti gli organi. Il sangue refluo
dal tubo digerente (stomaco, intestino, pancreas) e dalla milza ha un doppio filtro
capillare interposto sul suo cammino, poiché la vena porta lo conduce al fegato e
alla sua rete capillare (filtro epatico) e le vene epatiche lo conducono di qui al cuore
destro e al polmone.
Per l'arresto di cellule o tessuti circolanti il problema è di sapere se questo è
regolato da fattori meccanici (v. Walther, 1948; v. Consolandi, 1949), secondo le
leggi della circolazione e dell'embolia, o da fattori prevalentemente biologici (v.
Willis, 1952, 19674, 19733), secondo predilezioni particolari dei tumori donatori e/o
idoneità differenziali degli organi e tessuti riceventi. L'importanza, o la
preminenza, della teoria ‛meccanica' è stata ripetutamente illustrata e sottolineata
(v. Consolandi, 1950 e 1951; v. Coman, 1953), ma sempre più peso ha assunto in
tempi recenti la teoria ‛biologica' della distribuzione metastatica, in particolare
dopo la dimostrazione sperimentale del passaggio diretto di emboli neoplastici
attraverso il filtro capillare polmonare (v. Zeidman, 1957) o altri territori capillari
(v. Korpassy, 1956; v. Korpassy e altri, 1958), dopo le prove che in condizioni
sperimentali identiche tumori diversi sviluppano modelli di distribuzione
metastatica diversi (v. Schmähl e Rieseberg, 1958; v. Schmähl, 1959), e
specialmente dopo la sistematica documentazione della presenza di cellule
neoplastiche circolanti, isolate o aggregate, nel sangue periferico (v. Engell, 1955; v.
Pruitt e altri, 1958).
Tuttavia, la quantità nettamente maggiore di cellule e ammassi di cellule
neoplastiche nel sangue regionale rispetto al periferico (v. Potter e altri, 1960), la
documentazione della elevata efficienza filtrante del fegato per le cellule tumorali
circolanti (v. Fletcher e Stewart, 1959), e gli studi attuali sulle caratteristiche
angioarchitettoniche dei vari territori di irrorazione con la dimostrazione dei
frequenti corto-circuiti artero-venosi d'organo (v. Bucciante, 1960; v. Semisch,
1959), hanno ricondotto anche di recente l'accento sull'importanza di alcuni fattori
emodinamici nella distribuzione metastatica dei tumori (v. Wieberdink, 1957; v.
Gabler e Peckholz, 1960).
Come non tutte le cellule tumorali circolanti si arrestano nei filtri capillari
interposti sul loro cammino, così non tutte le cellule arrestate in un dato distretto
sopravvivono (v. Engell, 1959; v. Baserga e altri, 1960) e non tutte le cellule
sopravvissute producono metastasi, poiché possono rimanere a lungo latenti senza
proliferare (v. Willis, 1952 e 19674), o produrre trombi neoplastici privi di ulteriore
evoluzione nel senso di metastasi (v. Baserga e Saffiotti, 1955). L'impianto e lo
sviluppo di tumori secondari da cellule neoplastiche circolanti nell'organismo
(qualunque sia la via) e arrestatesi in un punto, rimane pertanto la fase meno
conosciuta della metastatizzazione, ma é intuitivo che specialmente in questa fase
grande importanza debbano avere i fattori biologici dell'idoneità del terreno e
dell'organospecificità (v. Squartini e altri, 1968).
c) Distribuzione delle metastasi al tavolo anatomico
Il patologo, che al tavolo anatomico ha l'opportunità di registrare i fatti della
diffusione metastatica in ciascun caso di tumore maligno, è più di ogni altro
consapevole di quanto sia difficile armonizzare le singole osservazioni sopra un
così complesso fenomeno biologico, e di come sia impossibile costringere i fatti
osservati entro schemi troppo rigidi. Con il progresso delle conoscenze, il materiale
autoptico rimane il test naturale di ogni nuova interpretazione o ipotesi a riguardo.
Nella tab. IV sono riassunti i dati di un'ampia indagine personale illustranti la
situazione della diffusione metastatica relativa a 730 neoplasie maligne osservate a
Perugia nel corso di 717 autopsie consecutive per tumori maligni (v. Squartini e
altri, 1968). Al primo posto, dopo i linfonodi, come sede di metastasi e il fegato con
187 casi, seguito dai polmoni con 112, dai reni, dai surreni e dalle ossa. Tali valori
non si discostano sensibilmente, con rare e spiegabili eccezioni, da quelli rilevati in
altre serie autoptiche (v. Willis, 1952, 19674 e 19733; v. Pingitore, 1972; v. Meissner
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e Warren, 19742) e costituiscono perciò un campione rappresentativo della
diffusione metastatica dei tumori maligni al tavolo anatomico. Il campione riflette,
sinteticamente, la complessità del fenomeno in esame e ne chiarisce meglio di ogni
commento il grado di libertà biologica.
Tabella 4
Vi sono tumori (come i cancri mammari) i quali, pur non essendo in posizione
privilegiata rispetto al circolo sanguigno, metastatizzano con frequenza
interessando un'ampia gamma di sedi, mentre ve ne sono altri i quali
metastatizzano di rado e solo nelle sedi più tradizionali. Una favorevole ubicazione
dei tumori primari nel circolo sanguigno conduce, ovviamente, a un aumento della
loro attitudine alla metastatizzazione attraverso questa via: su 61 carcinomi del
polmone con metastasi (affacciati senza interposizione di filtri al circolo generale)
vi sono 63 localizzazioni metastatiche (una per tumore in media) in organi diversi
da linfonodi, fegato e polmoni; su 191 carcinomi con metastasi ubicati in distretti
tributari delle vene cave (cioè separati dal circolo generale per l'interposizione del
filtro polmonare) il numero di metastasi osservate all'infuori dei linfonodi, fegato e
polmoni è 88 (0,5 per tumore); su 188 cancri con metastasi situati in regioni
dell'apparato digerente che sono tributarie della vena porta (in svantaggio anche
maggiore rispetto ai precedenti, poiché gli eventuali emboli neoplastici debbono
superare due filtri per raggiungere il circolo generale) le metastasi, esclusi gli
organi già detti, sono 63 (0,3 per tumore).
d) Fattori che influenzano la metastatizzazione
La preminenza dei grandi filtri capillari (fegato e polmoni) quali sedi di metastasi è
evidente. Anche la loro importanza come punti di arresto degli emboli o delle
cellule neoplastiche circolanti appare in certo grado confermata da quanto detto
sopra e dai dati seguenti: su 188 carcinomi dell'apparato digerente, tributari del
circolo portale, con metastasi riscontrate al tavolo anatomico, 100 (53%) avevano
metastasi epatiche, mentre su 191 carcinomi di altre sedi, tributari delle due vene
cave, con metastasi riscontrate al tavolo anatomico, solo 47 (24%) avevano
metastasi epatiche; reciprocamente, nei primi le metastasi polmonari erano 27
(14%), nei secondi 48 (25%).
Ma se si considerano le dimensioni degli organi colpiti, per esempio dividendo il
numero di metastasi osservate in ciascun organo per il suo peso medio in grammi,
la graduatoria di frequenza delle localizzazioni metastatiche quasi si capovolge e il
fegato o i polmoni arretrano verso gli ultimi posti.
Una graduatoria così elaborata vedrebbe infatti al primo posto l'ipofisi con un
indice di 5, seguita nell'ordine da surreni (3,8), ovaie (0,5), tiroide (0,4), meningi
(0,2), reni (0,2), pancreas (0,16), fegato (0,13), polmoni (0,13), milza (0,09), utero
(0,08), cuore (0,07), testicoli (0,04), cervello (0,01), ecc. Colpisce, fra le altre cose,
in questa graduatoria la presenza di quattro ghiandole endocrine ai primi quattro
posti.
Altro fatto evidente è la netta predilezione di alcuni tumori per particolari terreni
di metastatizzazione. Delle 42 metastasi nei surreni complessivamente osservate,
19 (45%) appartengono a cancri del polmone, i quali costituiscono poco più del
10% del materiale esaminato. Su 7 metastasi ovariche osservate, 4 riguardano il
cancro dello stomaco. Queste predilezioni si possono spiegare solo in parte con la
situazione dei tumori primitivi rispetto al circolo sanguigno, o con peculiari vie di
metastatizzazione. Del resto, la possibilità di selezionare da un tumore cellule con
specificità di sede dell'impianto metastatico è stata affrontata e in certa misura
dimostrata dalla patologia sperimentale (v. Stansly e Sato, 1978).
L'intensità e l'ampiezza della diffusione metastatica dipendono infine in larga
misura anche dal tipo del tumore primario. I melanomi mostrano il più alto indice
di metastatizzazione (24 metastasi per 4 tumori) e una diffusione pressoché
ubiquitaria (14 localizzazioni), seguiti dai sarcomi e poi dai carcinomi, tra i quali i
tumori della mammella e del polmone occupano, come già si è detto, i primi posti
per tali caratteri.
Le considerazioni svolte richiamano l'attenzione sulla molteplicità dei fattori di
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interesse per la metastatizzazione dei tumori. I dati presentati sottolineano infatti
equamente, in armonia con la fioritura di risultati sperimentali, l'importanza
meccanica dei filtri, l'importanza quantitativa dell'irrorazione di organi e tessuti,
l'importanza biologica del terreno e, infine, l'importanza del tumore primario nello
stabilire se, dove e quando si realizzerà nell'ospite una ripetizione metastatica a
distanza (v. Squartini e altri, 1968).
Tali fenomeni sono tuttora al vaglio della ricerca per una delucidazione dei
meccanismi causali. L'impatto degli ormoni, delle medicine, degli antigeni tumorali
e dei fattori immunitari sulla diffusione metastatica, come quello della
composizione chimica delle sostanze fondamentali dei tessuti riceventi
sull'attecchimento metastatico, sono argomenti attuali di studio, i quali allargano le
prospettive di indagine e forse schiudono la via a possibili tentativi terapeutici della
metastatizzazione tumorale (v. Stansly e Sato, 1978).
11. Manifestazioni cliniche, problemi di diagnosi e di prognosi
a) Durata clinica
Per alcuni tumori, come quelli cutanei o di siti facilmente accessibili ed esplorabili
(per es. la cervice uterina), la fase clinica può abbracciare, in situazioni ideali, quasi
l'intero arco della malattia neoplastica. Ma nella maggior parte dei casi questa è
limitata ancora oggi al tardo periodo della malignità e da ciò deriva la sua durata
generalmente breve, la frustrazione del medico e il prevedibile insuccesso
terapeutico. I tumori maligni non trattati uccidono il 75% dei pazienti entro un
periodo che oscilla fra i 14 mesi per il cancro dell'esofago e i 46 mesi per il cancro
della mammella (v. Foulds, 1969). Ma vi sono moltissime eccezioni. Talora il
decorso è sorprendentemente protratto (v. Shimkin, 1951); altre volte è
particolarmente breve. La sopravvivenza dei tumori dopo trattamento incompleto è
pure variabile e imprevedibile, come del resto lo sono i risultati del trattamento nei
singoli casi. Ciò ha condotto i clinici a distinguere empiricamente fra cancri ‛buoni'
e ‛cattivi', cioè ‛curabili' e ‛non curabili', attributi cui la ricerca biologica cerca di
trovare una base che potrebbe risiedere anche in una diversa modalità di
progressione (v. Foulds, 1969).
b) Comportamenti particolari
Alla base della fatalità dei tumori maligni in fase clinica, sta un comportamento
progressivo e irreversibile che tuttavia può avere le sue eccezioni, rappresentate dai
tumori occulti, dai tumori latenti, dai tumori dormienti e dai tumori che
regrediscono. I ‛tumori occulti' sono quelli che si rivelano clinicamente per le loro
metastasi essendo il focolaio primario piccolo o addirittura microscopico. Ciò può
accadere in ogni organo, ma è comune per i carcinomi papillari della tiroide i cui
pazienti spesso si rivolgono al medico per una metastasi palpabile in un linfonodo
laterocervicale (v. Squartini e Severi, 1964). I ‛tumori latenti' si identificano con
quei foci di carcinomi insospettati che non raramente si riscontrano all'autopsia
nella prostata, o in altre sedi, in soggetti clinicamente esenti da neoplasie (v.
Franks, 1956). Di questi, come dell'eccezionale regressione spontanea delle
neoplasie maligne (v. AA.VV., Spontaneous regression..., 1976), si è già parlato. Il
concetto di ‛tumori dormienti' si riferisce invece alle recidive locali o metastatiche a
distanza di tempo eccezionale dalla rimozione del tumore primario, come 10-15
anni o addirittura più, fino a 40-50 anni. Questo stato dormiente delle cellule
tumorali, del quale la ricerca biologica sta tuttora esplorando i possibili motivi, è
tuttavia anch'esso evento raro, a livello di eccezione.
c) Fattori morfologici di prognosi
In genere, dopo la rimozione chirurgica, seguita o meno da terapia radiante o da
chemioterapia, le recidive si manifestano nel giro dei primi 5 anni o al massimo
entro 10 anni. Vi sono vari elementi anatomoclinici e istologici che guidano alla
prognosi e alla terapia. Fra questi sono più importanti il livello di infiltrazione o di
diffusione locale del tumore, la presenza di metastasi nei linfonodi regionali, la
reazione linfatica e infiammatoria attorno alla neoplasia, lo stato del connettivo, il
grado di malignità citologica e istologica, l'istotipo tumorale (v. Staquet, 1975; v.
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Fisher e altri, 1975). Purtroppo il livello di guarigioni da cura delle neoplasie
maligne non è ancora soddisfacente e spesso accade che il tumore sia troppo
avanzato per essere sottoposto a terapie chirurgiche radicali.
d) Diagnosi precoce
Da ciò discende la necessità di una diagnosi precoce che non può ottenersi con i
mezzi tradizionali. Questi si basano sulla presenza del tumore come massa
abnorme che provoca disturbi (da compressione, infiltrazione, ostruzione) ed è
identificabile con vari metodi obiettivi, dalla palpazione, alla dimostrazione
radiologica o scintigrafica. Ma a questa fase della neoplasia maligna ben raramente
le terapie sono efficaci. La ricerca dei segni precoci di neoplasia già da tempo si è
perciò indirizzata per altre vie rivolte alla identificazione di cellule atipiche
eliminate nei liquidi organici e nelle secrezioni e di prodotti precoci del
metabolismo tumorale o di antigeni tumorali, che potrebbero rappresentare utili
contrassegni precoci morfologici o biologici della presenza di una neoplasia.
e) Sindromi paraneoplastiche
È noto che le cellule neoplastiche oltre a moltiplicarsi svolgono attività più
squisitamente metaboliche che possono dar luogo a produzione di sostanze o
secrezioni. Queste sostanze anzi sono talora responsabili di sintomi precoci e poco
conosciuti della neoplasia in sviluppo, noti col nome di ‛sindromi
paraneoplastiche'. Per sindromi paraneoplastiche si intendono quelle
manifestazioni cliniche legate alla presenza di un tumore ma non direttamente
imputabili ai fenomeni ostruttivi o invasivi della massa tumorale o delle metastasi,
che regrediscono con la rimozione o la cura del tumore. Si tratta in genere di
manifestazioni dolorose neurologiche, muscolari, osteoarticolari, oppure di
manifestazioni endocrine e dismetaboliche, cutanee, ematologiche, cardiovascolari,
dovute più spesso a tumori del polmone, a linfomi, a tumori del rene, ma presenti
anche in altri tumori viscerali (v. Greenberg e altri, 1964). Benché non molto
frequenti, è importante sottolineare che le sindromi paraneoplastiche sono spesso
la prima e unica manifestazione della malattia, per cui su questa base un medico
attento potrebbe in certi casi fondare una diagnosi precoce. Il paradosso di queste
sindromi sta tuttavia nel fatto che mentre in alcuni casi possono rivelare un tumore
occulto, altre volte assumono un ruolo di primo piano tanto da mascherare i
fenomeni relativi alla neoplasia di cui sono emanazione, conducendo del tutto fuori
strada (v. Anglesio, 1973).
f) Marcatori biologici e morfologici
Numerose indagini recenti hanno tentato di rendere più concreta e razionale la
ricerca dei marcatori biologici precoci dei tumori. E stata così identificata una serie
di prodotti e neoantigeni delle cellule tumorali nel siero o nelle urine di pazienti
portatori, quali l'antigene carcino-embrionale (CEA = carcinoembryonic antigen)
particolarmente nei soggetti portatori di cancro intestinale (v. i contributi di Gold e
Freedman, 1965; v. Zamcheck e altri, 1972; v. immunologia e immunopatologia:
Malattie immunoproliferative), ma anche in altri tipi di cancro (v. Chu e Nemoto,
1973); la caseina in donne con cancro mammario (v. Hendrick e Franchimont,
1974); l'idrossiprolina, particolarmente per la diagnosi precoce e il controllo
successivo delle metastasi (v. Bondy e altri, 1974), ecc. L'antigene
carcinoembrionale, che fu il primo marcatore biologico identificato, suscitò molte
speranze, oggi purtroppo ridimensionate. Si tratta di antigeni normalmente
presenti negli organi fetali (donde il nome di embrionali) che ricompaiono nelle
cellule sdifferenziate del carcinoma. Sfortunatamente, le possibilità di dimostrarli
nei soggetti con tumori si sono rivelate direttamente proporzionali alle dimensioni
del tumore, per cui la positività è scarsa nelle lesioni piccole e iniziali. Con ciò viene
meno l'interesse a questo test per una diagnosi precoce, mentre esso sembra oggi
più utile per valutare la prognosi, la radicalità dell'intervento chirurgico, e la
comparsa di recidive o di metastasi a questo conseguenti (v. Dhar e altri, 1972; v.
Robbins, 1974).
I mezzi citologici di diagnosi precoce del cancro, iniziati con lo studio degli strisci
vaginali e poi applicati a tutti i liquidi e secrezioni organiche (espettorati, urine,
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secrezione gastrica, ecc.), sono in uso già da molto tempo (v. Koss, 19682) per cui
se ne possono valutare i risultati a distanza. Nel carcinoma della cervice uterina lo
striscio vaginale consente di seguire a livello citologico la progressione tumorale, e
la sua applicazione su larga scala a donne che volontariamente e periodicamente si
sottopongono all'esame ha portato, attraverso diagnosi precoci e interventi limitati,
a una riduzione sensibile e talora drammatica dei carcinomi cervicali invasivi nel
materiale clinico e quindi della mortalità per questo carcinoma (v. Dunn, 1958; v.
Boyes e altri, 1962). Vi è quindi chi prevede, per tale via, la scomparsa di certi tipi
di cancro come causa di morte, ma subentrano problemi di costi sociali per ora
irrisolvibili e neppure mancano note di scetticismo (v. Spriggs, 1972) circa le vite
che in tal modo effettivamente possono essere salvate. Ciò probabilmente è in
rapporto al fatto che la progressione dei tumori non sempre è graduale, ma può
avvenire anche per salti improvvisi e i tumori a insorgenza più rapida sono spesso
anche quelli a più rapida e maligna evoluzione (v. Foulds, 1975).
12. Stato attuale della terapia
La terapia di elezione in tutti i casi di tumori maligni localizzati che si possono
asportare rimane l'intervento chirurgico coadiuvato dalla radioterapia, la quale
rappresenta anche un'alternativa all'intervento chirurgico stesso nel caso di tumori
localizzati che non si possono asportare radicalmente. Queste terapie vengono
pertanto ancora oggi impiegate nella cura della maggior parte dei tumori, quali le
neoplasie del tubo digerente (stomaco, intestino, esofago), dell'apparato
respiratorio (laringe, bronchi, polmoni), dell'apparato genitale (mammella, utero,
prostata, testicoli, ovaie), del sistema nervoso, ecc.
È tuttavia evidente dai risultati che queste terapie sono decisamente insufficienti ai
bisogni. L'esperienza basata su 20 anni di trattamento del cancro mammario ha
condotto a concludere che le pazienti possono essere separate in tre gruppi: il 45%
di esse muoiono qualunque sia il trattamento che ricevono, il 45% sopravvivono
qualunque sia il trattamento che ricevono (se cioè più o meno radicale) e solo il
rimanente 10% mostrano di essere influenzate nel decorso della malattia dal
trattamento che ricevono (v. Atkins, 1969; v. Handley, 1972; v. Foulds, 1975).
Nel caso di tumori sistemici, come sono ad esempio le leucemie e i linfomi, o
quando i tumori localizzati si diffondono attraverso gli impianti metastatici a
distanza, le terapie suddette non sono ulteriormente utilizzabili e subentra così
l'esigenza di altre terapie (v. chemioterapia antineoplastica).
a) Chemioterapia
La ricerca di farmaci efficaci contro i tumori ha origini lontane, ma solo negli ultimi
due decenni ha conseguito, con impostazioni più razionali, risultati apprezzabili,
seppure nel complesso ancora modesti. Sono stati sintetizzati farmaci rivelatisi utili
nel prolungare la sopravvivenza in certi tipi di neoplasie umane. Sono state
sperimentate con successo procedure di trattamenti combinati, cioè con
associazioni di più farmaci. Per tumori particolari, come il linfoma di Burkitt e il
corionepitelioma, sono state talora segnalate addirittura guarigioni, probabilmente
dovute però a particolari situazioni immunologiche (v. Burkitt e Wright, 1970; v.
Bagshawe, 1969). La chemioterapia, divenuta così in pochi anni la principale
risorsa terapeutica nelle leucemie, si pone come valida alternativa alla radioterapia
nelle varie forme di linfoma, e il suo uso si va estendendo ogni giorno di più come
trattamento secondario di copertura, dopo l'intervento chirurgico, o come
trattamento primario, quando le neoplasie sono inoperabili e diffuse, nella maggior
parte dei tumori solidi comuni, quali il cancro della mammella, dello stomaco, del
polmone, ecc. (v. Stock, 1978).
Per la selezione e la prova di agenti chimici con azione antineoplastica ci si serve
ampiamente, prima della sperimentazione clinica, di modelli sperimentali di
tumori prevalentemente rappresentati da tumori trapiantabili nei comuni animali
di laboratorio (leucemia murina, tumore ascite di Ehrlich del topo, tumore di
Walker del ratto, ecc.; v. Schnitzer e Hawking, 1966). Purtroppo, per le neoplasie
umane più comuni, che sono i carcinomi derivati da epiteli ghiandolari, non si
dispone di modelli sperimentali adatti. Si sta perciò tentando il saggio diretto dei
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farmaci su tumori umani trapiantati in animali resi tolleranti mediante
immunosoppressione (v. Cobb, 1972; v. Berenbaum e Sheard, 1972). I test in vitro,
che al momento non sono ritenuti sostituti adeguati della sperimentazione in vivo,
avranno prevedibilmente largo sviluppo in futuro (v. Hudson, 1972). Prima delle
prove cliniche sui pazienti, i farmaci dimostratisi attivi e maneggevoli nei saggi
sperimentali sono naturalmente sottoposti ad accurate indagini tossicologiche e
farmacologiche (v. Stock, 1978).
b) Agenti chemioterapici
I farmaci antiblastici più comunemente usati comprendono gli agenti alchilanti, gli
antimetaboliti, gli antibiotici, prodotti vegetali e alcuni enzimi, seguiti da una
miscellanea di agenti diversi.
Gli agenti alchilanti utilizzati in terapia appartengono in prevalenza alle
N-aloetilammine o mostarde azotate, alle etileneimmine, alle epossidi e agli esteri
dell'acido sulfonico. Questo gruppo di farmaci comprende, oltre alla mostarda
azotata, il BCNU (bis-cloroetilnitrosourea), il CCNU (doroetilcicloexilnitrosourea),
il clorambucil, la ciclofosfammide, il melfalan, il merofan, il degranol e il tiotepa (v.
Stock, 1978).
Gli antimetaboliti di maggiore uso comprendono il metotrexate, il 5-fluorouracile,
la 6-mercaptopurina, la 6-tioguanina e la citosina-arabinoside. Gli antibiotici più
attivi contro le neoplasie, prodotti da varie specie di streptomyces, comprendono
l'actinomicina D, l'adriamicina, la daunomicina, la rubidomicina, la mitramicina e
la streptozotocina. Ai prodotti vegetali antineoplastici appartengono gli alcaloidi
della Vinca, farmacologicamente noti come vinblastina e vincristina. Fra gli enzimi
con proprietà antineoplastiche sono da ricordare la L-asparaginasi e la
carbossipeptidasi (v. Stock, 1978).
c) Meccanismi di azione
Gli agenti alchilanti sono nucleofili e capaci di interagire con molti costituenti
cellulari (v. Ross, 1962). L'attività antineoplastica sembra comunque
prevalentemente dovuta alla loro interazione col DNA nucleare (v. Roberts, 1978).
Alcuni agenti alchilanti interagiscono direttamente con le macromolecole, mentre
altri debbono essere prima metabolicamente attivati. I metaboliti sono spesso
molto labili e perciò talora attivi solo nel distretto in cui vengono formati. Così la
mostarda azo-bromica è attiva prevalentemente contro i tumori epatici (v. Bukhari
e altri, 1973), il BCNU e il CCNU, mostarde azotate derivate dalla nitrosourea, sono
impiegati nel trattamento dei tumori dell'encefalo (v. Carter e altri, 1972).
Gli antimetaboliti esercitano azione citotossica o citostatica. L'azione citostatica
degli antifolici, di cui il metotrexate è il più noto esponente, si esplica attraverso
un'inibizione dell'attività della dudrofolato-reduttasi, che impedisce la
trasformazione in forma attiva dell'acido folico (v. Stock, 1978). Gli altri
antimetaboliti citotossici esplicano la loro azione solo se trasformati
metabolicamente in derivati attivi. La 6-mercaptopurina e la 6-tioguanidina sono i
principali antagonisti delle purine. La citosina-arabinoside è il principale
antagonista delle pirimidine (v. Roberts e Loehr, 1972).
Gli antibiotici con effetto antiblastico agiscono inibendo la sintesi dell'RNA o del
DNA. L'actinomicina D inibisce selettivamente la sintesi dell'RNA DNA
dipendente. Sembra che l'antibiotico legato all'acido nucleico impedisca in questo
caso la progressione dell'RNA polimerasi lungo il DNA (v. Stock, 1978). Anche
l'inibizione della sintesi dell'RNA da parte della mitramicina è dovuta al legame che
questo antibiotico contrae con il DNA (v. Mihich, 1971). La daunomicina, la
rubidomicina e l'adriamicina inibiscono la sintesi del DNA o quella dell'RNA
secondo il sistema utilizzato (v. Bernard e altri, 1969; v. Meriwether e Bachur,
1972).
La vinblastina e la vincristina sono, come le colchicine e derivati, veleni della
metafase. La loro azione antimito- tica sembra essenzialmente dovuta all'inibizione
della sintesi degli acidi nucleici (v. Livingston e Carter, 1970). La L-asparaginasi è
l'unica, fra le sostanze antineoplastiche, che sfrutta per l'azione una differenza
qualitativa fra cellule normali e neoplastiche, e precisamente la capacità delle
prime e l'incapacità delle seconde di sintetizzare l'asparagina. Perciò grandi
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speranze furono riposte nell'uso di questo enzima per la terapia dei tumori umani,
andate purtroppo per la maggior parte deluse (v. Grundmann e Oettgen, 1970). La
carbossipeptidasi 61 è un enzima batterico che scinde il folato, inibendo la sintesi
del DNA (v. Chabner e altri, 1972; v. Stock, 1978).
d) Protocolli terapeutici
Le neoplasie che più favorevolmente rispondono alla chemioterapia sono quelle
caratterizzate da elevati indici mitotici e da tempi di duplicazione oscillanti fra 1 e 4
giorni (v. Skipper, 1971). Questa proposizione ha naturalmente varie eccezioni in
pratica ma, nonostante ciò, la sensibilità delle cellule agli agenti chemioterapici è,
in linea di massima, direttamente proporzionale al loro indice mitotico (v. Stock,
1978).
Molti degli agenti chemioterapici agiscono come cito- tossici o citostatici soltanto
nelle fasi cellulari dei processi metabolici di sintesi del DNA e sono perciò detti
fase- specifici. Per un effetto terapeutico efficace le cellule neoplastiche dovranno
pertanto essere esposte a un'adeguata concentrazione del farmaco durante la fase
di sintesi (fase S), che è appunto quella suscettibile. L'efficacia del trattamento
antiblastico dipende perciò non solo dalla selettività o dal tipo del farmaco, ma
anche in larga parte dalle modalità di somministrazione. Così ad esempio il
metotrexate somministrato a dosi elevate ogni 4 giorni prolunga la sopravvivenza
di topi leucemici più che se somministrato ogni giorno a piccole dosi (v. Goldin e
altri, 1956) e lo stesso accade per altri farmaci. Le alte dosi spaziate nel tempo
risultano inoltre meno tossiche di quelle basse somministrate quotidianamente,
poiché in apparenza le cellule dell'ospite recuperano nel periodo di sospensione
dallo stato tossico più rapidamente di quelle del tumore (v. Stock, 1978).
Questi studi sperimentali sulle cinetiche cellulari hanno consentito di
programmare protocolli terapeutici adeguati ai diversi tipi di neoplasia. Nei tumori
umani però varie conoscenze di base fanno difetto rispetto ai modelli sperimentali
e ciò rende più difficile la terapia. Per molti tumori umani, ad esempio, il tempo
reale di duplicazione cellulare non è noto e il tempo di duplicazione del volume
tumorale, fra l'altro assai variabile da caso a caso, non è sempre un indice
attendibile dei valori cinetici di una popolazione cellulare in mitosi (v. Steel e
Lamerton, 1969). A causa di queste differenze il trattamento di due tumori
apparentemente simili con lo stesso farmaco può dare risultati diversissimi (v.
Stock, 1978).
L'associazione di più farmaci antineoplastici con proprietà biochimiche diverse
consente di ridurre gli effetti tossici e di potenziare quelli terapeutici. Per questo,
sebbene la chemioterapia con un solo farmaco trovi ancora indicazioni nel
trattamento di qualche forma tumorale, l'associazione di due o più farmaci è
divenuta negli ultimi anni la scelta di elezione per la maggior parte dei casi. In
genere si uniscono un antimetabolita con un citostatico e un ormone, ma si sono
sperimentate associazioni le più varie e complesse, anche di 4 o 5 farmaci insieme,
comprendenti agenti alchilanti, antimetaboliti, antibiotici, citostatici vegetali e
ormoni. I risultati migliori con trattamenti combinati si ottengono nelle leucemie e
nei linfomi (v. Henderson e Samaha, 1969), ma la chemioterapia combinata si è
estesa ormai al trattamento di molte altre neoplasie con risultati lusinghieri. Così,
nel cancro della mammella in fase avanzata la chemioterapia combinata ha fornito
risultati nettamente migliori di quelli ottenibili con sola terapia ormonale (v. Griem
e altri, 1973).
Talora si può ottenere sinergismo terapeutico somministrando col citostatico un
secondo farmaco che ne riduca la tossicità nei confronti dell'ospite consentendo
così di aumentarne la dose. Ma sono stati segnalati anche fenomeni di antagonismo
fra farmaci in associazione e di autoantagonismo, con conseguente riduzione
dell'efficacia terapeutica. Per esempio, vi è antagonismo tra metotrexate e
L-asparaginasi, come tra citosina-arabinoside e metotrexate (v. Orindey e Nichol,
1972). Si può parlare invece di autoantagonismo nel caso di un farmaco che,
agendo su più cicli metabolici, può essere meno efficace proprio a causa di questa
azione multipla (v. Stock, 1978). Un esempio è fornito ancora dal metotrexate il
quale uccide le cellule inibendo la sintesi del timidilato dal deossiuridilato durante
la fase S del ciclo cellulare, ma nel contempo sopprime anche la sintesi ex novo
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delle purine impedendo alle cellule di raggiungere, o progredire attraverso, la fase
5, che è quella sensibile all'effetto principale del farmaco rappresentato appunto
dalla morte cellulare per carenza timinica (v. Borsa e Whitmore, 1969; v. Stock,
1978).
e) Limiti e danni della chemioterapia
Il principale limite alla chemioterapia dei tumori è nel fatto che non si dispone
ancora di farmaci ad azione selettiva sulle cellule neoplastiche, per cui si deve
ricorrere a sostanze chimiche le quali esplicano un'elevata azione citotossica nei
confronti delle cellule normali dell'ospite. Si impone perciò sempre l'esigenza di
ridurre e di limitare al massimo gli effetti indesiderati, ciò che va a detrimento
dell'efficacia terapeutica sulla neoplasia. Quando è possibile si può aggirare
l'ostacolo ricorrendo alla perfusione regionale del farmaco, una metodica che però
è di rado applicabile, o all'immissione diretta del farmaco nella massa tumorale,
ma con scarso successo.
L'accesso dei farmaci al tumore è un altro problema non secondario della
chemioterapia antiblastica. La vascolarizzazione di molte neoplasie è irregolare e
scarsa (v. Willis, 19674) e ciò rende particolarmente difficile un'efficace
penetrazione dei farmaci entro masse neoplastiche sovente estese e
frequentemente interrotte nella loro continuità da focolai di necrosi, nei quali
tuttavia sopravvivono nidi di cellule neoplastiche.
Un altro problema fondamentale, e un limite finora invalicabile per la
chemioterapia dei tumori, è quello della resistenza ai farmaci. Con rare eccezioni il
trattamento chemioterapico determina quasi sempre all'inizio una remissione di
settimane o mesi, dopodichè però la neoplasia riprende a crescere mostrando
resistenza nei confronti del farmaco. Ciò rende necessario il ricorso ad altri
citostatici, per i quali il fenomeno si ripete, e così gradualmente vengono precluse
le possibilità di trattamento, anche perché la rosa dei farmaci disponibili è limitata.
Se si riuscisse a chiarire nei suoi diversi aspetti il fenomeno della resistenza dei
tumori ai farmaci e si scoprisse il modo per impedirne la comparsa, o meglio per
volgerla a favore della terapia, non vi è dubbio che si trarrebbero enormi vantaggi
per il paziente (v. Stock, 1978).
Molte indagini sono state svolte in proposito e vari fattori responsabili dello
sviluppo di una resistenza ai farmaci sono stati individuati per i chemioterapici
oggi in maggior uso. Una sintesi bibliografica recente ne ricorda 10, che sono: il
ridotto assorbimento, la ridotta attivazione del farmaco, l'aumento del catabolismo
del farmaco, o dei suoi metaboliti, l'aumentata produzione di molecole bersaglio,
l'aumento della concentrazione intracellulare di molecole neutralizzanti il farmaco,
la ridotta sensibilità dell'enzima bersaglio, lo sviluppo di vie o siti metabolici
alternativi nelle cellule neoplastiche trattate, l'aumento nella capacità riparativa
delle lesioni indotte dal farmaco e, per i trattamenti ormonali, l'alterazione del
recettore (v. Stock, 1978).
Il trattamento con chemioterapici, che sono particolarmente tossici per le cellule
del sangue, riduce notevolmente le difese immunitarie e la competenza
immunologica dei pazienti, rendendoli particolarmente recettivi alle infezioni (v.
Mathé, 1971). Per ridurre i pericoli sono stati proposti sistemi di isolamento dei
malati, onde proteggerli dai microrganismi ambientali. Una pratica tuttavia non
seguita da tutti, perché il paziente è di per sé portatore di agenti potenzialmente
patogeni (nella flora batterica saprofitica intestinale, nel cavo orale, ecc.) per cui il
rischio di contrarre un'infezione letale non diminuisce con l'isolamento.
f) Terapia ormonale
Le leucemie e i tumori delle ghiandole endocrine o di organi bersaglio terminali del
sistema endocrino (mammella, utero) risentono in genere favorevolmente del
trattamento con ormoni, specie nelle fasi iniziali. Nella terapia delle leucemie è
generalizzato l'uso dei corticosteroidi (prednisone e prednisolone) per il marcato
effetto linfocitolitico e per la generica azione antineoplastica che tali ormoni
dimostrano. Le pazienti con cancro mammario in età premenopausale vengono
generalmente sottoposte a terapia ormonale aggiuntiva (somministrazione di
ormoni antiestrogeni come il testosterone e i progestinici, o di corticosteroidi) e/o
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sottrattiva (ovariectomia, talora associata a surrenectomia per ridurre la
concentrazione ematica degli estrogeni) con validi risultati pratici e sperimentali
(v. Currie e Illingworth, 1958; v. DeS ombre e altri, 1976). A tali terapie sono
sensibili i tumori le cui cellule conservano recettori estrogenici e perciò si sono
sviluppate tecniche per la dimostrazione di tali recettori nei tessuti neoplastici (v.
McGuire e altri, 1975). Gli estrogeni vengono usati con successo nella terapia del
carcinoma prostatico, i progestinici nella cura del cancro metastatico
dell'endometrio (v. Stoll, 1972).
g) Immunoterapia
La capacità dei tumori di suscitare una risposta immunitaria nell'ospite e le
possibili applicazioni terapeutiche di tale fenomeno sono già state discusse o
accennate nel cap. 6. Si è già detto anche che alcuni tumori (corionepitelioma,
linfoma di Burkitt, neuroblastoma, melanoma, ecc.) sono particolarmente
suscettibili di regressione spontanea o conseguente a un'insufficiente
chemioterapia, con probabilità a seguito di un'efficace reazione immunitaria del
paziente. Tuttavia, i tentativi effettuati nell'uomo di stimolare le risposte immuni
dell'ospite contro i tumori hanno finora dato risultati deludenti (v. Stock, 1978). E
vi sono anche problemi sperimentali ancora aperti da risolvere prima di poter
procedere a un'applicazione pratica dei principi (v. Alexander, 1978). È comunque
possibile che in futuro l'immunoterapia, specie in combinazione con la
chemioterapia, risulti utile in certi casi.
Finora si è sperimentata, con qualche risultato, la somministrazione di
immunostimolanti aspecifici (Corynebacterium parvum o bacillo di Calmette e
Guérin, un ceppo attenuato di micobatterio della tubercolosi) in particolari tumori
sperimentali e nella leucemia umana (v. Mathé e altri, 1969; v. Powles e altri,
1973). Sono stati inoltre provati l'attacco di un gruppo citotossico su anticorpi
antitumorali specifici (v. Ghose e altri, 1972), allo scopo di guidare selettivamente il
chemioterapico sul bersaglio delle cellule neoplastiche, e l'autoimmunizzazione
mediante cellule tumorali autologhe irradiate in pazienti con malattia neoplastica
avanzata (v. Alexander, 1978).
h) Conclusioni
In conclusione la chemioterapia, valutando la generalità dei casi e non solo le
favorevoli eccezioni, ha finora fornito risultati assai modesti offrendo
sostanzialmente solo un prolungamento della vita dei malati al prezzo di
intossicazioni e danni biologici purtroppo rilevanti (v. Sieber e Adamson, 1975).
Tale terapia è dunque ancora alla ricerca di farmaci veramente efficaci, selettivi e
pertanto non nocivi, come di meccanismi che precludano lo sviluppo di una
resistenza ai farmaci. La terapia ormonale concede pure solo prolungamenti o
temporanee remi ssioni. L'immunoterapia è in una fase ancora più sperimentale. Il
problema cruciale della terapia dei tumori resta perciò tuttora largamente non
risolto e la sua quotidiana manipolazione a opera dei medici rimane a un livello
empirico che chiude ulteriori possibilità di approfondimento e discussione. Ed è
logico che sia cosi, poiché non si conoscono ancora i meccanismi della
trasformazione tumorale.
Attualmente si possono però offrire a tale problema quei contributi che
speculativamente discendono dal concetto e dai principi della progressione
tumorale, elencandoli in breve qui di seguito: a) non vi è dubbio, anzitutto, che la
terapia medica avrebbe raggiunto un grande risultato se riuscisse a controllare e
regolare la progressione dei tumori. Tutto lascia fin qui supporre che la
progressione, sebbene forse inevitabile e inarrestabile, possa essere accelerata o
ritardata da stimoli vari. Il problema è di identificarli; b) il principio della
progressione indipendente dei caratteri tumorali suggerisce una ristrutturazione
del grossolano criterio di ‛malignità', oggi considerato dai più come entità unitaria.
Ciò ha i suoi riflessi pratici, perché è difficile pensare che una singola terapia si
dimostri efficace contro tutti i caratteri tumorali (dipendenza, accrescimento,
infiltrazione, metastasi, ecc.) capaci di progressione indipendente; c) il blocco
dell'accrescimento tumorale, quale si può ottenere con vari agenti chemioterapici,
non previene né impedisce la progressione, la quale è indipendente
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dall'accrescimento, e non è escluso che la favorisca; d) una migliore conoscenza del
livello di progressione raggiunto dal tumore, mediante il perfezionamento di test
biologici e analisi morfologiche, potrebbe utilmente indirizzare le cure; e) il
controllo dei tumori dipendenti, quale si può ottenere con vari mezzi, è in sé di
scarsa importanza pratica, perché la dipendenza da un determinato stimolo è
evento transitorio e viene prima o poi perduta per progressione. Il problema
centrale è di mantenere dipendenti per il maggior tempo possibile i tumori che lo
sono, non di sfruttare questo loro carattere per una temporanea cura; f) che la
progressione sia fenomeno irreversibile e inevitabile in un tumore non deve
scoraggiare, visto che essa può non raggiungere il suo punto d'arrivo nell'ospite
primario e che sembra possibile, sperimentalmente, rallentarla prolungando la
malattia anche per lungo tempo; g) sul piano sperimentale, il primo suggerimento
è di dedicare gli sforzi maggiori allo studio delle possibilità di interferire
competitivamente, a livello genico, con i fattori che controllano la progressione
tumorale. Da queste impostazioni, in mancanza per ora di conoscenze migliori,
sembra giustificato attendere sviluppi più razionali per la terapia antiblastica di
domani (v. Squartini, 1964).
13. Tumori dell'infanzia e dell'adolescenza
a) Peculiarità e problemi
Il panorama dei tumori dell'infanzia, dell'età puberale e della prima adolescenza e
notoriamente molto diverso da quello consueto per gli altri periodi della vita. Nei
bambini e negli adolescenti prevalgono i tumori cosiddetti embrionali, i teratomi,
gli amartomi, i tumori degli organi emolinfopoietici, i sarcomi, mentre sono molto
rari i carcinomi, che costituiscono il tipo più comune di tumore degli adulti. Le
neoplasie dei primi anni di vita sollevano dunque una serie di problemi particolari,
di ordine biologico, morfologico, epidemiologico e clinico, che riguardano i loro
rapporti con l'embriogenesi, la natura e la provenienza dei fattori causali,
l'istogenesi, l'identificazione e la classificazione dei diversi oncotipi, la
distribuzione nelle comunità infantili di alcune forme a sospetta eziologia virale e
la ricerca dei veicoli di un possibile contagio, l'eventuale profilassi sulle gestanti, il
controllo, la diagnosi e il decorso, le terapie efficaci, ecc. Questi problemi
particolari fanno dei tumori dell'infanzia un argomento a sé nel campo della
moderna oncologia, che richiede specializzazione non solamente al clinico, ma
anche al patologo e al biologo.
b) Epidemiologia e frequenza
In Italia, come in altri paesi a sviluppo analogo, i tumori si avviano a diventare la
principale causa di morte nell'infanzia e nell'adolescenza. Con la diminuzione di
molte malattie infettive che oggi si possono curare e col miglioramento delle
condizioni di vita e sanitarie generali, la frequenza relativa di decessi per tumori
nell'età infantile e nell'adolescenza mostra un progressivo sensibile aumento. Se
nella prima infanzia, e particolarmente nel primo anno di vita, tale frequenza
appare tuttora molto piccola, ciò si deve all'elevata mortalità perinatale per cause
varie ancora non sufficientemente controllabili e prevenibili, ma certo destinate a
ridimensionarsi nel tempo. In realtà, il numero dei decessi per tumori è maggiore
nei primi cinque anni di vita che nei quattro quinquenni successivi. Solo fra 26 e 30
anni il numero dei tumori che causano la morte torna a un livello comparabile a
quello che gli compete nel primo quinquennio. Il rapporto fra i morti per tumori
prima e dopo i 18 anni è di circa 1:50. Se però è riferito al numero totale dei decessi
che si verificano per ciascuna età, tale rapporto sale a 1:2, fatta eccezione per i
primi due anni di vita a causa dei motivi detti sopra. Dal sesto anno in poi i tumori
sono la seconda causa di morte nell'infanzia e nell'adolescenza. L'insieme dei fatti
ricordati dimostra che i tumori dell'infanzia e dell'adolescenza non sono come a
volte si pensa un'entità trascurabile, e il problema che essi rappresentano non è sul
piano quantitativo molto diverso da quello dei tumori nelle età successive della
vita. Di qui la necessità di non trascurarne lo studio, sotto ogni aspetto, anche se
ciò è difficile e richiede particolare competenza.
Considerando gli apparati, gli organi o i sistemi colpiti, i tumori dell'infanzia e
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dell'adolescenza mostrano notoriamente predilezioni molto diverse da quelle
peculiari ai tumori della maturità e dell'età senile. In Italia sono nettamente al
primo posto fino a 18 anni i tumori degli organi emolinfopoietici (incluse le
leucemie) responsabili da soli di circa il 55% dei decessi per tumori. Seguono a
distanza i tumori del sistema nervoso (16%) e quelli delle ossa e dei connettivi
(6%). Poi tutti gli altri, fra cui le neoplasie degli apparati digerente, genitale e
respiratorio responsabili complessivamente e nei due sessi di circa l'80% dei
decessi per tumori in soggetti oltre i 18 anni di età. Poche e poco marcate sono al
riguardo le differenze con i dati resi noti per altri paesi. Non vi è dubbio, quindi,
che le neoplasie dei bambini e degli adolescenti siano nettamente diverse sul piano
genetico e qualitativo da quelle degli adulti. Per approfondire l'indagine in tal senso
occorre tuttavia trasferirsi dal terreno delle statistiche sui certificati di morte a
quello della patologia, considerando quei materiali che consentono lo studio
morfologico dei casi.
c) Quadri di patologia
La patologia dei tumori dell'infanzia e dell'adolescenza offre difficoltà numerose sul
piano della definizione, della classificazione, a volte persino del riconoscimento
delle varie forme. Incerti sono talora i limiti fra malformazioni e tumori, fra
neoplasie congenite e acquisite, fra tumori benigni e maligni. Fra l'altro nei
bambini sono più frequenti rispetto agli adulti i tumori benigni che causano la
morte (per la sede, per l'estensione, per le complicazioni; v. Andersen, 1951). Vi
sono ampie possibilità di errori diagnostici per chi non abbia familiarità con
l'embriologia, con i problemi morfologici dello sviluppo così mutevoli e diversi da
tessuto a tessuto, con la vastità delle modificazioni che ai livelli quantitativo e
qualitativo le cellule di un tessuto possono subire in condizioni funzionali diverse
(si pensi alle cellule della serie bianca del sangue) senza oltrepassare i confini della
norma. Anche il concetto di progressione tumorale (v. Foulds, 1954) perde in certi
casi ogni valore, potendosi assistere nei bambini alla maturazione graduale di
tumori prima maligni che avevano dato metastasi (v. Fox e altri, 1959).
L'impressione più viva che si ricava dal quadro generale è quella della confluenza
nell'infanzia e nell'adolescenza di categorie di tumori fra loro molto diversi
nell'origine, nella morfologia, nel comportamento, nelle distribuzioni e anche nelle
cause. I tumori cosiddetti embrionali dei primi anni, per esempio, non hanno nulla
in comune con certe neoplasie della pubertà e dell'adolescenza che preludono alla
patologia tumorale degli adulti (v. Squartini e Bolis, 1966).
Articolare in una classificazione semplice e utile alla pratica categorie di tumori
così diversi non è facile e per riuscirvi è necessario considerare, accanto
all'istogenesi e al comportamento, criteri di cronologia e di frequenza delle
neoplasie. Infatti, è giusto riservare il primo posto nella considerazione a quei
tumori, frequenti nell'infanzia, che compaiono per primi: i tumori embrionali i
quali, ordinati in graduatoria di frequenza, comprendono i tumori dei tessuti
neurali (neuroblastomi, medulloblastomi e neuroepiteliomi, retinoblastomi, ecc.), i
tumori embrionali dei visceri (nefroblastomi, epatoblastomi, orchioblastomi, ecc.)
e i sarcomi embrionali. Dopo i tumori embrionali appare logico considerare i
teratomi (neoformazioni derivate da più foglietti embrionali), perché a essi affini, e
poi gli amartomi (sviluppo in eccesso di una componente di un tessuto) con i
relativi tumori e i tumori delle vestigia embrionali, perché tutti derivati da tessuti
che hanno subito un disturbo nel corso del loro sviluppo. Sistemate così le classi di
neoplasie più tipiche dell'infanzia sul piano istogenetico, restano tutte le altre, che
non sono diverse da quelle corrispondenti degli adulti e comprendono, in ordine di
frequenza, i tumori dei tessuti emopoietici, quelli dei tessuti scheletrici, gli altri
tumori mesenchimali, i tumori delle ghiandole endocrine e delle gonadi, e gli altri
tumori epiteliali derivati da tessuti non endocrini. Questa classificazione (v. Willis,
1962) ha numerosi pregi e solo trascurabili difetti.
d) Curve di distribuzione
Nella tab. V e nei relativi diagrammi è illustrata la distribuzione di un ampio
materiale patologico, bioptico e autoptico, da me elaborato, comprendente 579
tumori dell'infanzia e dell'adolescenza osservati a Perugia in soggetti da 0 a 16 anni
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e catalogati secondo il tipo istologico e l'età (v. Squartini e Bolis, 1966; v. Severi e
Squartini, 1969). Nella distribuzione secondo il sesso (non riportata) c'è
un'evidente predilezione dei tumori di derivazione mesenchimale per il sesso
maschile e di quelli di origine epiteliale per il femminile, mentre i tumori più
propriamente embrionali e assimilati sono assai equamente distribuiti fra i due
sessi. La distribuzione secondo il tipo istologico e l'età è corredata da grafici
esplicativi. Per analizzare le varie componenti che intervengono nella composizione
della curva di distribuzione totale dei tumori, sono state tracciate separatamente
anche le curve di distribuzione parziali dei tumori inclusi nelle classi morfologiche
e istogenetiche considerate, riunite allo scopo in quattro gruppi secondo criteri di
omogeneità e precisamente: a) le classi da 1 a 6 che comprendono tutti i tumori
embrionali e i teratomi accanto a poche altre forme derivate da tessuti neurali
differenziati; b) le classi 7 e 8 che includono gli amartomi, i tumori da questi
derivati e quelli che prendono origine dalle vestigia dello sviluppo embrionale; c) le
classi da 9 a 11 che comprendono tutti i tumori dei tessuti emopoietici, ossei e
mesenchimali in genere; d) infine le classi da 12 a 14 che includono i tumori degli
organi endocrini, delle gonadi, della mammella e i tumori epiteliali degli altri
organi e apparati.
Tabella 5
Esaminando le curve di distribuzione di questi quattro raggruppamenti di tumori
secondo l'età si osserva che i tumori del primo e del secondo gruppo compongono
tracciati regolarmente e rapidamente decrescenti con picchi di massima frequenza
nel primo anno di vita, i tumori del terzo disegnano un tracciato irregolare con
picchi a 1, 4, 7 e 14 anni corrispondenti a onde di ampiezza diversa e massima
nell'ultimo quinquennio, mentre i tumori del quarto gruppo si allineano lungo una
curva regolare ma capovolta rispetto alle prime due, con picco di massima
frequenza al sedicesimo anno.
È la combinazione di questi differenti tracciati che condiziona il caratteristico
andamento del grafico di distribuzione secondo l'età dei tumori dell'infanzia e
dell'adolescenza nel loro complesso, espresso da una curva assai regolare ad
andamento ellittico con concavità superiore, per due punti di massima frequenza
quasi equivalenti in corrispondenza del primo e del quindicesimo-sedicesimo anno
di vita, separati da una profonda depressione intermedia. Nella parte centrale della
curva, in corrispondenza cioè del periodo di minima frequenza dei tumori, sono
evidenti e riconoscibili alcuni picchi minori che deviano dall'andamento altrimenti
regolare del tracciato, dovuti alle neoplasie dei tessuti emopoietici, ossei e
mesenchimali in genere (v. Squartini e Bolis, 1966).
e) Possibili fattori causali
Senza volere qui entrare nel merito dei problemi eziologici dei tumori dell'infanzia
e dell'adolescenza, per parlare dei quali non si dispone di dati sufficienti, è lecito
tuttavia estrarre dalle curve presentate quello che con chiarezza suggeriscono.
Nell'ambito delle neoplasie dell'infanzia si possono riconoscere quattro categorie
principali di tumori che appaiono fra loro indipendenti sotto vari aspetti e per le
quali è giustificato supporre anche una diversa eziologia.
I tumori embrionali e i teratomi, i quali si sviluppano da tessuti indifferenziati e
sono concentrati nel primo o nei primi anni di vita, debbono riconoscere fattori
causali che agiscono prima della nascita disturbando e deviando in senso
neoplastico i normali processi di sviluppo e maturazione dei tessuti del feto e
dell'embrione.
Gli amartomi e i tumori che prendono origine da questi o dalle vestigia dello
sviluppo embrionale sono nel comportamento analoghi ai precedenti. Con quelli
condividono la massima frequenza nei primi anni di vita, sebbene alcuni si
manifestino solo più tardi. Similmente a quelli debbono riconoscere fattori causali
che agiscono o prima della nascita, ma su tessuti giunti ormai al termine della loro
fase di maturazione causandovi uno squilibrio di rapporti quantitativi (amartomi),
o anche dopo la nascita, ma su residui di tessuti mantenutisi allo stato embrionale
(tumori delle vestigia embrionali).
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Per i tumori dei tessuti emopoietici, ossei e mesenchimali in genere, che si
manifestano a ondate con numerosi picchi di frequenza corrispondenti all'incirca ai
periodi di maggiore accrescimento corporeo postnatale, sembra giustificato
pensare a fattori causali di natura particolare i quali agiscono con probabilità dopo
la nascita sopra tessuti ai più alti livelli della loro attività funzionale o di sviluppo.
Infine, i tumori degli organi endocrini, delle gonadi, della mammella e gli altri
tumori epiteliali in genere, praticamente assenti nell'infanzia e concentrati al
massimo nelle età della pubertà e dell'adolescenza, debbono riconoscere fattori
causali non diversi da quelli ai quali si attribuisce la maggiore importanza per lo
sviluppo di tumori negli adulti, alcuni di natura ormonale, altri ambientale (v.
Squartini e Bolis, 1966).
Quali siano i fattori causali dei tumori che si sviluppano nel corso dell'infanzia
rimane comunque fino ad ora sconosciuto. La suscettibilità dei tessuti embrionali e
neonatali ai cancerogeni trasmessi dalla madre o direttamente applicati (v. Shay e
altri, 1950; v. Klein, 1952; v. Heston e Staffee, 1957; v. Kelly e O'Gara, 1961), come
pure l'origine virale di alcune fra le neoplasie più comuni nelle prime età di vita (v.
Gross, 1961 e 19702), sono fatti chiaramente dimostrati dalla patologia
sperimentale. Nella patologia umana questi fatti rimangono tuttavia ancora per la
maggior parte solo stimolanti argomenti di indagine e di speculazione.
14. Principali tipi di tumori maligni negli adulti
Non è possibile, nè sarebbe utile agli scopi di questa trattazione, riferire su tutti i
tipi di tumori maligni umani. Nei paragrafi seguenti si descriveranno pertanto solo
i principali e di questi i caratteri meglio adatti all'esemplificazione di problemi.
a) Cancro della mammella
La mammella, come organo differenziato, esiste soltanto in funzione degli stimoli
ormonali che riceve. Sotto questo profilo essa rappresenta anzi il più tipico
esempio nell'organismo di struttura dinamica. In rapporto alla pubertà, ai cicli
mestruali, alle gravidanze, agli allattamenti, quest'organo terminale del sistema
endocrino converte gli stimoli ormonali che riceve in strutture morfologiche e così
aumenta l'ampiezza del suo albero ghiandolare, modifica i confini coi tessuti
limitrofi, perfeziona la differenziazione istologica, adatta la struttura alle esigenze
funzionali (v. Squartini e Olivi, 1962).
A causa di questo dinamismo strutturale, l'albero ghiandolare mammario è fatto di
strutture transitorie e permanenti, ciò che apre nuovi problemi alla cancerogenesi
mammaria, sconosciuti a livello di altri organi. In larga parte, ogni cellula epiteliale
di una mammella a riposo è la depositaria potenziale di una complessa struttura
ghiandolare. Reciprocamente, molte strutture ghiandolari di una mammella
funzionante sono completamente riassorbite in breve tempo.
Ciò può spiegare la mancanza di informazioni precise perfino riguardo alla sede di
origine del cancro mammario. La maggior parte dei carcinomi mammari infiltranti
sono usualmente ritenuti di origine dottale extralobulare (v. McDivitt e altri, 1968).
Ma studi sul cancro mammario sperimentale e umano suggeriscono che la più
comune sede di origine possa invece essere il lobulo mammario (v. Squartini, 1959
e III Histogenesis..., 1977; v. Wellings e altri, 1975). Indagini recenti, basate sullo
studio delle lesioni submacroscopiche nelle sezioni di mammelle umane intere,
indicano che i focolai più precoci di carcinoma mammario sono localizzati nelle
unità terminali dottali intralobulari (v. Wellings e Jensen, 1973). Ciò è importante
in considerazione del controllo ormonale delle strutture lobulari e può spiegare
perché il cancro della mammella è così comune nelle femmine e così raro nei
maschi, i quali raramente hanno lobuli mammari a meno che non siano sottoposti
per lungo tempo a trattamento con estrogeni (v. O'Grady e McDivitt, 1969).
Gli ormoni che presiedono allo sviluppo mammario sono l'estrogeno, il
progesterone e la prolattina. Questa triade ormonale è in grado di produrre un
pieno sviluppo dell'albero ghiandolare mammario con differenziazione lobuloalveolare negli animali ovariectomizzati, surrenectomizzati e ipofisectomizzati (v.
Cowie e Folley, 1958). Gli stessi ormoni endogeni, cioè la prolattina ipofisaria e gli
steroidi ovarici e/o surrenali, sono strettamente implicati anche nello sviluppo del
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cancro mammario. L'ovariectomia precoce riduce fortemente o annulla addirittura
il rischio di cancro della mammella (v. Feinleib, 1968). Ma vari esperimenti hanno
dimostrato che livelli normali di ormoni, dunque non necessariamente livelli
aumentati o esagerati, sono sufficienti per la cancerogenesi mammaria (v.
Bulbrook, 1971 e 1977). Inoltre, i dati raccolti da esperimenti di trapianto nel topo
suggeriscono che le cellule epiteliali mammarie trasformate dall'azione di
cancerogeni chimici o virali possono trovare il supporto necessario allo sviluppo
delle neoplasie nell'ambiente ormonale di ospiti endocrinologicamente normali (v.
Brennan, 1975).
Sul piano clinico è ben nota l'azione protettiva delle gravidanze e degli allattamenti
(v. Severi e Squartini, 1962), in particolare della prima gravidanza (v. MacMahon e
altri, 1973), nei confronti del cancro mammario. Sono così stati identificati e
catalogati numerosi fattori di rischio generici predisponenti al cancro mammario
che includono: la nulliparità, la primiparità attempata, il mancato allattamento al
seno, il menarca precoce e la menopausa tardiva (v. Tuyns, 1971; v. MacMahon e
altri, 1973). Il progressivo aumento di tali fattori di rischio nel corso di questo
secolo è responsabile apparentemente del forte aumento registrato nelle frequenze
di cancro mammario dei paesi occidentali. Accanto ai fattori di rischio generici, ve
ne sono altri più importanti, detti specifici, in quanto segnalano un alto rischio
locale di cancro. Questi comprendono: la familiarità (cioè presenza di più cancri
mammari nelle parenti), la displasia mammaria e i papillomi intraduttali multipli
(ritenute lesioni preneoplastiche), il carcinoma lobulare in situ (una lesione
considerata di sicuro significato preinvasivo) e il carcinoma della mammella
controlaterale (v. Haagensen, 1971).
Sul piano morfologico, i problemi del cancro mammario riguardano ancora la
classificazione, che attualmente è riferita alle sedi di origine (dai lobuli, dai dotti;
ma si è già detto con quanta approssimazione), all'aspetto invasivo (cancri in situ e
infiltranti), al tipo cellulare, e alle reazioni dell'ospite (proliferazione connettivale o
fibrosi produttiva, infiltrati infiammatori, ecc.; v. McDivitt e altri, 1968). Le
indagini ultrastrutturali tendono a ricollegare i diversi tipi di cancro con gli stipiti
cellulari normali di origine che sono essenzialmente tre: le cellule secernenti dei
lobuli, le cellule di rivestimento dei dotti, e le cellule mioepiteliali esterne, con
funzioni di contrazione sulle precedenti per l'espulsione del secreto (v. i contributi
di Murad, 1971). Altri problemi di interesse per il cancro mammario sono già stati
discussi nei capitoli precedenti.
b) Cancro del polmone
Almeno tre quarti dei tumori polmonari nell'uomo prendono origine dai grossi
bronchi all'ilo o in prossimità dell'ilo (v. Willis, 19674), mentre soltanto un numero
molto limitato, probabilmente inferiore al 5%, ha una localizzazione periferica,
sottopleurica, e un'origine bronchiolare o alveolare (v. Decker, 1955). Questa
distribuzione non omogenea dei tumori lungo i rivestimenti epiteliali dell'albero
respiratorio può dipendere sia da una diversa sensibilità, sia da una diversa
esposizione degli epiteli bronchiale e alveolare agli agenti cancerogeni specifici. La
prima di tali due ipotesi tuttavia si è dimostrata erronea all'indagine sperimentale
(v. Squartini e Bolis, 1971). La seconda ipotesi è quindi molto più realistica e in
accordo con l'opinione, generalmente condivisa, che la maggior parte dei tumori
del polmone nell'uomo sono dovuti a cancerogeni malati. Infatti la maggior parte
delle particelle presenti nell'aria malata si arrestano nell'impatto con le mucose
delle vie respiratorie maggiori e in particolare dei grossi bronchi. Gli epiteli
alveolari sono invece in larga misura sottratti all'azione del pulviscolo e molto più
in contatto con eventuali agenti trasportati dal sangue circolante.
Uno dei fatti più evidenti, nel panorama anatomo-clinico del cancro del polmone è
il suo straordinario aumento di frequenza negli ultimi decenni. Sembra logico, in
base anche a quanto detto sopra, mettere tale fenomeno in rapporto con le
crescenti quantità di cancerogeni malati dall'uomo per motivi voluttuari (fumo di
tabacco), professionali (arsenico, cromo, nichel, asbesto) o ambientali (prodotti
della combustione, fumi industriali, ecc.; v. Willis, 19674). Ma, accanto a questi, si
possono considerare anche motivi o cause più strettamente inerenti la patologia
dell'organo. Le cicatrici nel parenchima polmonare favoriscono notevolmente
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l'insorgenza di cancri del polmone. E i motivi di cicatrici polmonari sono
nettamente aumentati oggi rispetto al passato: per la guarigione di processi
tubercolari che un tempo non si potevano curare; per le fibrosi polmonari da
polveri (silicosi, asbestosi, ecc.); per le polmoniti che, interrotte nel loro naturale
decorso dall'uso frequentissimo di antibiotici, vanno talora incontro a
organizzazione fibrosa degli essudati negli alveoli (la cosiddetta carnificazione
polmonare) invece che a risoluzione (cioè lisi e riassorbimento degli essudati
alveolari).
Il cancro del polmone può oggi essere curato mediante interventi chirurgici, terapie
radianti e chemioterapie, con probabilità di successo in certi casi purché sia
diagnostica- to precocemente. Per questo ha acquistato importanza in clinica la
classificazione morfologica dei diversi istotipi a scopo terapeutico e prognostico,
poiché ognuno esibisce comportamenti e risposte peculiari. Così il carcinoma a
cellule squamose (il più frequente nei fumatori) risente il beneficio maggiore dalla
terapia chirurgica mentre su di esso ha scarsissimo effetto la chemioterapia.
Opposto è il comportamento del carcinoma a piccole cellule anaplastiche, il più
sensibile ai trattamenti chemioterapici e radianti, mentre in posizione intermedia
fra i due sono il carcinoma a grandi cellule anaplastiche e l'adenocarcinoma.
Tuttavia, i carcinomi anaplastici hanno nel complesso la prognosi peggiore per il
loro comportamento biologico che conduce a metastasi precoci (v. Cohen e
Selawry, 1975).
Il carcinoma alveolare periferico del polmone umano è collegato da rapporti per lo
meno formali con una varietà di adenomatosi polmonare papillare infettiva già da
tempo descritta nella pecora, indicata col nome di Jaagsiekte (v. Duran-Reynals e
altri, 1958) e ritenuta di assai probabile origine virale (v. Markson e Terleki, 1964).
I tumori spontanei polmonari del topo sono anch'essi di derivazione bronchioloalveolare e di aspetto papillare, mostrando quindi numerosi punti di contatto da un
lato con l'adenomatosi polmonare della pecora, dall'altro con il carcinoma
alveolare periferico del polmone umano. L'ipotesi che i tumori spontanei del
polmone nel topo siano dovuti a fattori endogeni presenti nell'ospite e trasportati
al polmone dal sangue circolante, è suggerita da consistenti dati sperimentali (v.
Squartini e Bolis, 1970). Ne discende che anche il carcinoma alveolare periferico
del polmone umano potrebbe riconoscere cause endogene e diverse da quelle dei
tumori emergenti dai grossi bronchi in prossimità dell'ilo.
c) Cancro dell'intestino
Se si pone in rapporto l'incidenza neoplastica dei vari segmenti intestinali con la
loro lunghezza, cioè con l'estensione della loro superficie mucosa, ne scaturisce una
considerazione a prima vista paradossale: la frequenza del cancro nei vari segmenti
è inversamente proporzionale alla loro lunghezza (v. Hueper, 1942). Infatti,
nell'intestino tenue, lungo 7 metri, si localizza solo il 5% di tutti i cancri intestinali,
mentre il 95% è localizzato nell'intestino crasso, lungo i metro e 70 centimetri, e
più del 50% di questi ha sede nella sua ultima porzione, il retto, che è lungo appena
13 centimetri (v. Squartini e Caschera, 1956). Ciò fornisce la riprova più evidente in
patologia umana della distribuzione non casuale o spontanea dei tumori, la quale
seguirebbe altrimenti il calcolo delle probabilità.
Analizzando più da vicino la distribuzione si osserva che nel duodeno (3,6% di tutti
i cancri intestinali; 26 cm di lunghezza) la maggior parte dei tumori ha due sedi
particolari e precisamente i dintorni della papilla di Vater, che conduce la bile
all'intestino, e la regione parapilorica, che rappresenta il punto d'ingresso del
contenuto gastrico nel lume intestinale (v. Squartini e Maltzeff, 1956). Ciò
suggerisce che nel chimo gastrico e nella bile siano contenute sostanze
cancerogene, un fatto anzi sul quale non dovrebbero sussistere molti dubbi se si
tien conto dell'elevata frequenza di neoplasie maligne riscontrabili nel tratto
oro-gastrico ed epato-biliare. Attraverso la via oro-gastrica possono giungere
all'intestino i cancerogeni presenti nella dieta, di cui si è già parlato. Sembra
tuttavia improbabile che questi abbiano un ruolo importante nella cancerogenesi
intestinale, poiché le popolazioni con alto rischio di cancro del tratto esofagogastrico non presentano anche un alto rischio di cancro intestinale (v. Correa e
Haenszel, 1978). Attraverso la via epato-biliare, verosimilmente dunque più
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importante, passano le sostanze nocive condotte al fegato per la neutralizzazione
ed espulse nell'intestino con la bile, fra cui possono esservi anche sostanze
cancerogene (v. Cleveland e altri, 1967), così come vi sono sostanze
precancerogene, rappresentate per esempio dagli acidi biliari (v. Wynder, 1975).
Più a valle, infatti, i batteri intestinali, metabolizzando gli acidi biliari, il colesterolo
e i grassi della dieta sono, come già detto, verosimilmente in grado di produrre da
queste sostanze cancerogeni intestinali endogeni (v. Reddy e Wynder, 1973; v.
Reddy e altri, 1975; v. Hill, 1975 e 1977).
Tutto ciò non sarebbe comunque sufficiente a spiegare appieno la peculiare
distribuzione dei tumori intestinali se non si ponesse mente alla fisiologia del tubo
digerente che di quella distribuzione è in larga parte responsabile. Infatti,
all'immissione del chimo gastrico e della bile nel duodeno fa seguito un'immediata,
abbondante secrezione di muco operata dalle ghiandole di Brunner che diluisce e
fluidifica notevolmente il contenuto del lume facilitandone lo svuotamento, il quale
è molto rapido grazie anche alla vivace peristalsi, e ricoprendo le pareti con una
sottile pellicola di muco a funzione protettiva e lubrificante. Queste verosimilmente
le ragioni che annullano, al di là del piloro e della papilla di Vater, il potere
oncogeno del contenuto duodenale, giustificando la bassa incidenza neoplastica di
tale segmento (3,6%) e quella ancora più bassa del digiunoileo (1,8%), il tratto più
lungo dell'intestino, dove i pochi tumori sono localizzati in genere nell'ultima
porzione, cioè in una zona in cui il contenuto intestinale, terminati i fenomeni di
assorbimento, è meno fluido ed è costretto a un soggiorno più lungo per la
presenza della valvola ileocecale.
A partire dal cieco e per tutta la lunghezza dell'intestino crasso, fino al retto,
l'incidenza neoplastica cresce progressivamente in senso cranio-caudale e la
spiegazione dei fatti ci viene ancora una volta dalla fisiologia. Le modificazioni più
importanti che il contenuto intestinale subisce a livello del crasso consistono nel
riassorbimento dei liquidi ancora presenti nelle feci e, di conseguenza, nella loro
progressiva solidificazione. A questo punto diviene efficace anche l'azione
metabolica dei Batteri sugli acidi biliari e sui grassi della dieta (v. Hill, 1975 e 1977).
Questi fatti comportano un aumento di concentrazione delle sostanze cancerogene
che prima erano state diluite e un aumento del tempo di soggiorno delle feci nei
vari segmenti. Dopo quanto ora esposto non sembra più strano che l'incidenza
tumorale nell'ambito dell'intestino crasso aumenti progressivamente nonostante
che la lunghezza dei segmenti nel contempo diminuisca, potendosi ciò riassumere
nella proposizione che la frequenza del cancro nei vari segmenti intestinali è
direttamente proporzionale al tempo di soggiorno in essi delle feci e alla
concentrazione raggiunta dalle sostanze cancerogene in queste ultime (v. Hueper,
1942; v. Squartini, 1957).
La più precoce modificazione morfologicamente dimostrabile nel cancro intestinale
è la dislocazione delle mitosi negli strati più superficiali dell'epitelio, dove
normalmente non si ritrovano (v. Deschner e altri, 1966). Tale fenomeno
suggerisce l'avvento di alterazioni nel microambiente della mucosa e determina
una sovrapproduzione di cellule che finiscono per protrudere nel lume dando
origine a lesioni quali i polipi adenomatosi e villosi (v. Cole e McKalen, 1963). Le
informazioni fin qui raccolte circa tali lesioni depongono per una forte e
consistente associazione tra polipi e cancro intestinale, di natura causale nella
maggior parte dei casi. Il polipo è un prerequisito obbligato per il cancro quando la
malignità comincia nel polipo. Ma vi sono casi ben documentati nei quali il cancro
non inizia in uno dei polipi, pure con esso associati. In tali casi l'associazione è
indiretta nel senso di due risposte indipendenti ad una stessa causa (v. sopra, cap.
7). Questa distinzione nelle vie percorribili dal cancro intestinale ha rilevanza
pratica per la strategia di controllo. Infatti, la speranza di prevenire tutti, o la
maggior parte, dei cancri intestinali resecando i polipi sembra non realistica. La
profilassi ideale del cancro dovrebbe invece puntare alla prevenzione dei polipi
rimuovendo le cause che li producono. A questo punto, infatti, la distinzione fra
associazione diretta e indiretta diverrebbe irrilevante (v. Correa e Haenszel, 1978).
Le differenze anatomiche dei vari segmenti intestinali e dei tumori che in questi si
sviluppano sono causa di differenze rilevanti nelle manifestazioni cliniche e nella
prognosi fra i cancri del colon destro, del colon sinistro e del retto. I primi si
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manifestano tardivamente con emorragie, squilibri elettrolitici da eccessiva perdita
per ipersecrezione tumorale, cachessia; i secondi si manifestano invece più
precocemente perché stenosanti e pertanto occludenti il lume intestinale. I cancri
del retto hanno la prognosi peggiore. Numerosi fattori prognostici, rilevabili
dall'esame clinico, chirurgico o morfologico, sono stati di recente identificati e
introdotti nella pratica (v. Gérard, 1975).
Le terapie chirurgiche hanno fatto progressi. Tuttavia le prospettive di guarigione o
di sopravvivenza globali dei soggetti con cancro intestinale curato sono ancora oggi
assai poco brillanti. Infatti, su 100 casi di carcinoma dell'in- testino crasso, al
momento della diagnosi 5 sono inoperabili, 95 sono giudicati operabili. Di questi
ultimi, al momento dell'intervento si appura che in realtà 15 sono inoperabili e solo
80 sono giudicati operabili. Tuttavia, per 10 di questi 80 nel corso della resezione si
rileva che l'intervento sarà solo palliativo, perché non tutto il tumore è asportabile.
Dei 70 che rimangono e vengono curati con intervento chirurgico radicale, 3
muoiono in conseguenza dell'intervento, 35 muoiono entro cinque anni per
recidiva o metastasi e solo 32 su 100 dunque sopravvivono per più di cinque anni
con buone probabilità di essere guariti (v. Robbins, 1974).
d) Cancro dello stomaco
Sebbene l'incidenza del carcinoma gastrico sia in diminuzione, esso rimane il tipo
più frequente di cancro in Giappone, nell'Unione Sovietica, nell'America Latina e
anche in alcuni paesi europei, nonché una delle più comuni cause di morte per
tumori ovunque. Il carcinoma gastrico è invece eccezionale negli animali domestici
e di laboratorio, praticamente assente in quelli selvatici e ciò indica chiaramente
che le cause sono da ricercare nelle innaturali condizioni di vita dell'uomo, specie
riguardo alle sue abitudini alimentari. I cancerogeni possono derivare dagli
additivi, dai modi di cottura dei cibi, dalle sostanze inquinanti il suolo e l'atmosfera
che possono venire raccolte dalle acque e di cui si è già parlato (v. sopra, cap. 5). Il
cancro gastrico per motivi genetici e/o ambientali ha una distribuzione geografica
molto varia. La sua frequenza è influenzata anche dallo stato sociale dei soggetti, in
quanto nelle classi sociali più povere la sua incidenza è circa doppia rispetto a
quella delle classi agiate (v. Willis, 19674), ciò che non è forse estraneo al fatto già
rilevato della sua tendenza negli ultimi decenni a diminuire di frequenza.
Questo tipo di tumore fornisce utili esempi negativi e positivi circa il possibile
significato concausale di lesioni gastriche concomitanti. L'ulcera gastrica peptica è
frequente, talora è associata al cancro dello stomaco e lo precede, per cui si
potrebbe supporre che l'ulcera favorisca l'insorgenza del cancro rappresentandone
un precursore morfologico e una concausa importante. Ma tale ipotesi non resiste
alla critica ove si consideri che l'ulcera peptica duodenale è ancora più frequente di
quella gastrica, mentre il cancro duodenale è raro. Pertanto, fatta eccezione per
situazioni particolari, all'ulcera dello stomaco si riconosce oggi solo il significato di
un fattore di localizzazione del cancro realizzato da altre cause (v. Willis, 19674).
Diverso è il caso per la gastrite cronica atrofica associata ad anemia perniciosa, la
quale è considerata un precursore morfologico e un fattore causale o concausale
importante, capace di evolvere nel 10% dei casi in cancro dello stomaco. In tale
malattia è frequente anche il riscontro di carcinomi in situ. Circa il meccanismo
patogenetico che la legherebbe al cancro si attribuisce importanza alle
modificazioni cellulari instaurantisi a seguito della carenza di vitamina B12, non
assorbita per l'atrofia della mucosa gastrica, carenza che direttamente influisce
sulla sintesi del DNA e sulla replicazione cellulare (v. Robbins, 1974).
Il cancro gastrico non trattato o incurabile porta a morte nel giro di un anno
dall'inizio dei sintomi. Solo il 10% dei pazienti supera l'anno e appena il 2% i 5
anni. Poiché l'intervento chirurgico si rivela difficilmente radicale, anche il
carcinoma gastrico curabile diviene presto un problema di terapia medica con
scarse prospettive per ora di efficaci risultati. Gli agenti chemioterapici possono
produrre regressioni in una certa percentuale di casi prolungando la
sopravvivenza. Le risposte favorevoli sono più frequenti nei maschi, nell'età di
mezzo e negli istotipi maggiormente differenziati, che sono i carcinomi a struttura
ghiandolare o adenocarcinomi (v. Moertel, 1975).
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e) Leucemie e linfomi
Sono questi i tumori del sistema emo-linfo-reticolare che comprende i linfonodi, il
timo, la milza e i tessuti linfatici sparsi nell'organismo (come per es. le tonsille),
produttori di linfociti e plasmacellule, e il midollo osseo che produce le cellule
staminali progenitrici di tutto il sistema, i globuli rossi o eritrociti (serie eritroide) e
i globuli bianchi o leucociti (serie mieloide). Si parla di leucemia quando le cellule
neoplastiche circolano nel sangue, come fanno le corrispondenti cellule normali,
un fenomeno oggi considerato alla stregua di una metastasi circolante (v. Willis,
19674), mentre col termine di linfomi in senso lato si intendono comunemente i
tumori solidi del sistema. Per molti anni tali neoplasie sono state considerate,
osservate e classificate dal solo punto di vista morfologico, senza cioè alcun
riferimento alla funzione dei rispettivi stipiti cellulari. Oggi, dopo i rilevanti
progressi dell'immunologia negli ultimi vent'anni, si cominciano giustamente a
riconsiderare molte di queste neoplasie come tumori del sistema immunitario. (v.
sangue: Leucemie e Organi emopoietici ; v. sistema reticolo endoteliale).
Limitando i ricordi funzionali a un solo tipo cellulare, i linfociti, va ricordato che
oggi, in base alle osservazioni sui difetti immunologici congeniti nell'uomo e agli
esperimenti di ablazione negli animali di parti dei sistemi immunitari murini
(timo) e aviari (borsa di Fabrizio), si ritiene che esistano due sistemi linfocitari
funzionanti: il sistema a cellule T (timo dipendente) responsabile della immunità
cellulare e il sistema a cellule B (borsa equivalente) responsabile della immunità
umorale. Vi sono tuttavia anche cellule dette U (undefined) o N (null), perché non
appartenenti né all'uno né all'altro dei sistemi nominati. Tutte queste cellule
deriverebbero da un progenitore comune, la cellula germinativa o staminale
prodotta nel midollo e circolante col sangue. A seconda che questa cellula si diriga
nel timo o nelle strutture linfatiche del tubo digerente (ritenute l'equivalente
nell'uomo della borsa di Fabrizio degli uccelli), la sua discendenza sarebbe
condizionata o commissionata per la funzione T o B. Dagli organi linfatici centrali
(timo e stazioni linfatiche del digerente) le cellule così commissionate per la
funzione si dirigerebbero attraverso il circolo sanguigno a popolare gli organi
linfatici periferici o effettori (linfonodi, milza, ecc.; v. Smith, 19777; v. immunologia
e immunopatologia).
Le cellule B e T sono distribuite in maniera caratteristica negli organi linfatici
effettori periferici: le cellule T occupano le aree paracorticali dei linfonodi e le
regioni perivascolari della milza, le cellule B invece sono concentrate nei centri
germinativi dei linfonodi e della milza (i cosiddetti follicoli linfatici a struttura
rotondeggiante concentrica), nelle mucose del tratto gastroenterico e disseminate
nel midollo. Le plasmacellule, che sono cellule mature e funzionanti del sistema B,
appaiono tipicamente localizzate nell'area midollare dei linfonodi, nelle aree
perivascolan della milza e del midollo osseo. Le cellule T rappresentano
normalmente il 70% dei linfociti del sangue circolante mentre il rimanente 30% è
costituito da cellule B e N. I linfociti B e T, sotto l'influenza di mitogeni vegetali e
antigeni ai quali siano stati precedentemente esposti, si trasformano in vitro da
piccoli linfociti in cellule voluminose capaci di moltiplicarsi e metabolicamente
attive, dette immunoblasti, ciò che ha meritato al fenomeno il nome di
blastizzazione.
La fitoemoagglutinina è un mitogeno specifico per i linfociti T, come la fitolacca lo
è per i linfociti B, i quali blastizzano comunque sotto l'azione di svariati antigeni. I
centri germinativi dei linfonodi e della milza sono le sedi della blastizzazione dei
linfociti B in vivo dopo stimolazione antigenica. I linfociti B possono essere anche
identificati selettivamente in laboratorio per la presenza di immunoglobuline di
superficie e di recettori superficiali per il complemento. I linfociti T sono
identificabili per la formazione di rosette con eritrociti di montone dietro
stimolazione da parte di antigeni timo-dipendenti. Anche la morfologia secondo
alcuni servirebbe a differenziare i linfociti T dai B in quanto i primi avrebbero una
superficie relativamente liscia, i secondi una superficie filamentosa o pelosa per
numerosi microvilli che al microscopio elettronico tridimensionale appaiono come
ciuffi di peli (v. Smith, 19777).
Questi progressi dell'immunologia stanno rivoluzionando gli schemi patologici
tradizionali di classificazione dei linfomi (v. Collins e Lukes, 1971; v. Lukes e
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Collins, A functional approach..., 1974). Una classificazione immunologica dei
linfomi è già stata proposta e sta entrando sperimentalmente nell'uso, almeno
come ipotesi di lavoro (v. Lukes e Collins, Immunologic..., 1974). La sindrome di
Sézary, la micosi fungoide, che sono tipi particolari di linfomi cutanei, la leucemia
linfatica acuta dei bambini e, forse, il linfogranuloma maligno o malattia di
Hodgkin sono oggi considerate neoplasie a linfociti T. La leucemia linfatica cronica,
il linfoma linfocitico differenziato, i linfomi del centro germinativo, di aspetto
spesso nodulare come le strutture da cui traggono origine, i linfomi caratterizzati
da abnorme produzione di immunoglobuline e con essi il plasmocitoma, il
mieloma, la macroglobulinemia di Waldeström e il linfoma di Burkitt o africano
sono invece ritenute oggi neoplasie a linfociti B. Accanto a tali due gruppi
principali si considerano poi ancora i sarcomi immunoblastici (a blasti T o B) e i
sarcomi istiocitari, cioè composti da cellule reticolari macrofagiche indifferenziate
corrispondenti alla cellula midollare originaria dei sistemi (v. Lukes e Collins, 1975;
v. Smith, 19777).
Sulla base dei nuovi criteri, numerosi fattori prognostici e di valutazione della
risposta alle terapie sono stati vagliati e saggiati (v. Rozencweig e altri, 1975; v.
Bergsagel, 1975; v. Mathé e altri, 1975; v. Silver, 1975; v. Eckhardt, 1975). Per il
futuro si attende, da un'impostazione concettuale più razionale, un approccio
migliore ai problemi della prognosi e della terapia.
15. Conclusioni
‟Il cancro è sempre stato un ‛problema'. In principio, per quanto personalmente
possa ricordare, era un ‛problema intellettuale' che molti pensavano fosse oltre i
poteri della mente umana di risolvere. Oggi è divenuto un ‛problema biologico',
che, come a volte si dice, i biologi potrebbero risolvere nei ritagli di tempo, se ne
avessero. Il pendolo è probabilmente sfuggito troppo oltre. Il cancro è ancora una
malattia che uccide la gente e i limitati contributi delle ricerche di laboratorio alla
alleviazione delle sofferenze umane bandiscono ogni facile ottimismo" (v. Foulds,
1969).
Di fronte alla impressionante mole di ricerche e di bibliografia sul cancro
accumulatesi durante questo secolo, sta ancora la scarsezza dei risultati utili in
pratica. Di fronte alla fioritura di ipotesi per interpretare il problema biologico del
cancro, sta l'attuale povertà di valide e accettate conclusioni. Ciò forse dipende
anche dal fatto che questa malattia clinica e questo affascinante problema di
laboratorio trascendono i limiti e il linguaggio della patologia. Le basi patologiche
rimangono ancora oggi fondamentali per una impostazione razionale del
problema, ma l'accento va forse posto sulla patologia neoplastica intesa come
processo epigenetico (v. Foulds, 1969), o come accidente evoluzionistico (v. Burnet,
Immunological surveillance, 1970) e non meramente come sviluppo di tumefazioni
palpabili.
È difficile immaginare che soluzioni pratiche di portata rivoluzionaria possano
essere raggiunte fino a quando il problema dell'accrescimento neoplastico non avrà
trovato un'interpretazione biologica soddisfacente nel suo insieme. Ed è perciò da
ritenersi un progresso la formulazione di concetti nuovi che trascendono l'aspetto
anatomo-clinico attingendo al vasto patrimonio di conoscenze della moderna
biologia. Da questo orientamento di pensiero discende l'intuizione che il cancro è
‟un processo inevitabile quanto il progresso evoluzionistico e della stessa natura
generale" (v. Burnet, 1967), come l'affermazione che ‟nessuna teoria sul cancro è
accettabile se non considera le neoplasie come una delle possibili conseguenze
della organizzazione biologica" (v. Foulds, 1969).
Nel corso dell'evoluzione si è reso necessario per gli organismi più complessi di
preservare l'uniformità del tipo cellulare imparando a riconoscere dalle proprie le
strutture estranee e a eliminarle attraverso il fenomeno immunologico del rigetto
(v. Thomas, 1959). Per tali scopi si è sviluppato negli organismi superiori il sistema
dell'immunità cellulare imperniato sul timo, sugli organi linfatici periferici, sui
linfociti circolanti, dotato della capacità di rigettare i tessuti eterogenei. Questo
sistema sembra rivelarsi oggi come un meccanismo primario nella difesa naturale
contro le neoplasie attraverso la ‛sorveglianza immunologica'. Ma è probabile che la
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stessa modificazione flessibile del controllo genetico, necessaria per lo sviluppo del
sistema immunitario e per la comparsa in ogni specie degli antigeni specifici di
istocompatibilità, sia stata anche responsabile della comparsa del cancro come
malattia nei Vertebrati (v. Burnet, Immunological surveillance..., 1970).
L'insieme delle informazioni derivate dallo studio delle metastasi dei tumori
nell'uomo e del trapianto dei tumori negli animali, indica che il comportamento
neoplastico dipende da una modificazione cellulare stabile, probabilmente
irreversibile, replicabile e verosimilmente presente in tutte le cellule neoplastiche.
La prova decisiva della donazione (trapianto di una sola cellula), necessaria per
sostanziare questa opinione, è tecnicamente difficile e di rado ha successo. Ma la
donazione di un teratocarcinoma trapiantabile fornisce evidenze convincenti di un
meccanismo stabile e replicabile entro le singole cellule, responsabile di tutti i
dettagli della struttura neoplastica e del comportamento, il quale dunque possiede
e trasporta con sé la ‛memoria morfogenetica' o il ‛programma di sviluppo' di un
archetipo tumorale estremamente complesso, analogamente a quanto avviene per
la ‛differenziazione biologica' lungo tutta la scala degli esseri viventi (v. Foulds,
1969). Inoltre, dalla sperimentazione con virus dei tumori mammari murini, è
emersa la dimostrazione che informazioni genetiche complete per la struttura
morfologica e il comportamento biologico dei tumori sono possedute e trasmesse
stabilmente dagli acidi nucleici virali (v. Squartini e altri, 1963).
Lo studio anatomo-clinico delle neoplasie e la ricerca sperimentale hanno prodotto
un'inverosimile quantità di conoscenze empiriche o di fatti senza fornire nel
contempo un adeguato linguaggio per la loro comprensione, o concetti efficaci per
la loro sintesi (v. Foulds, 1969). Tali concetti, e il linguaggio biologico necessario
alla decodificazione del problema, cominciano oggi ad affiorare, offrendosi per
l'approfondimento e la meditazione. Al termine di una rassegna, necessariamente
sommaria, dei risultati accumulati in quasi mezzo secolo conforta percepire, nella
pensosa rielaborazione concettuale dei fatti, quasi il presagio di una soluzione.
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Oncologia sperimentale
di Luigi Califano
sommario: 1. Introduzione: a) cenni storici sullo sviluppo delle moderne ricerche
di oncologia; b) i tumori spontanei degli animali; c) i ceppi inbred; d) la coltura di
cellule in vitro; e) il fenomeno della trasformazione. 2. Cancerogenesi chimica: a)
idrocarburi; b) azocomposti; c) uretano; d) mostarde, etilenimmine, epossidi; e)
aflatossina e cicasina; f) agenti chimici endogeni; g) etionina; h) metalli e non
metalli; i) cenni sui meccanismi d'azione dei carcinogeni chimici; l)
cocancerogenesi; m) il fumo del tabacco. 3. Cancerogenesi fisica: a) radiazioni
ultraviolette; b) raggi X, isotopi radioattivi, radiazioni ionizzanti; c)
cancerogenesi da solidi. 4. Cancerogenesi virale: a) caratteristiche generali dei
virus oncogeni; b) virus polioma e SV40; c) tumori da virus erpetici: il linfoma di
Burkitt e l'adenocarcinoma di Lucké del rene di rana; d) il sarcoma di Rous; e) il
complesso sarcoma-leucemia del topo; f) il fattore latte. 5. Cenni di biologia
molecolare della cancerogenesi. 6. Metabolismo energetico della cellula
neoplastica. 7. Cenni di immunologia oncologica. 8. Ormoni e cancro. 9.
Conclusioni. □ Bibliografia.
1. Introduzione
a) Cenni storici sullo sviluppo delle moderne ricerche di oncologia
Il problema del cancro, uno dei più travagliati della medicina per le difficoltà
diagnostiche di molte delle sue forme e per la limitata efficacia dei sussidi
terapeutici, da pochi anni è divenuto anche uno dei più complessi della biologia.
Si può a ragione dire ‛da pochi anni', perché in effetti solo molto recentemente si è
avuta tale concentrazione di sforzi nelle ricerche da dare l'impressione che la
cancerologia sia disciplina nuova o nuovissima; se si paragona ciò che si conosce
oggi con quanto si sapeva nei primi trenta anni di questo secolo, si ha l'impressione
di due mondi culturali diversi.
Ciò non significa che non fosse viva, già negli ultimi decenni del secolo scorso,
l'ansia di conoscere da una parte la causa o le cause del cancro, dall'altra il
meccanismo o i meccanismi con cui un tessuto diventa canceroso. I progressi nelle
conoscenze erano, però, pochi e in parte incerti, onde la diffusa sfiducia di
conseguire solide acquisizioni, e ciò in contrasto con quanto era avvenuto o
avveniva per le malattie infettive, delle quali venivano progressiva- mente isolati i
vari agenti patogeni, con scoperte seguenti a scoperte in quella che ancora oggi si
indica con la romantica espressione di ‛epoca d'oro della batteriologia'.
Sembrava, in sostanza, che il mistero del cancro fosse insolubile in quanto legato al
mistero stesso della vita, e quando affiorò qualche scoperta, che solo dopo molti
anni fu riconosciuta di essenziale importanza, essa fu riguardata, anche da
eminenti patologi, con scetticismo e considerata piuttosto come curiosità biologica,
priva di significato generale.
Tanto scetticismo proveniva principalmente dal fatto che i tumori colpiscono
l'uomo a caso, come a caso insorgono in uno o in un altro organo, e che mai era
stato possibile dimostrare la loro contagiosità anche tra persone viventi nello stesso
ambiente e con abitudini di vita praticamente identiche, sebbene fossero note le
cosiddette ‛famiglie a cancro', cioè famiglie con notevole incidenza di tumori
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maligni.
L'epoca che potrebbe dirsi scientifica dell'oncologia ebbe inizio nel 1908, quando V.
Ellermann e O. Bang (v., 1908) scoprirono che una forma di leucemia dei polli era
prodotta da un virus filtrabile, e si consolidò pochi anni dopo, quando P. Rous (v.,
1911) scoprì che un sarcoma del pollo era anch'esso prodotto da un virus filtrabile.
In realtà, Giuseppe Sanarelli nel 1898 aveva già scoperto che il mixoma del coniglio
era prodotto da un virus filtrabile (v. Sanarelli, 1898), ma né la scoperta di
Ellermann e Bang, né quella di Rous e meno ancora quella di Sanarelli suscitarono
molto interesse tra gli studiosi, per la già accennata considerazione che nell'uomo
la leucemia e il sarcoma non mostrano caratteri di contagiosità tali da far
sospettare una eziologia da agenti infettivi quali sono i Virus; per quanto riguarda il
mixoma del coniglio, inoltre, sorsero dubbi sulla sua natura neoplastica, dubbi che
tuttora permangono.
Successivamente fu dimostrata l'eziologia virale di altri tumori di Mammiferi, ma
la situazione essenzialmente non mutò fino a quando K. Yamagiwa e K. Ichikawa
(v., 1914) scoprirono che la pennellatura con catrame della cute del padiglione
dell'orecchio del coniglio, ripetuta per molti mesi, causava un tumore epiteliale in
tutto simile ad alcune forme di tumori umani. Da tale scoperta prese l'avvio
l'affannosa ricerca della sostanza o delle sostanze contenute nel catrame capaci di
determinare formazione di tumori, e con ciò ebbe inizio l'era degli studi sulla
cancerogenesi chimica che tanta luce doveva portare nell'oscuro problema.
In quegli anni inizio, in altra direzione, l'opera di O. Warburg (v., 1926) che portò
alla scoperta di quel peculiare metabolismo della cellula cancerosa, la glicolisi
aerobica, che tuttora è considerato la sua più importante diversità metabolica
rispetto alla cellula normale.
Successivamente, dopo la scoperta che da attività cancerogena sono caratterizzati
non solo molti idrocarburi, ma anche sostanze che con questi non hanno alcuna
relazione strutturale, l'elenco dei carcinogeni chimici si è enormemente accresciuto
e sono stati isolati o sintetizzati sia idrocarburi naturali o artificiali a enorme
attività oncogena, sia sostanze da questi differenti in grado di produrre tumori di
vari organi. Oggi si dispone pertanto di composti capaci di indurre tumori
sperimentali in animali di differenti specie e in organi diversi, si e cioè in grado di
cancerizzare un tessuto a volontà.
Con tali scoperte, naturalmente, sono sorti nuovi e più intricati problemi, primo tra
tutti quello di comprendere come sostanze chimicamente tanto dissimili tra loro
producano praticamente sempre lo stesso effetto, e se i vari carcinogeni chimici, o
almeno le varie classi di questi, agiscano infine agli stessi livelli del metabolismo
cellulare ovvero in siti differenti.
Alla quasi indifferenza per le prime scoperte di virus oncogeni, è succeduto negli
ultimi anni un gran fervore di ricerche su di essi, non inferiore a quello che suscitò
la cancerogenesi chimica. Le scoperte, da parte di Shope, del fibroma (v. Shope,
1932) e poi del papilloma del coniglio (v. Shope, 1934) segnarono certamente passi
importanti nello sviluppo dell'oncogenesi virale. Questa, al momento attuale,
costituisce il campo di maggiore interesse, sia per sperimentazione sia per
considerazioni generali, soprattutto da quando è stato dimostrato che vari altri
tumori di animali, appartenenti a generi e specie diverse, sono prodotti da virus,
identificati alla microscopia elettronica e in colture di cellule. La scoperta del virus
polioma (v. Gross, 1953; v. Stewart, 1953) ha segnato una svolta decisiva in questo
settore di studi, perché esso è risultato capace di determinare in uno stesso ospite
tumori a differente struttura istologica, mentre gli altri virus studiati in precedenza
determinano in genere un solo tipo di tumore o tumori di tipi istologici molto
affini. La possibilità di ottenere allo stato di grande purificazione e in quantità
cospicue il virus polioma ha consentito di eseguire indagini altrimenti impossibili.
Molto ha contribuito all'attuale interesse per i virus oncogeni anche la scoperta
effettuata da J. J. Bittner, nel 1936 (v. Bittner, Some possible..., e The
receptibility..., 1936), di un virus presente nel latte di alcuni ceppi di topi, che si
trasmette dalla madre alla prole, scoperta che ha suscitato la speranza di poter
individuare un analogo fattore per il cancro della mammella della donna. Molto ha
contribuito e contribuisce alle ricerche sui virus oncogeni la scoperta del virus del
sarcoma-leucemia del topo, di quello dell'adenocarcinoma del rene della rana e,
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per quanto più strettamente riguarda la patologia umana, lo studio del tumore di
Burkitt dei bambini dell'Uganda; ancor più recentemente, inoltre, sono stati
scoperti i virus di tumori di scimmie, di Felini e di vari altri animali.
Tutto ciò ha portato a quella che può dirsi la riscoperta del virus di Rous, di cui
sono stati isolati vari ceppi con proprietà alquanto differenti tra loro, alcuni dei
quali sono anche trasmissibili in Mammiferi. Solo, dunque, dopo cmquant'anni è
stata giustamente valorizzata una grande scoperta, così che al Rous venne conferito
il premio Nobel per la medicina nel 1966, quando egli aveva ormai ottantasette
anni.
Naturalmente, le ricerche di virologia oncologica sono state rese possibili dagli
enormi sviluppi delle tecniche di identificazione e di isolamento dei Virus in
generale, e in particolare dai metodi elaborati per lo studio del fago e dalla grande
mole di notizie raccolte abbastanza rapida- mente su questo agente.
Uno dei mezzi tecnici più utili per tali ricerche è risultato quello delle colture in
vitro, largamente impiegate in biologia e particolarmente in virologia quale mezzo
principale per la coltura dei Virus; sono stati in tal modo ottenuti risultati
interessanti anche dal punto di vista pratico, in quanto si è giunti a selezionare
ceppi di virus a scarsissimo o nullo potere patogeno, ma a capacità immunizzante
corrispondente a quella dei ceppi virulenti. In seguito a questi studi si sono potuti
preparare il vaccino Sabin contro il virus della poliomielite, e successivamente il
vaccino antimorbilloso. Dell'impiego delle colture in vitro negli studi di oncologia
sarà detto successivamente; qui basti accennare che esse hanno reso possibile
realizzare in vitro la cosiddetta trasformazione, cioè l'induzione alla
cancerizzazione di una singola cellula che, in dipendenza di tale evento, diventa
distinguibile dàlle cellule normali circostanti. È stato anche possibile, per mezzo
delle colture in vitro, isolare e distinguere per uno stesso virus tipi diversi, alcuni
dotati e altri privi di attività oncogena; un tipico esempio è rappresentato dagli
adenovirus dell'uomo.
La penetrazione di un virus in una cellula della quale determina la trasformazione
significa introduzione di materiale genico virale nel genoma della cellula ospite. Si
arriva così dal livello cellulare e subcellulare a quello più strettamente molecolare,
cioè all'interazione tra acido nucleico cellulare e acido nucleico virale o tra prodotti
della loro attività. Con ciò il problema dell'oncogenesi è diventato, nella sua
essenza, problema di biologia molecolare e non pochi progressi di questa
relativamente nuova disciplina traggono origine e sviluppo dall'oncologia
sperimentale.
La constatazione della relativa frequenza di neoplasie in persone ripetutamente
esposte all'azione di radiazioni di vario tipo e la produzione sperimentale di tumori
a mezzo di radiazioni ha portato a riconoscere anche una cancerogenesi fisica.
Fisica è anche la cancerogenesi da solidi, il cui recente riconoscimento è dovuto
all'osservazione di quei tumori che si sviluppano per introduzione negli animali di
lamine di sostanze plastiche o di alcuni metalli.
Si suole, pertanto, classificare gli agenti oncogeni in chimici, fisici e biologici
(Virus): classificazione arbitraria, come tutte le classificazioni, ma tuttora usata,
anche se appare chiaro che il meccanismo dell'oncogenesi deve essere indagato,
come si è detto, a quei livelli del metabolismo sui quali direttamente o
indirettamente si esercita l'influenza degli agenti carcinogenetici, quale che ne sia
l'origine e la natura.
Lo studio dell'eziologia e della patogenesi delle malattie dell'uomo è tanto più
agevole quanto più fedele ne è la riproduzione in animali da laboratorio. Secondo
uno dei postulati di R. Koch, perché un germe possa sicuramente ritenersi
responsabile di una malattia infettiva la sua inoculazione in animali da
esperimento deve determinare la comparsa di espressioni cliniche e
anatomopatologiche proprie della malattia in studio.
Con la produzione della malattia sperimentale è altamente facilitata la scoperta di
mezzi terapeutici quali i chemioterapici e gli antibiotici.
Se la malattia umana non è riproducibile negli animali o se in questi non si
riscontra una malattia spontanea a essa paragonabile, i progressi nelle conoscenze
sono molto più lenti, perché la base di sperimentazione è enormemente più
limitata.
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Da ciò l'origine di una delle più importanti discipline medico-biologiche, cioè della
medicina sperimentale, e la conseguente creazione di istituti di libera ricerca nel
mondo, quali l'Institut Pasteur di Parigi, il Preussisches Institut (poi Koch's
Institut) für Infektionskrankheiten di Berlino, il Rockefeller Institute for Medical
Research di New York, e tanti altri.
b) I tumori spontanei degli animali
Sino agli inizi del XIX secolo si riteneva, in generale, che il cancro fosse una
malattia esclusiva dell'uomo non riscontrabile negli animali. Tale convinzione
doveva poi cadere, quando si incominciò a osservare l'incidenza di tumori benigni e
maligni in molte specie animali. Talvolta furono anche compiuti tentativi di
trapianto di tumori spontanei in animali della stessa specie, con risultati in alcuni
casi positivi, ma invalidati dall'interruzione della trasmissione. I primi consistenti
tentativi di trapiantare tumori spontanei da animale ad animale della stessa specie
furono compiuti in vari laboratori (v. Loeb, 1901; v. Borrel, 1903; v. Jensen, 1903),
ma il maggiore impulso fu dato da P. Ehrlich e H. Apolant nel 1905 con il trapianto
di sarcomi e specialmente di adenocarcinomi mammari del topo.
Tumori di quest'ultimo tipo sono tuttora impiegati in molti laboratori,
specialmente nella forma ascitica; l'introduzione endoperitoneale di cellule isolate
è seguita dalla comparsa di ascite, e in tale liquido le cellule continuano a
moltiplicarsi rimanendo libere le une dalle altre, sospese nel liquido. In tal modo è
possibile eseguire ricerche confrontabili, almeno entro certi limiti, con quelle
condotte su cellule cancerose coltivate in vitro.
Nei trapianti iniziali di tumori la percentuale di attecchimento variava molto, per
cui non si ottenevano risultati costanti. Ehrlich vide che il trapianto frequente
faceva diminuire lo scarto e credette che tale fatto fosse dovuto a un fenomeno di
‛virulentazione' del ceppo di tumore, in analogia a quanto era stato osservato per
alcuni microbi che, trasferiti frequentemente da animale ad animale, acquistano
maggiore virulenza, cioè incremento della capacità di uccidere gli animali da
esperimento: in altre parole, a seguito dei ripetuti passaggi si otteneva una
progressiva diminuzione, fino a un dato livello stazionario, del numero dei microbi
necessario per l'effetto letale. E ora ben noto che il fenomeno dell'esaltazione della
virulenza dei Batteri dipende dalla selezione che i poteri immunitari dell'organismo
operano nei loro confronti, per cui muoiono i germi meno virulenti e sopravvivono
quelli dotati di virulenza più elevata, onde alla fine solo questi si moltiplicano. In
modo analogo si può spiegare la virulentazione delle cellule neoplastiche, cioè
come un fenomeno in rapporto non all'acquisizione di nuove proprietà, bensì
all'eliminazione delle cellule immunosensibili.
Nonostante tali acquisizioni, il trapianto di tumori da animale ad animale, specie
per alcuni tipi di neoplasie e per alcune specie, dava sempre risultati non
soddisfacenti proprio per l'incostanza dei risultati. Un passo decisivo fu compiuto
con la selezione di ceppi di topi geneticamente puri.
c) I ceppi inbred
I ceppi inbred si selezionano incrociando fratelli e sorelle e talvolta genitori e figli. I
primi risultati furono ottenuti da C. C. Little dell'Università di Harward
selezionando il ceppo DBA (Dilute Brown), ma solo nel 1919, dopo varie traversie,
Little a Cold Spring Harbor (v. Little, 1947) riuscì a ottenere allevamenti
consistenti di tale ceppo, che tuttora è largamente impiegato (v. Gross, 1970). Un
ceppo famoso è il C3H, ottenuto da L. C. Strong (v., 1935), che presenta alta
incidenza spontanea di tumore della mammella. In parallelo fu isolato un ceppo
detto X (CBA di Strong), sempre inbred, a bassissima frequenza di tumore della
mammella; e così fu resa possibile la scoperta di Bittner (v., Some possible..., e The
receptibility..., 1936) del fattore del latte, cui si è precedentemente accennato.
Un ceppo di topi molto in uso è lo Swiss, allevato originariamente in un laboratorio
svizzero e poi in America e in altri paesi.
Si conosce anche un ceppo inbred con frequenza del cinquanta per cento di tumori
delle ossa. I ricercatori dispongono oggi di ceppi nei quali la frequenza spontanea
di un dato tipo di tumore è assai elevata e di ceppi, utilizzabili come controllo, nei
quali tale frequenza è al contrario bassa o nulla. Sono stati progressivamente isolati
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ceppi, inbred ad alta e rispettivamente bassa incidenza di tumori di vari organi e di
leucemie, che costituiscono praticamente il materiale sperimentale di ogni
laboratorio di oncologia.
Al fine di disciplinare e standardizzare la nomenclatura dei ceppi inbred di topi fu
costituito nel 1952 un comitato il quale periodicamente integra la lista dei ceppi già
noti con quelli di nuovo isolamento.
Anche per altre specie animali sono disponibili ceppi inbred, ma i caratteri sono
meno selezionati che per il topo: ciononostante, essi costituiscono un materiale per
le prove sperimentali di gran lunga più adatto che i ceppi non selezionati.
Si conoscono ora oltre cinquanta tipi di tumori trapiantabili, così che si dispone di
tumori praticamente di tutti gli organi compresi quelli del sistema nervoso e di
ghiandole endocrine; essi sono disponibili presso il National Institute of Health di
Bethesda.
d) La coltura di cellule in vitro
Altro ausilio tecnico di essenziale importanza per la cancerologia, come si è già
accennato, è offerto dalla possibilità di coltivare le cellule, malgrado alcune
limitazioni dipendenti dalle diversità di condizioni di vita rispetto alle cellule
dell'organismo. Lo studio delle colture cellulari presenta inestimabili vantaggi tra i
quali importantissimo quello di consentire osservazioni in assenza di fenomeni
immunitari, che in vivo interferiscono spesso validamente con l'attecchimento dei
trapianti di tumori o di cellule trasformate in vitro.
Le colture in vitro hanno messo in evidenza fenomeni del più alto interesse: uno di
questi consiste nel fatto che mentre le cellule normali generalmente si sviluppano
in vitro solo per alcune generazioni (a eccezione di alcune linee di recente
osservazione), quelle dei tumori si sviluppano invece indefinitamente.
Con adatti accorgimenti tecnici, e in particolare con la frequente sostituzione del
liquido di sviluppo, si riesce a mantenere in coltura alcune cellule normali per vari
mesi. A tali colture si dà il nome convenzionale di ceppi (cell strains); una buona
percentuale di questi, però, dopo un tempo più o meno lungo muore. Talvolta,
invece, le colture diventano stabili, acquisiscono cioè la proprietà della
moltiplicazione illimitata, e in tal caso a queste cellule si dà il nome di linee
cellulari (cell lines). Sono al presente note varie linee cellulari normali e tumorali.
Alcune linee derivano da fibroblasti di embrioni di topo di alcuni ceppi inbred,
altre da fibroblasti di embrioni di hamster, una da cellule renali di scimmia verde
africana. Finora non si è riusciti a ottenere linee cellulari umane, mentre si dispone
di linee di tumori umani tra cui famosa, perché largamente impiegata, la linea Hela
proveniente da cellule di un tumore uterino. Un'altra linea di tumore umano usata
nell'oncologia virale è quella indicata con la sigla Kb, proveniente da un carcinoma
del nasofaringe, che permette la crescita di adenovirus isolati dall'uomo.
e) Il fenomeno della trasformazione
Un'altra importante proprietà cellulare messa in evidenza con gli studi delle colture
in vitro è quella della perdita dell'inibizione da contatto, per azione sia di
carcinogeni chimici sia di virus.
Per l'allestimento delle colture, si opera il distacco delle cellule dal tessuto di
provenienza per mezzo della digestione con tripsina delle strutture interstiziali. Le
cellule, libere le une dalle altre, si muovono nel liquido di coltura fino a quando
non entrano in contatto tra loro; allora cessano i movimenti e si affiancano. Il
contatto reciproco delle cellule determina anche la cessazione dell'attività mitotica.
In tal modo per la scomparsa della motilità e della capacità di moltiplicarsi si forma
un tappeto monostratificato di cellule contigue e la coltura entra in fase
stazionaria. A tale fenomeno di cessazione dei movimenti e blocco della
moltiplicazione si dà il nome, proposto da M. Abercrombie (v., 1961 e 1962) che
scopri il fenomeno, di ‛inibizione da contatto'. Le cellule di tumore, invece di
crescere in tappeto, restano libere fra loro nei terreni liquidi, mentre si
sovrappongono in più strati formando dei cumuli ben identificabili in colture in
agar molle, costituendo quelli che sono anche chiamati foci di trasformazione.
La morfologia delle cellule trasformate è molto diversa da quella delle cellule di
colture normali: i fibroblasti normali, ad esempio, hanno forma fusata, ma quando
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sono trasformati diventano rotondeggianti e molto spesso presentano variazioni
del numero dei cromosomi. Altra importante caratteristica è che le cellule
trasformate crescono con maggiore velocità, così che la loro densità, cioè il numero
di cellule per un dato volume o una data superficie, aumenta nettamente.
Molti ritengono che l'inibizione da contatto sia l'espressione di un meccanismo di
regolazione dello sviluppo, e che la perdita ditale capacità potrebbe, almeno in
parte, spiegare la crescita illimitata o, come si dice, sfrenata delle cellule
neoplastiche: queste, cioè, sarebbero caratterizzate dalla perdita di uno dei
controlli della moltiplicazione.
Alcuni fatti indicano che nella trasformazione si verificano alterazioni di una certa
entità a livello della membrana cellulare. Si è visto che nelle cellule trasformate da
virus di Rous diminuisce notevolmente la concentrazione
dell'adenosinmonofosfato ciclico, c-AMP, potente regolatore di molti processi
metabolici, mediatore della risposta cellulare a vari ormoni.
Tale diminuzione del c-AMP pare sia di essenziale importanza nel processo di
trasformazione, come risulta dall'importante constatazione che la sua aggiunta a
cellule infettate con virus di Rous ne blocca la trasformazione in cellule
neoplastiche. Ricerche sull'agglutinabilità delle cellule condotte con l'impiego di
una sostanza di natura proteica, la concanavalina A, e di due glicoproteine, tutte di
origine vegetale e in grado di legarsi a tre differenti carboidrati, hanno consentito
di dimostrare anzitutto che nel processo di trasformazione le alterazioni della
membrana cellulare svolgono un ruolo di primaria importanza; inoltre, che sulla
superficie di fibroblasti trasformati in vitro esistono almeno tre siti differenti,
corrispondenti ai tre carboidrati legabili dalle tre diverse agglutinine, ai quali per
analogia con altre situazioni biologiche si dà il nome di recettori. Non è escluso che
oltre ai tre recettori individuati, ne esistano altri con diversi carboidrati. Ciò
dimostra l'esistenza di una sostanziale differenza tra superfici, cioè membrane
delle cellule agglutinabili, in particolare di quelle trasformate, e membrane delle
cellule normali. Tale differenza consisterebbe nella posizione dei recettori, che
nella cellula normale sarebbero situati più all'interno della membrana, quindi non
esposti e non combinabili con agglutinine, mentre nella cellula trasformata
sarebbero più all'esterno, quindi esposti.
Questa spiegazione è convalidata dal fatto che cellule normali sottoposte a
digestione con tripsina divengono agglutinabili sia dalla concanavalina sia
dall'agglutinina da germi di grano. Si ha ragione di credere che i recettori per
l'agglutinina da semi di soia sarebbero situati più profondamente degli altri nella
membrana cellulare, in quanto solo alcune cellule trasformate sono da essa
agglutinabili, e per rendere agglutinabili quelle normali il trattamento con tripsina
deve essere protratto.
Il meccanismo con il quale le cellule neoplastiche divengono agglutinabili dalle tre
sostanze non è chiaro, ma il fenomeno verosimilmente indica che nel passaggio da
cellula normale a trasformata si ha perdita di qualche costituente chimico del tutto
periferico nella cellula.
Si è anche prospettata l'idea che nelle cellule trasformate i recettori che legano le
agglutinine siano più ad- densati in alcuni tratti della membrana, quindi più
facilmente combinabili con le agglutinine vegetali (fenomeno del caping).
Connessi probabilmente con questo sono altri due fenomeni indicati come
adhesivity e stickiness: parole che, se pure traducibili in italiano ambedue con
‛adesività', esprimono tuttavia due concetti differenti e pertanto vengono
comunemente impiegate in inglese. Secondo D. R. Coman (v., 1961), il primo di
questi due termini indica la forza che si oppone alla separazione meccanica di due
cellule unite tra loro, il secondo la tendenza di una cellula ad aderire a un
substrato, ad esempio alla superficie di un vetro. Secondo lo stesso Coman, mentre
le cellule normali sono dotate di grande adhesivity ma di scarsa stickiness, quelle
neoplastiche mostrano caratteri opposti. In altri termini, le cellule normali tendono
ad aderire fortemente tra loro, quelle neoplastiche molto meno ; ma mentre le
normali si attaccano debolmente alle superfici, quelle neoplastiche, invece, vi si
fissano più fortemente. Probabilmente questi due fenomeni sono solo aspetti
particolari dell'inibizione da contatto, cioè delle alterazioni alle quali lo strato
periferico della cellula va incontro nel passaggio a cellula trasformata, per cui le
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cellule normali aderiscono tra loro e formano tappeto, mentre le neoplastiche non
aderiscono tra loro e restano libere o si pluristratificano. Sarebbe interessante
conoscere quale ruolo i vari siti sensibili alle diverse agglutinine svolgano nei due
fenomeni di adhesivity e di stickiness.
La diminuzione della adhesivity viene ritenuta da Kojima e Sakai (v., 1964) fattore
di rilievo per la formazione delle metastasi, perché, essendo deboli le forze
intercellulari, alcune cellule facilmente si staccano dalle altre, passano nel sangue o
nella linfa e possono colonizzare a distanza.
2. Cancerogenesi chimica
Frequentemente in medicina l'osservazione clinica ha determinato l'inizio di
ricerche biologiche che, a loro volta, hanno giovato alla soluzione del problema
pratico; così pure in cancerologia partendo da osservazioni cliniche si è giunti allo
studio e alle scoperte della cancerogenesi chimica. Tali ricerche hanno portato
all'identificazione di composti ad attività carcinogenetica e, conseguentemente,
hanno prospettato il problema delle modalità secondo le quali queste sostanze
determinano la trasformazione di una cellula normale in cellula neoplastica.
Nel 1775-1778 P. Pott, famoso medico inglese noto anche per la prima descrizione
della tubercolosi dei corpi vertebrali, richiamò l'attenzione sulla frequenza di
tumori dello scroto negli spazzacamini (v. Pott, 1778).
Un secolo più tardi, R. V. Volkmann (v., 1875) descrisse un secondo tipo di cancro
professionale, cioè l'epitelioma cutaneo nei lavoratori del catrame o della paraffina.
Tuttavia, i primi tentativi di riprodurre sperimentalmente tumori in animali da
laboratorio mediante spennellatura della cute con catrame di carbone non furono
coronati da successo: infatti A. N. Hanau (v., 1889) non ottenne alcun risultato, né
vero risultato positivo ottenne H. Bayon (v., 1912).
Il problema fu quindi abbandonato per alcuni anni, per quanto fosse sempre
evidente uno stretto rapporto tra catrame e cancro, finché Yamagiwa e Ichikawa
(v., 1914), dopo aver spennellato pazientemente per mesi con catrame la cute del
padiglione di orecchi di conigli, ottennero lo sviluppo di veri cancri cutanei a larga
capacità infiltrativa nel derma. Fu così dimostrato sperimentalmente quanto
l'osservazione clinica aveva notato, cioè che il cancro dei lavoratori del catrame è
dovuto all'azione di tale sostanza, ed ebbe quindi inizio la cosiddetta era della
cancerogenesi chimica.
Ma l'interesse per i tumori da catrame si destò in Europa solo alcuni anni dopo la
prima guerra mondiale, e dopo che la dimostrazione fornita da H. Tsutsui (v., 1918)
della possibilità di provocare sperimentalmente cancri cutanei da catrame sulla
cute di topi stimolò e facilitò lo sviluppo delle ricerche in proposito. Infatti, qualche
anno dopo, R. D. Passey (v., 1922) con l'applicazione di estratti eterei di fuliggine
sulla cute dei topi ottenne lo sviluppo di cancri cutanei, riproducendo così
sperimentalmente il cancro dello scroto degli spazzacamini, secondo il citato nesso
di dipendenza prospettato dal Pott.
Il catrame è una complessa miscela di sostanze organiche e inorganiche: si
imponeva, quindi, la necessità di isolare da esso la sostanza o le sostanze dotate di
potere oncogeno. Eliminata la possibilità che questo fosse dovuto a costituenti
inorganici del catrame e in particolare all'arsenico, nel quale vari ricercatori
avevano inizialmente creduto di individuare l'elemento responsabile della
cancerizzazione per la diffusa opinione circa il presunto potere oncogeno di tale
elemento (cancro da arsenico), fu presto accertato che l'attività oncogena è
riferibile a idrocarburi aromatici e precisamente a quelli che distillano tra 300 e
400 °C: dunque, idrocarburi a elevato peso molecolare. Un importante progresso
fu realizzato da E. L. Kennaway (v., 1924 e 1925), che ottenne composti
cancerogeni molto potenti trattando l'acetilene e l'isoprene in atmosfera di
idrogeno ad alta temperatura (idrocarburi artificiali). Il riconoscimento degli
idrocarburi nei distillati, e nei tessuti con essi trattati, fu inoltre facilitato dalla
scoperta che le sostanze biologicamente attive sono contenute nelle frazioni del
distillato il cui spettro di assorbimento presenta tre massimi, cioè a 400, 418 e 440
mm (v. Hieger, 1930).
Carcinogeni furono anche ottenuti da sostanze presenti nell'organismo, come il
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colesterolo, nonché da estratti di pelle, di capelli ecc. (v. Hieger, 1946, 1947, 1949 e
1959). Anche da oli minerali furono ottenuti carcinogeni (v. Leitch, 1922).
a) Idrocarburi
L'1-2-benzantracene fu il primo composto puro, individuato nel 1933 da I. Hieger
(v.), il cui spettro di fluorescenza si avvicinava a quello della frazione attiva, anche
se non si identificava con esso. Peraltro né tale composto né l'antracene da cui esso
deriva avevano attività cancerogena.
Formula
Tuttavia l'identificazione dell'1,2-benzantracene servì da guida per scoprire altri
tipi molecolari a esso analoghi e rese così possibile trovare il primo potente
carcinogeno, cioè l'1,2:5,6-dibenzantracene (v. Kennaway e Hieger, 1930).
Formula
Da allora sono stati isolati oltre trecento idrocarburi cancerogeni a potenza
variabile. Alcuni, che determinano l'insorgenza di tumore solo in qualche specie
animale e solo in qualcuno degli animali trattati, in genere dopo un lungo periodo
di latenza, vengono indicati come carcinogeni deboli o debolissimi. Al contrario, si
conoscono idrocarburi che in varie specie animali (topo, ratto, coniglio, criceto,
piccione ecc.) e in vari tessuti inducono la formazione di tumori che ripetono la
struttura dei tessuti dai quali originano (epiteliomi negli epiteli, sarcomi nel
connettivo sottocutaneo, rabdomiomi nel tessuto muscolare, osteosarcomi nelle
ossa ecc.). Non è accertata la possibilità della produzione di tumori del tubo
digerente per mezzo di idrocarburi anche molto potenti, come dubbia è quella di
indurre con tali sostanze leucemie e tumori della mammella.
Di due altri idrocarburi aromatici occorre far cenno, per il particolare significato
che hanno avuto in questi studi (v. Hieger, 1961). Uno è il 3,4-benzopirene
Formula
la cui importanza nella storia della cancerologia deriva dal fatto che il suo spettro
di fluorescenza è il più intenso tra tutti, onde è servito da guida per il
riconoscimento e per l'isolamento delle molecole biologicamente più attive in una
miscela di idrocarburi.
L'altro è il 3-metilcolantrene, uno tra i più potenti carcinogeni che si conoscano.
Formula
È interessante il fatto che il metilcolantrene fu preparato per la prima volta da H.
Wieland ed E. Dane (v., 1933) dall'acido desossicolico e poi da W. Rossner (v.,
1937) dal colesterolo, cioè da due componenti naturali degli organismi. Con ciò si
poneva il quesito, peraltro non ancora risolto, se sia possibile che nell'organismo
dall'acido desossicolico e in particolare dal colesterolo abbiano origine molecole
tipo metilcolantrene.
Tra gli idrocarburi debolissimi e quelli ad altissima attività si inseriscono, in
graduale successione, gli altri. Nella sperimentazione si impiegano in genere o
quelli debolissimi o, all'opposto, quelli altamente attivi. I primi vengono
specialmente usati nelle ricerche con i cosiddetti fattori cocancerogeni, cioè fattori
di per sé innocui o a debolissima attività oncogena, ma capaci di potenziare
fortemente l'attività dei carcinogeni deboli.
L'alchilazione in determinati punti dello scheletro di alcuni idrocarburi aromatici
induce la comparsa di attività cancerogena o il suo potenziamento. L'alchile più
attivo è il metile, poi l'influenza decresce con l'aumentare dei carboni fino ad
annullarsi in corrispondenza dei derivati butilici. L'introduzione di un secondo
metile incrementa l'attività cancerogena, ma solo per alcuni idrocarburi, e forse
anche per un terzo metile si determina un lieve rafforzamento rispetto al
dimetilderivato; ulteriori metilazioni non fanno aumentare l'attività. Un fatto
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importante, risultato dalle numerose ricerche eseguite sullo scheletro
fondamentale dell'1,2-benzantracene, è che esistono in esso punti di massima
sensibilità all'alchilazione situati a livello dei carboni in posizione 5, 9 e 10; molto
meno sensibili sono quelli in posizione 6, 7, 8, 3, 4, e del tutto insensibili quelli in
posizione 1′, 2′, 3′ e 4′. Il punto di massima sensibilità del crisene è, invece, il
carbonio in posizione 2, un poco meno sensibili sono quelli in 1 e in 6.
Formula
Si può anche, per metilazione in alcuni punti, far perdere all'idrocarburo ogni
attività cancerogena: tale è il caso del 3,4-benzopirene, molecola che per
metilazione dei carboni 2′ e 3′ diviene inattiva. L'introduzione nelle molecole di
idrocarburi di altri gruppi altamente reattivi come OH, COOH, CH2Cl ecc. porta
alla loro inattivazione come cancerogeni; ma anche questa non è regola generale,
perché in alcuni, come il 10-metil-1,2-benzantracene, alcune sostituzioni non
alterano praticamente il potere oncogeno.
L'idrogenazione inattiva i carcinogeni; l'introduzione di un idrogeno in uno dei
doppi legami di uno degli anelli aromatici induce abbassamento del potere
oncogeno, che va completamente perduto se l'idrogenazione della molecola è
completa.
L'attività cancerogena degli idrocarburi aromatici è massima nei composti tetra- e
pentaciclici nei quali si sia determinata o la metilazione in alcuni punti di
sensibilità o la coniugazione con un altro anello benzenico in posizione laterale
(anellazione), con l'effetto che H. Druckrey (v., 1950) chiamò auxocancerogeno.
Secondo lo stesso ricercatore, gli idrocarburi a tre o anche a quattro anelli
benzenici, a combinazione laterale, non sono cancerogeni ma hanno in sé la
possibilità di diventarlo: sono cioè, come egli si esprime, cancerofori. Tutte quelle
azioni che deformano la molecola o agiscono sui doppi legami degli anelli
determinano attenuazione o perdita dell'attività cancerogena (v. Butenandt e
Dannenberg, 1956); uguale effetto causa la sostituzione con gruppi atomici molto
reattivi o che hanno proprietà acide.
Nel 1940 O. Schmidt (v.) richiamò l'attenzione sulla relazione esistente tra potere
carcinogenetico degli idrocarburi e densità di elettroni mobili - gli elettroni π - in
alcuni punti della molecola, cioè nella cosiddetta regione K e nella regione L. La
regione L è chimicamente più reattiva, perché più facilmente vi avvengono
sostituzioni, e la regione K è quella dei doppi legami più altamente reattivi degli
idrocarburi tipo fenantrene. La densità elettronica della regione K deve, secondo A.
e B. Pullman (v., 1954) e altri studiosi di chimica-fisica, superare un certo valore
perché la molecola dell'idrocarburo sia cancerogena.
Un altro cancro professionale - quello della vescica dei lavoratori di anilina e
derivati, messo in evidenza da osservazioni cliniche di L. Rehn (v., 1895) - ha da
tempo posto il problema dell'importanza dell'anilina come cancerogeno. La
semplice molecola dell'anilina non ha tale potere, che è invece posseduto dalla
β-naftilammina, dalla β-antrammina e dal 2-amminofluorene.
Formula
Formula
Formula
Formula
Quest'ultimo composto, specialmente attivo come acetilderivato (9), è di notevole
importanza: esso induce in varie specie animali tumori di organi vari a struttura
istologica diversa. Molto probabilmente è carcinogeno non il
2-acetilamminofluorene, bensì una sostanza originata dalla sua degradazione
metabolica: F. Bielschowsky e W. H. Hall (v., 1951) dimostrarono infatti che
ponendo due ratti in parabiosi il tumore si sviluppa solo nell'animale cui è stato
somministrato con l'alimento il composto, i cui prodotti di degradazione vengono
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rapidamente fissati nei tessuti, senza diffondere nell'animale a lui unito.
Anche per quanto riguarda la β-naftilammina è verosimile che il corpo attivo sia un
prodotto del suo metabolismo, probabilmente identificabile nel 2-ammino1-naftolo che viene eliminato con le urine e pertanto permane in vescica:
l'applicazione di tale sostanza sulla mucosa vescicale induce infatti formazione di
tumore. Il 2-amminofluorene e la β-naftilammina si citano come esempi della
cosiddetta cancerizzazione a distanza, espressione con la quale si suole indicare lo
sviluppo di cancro in sede diversa da quella dell'applicazione del carcinogeno. Ciò
significa che solo dal metabolismo del composto ha luogo la formazione della
molecola attiva che si fissa e causa sviluppo di tumore: questo può avvenire
nell'organo stesso della captazione e della successiva degradazione metabolica;
oppure il composto viene fissato in un organo, ad esempio nel fegato, ove si svolge
la sua degradazione metabolica seguita da rapida eliminazione dei metaboliti e
quindi dall'induzione del tumore negli organi di eliminazione (vescica, vie biliari
ecc.).
Anche per il 2-acetilamminofluorene molte ricerche riguardano il raggruppamento
atomico attivo. La molecola è abbastanza resistente a trattamenti chimici, onde
sostituzioni varie non ne alterano essenzialmente l'attività; questa è ridotta nell'Ndimetilamminofluorene e rafforzata, invece, per introduzione di un secondo
gruppo acetilamminico o di un atomo di fluoro nel carbonio in posizione 7.
b) Azocomposti
Altra serie di composti a cancerizzazione a distanza è quella degli azocomposti. Le
indagini in proposito traggono origine dal cosiddetto fenomeno di Fischer: questi
nel 1906 osservò che l'introduzione di rosso scarlatto o di Sudan III nel
sottocutaneo del padiglione dell'orecchio dei conigli determinava l'insorgenza di
proliferazioni epiteliali tendenti anche all'invasione e alla corneificazione, con
caratteri cioè di tipo epiteliomatoso. A tale fenomeno, in generale, non fu data
importanza e lo si ritenne espressione eccito-proliferativa senza rapporto con
epiteliomi, anche perché le proliferazioni facilmente regredivano. In seguito T.
Sasaki e T. Yoshida (v., 1935) scoprirono che l'o-amminoazotoluene, che precedenti
ricerche di E. Hayward (v., 1909) avevano dimostrato essere la sostanza attiva del
rosso scarlatto producente il fenomeno di Fischer, determinava nei ratti ai quali era
stato somministrato con gli alimenti lo sviluppo di tumori epatici. Questa scoperta
aprì un vasto campo di studi, tuttora in pieno sviluppo, e alimentò la speranza di
scoprire la sostanza o le sostanze in grado di causare tumori del fegato nell'uomo.
Un fatto molto importante, messo in luce dalle ricerche di H. Druckrey e K.
Küpfmüller (v., 1948), è che l'attività cancerogena risulta, in una certa maniera,
dipendente non dal tempo nel quale viene somministrato un composto, ma dalla
soglia critica della sua somministrazione, che può essere raggiunta in tempi
variabili. Tra le altre dimostrazioni appare particolarmente valida quella della
Stop- Versuche (ricerca con stop): se un ratto è nutrito per un certo tempo con dosi
basse di cancerogeno del quale si sospende poi la somministrazione, il tumore non
si sviluppa; se però dopo un certo tempo si riprende a somministrare il composto
con la dieta, l'epatoma compare quando è stata raggiunta la quantità
corrispondente a somministrazioni giornaliere continuative. Il fenomeno è analogo
a quello che si riscontra nel caso delle radiazioni, per le quali ha importanza la
sommazione delle dosi, anche se tale sommazione avviene in periodi molto lunghi.
La dose critica varia molto in rapporto al ceppo di ratti e alle condizioni
sperimentali, oscillando da 350 a 1.200 mg. Per uno stesso ceppo genetico, in
condizioni determinate, particolarmente per quanto riguarda l'alimentazione, tale
dose critica è abbastanza costante. Sembra inoltre che l'arricchimento della dieta
con vitamina B2 ritardi notevolmente lo sviluppo del tumore.
La molecola madre è costituita dall'azobenzene
Formula
che non è cancerogeno. Il suo derivato dimetilato, 2,3′-azotoluene, possiede una
certa attività. I composti più attivi originano dal 4-amminoazobenzene, molecola
ancora a debole attività carcinogena.
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Formula
Formula
Tale attività diviene elevata nel 4-dimetilamminoazobenzene e specialmente nel
4-metiletilamminoazobenzene. I composti (12) e (13) vengono trasformati
facilmente l'uno nell'altro nei processi metabolici cellulari.
Formula
Il 4-dimetilamminoazobenzene era un tempo usato nelle industrie dei grassi come
colorante del burro (giallo burro), ma in seguito alla scoperta della sua attività
cancerogena ne è stato, naturalmente, vietato l'impiego.
La sostituzione del ponte di azoto con un gruppo etilenico porta alla produzione di
stilbeni, alcuni dei quali, come il 4-dimetilamminostilbene, sono cancerogeni;
Formula
al contrario, il 4-amminostilbene inibisce la crescita tumorale.
Già nel 1937 A. Haddow e A. M. Robinson (v.) avevano visto che l'inoculazione di
alcuni idrocarburi inibiva la crescita di tumori negli animali; successivamente, nel
1947, Haddow e Kon (v.) trovarono che il 4-amminostilbene era molto più attivo di
essi come antineoplastico.
La constatazione che alcuni composti di una stessa serie agiscono da deboli e alcuni
da potenti carcinogeni, che altri risultano del tutto indifferenti e altri ancora
esercitano addirittura attività biologica opposta, ha posto già da tempo numerosi e
complessi problemi teorici e sperimentali.
c) Uretano
Un carcinogeno chimico di particolare interesse è l'uretano (etilcarbammato).
Formula
La scoperta dell'attività carcinogenetica di tale sostanza avvenne, come talora
accade, fortuitamente. Nel 1943 A. Nettleship e altri (v.) dovendo realizzare, per le
loro ricerche sugli effetti delle radiazioni nel topo, un tipo di anestesia di più lunga
durata di quella che si otteneva con il pentobarbitale, impiegarono una
preparazione a base di etiluretano, usata in veterinaria: notarono allora il
sorprendente fatto che 26 su 29 giovani femmine di topo presentarono, dopo un
certo tempo, tumori del polmone causati, come fu poi possibile accertare con i
controlli, non dall'irradiazione, ma dal narcotico.
Tale scoperta diede origine a numerose ricerche sull'azione dell'uretano a livello di
varie funzioni cellulari e fu possibile mettere in evidenza come gli effetti maggiori
del composto si esplicassero sul nucleo, e in particolare sul DNA, con conseguenti
alterazioni dei cromosomi.
L'uretano è cancerogeno, oltre che per il topo, anche per il ratto; per altre specie,
invece, come cavia e pollo, è del tutto inattivo. Esso risulta cancerogeno anche per
applicazione locale, cioè per pennellazioni della cute, e tale effetto è potenziabile
con cocarcinogeni come l'olio di croton. L'uretano è un carcinogeno
multipotenziale perché, somministrato per via alimentare con l'acqua da bere a
topi neonati, causa non solo tumori del polmone, ma anche della mammella e del
fegato, e inoltre emangiomi e linfomi del timo. Ciò dipende dal fatto che il
composto, quale che sia la via d'introduzione, si ripartisce, press'a poco alla stessa
concentrazione, tra tutti i tessuti dai quali, però, scompare in poche ore. Non si
conoscono ancora esattamente le varie tappe metaboliche dell'uretano: si sa
comunque che esso è metabolizzato dal fegato ed escreto come urea e che il 90%
del carbonio del gruppo carbossilico è eliminato sotto forma di CO2. Tale ultimo
punto, dimostrato dal reperto nell'aria espirata della massima parte della
radioattività del carbonio marcato del residuo carbammico, potrebbe spiegare
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l'elevata incidenza di tumori polmonari in animali sottoposti all'azione oncogena
dell'uretano. Desta tuttora sorpresa il fatto che una sostanza a modesto peso
molecolare, quale è l'uretano, solubile in acqua e rapidamente eliminabile, eserciti
notevole potere oncogeno a sede multipla. Occorre ricordare che O. Warburg (v.,
1921) ritenne che l'attività cancerogena dell'uretano fosse ascrivibile al suo potere
narcotico, in definitiva, quindi, a limitazione della respirazione cellulare: egli tentò
di spiegare la narcosi da uretano come dovuta a competizione, sulla superficie
cellulare, tra molecole del narcotico e molecole di sostanze nutritive, quali glucosio
e amminoacidi, e interpretò tale fenomeno come conseguenza di una inibizione
delle ossidazioni cellulari, dimostrando che l'azione narcotica aumenta con
l'allungarsi della catena carboniosa negli omologhi superiori dell'etiluretano.
Tuttavia tali composti non pare che esercitino attività oncogena, come invece ci si
sarebbe aspettato qualora l'attività oncogena fosse stata realmente correlata con
quella narcotica.
L'uretano, oltre a possedere attività cancerogena, è anche in grado di esercitare
potere antiproliferativo, come fu messo in evidenza da A. Haddow e W. A. Sexton
(v., 1946) prima su tumori solidi e poi sulle leucemie, nelle quali l'azione è
particolarmente rilevante: per un certo tempo, quindi, si diffuse l'impiego del
composto come farmaco antineoplastico specialmente in alcune forme di leucemia
e nel mieloma, e ancora oggi alcuni ricercatori paragonano i risultati che si
conseguono con antileucemici vari a quelli che, per controllo e riferimento, si
ottengono con l'uretano. Si include comunemente il farmaco nella vasta serie dei
veleni antimitotici: la sua somministrazione induce infatti caratteristiche
alterazioni nucleari (v. chemioterapia antineoplastica).
Anche per alcuni composti della classe degli idrocarburi cancerogeni era da tempo
conosciuta l'azione antineoplastica: si tratta, tuttavia, di molecole vicine
strutturalmente, ma diverse in uno o più raggruppamenti atomici rispetto a quelle
dotate di potere oncogeno. Per quanto riguarda l'uretano, invece, sembrerebbe che
la stessa semplice molecola possegga entrambe le capacità, cancerogena e
anticancerogena, e il fenomeno viene da alcuni studiosi messo in relazione a
momenti di sensibilità diversa delle fasi del ciclo cellulare.
Sembra però più probabile che in conseguenza delle attività metaboliche specifiche
dei diversi tipi cellulari si formino dalla stessa molecola prodotti diversi, taluni
capaci di esercitare potere oncogeno nei riguardi di alcuni tipi di cellule, altri
invece dotati di potere antiproliferativo e antineoplastico. Si potrebbe cosi
ammettere che a contatto con le cellule neoplastiche, caratterizzate da un
particolare metabolismo parzialmente anaerobico, l'uretano dia luogo alla
formazione di molecole ad attività antiproliferativa, contrariamente a quanto si
verifica nel caso delle cellule normali, nei cui confronti il composto agisce da
carcinogeno.
d) Mostarde, etilenimmine, epossidi
Per altri gruppi di sostanze, come le mostarde, le etilenimmine e gli epossidi, si
osservano fatti analoghi: attività carcinogenetica esplicata da alcuni tipi molecolari,
attività anticarcinogenetica svolta da altri a questi correlati. C'è troppo riscontro,
anche per composti a struttura molecolare estremamente diversa, tra le due azioni
biologiche, quella favorente e quella inibente la crescita neoplastica, per poter
sospettare che si tratti di evenienze casuali disgiunte. Più logico appare, pertanto,
ammettere l'esistenza di uno stretto nesso, e sulla guida della struttura chimica
delle varie sostanze cercare il punto bersaglio dell'una o dell'altra azione.
Le mostarde (iprite e derivati) erano da tempo note come sostanze ad azione
analoga o almeno confrontabile con quella delle radiazioni. Il corpo base, noto
come gas mostarda o iprite, è il bis(2-cloroetil)solfuro.
Formula
Questa sostanza, somministrata per inalazione, provoca nei topi la comparsa di
tumori polmonari e introdotta per via sottocutanea determina in topi e ratti
sviluppo di sarcomi (v. Heston, 1950). Molto più attive risultano le mostarde
azotate, nelle quali lo zolfo è sostituito da un azoto mono- o dimetilato, come la
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metilbis(2-cloroetil)ammina e la tris(2-cloroetil)ammina.
Formula
Formula
L'attività di questi composti è in rapporto con il loro potere fortemente alchilante,
che si esplica su vari aggruppamenti atomici e in primo luogo sui gruppi amminici,
dunque su amminoacidi e ammine biogene; ma essi sono in grado di alchilare
anche gruppi carbossilici e gruppi fosforati, così che la loro azione risulta
particolarmente intensa sulle proteine e sugli acidi nucleici. In tal modo, secondo
molti autori, si spiegano le alterazioni cromosomiche che si riscontrano a seguito di
applicazioni di mostarde azotate in cellule normali o in cellule neoplastiche.
L'azione biologica di tali composti è molto complessa e vari sono i sistemi
enzimatici a essi sensibili. Le mostarde azotate sono potenti mutageni sia per
organismi relativamente semplici come Batteri e Funghi (Neurospora), sia per
Drosophila, e fu proprio la scoperta della loro attività mutagena che destò
l'interesse per quella carcinogenica.
Le mostarde azotate sono altresì in grado di esercitare una notevole azione
citostatica e inibente lo sviluppo di alcune forme di tumori, come linfosarcomi e
linfogranulomi (morbo di Hodgkin), e per vario tempo furono impiegate per la
terapia di tali affezioni.
Da potenti alchilanti agiscono tutte le etilenimmine, e in particolare le
N-aciletilenimmine,
Formula
che, inoculate sotto cute, determinano nei ratti formazione di sarcomi.
L'etilenimmina svolge anche attività mutagena e alcuni suoi derivati
(metilolammide) sono dotati di potere antiproliferativo. La funzione cancerogena è
dipendente dalla struttura molecolare; si sa a tale proposito che le etilenimmine
monofunzionali (acil-etilenimmine), cioè con un solo gruppo
Formula
sono carcinogene, mentre quelle bifunzionali, cioè con due gruppi
Formula
sono sempre prive di potere oncogeno e agiscono solo da inibenti lo sviluppo
neoplastico.
Azione alchilante esercitano gli epossidi, composti nei quali due atomi di carbonio
sono uniti da un ponte di ossigeno:
Formula
Gli epossidi come tali sono inattivi, ma alcuni loro derivati esercitano notevole
attività oncogena, che è massima nel 4-vinil-cicloesano-1,2:7,8-diepossido; altri
derivati sono invece caratterizzati da proprietà antiproliferativa.
Formula
e) Aflatossina e cicasina
Recentemente due potenti carcinogeni sono stati scoperti in sostanze alimentari:
l'aflatossina, dimostratasi poi sostanza non unitaria, e la cicasina.
La storia dell'aflatossina è interessante per la singolare coincidenza delle varie
osservazioni. Nel 1961 si osservò in Inghilterra una larghissima mortalità, dovuta
principalmente a gravi lesioni epatiche, negli allevamenti di tacchini, anatre e polli
alimentati con farina di arachide.
Nello stesso anno E. M. Wood e C. P. Larson (v., 1961) richiamarono l'attenzione
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sul fatto che nel Nord-Ovest degli Stati Uniti si osservavano, con una certa
frequenza, trote con epatomi, e il fenomeno fu messo in relazione con la
contaminazione di Aspergillus flavus della farina di arachide con la quale gli
animali venivano nutriti. Dalle colture di tale fungo furono inizialmente isolate
quattro afiatossine che, inoculate in trote normali, produssero epatomi ed
epatocarcinomi identici a quelli naturali. Le originali afiatossine furono indicate
con le sigle B1, B2, G1 e G2. In seguito sono state identificate altre due tossine,
indicate come B2a e G2a. Dal latte di ratti e di mucche nutrite con farina di
arachide contenente afiatossine sono stati isolati due prodotti, M1 e M2, che pare
siano prodotti idrossilati di B1 e B2.
Contemporaneamente Lancaster e altri (v., 1961) dimostrarono l'alta incidenza di
epatomi in ratti nutriti con farina di arachide contenente aflatossine. Finora è stata
dimostrata l'attività carcinogenetica delle aflatossine in ratti, anatre e trote, mentre
topi di varie linee genetiche non sono sensibili a queste sostanze.
Per quanto riguarda l'uomo, è stato dimostrato che alcuni alimenti,
particolarmente in Asia e in Africa, contengono aflatossine in quantità variabili. È
stata prospettata, perciò, l'ipotesi che la frequenza di epatomi in alcuni paesi, come
l'Uganda, si possa attribuire alle afiatossine prodotte dai microrganismi del genere
Aspergillus flavus contaminanti gli alimenti.
Inquietante è anche il problema della contaminazione del riso con muffe. In alcuni
campioni di riso di origine giapponese sono state isolate circa duecento specie di
muffe tra le quali cinquanta di Penicillium. Nell'avaria del riso conosciuta come
riso ingiallito è stato isolato il Penicillium islandicum, nelle cui colture sono stati
identificati la luteoschirina e un peptide contenente cloro.
Formula
Entrambe le sostanze sono fortemente tossiche per il tessuto epatico, in quanto
determinano infiltrazione grassa, necrosi centrolobulare, atrofia e cirrosi.
Era noto sin dall'antichità che la farina di semi di Cycadaceae - piante antichissime
e per la maggior parte fossi- li, con pochi generi superstiti in varie parti del mondo
- risultava tossica se ingerita cruda, mentre la cottura la rendeva innocua. In
Australia il bestiame che si nutriva con foglie, frutti e parti del tronco di tali piante
presentava gravi manifestazioni morbose, per cui in alcune zone esse vengono ora
estirpate. Si osservò anche che nel Guam, un'isola delle Marianne, si riscontravano
numerosi casi di sclerosi laterale amiotrofica (v. Whiting, 1963), da mettere forse in
relazione col largo consumo di farina di Cycadaceae.
Nutrendo varie specie animali con tale farina si riscontrò non già insorgenza di
fenomeni neurologici, ma, nei ratti, sviluppo di tumori di vari organi, in particolare
del fegato e del rene (v. Laquer e altri, 1963), e, nella cavia, di carcinomi del fegato.
Fu isolata la sostanza attiva, cui fu dato il nome di cicasina.
Formula
La somministrazione di tale sostanza determina nei ratti un'elevata incidenza di
tumori del rene, e un'incidenza inferiore di tumori dell'intestino e del fegato. Fu poi
scoperto che la sostanza introdotta per via parenterale determina effetti tossici ma
non formazione di tumore, e che viene eliminata come tale; inoltre la cicasina in
ratti germ free non esercita azione oncogena, ma solo effetti tossici. Tutto ciò
portava a concludere che il carcinogeno viene originato dalla metabolizzazione
della cicasina da parte di batteri intestinali.
La sostanza ad azione carcinogenica venne identificata nell'aglicone della cicasina,
cioè nel metilazossimetanolo (MAM), che si forma per azione di glucosidasi
batteriche (v. Kobayashi e Matsumoto, 1964). La sostanza determina comparsa di
tumori in diversi organi, come l'originaria farina di Cycadaceae, e manifesta tale
proprietà anche se viene inoculata in ratti germ-free. Il MAM, che nel 1965 fu
sintetizzato da H. Matsumoto e altri (v., 1965), è chimicamente simile alla
dimetilnitrosammina, per cui J. A. Miller (v., 1964) suppose che i due composti
siano convertiti in uno stesso effettivo cancerogeno.
Si conoscono varie altre sostanze di origine vegetale dotate di attività
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carcinogenetica più o meno spiccata, come la griseofulvina estratta dal fungo
Penicillium griseofulvum e il safrolo contenuto nell'olio di sassafrasso (corteccia
della radice dell'albero americano Sassafras officinale). Ratti nutriti con segale
cornuta, sclerozio del fungo Claviceps purpurea, parassita della spiga di segale,
presentano numerosi neurofibromi, che regrediscono se tale alimentazione viene
sospesa, ricompaiono se ripristinata.
La tiourea, contenuta nelle piante del genere Brassica, produce adenomi e anche
carcinomi della tiroide. Gli alcaloidi della pirrolizidina, ricavabili soprattutto da
Senecio, sono sostanze ad azione epatotossica e carcinogenetica per il fegato. Varie
altre sostanze di origine vegetale sono state identificate come carcinogene, e la lista
evidentemente è destinata ad allungarsi nei prossimi anni. L'interesse che si rivolge
ai vegetali quali fonti di carcinogeni deriva, naturalmente, dalla possibilità che
alcuni di essi causino tumori epatici nell'uomo: ciò potrà essere assodato
soprattutto in base a ricerche epidemiologiche, del tipo di quelle, già citate,
compiute sulle aflatossine nelle trote e in alcuni volatili.
f) Agenti chimici endogeni
Per quanto riguarda la cancerogenesi da agenti chimici endogeni il problema è di
appurare se nell'organismo si possano formare sostanze carcinogene, nel corso di
reazioni metaboliche dipendenti dalla presenza di specifici sistemi enzimatici.
Nonostante le innumerevoli ricerche eseguite, iniziate poco dopo la scoperta dei
primi idrocarburi cancerogeni e tuttora in corso, non si può dare una risposta
certa. Come si è già detto, H. Wieland ed E. Dane (v., 1933), riuscendo a ottenere
metilcolantrene dall'acido desossicolico, dimostrarono la possibilità della
formazione per via chimica di idrocarburi cancerogeni da steroidi costituenti
normali dei tessuti e dei liquidi dell'organismo; tuttavia, la prova che una tale
reazione possa realmente svolgersi nell'organismo non fu fornita. Come fanno
notare R. Butenandt e H. Dannenberg (v., 1956), mentre gli steroidi sono composti
idroaromatici saturi, il metilcolantrene e gli altri cancerogeni di questo tipo sono
idrocarburi formati esclusivamente da anelli aromatici: per tale ragione,
l'attenzione dei ricercatori è stata rivolta in particolare alle molecole ditale tipo
strutturale, come gli ormoni femminili estrone, equilina ed equilenina, per
appurare se dalla loro deidrogenazione possano originare idrocarburi cancerogeni.
Non si è riusciti a dimostrare tale evenienza, anche perché non si sono trovati nei
tessuti enzimi catalizzanti tali reazioni, e quindi l'ipotesi che da ormoni naturali
possano derivare carcinogeni non è stata comprovata. Né è stata dimostrata la
possibilità che germi della normale flora intestinale siano capaci di trasformare
steroidi normali in carcinogeni.
Di un certo interesse è la possibilità, dimostrata per primo da L. Shabad (v., 1937),
di provocare sviluppo di neoplasie in animali da esperimento mediante
inoculazione di estratti di tessuto. L'estratto di Shabad proveniva dal fegato di un
canceroso, ma in seguito fu osservato da altri, come ad esempio da P. E. Steiner (v.,
1942 e 1943), che anche gli estratti di fegato di individui normali sono in grado di
svolgere identica azione. Questa non è attribuibile a idrocarburi cancerogeni
originati nei processi metabolici che si svolgono nel fegato, perché risultati simili si
ottengono perfino con estratti di fegato di bambini nati morti e di fegato di maiale.
Il riconoscimento che la sostanza attiva era contenuta nella frazione
insaponificabile degli estratti lipidici indusse I. Hieger (v., 1946 e 1947) a ritenere
che si trattasse o di colesterolo o di suoi derivati e non di idrocarburi aromatici,
anche perché nel corso di queste ricerche non era stato possibile mettere in
evidenza sostanze i cui spettri di assorbimento corrispondessero a quelli
caratteristici degli idrocarburi aromatici.
Lo stesso Hieger dimostrò come il colesterolo possa determinare sviluppo di
tumori: egli infatti iniettando tale sostanza, anche altamente purificata, nel tessuto
sottocutaneo di topi ottenne insorgenza di sarcomi in 70 su 1.424 animali (v.
Hieger, 1959).
Risultati talvolta simili, talvolta opposti, furono ottenuti in vari altri laboratori: per
motivi ancora non spiegabili, secondo i dati riferiti dai vari autori è possibile
osservare l'insorgenza di tumori entro limiti notevolmente ampi, dallo 0 al 15%, e
addirittura per uno stesso ceppo inbred di topi, come ad esempio il C57, dallo 0
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all'11%. Il problema, perciò, permane attuale, soprattutto in considerazione del ben
noto reperto anatomopatologico dell'accumulo di colesterolo nel connettivo
circostante alcuni tumori, in particolare quelli della mammella. Di recente è stata
presa in esame la possibilità che il colesterolo agisca non come carcinogeno
chimico ma come corpo allo stato solido, in rapporto alle facce dei suoi cristalli (v.
sotto, cap. 3, È c).
Alcuni dei derivati del colesterolo, quali il 6-idrossi-Δ4- colestene-3-one, il
Δ4-colestene-3,6-dione, l'ossido di colesterile e il 6-idroperossido-Δ4-colestene3-one, svolgono azione oncogena (v. Fieser e altri, 1955; v. Bischoff e altri, 1955; v.
Bischoff, 1957). Hieger, invece, è riuscito a ottenere sviluppo di tumori solo con
l'ultimo di tali composti. È interessante notare che le percentuali di positività circa
l'attività oncogena sono notevolmente elevate, in particolare proprio per l'ultima
sostanza, con la quale si registra fino al 60% di risultati positivi. Anche nel caso di
questi derivati del colesterolo le conoscenze sul meccanismo d'azione sono
incomplete, e si impongono quindi ulteriori ricerche.
g) Etionina
Una sostanza strettamente vicina a un costituente normale delle cellule è l'etionina,
un omologo dell'amminoacido naturale metionina.
Formula
L'etionina, considerata per molto tempo un amminoacido artificiale, cioè non
esistente in natura, fu identificata nel 1957 da F. Schlenk (v., 1957) tra i costituenti
di un lievito e successivamente, nel 1961, venne individuata da I. F. Fisher e M. F.
Mallette in Escherichia coli e in altri batteri. A tale ultimo reperto potrebbe essere
attribuito un particolare significato in considerazione della ricchezza in Escherichia
coli della flora intestinale: infatti nella stasi intestinale, o per sopravvento di altri
germi, Escherichia coli va incontro a lisi e libera etionina, il cui assorbimento
potrebbe determinare effetti tossici.
L'etionina certamente non fa parte degli amminoacidi che entrano nella
costituzione delle proteine di organismi pluricellulari; è anzi un antimetabolita di
un amminoacido per questi indispensabile, la metionina. Somministrata ad
animali provoca gravi lesioni soprattutto a livello epatico, consistenti in
infiltrazione grassa e necrosi degli acini, e inoltre necrosi dei tubuli renali,
emorragie dei surreni, alterazioni metaboliche del miocardio e delle cellule della
mucosa intestinale, ecc. Si può quindi affermare che esiste una patologia
sperimentale da etionina, che può essere limitata o annullata dalla
somministrazione di metionina: tra i due amminoacidi, infatti, si determinano,
anche nei tessuti neoplastici, fenomeni di scambio competitivo.
L'azione cancerogena dell'etionina fu messa in evidenza da H. Popper e altri (v.,
1953) che, somministrandola per via alimentare, osservarono nei ratti lo sviluppo
di noduli epatici con qualche modesto carattere di malignità. Successivamente,
riducendo la percentuale dell'etionina dallo 0,50% allo 0,25%, E. Farber (v., 1959)
ottenne, in rapporto alla più lunga sopravvivenza degli animali dipendente dalla
riduzione degli effetti tossici, sviluppo di veri cancri del fegato. L'ipotesi oggi più
accreditata è che l'etionina costituisca una molecola donatrice di alchili per gli acidi
nucleici.
h) Metalli e non metalli
L'interesse suscitato da vari metalli e non metalli come agenti carcinogenetici è
negli ultimi anni notevolmente diminuito a causa dell'incostanza dei risultati
sperimentali e della sempre maggiore importanza che ha assunto la cancerogenesi
da composti organici e, più recentemente, quella da virus.
Tra i metalli è stata attribuita attività cancerogena principalmente al cromo, al
cobalto, al berillio e al nichel; di questi il più importante sembra essere il cromo, in
relazione al non raro riscontro di tumori del polmone in operai addetti alla
manipolazione di minerali contenenti il metallo. Da tempo era nota la frequenza di
più o meno gravi infiammazioni, a volte a carattere necrotizzante, della mucosa
nasale in operai addetti all'estrazione del cromo e alla fabbricazione di colori da
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questo derivati; nel 1936 W. Alwens e altri (v.) segnalarono numerosi casi di
tumore polmonare in lavoratori nelle industrie di cromo, e successivamente la
casistica è notevolmente aumentata così che al presente il cancro polmonare da
cromo viene considerato da molti autori come un cancro professionale. Anche se
molte volte i due tipi di alterazioni sono concomitanti, non è stato sicuramente
accertato alcun rapporto tra lesioni nasali e tumori del polmone. Per quanto
riguarda la presunta azione oncogena, pare che i cromati siano molto più attivi dei
dicromati. Sperimentalmente, però, nonostante qualche risultato parzialmente
positivo (v. Schinz e Uehlinger, 1942), non si è riusciti a produrre tumori negli
animali; tale fatto sosterrebbe l'ipotesi secondo la quale il cromo non rappresenta
la causa del cancro polmonare e i casi osservati sono verosimilmente cancri da
fumo.
Ancora meno precise sono le conoscenze sulla possibile attività oncogena del
berillio e del nichel, mentre può essere del tutto esclusa quella dell'alluminio,
ipotesi che aveva inizialmente suscitato notevole allarme per il diffuso impiego di
tale metallo nella fabbricazione di recipienti da cucina.
Per quanto manchino ancora sicure dimostrazioni, maggiore importanza come
agente cancerogeno sembra avere l'arsenico. Era da tempo nota la relativa
frequenza di cancro del polmone nei minatori dei giacimenti arseniferi dello
Schneeberg e di Joachimsthal, come erano noti sin dal 1820 i tumori cutanei di
alcuni abitanti in prossimità dei giacimenti d'arsenico di Reichenstein. Mentre fu
accertato che i cancri polmonari delle due prime località erano imputabili non già
all'azione dell'arsenico, bensì a quella di emanazioni radioattive (v. Rajewsky e
altri, 1943), fu altresì dimostrato che l'acqua che bevevano gli abitanti di
Reichenstein proveniva da una falda idrica situata al di sotto dei giacimenti e
conteneva elevate quantità di arsenico: si pensò quindi che a tale elemento fosse
presumibilmente imputabile l'elevata incidenza di tumori. A dimostrazione
indiretta di tale interpretazione veniva fatta notare la scomparsa dell'incidenza
neoplastica verificatasi nel 1928, a seguito della costruzione di un nuovo
acquedotto. È certo che negli operai esposti all'azione cronica dell'arsenico sono
frequenti alcune alterazioni cutanee localizzate preferibilmente sul tronco e sulle
dita, in particolare ipercheratosi e papillomi, che sono considerate di tipo
precanceroso e che in alcuni casi si trasformano in veri cancri cutanei.
L'avvelenamento cr0nico da arsenico determina inoltre con una certa frequenza
cirrosi epatica, sulla quale si osserva talvolta l'impianto di un tumore epatico, fatto
che pone molti e gravi problemi patogenetici, allo stato attuale non solubili. Di
fronte a queste e a varie altre osservazioni cliniche sta però la scarsa rilevanza delle
ricerche sperimentali, perchè non è possibile produrre negli animali veri cancri da
arsenico, a eccezione di rari casi. D'altra parte, è anche vero che ricercatori di alto
livello, come A. Carrel (v., Le principe..., 1925) e A. Fischer (v., Die Erzeugung..., e
Dauerzüchtung..., 1927), comunicarono di essere riusciti a trasformare in vitro
cellule normali in cellule cancerose in presenza di tracce di arsenico, ma tali
ricerche non hanno avuto seguito.
Pertanto, contrariamente a quanto si è verificato in altri casi, il reperto clinico non
è sostenuto da inconfutabili prove sperimentali, e allo stato delle conoscenze non si
può certo dubitare del primo nè trascurare le altre.
i) Cenni sui meccanismi d'azione dei carcinogeni chimici
Si è accennato che con particolari idrocarburi aromatici si possono ottenere tumori
in varie specie animali; è relativamente facile provocare con queste sostanze
carcinomi nel topo e sarcomi nel topo e nel ratto. Non sono ancora note le ragioni
della differente sensibilità all'azione dei cancerogeni di due specie tanto
filogeneticamente vicine; si consideri in proposito che per effetto dell'applicazione
di idrocarburi, che è in grado di provocare lo sviluppo di carcinomi cutanei anche
nel coniglio, si determina la comparsa di cancri soltanto nella cute del topo e non in
quella del ratto, ma insorgenza di sarcomi sottocutanei in entrambe le specie.
Il fatto che sostanze a struttura chimica nota inducano crescita neoplastica fece
sorgere l'idea, subito dopo l'isolamento dei primi idrocarburi cancerogeni, che si
potesse studiare il meccanismo della carcinogenesi a livello morfologico. Tuttavia,
le più accurate indagini istologiche non riuscirono a recare validi contributi alla
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soluzione del problema; le ragioni di tale insuccesso possono oggi essere comprese
se si considera che i fenomeni che determinano la cancerizzazione si svolgono a
livello molecolare, cioè a grandezze enormemente inferiori a quelle accessibili
morfologicamente. È stato comunque possibile documentare alcuni eventi
terminali espressi a livello di determinate strutture, che sono valsi soltanto a
precisare e a definire quanto già si conosceva sull'istogenesi di noduli tumorali
iniziali dell'uomo o di tumori spontanei o sperimentali di animali. D'altra parte, era
facilmente supponibile che nella zona trattata con idrocarburi si sviluppassero fatti
infiammatori o anche necrotici, con stimolo alla proliferazione vasale ed eventuale
incapsulazione del veicolo lipoideo. Generalmente le sostanze cancerogene, quale
che sia la loro struttura molecolare, non sono dotate della sola attività oncogena,
ma possono agire in modo assai vario, svolgendo il ruolo di eccitatori, di mediatori
chimici dell'infiammazione, di agenti necrotizzanti per alcuni tipi cellulari ed
eccito-proliferativi per altri, e così via. Sulla cute gli idrocarburi determinano varie
reazioni aspecifiche di tale tipo. La proliferazione da essi indotta mostra, in alcuni
casi, qualche carattere di specificità, con conseguente formazione di cellule atipiche
e quindi comparsa di caratteri di anaplasia cellulare.
Di particolare interesse nello studio dell'istogenesi dei tumori cutanei da
idrocarburi appare il reperto, piuttosto frequente anche se non costante, della
formazione di papillomi, che si possono comparare con alcune lesioni precancerose
dell'uomo. E tuttavia difficile stabilire anche in questo caso se a tali manifestazioni
debba essere attribuito un significato generale ed essenziale o non rappresentino
piuttosto soltanto un fenomeno collaterale.
Il frequente riscontro, in fase precoce di formazione dei tumori, della paralisi delle
mitosi lascia supporre che la stessa sostanza cancerogena o un prodotto del suo
metabolismo esercitino azione antimitotica, alla stessa guisa di vari altri
antimitotici.
La vera cancerizzazione è un fenomeno che si avvera ex novo: in accordo con P.
Rondoni (v., 1946), si può dire che, in un determinato momento, tra le varie
reazioni aspecifiche si manifesta una violenta attivazione delle mitosi e si forma
l'ammasso di cellule neoplastiche. Si ritiene che non sia una cellula sola a subire la
trasformazione neoplastica, ma che il processo interessi contemporaneamente un
gruppo di cellule e che in generale lo sviluppo neoplastico sia pluricentrico, cioè
non limitato a un solo centro di proliferazione: successivamente i vari centri
continuano a proliferare, si fondono tra loro e costituiscono la massa tumorale il
cui accrescimento è agevolmente osservabile. Anche in patologia umana,
d'altronde, erano ben noti i fenomeni di accrescimento pluricentrico di tumori in
fase iniziale.
La crescita ex novo del tessuto neoplastico si accorda, forse, con quanto si osserva
nella trasformazione maligna delle cellule coltivate in vitro nelle quali la
trasformazione dei caratteri che segna il passaggio dalla cellula normale alla cellula
cancerosa è fenomeno critico, se è lecito paragonare quanto avviene in vivo con
quanto accade nelle colture di cellule.
l) Cocancerogenesi
Strettamente connesso con la cancerogenesi chimica è il fenomeno della
cocancerogenesi. Nel 1938 M. J. Shear (v.) scoprì che l'attività cancerogena del
benzopirene è incrementata dall'olio di creosoto: a tale sostanza egli diede il nome
di cocancerogeno per precisarne proprio l'azione cooperativa con il cancerogeno. Il
termine ha avuto fortuna, non solo perché furono scoperte varie sostanze dotate di
attività cocancerogena, ma soprattutto perché le ricerche sull'argomento misero in
luce alcuni fenomeni la cui interpretazione è servita di base alla concezione della
teoria dei due stadi dell'oncogenesi. Tale teoria fu espressa da I. Berenblum (v.,
1941), il quale individuò nell'olio di croton, che si estrae dai semi di crotontiglio
(Croton tilium), un potente cocarcinogeno.
Pennellando la cute di topo con quantità troppo esigua di benzopirene o con solo
olio di croton non si osserva comparsa di tumore, ma il trattamento combinato con
le stesse dosi di idrocarburo e con il cocancerogeno è in grado di determinare
l'effetto oncogeno: l'olio di croton, cioè, potenzia l'azione del benzopirene. Il
potenziamento è svelato dalla percentuale di animali nei quali insorge la neoplasia,
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dalla notevole abbreviazione del tempo di latenza, cioè dell'intervallo di tempo che
intercorre tra l'applicazione del cancerogeno e l'insorgenza del cancro, e infine dal
fatto che, mentre con determinate dosi di benzopirene si provoca la comparsa di un
solo centro di sviluppo, con la contemporanea applicazione di entrambe le sostanze
si induce un'insorgenza pluricentrica. Di conseguenza, il fenomeno può anche
essere espresso quantitativamente (v. Berenblum, 1941).
L'olio di croton, che è un agente irritante cutaneo per molte specie, si comporta
come cocancerogeno soltanto per la cute del topo; la sua azione cocancerogena,
inoltre, si svolge nettamente nei confronti di alcuni idrocarburi aromatici,
soprattutto del benzopirene, ma è nulla o assai scarsa nei confronti dell'1,2benzantracene e dell'1,2:5,6-dibenzantracene. Esso agisce come cocancerogeno
anche nei confronti dell'uretano che, pur essendo un carcinogeno generale capace
di provocare tumori in vari organi, riesce a indurre comparsa di carcinomi cutanei
con grande difficoltà e soltanto in particolari ceppi inbred di topi; questi carcinomi
però si sviluppano facilmente nelle zone di cute pretrattate con uretano sulle quali
si applichi il cocancerogeno.
Oltre all'olio di croton, sono state individuate numerose altre sostanze ad azione
cocancerogena, tra le quali di notevole importanza alcuni detergenti: la
dimostrazione della loro attività è stata fornita da ingegnosi esperimenti, condotti
con trapianti di zone cutanee pretrattate con vari carcinogeni. La constatazione che
l'azione del cocancerogeno si esercita anche varie settimane dopo la cessazione
della pennellatura della cute con il carcinogeno induce a pensare che questo abbia
prodotto nella cellula modificazioni funzionali irreversibili.
Sui fenomeni ora accennati e su vari altri, che non è possibile riportare in questa
sede, è fondata la teoria dei due stadi, concepita da P. Rous e I. G. Kidd (v., 1941) e
da I. Berenblum (v., 1941) e conosciuta con il nome di ‛carcinogenesi a due stadi' o
anche di ‛carcinogenesi a molti stadi'. Fondamentalmente, secondo tale teoria, il
carcinogeno durante un primo stadio determina la trasformazione delle cellule
normali in cellule maligne. A questo punto possono verificarsi due condizioni: o il
carcinogeno oltre a causare la trasformazione maligna è anche in grado di
determinare fenomeni proliferativi a tendenza iperplastica, e allora il tumore si
sviluppa in quanto le cellule hanno subito quella che attualmente si designa come
trasformazione cellulare e sono avviate alla moltiplicazione; o il carcinogeno non
possiede, o possiede solo in debole grado, attività eccitoproliferativa, e allora le
cellule cancerizzate restano quiescenti per un tempo anche assai lungo. In
quest'ultimo caso, tuttavia, è ancora possibile il rapido completamento del ciclo e lo
sviluppo del tumore in seguito all'intervento di uno stimolo specifico,
rappresentato dal cocarcinogeno. Alla cancerizzazione pura Berenblum diede il
nome di ‛iniziazione' e alla stimolazione proliferativa quello di ‛promozione',
distinguendo corrispondentemente gli agenti in ‛inizianti' e ‛promoventi'. Rous
indicò l'iniziazione con il termine di ‛potenzialità neoplastica'. In Italia F.
Pentimalli, in base alle sue ricerche sull'importanza dei fenomeni rigenerativi nello
sviluppo del sarcoma del pollo da virus di Rous, indicò quest'ultimo come ‛fattore
potenziale' e la rigenerazione, cioe la moltiplicazione cellulare, con il termine di
‛fattore realizzante'.
Più recentemente Berenblum (v., 1969), in un lucido inquadramento dei fattori che
in senso positivo o negativo agiscono sullo sviluppo neoplastico, ha messo in
evidenza che una certa confusione è generata dal frequente uso come sinonimi dei
due termini ‛azione cocarcinogena' e ‛azione promovente'.
Il termine ‛cocancerogenesi' si usa in senso generale per indicare ogni tipo di
aumento dell'induzione di tumore realizzata, generalmente, per mezzo della
concorrente applicazione di carcinogeno e di cocancerogeno, sebbene in alcuni casi
quest'ultimo possa esplicare la sua azione prima o dopo rispetto al primo.
Il termine azione ‛promovente', invece, è più limitativo, vale cioè a designare la
condizione in cui il cocancerogeno viene applicato dopo completamento dell'azione
iniziante propria del carcinogeno. Si conoscono molti cocarcinogeni che non
esercitano azione promovente.
Per tali considerazioni, secondo Berenblum si debbono distinguere vari tipi di
cocancerogenesi, a seconda dell'azione che esplicano le diverse sostanze: 1) azione
‛additiva', che si esplica nei confronti di un carcinogeno in grado di provocare da
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solo la comparsa del tumore; 2) azione sinergica, in senso farmacologico, che si
verifica quando gli effetti combinati eccedono la sommazione degli effetti separati;
3) azione carcinogenica incompleta, consistente in attività nei riguardi di una sola
fase della carcinogenesi, cioè solo per l'iniziazione o solo per la promozione; 4)
azione preparativa, che si svolge sull'organo bersaglio rendendolo più sensibile
all'azione carcinogenica; 5) azione permissiva, consistente in facilitazione della
funzione carcinogenetica, che si esplica, per esempio, aumentando la solubilità o la
velocità di assorbimento del carcinogeno da parte della cellula, o affrettandone il
metabolismo o la velocità di escrezione; 6) azione sui Virus, che si svolge secondo
meccanismi diversi: a) favorendo la liberazione delle particelle virali dal sito nel
quale sono localizzate; b) deprimendo la reazione immunitaria dell'ospite; c)
attivando un virus incompleto; d) rendendo le cellule bersaglio più sensibili al
virus; e) deprimendo l'azione dell'interferon; 7) azione condizionante, consistente
nell'intervento di alcuni fattori richiesti per la crescita di un tumore ormonodipendente o di un tumore il cui sviluppo è frenato dalla reazione immunitaria
dell'ospite.
L'azione cocancerogena studiata più a fondo è quella dell'olio di croton, che agisce
come carcinogeno incompleto (tipo 3 dell'elenco), cioè come promovente che
sollecita focolai di cellule, sulle quali si è già esplicata l'azione iniziatrice.
Si tratta naturalmente di schematismi di grande utilità per una materia così
complessa come la cocancerogenesi, in quanto facilitano i processi di distinzione e
specificazione, pur presentando a volte il rischio di indurre a inquadramenti
semplicistici e non rigorosi.
m) Il fumo del tabacco
Connessa con la cancerogenesi chimica è la questione dell'importanza del fumo di
tabacco quale agente eziologico del cancro polmonare. È fuori dubbio che negli
ultimi anni la frequenza di tale tipo di tumore è assai aumentata: mentre in passato
il cancro polmonare era raro, attualmente esso rappresenta un'alta percentuale dei
tumori maligni, con differenze notevoli tra le singole popolazioni e in rapporto alle
varie condizioni di vita. In passato l'importanza del tabacco quale causa di cancro
aveva attratto principalmente l'attenzione per la frequenza di tumori localizzati
nella cavità orale nei fumatori, in particolare di quelli delle labbra nei fumatori di
pipa.
Il rapporto fumo di tabacco/cancro del polmone si è desunto fondamentalmente da
dati statistici molto elaborati, che hanno dimostrato una netta prevalenza dei
tumori polmonari tra i fumatori. Il problema ha assunto significato sociale e molte
commissioni nei vari paesi, in particolare in Inghilterra, Stati Uniti e Paesi
scandinavi, hanno svolto estesissime indagini con risultati che, in linea di massima,
concordano nel porre in guardia l'umanità verso la pericolosità del fumo di
tabacco, nell'indicare la durata media del tempo di induzione e la zona di
pericolosità, cioè il numero di sigarette fumate per giorno, nel riconoscere
l'indispensabilità di filtri idonei, ecc.
Le ricerche sperimentali non hanno dato, però, risultati significativi, nonostante le
molte modalità cui si è fatto ricorso. La grande difficoltà di tali indagini consiste
nell'impossibilità di riprodurre condizioni corrispondenti a quelle reali, soprattutto
per quanto riguarda la meccanica del fumare. Inoltre, bisogna tener conto del fatto
che il cancro polmonare si manifesta nei fumatori dopo molti anni dall'inizio
dell'abitudine di fumare: tale lungo periodo di preparazione non è attuabile negli
animali da esperimento per la relativa brevità della loro vita, e d'altra parte non si
può accettare senz'altro l'idea che un evento morboso, che nella vita dell'uomo
evolve durante un lungo periodo di tempo, negli animali a breve vita debba invece
compiersi in un tempo a questa proporzionato.
Se è vero d'altronde che una relazione abbastanza stretta tra fumo e tumore
polmonare si desume statisticamente per la diversa incidenza della malattia nei
fumatori rispetto ai non fumatori, è altresì vero che anche per questi ultimi la
frequenza di tali tumori è andata progressivamente aumentando, anche se in
misura minore che nei primi. Tutto ciò induce a ritenere che l'eziologia dei tumori
polmonari sia molteplice, dovuta cioè a più fattori, dei quali alcuni personali come
il fumo, altri ambientali e tra questi in primo luogo il grave inquinamento
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dell'ambiente nell'epoca attuale.
Per la produzione sperimentale di tumori da fumo si sono usati metodi diretti e
indiretti. I primi consistono nell'abituare alcuni tipi di scimmie a fumare (v.
Jarvick, 1967): tuttavia gli animali fumano, e sembra volentieri, un numero molto
limitato di sigarette ma rifiutano ulteriori inviti, e pertanto non sono stati
conseguiti risultati di qualche importanza. E stato anche tentato di realizzare nei
cani il fumo forzato attraverso tracheotomia, ma l'insorgenza di fenomeni morbosi
collaterali, come emboli polmonari ed enfisema, non consente esperimenti di lunga
durata.
I metodi indiretti sono basati invece sull'inalazione passiva, che si attua
mantenendo gli animali da esperimento in ambiente saturo di fumo di tabacco.
Nonostante alcuni studiosi, in particolare E. L. Wynder e D. Hoffmann (v., 1967),
abbiano potuto osservare l'insorgenza di cancri ghiandolari del polmone in topi di
ceppi sensibili ai tumori polmonari mantenuti in tali condizioni sperimentali,
secondo altri autori (v. Di Paolo e Moore, 1959; v. Di Paolo e Levin, 1965) queste
non riprodurrebbero in realtà gli effetti determinati dal fumo di tabacco nell'uomo.
È comunque dimostrato che con il catrame o con il condensato di tabacco, cioè con
il materiale che si accumula, per esempio, nei cannelli di pipa, si producono tumori
epiteliali negli animali da esperimento (v. Wynder e altri, 1953; v. Wynder e
Hoffmann, 1967). È da tener presente che l'attività carcinogenetica dei condensati
freschi, cioè di meno di 24 ore, è maggiore di quella dei condensati di più tempo, in
rapporto alla presenza nei primi di sostanze volatili. Alcuni condensati sono attivi
sugli epiteli, ove provocano l'insorgenza di carcinomi, e sul sottocutaneo, ove
danno luogo a sviluppo di sarcomi; altri invece esplicano attività oncogena solo sui
tessuti epiteliali. Frazionando con vari metodi il condensato di fumo di tabacco è
stato possibile compiere importanti osservazioni, tra le quali di particolare
interesse appaiono quelle di Wynder e Hoffmann che hanno identificato fattori
inizianti e fattori promoventi la crescita neoplastica, cioè cocancerogeni: gli
iniziatori sono risultati idrocarburi aromatici localizzati in una singola frazione,
mentre i promoventi sono stati localizzati nella frazione acida, in quella neutra e in
quella fenolica. La cancerogenesi da condensato di fumo avverrebbe cosi a opera
dei due fattori, secondo la concezione di Berenblum dei cocarcinogeni.
Il problema dell'eziologia del cancro del polmone, notevolmente complesso per le
molteplicità dei fattori in causa, è in ogni modo ancora lontano dalla sua soluzione.
3. Cancerogenesi fisica
Anche in questo caso la patologia sperimentale ha affrontato e per alcuni aspetti
risolto il problema posto dall'osservazione clinica. Già da lungo tempo era nota la
frequenza di tumori cutanei sulle parti scoperte di individui esposti per molti anni
all'azione diretta delle radiazioni solari, in prevalenza quindi marinai e contadini.
Più recentemente, in rapporto al rapido ed esteso sviluppo della diagnostica e
terapia radiologica, è divenuto progressivamente più frequente e allarmante il
riscontro di lesioni cutanee, evolventi talvolta in cancri, in medici e tecnici
radiologi.
Da tali osservazioni sorse anzitutto la necessità di adeguate protezioni del
personale addetto all'uso di apparecchi di radiologia e degli stessi ammalati che per
scopi diversi venivano irradiati, protezioni da molti anni obbligatorie per legge.
In campo sperimentale, è stato possibile riprodurre agevolmente sia i tumori da
irradiazioni solari, sia quelli da raggi Rüntgen, e la mole delle ricerche è veramente
notevole.
a) Radiazioni ultraviolette
Nel 1928 G. M. Findlay (v.) vide che l'irradiazione con raggi ultravioletti della cute
di ratti spennellata con catrame determinava più rapida comparsa di cancri cutanei
rispetto agli animali di controllo sottoposti alla sola azione del catrame. Due anni
dopo lo stesso autore dimostrò che la sola irradiazione è in grado di provocare
l'insorgenza di cancri cutanei.
Seguirono naturalmente numerose altre ricerche, e al presente non v'è dubbio che i
raggi ultravioletti esplichino azione cancerogena sia sull'epitelio, ove danno luogo
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alla comparsa di epiteliomi, sia sul derma e sull'ipoderma, ove provocano lo
sviluppo di sarcomi; anzi, in condizioni sperimentali quest'ultimo tipo di tumori si
osserva molto più frequentemente che non gli epiteliomi, contrariamente a quanto
si verifica spontaneamente nell'uomo.
È stato precisato che dello spettro ultravioletto solo le radiazioni a lunghezza
d'onda comprese tra 260 e 300 nm sono dotate di attività carcinogenetica, anzi per
luci ultraviolette monocromatiche si è visto che tale attività è strettamente limitata
a 297 nm. Si supponeva, e sembrava logico ritenere, che l'effetto cancerogeno fosse
correlato con quello eritematoso, che cioè fosse dipendente da questo; si è potuto
invece stabilire che non esiste alcuna relazione tra i due effetti, perché le radiazioni
che inducono eritema hanno una lunghezza d'onda di 253,7 nm e come tali non
sono cancerizzanti.
La prova diretta che i raggi solari sono efficaci nel produrre tumori fu fornita da A.
H. Roffo (v., 1934) che esponendo topi e ratti a intensa irradiazione solare ottenne
sviluppo di carcinomi.
b) Raggi X, isotopi radioattivi, radiazioni ionizzanti
L'attività oncogena dei raggi X fu dimostrata sperimentalmente da P. Marie e altri
(v., 1910) che riuscirono con tale mezzo a indurre sviluppo di tumori nel topo, e
venne poi ampiamente studiata da B. Bloch e N. Dreyfus (v., 1921).
I risultati delle numerose ricerche sull'argomento, condotte secondo varie
modalità, hanno consentito di stabilire senza alcun dubbio che i raggi X, così come
gli isotopi radioattivi, esplicano attività oncogena, e hanno quindi imposto la
necessità di adottare adeguati mezzi di protezione per tutti coloro, chimici, fisici,
biologi, mineralogisti, che per ragioni di lavoro sono esposti a fonti di radiazioni.
È ormai perfettamente chiarita la causa della notevole frequenza di tumori del
polmone negli operai delle miniere di Schneeberg e di Joachimsthal: come si è già
detto, misurazioni di radioattività dell'aria eseguite in tali ambienti hanno
consentito di dimostrare che il contenuto in emanazione è assai alto e certamente
di molto superiore alla concentrazione ritenuta tollerabile. Anche in una larga
percentuale di animali da esperimento mantenuti per lungo tempo in miniera si
osserva la comparsa di cancro del polmone. Fra le varie sostanze radioattive
presenti nell'aria delle miniere il radon sembra svolgere il ruolo principale
nell'eziologia della malattia (v. Hueper, 1954 e 1955; v. Hueper e altri, 1952). Così
pure è stato possibile accertare che la frequenza di sarcomi delle ossa nelle operaie
di una fabbrica di orologi nel New Jersey addette alla verniciatura dei quadranti
con colori fluorescenti dipendeva dall'ingestione di sostanze radioattive. Le
operaie, infatti, per l'abitudine di affilare la punta del pennellino con le labbra,
ingerivano continuamente tracce di vernice contenente derivati del tono, il cui
accumulo nelle ossa determinava entro un periodo relativamente breve, di pochi
anni, l'insorgenza del tumore (v. Martland, 1929).
L'importanza delle radiazioni ionizzanti quale causa di tumori e di malattie
correlate è risultata tragicamente evidente dopo la constatazione
dell'impressionante aumento dei casi di leucemia tra i soggetti esposti agli effetti
della esplosione delle bombe atomiche a Hiroshima e Nagasaki nel 1 945, nell'area
compresa in un raggio di due chilometri dalle città l'incidenza della malattia, nella
forma di leucemia mieloide, fu calcolata essere da sei a sette volte maggiore in tali
popolazioni rispetto a quelle non comprese nelle aree contaminate. Si sono
osservati due periodi di massima incidenza della leucemia mieloide nelle suddette
popolazioni il primo compreso tra 4 e 8 anni dopo l'esplosione, con circa il 50% di
casi acuti, il secondo tra 13 e 14 anni dopo l'esplosione, con l'84% di casi acuti, e il
fenomeno non ha ancora ricevuto una soddisfacente spiegazione.
Già da tempo erano stati segnalati numerosi casi di leucemia tra i radiologi (v.
Jagic e altri, 1911): è stato calcolato che questi specialisti presentano una
probabilità di contrarre la malattia circa dieci volte maggiore rispetto agli altri
medici.
Accurate statistiche hanno inoltre dimostrato l'aumento di frequenza della
leucemia in bambini le cui madri siano state sottoposte a panirradiazione, durante
la gravidanza.
Dal punto di vista sperimentale in alcuni topi adulti del ceppo LAF1 esposti a
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esplosioni atomiche fu possibile osservare lo sviluppo di tumori in vari organi, in
particolare linfomi timici e leucemie e nelle femmine anche tumori ovarici e
ipofisari. Più dimostrative furono invece le ricerche di H. S. Kaplan e M. B. Brown
(v., 1952) e di L. Gross e altri (v., 1959), che ottennero alte percentuali di casi di
leucemia in topi di ceppi inbred nei quali, in condizioni normali, l'incidenza della
malattia è molto bassa: in particolare il Kaplan e il Brown dimostrarono la
possibilità di osservare dopo panirradiazione X l'incidenza di leucemia nel 90% dei
topi del ceppo C 57 Black - nei quali, spontaneamente, la malattia si manifesta
sporadicamente o non si manifesta affatto - con frequenza massima negli animali
di 2-4 settimane di vita e inversamente proporzionale all'età. Da rilevare che la
leucemia consegue, come già detto, all'irradiazione di tutto il corpo, mentre
l'irradiazione del solo timo ottenuta proteggendo con adeguata schermatura il resto
del corpo è priva di effetto leucemogeno; inoltre, la timectomia preventiva riduce a
circa un decimo i casi di leucemia da irradiazione o da sostanze chimiche, e questa
inibizione dello sviluppo della malattia è a sua volta annullata dall'impianto di
timo. Tali rilievi inducono a ritenere che il fatto che la leucemia sperimentale da
irradiazione sia di tipo linfatico, sia del tutto indipendente da una azione diretta dei
raggi sugli organi linfatici: Kaplan e Brown ritengono possibile la liberazione dai
tessuti irradiati di un fattore leucemogeno, e la sua inattivazione da parte degli
organi non irradiati nel caso di irradiazione parziale. L'inoculazione di cellule di
midollo osseo esercita un certo potere inibente sullo sviluppo della leucemia, se
praticata per via endovenosa subito dopo l'irradiazione. Inoltre, è stato osservato
che un analogo potere inibente esercita sul topo l'inoculazione di poltiglia di milza
della stessa specie e di milza di pecora, mentre un effetto inibente più modesto
consegue all'inoculazione di estratti splenici acellulari. Si è pertanto supposta
l'esistenza di un fattore antileucemogeno, che è stato indicato con la sigla RLP
(Radiation Leukaemia Protecting factor), attivo nei confronti della leucemia da
raggi ma privo di effetti nei confronti di quella da sostanze chimiche (v. Berenblum
e altri, 1965).
Di notevole interesse è il rilievo che l'irradiazione di topi appartenenti a ceppi con
alta incidenza di leucemia non determina aumento di tale incidenza: sembrerebbe
cosi dimostrato che in tali ceppi la potenzialità leucemica è già espressa ai valori
massimi e pertanto non incrementabile ulteriormente dalle radiazioni, mentre nei
ceppi a bassa incidenza di leucemia questa potenzialità è pressoché inespressa e
suscettibile di essere esaltata fino alla completa espressione dal trattamento
irradiante.
L. Gross (v., 1958) in topi del ceppo C3H e M. Liebermann e H. S. Kaplan (v., 1959)
in topi del ceppo C57 Black poterono fornire l'importantissima dimostrazione che
dagli organi degli animali nei quali si è sviluppata la leucemia da irradiazione è
possibile isolare un virus che può essere trasmesso in serie in animali normali
neonati: l'irradiazione, cioè, non sarebbe causa diretta di leucemia, ma agirebbe
attivando un virus leucemogeno latente, che sarebbe il vero effettore della malattia.
Tale virus risulterebbe identico al virus A della leucemia spontanea di Gross sia per
l'aspetto delle particelle osservate al microscopio elettronico, sia dal punto di vista
immunologico, differenziandosene soltanto per particolarità minori.
Contrariamente a quanto accade per il topo, nel ratto la panirradiazione non
induce lo sviluppo di leucemia bensì l'elevata incidenza di tumori solidi in vari
organi, nei quali però non si è finora riusciti a dimostrare particelle virali. Ciò non
autorizza tuttavia ad ammettere senz'altro una refrattarietà dei ratti alla leucemia
da virus, perché è ben noto che questi animali sono sensibilissimi all'azione
leucemogena del virus A; piuttosto si può pensare che nel ratto non esista un virus
potenzialmente leucemogeno, e che la panirradiazione attivi invece virus in grado
di indurre lo sviluppo di tumori solidi (v. Gross, 1970).
Secondo Gross, nel topo il virus attivabile da radiazioni è trasmesso dai genitori
alla prole, cioè in via verticale, e solo così se ne spiegherebbe la presenza in ceppi
come il C3H a bassissima incidenza leucemica. Gross non esclude la possibilità,
finora in realtà non dimostrata, di trasmissione del virus latente con il latte.
Non si conosce ancora il meccanismo con il quale i vari tipi di irradiazione
determinano tumori solidi o leucemie, ma certamente esso è molto complesso e va
inquadrato nell'ambito delle conoscenze radiobiologiche che hanno avuto negli
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ultimi anni uno sviluppo veramente notevole (v. radiologia medica; v.
radiobiologia). Occorre inoltre ricordare che le stesse radiazioni che esplicano
attività cancerogena possono, in determinate condizioni, determinare regressione
almeno temporanea di tumori e di leucemie, onde il loro ben noto impiego
terapeutico.
Sarà in seguito fatto cenno all'azione delle radiazioni su qualche fenomeno
cellulare elementare.
c) Cancerogenesi da solidi
La scoperta dello sviluppo di tumori in corrispondenza di superfici solide si deve a
F. C. Turner (v., 1941) che osservò in ratti l'insorgenza di sarcomi in prossimità di
dischi di bachelite introdotti nel tessuto sottocutaneo.
Al caso si deve la scoperta di B. S. Oppenheimer e altri (v., 1948) dello sviluppo di
sarcomi in ratti nei quali, allo scopo di produrre ipertensione sperimentale, i reni
erano stati avvolti con un foglio di cellofan. Successivamente, si riuscì a produrre
sarcomi mediante impianto sottocutaneo di fogli di cellofan. Tuttavia il concetto di
carcinogenesi da superfici solide fu delineato con precisione da H. Nothdurft (v.,
1955), il quale vide che mentre la polvere di cellofan risultava poco attiva
nell'indurre la formazione di sarcomi, i dischi di tale materiale mostravano di
possedere attività oncogena in grado direttamente proporzionale all'estensione
della loro superficie, cioè erano fortemente attivi quelli interi e meno attivi quelli
forati. Tali prove consentivano di escludere un'azione da sostanze chimiche, e il
processo venne indicato come cancerogenesi da superficie di corpi allo stato solido.
Il rapido sviluppo delle ricerche mise in evidenza la possibilità di produrre, sia pure
in grado diverso, sarcomi con l'impiego di fogli di molti tipi di plastiche, come il
dracon, il teflon, l'ivalon, il polietilene, il polistirene e vari altri, mentre le polveri o
trucioli di tali plastiche risultavano inattivi.
Un'ulteriore sorpresa provocarono le ricerche di G. Hecht (v., 1952), il quale
osservò sviluppo di sarcomi nel tessuto sottocutaneo di ratti in seguito all'impianto
di foglioline d'oro e successivamente di lamine d'avorio. Oppenheimer e altri (v.,
1956) riprodussero i tumori con l'impianto di lamine d'acciaio, di tantalio o di
vitallio (lega a base di cromo, cobalto, nichel e molibdeno). Successivamente si
dimostrò che anche l'asbesto induce sviluppo di sarcomi e che, mentre polveri di
quarzo o di vetro comune non svolgono attività oncogena, questa è svolta invece da
cristalli o lamine di quarzo o da lastrine di vetro.
Ricerche istogenetiche hanno consentito di risolvere parzialmente il problema,
facendo luce sulle modalità di sviluppo delle masse neoplastiche.
Attorno alle lamine di materiale solido si forma una capsula connettivale la quale
per vari mesi resta quiescente, cioè senza segni di attiva proliferazione cellulare o
di infiammazione, fino a quando in corrispondenza di una piccola zona inizia la
moltiplicazione cellulare di elementi atipici e quindi lo sviluppo del tumore. Nel
periodo di quiescenza la capsula è costituita da fibre collagene e da numerosi
fibroblasti immaturi, con scarsa partecipazione vasale. Le polveri, invece,
determinano reazioni infiammatorie più o meno vivaci, con partecipazione di
macrofagi, neoformazione vasale e comparsa di cellule giganti. Di particolare
interesse appaiono due osservazioni: asportando la lastrina di metallo o di plastica,
con una porzione della capsula che l'include, si verifica egualmente sviluppo di
sarcoma sui residui della capsula (v. Oppenheimer e altri, 1958); il trapianto nel
tessuto sottocutaneo di ratti normali della sola capsula connettivale, priva cioè
della lamina, dopo alcuni mesi dalla sua formazione, è seguito dallo sviluppo di
sarcoma (v. Nothdurft, 1960). Molto persuasiva è l'interpretazione di L. S.
Salyamon (v., 1961), secondo il quale la carcinogenesi da solidi è il risultato
dell'inibizione della infiammazione che si determina a livello delle superfici dei
solidi, mentre le polveri, come si è detto, costituiscono lo stimolo di una cospicua
reazione infiammatoria, frequentemente sfociante anche nella formazione di
granulomi.
A F. Bischoff e G. Bryson (v., 1964) si deve un'analisi dei termini di confronto tra
formazione di sarcomi da solidi e trasformazione in cellule sarcomatose di
fibroblasti normali coltivati in vitro. Nel 1941 C. P. Gey (v.) comunicò di aver
osservato trasformazione neoplastica in colture di cellule, suscitando un enorme
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interesse perché per la prima volta veniva dimostrata una cancerizzazione
spontanea, cioè senza intervento di carcinogeno. Successivamente W. R. Earle (v.,
1943) confermò tale osservazione, escludendo in modo assoluto la possibilità di
contaminazione delle colture con tracce di carcinogeni chimici o di virus.
Attualmente non si hanno più dubbi sulla possibilità di cancerogenesi spontanea di
cellule coltivate in vitro.
La cancerogenesi in vitro e quella da solidi presentano il carattere comune
dell'adesione dei fibroblasti a superfici inerti e l'interposizione di uno strato di
proteine tra cellule e superfici, che limita gli scambi gassosi. Secondo H. Goldblatt
e G. Cameron (v., 1953) l'anaerobiosi, in armonia con la teoria di Warburg, è
condizione favorente la trasformazione spontanea delle cellule coltivate in vitro in
cellule neoplastiche.
Il meccanismo della cancerogenesi da solidi è tuttora ignoto. L'ipotesi che dalle
sostanze plastiche si formino radicali liberi, cioè si verifichi trasferimento di
elettroni instabili dalla superficie del polimero alla cellula, così come accade per le
radiazioni, è probabilmente da escludersi, perché ricerche condotte da H. Druckrey
e D. Schmäll (v., 1954) mediante l'impiego di polietilene, che contiene radicali
liberi, e di cellofan, che ne è esente, non mettono in evidenza significative
differenze nella capacità delle due sostanze di indurre formazione di sarcomi.
A. Caputo (v., 1973) prende in considerazione la possibilità che per formazione di
legami a idrogeno tra polimeri e membrane dei lisosomi si determini un danno di
tali strutture che darebbe luogo alla liberazione di DNA-asi e conseguentemente ad
alterazioni delle catene polinucleotidiche del DNA.
È certo che il problema dell'attività carcinogenetica delle sostanze plastiche è di
notevole interesse medico non solo per l'impiego attualmente assai diffuso di
plastiche sostitutive, ma anche per l'inquinamento ambientale da parte di
componenti a base di plastiche poliviniliche. La dimostrazione fornita da P. L.
Viola e altri (v., 1971) che l'inalazione di aria con un contenuto del 30% di cloruro
di vinile induce tumori della cute, del polmone e delle ossa è quindi di grande
importanza teorica e pratica.
4. Cancerogenesi virale
a) Caratteristiche generali dei virus oncogeni
Gli studi sull'oncogenesi virale hanno dimostrato che sono in grado di produrre la
formazione di tumori sia virus a DNA sia virus a RNA.
I virus a DNA dotati di potere oncogeno sono il virus del polioma e il virus SV40, il
virus del papilloma, gli adenovirus, i poxvirus, gli herpesvirus; il loro DNA ha una
struttura a doppia elica, e nei virus del polioma, SV40 e del papilloma presenta una
forma ad anello in quanto le estremità di ogni catena sono legate tra loro da legami
covalenti di natura ancora non precisata (v. acidi nucleici). Questi tre virus sono
inoltre caratterizzati dal piccolo diametro delle particelle e dal più basso peso
molecolare del DNA (rispettivamente per i primi due 450 Å e 3•106 dalton, per il
terzo 550 Å e 5•106 dalton), e dal fatto che il loro esiguo genoma può codificare al
massimo dieci proteme ciò consente di distinguere facilmente nella cellula
trasformata i prodotti genici di origine virale e quelli di origine cellulare, e di
precisare il numero dei geni che intervengono nel processo di trasformazione
cellulare. Adenovirus, poxvirus ed herpesvirus hanno diametro delle particelle
maggiore, peso molecolare del DNA più elevato (per ognuno dei tre: 21-23•106
dalton, 160•106 dalton e circa 100•106 dalton) e morfologia più complessa; i
poxvirus causano tumori benigni cutanei in alcune scimmie e talvolta nell'uomo e
un fibroma nel coniglio, gli herpesvirus sono ritenuti gli agenti eziologici di alcuni
tumori degli animali e dell'uomo, quale l'adenocarcinoma di Lucké del rene di rana
e il linfoma maligno di Burkitt.
I virus a RNA sono causa di tumori in molte specie animali: appartengono a tale
gruppo proprio il virus della eritroleucemia dei polli, il primo virus di cui fu
scoperto il potere oncogeno (v. Ellermann e Bang, 1908), quello del sarcoma dei
polli (v. Rous, 1911), e altri come il virus di Bittner del carcinoma mammario del
topo, quelli della leucemia-sarcoma del topo, quelli del sarcoma-leucemia del gatto,
identificati molto più tardi e oggetto di ricerche ancor oggi molto estese. Sono virus
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di dimensioni piuttosto grandi (diametro delle particelle fino a 1.000 Å e oltre), il
cui genoma è costituito da un solo filamento di RNA caratterizzato da un peso
molecolare relativamente poco elevato.
Per quanto riguarda le caratteristiche generali dell'oncogenesi virale, i problemi più
interessanti sono quelli relativi ai meccanismi con i quali i virus inducono la
trasformazione cellulare. Come abbiamo già detto, questa consiste essenzialmente
nel fatto che le cellule si sottraggono ai meccanismi di controllo della
moltiplicazione per l'intervento di fattori in grado di agire sulla loro superficie o
sulle loro strutture interne. I virus sono risultati in grado di indurre alterazioni sia
della membrana cellulare (come nel caso del virus del sarcoma di Rous, già citato),
sia dei processi intracellulari determinando alterazioni di alcune attività
enzimatiche e della sintesi del DNA e conseguente comparsa di aberrazioni
cromosomiche. Un altro aspetto importante della trasformazione cellulare indotta
dai virus oncogeni a eccezione dei virus a RNA della leucemia murina,
dell'adenocarcinoma mammario del topo e della eritroleucemia dei polli, è che le
cellule trasformate contengono l'acido nucleico virale, DNA o RNA, in forma
funzionalmente incompleta: le ragioni di tale differente comportamento degli acidi
nucleici virali nelle cellule trasformate non sono note. Il problema della conoscenza
del meccanismo della trasformazione è strettamente connesso al riconoscimento
dell'alterazione metabolica che ne è responsabile, e quindi del prodotto o dei
prodotti genici che determinano il fenomeno, e all'identificazione di quelle
variazioni metaboliche che ne rappresentano invece una conseguenza. Di grande
importanza sono, a tale riguardo, gli studi con i mutanti temperatura-sensibili.
Cellule infettate con uno di tali mutanti crescono in vitro come cellule normali, e
non sono da queste differenziabili, se tenute a temperatura non permissiva, cioè 41
°C; sebbene producano virus, e quindi siano infettate, tali cellule non sono dunque
trasformate. Se le stesse cellule sono invece mantenute a 36 °C, cioè a temperatura
permissiva, si determina la trasformazione, che retrocede tuttavia se la
temperatura è nuovamente portata a 41 °C. Appare chiaro che in tali mutanti si è
determinata una particolare alterazione responsabile della codificazione di una o
più proteine denaturabili dalla temperatura, la cui identificazione e il cui studio
sono essenziali per la comprensione del processo di trasformazione che esse sono
in grado di indurre e di mantenere.
Un altro vantaggio offerto dallo studio dei mutanti temperatura-sensibili è
rappresentato dalla possibilità di ottenere sincronizzazione della trasformazione:
infatti, infettando le cellule a temperatura più bassa e lasciando trascorrere il
tempo necessario perché tutte siano infettate, è possibile ottenere in poche ore la
trasformazione di tutti gli elementi con l'elevazione della temperatura a 36 °C.
Esaminiamo ora alcuni dei tumori sperimentali da virus, tra quelli più studiati e
diffusamente impiegati nelle ricerche.
b) Virus polioma e SV40
La storia della scoperta di questo virus è incerta. Nel suo libro Oncogenie viruses,
L. Gross (v., 1970) riferisce che nel 1951, in alcuni dei topi neonati di ceppo C3H ai
quali aveva inoculato un filtrato di tessuti di topi di ceppo AK affetti da leucemia
spontanea, osservò, anziché l'atteso sviluppo della leucemia, la comparsa di tumori
del collo in ambo i lati. Egli pubblicò questa sua osservazione soltanto due anni
dopo, cioè proprio quando S. E. Stewart (v., 1953) comunicava di aver rilevato lo
stesso fenomeno. È difficile dire a chi tocchi la priorità della scoperta, nonostante
che Gross la rivendichi a sé con molte argomentazioni.
Gross indicò il virus come parotid tumor virus, perché i tumori del collo comparsi
in seguito all'inoculazione di filtrato erano adenocarcinomi della parotide. Qualche
anno dopo Stewart e altri (v., 1957) riuscirono a isolare un virus capace di produrre
tumori anche di altri organi, e proposero quindi di chiamarlo polyoma virus (virus
di tumori multipli), nome che ha incontrato fortuna ed è divenuto di uso corrente.
È questo uno dei virus più profondamente studiati non solo nelle ricerche di
oncogenesi, ma anche in quelle di virologia generale e di biologia molecolare.
La sua inoculazione determina comparsa di alterazioni dei tubuli renali di aspetto
adenocarcinomatoso e, in una certa percentuale di casi, di sarcomi del rene talvolta
bilaterali, sviluppo di carcinomi della mammella, di tumori delle ossa, di carcinomi
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dei surreni e di altri tipi di neoplasmi. Complessivamente, secondo le osservazioni
di Stewart e collaboratori, il virus del polioma è in grado di provocare ben 23 tipi di
tumori a struttura istologica differente, sebbene con frequenze molto diverse.
In generale non esiste alcuna relazione tra la leucemia e i vari tumori solidi indotti
dal virus, nel senso che solo eccezionalmente la sua inoculazione è seguita dalla
contemporanea comparsa dei due tipi di processi morbosi. Si è pertanto supposto
che questi siano in realtà provocati da due virus diversi occasionalmente presenti
in uno stesso animale o in un particolare ceppo inbred di topi, e che tra essi si
stabilisca un fenomeno di interferenza tale che la penetrazione di uno dei due in
una cellula impedisce l'azione dell'altro. Questa ipotesi sembra confermata da varie
prove abbastanza convincenti, quali la possibilità di annullare con il riscaldamento
a 56 °C per 30 minuti l'attività leucemogena, ma non quella cancerogena,
dell'estratto di colture cellulari infettate e l'inattivazione della sola attività
cancerogena ma non di quella leucemogena del virus, a opera del siero di topo
immunizzato mediante trattamento con liquido di colture cellulari in cui si è
moltiplicato il virus polioma.
Il virus polioma viene facilmente coltivato in colture soprattutto di cellule
embrionali di topo; è di notevole interesse il fatto che la coltivazione in serie
determina progressivo aumento non solo della produzione, ma anche dell'attività
del virus, nel senso che la capacità di indurre tumori a strutture istologiche diverse
è maggiore per il virus coltivato su cellule in vitro che per quello che si estrae dalla
massa tumorale.
Il virus polioma è attivo su molti ceppi, inbred e non inbred, di topi; in criceti
neonati provoca lo sviluppo di vari tumori, come nel topo, e talvolta sarcomi del
muscolo cardiaco, che nell'uomo e negli animali da esperimento è raramente sede
di neoplasmi. Questa particolare sensibilità di topi e criceti neonati e di varie altre
specie (ratti, furetti, conigli, cavie, un tipo di ratto selvatico) ha determinato un
larghissimo impiego del virus nelle ricerche di oncologia sperimentale. La varietà
di specie sensibili al virus e la capacità di questo di indurre tumori di molteplici tipi
istologici, se per certi aspetti rappresentano un vantaggio nella soluzione di
determinati problemi tecnici, di fatto danno tuttavia luogo a una situazione
sperimentale multiforme e complessa.
A tale proposito va anche considerato che il virus polioma è presente in
un'altissima percentuale di topi normali di ceppi inbred diversi dall'originario AK,
cioè in quelli C3H, C57 Brown ecc., senza alcuna relazione con la frequenza in
questi ceppi di incidenza spontanea di leucemia o di carcinoma della mammella.
Furono inizialmente identificati diversi ceppi del virus polioma, dei quali uno
caratterizzato da maggiore attività oncogena nei confronti di ratti e criceti rispetto
al topo, uno da una particolare affinità per il timo, altri forniti di elevata attività
citopatogena e bassa attività carcinogenetica. La vera fase scientifica sui mutanti
del virus polioma iniziò, però, quando M. Fried (v., 1965) dimostrò che al
trattamento con acido nitroso resistono solo alcune particelle virali : se con queste
si infettano colture di cellule embrionali di pollo mantenute a temperature di 31 °C
(temperatura permissiva) e di 38 °C (temperatura non permissiva), si osserva che il
25% delle placche di cellule trasformate che ne derivano risultano sensibili alla
temperatura, cioè possono svilupparsi solo a temperatura permissiva. I mutanti del
virus in grado di indurre la formazione di tali placche vennero indicati con la sigla
ts (temperature-sensitive). Da questo primo esperimento numerosissime ricerche
si sono susseguite, sia con altri mutageni come l'idrossilammina, sia con varie linee
cellulari come la 3T3 (v. Di Mayorca e altri, 1969), tanto che finora sono stati isolati
circa 200 mutanti ts. Analoghe osservazioni sono state in seguito compiute sul
virus SV4O e su quello di Rous. Si ritiene oggi che la temperatura permissiva
consenta la sintesi di alcuni prodotti genici, impossibile alla temperatura non
permissiva: si dispone così di un espediente tecnico di grandissima importanza per
la virologia oncologica, perché consente di distinguere alcuni fatti della
trasformazione cellulare come dipendenti o indipendenti dall'attività virale,
soprattutto di precisare quanta parte del genoma virale è indispensabile per il
mantenimento nella progenie cellulare e quindi anche nel tumore in vivo del
carattere di trasformazione.
Nel 1959 G. A. Di Mayorca e altri (v.) fornirono l'im- portante dimostrazione che il
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DNA del virus polioma, isolato con metodi chimici e inoculato in colture di cellule
di embrione di topo, determina effetto citopatogeno e, do- po due passaggi,
produzione di particelle virali che, a loro volta inoculate nel topo, provocano la
comparsa di tumori. La prova decisiva che la sostanza isolata biologicamente attiva
fosse DNA fu fornita dalla sua inattivazione specifica, cioè dalla perdita della sua
attività infettante, dopo trattamento con desossiribonucleasi. L'estrazione del DNA
infettivo è facilitata dal riscaldamento delle cellule a temperature comprese tra 75 e
100 °C, con un meccanismo e per ragioni tuttora non conosciuti; trattasi comunque
di un DNA dotato di una notevole termoresistenza, che può essere mantenuto per
30 minuti a 100 °C senza che perda la sua attività. Successivamente, in altri
laboratori fu realizzata l'estrazione del DNA anche con altri solventi, e si dimostrò
inoltre la capacità infettante di DNA estratti da virus del papilloma di Shope (v. Ito,
1960) e SV40 (v. Boiron e altri, 1962).
Numerose sono state le ricerche di microscopia elettronica per l'identificazione
delle particelle virali del polioma e la dimostrazione delle loro dimensioni, condotte
iniziai- mente su liquido di colture cellulari, poi su sezioni ultrasottili: nel corso di
tali studi fu possibile anche dimostrare la presenza nel nucleo delle cellule infettate
di cospicui addensamenti di particelle virali a struttura cristallina. La grandezza dei
virus può anche essere determinata, oltre che con la microscopia elettronica,
mediante l'ultrafiltrazione attraverso membrane di collodio a porosità nota e per
mezzo dell'ultracentrifugazione.
Nel nucleo sono state messe in evidenza anche formazioni filamentose di diametro
corrispondente a quello delle particelle di tipo cristallino, la cui comparsa precede
quella delle particelle: basandosi su tali osservazioni W. Bernard e altri (v., 1959)
hanno concluso che in realtà i filamenti sono costituiti dalle particelle stesse.
Quando queste divengono così numerose da riempire i nuclei, passano nel
citoplasma: qui non è possibile osservare filamenti, ma si rinvengono soltanto
particelle piccole e grandi, queste ultime facenti parte di corpi inclusi.
Nelle cellule dei tumori, di qualsivoglia struttura istologica, le particelle virali si
riscontrano in numero molto piccolo o non si riscontrano affatto: ciò corrisponde
al fatto, noto già dagli studi iniziali, come si è accennato, che dai tumori si
estraggono solo piccole quantità di virus, contrariamente a quanto si verifica per le
cellule coltivate in vitro e infettate con virus polioma dalle quali se ne ottengono
grandi quantità.
Nelle cellule infettate con virus polioma sono presenti due antigeni, che mancano
nelle corrispondenti cellule normali, uno dei quali compare nel nucleo prima che
inizi la sintesi del DNA virale e prima della comparsa dell'antigene capsidico, e può
essere dimostrato per mezzo dell'immunofluorescenza o della fissazione del
complemento: tale antigene, inizialmente designato con la sigla ICFA (Inducing
Complement Fixation Antigen), è stato poi denominato T per indicarne la presenza
oltre che nelle cellule infettate anche in quelle trasformate e in quelle dei tumori.
Anticorpi antiantigene T sono dimostrabili nel siero di criceti adulti portatori di
tumori trapiantabili da virus polioma o nel siero di topi neonati infettati con tale
virus. Antigeni T sono anche presenti in cellule infettate con SV40 o con
adenovirus, ma poiché i corrispondenti anticorpi non danno reazioni crociate si
ritiene che questi antigeni siano prodotti dal genoma virale e quindi specifici di
ciascun virus.
Un'altra classe di antigeni dimostrata nei tumori indotti da virus polioma, SV40 e
adenovirus, indicata con la sigla TSTA (Tumor Specific Transplantation Antigens),
favorisce la resistenza al trapianto di cellule tumorali in animali adulti
precedentemente infettati con tali virus. In queste condizioni sperimentali, infatti,
in un certo numero di animali nei quali si è sviluppato il tumore a seguito
dell'inoculazione di virus si determina il rigetto, così come avviene nei trapianti di
organi o di tessuti tra animali della stessa specie, fenomeno essenzialmente di
natura immunitaria dovuto all'attività che i linfociti dell'ospite esplicano nei
confronti del tessuto trapiantato. È probabile che questi antigeni siano localizzati
sulla membrana cellulare.
I quesiti relativi ai due tipi di antigeni sono numerosi e complessi, e investono il
problema più generale dell'immunologia dei tumori: a tale proposito, occorre tener
presente che è stata dimostrata un'antigenicità anche nei tumori indotti da
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sostanze dotate di attività carcinogenetica, nei quali una delle più tipiche
caratteristiche è la rarità delle reazioni crociate immunologiche tra i vari tipi di
tumori.
Il virus SV4O, molto simile al virus polioma per quanto riguarda sia le
caratteristiche fisiche e chimiche, sia quelle biologiche quali la capacità di indurre
la trasformazione cellulare e di formare antigeni, si trova largamente diffuso nelle
colture di rene di scimmia impiegate per la coltivazione di virus patogeni per
l'uomo e in particolare di quello della poliomielite. La scoperta del virus SV4O si
deve a B. H. Sweet e M. R. Hilleman (v., 1960), i quali videro che il liquido di
coltura di cellule renali di rhesus o di cynomolgus produceva in quelle di
cercopiteco un intenso effetto citopatico, consistente essenzialmente nella
formazione di vacuoli. Il virus responsabile di tale alterazione fu quindi chiamato
agente vacuolizzante e successivamente indicato con la sigla SV4O proposta da R.
N. Hull e altri (v., 1956) e facente seguito alla serie di sigle progressive SV1, SV2
ecc. con le quali erano stati designati vari virus isolati in colture di cellule renali di
scimmia. L'attività oncogena del virus fu dimostrata in criceti neonati da B. E.
Eddy e altri (v., 1961) e confermata in vari altri laboratori; fu tra l'altro messa in
evidenza la sua capacità di indurre tumori del cervello in un roditore (Mastomys
natalensis), e soprattutto quella di trasformare cellule umane coltivate in vitro.
Naturalmente, il fatto che il virus SV4O fosse riscontrato in preparazioni di vaccino
Sabin destò un certo allarme, sebbene l'infezione di volontari con tale virus non
abbia dato luogo a fenomeni morbosi. Sono stati fatti innumerevoli tentativi per
evitare la contaminazione di vaccini con SV40, e si sono adoperati in proposito
anticorpi specifici o sostanze chimiche come il beta-propiolattone, che è risultato in
grado di inattivare il virus SV40 senza distruggere quello poliomielitico.
c) Tumori da virus erpetici: il linfoma di Burkitt e l'adenocarcinoma di Lucké del
rene di rana
Come accennato, certi virus erpetici sono considerati da alcuni studiosi, sulla base
di dimostrazioni molteplici e di rilievi epidemiologici di notevole importanza,
agenti eziologici di tumori umani e di tumori degli animali. Ciò nonostante,
esistono tuttora non pochi dubbi principalmente per il fatto che, specie nell'uomo, i
virus erpetici sono molto diffusi così come diffusa è la presenza di anticorpi
antierpetici. È ben noto, inoltre, che herpesvirus persistono in molti individui
anche per tutta la vita, provocando occasionalmente eruzioni erpetiche nonostante
la presenza di anticorpi specifici nel sangue circolante. La struttura morfologica, la
composizione chimica e le varie fasi dei virus nella cellula ospite sono state
ampiamente indagate negli ultimi anni, ma le conoscenze acquisite sulla loro
oncogenicità sono tuttora relativamente scarse, nonostante gli sforzi compiuti.
I due tumori per i quali l'eziologia erpetica è altamente probabile sono il tumore di
Burkitt dell'uomo e l'adenocarcinoma di Luckè della rana; meno certe sono le
conoscenze sull'eventuale significato eziologico dei virus erpetici nei riguardi del
carcinoma a cellule squamose del collo dell'utero della donna e per alcuni altri
tumori di animali. Poiché per i primi due le ricerche sono state estesissime, specie
negli ultimi anni, e da esse sono derivati fatti e idee di ordine generale, si riporta in
sintesi la sequenza delle scoperte.
D. Burkitt (v., 1958), chirurgo inglese nell'ospedale di Kampala in Uganda,
individuò una particolare sindrome, occorrente con una certa frequenza in bambini
sino ai 14 anni di età viventi in determinate zone, nelle quali rappresenta circa il
50% dei tumori dell'infanzia. Si tratta di un linfoma la cui localizzazione più
frequente è nei mascellari, ma che può manifestarsi in vari organi e in modo
particolare nelle ovaie; tuttavia, contrariamente a quanto si osserva in altri linfomi,
non determina aumento di volume della milza nè dei linfonodi, ma solo
occasionalmente rare adenomegalie a sede addominale, e non si accompagna a
comparsa di cellule abnormi nel sangue periferico nemmeno negli stadi terminali.
Burkitt e collaboratori visitarono cinquanta ospedali dell'Africa centrale e poterono
osservare numerosi casi della malattia, diversamente diagnosticati. Per l'Uganda fu
accertata l'esistenza, prima dell'osservazione di Burkitt, di almeno duecento casi
del linfoma. Fu così individuata la cintura del linfoma (lymphoma belt), una vasta
zona compresa all'incirca fra i 15 gradi di latitudine nord e i 20 gradi di latitudine
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sud. Inoltre, l'incidenza della malattia apparve limitata ad altitudini inferiori ai
1.600 metri, e ciò fece concepire l'idea che l'agente eziologico fosse trasmesso da un
insetto vettore incapace di vivere al di sopra ditale altezza: esso però non è stato
identificato nemmeno nel corso delle indagini più recenti. Va sottolineato, e in
seguito ne sarà dimostrata la ragione, che vari casi di linfoma di Burkitt sono stati
riscontrati nella Nuova Guinea, alcuni in Canada, alcuni negli Stati Uniti, in
Colombia e in regioni del Sudafrica, un caso tra gli eschimesi.
Per un certo tempo sembrò che tali reperti potessero infirmare il concetto di
lymphoma belt, che tuttavia successivamente ricevette piena conferma dalla
constatazione che la frequenza del tumore nei territori della cintura è
enormemente più alta, tanto da assumere aspetto epidemiologico; solo nella Nuova
Guinea è possibile rilevare un'incidenza relativamente più elevata del linfoma, che
invece si manifesta negli altri paesi in casi isolati.
Vari virus furono di volta in volta osservati e descritti, alcuni di tipo erpetico, altri
di tipo reovirus (v. Bell e altri, 1964), ma la conclusione fu che essi erano solo virus
occasionali, di frequente osservazione nelle cellule neoplastiche, e conosciuti con il
nome di opportunist passengers. Si era, così, nella condizione di non riuscire a
individuare il virus agente eziologico di una malattia che pure, per molte
considerazioni, si doveva ritenere di natura virale.
M. A. Epstein e Y. M. Barr (v., 1965) considerarono la possibilità che il virus nelle
cellule del tumore fosse mascherato dagli anticorpi specifici formatisi nel corso
della malattia, e la conseguente estrema difficoltà di dimostrarlo con la
microscopia elettronica; essi ritennero quindi che solo in colture di cellule avulse
da ogni possibile contatto con anticorpi si sarebbe riusciti a porlo in evidenza. La
coltivazione in vitro di materiale bioptico di linfoma di Burkitt, compiuta in
Uganda dagli stessi autori nel 1964 e da R. J. V. Pulvertaft (v., 1967) in Nigeria,
dette luogo allo sviluppo di linee continue di linfoblasti, eliminando così ogni
possibile dubbio sulla natura neoplastica della malattia in quanto è noto che i
linfociti normali non danno linee continue. Nel corso di tali ricerche, dopo alcuni
passaggi, sia in sezioni ultrasottili degli elementi linfoblastici sia su pellets di loro
estratti furono osservate particelle virali di tipo erpetico che vennero indicate con
la sigla EB, Epstein-Barr (v. Epstein e Barr, 1964; v. Epstein e altri, 1964 e 1966).
Successivamente, S. Toshima e altri (v., 1967) poterono osservare tali particelle
anche all'esame diretto delle cellule del linfoma.
Osservazioni oltremodo interessanti sono scaturite nel corso di tali studi: Stewart
(v., 1969) ha dimostrato che in criceti neonati e timectomizzati l'inoculazione
combinata di virus EB e di dimetilsulfossido (DMSO) determina l'insorgenza di
un'encefalite trasmissibile in serie; questa malattia in altre specie - scimmie, topi,
cavie, conigli e gattini neonati - è invece provocata dal solo virus anche in assenza
di DMSO. La spiegazione di questi dati sperimentali non appare semplice: si
potrebbe infatti ammettere sia la contaminazione con un virus neurotropo, sia un
vario potere patogeno dell'EB che sarebbe in grado di provocare nell'uomo il
linfoma e negli animali l'encefalite. Di estrema importanza è senza dubbio la
capacità mostrata dall'EB di indurre in vitro crescita illimitata di linfociti del
sangue periferico, sicura espressione di trasformazione neoplastica.
Una svolta importante negli studi sul linfoma di Burkitt è stata segnata dalle
ricerche immunologiche: con tecniche di immunofluorescenza si è dimostrato che i
sieri di soggetti ammalati e i sieri di conigli nei quali sia stato inoculato l'EB
reagiscono solo con le cellule contenenti il virus, la cui presenza è facilmente
controllabile al microscopio elettronico; si è inoltre osservato che reagiscono con
tali cellule anche i sieri di un'elevata percentuale di individui normali.
Tutto ciò induce ad ammettere che il virus EB sia largamente diffuso e determini
negli organismi la formazione di anticorpi che ne impediscono l'attività patogena, e
che nelle zone ove la sua diffusione è meno estesa, più elevata è la frequenza di
soggetti non immuni e quindi suscettibili ad ammalarsi.
L'immunologia ha inoltre convalidato il ruolo eziologico del virus EB per il linfoma
con la dimostrazione della comparsa nelle cellule infettate con esso, analogamente
a quanto è possibile osservare in cellule trasformate da altri virus, di un
neoantigene al quale sarebbe dovuta la reattività immunologica nelle prove di
immunofluorescenza.
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Per quanto riguarda la possibile identificazione dell'EB con altri virus, occorre
anzitutto precisare che esso presenta una notevole affinità con il virus dell'herpes
simplex, ma se ne differenzia nettamente perché non è in grado come questo di
indurre effetto citopatogeno e per l'assenza di corrispondenza immunologica.
Suggestiva appare l'ipotesi della probabile esistenza di rapporti tra EB e virus della
mononucleosi infettiva dell'uomo: già da tempo infatti è stata segnalata una certa
frequenza di tale malattia in individui a contatto con ammalati di linfoma, e a
opera di numerosi ricercatori e soprattutto di G. Henle e altri (v., 1968) è stato
dimostrato che in ammalati di mononucleosi gli anticorpi antivirus EB - presenti
come abbiamo già detto negli individui normali - sono assenti nel siero nelle fasi
iniziali e fanno la loro comparsa più tardi durante il decorso della malattia.
Lo studio delle colture cellulari ha consentito inoltre osservazioni di estremo
interesse. Anzitutto, è stato dimostrato che al pari delle cellule del linfoma i
linfociti del sangue periferico degli ammalati di mononucleosi danno linee
continue: tale comportamento, caratteristico delle cellule neoplastiche, è in netto
contrasto con la natura assolutamente benigna della mononucleosi che anzi
regredisce spontaneamente, ma occorre ricordare che, con una certa frequenza,
regrediscono anche linfomi di Burkitt. Si è poi accertato che sia nelle cellule del
linfoma coltivate in vitro, o nei linfociti normali infettati con EB, sia nelle cellule
della mononucleosi è presente un'anomalia cromosomica consistente
nell'accorciamento del braccio lungo del cromosoma 10.
La scoperta che anticorpi antivirus EB sono largamente presenti nelle popolazioni
ha portato necessariamente ad ammettere che tale virus sia molto diffuso nel
mondo e che la valida immunizzazione che precocemente si determina nei suoi
confronti ne renda impossibile l'identificazione anche al microscopio elettronico e
la coltivazione con i tradizionali metodi virologici: la sua attività patogena può
quindi esplicarsi solo nei rari casi nei quali l'individuo non è venuto a contatto con
esso, con una certa analogia a quanto avviene per la poliomielite. Lo studio di
questi fenomeni ha prospettato una serie di problemi quanto mai complessi, tra i
quali soprattutto la ricerca e il chiarimento dei motivi per cui in assenza di
immunizzazione in alcuni soggetti si sviluppa il linfoma e in altri la mononucleosi.
Nel 1934 B. Lucké (v.) pubblicò uno studio accurato di un adenocarcinoma renale
che aveva osservato in molte delle rane catturate nell'area del lago Camplain nel
Vermont; il tumore fu riscontrato anche in rane viventi in zone lacustri del
Wisconsin e del Quebec, e in altre zone. La frequenza con la quale era possibile
osservare tale neoplasia negli Anfibi fece per la prima volta prospettare l'ipotesi
della trasmissione di un tumore maligno per contagio.
Lo studio di tale neoplasia permise di accertare una serie di fatti inaspettati e
singolari. Anzitutto fu dimostrato che il tumore può essere trapiantato a rane dello
stesso ceppo, ma non a quelle della stessa specie ma di ceppo diverso: così, il
trapianto non attecchisce se un adenocarcinoma renale di una rana del Vermont,
ad esempio, viene trapiantato in una del Wisconsin, pur appartenendo ambedue gli
anfibi alla stessa specie, Rana pipiens. Tuttavia, malgrado questa strettissima
specificità nell'ambito della stessa specie, la trasmissibilità del tumore fu operata
con successo nel tritone (Triturus viridiscens o Diemictylus viridiscens), cioè
addirittura in un animale appartenente ad altro genere: nel nuovo ospite il
trapianto si sviluppa come adenocarcinoma del rene, ma talvolta anche come
condrosarcoma, vale a dire come un tumore di struttura istologica completamente
differente. Fu inoltre dimostrato che il successivo trapianto in Rana pipiens di
questi due tipi di tumori sviluppatisi nel tritone dà luogo a sua volta a sviluppo di
entrambi i tipi istologici: di questi, però, il condrosarcoma regredisce, mentre
l'adenocarcinoma si sviluppa ulteriormente perdendo la peculiare originaria
specificità di ceppo così da poter essere trapiantato in rane di altre zone.
Sin dalle prime indagini è apparso verosimile che la neoplasia sia causata da un
virus, in quanto non solo lo stesso Lucké aveva dimostrato la possibilità di
riprodurla mediante inoculazione di estratti di tumore essiccato e conservato a
bassa temperatura o anche tenuto in glicerina al 50%, ma si osservò anche che
l'introduzione di frammenti di tumore in parti diverse del corpo della rana dà
luogo, per la diffusione dalla sede di impianto di un virus che si fissa elettivamente
nel tessuto renale, a sviluppo di adenocarcinoma del rene anziché di un tumore
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locale: questo fenomeno è particolarmente evidente se si opera l'innesto nella
camera anteriore dell'occhio, ove l'attecchimento è notevole e rapido, ma seguito
dalla regressione della massa che inizialmente si sviluppa e dalla comparsa di un
adenocarcinoma del rene.
Singolare è anche il fatto che la crescita del tumore è vivace durante i mesi estivi, si
attenua o cessa del tutto durante quelli invernali e riprende in primavera. Dai
tumori invernali il virus si estrae facilmente in grande quantità, da quelli estivi se
ne estrae pochissimo o non se ne estrae affatto: questo fenomeno dell'esistenza di
un rapporto inverso tra crescita tumorale e produzione di virus pare dipendere
esclusivamente dalla temperatura, perché M. Mizell e altri (v., 1969) hanno
osservato che è possibile estrarre virus solo da tumori di rane tenute artificialmente
a bassa temperatura e non da quelli di animali mantenuti a temperatura elevata. Si
tratta con ogni probabilità di un fenomeno analogo a quello noto per alcuni fagi,
per il polioma, l'SV40, il virus di Rous, i cui mutanti temperatura- sensibili
esplicano a bassa temperatura - temperatura permissiva - alcune attività che non
sono invece in grado di esplicare a temperatura elevata, cioè non permissiva, come
si è già accennato.
Connessa con la produzione di virus nelle rane ibernanti è la diffusione
dell'infezione: in primavera parte del virus prodotto viene eliminato con le orme,
diffuso nell'acqua, assunto dai girini, con conseguente sviluppo di tumore, mentre
ciò non può avvenire durante l'estate.
La prima prova diretta dell'esistenza di un virus quale agente eziologico
dell'adenocarcinorna renale fu fornita da W. R. Duryll (v., 1956), il quale dimostrò
che un estratto di tumore filtrato su filtro da batteriologia e inoculato nelle rane dà
luogo a sviluppo dell'adenocarcinoma.
Con le prime osservazioni di microscopia elettronica si poté dimostrare su sezioni
ultrasottili di tumore l'esistenza di particelle virali endonucleari e di particelle virali
citoplasmatiche, le prime di tipo erpetico, le seconde di tipo poliedrico, ma non si
riuscì a stabilire se le une o le altre o entrambe fossero i reali agenti eziologici.
Dalle colture in vitro di cellule del tumore e di cellule normali di Anfibi e di specie
diverse, compresi i Mammiferi, infettate con materiale proveniente dal tumore
della rana, sono stati isolati numerosi ceppi di virus, che sono stati indicati con una
sigla seguita da un numero: quelli isolati dalla Rana pipiens con sigla FV (Frog
Virus) seguita da numeri progressivi, FV1, FV2, FV3, ecc. (l'FV3 è stato isolato da
un tumore renale, FV1, FV2 da rane normali); altri ceppi con la sigla L (L1, L2, L3,
ecc.), altri ancora con quella LT (LT1, LT2, LT3, ecc.).
Alcuni di tali ceppi sono stati anche isolati da tumori fatti sviluppare in ospiti
intermedi, ad esempio nel tritone, allo stato larvale e a quello adulto.
La maggior parte dei ceppi isolati è di tipo virus cito- plasmatici, e si riscontrano in
cellule parenchimali, ad esempio del fegato, sia di animali normali sia di animali
portatori di tumore. Nella compagine del tumore i virus citoplasmatici sono anche
frequenti, ma sono localizzati solo in cellule stromali anziché in quelle
neoplastiche. Attualmente, però, si ritiene che i virus citoplasmatici non abbiano
significato eziologico e sono quindi considerati come opportunist passenger
viruses. Con maggiore probabilità, invece, possono essere identificate come agenti
eziologici della neoplasia le forme virali di tipo erpetico osservabili al microscopio
elettronico nelle sezioni del tumore.
Dei ceppi isolati l'FV4 è il solo di natura erpetica ; poi- ché la sua curva di crescita
in colture cellulari è bifasica, si ammette il concorso di un helper, cui è stata data la
sigla CAV (Cell Associated Virus), in analogia a ciò che si verifica per virus di
neoplasie di altre specie e in particolare del sarcoma di Rous.
Tuttavia, né con i virus citoplasmatici né con FV4 è possibile indurre sviluppo di
tumore in animali adulti o in embrioni, girini, larve ecc., o provocare la trasformazione neoplastica in cellule coltivate in vitro. Quindi, per lo stesso virus di tipo
erpetico, che è maggiormente indi- ziato quale agente del tumore di Lucké, è
mancata la prova eziologica decisiva della produzione della neoplasia.
È probabile che, in base alle conoscenze del virus EB del tumore di Burkitt, anche
la questione dell'eziologia del tumore di Lucké venga chiarita: infatti è certo che tra
i due tipi di tumore, per quanto riguarda la situazione virologica, le affinità o
analogie sono molto strette.
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d) Il sarcoma di Rous
Nel 1911 Peyton Rous, nell'Istituto Rockefeller di New York, descrisse un sarcoma
dei polli provocato da un virus, che fu indicato con il n. 1 quando, di lì a poco,
seguirono le scoperte di numerose altre neoplasie di questo tipo: tra queste, con il
n. 5 fu designato il tumore osservato nel 1915 a Napoli da F. Pentimalli (v., Quinto
tumore..., 1916), mentre con il n. 7 venne indicato un osteocondrosarcoma che lo
stesso Rous in collaborazione con J. B. Murphy e W. H. Tyler individuò nel 1912 (v.
Rous e altri, 1912). Circa 50 sono complessivamente i sarcomi provocati da virus
scoperti finora nei polli e in altri volatili. Attualmente il sarcoma di Rous è
considerato uno dei più importanti materiali di ricerca in oncologia sperimentale.
Dal punto di vista più strettamente patologico il tumore di Rous è, tra i tumori
degli animali, uno di quelli che più si avvicinano ai tumori dell'uomo sia per
l'aspetto morfologico sia per l'evoluzione maligna. Le cellule sono fortemente
anaplastiche, la crescita è di tipo infiltrativo con distruzione del tessuto invaso, con
grande frequenza compaiono metastasi soprattutto nel polmone e nelle ovaie e gli
animali vanno rapidamente incontro a cachessia.
L'iniziale ipotesi che il trapianto del tumore fosse possibile solo in alcune razze di
polli, comunque non in altri volatili, fu in seguito smentita: come sarà chiarito più
avanti, furono studiate le ragioni della differente recettività delle varie razze al
sarcoma, e fu possibile isolare ceppi di polli sensibili o insensibili all'azione del
virus. Si è comunque accertato che in generale gli animali giovani sono molto più
suscettibili a tale azione di quelli adulti, e che nei più vecchi, specialmente nei galli,
il trapianto del sarcoma non attecchisce o tutt'al più è seguito dallo sviluppo di un
fibroma che abitualmente non contiene virus.
Nel 1914 in Giappone A. Fujinami e K. Inamoto (v.) avevano osservato un tumore
del pollo trapiantabile in animali della stessa specie, e quattro anni dopo ne avevano dimostrano la filtrabilità dell'agente eziologico. Successivamente Fujinami e K.
Suzue (v., 1928) riuscirono a trapiantare il tumore in anatre, dimostrando così per
la prima volta la possibilità di eterotrapianti che, innestati nel pollo, riproducevano
il tipico tumore. Queste ricerche, che hanno avuto in seguito larghissima
estensione, hanno dimostrato la possibilità di effettuare il trapianto in molte altre
specie animali, in particolare in Mammiferi, consentendo così la scoperta di alcuni
fatti di fondamentale importanza.
Quando Rous, nel 1911, descrisse il sarcoma indicato con il suo nome, fornì pure la
prima dimostrazione dell'eziologia virale della neoplasia, poiché riuscì a riprodurre
un sarcoma identico come struttura a quello originario inoculando nei muscoli di
un pollo un filtrato per candela di tale tumore. Inoltre, lo stesso Rous in
collaborazione con Murphy (v. Rous e Murphy, 1912 e 1914) dimostrò pure che
frammenti del tumore essiccati o conservati in glicerina al 50% inoculati in polli
danno luogo a sviluppo della neoplasia.
Innumerevoli seguirono poi le ricerche tendenti a definire i caratteri del virus
responsabile del sarcoma; soltanto nel 1947 fu possibile ad A. Claude e altri (v.,
1947) osservare al microscopio elettronico su sezioni ultrasottili di tumore o di
pellets da centrifugazione di estratto di tumore la presenza di particelle virali, e il
reperto fu successivamente confermato con varia frequenza da numerosi altri
ricercatori.
Sin dalle prime ricerche apparve chiaro che le cellule stimolate in modo aspecifico
alla proliferazione risultano più recettive al virus: fu infatti osservato che
l'inoculazione di filtrato acellulare di tumore, che specialmente se ottenuto da
neoplasia a lento accrescimento può non dar luogo a crescita neoplastica, è
prontamente seguita dalla comparsa di sarcoma se si aggiunge al materiale
inoculato polvere di diatomee, e Pentimalli dimostrò inoltre che un focolaio
rigenerativo, determinato meccanicamente in un tessuto, diviene sede di sarcoma
in seguito all'introduzione endovenosa del filtrato acellulare (v. Pentimalli, Lesioni
dei tessuti..., 1916). Tali fenomeni possono ora essere interpretati sulla base della
differente sensibilità delle cellule ai carcinogeni nelle varie fasi del ciclo cellulare. E
stato osservato che il virus del sarcoma di Rous può provocare manifestazioni
diverse, neoplastiche o emorragiche, a seconda dell'età dell'organismo infettato:
infatti, F. Duran-Reynals (v., 1940) dimostrò che la sua inoculazione determina
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generalmente nei pulcini appena nati una malattia emorragica caratterizzata dalla
presenza di sangue fluido o coagulato nel peritoneo, da emorragie in vari organi, da
splenomegalia; in quelli di qualche settimana di vita comparsa di emorragie e
noduli neoplastici; in animali adulti formazioni di tumori nel cui contesto sono
talvolta osservabili emorragie. È interessante rilevare che nel liquido emorragico
degli animali infettati si rinvengono notevoli quantità di virus, prodotti, come è
facilmente intuibile, nelle cellule dell'organismo ospite. È pensabile che le cellule
dell'animale giovane, o almeno alcune tra esse, vadano incontro per azione del
virus esclusivamente a infezione progressiva, e che solo quelle dell'animale adulto
presentino quella particolare forma di infezione abortiva che è caratterizzata da
trasformazione e contemporanea produzione di virus.
In vari modi si è tentato di isolare il virus di Rous; W. R. Bryan (v. Bryan e altri,
1954) è riuscito a ottenere preparazioni che conservano per anni l'attività se
mantenute sotto vuoto e a bassa temperatura: si tratta, però, di colture eterogenee
di virus, alcune pure, altre contenenti virus della leucosi del pollo. Attualmente, i
vari ceppi di virus isolati dal pool di Bryan e da altri ricercatori, cioè il CarrZilber
particolarmente adatto per la trasmissione in Mammiferi, i due Bryan standard
strain e high titer strain, il Mill Hill, l'Harris, il Praga, il ceppo Schmidt-Ruppin
patogeno anche per i Mammiferi, non mostrano proprietà biologiche univoche.
Gross, in base a una serie di dati raccolti da P. J. Simons e R. M. Dougherty (v.,
1966), ritiene che tutti questi ceppi provengano dal sarcoma n. 1 di Rous, e che i
numerosi passaggi in polli di razze differenti abbiano dato luogo a fenomeni di
selezione e in qualche caso abbiano favorito la contaminazione con virus occulti
esistenti allo stato latente in quegli animali.
Un nuovo orientamento venne impresso agli studi sul virus di Rous, e in genere sui
virus oncogeni a RNA, dalla dimostrazione fornita da H. Hanafusa e altri (v., 1963 e
1964) che il ceppo high titer strain è in grado di indurre formazione di tumori
anche a rapida crescita, ma non di dar luogo a progenie di virus. Questo fatto fu
messo in relazione con la mancanza di un fattore necessario alla formazione di
particelle virali complete, il quale venne designato con il termine helper o con la
sigla RAV (Rous Associated Virus), e fu poi identificato come virus della leucosi
aviaria; la presenza contemporanea dei due virus nelle cellule sensibili induce
formazione di virioni completi, la cui parte interna cioè il nucleoprotide contenente
il genoma è codificata dal virus di Rous e quella esterna cioè l'envelope dal RAV.
Poiché i due virus possono coesistere in uno stesso ospite ma anche apparire
isolati, si ammette l'esistenza di virus di Rous completi capaci di codificare tutte le
componenti delle particelle virali, e di virus difettivi che abbisognano dell'helper
per la formazione delle particelle. I virus di Rous possono quindi venire distinti in
completi o difettivi, ed essere indicati con una sigla nella quale le lettere comprese
tra parentesi denotano se l'envelope è codificato dallo stesso virus o da quello delle
leucosi: RSV.A (RSVA) ceppo autosufficiente, RSV.O (ALV.A) ceppo difettivo
completabile con ALV.A (Avian Leucosis Virus).
La paziente e laboriosa selezione di razze di polli caratterizzate da differente
sensibilità ai vari ceppi ha consentito poi di classificare il virus di Rous nei quattro
sottogruppi A, B, C, D; la linea di polli che si dimostrò sensibile a tutti questi
sottogruppi fu indicata con la sigla Ch/O. Tuttavia, soltanto alcuni degli animali di
tale linea apparvero sensibili al RSV.O, così che fu poi possibile selezionare due
ceppi di polli Ch/O, rispettivamente sensibili e resistenti al RSV.O.
Corrispondentemente le cellule dei Ch/O sensibili sono sensibili in vitro ai cinque
virus, A, B, C, D, O, mentre quelle dei Ch/O resistenti sono sensibili ai primi
quattro virus e insensibili al quinto sottogruppo.
Gli studi di H. Rubin (v., 1960 e 1961) dimostrarono che i sottogruppi dei virus del
sarcoma e di quelli della leucosi interferiscono tra loro: ad esempio, una coltura di
cellule Ch/O sensibili se è infettata con virus A della leucosi non fissa il virus A del
sarcoma, ma fissa invece gli altri virus, B o C o D; la situazione inversa si determina
se la coltura è infettata con un sottogruppo di virus di sarcoma. Queste ricerche
hanno offerto la possibilità non solo di identificare determinati sottogruppi di virus
e di approfondire gli studi di genetica del virus di Rous, ma anche di compiere
importanti osservazioni di ordine immunologico: è stato infatti scoperto che in
alcuni polli sono presenti antigeni capaci di reagire con anticorpi specifici
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antiantigeni dei virus della leucosi e del sarcoma. Tali polli sono indicati come
COFAL positivi (COFAL, Complement Fixing Avian Leucosis), mentre vengono
detti COFAL negativi quelli privi di antigeni. Si ammette che nelle cellule dei polli
COFAL positivi deve necessariamente essere presente un antigene o un sito
antigenico identico a quello posseduto dal virus della leucosi o dal virus del
sarcoma, e quindi un gene che ne codifichi la sintesi: ciò fa supporre che nel
genoma di tali cellule esista un frammento del genoma del virus del sarcoma o
della leucosi, stabilmente integrato. Recentemente R. A. Weiss e altri (v., 1971)
hanno dimostrato che con vari agenti chimici e fisici è possibile indurre la
produzione di virus strutturalmente simili a quelli della leucemia-sarcoma del pollo
da parte di cellule di pollo normale, cioè infetto. Si è osservato che il fattore COFAL
è trasmissibile come un virus della leucosi aviaria che può essere ripreso da un
particolare sottoceppo, RSV.B (RSV.O), ed è costituito da RNA a 65S. Come si può
facilmente comprendere, queste ricerche, tuttora in pieno svolgimento, sono
estremamente interessanti anche da un punto di vista biologico generale.
Di grande interesse è la possibilità di trasmettere il tumore non solo ad altri uccelli
- anatre, come abbiamo già ricordato, e fagiani (v. Andrewes, 1932) - ma
addirittura in mammiferi: L. A. Zilber e I. N. Kriukova (v., 1957) trapiantarono con
successo il ceppo Carr-Zilber del sarcoma di Rous in ratti, nei quali osservarono poi
la formazione di cisti in parte simili a quelle descritte da F. Duran-Reynals (v.,
1940) nei pulcini neonati. Presto si vide che agli stessi risultati si poteva giungere
anche impiegando i ceppi Praga e Schmidt-Ruppin, con i quali ceppi anzi fu pure
possibile il trapianto in topi. Successivamente, si operarono trapianti in ratti a coda
cotonosa, in criceti siriani, in cavie, in cani e in alcune specie di scimmie.
I tumori si inducono sia per innesto di tessuto sia, ma con minore percentuale di
attecchimento, mediante inoculazione di supernatante di estratto tessutale.
Lo studio degli eterotrapianti ha messo in evidenza che mentre dai tumori
facilmente inducibili con trapianto da pollo a mammifero e con quello in serie da
mammifero a mammifero non si ottiene produzione di virus o se ne estrae una
quantità minima, l'impianto del tumore del mammifero in polli determina invece
lo sviluppo di virus. Se si coltivano contemporaneamente cellule di tumore di ratto
con cellule di pollo di ceppo sensibile e si determina la loro fusione a mezzo di virus
Sendai, inattivato con raggi ultravioletti, si forma un heterokaryon in grado di
produrre virus.
Recentemente D. Simkovic (v., 1972) ha schematizzato la situazione dei rapporti
tra virus del sarcoma aviario e cellule di tumori dei Mammiferi prodotti da virus di
Rous indicando le seguenti possibilità: a) produzione di virus da parte delle cellule
del tumore del mammifero; b) produzione di virus soltanto in presenza di cellule
sensibili di polli combinate in heterokaryon a mezzo di virus Sendai; c) nessuna
produzione di virus con qualunque mezzo; d) persistenza o moltiplicazione per
vario tempo del virus nelle cellule, nelle quali provoca alterazioni morfologiche e
sintesi di antigene virale ma non trasformazione maligna.
Questi fatti sono di estremo interesse, ma la loro ancora incompleta conoscenza
non consente, al momento attuale, di trarre conclusioni generali.
I rapporti a volte molto stretti che esistono tra il virus del sarcoma e quello della
leucosi dei polli inducono oggi ad ammettere l'esistenza di un complesso indicato
come sarcoma-leucemia del pollo, anche se in realtà, come si è detto, si tratta di
due virus diversi dei quali è possibile la separazione. La forma per la quale più
evidenti appaiono tali connessioni è la mieloblastosi aviaria, i cui virus conosciuti, 1
e 2, sono frequentemente associati al virus di Rous, tanto che correntemente si
designano con una sola sigla: AMV
Un problema che ha sempre appassionato gli studiosi è quello dei rapporti tra
carcinogeni chimici e agenti virali. L'affermazione di A. Carrel (v. Carrel, Un
sarcome..., 1925) che da tumori indotti da idrocarburi aromatici era possibile
estrarre un virus riproducente il tumore in animali normali, inizialmente
contrastata soprattutto da P. R. Peacock (v., 1933), è stata poi ampiamente
confermata dalle ricerche di C. Oberling e M. Guérin (v., 1950): sembra così
dimostrato che gli agenti chimici attivano nel pollo un virus oncogeno preesistente
in stato latente o potenziale. Pur non essendo possibile al momento attuale
attribuire a questi dati sperimentali un valore generale, occorre comunque tener
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presente che il virus di Rous e quelli delle leucosi sono largamente diffusi tra i polli
e non necessariamente in rapporto a presenza di tumore o di leucosi; d'altra parte,
pare assodato che tutti i tumori spontanei che sono stati trovati nel pollo siano di
natura virale, e si è potuto osservare come il complesso sarcoma-leucosi sia in
alcuni allevamenti una malattia largamente diffusa.
Con la dimostrazione che il virus di Rous è in grado di determinare la
trasformazione di fibroblasti in coltura, H. Temin e H. Rubin (v., 1958)
realizzarono un sistema semplice ed essenziale per studiare il meccanismo con il
quale il virus provoca la formazione di tumore. Nel corso di tali ricerche fu
possibile osservare che le cellule trasformate dal virus continuano a moltiplicarsi
indipendentemente dalla densità cellulare, la quale invece rappresenta un fattore
limitante nelle colture di fibroblasti normali.
e) Il complesso sarcoma-leucemia del topo
Nel 1951 L. Gross (v.) scoprì che una forma di leucemia del topo è determinata da
un virus; in seguito furono isolati numerosi altri virus, alcuni identici, altri per
qualche aspetto diversi da quello di Gross, per un totale di oltre duecento ceppi, la
cui classificazione tuttavia è ancora incerta.
Sicuramente sette ceppi hanno caratteristiche proprie, e vengono indicati con la
sigla MuLV (Murine Leukemia Virus), o più comunemente con quella MLV (Mouse
Leukemia Virus), preceduta dal nome del ricercatore: Gross, Moloney, Rauscher,
Friend, Kaplan, Graffi.
L'inoculazione in topi, ratti o criceti di un virus leucemogeno determina sviluppo di
linfosarcomi negli organi emolinfopoietici, più frequentemente nel timo, spesso
nella milza, nel fegato, nei gangli linfatici. Nel contesto del quadro morboso così
provocato, il reperto di cellule immature nel sangue periferico non è affatto
costante, e limitato agli stadi terminali, onde appare evidente che il termine
leucemia è in realtà usato in senso largo.
Si conoscono anche forme di leucemia mieloide da virus, caratterizzate da presenza
nel sangue di cellule immature della serie mieloide, ed è noto che il virus di Friend
e quello di Rauscher determinano una eritroleucemia.
Nel 1964 J. J. Harvey (v.) inoculando in topi neonati BALB/C plasma di ratto
portatore di leucemia da virus di Moloney conservato a lungo a bassa temperatura,
osservò insorgenza di sarcoma in prossimità della zona di inoculazione oltre allo
sviluppo di linfosarcomi nella milza. Due anni più tardi J. B. Moloney (v., 1966)
inoculando ancora in topi neonati del ceppo BALB/C lo stesso virus da plasma
conservato e centrifugato, ottenne soltanto sviluppo di rabdomiosarcomi nel sito di
inoculazione, senza comparsa di linfosarcomi o di leucemie. Apparve quindi
evidente il ruolo eziopatogenetico di un virus differente da quelli precedentemente
isolati, cui fu dato il nome di virus del sarcorna murino e del quale furono poi
individuati tre ceppi, indicati ognuno con la sigla MSV o MuSV (Mouse o Murine
Sarcoma Virus) preceduta dall'iniziale del cognome del ricercatore che l'ha isolato.
In considerazione dei rapporti assai stretti tra virus leucemogeni e virus del
sarcoma, si usa comunemente la sola espressione di complesso sarcoma-leucemia
murina, così come nel caso dei polli si parla di complesso sarcoma-leucemia
aviaria.
La morfologia delle particelle virali del complesso sarcoma-leucemia murina è
molto simile a quella del complesso aviario; il loro RNA comprende due tipi di
molecole con il primo dei quali è identificabile il materiale genetico, costituito da
un unico filamento. Gli studi sulla costituzione di queste particelle hanno
consentito di individuare un componente polipeptidico che viene indicato come
antigene gs (gruppo specifico), poichè è risultato comune a tutti i componenti del
complesso sarcoma-leucemia murino; esso è presente anche in virus di sarcomaleucemia di criceti e di gatti, così che si considera la possibilità di un suo eventuale
impiego per la ricerca di virus oncogeni a RNA dell'uomo. I virus della leucemia e
del sarcoma del topo si comportano in modo del tutto simile ai corrispettivi virus
aviari: infatti, i leucemogeni infettano i fibroblasti in coltura senza trasformarli e
passano nel mezzo dopo essersi moltiplicati, mentre quelli del sarcoma sono in
grado di indurre la trasformazione dei fibroblasti. Il virus del sarcoma è difettivo,
può cioè riprodursi soltanto se le cellule vengono infettate anche con virus
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leucemico: si forma in tal caso un fenotipo misto o pseudo-tipo, denominato MSV
(MLV) per indicare che il materiale genico è di virus sarcomatoso e l'envelope è di
virus leucemico con funzione di helper. In genere, i due virus coesistono in uno
stesso materiale, così come accade per quelli del complesso aviario nell'high titer
virus di Bryan, e conseguentemente dalle cellule trasformate con la miscela
derivano particelle virali complete. I fibroblasti trasformati crescono meno
rigogliosamente di quelli normali, forse per un accumulo di metaboliti tossici
inibenti la moltiplicazione, e pertanto non si sviluppano quelle generazioni
successive alla moltiplicazione di una cellula trasformata indicate come foci clonali;
si formano invece, in prossimità di cellule che producono gli pseudo-tipi del virus
del sarcoma, foci proliferativi che sono stati denominati da W. P. Rowe e altri (v.,
1970) ‛foci a placca'.
L'iniziale ipotesi dell'intervento di due fattori nella trasformazione, ossia di un
two-hits phenomenon consistente nella contemporanea infezione di una stessa
cellula da parte di MSV (MLV) e di MLV, fu poi dimostrata errata quando in varie
linee cellulari, quali ad esempio la BALB/C, si osservò crescita di tipo clonale
indotta dal virus di uno stock molto diluito, in situazione quindi caratterizzata da
assai scarse probabilità di infezione contemporanea di una stessa cellula con i due
virus. Come è stato già detto, l'infezione di una cellula con MSV (MLV) è seguita
dalla trasformazione e da crescita di tipo clonale, ma non dalla produzione di virus:
la possibilità del recupero del genoma dell'MSV con la superinfezione di virus MLV
e della conseguente produzione di particelle virali complete ma sempre
fenotipicamente miste - cioè MSV (MLV) - è un'ulteriore conferma che la
trasformazione è un single-hit phenomenon. È da notare che, finora, non si
conosce un ceppo di virus sarcomatoso del topo indipendente da quello della
leucemia, mentre per il virus di Rous sono stati dimostrati ceppi autonomi, cioè
senza helper.
La constatazione che il genoma del virus del sarcoma si trasmette da una cellula
alla progenie sempre come virus difettivo indusse H. Temin (v., 1964) a introdurre
il concetto di provirus, cui sarà accennato in seguito.
Complessi virali analoghi a quelli aviari e murini sono stati dimostrati anche per i
criceti, per i gatti e, forse, per i bovini.
f) Il fattore latte
La scoperta del fattore latte segnò un'importante svolta nelle conoscenze sulla
cancerogenesi. Era da tempo nota la relativa frequenza di cancri spontanei della
mammella in alcuni allevamenti di topi: dal 1935 L. C. Strong (v.) era riuscito a
isolare ceppi inbred, denominati CBH e A, caratterizzati da un'elevatissima
incidenza di cancro mammario, pari nel primo al novanta per cento di tutte le
femmine, nell'altro al novanta per cento delle femmine che avevano partorito e al
cinque per cento di quelle vergini. Successivamente (v. Strong, 1936-1942) furono
isolati altri ceppi di topi, CBA, BALB/C, C57 Black, con incidenza di cancro
mammario assai bassa o addirittura nulla, e ceppi simili furono isolati anche in
altri laboratori. Si ritenne inizialmente che la diversa frequenza della neoplasia,
apparentemente ereditaria, fosse in rapporto a fattori genici; tuttavia,
l'osservazione che la prole da padre appartenente a un ceppo con alta incidenza e
da madre appartenente a un ceppo con bassa incidenza non era affetta da tumore,
contrastava fortemente con l'ipotesi dell'eredità cromosomica. Si ammise allora la
possibilità di una trasmissione extracromosomica, termine ampio comprendente
l'intervento di fattori sia citoplasmatici, sia esterni; e in seguito all'osservazione di
J. J. Bittner (v. Some possibile..., e The receptibility..., 1936) che delle topine
appartenenti a un ceppo con alta incidenza di tumore mammario, allattate, anzichè
dalla propria madre, da una femmina di ceppo a bassa frequenza, soltanto tre su
nove presentarono cancro mammario, si pensò che tra questi fattori
extracromosomici almeno uno dovesse essere identificato tra i componenti del
latte. Seguirono numerose altre ricerche, condotte dallo stesso Bittner, da H. B.
Andervont e da un folto gruppo di sperimentatori in vari laboratori su un gran
numero di animali.
In particolare i lavori dello Andervont (v., 1941) contribuirono in maniera
risolutiva a spiegare il motivo per cui una sia pur esigua percentuale della prole
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sottratta all'allattamento materno si ammalava, prima o poi, di cancro mammario:
egli infatti, in luogo di isolare la madre dai figli entro le prime 24 ore dal parto
secondo gli schemi seguiti dai vari ricercatori, procedeva al taglio cesareo delle
femmine giunte al termine della gestazione, così da avere l'assoluta certezza che i
topini neonati non potessero ingerire la benchè minima quantità di latte materno.
In tali condizioni, la incidenza della neoplasia nelle topine si riduceva a zero o al
massimo eguagliava quella del ceppo della nutrice. All'agente trasmesso con il latte
responsabile dello sviluppo di carcinoma mammario venne dato il nome di fattore
latte o fattore di Bittner.
La constatazione che l'incidenza del tumore è molto più elevata nelle topine che
hanno partorito che in quelle vergini e di gran lunga maggiore nelle femmine che
nei maschi, poneva naturalmente il problema dell'influenza ormonica sullo
sviluppo del cancro mammario. Era da tempo noto l'effetto della castrazione sullo
sviluppo di tumori della mammella del topo, in riflesso a quanto noto in patologia
umana sulla diversa frequenza del cancro mammario nella donna in relazione alle
diverse situazioni ormoniche (gravidanza, allattamento, menopausa ecc.);
interessante per la oncologia sperimentale era stata inoltre la dimostrazione di A.
Lacassagne (v., 1932 e 1939) della possibilità di induzione del cancro mammario in
topi maschi trattati a lungo con benzoato di estrone, trattamento che fu poi da altri
dimostrato efficace solo in animali appartenenti a ceppi caratterizzati da elevata
incidenza di tumore mammario spontaneo nelle femmine. Si vide inoltre che nei
maschi di tali ceppi già la castrazione è da sola sufficiente a indurre lo sviluppo di
carcinoma mammario, e si pensò che i fattori ormonali agissero aumentando la
sensibilità delle cellule della ghiandola mammaria al fattore latte. Riassumendo i
suoi studi sull'argomento, Bittner concluse che lo sviluppo di carcinomi mammari
nei topi appartenenti a ceppi con alta incidenza della malattia è con ogni
probabilità in relazione a tre fattori: a) un fattore latte, trasmesso attraverso
l'allattamento; b) un fattore genetico ereditario; c) un fattore ormonale causale.
Secondo la maggior parte degli autori, la natura virale del fattore di Bittner sembra
sicuramente dimostrata dalle sue caratteristiche di filtrabilità, di lunga
conservabilità in glicerina al 50%, di inattivabilità al calore (61 °C per 30 minuti) e
di ultracentrifugabilità, e soprattutto dalle fotografie al microscopio elettronico di
sezioni ultrasottili di tessuto del tumore che dimostrano la presenza di particelle
virali localizzate nel citoplasma. Il fattore latte, pertanto, viene frequentemente
indicato come virus del carcinoma mammario del topo (mouse mammary
carcinoma virus) o come MTA.
Si è tentato di trasferire in patologia umana i risultati di questi studi per
identificare un possibile fattore responsabile dello sviluppo del carcinoma
mammario nella donna: la ricerca di particelle di tipo virale nelle sezioni
ultrasottili di questi tumori ha spesso avuto esito negativo, tuttavia occorre
ricordare che anche in tumori sperimentali di sicura eziologia virale la microscopia
elettronica sovente non consente il reperto del virus.
5. Cenni di biologia molecolare della cancerogenesi
La trasformazione neoplastica della cellula rappresenta l'evento terminale di
complesse fasi delle quali alcune sono soltanto deviazioni di vario grado dalla
norma, altre invece costituiscono aspetti peculiari dell'abnorme processo biologico.
Lo studio di tali alterazioni, che si trasmettono poi nelle successive discendenze
cellulari, riguarda essenzialmente i processi metabolici e le caratteristiche
strutturali e dinamiche delle molecole che sono alla base del meccanismo della
cancerizzazione: il problema entra così nell'ambito della biologia molecolare, cioè
della disciplina che studia in generale struttura e funzione delle macromolecole
biologiche, in primo luogo degli acidi nucleici cui è essenzialmente devoluta la
trasmissione dei caratteri ereditari (v. acidi nucleici; v. biologia molecolare).
La moltiplicazione cellulare è uno dei più complessi fenomeni della vita cellulare,
del quale è stato possibile operare uno schematismo fondato su particolari
espressioni morfologiche (v. cellula: Fisiologia della cellula); per comodità di
studio, essa viene distinta in fasi e le varie attività che vi si svolgono sono designate
con il termine cinetica cellulare. A. Howard e S. Pelc (v., 1953) indicarono le varie
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fasi del ciclo cellulare come G1-S-G2-M, con una ulteriore suddivisione delle G1 e
G2 nelle due sottofasi G1 e G2 precoce e G1 e G2 tardiva, ognuna corrispondente a
eventi biochimici diversi e caratterizzata da una particolare sensibilità ad agenti
esterni, tra i quali carcinogeni chimici o fisici o biologici, e chemioterapici.
La fase M rappresenta la mitosi, cioè l'evento conclusivo e più appariscente
dell'intero ciclo, mentre nella fase 5 ha luogo quel complesso fenomeno di
programmazione biochimica che è la duplicazione del DNA. Uno dei meccanismi
preparatori di questa sintesi, ritenuto indispensabile da molti ricercatori, è quello
cosiddetto ‛a ping pong', consistente in una successione alternata di sintesi di RNA
e di proteine. Si usa dire che una cellula che si moltiplica è in ciclo, mentre quella
che non si moltiplica - potendo permanere in tale situazione stabilmente o
temporaneamente - è fuori ciclo. Stabilmente fuori ciclo sono gli elementi cellulari
maggiormente differenziati, come ad esempio le cellule nervose, cioè quegli
elementi che G. Bizzozero indicò come perenni; temporaneamente fuori ciclo sono
quelle cellule labili di Bizzozero, delle mucose o della cute, che dopo essersi divise
entrano in stato temporaneo di quiete, e gli elementi stabili come le cellule
epatiche, le quali si moltiplicano solo in alcune particolari condizioni. Le cellule
fuori ciclo si trovano nella cosiddetta fase Q, di quiete, e in tale stato sono
relativamente insensibili ad agenti interni ed esterni tra cui mutageni e carcinogeni
di vario tipo, ai quali sono invece sensibilissime le cellule in ciclo: è nota la
frequenza notevolmente più elevata di sviluppo di tumori in tessuti a elementi
labili in confronto di quelli a elementi stabili. Una differente sensibilità agli agenti
carcinogeni caratterizza anche le varie fasi del ciclo cellulare: la maggiore
sensibilità sembrerebbe peculiare della fase G1 tardiva, secondo quanto dimostrato
dalle ricerche di G. P. Warwick (v., 1971) sulla facilità di trasformazione delle
cellule epatiche in rigenerazione durante questa fase.
Le cellule che compongono un tumore sono in parte in ciclo, in parte fuori ciclo,
con ritmi che determinano la rapidità di crescita della massa neoplastica : è
probabile che, anche in condizioni così lontane dai normali fenomeni di crescita
armonizzata, esista una certa regolazione della proliferazione cellulare. Per
spiegare le modalità di una tale regolazione, si ammette che l'inizio della sintesi del
DNA corrisponda a un segnale che dà l'avvio al meccanismo ‛a ping pong', e
analogamente che un segnale ne determini l'arresto: non si conosce ancora,
tuttavia, la natura di questi due segnali.
La sintesi del DNA, che come è noto è di tipo semiconservativo, per cui il filamento
di DNA risulta costituito da una catena polinucleotidica originaria e da una
complementare neosintetizzata (v. acidi nucleici; v. biologia; v. cellula: Fisiologia
della cellula), può essere spontanea, stimolata e indotta. La sintesi spontanea è
quella che si svolge nella cellula in condizioni normali. La sintesi stimolata è,
invece, quella che avviene sotto l'influenza di un agente che inattiva il fattore o i
fattori normalmente deputati a inibire la moltiplicazione cellulare, la cui esistenza
e per varie ragioni ammessa e che si ritiene siano localizzati verosimilmente a
livello della membrana cellulare. L'inibizione esercitata da tali fattori è con ogni
probabilità dovuta a blocco della traduzione dell'RNA; la disinibizione attiva l'RNA
rendendolo così disponibile a funzionare da template, e avvia in tal modo la catena
di eventi che sfociano nella sintesi di DNA e infine nella mitosi. La sintesi stimolata
costituirebbe il meccanismo con il quale la cellula fuori ciclo può rientrarvi e quindi
riprodursi.
Più complesso, e per alcuni lati ancora molto oscuro, è il meccanismo della terza
forma di sintesi, quella indotta, connessa con l'esistenza di un fattore o di un
complesso di induzione, identificabile con l'alterazione intervenuta nella continuità
della molecola dell'acido nucleico, a opera per esempio di un carcinogeno o di un
cocarcinogeno. Come si vede, si tratterebbe di un processo che presenta qualche
analogia con il crossing over, nel quale pure intervengono fenomeni di riparazione
(v. biologia; v. genetica: Citogenetica).
Comunque, la sintesi indotta si distinguerebbe da quella spontanea
fondamentalmente per due motivi: per il segnale di inizio, che avvia la sintesi
spontanea e non quella indotta; e per il sito di inizio stesso della sintesi, localizzato,
in quella spontanea, a livello di un ben determinato tratto della lunga catena
dell'acido nucleico denominato punto di iniziazione, e in un punto qualunque
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corrispondente al tratto ove si è verificato il danno in quella indotta.
Secondo A. Caputo (v., 1973), la comparsa del segnale è in rapporto alla
provenienza dell'energia, identificabile nel caso della sintesi spontanea nelle
comuni reazioni esoergoniche che si svolgono in prossimità della membrana
cellulare, in quello della sintesi indotta nella rottura dei legami chimici a livello dei
tratti danneggiati della molecola. Ciò determinerebbe una diversa disponibilità di
energia in dipendenza sia del punto ove è avvenuta la rottura, sia della struttura
chimica del carcinogeno.
La sintesi del DNA inizia con lo svolgimento della doppia elica, conseguente alla
rottura di legami che tengono unite le due eliche, ognuna delle quali è così
disponibile a funzionare da template; la successiva formazione delle due nuove
catene polinucleotidiche, resa possibile dalla sintesi di nucleotidi, dà luogo alla
costituzione di un nuovo filamento di DNA. Rottura dei legami e sintesi dei
nucleotidi avvengono a opera di enzimi specifici, endonucleasi e polimerasi in
grado rispettivamente di scindere il legame 3-idrossil-5-fosforil e di operare la
formazione di legami fosfo-diesterici tra i desossiribonucleotidi trifosfati.
La rottura di una regione del DNA può avvenire a opera di vari agenti, ma sempre
tramite l'intervento di endonucleasi: si possono così formare frammenti di DNA di
varia lunghezza, costituiti comunque da almeno cinque mononucleotidi. La
riparazione si effettua per l'intervento di polimerasi che promuovono
l'incorporazione di mononucleotidi sul template della catena polinucleotidica
omologa a quella degenerata, o di ligasi che determinano coniugazione di corte
catene di polinucleotidi, sintetizzati da polimerasi, con la molecola di DNA
mediante legami fosfodiesterici.
Di notevole interesse è il problema se gli enzimi agenti nella funzione di repair
siano preesistenti nella cellula allo stato attivato, ovvero presenti in essa ma
inattivi, o vengano invece formati ex novo nel momento della trasformazione
cellulare. Per quanto riguarda la trasformazione indotta dai carcinogeni chimici, le
cognizioni sono scarse e non univoche; al contrario, per quella determinata dai
virus oncogeni moltissimi dati sperimentali sono stati accumulati negli ultimi anni
e, come si è accennato a proposito del polioma, si è sicuramente dimostrato che
alcuni enzimi sono di nuova sintesi, alcuni altri presenti ma inattivi nella cellula
vengono attivati. Inoltre, almeno per quanto riguarda il polioma, gli enzimi di
nuova sintesi sono di origine cellulare; in altri casi, invece, come per il virus
vaccinico, alcuni di questi enzimi sono certamente codificati dal virus.
Appare evidente che l'infezione da polioma induce nella cellula sintesi di nuove
molecole enzimatiche, delle quali alcune operano la rottura delle catene
polinucleotidiche cellulari, altre promuovono la sintesi di acido nucleico virale e
cellulare con preponderanza dell'uno o dell'altro a seconda rispettivamente del tipo
produttivo o abortivo dell'infezione. Un virus è quindi in grado di determinare
notevoli variazioni biochimiche nella cellula ospite, sia per effetto di enzimi, in
grado di operare la sintesi polinucleotidica, in esso presenti o contenuti come
informazione nel suo patrimonio genetico così che la cellula stessa è indotta a
produrli, sia in alcuni casi mediante la capacità di promuovere la formazione di
eso- ed endonucleasi che staccano polinucleotidi dalla catena del DNA cellulare e
operano l'inserimento successivo di porzioni del genoma virale. In conseguenza di
questo complesso di interazioni si determina quella deviazione più o meno
completa dei processi biosintetici cellulari secondo i modelli strutturali del virus
che rappresenta in sostanza l'intima essenza dell'infezione virale.
L'esistenza di virus oncogeni a RNA e di altri a DNA era stata spiegata da Temin
(v., 1964), già da vari anni, con l'ipotesi che i primi fossero in grado di indurre
sintesi di DNA virale. Tale spiegazione non era in realtà apparsa convincente,
soprattutto perché in contrasto con uno dei dogmi della biologia molecolare,
secondo il quale è possibile lo stampo dell'RNA sul DNA e non viceversa. Tuttavia,
nel 1970 5. Mizutani e Temin (v., 1970) nel virus di Rous, e D. Baltimore (v., 1970)
nello stesso virus di Rous e in quello di Rauscher, scoprirono un enzima, la
transcriptasi inversa, che determina la trascrizione dell'RNA virale in DNA; la
dimostrazione che il prodotto dell'attività di tale enzima è insensibile alla
ribonucleasi, ma idrolizzabile dalla desossiribonucleasi, costituisce la prova
migliore dell'effettiva sintesi di DNA a partire da RNA come template (stampo).
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L'enzima, ora noto anche con il nome di polimerasi RNA-dipendente, è stato
purificato e attentamente studiato. È stato così possibile precisarne alcune
caratteristiche chimiche e fisicochimiche e accertare che la sua attività si svolge in
due fasi successive: dapprima si forma una sola elica di DNA sullo stampo
dell'unico filamento di RNA, quindi si determina la formazione di catene ibride
RNA/DNA; la catena di DNA funziona poi da template e, a opera di una
DNA-polimerasi DNA-dipendente, si forma una doppia elica di DNA (v. acidi
nucleici; v. biologia).
Si scoprì inoltre che alcuni polimeri sintetici, ribo- e desossiribonucleotidi,
artificialmente uniti possono funzionare da template: S. Spiegelmann e altri (v.,
1970) e Mizutani e altri (v., 1970) hanno dimostrato che
poliossicitosina/poliriboguanina agiscono da template per la transcriptasi inversa,
con un'efficienza molto maggiore degli acidi nucleici naturali.
Le ricerche di Temin, di Baltimore, di Spiegelmann e di Mizutani hanno realizzato
una delle più importanti scoperte biologiche degli ultimi anni. Si è, di conseguenza,
aperto un vasto campo di indagini intese a dimostrare la presenza di polimerasi
RNA-dipendente in tumori umani quale prova, sia pure indiretta, della loro
eziologia virale.
Finora, vari ricercatori hanno dimostrato nell'uomo la presenza di entrambe le
attività polimerasiche, RNA- e DNA-dipendenti, in cellule leucemiche, ma non in
leucociti normali, e la loro scomparsa quando, in seguito a terapia, il quadro
ematologico si normalizza. Sembrerebbe pertanto di poter concludere che le
leucemie dell'uomo, così come quelle di varie specie animali, sono provocate da
virus. Tuttavia non va dimenticato che le due attività polimerasiche sono presenti
anche in virus non oncogeni, onde la loro dimostrazione, se costituisce una
generica indicazione della presenza di un virus, non è comunque sufficiente a
fornire la prova sicura dell'eziologia virale di un tumore o di una leucemia. Le
ricerche condotte in numerosi laboratori di oncologia sperimentale hanno
consentito di accertare che nei virioni di virus oncogeni a RNA sono presenti, oltre
a quella polimerasica, un'attività ribonucleasica che agisce sul substrato costituito
dall'ibrido RNA/DNA e idrolizza l'RNA, e attività esonucleasiche ed
endonucleasiche. L'interazione di questi diversi enzimi, di importanza essenziale
per la replicazione dei virus, è responsabile della formazione di una copia a DNA
del genoma virale la quale poi, integratasi in quello cellulare, è in grado sia di
dirigere la sintesi di nuove particelle virali, sia di causare la trasformazione
maligna della cellula. I dati sperimentali sembrano confermare l'ipotesi che tra
acido nucleico della cellula ospite e acido nucleico virale si formino ibridi, in modo
analogo a quanto avviene nel caso dei fagi, generalmente in seguito all'unione solo
di quei tratti dei due filamenti nei quali vi è complementarità delle basi.
Le numerose ricerche sulle caratteristiche di queste corrispondenze complementari
tendono attualmente a dimostrare affinità tra acido nucleico di cellule umane e
quello di virus a DNA e a RNA maggiormente indiziati come probabili agenti
eziologici di tumori.
La formazione di molecole ibride di acido nucleico virale e cellulare può spiegare le
modalità della trasmissione, in vivo e in vitro, della trasformazione operata da
virus oncogeni nelle successive generazioni cellulari, cioè della trasmissione del
virus o di parte di esso in senso verticale. R. J. Huebner e G. J. Todaro (v., 1969)
hanno formulato la cosiddetta teoria sull'‛oncogene', quella parte cioè del genoma
virale che, stabilmente integrato in quello delle cellule, viene trasmesso di
generazione in generazione. Il dato sperimentale più importante sul quale si fonda
tale teoria è la dimostrazione che alcune linee cellulari, come la 3T3 o la 3T12, dopo
molte generazioni e dopo che le cellule sono divenute aneuploidi, producono in
vitro virus del tipo della leucemia del topo (MLV): ciò si può spiegare ammettendo
che il virus in fase intracellulare si trovi in forma inespressa e che particolari
condizioni, come il frequente trasferimento su nuovo terreno o l'alta densità di
cellule, ne favoriscano l'espressione, cioè la formazione di particelle virali
complete.
Si è inoltre osservata produzione di virus, specialmente della leucemia, in topi
sottoposti all'azione di radiazioni o di carcinogeni chimici, che quindi non
determinerebbero la diretta trasformazione neoplastica delle cellule, ma
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attiverebbero l'oncogene inducendo nella cellula un profondo disordine e la
conseguente perdita della normale capacità di regolazione.
A modifica della teoria ora esposta il Temin (v., 1971) ha introdotto la teoria del
‛protovirus', secondo la quale non esisterebbe l'oncogene nelle cellule germinali,
ma si determinerebbe nel corso dello sviluppo; attraverso il passaggio RNA → DNA
l'informazione verrebbe poi inserita nel genoma cellulare con possibilità di indurre
formazione di particelle complete a RNA. Tale processo, però, dovrebbe
comportare la comparsa di antigeni virali durante lo sviluppo tardivo e non, come
in realtà accade, già durante la vita embrionale; la precocità di comparsa di
antigeni virali e la conseguente tolleranza immunitaria svelata dall'assenza negli
animali di anticorpi specifici contro tali antigeni, costituiscono invece un valido
sostegno della teoria dell'oncogene.
È opportuno ricordare il significato di alcuni termini usati in virologia per definire
situazioni tra loro distinte: come provirus si indica qualsiasi informazione allo stato
potenziale; come ‛virogene' si designa un provirus naturale, costituito dall'insieme
di geni che codificano l'intera particella virale; infine, come abbiamo visto, il
termine di ‛oncogene' si riferisce a quel particolare provirus responsabile della
trasformazione cellulare, rappresentato da un gene o da un gruppo di geni nei quali
è contenuta la relativa informazione.
Conseguentemente all'integrazione di parte del genoma virale con quello della
cellula, in determinate condizioni si verifica il fenomeno della trasformazione
cellulare, che può o meno essere accompagnata dalla replica di particelle virali; in
alcuni casi, invece, la suddetta integrazione è seguita dalla sola replica di particelle
virali, mentre manca il processo di trasformazione.
È molto probabile che diversi fattori siano in grado di determinare una rottura
della o delle catene di polinucleotidi dell'acido nucleico cellulare; esiste allora la
possibilità che a tale rottura segua, a mezzo delle polimerasi e ligasi, la riparazione
del danno (fenomeno del repair) con ristabilimento della normale struttura o di
parte di essa o, nel caso che l'agente lesivo sia un virus, la sostituzione con
frammenti di catene polinucleotidiche virali. Se il repair avviene secondo il
programma normale, non si determinano variazioni geniche; in caso contrario, si
stabiliscono mutilazioni del codice genetico cellulare o, come ad esempio quando
avviene l'integrazione con parte di quello virale, ha luogo il fenomeno della
trasformazione.
Il momento del repair è quindi, secondo molti studiosi, quello che decide il destino
della cellula per quanto riguarda la sua possibile cancerizzazione.
L'azione dei cancerogeni si esplicherebbe in un primo tempo determinando il
danno, secondariamente impedendo la riparazione o determinando saldature con
polinucleotidi fuori programma; questa seconda modalità d'azione sarebbe quella
prevalentemente esercitata dai cocancerogeni.
Il fatto che solo alcune delle cellule sottoposte all'azione di carcinogeni diventano
cancerose esprimerebbe la maggior frequenza della riparazione secondo
programma rispetto a quella anomala fuori programma.
6. Metabolismo energetico della cellula neoplastica
Nel 1910 O. Warburg (v., 1930, p. 35) poté dimostrare che la moltiplicazione
cellulare implica un'attivazione della respirazione: egli infatti osservò che nelle
uova di riccio di mare, dopo la fecondazione, aumenta il consumo di ossigeno
rapportato all'unità di peso. In seguito a questa osservazione, si suppose che anche
le cellule neoplastiche, data l'elevata moltiplicazione cellulare propria di un gran
numero di tumori, fossero caratterizzate da un aumento degli scambi respiratori.
Tale ipotesi fu però smentita dallo stesso Warburg, che proseguendo nei suoi studi
vide che con una discreta frequenza la maggiore richiesta di energia è soddisfatta
dalla fermentazione del glucosio, con conseguente produzione di acido lattico: a
tale fenomeno egli diede il nome di glicolisi, distinguendone una forma anaerobica
che si svolge in ambiente privo di ossigeno e una aerobica che si svolge in presenza
di ossigeno. Nel processo di glicolisi anaerobica si determina un accumulo di acido
lattico, perché, conseguentemente alla mancanza di ossigeno, si arresta
l'ossidazione dell'acido piruvico: in condizioni di anaerobiosi, pertanto, ogni
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tessuto normale glicolizza. La glicolisi aerobica, invece, ha luogo quando la cellula
non è capace di ossidare tutto l'acido piruvico che produce, una parte del quale si
trasforma quindi in acido lattico. La determinazione dei due tipi di glicolisi, che si
esegue facendo metabolizzare il materiale biologico in ambiente di azoto e di
ossigeno rispettivamente per la glicolisi anaerobica e per l'aerobica, consente di
valutare la quantità di acido lattico prodotta per ora e per milligrammo di tessuto
secco: questi valori vengono espressi rispettivamente con le sigle
N2
Q
O2
eQ
CO2
CO2
ove Q è la quantità di acido lattico prodotto desunta dal volume di CO2 sviluppato
in presenza di bicarbonato.
Warburg (v., 1925, 1926, 1943 e 1955) poté dimostrare che molti tessuti normali,
specialmente quelli in vivace proliferazione, e molti tumori in rapido accrescimento
svolgono un'intensa attività glicolitica in condizioni di anaerobiosi, mentre in
aerobiosi la funzione glicolitica è frequente in tessuti neoplastici e soppressa a
favore dell'ossidazione in quelli normali. La conferma della scoperta di Warburg
provenne soprattutto dalla dimostrazione della possibilità per le cellule
neoplastiche di sopravvivere in ambiente privo di ossigeno ma in presenza di
glucosio (v. Warburg, 1930).
Sin dalle prime ricerche Warburg ritenne che le cellule neoplastiche avessero la
normale respirazione danneggiata e fossero pertanto obbligate a operare la
fermentazione del glucosio per integrare il fabbisogno energetico deficitario. Egli
inoltre interpretò in vario modo la glicolisi aerobica osservata nei tessuti non
neoplastici: quella retinica quale espressione del danneggiamento subito dal
tessuto durante la preparazione, quella dei tessuti embrionali come conseguenza di
maggior fabbisogno energetico nel corso della moltiplicazione cellulare. Grazie ai
miglioramenti tecnici razionalmente usati e perfezionati fino agli ultimi anni della
sua vita, egli vide che i valori della glicolisi aerobica della retina erano
notevolmente inferiori a quelli inizialmente trovati e che il metabolismo
respiratorio e glicolitico delle cellule embrionali è diverso da quello delle cellule
neoplastiche.
All'iniziale entusiasmo per queste ricerche subentrò un periodo di critiche
demolitrici, specialmente a opera di S. Weinhouse (v., 1951 e 1955) e collaboratori
(v. Weinhouse e altri, 1950 e 1951) in aspra polemica con Warburg e i suoi allievi;
tra questi ultimi, D. Burk (v., 1939) riuscì a operare un confronto tra respirazione e
fermentazione di cellule di fegato normale, di fegato rigenerante e di fegato
cancerizzato con o-amminoazotoluene, e concluse che nelle cellule tumorali i due
processi sono peculiari.
Fu rilevato che negli epatomi a lenta crescita (a deviazione minima) di Morris, nel
ratto, non si notava né riduzione della respirazione cellulare né comparsa di
glicolisi aerobica: questa è, forse, la critica meno valevole all'ipotesi di Warburg, in
quanto tali epatomi, appunto perché a deviazione minima, sono poco diversi dal
tessuto epatico normale, certamente non comparabili a neoplasie in attivo
sviluppo.
Allo stato attuale delle conoscenze, anche se appare scarsamente sostenibile con
valide dimostrazioni il concetto di Warburg di un danneggiamento respiratorio
delle cellule neoplastiche, è tuttavia certo che queste sono caratterizzate da
un'elevata glicolisi aerobica e che con grande frequenza mostrano una netta
riduzione dei mitocondri, cioè degli organuli sede della catena delle ossidazioni
cellulari (v. cellula: Fisiologia della cellula).
L'esistenza di glicolisi aerobica nella retina costituisce tuttora un problema non
risolto.
Gli studi sul metabolismo delle cellule neoplastiche hanno messo in evidenza
fenomeni di un certo rilievo: tra questi il cosiddetto effetto Crabtree (v. Crabtree,
1959), cioè l'abbassamento dei valori della respirazione per aggiunta di glucosio al
mezzo di sospensione di cellule neoplastiche, che non si determina per quelle
normali, e la riduzione dell'effetto Pasteur, cioè della fermentazione in presenza di
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ossigeno, il cui meccanismo è in realtà tuttora poco chiaro onde è impossibile
trarne un sicuro significato fisiopatologico.
Negli epatomi di Morris sono state osservate alterazioni di alcuni enzimi in
rapporto al grado di malignità. Sono state poste in evidenza alterazioni della
produzione di enzimi a funzione limitante a livello di punti chiave della
demolizione del glucosio, cioè dell'esochinasi, della fosfofruttochinasi e della
piruvatochinasi, con comparsa di isoenzimi di tipo fetale; la sintesi ditali enzimi è
repressa durante la vita cellulare normale, ma viene derepressa nella
trasformazione neoplastica.
7. Cenni di immunologia oncologica
I brillanti successi ottenuti con l'impiego di sieri e vaccini nella terapia e nella
profilassi delle malattie infettive fecero nascere la speranza che sussidi di tale tipo
potessero essere utilizzati anche per la prevenzione e la cura dei tumori. Ciò
naturalmente implicava l'esistenza e l'individuazione di costituenti antigenici
specifici della cellula neoplastica: tale presupposto teorico, che dette luogo a primi
approcci sperimentali i cui risultati debbono oggi essere valutati con la massima
cautela, ottenne in realtà una valida conferma soltanto quando si osservò il rigetto
di isotrapianti neoplastici da parte di animali ospiti singenici. Si raggiunse pertanto
la certezza dell'esistenza di antigeni neoplastici specifici, e fu così possibile
superare la difficoltà delle prime ricerche sperimentali: stabilire cioè se la risposta
immunitaria in un animale in seguito al trapianto di un tumore sia suscitata da
antigeni specifici del tumore ovvero da isoantigeni presenti nella massa di tessuto
trapiantato.
La comparsa di antigeni specifici tumorali rappresenta un evento importante della
cancerogenesi, ma non indi- spensabile ai fini della trasformazione neoplastica:
non mancano, difatti, esempi di tumori dotati di scarsa antigenicità e anche di
tumori nei quali si è verificata una delezione dei normali costituenti antigenici
senza sostituzione con antigeni di nuova sintesi. Comunque, la maggior parte dei
tumori sperimentali possiede antigeni specifici, ma non è ancora possibile
comprendere l'importanza dell'antigenicità della cellula neoplastica nei riguardi
dell'organismo ospite e della sua capacità di risposta immunitaria in relazione sia
alla genesi, sia all'ulteriore controllo dello sviluppo del tumore.
Gli antigeni individuati nei tumori e nelle leucemie sperimentali sono distinti in
base alla loro associazione con virus oncogeni a RNA o a DNA, alla loro solubilità,
alla loro localizzazione. In particolare, per quanto riguarda quest'ultimo carattere è
importante la distinzione in antigeni superficiali, ovviamente più esposti e a più
immediato contatto con le cellule immunitarie, e antigeni intracellulari in grado di
dar luogo a una risposta immunitaria in seguito a fenomeni di citolisi.
Si ritiene che gli anticorpi diretti contro tali ultimi antigeni difficilmente possano
esercitare un proficuo sistema di controllo della neoplasia, anche se la loro
eventuale di- mostrazione potrebbe essere utilizzabile in clinica a scopo
diagnostico.
Occorre tuttavia ricordare che alcuni di quegli antigeni tumorali che definiamo
specifici compaiono in realtà nelle cellule anche nelle malattie non neoplastiche e
talora, sia pure transitoriamente, anche in condizioni fisiologiche in alcune fasi del
ciclo cellulare: prescindendo da più complesse considerazioni sulla genesi dei
nuovi costituenti antigenici, si comprende la necessità di un'attenta valutazione ai
fini diagnostici della dimostrazione di un antigene, soprattutto in rapporto alla
presenza di altri segni probativi per l'esistenza di una neoplasia. La dimostrazione,
ad esempio, di anticorpi anti EBV (Epstein Barr Virus) è comunque di notevole
interesse diagnostico, ma assume significato diverso nel caso della mononucleosi
infettiva e in quello del linfoma di Burkitt o del carcinoma nasofaringeo.
Vi è una differenza di ordine generale tra i tumori indotti nell'animale con
cancerogeni chimici e quelli indotti da virus oncogeni. I primi hanno infatti una
propria caratteristica individualità antigenica, tipica di ogni singolo tumore: se
nello stesso animale si inducono, con lo stesso agente chimico, diversi tumori in
varie zone dell'organismo, ogni tumore sarà fornito di almeno un costituente
antigenico individuale, e conseguentemente la reattività crociata sarà assente o
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notevolmente rara. Al contrario, i tumori da virus posseggono antigeni tra di loro
correlati o identici sierologicamente, dei quali è difficile definire la natura e
l'origine, anche se numerose osservazioni sperimentali sono riuscite a metterne in
evidenza in alcuni casi la provenienza dal genoma virale, in altri quella dalla cellula
ospite.
Le acquisizioni suddette sono di estremo interesse per la comprensione di alcuni
fenomeni generali della cancerogenesi. Tralasciando altre considerazioni di ordine
più strettamente immunologico, basterà qui ricordare che nel caso di tumori
indotti da un carcinogeno chimico la diversità degli antigeni dimostrabili indica
chiaramente da un lato che il carcinogeno di per sè non può essere l'antigene,
dall'altro il disordine genico della cellula trasformata: i vari antigeni singolarmente
distinti di uno stesso tumore, infatti, rappresentano con molta probabilità prodotti
di geni alterati o anche di geni normali che, repressi nelle cellule differenziate, sono
resi liberi dalla trasformazione maligna.
Altri interessanti aspetti del problema dell'immunologia dei tumori riguardano i
fenomeni di resistenza e di tolleranza: la dimostrazione, ad esempio, della
possibilità di ottenere immunizzazione attiva con vari metodi contro tumori indotti
da agenti chimici o da virus, e la constatazione dell'esistenza di condizioni di
tolleranza immunologica fino alla completa soppressione della risposta immune,
aprono interessanti campi di indagine anche nei confronti di possibili applicazioni
pratiche.
Si è accennato alla possibilità che alcuni antigeni di tumori indotti da carcinogeni
chimici rappresentino l'espressione fenotipica di geni normali repressi nelle cellule
differenziate. In alcuni casi tali antigeni appartengono al gruppo di quelli
embrionali, presenti nella cellula durante il periodo della vita embrionale, e la loro
biosintesi, come si è detto, è in rapporto a fenomeni di derepressione che hanno
luogo nella trasformazione maligna. Sono oggi ben conosciuti, e svelabili nell'uomo
con indubbio valore diagnostico, antigeni CEA (Carcino-Embryonic Antigen) dei
tumori dello stomaco e dell'intestino, e una α-fetoproteina dei tumori del fegato (v.
immunologia e immunopatologia: Malattie immunoproliferative).
Tuttavia, i numerosi studi condotti nel tentativo di dimostrare che i tumori umani
posseggono antigeni specifici similmente a quanto si osserva nelle neoplasie
sperimentali degli animali, non sono stati finora coronati da successo.
8. Ormoni e cancro
La ben nota cognizione, derivata da numerose osservazioni cliniche, dell'esistenza
di tumori ormonodipendenti, in modo particolare il cancro della mammella, ha
indotto gli studiosi a ricercare sperimentalmente i rapporti tra alcune neoplasie e
determinate attività endocrine. Interessanti dati sperimentali si sono andati così
accumulando fino a costituire prove certe e incontrovertibili della stretta relazione
esistente tra complesse interazioni endocrine e sviluppo di tumori. Basterà qui
ricordare che M. S. Biskind e G. S. Biskind (v., 1944) nel ratto, H. A. Bali e J. Furth
(v., 1949) e W. V. Gardaer (v., 1955) nel topo osservarono lo sviluppo di tumori in
ovaie escisse e successivamente innestate nella milza dello stesso animale: per
spiegare ciò si è pensato che gli ormoni ovarici che continuano a formarsi negli
innesti intrasplenici vengano direttamente immessi nel fegato ove sono inattivati,
così da non essere più in grado di esercitare la normale azione di blocco a livello
ipofisario; conseguentemente si determina un'iperproduzione di gonadotropine
ipofisarie che agiscono sul tessuto ovarico in sede ectopica, determinandone
l'iperplasia e la successiva cancerizzazione. Probabilmente con analogo
meccanismo, cioè provocando una prolungata iperproduzione di tireotropina
ipofisaria, agiscono i vari metodi impiegati per produrre sperimentalmente
carcinomi della tiroide; più recentemente, D. Sinha e altri (v., 1965) sono riusciti a
indurre un cancro della tiroide mediante somministrazione di tireotropina.
Tra tutti i tumori ormonodipendenti, il cancro mammario è senza dubbio quello
più studiato e per il quale sono stati raccolti in maggior numero interessanti rilievi
clinici e sperimentali. A. E. C. Lathrop e L. Loeb (v., 1916) dimostrarono, per es.,
che la castrazione di topine giovani induce una notevole diminuzione della
frequenza del cancro mammario spontaneo in ceppi di topi caratterizzati dalla
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elevata frequenza di tale tumore. Successivamente si osservò che l'inoculazione di
ormone ovarico, in dosi elevate e protratta nel tempo, è in grado di determinare un
considerevole aumento dell'incidenza del cancro nelle topine nonché la sua
comparsa anche in alcuni maschi nei quali la neoplasia spontanea è praticamente
inesistente. Già si è fatto cenno come fosse apparso chiaro che anche l'azione del
fattore latte è strettamente dipendente, oltre che da condizioni genetiche, dalla
presenza degli ormoni ovarici.
Un più accurato studio del problema fu reso possibile a partire dagli anni trenta,
quando si riuscì a ottenere in forma pura gli estrogeni. Si ritenne inizialmente che
la molecola dell'estradiolo, di gran lunga il più attivo tra gli ormoni ovarici e dal
punto di vista chimico assai simile agli idrocarburi, a seguito di particolari
trasformazioni operasse come agente carcinogeno: tuttavia non si è mai riusciti a
dimostrare la presenza nei tessuti di enzimi capaci di in- durre tale conversione
molecolare. Si è inoltre osservato che l'equilenina, il più insaturo degli estrogeni e
quindi teoricamente il più probabilmente trasformabile in idrocarburi cancerogeni,
è assai meno attiva nella cancerizzazione, mentre sostanze sintetiche chimicamente
molto lontane dagli ormoni ovarici, come lo stilbestrolo, agiscono come gli
estrogeni steroidei. Per tali ragioni l'ipotesi della formazione di idrocarburi
aromatici in seno ai tessuti a opera di enzimi è apparsa sempre meno probabile.
Molti autori hanno supposto che gli estrogeni agirebbero non inducendo
direttamente la trasformazione della cellula della ghiandola mammaria, bensì
sensibilizzandola all'azione di quei fattori che sono i veri responsabili della
cancerizzazione. È stato infatti dimostrato che gli estrogeni sono in grado di
determinare iperplasia e trasformazione cistica della mammella, condizioni nelle
quali per intervento di vari fattori locali la comparsa di un cancro è assai probabile.
Gli studi dei rapporti tra neoplasie mammarie e ormoni hanno consentito di
distinguere determinate categorie sperimentali, corrispondenti a vari stadi di
sviluppo del tumore. La prima categoria e il primo stadio, della dipendenza,
esprimono una condizione in cui la proliferazione neoplastica avviene solo in
presenza di un alto livello di ormone: tale è il caso di un tumore che si sviluppa in
una topina vergine non appena diventi gravida, quindi regredisce e scompare, per
ricomparire poi a una nuova gravidanza, e così successivamente. La seconda
categoria, della responsività, corrisponde a uno stadio di proliferazione accelerata
in seguito a somministrazione di alte dosi di ormone, ma che, cessata questa,
prosegue, sia pure a ritmo più lento. La terza categoria, dell'indipendenza,
corrisponde all'assenza di sensibilità alla somministrazione di ormone. In termini
rigorosamente corretti, quando si parla di condizione si deve intendere il carattere
permanente del tumore nei riguardi della dipendenza ormonale, mentre
l'espressione stadio indica un mutevole e successivo svolgersi di eventi di una
neoplasia che può iniziare come ormonodipendente, per diventare poi
ormonoindipendente, passando per lo stato di responsività. I tumori della
mammella della donna possono appartenere a una delle tre categorie.
La recente acquisizione sperimentale della possibilità di studiare i rapporti tra
estrogeni e cancro mammario oltre che nei topi anche nei ratti, nei quali a
differenza dei primi non si conosce un virus in qualche modo correlato allo
sviluppo della neoplasia, ha consentito di semplificare notevolmente il problema;
attualmente si conoscono almeno cinque ceppi di ratti nei quali è possibile indurre
con estrogeni formazione di tumori della mammella. Interessanti osservazioni sono
state anche condotte sui possibili rapporti tra carcinogeni chimici ed estrogeni. È
stato dimostrato che il 3-metilcolantrene e il 7,1 2-dimetilbenzantracene, ad
esempio, somministrati per via alimentare, in parte passano nelle feci senza subire
modificazioni, in parte vengono assorbiti e metabolizzati o depositati nei tessuti,
particolarmente nel tessuto adiposo. La persistenza di tali sostanze nei vari organi,
fegato, polmone, reni, tubo gastroenterico, è limitata dalla presenza in essi di
un'idrolasi per il benzopirene, la cui attività è stimolata proprio da alcuni
idrocarburi cancerogeni; la mammella è invece priva di questo enzima, così che
l'accumulo nel suo tessuto adiposo di carcinogeni assunti con l'alimentazione e non
metabolizzati può rappresentare la ragione per cui è indotto lo sviluppo del cancro
mammario (v. Dao, 1964). La possibilità di provocare in tal modo la neoplasia non
è modificata in femmine di ratto castrate immediatamente prima della
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somministrazione del carcinogeno, nelle quali è quindi ancora circolante una
sufficiente quantità di estrogeni; tuttavia, se la somministrazione del carcinogeno
segue di trenta o più giorni la castrazione, il tumore non si sviluppa. Questi rilievi
inducono a ritenere che il ruolo degli estrogeni nell'induzione del cancro
mammario nel ratto è essenziale. D'altro canto, è stato sperimentalmente
dimostrato che la somministrazione di 17β-estradiolo sopprime l'inibizione della
sintesi dell'RNA, e probabilmente delle proteine, determinata come effetto iniziale
da un idrocarburo cancerogeno a livello delle cellule della ghiandola mammaria, le
quali possono così proliferare.
La stretta dipendenza dello sviluppo del cancro mammario da idrocarburi da
complesse situazioni endocrine è documentata da numerosi dati: la neoplasia
cresce più rapidamente durante la gravidanza, regredisce dopo il parto, riprende a
svilupparsi nel corso di una successiva gravidanza; la sua crescita è notevolmente
influenzata dall'attività dell'ipofisi, delle ovaie e dei surreni, e la rimozione ditali
ghiandole ne determina una rapida regressione; un tumore in regressione in un
animale ovariectomizzato riprende a crescere in seguito alla somministrazione di
ormoni; un tumore regredito per effetto di ovariectomia e ipofisectomia riprende a
svilupparsi se nell'animale si innesta un tumore mammotrofico, cioè secernente
prolattina, ormone della crescita e forse ACTH.
L'analisi dei meccanismi con i quali i vari ormoni influenzano lo sviluppo del
cancro mammario nel topo ha compiuto negli ultimi anni notevoli progressi.
Si deve a E. V. Jensen e H. I. Jacobson (v., 1962) l'importante osservazione che
alcuni organi, come utero e vagina, hanno la capacità di concentrare e trattenere il
17β- estradiolo marcato; in seguito è stato dimostrato che tale caratteristica è
comune a tutti gli organi cosiddetti bersaglio, tra cui principalmente la ghiandola
mammaria. Dopo che F. Bresciani e G. A. Puca (v., 1965) e Bresciani e altri (v.,
1967, 1969 e 1973) hanno identificato le proteine che legano il 17β-estradiolo, alle
quali pertanto compete la funzione di recettori, i cancri della mammella sia del
topo sia della donna possono essere distinti in due categorie: quelli con recettori e
quelli senza recettori per l'ormone. È stato dimostrato che l'estrogeno reagisce con
i recettori proteici del citoplasma; qui un enzima proteolitico, attivabile dal calcio,
scinde il frammento del recettore al quale è fissato l'ormone, questo quindi passa
nel nucleo e si lega a una proteina basica della cromatina. È probabile che in tal
modo sia indotta un'attivazione di geni, e quindi sintesi di RNA e
conseguentemente di proteine, cioè il primo evento della moltiplicazione cellulare.
Nella donna è stato possibile dimostrare l'esistenza di una stretta relazione tra
cancri privi di recettori e insensibilità alla terapia ormonica, mentre notevolmente
variabile è apparsa la risposta a tale trattamento dei cancri provvisti di recettori.
9. Conclusioni
I progressi realizzati nel corso degli ultimi anni dall'oncologia sperimentale, esposti
sinteticamente in questo articolo, hanno consentito importanti acquisizioni su
molti processi biologici abnormi, anche se la conoscenza dei meccanismi che sono
alla base del loro svolgersi è ancora parziale.
È stato sicuramente accertato che agenti di natura diversa, chimica, fisica,
biologica, sono in grado di determinare l'insorgenza del cancro in animali da
esperimento. Alcuni di tali agenti sono responsabili dell'insorgenza di determinati
tipi di cancro anche nell'uomo: tale è il caso degli idrocarburi cancerogeni,
all'azione di alcuni dei quali è da ascrivere il cancro dei lavoratori del catrame; dei
composti di anilina, che provocano l'insorgenza di tumori della vescica; delle
radiazioni ultraviolette, causa di epiteliomi cutanei in persone esposte a lungo alle
radiazioni solari; dei raggi Röntgen e delle radiazioni di corpi radioattivi, inducenti
tumori del tutto comparabili a quelli che con essi si producono sperimentalmente
negli animali.
In tal modo, l'oncologia sperimentale ha chiarito, attraverso un'enorme massa di
ricerche, l'eziologia di alcuni tumori dell'uomo, quelli cosiddetti professionali; essa
è stata favorita in questa ricerca dalla possibilità di identificare in determinati
fattori ambientali presumibili agenti carcinogenetici, grazie all'evidenza di una
relazione causa- effetto non riscontrabile nella maggior parte dei tumori che
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colpiscono apparentemente a caso l'individuo o l'organo.
Diversa è la situazione per quanto concerne i tumori da virus. Come si è già detto,
numerosi virus sono stati definitivamente riconosciuti quali agenti eziologici di vari
tumori degli animali: il virus di Rous del sarcoma del pollo, i virus della leucemia
del pollo, alcuni dei quali correlati con il virus di Rous, i virus del complesso
sarcoma-leucemia del topo, il fattore di Bittner del cancro mammario del topo, il
virus polioma del tumore della parotide e di vari altri organi nel topo, e così molti
altri virus di tumori o leucemie spontanee di altre specie animali. La dimostrazione
della contagiosità per tutti questi virus è mancata o è ancora dubbia, con la sola
eccezione del virus di Lucké dell'adenocarcinoma del rene di rana.
Soprattutto le ricerche sui virus oncogeni hanno contribuito in notevole misura allo
studio del meccanismo o dei meccanismi attivi nel trasformare una cellula normale
in cellula tumorale. Infatti, poiché si conosce con sufficiente approssimazione la
capacità di virus oncogeni molto piccoli di codificare un numero limitato di
proteine, è possibile distinguere nella cellula trasformata quanto è da riferire ad
attività propria della cellula e quanto, invece, a quella del virus infettante.
Diversa è, invece, la situazione riguardo all'ansiosa domanda se l'eziologia di alcuni
o di molti o di tutti i tumori umani sia di natura virale. Le numerose ricerche finora
eseguite sia per scoprire al microscopio elettronico forme virali, sia per isolare in
coltura virus provenienti da tessuti umani, non hanno finora condotto a risultati
probativi; si spiega pertanto lo scarso credito che vari studiosi concedono all'ipotesi
dell'eziologia virale del cancro dell'uomo, in considerazione anche dell'insorgenza
imprevedibile e del tutto casuale della malattia per la quale non è dimostrabile la
contagiosità propria dei processi morbosi sostenuti da un agente infettivo.
Peraltro, contro tale scetticismo fa riscontro la convinzione di molti ricercatori, il
cui numero è sensibilmente aumentato negli ultimi anni, dell'origine virale del
cancro dell'uomo, probabilmente di tutte le forme di cancro.
L'eziologia virale di due tumori dell'uomo, la verruca e il condiloma acuminato, è
stata sicuramente dimostrata dalla possibilità della trasmissione diretta delle
malattie in volontari - in genere gli stessi ricercatori. È vero che verruca e
condiloma non sono tumori maligni e possono regredire spontaneamente, tuttavia
non va dimenticato che alcuni papillomi di animali, come quello di Shope,
spontaneamente o in risposta ad alcuni stimoli si trasformano in cancro; che per
azione di idrocarburi cancerogeni si sviluppano papillomi, i quali successivamente
si trasformano in carcinomi; infine che, con relativa frequenza, papillomi di alcuni
organi dell'uomo, come quello della vescica, si trasformano in carcinomi.
Si tratta pur sempre, in ogni caso, di ragionamenti analogici, contrastati dalla
mancanza di dimostrazioni dirette.
Tuttavia, la recente acquisizione che il tumore di Burkitt è dovuto al virus di
Epstein e Barr, il quale è anche l'agente eziologico della mononucleosi infettiva, ha
richiamato l'attenzione degli studiosi su alcuni importanti aspetti del problema:
infatti, non si riesce a porre sicuramente in evidenza in sezioni ultrasottili alla
microscopia elettronica il virus di Epstein-Barr né a coltivarlo, e la sua esistenza è
ammessa in base a criteri immunitari. Questi sono, è vero, criteri indiretti, ma di
tale enorme specificità da non lasciar dubbi sulla relazione tra il virus che
costituisce l'antigene e gli anticorpi presenti nel sangue degli uomini a eccezione di
quelli affetti da morbo di Burkitt e da mononucleosi infettiva nelle loro fasi iniziali.
Non sembrerebbe, dunque, indispensabile per sostenere l'origine virale di un
tumore dimostrare la presenza di particelle virali nell'interno delle sue cellule né
isolare il virus in coltura.
D'altra parte, le ricerche sui tumori sperimentali da virus hanno messo in evidenza
che solo di alcuni di essi è possibile la dimostrazione al microscopio elettronico o
l'isolamento nelle colture di cellule; invece altri virus, il cui genoma è intimamente
legato a quello della cellula ospite, non si riproducono più come tali, ma integrati
nella cellula ne operano la trasformazione maligna, cosicché l'acido nucleico virale
viene trasmesso alle cellule figlie e si perpetua il carattere della malignità.
Ancora a sostegno della natura virale dei tumori dell'uomo sta la constatazione che
cellule umane normali sono trasformabili in vitro in cellule neoplastiche a opera di
virus di origine umana - Adenovirus in particolare - o di virus di origine animale.
D'altra parte, sembra difficile pensare che mentre tante specie animali sono
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spontaneamente affette da tumori di natura virale, l'uomo ne sarebbe del tutto
esente. A tale proposito occorre anche considerare che l'esistenza di alcuni virus in
grado di indurre neoplasie, quale ad esempio quello del polioma, fu documentata
grazie a particolari tecniche di ricerca in feti o in animali appena nati, alle quali
fecero poi seguito scoperte di fondamentale importanza che hanno determinato un
nuovo corso nelle ricerche di oncologia sperimentale.
Naturalmente, le considerazioni esposte, e varie altre che si omettono, hanno
valore relativo, ma allo stato attuale è impossibile non tenerne debito conto.
Il problema, già di per sé tanto complesso, si complica ulteriormente se si tenta di
esaminare la relazione tra agenti chimici e agenti fisici da una parte e virus
dall'altra. Esistono realmente tanti agenti cancerogeni con peculiari modalità di
azione quanti sono quelli che si conoscono, o piuttosto, come si è già accennato,
tutti hanno a bersaglio lo stesso o gli stessi punti del metabolismo cellulare? La
possibilità di indurre lo sviluppo di tumori con agenti chimici o fisici è
completamente indipendente dalla presenza di virus oncogeni, ovvero, come molti
credono in base a convincenti ricerche, soltanto questi debbono essere considerati i
veri effettori della cancerizzazione mentre gli altri agenti cancerogeni
determinerebbero l'attivazione di un virus oncogeno per cosi dire latente?
È questo non solo uno dei maggiori problemi dell'attuale oncologia sperimentale,
per motivi di ordine strettamente teorico e speculativo, ma anche di grande
interesse umano, perché la conoscenza del tipo di molecole, ad esempio virali,
interagenti con quelle specifiche della cellula ospite, è presumibile che possa
rendere più razionale ed efficace la terapia dei tumori.
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