LUCIANO MARITI VALORE E COSCIENZA DEL TEATRO IN ETÀ BAROCCA Gli studi sul Barocco (categoria derivata dalle arti figurative e dal Novecento, strumento euristico che è servito per interrogare il Seicento) sembrano, in gran parte, dominati da concezioni estetiche centrate sul concetto di visione e, in fondo, ancora influenzate dall’idea metastorica di Wòlfflin che intendeva il Barocco come una categoria della forma e come una rivoluzione del vedere.1 Un approccio che si ritrova sviluppato e riconiugato nelle più recenti analisi esteticofilosofiche (di Sarduy, Buci Glucksmann, Calabrese, Deleuze, Perniola, ecc.).2 Il Barocco è tendenzialmente concepito come un’estetica della visione. È pensato come uno sguardo desiderante che cerca di oltrepassarsi, di andare più in là dei limiti dell’ordinario fino a farsi visione: quasi passione o concupiscenza o delirio dell’occhio che cerca di vedere sempre più, fino alla soglia estrema della visione estatica, e che in ogni caso eccede i misurati confini, le decorose cornici, gli equilibri e le forme pure del classicismo. L’intento è quello di andare oltre l’ordine formale, oltre le definizioni — siano esse imposte dalla costruzione prospettica rinascimentale o dall’unità dell’io cartesiano o dalla finitezza del significato. Uno sguardo, dunque, che intravede e perciò sempre in transito, smarrito, dislocato, fluttuante, infinitamente divagante, privo di un centro (per alcuni paterno, per altri materno!), che desitua il reale, che cerca sempre qualcosa oltre l’apparenza e non trova nient’altro che la propria erranza; che obbedisce a una spinta metafisica, attratto da una latenza sempre in agguato nella visione e che ne rende le forme transitorie e «sdrucciolevoli come le nuvole » — direbbe Shakespeare. Uno sguardo tendenzialmente anamorfico che coghe la forma esposta alla sua Darstellung, nel suo apparire-sparire, da un posizionamento laterale e non frontale del punto di vista.3 Vedere e non vedere. Visione obliqua. Esoterismo della visione. L’arte, quindi, è un’arte che ha sciolto i legami fra apparenza e realtà, frutto di un sapere che divide ciò che il pensiero classico tendeva ad unire: la forma e la sostanza; che predilige la rappresentazione allegorica in cui « c’è un abisso — scrive Benjamin — fra la figura e il suo significato »;4 e un linguaggio i cui segni si accampano in virtù di se stessi, arbitrariamente significanti, voluttuosamente esitanti nel loro costituirsi. Insomma, un Barocco che, fra cannocchiali aristotelici e galileiani, è folie du voir secondo Buci-Glucksmann, «arte della cosa vista», secondo Roland Barthes (cui 1 Cfr. H. WÒLFFLIN, Cancetti fondarnentali della storia dell’arte, Milano, Longanesi, 1953; ma si veda anche, sull’idea di una ricorrenza storica dcl Barocco, E. D’Ors, Del Barocco, Milano, Rosa & Ballo, 1945. 2 Cfr. S. SARDUY, Barocco, Milano, Il Saggiatore, 1980; C. Buci-Glucksmann, La folie du voir, Paris, Galilée, 1983; ID., La ragione barocca, Genova, Costa & Nolan, 1984; O. CALABRE5E, L’età neobarocca, Roma-Bari, Laterza, 1987; O. DELEUZE, La piega, Torino, Einaudi, rggo; M. PERNIOLA, Enigmi; il momento egizio nella società e nell’arte, Genova, Costa & Nolan, 1990. 3 Cfr. SARDUY, op. cit., p. 44. 4 W. BENJAMIN, Il dramma barocco tedesco. Torino, Einaudi, 1971, p. 134. Ma si veda tutto il cap. Allegoria e dramma barocco (pp. 166-257). si deve anche la denuncia di un «imperialismo barocco della visione»5) che è apoteosi e concupiscenza del vedere, ma anche ambiguità e disillusione del vedere. Naturalmente, una volta affermato il primato della vista nell’estetica e nella sensibilità del Barocco, ne consegue che il Barocco non possa non realizzarsi nel teatro, essendo il teatro — si ripete spesso — il luogo della visione effimera per eccellenza. Ma cosi non è, perché il teatro è anche poesia della visione, ma non sopporta di essere ridotto ad un’estetica della visione tout court. Non solo perché percepibile in modo polisensoriale e cinestetico; ma soprattutto perché è un’arte dell’uomo che usa se stesso, come strumento e oggetto, per rappresentarsi ad altri uomini. Contiene cioè un aspetto antropologico in cui si concentrano i complessi valori di una cultura, con un’intensità tale che non può essere emulata da operazioni meno immediate. Un aspetto che non si può eludere, a meno che non si voglia parlar d’altro. La Visionarietà “figurativa” del Barocco rischia di rispecchiarsi nell’occhio sapiente della critica con pericolosi eccessi perché — lo ricordano proprio le figure mitiche predilette dal Barocco: da Orfeo a Narciso a Psiche a Medusa a Proteo — «a forza di voler estendere la portata dello sguardo, l’anima si offre all’accecamento e alla notte»6. Ironia a parte, cercherò di fare qualche riflessione sul valore e sulla coscienza che il teatro ha di se stesso con un orientamento metodologico rivolto non all’abusato coté visivo-estetico del presunto spettacolo, ma all’aspetto antropologico del teatro, vale a dire all’uomo-attore, all’uomo di teatro, la cui forte presenza è il cuore e il respiro vitale della più atta drammaturgia barocca7. Ricordando, preliminarmente, che sotto tanto effimero barocco c’è la massima concretezza: la diffusione, cioè, del professionismo delle compagnie teatrali che, sostituendosi alla tradizione dilettantesca iniziata nel Medioevo, determina il profilo moderno del teatro occidentale, con il costituirsi dell’impresa teatrale, l’apertura dei primi teatri pubblici, l’affermarsi di una nuova collocazione sociale e culturale dell’attore. In una parola, si muovono i primi fondamentali passi verso l’istituzione del teatro: ed è questo il dato concreto e davvero unificante nel panorama teatrale barocco. E bene inoltre, sempre preliminarmente, ricordare che Proteo, protettore del teatro, se agita la sua incessante girandola di metamorfosi lo fa anche per difendersi. Le variae species e gli ora ferarum che Proteo assume allo scopo di eludere la presa di Menelao nel poema omerico e quella di Aristeo nelle Georgiche, sono finalizzati alla conquista di un’invisibilità che rende invulnerabili. La difesa di Proteo, l’indovino che conosce il passato e il futuro, non è la fuga, ma l’esporsi alla vista e insieme il rendersi invisibile per eludere la presa di chi lo minaccia o di chi minaccia il suo potere. Un aspetto di cui bisognerà tener conto 5 Cfr. BUCI-GLUCKSMANN, La folie, ct.; R. BARTHES, Sade, Fourier, Loyola, Torino, Einaudi, 1977, p. 54: «l’occhio diviene l’organo fondamentale della percezione come attesterà il Barocco, che è arte della cosa vista». 6 Cito da J. STAROBINSKI, L’occhio vivente, Torino, Einaudi, 1975, p. 9. 7 Sulla drammaturgia secentesca, indagata anche nel suo sviluppo dalla tradizione cinquecentesca, cfr. C. FALLETTI CRUCIANI, Il teatro in Italia, Il Cinquecento e Seicento, Roma, Studium, 1999. quando parleremo di un teatro “di mestiere”, che in quest’età tenta a fatica di difendere il suo stesso diritto all’esistenza, rendendosi appunto visibile-invisibile. 1. L’età barocca è l’età d’oro del teatro8. Corneille, ne L’Illusion comique, dichiara che « à présent le Théàtre / est en un point si haut que chacun l’idolàtre ». E l’amore di tutti «i grandi spiriti», del popolo, dei nobili e «perfino del nostro grande re»9. Il teatro è praticato in ogni dove: nella piazza carnevalesca, in Corte, in Accademia, nei collegi, nelle stanze private, e da tutte le classi sociali. A Roma, nei primi anni del secolo, una generazione di più di cento attori dilettanti (accademici, studenti, bottegai, artigiani, pittori, avvocati, scrittori di cui conosciamo nome e cognome, attività e parti interpretate) improvvisano commedie «ridicolose» con maschere10. La stampa teatrale aumenta enormemente»11, e per la prima volta ha larga diffusione un teatro in forma di libro che avrà forti conseguenze nel sistema teatrale moderno. La scrittura teatrale è considerata dai giovani letterati il linguaggio più adatto a tradurre la loro visione del mondo, come accade in Inghilterra o nella Francia degli anni Venti con Mairet, Pichou, Rotrou, Mareschal, Scudery e Corneille12. Ma c’è anche un teatro che fa a meno del testo scritto, come la commedia dell’arte. La presenza del teatro nella società è straordinaria. Tuttavia, se le corti d’Europa e le accademie fanno gare di messinscena, se Richelieu fa costruire la più bella sala di teatro nel suo palazzo, se insomma c’è tanto interesse per le scene, è perché il teatro non è concepito e percepito soltanto come un linguaggio artistico o una forma estetica dell’illusione: è anche un sapere in azione che sembra addirittura soddisfare la maniera in cui l’uomo barocco conosce il mondo. Mi riferisco, ovviamente, all’idea ossessiva, riproposta in mille modi, del mondo come teatro, del teatro metafora di un universo rappresentabile nel quale gli 8 Per un’analisi organica dello spettacolo secentesco italiano, cfr. S. CARANDINI, Teatro e spettacolo nel Seicento, Roma-Bari, Laterza, 1990; ma si veda anche F. ANGELINI, Barocco italiano, in Storia del teatro moderno e contemporaneo, dir. R ALONGE e G. DAVICO BONINO, I. La nascita del teatro moderno. Cinquecento-Seicento, Torino, Einaudi, 2000, pp. 194-274. 9 P, CORNEILLE, L’illusion comique, comèdie, Paris, Targa, 1639, v 5 1781-82. 10 Al riguardo è testimonianza preziosa e rara un Indice manoscritto compilato da Giovanni Briccio (1579-1645), che elenca ben cento attori dilettanti che hanno recitato con lui « più di una volta», delineandone sinteticamente il ruolo e i modi recitativi. L’Indice, rinvenuto e copiato da Carlo Cartan nel 168o in casa di Basilio, figlio di Briccio, è conservato all’Archivio di Stato di Roma, CartariFebei, cc, 232v-236v. 11 Si vedano, come significative del forte impulso impresso nel Seicento all’editoria teatrale, la situazione romana e napoletana di cui conosciamo alcuni dati concreti. Sulla prima cfr. S. FRANCHI, Drammaturgia romana. Repertorio bibliografico cronologico dei testi drammatici pubblicati a Roma e nel Lazio. Secolo XVII, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1988; ma vd. anche L. MARITI, Commedia ridicolosa. Comici dilettanti, professionisti ed editoria teatrale a Roma nel Seicento, Roma, Bulzoni, 1978, pp. XL-LXX. Sull’editoria napoletana vd. M. BRINDICCI, Il libro di teatro a Napoli nel XVII secolo, 1994 (tesi di dottorato di ricerca in Italianistica, Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Napoli). Per la situazione francese è ancora molto utile H.J. MARTIN, Livre, pouvoirs et société à Paris au XVII’ siècle (1598-1 701), Genève, Droz, 1969. Il fenomeno del resto riguarda anche la letteratura: «i poeti barocchi, in particolarissimo modo il Marino, sono i primi ad usare su larga scala e con spirito da mass-media gli strumenti di moderna diffusione della cultura che sono la stampa e l’editoria » (A. ASOR ROSA, Sintesi di storia della letteratura italiana, Firenze, La Nuova Italia, 1972, p. 208). 12 J. Schérer fa notare che « entre 1625 et 1630, Mairet, Auvray, Baro, Du Ryer, Pichou, Rotrou, Scudéry, Maresehal, Rampale, Rayssiguier et Corneille font jouer leur première pièce » (J. SCHÉRER, Théatre du XVII’ siècle, Paris, Gallimard, 1975, Vol. I p. XVII). uomini recitano come attori: attori — aggiungerà uno Shakespeare blasfemo — di una favola « raccontata da un idiota, piena di rumore e di furia / che non significa nulla» (Macbeth, v 27-28). Il Theatrum Mundi non è un’invenzione del Barocco, sebbene quest’età abbia avvertito acutamente il senso di un mondo scardinato, in cui la sola impressione di consistenza è fornita da Dio. Questo vecchio topos — appartenuto ai presocratici, trasmesso dal platonismo e dai padri della Chiesa al Medioevo per essere integrato in una visione provvidenzialistica, accolto poi dal Rinascimento in versione scettica nel momento in cui il teatro, da evento rituale, si trasforma in distaccata rappresentazione con il conseguente senso d’oggettivazione del mondo e d’allontanamento da Dio — è cosi ben integrato e funzionale all’ideologia barocca da apparire ben presto un luogo comune13. Quando Don Chisciotte pronuncia l’elogio della commedia, mettendola in relazione con la commedia del mondo, Cervantes affida a Sancio una sottolineatura ironica: « bellissimo paragone — disse Sancio — tuttavia non tanto nuovo, perché l’ho udito molte e diverse volte» (II 12)14. Dunque già nel 1615 è un modo di dire abusato, oltre che astratto e libresco. È una formula che spiega tutto senza niente spiegare; e, tuttavia, rimane un segno fortemente indiziario del valore culturale assunto dal teatro, che ora sembra essere il luogo concreto in cui può manifestarsi una diversa appercezione della realtà. In altri termini, il teatro avrebbe avuto il grande pregio di poter testimoniare, in virtù della sua specifica natura, la ricaduta epistemologica del passaggio — direbbe Thomas Kuhn -15 da un paradigma scientifico ad un altro, da un Sistema di conoscenza ad un altro. Per Foucault, la passione per il teatro sarebbe l’effetto dell’abbandono di un sapere basato sulle “somiglianze”. Un sapere che comincia ad essere oggetto di critica da parte di Bacone e poi di Cartesio poiché, annullando ‘e differenze e le identità, tendeva ad attribuire ad una cosa la caratteristica dell’altra producendo equivoci e confuse verità. Quando, agli inizi del XVII secolo, l’età delle corrispondenze — scrive il filosofo — sta per chiudersi in se stessa, dietro di sé non lascia che giochi. Giochi i cui poteri magici traggono alimento dalla nuova parentela tra somiglianza e illusione; le chimere della similitudine prendono ovunque forma, ma si sa che sono chimere: è il tempo privilegiato del trompe-l’oeil, dell’illusione scenica, del teatro che si sdoppia e rappresenta un teatro, del qui pro quo, dei sogni e delle visioni; è il tempo dei sensi fallaci; è il tempo in cui metafore, paragoni, allegorie definiscono lo spazio poetico del linguaggio16. 13 La metafora Theatrum mundi, adottata anche da Erasmo nell’Elogio della pazzia, pubblicato nel 1515 (ERASMO DA ROTTERDAM, Elogio della pazzia, a cura di T, FIORE, Torino, Einaudi, 1961, p. 25), acquisisce massima estensione nel Seicento anche in virtù della sua rappresentabilità allegorica, a cominciare dall’auto sacramntal, del 1635,di Pedro Calderòn de la Barca, Elgran teatro del mundo. Sull’argomento si vedano, almeno, J. JACQU0T, Le théatre du monde de Shakespeare à Calderòn, in « Revue de Littérature comparée 5, XXI 1957, pp. 341-72 M. COSTANZO, I segni del silenzio, Bulzoni, Roma, 1983; L.G. CHRISTIAN, Theatrum mundi. The History of an Idea, New York-London, de Gruyter, 1987. 14 MIGUEL DE CERVANTES, Don Chisciotte della Mancia, a cura di C. SEGRE e D. MORO PINI, trad. di F. CARLESI, Milano, Mondadori, 1974, p. 682. Il secondo libro, cui appartiene la citazione, è scritto nel 1615. 15 T, KUHN, La struttura delle rivoluzioni scientifiche. Come mutano le idee della scienza, Torino, Einaudi, 1978. Sugli effetti della rivoluzione scientifica nel pensiero barocco vd. SARDUY, op. cit. 16 M. FOUCAULT, Les mots et les choses, Paris, Gallimard, 1966, p.65 (ed. it.: Le parole e le cose, trad. di E. PANAITESCU, Milano, Rizzoli, 1978, p. 66). Non è, però, solo i tempo dei giochi, delle fantasticherie e dei fascini d’un vecchio sapere non resosi ancora “responsabile”. E anche e soprattutto il tempo in cui, nei capolavori drammatici del Seicento (penso a Molière e a Shakespeare), si può vedere la crudele ragione delle identità e delle differenze (Otello, Shylock, ecc.) deridere all’infinito corrispondenze e similitudini, proprio perché è soprattutto a teatro che è possibile spezzare più facilmente la vecchia parentela del linguaggio con le cose. Il teatro, nel passaggio epistemico all’età moderna, è nel punto di contraddizione. Non è alienato nel sapere per corrispondenze né in quello per differenze. È più semplicemente abilitato a testimoniare la tensione del rapporto fra realtà e apparenze. Rapporto che, per Orlando, è il comune denominatore delle tematiche letterarie barocche, di quelle costanti di cui ha parlato Rousset: la metamorfosi, e la sua variante affetti va che è l’incostanza, il travestimento, il doppiamento e lo sdoppiamento, i temi dell’inganno, dell’illusione, dell’ostentazione, e di tutta l’imagerie dell’effimero: nuvole, acqua, specchio17. Illusorie permanenze e apparenze, liquidità e “specchiosità” quasi spirituali e molto astratte che tanto affascinano e deliziano chi studia il Barocco. La finzione del teatro è disattivare e rivitalizzare il rapporto fra apparenza del reale e mondo dell’autenticità. Perché il teatro conosce i “sembra” e, come accade nel sogno o nella follia, trattiene sempre qualcosa della cosa originaria ed autentica o ne rivela l’assenza costruendola come apparenza. Il teatro non dice né la verità né il falso, sta solo in mezzo per provocare la tensione e lo scarto folgorante con la realtà, quello straniamento chiamato «maraviglia», che rivaluta il mondo alla luce di una nuova appercezione o, al contrario, lo svaluta in quanto apparenza ingannevole: sembianza che scintilla davanti agli occhi e svanisce allo sguardo di chi gli si porta vicino, per ricomporsi un po’ più in lì Apparenza che non si lascia cogliere se non nel mutamento, nello sparire dalla vista, perché la sostanza che la abita si pone sempre al di là, aspira a trascendersi, a tradursi in sostanza metafisica. Con un innegabile effetto di turbamento che il relativismo infinito di questo processo di Denaturierung produce. La propensione all’eccesso del Barocco18 contribuì, indubbiamente, ad accentuare ulteriormente quella naturale disposizione all’extraquotidiano che è propria del teatro in quanto imitazione dell’azione possibile19. E lo spinse a 17 Cfr. F. ORLANDO, Illuminismo, Barocco e retorica freudiana, Torino, Einaudi, 1972 (nuova ed. ampliata), pp. 72-73.11 riferimento è a J. ROUSSET, La Littérature de l’age baroque en France. Circe et le paon, Paris, Corti, 1954 (trad. it.: Bologna, Il Mulino, 1985). 18 Vd. J.A. MARAVALL, Culture of the Baroque, Minneapolis, Univ. Of Minnesota Press, 1986, che considera l’eccesso il tratto caratterizzante della cultura barocca. 19 Secondo Aristotele « compito del poeta non è dire le cose avvenute, ma quali possono avvenire, cioè quelle possibili [dynata] secondo verosimiglianza [katà to eikos] o necessità [ katà te anankaion] » (ARISTOTELE, Poetica, 5Ia 36-37, trad. a cura di D. LANZA, Milano, Rizzoli, 1987, p. 147). Il poeta, a differenza dello storico, deve rivolgersi a quella specifica sfera di realtà che è la possibilità. Funzione del dramma non è riprodurre una determinata « composizione dei casi», ma di rappresentare pragmata fra loro connessi secondo relazioni di verosimiglianza o necessità. Il verosimile non coincide con ciò che possa essere accertato in quanto effettivamente accaduto, ma con ciò che, potendo accadere, esprime un ordine di possibilità del reale. Significativa è l’esemplificazione addotta da Aristotele a chiarimento del concetto di verosimiglianza: l’episodio della statua di Miti che uccise il colpevole della morte del personaggio raffigurato rovinandogli addosso. Episodio sempre richiamato e accostato alla statua mobile del Don Giovanni: per Goldoni una “buffoneria” talmente inverosimile, da essere eliminata nel suo rifacimento del dramma. creare incessantemente mondi possibili e visibili, generando in noi l’impressione che questo teatro sia sempre in fuga dall’ordinario e dal quotidiano, di cui non sembra esserci traccia sulle scene. A volte nella commedia si avverte un’ondata di calda simpatia per la realtà o un’allegrezza con cui la natura sembra rivendicare il suo lieto trionfo sopra il destino, ma più spesso la commedia annuncia un riso fragoroso. Il teatro corteggia la realtà, ma la sberleffa, ghigna alle sue spalle come un bambino irrispettoso davanti ad una vecchia signora. E finge persino di essere un teatro stupido e volgare, ma perché stupida e volgare è la realtà. Disarmato di fronte al reale, il Barocco elegge il teatro, come la biblioteca, a non luogo in cui poter leggere la vita perché qui trova ciò che è riparato e coperto. Cerca qui una rassicurazione perché, non fermandosi al cuore inalterabile delle cose (come la ragione classica), rischia la vertigine della relatività assoluta. Quest’effetto di derealizzazione provocò anche quell’evidente essere e non essere, quell’incertezza del personaggio su se stesso, smarrito fra sdoppiamenti e travestimenti, preso nelle maglie labirintiche dell’accadere, messo in maschera e persino ridotto a misteriosi ossimori come quei fantasmi di padri e d’eroi che insistentemente ritornano, ombre d’acciaio e di marmo che parlano e camminano, come il padre d’Amleto e l’altro padre e commendatore del Don Giovanni. Deputato ad essere termine di confronto con il mondo, il teatro mantenne comunque la sua ambiguità ermeneutica: sostanzialmente preparò all’incertezza, alla visione non univoca. Inquietò confortando. Segnalò il vero tradendolo. Incarnazione di mille ossimori, dimostrò che solo l’intelligenza degli angeli è univoca: quella degli nomini giunge alla verità attraverso la contraddizione. E si offrì anche come sintesi conciliatrice di livelli culturali e di contrasti passionali e come potenziale disvelatore dei tarli di quel sistema rigidamente ideologico. Eppure il teatro barocco — e perfino quello professionale, a lungo rifiutato dalla Chiesa — sembrò acquisire Valore e piena legittimità solo quando riuscì, direttamente o indirettamente, ad assicurare una ricaduta metafisica al “discorso culturale”, che può esprimersi così: se il mondo è apparenza, cioè sogno, pazzia, teatro, allora la realtà autentica è in quell’altro mondo che Platone prima e il cristianesimo poi hanno posto. Paradossale riscatto metafisico per un’arte cosi ruvida e materiale qual è il teatro! 2. Il Valore assunto dal teatro, che si fa finestra epistemologica e metafisica delle apparenze, è dovuto a un presupposto teologico, ben presto divenuto un atteggiamento mentale proprio del cristianesimo, che a mio parere spiega alcuni aspetti fondamentali del Barocco. Mi riferisco al fatto che il cristianesimo ha sostituito la verità con la fede che un qualcosa sia vero. Il cristianesimo, ha scritto acutamente Nietzsche, «sa che è in sé completamente indifferente il fatto che una cosa sia vera o no, ma è estremamente importante, invece, fino a che punto sia creduta [..J. Se per esempio, è insita una felicità nei credenti redenti dal peccato, come premessa di ciò, non è necessario che l’uomo sia peccatore, ma che si senta peccatore »20. 20 F. NIETZSCHE L’Anticristo. Maledizione del cristianesimo, a cura di G. COLLI e M. MONTINARI, versione di F. MASINI, Milano, Adelphi, 1984, p. 27. La stessa lotta contro il peccato — scrive il Se importante è credere, se importante è ciò che fa fede, allora è evidente perché il massimo rilievo fu dato alla retorica, che è l’arte di persuadere l’altro affinché la cosa sia creduta vera. Ma il presupposto teologico spiega anche il carattere dell’episteme barocca fondata sulla metafisica delle apparenze (credere vero solo il mondo che sta dietro il mondo) ed espressa nella formula del Mondo come Teatro che non vuoi dire, appunto, che il mondo è semplicemente un teatro, ma che è indifferente che il mondo sia vero o falso: importante è fino a che punto sia credibile. Il teatro in fondo interpretava un esercizio importante per l’anima, inducendo lo spettatore a ritenere il mondo né vero né falso, ma comunque non credibile, non completamente degno di fede. Il teatro, specie quello profano, esprimeva così, paradossalmente, la vera retorica richiesta dal cristianesimo (o dalla casta sacerdotale per la quale è sempre essenziale che si pecchi): persuadendo alle visioni, persuadeva al nulla e induceva lo spettatore a sentirsi peccatore. Il teatro profano, sebbene fosse apparentemente osteggiato, ebbe enorme sviluppo in un’età di religioni guerreggiate, perché fu, per così dire, una manna per la Chiesa. E se nel concetto che non è importante la verità, ma solo il grado di credibilità, c’è la radice dell’ipocrisia, allora sorge spontanea questa domanda: che il teatro, o almeno certo teatro, sia stato un progetto di Dio contro l’ipocrisia della Chiesa? Se l’ipotesi è giusta, allora dovrebbero considerare Molière come una spia mandata dagli dèi e il suo teatro come un antiteatro fra i teatri barocchi. Non solo per questioni stilistiche (unifica e semplifica il complesso), ma perché osò mettere gli spettatori nella condizione di interrogarsi su «cosa fa fede »21. Accadde nel 1669 col Tartuffe (e poi col Dom Juan), con la storia di un vampiro che, con le grimaces di Dio, tenta di succhiare donne e patrimonio alla famiglia del succube Orgon. Com’è noto, lo spettacolo fu uno scandalo assoluto — Bossuet lo riteneva ancora un affronto più di vent’anni dopo — che svelò come l’ipocrisia sia la madre di tutte le retoriche e di tutti i finti teatri. Fu uno spettacolo contro quella retorica dell’apparenza e quella metafisica del Mondo come Teatro che faceva recitare agli attori il ruolo di capro espiatorio (ombre d’uomini fra le ombre della scena). Fu un’onda di realtà vera e di riso comico che spazzò via quei teatri delle apparenze — retorica del Cielo — che pretendevano di parlare in nome di Dio. E quindi fu la più decisa « rivelazione di esistere » (per usare una bella espressione di Cesare Garboli) offerta all’uomo barocco, e la più coraggiosa. Molière giunge al termine di un lungo percorso costellato di polemiche fra teatro professionale e Chiesa, in cui nessun attore, pur conoscendo l’efficacia del teatro, osò sostenere la supremazia fascinatoria dell’actio teatrale su quella sacra, ponendo il teatro come rivale della Chiesa. filosofo — si basa su un processo per cui alla verità di natura che si esprime in piacere-dolore subentra la verità creduta di premio-castigo, che fa riferimento alla nozione di peccato « a quell’unica condizione — dice Nietzsche — che si oppone alla vita » e da cui ci si redime sentendosi appunto peccatori (p. 197). 21 Cfr. M. FUMAROLI, Eroi e oratori. Retorica e drammaturgia secentesche, Bologna, Il Mulino, 1990, p. 334. Polemiche e processi22 furono all’ordine del giorno, ma a rendere del tutto vani fu un colpo di realtà: la conquista da parte delle compagnie teatrali di una sempre più ampia autonomia economica. La metafora del Mondo come Teatro per i professionisti del teatro non era mai stata il principio di una visione religiosa del mondo, bensì la definizione di una fetta di spazio pubblico, autonomo e laico, che è quello spazio su cui sarà fondata l’istituzione del teatro nella città borghese. 3. Il fatto che il valore del teatro fosse stato cori transvalutato in metafisica, era determinato anche dall’essere, il teatro, l’esatto contrario: azioni di corpi fisici in forma di personaggi che attraggono l’attenzione d’altri corpi. Il teatro era naturalmente et in substantia eros; e proponeva, in un mondo di religiosi scannamenti, questo valore, riattizzando continuamente sulle scene una delle più forti contraddizioni che attraversa la cultura barocca: quella fra Eros ed Ethos. Già di per sé il teatro è festa dei sensi, gioiosa o luttuosa che sia. Ma tutta la drammaturgia barocca è abitata apertamente o segretamente da Amore che cerca di trionfare sulle leggi e le logiche della morale e della politica. Gli esempi potrebbero essere molti. Basti ricordare l’istituzione in Francia, pur con esiti diversi, tra barocco corneilliano e razionalismo raciniano, di una scena che fu scuola di sentimenti e di passioni;23 o, più in generale, tener presenti i personaggi della tragedia, mai pacatamente illuminati — come le figure della pittura manieristica — ma sempre tagliati a luci crude, mentre ostentano il potere e nel contempo soggiacciono all’arbitrio di bufere passionali, come lacere bandiere sventolanti. Bufere passionali che agitano ancor di più le eroine della tragedia, vittime della ragion di Stato o dei propri padri (Merope), ma capaci di suscitare anche fantasie sensuali (Iudit), cosi come le innumerevoli Cleopatre e Lucrezie, o le Maddalene della spiritual tragedia, o, ancora, le protagoniste delle pastorali fra le quali ricordo Corisca del Pastor fido di Guarini, ninfa perversa e «teorica dongiovannesca del desiderio mobile, indifferenziato e molteplice»24 e la scandalosa Filli di Sciro (dell’omonima pastorale del Bonarelli) che ama contemporaneamente due pastori. È soprattutto la pastorale — proprio il genere che appartiene tutto al Barocco e che muore col Barocco — proporre accensioni erotiche più alte e sottili, rispetto 22 Sull’argomento: F. TAVIANI, La commedia dell’arte e la società barocca. La fascinazione del teatro, Roma, Bulzoni, 1969; ID., Introduzione a N. BARBIERI, La supplica, discorso famigliare a quelli che trattano de’ comici, Milano, Il Polifilo, 1971, pp. XI-LXXXV; M. FUMAROLI, La querelle de la moralité du théatre avant Nicole et Bossuet in « Revue d’histoire littéraite de la France », LXX 1970, pp. 1007-30; ID., Eroi, cit., capp. VIII e IX; M. LOMBARDI, Processo al teatro. La tragicommedia barocca e i suoi mostri, Pisa, Pacini, 1995 23 Cfr. MACCHIA, La scuola dei sentimenti, Caltanissetta-Roma, Sciascia, 1963. 24 ANGELINI, op. cit., p. 164 (ma cfr. tutto il sintetico e stimolante par. Ameni loci: il terzo genere, pp. 254-66). Sulla pastorale vd. Sviluppi della Drammaturgia Pastorale nell’Europa del Cinque-Seicento. Atti del xv Convegno Internazionale promosso dal Centro Studi sui Teatro Medioevale Rinascimentale (Roma. 23-26 maggio 1991), a cura di M. CHIABO’ e F. DOGLIO, Viterbo, Union Printing, 1992; e, fra i contributi più recenti e più validi: LOMBARDI, op. cit.; e il cap. III (La ninfa e il bosco, Ambienti pastorali nel teatro barocco) di Teatri barocchi, Tragedie, commedie, pastorali nella drammaturgia europea fra ‘5oo e ‘6oo, a cura di S. CARANDINI, Roma, Bulzoni, 2000, pp. 375-602. alla tragedia e all’osceno risibile della commedia, che saranno poi ancor più accentuate dal melodramma. La pastorale è, infatti, un vero e proprio viaggio iniziatico alla scoperta e alla comprensione dell’amore. Un percorso con le sue tappe ascensionali, che vanno dalla rivelazione alla coscienza del corpo (anche nelle sue forme bestiali), fino alla sua costante rimozione. Un percorso, potenzialmente metafisico, verso l’armonia platonica o verso il sublime, ma che attraversa il mistero del rapporto consustanziale che l’amore intrattiene con la violenza, e a cui si debbono vittime sacrificali, guerre d’amore, malattie, lamenti e malinconie. È un eros che vive nella latenza di un corpo sempre desiderato, sempre censurato, sempre rimosso, ma poco esposto e che perciò si rivela in danze di visioni mentali suscitate dalla parola e dalle sue figure, fra le quali la metafora è sempre la più lussuriosa. Un eros che, sintomaticamente, è sempre protetto e coperto dai luoghi topici e oscuri del bosco e della grotta; e che forse si vorrebbe leggero, limpido, ingenuo, capace di riflettere ancora, nel paradiso edenico d’Arcadia, la grazia dello stato della creazione; ma che invece assume i riflessi di un oscuro rispecchiamento nella pozza della colpa adamitica. Ciò che, tuttavia, veramente provocò, sulle scene barocche, una tensione assoluta fra Eros ed Ethos, fu la forte presenza delle prime attrici professioniste e l’audacia sconcertante delle loro interpretazioni. Un fenomeno molto concreto e poco effimero che spesso si dimentica. Questa nuova tradizione recitativa modificò sensibilmente il vecchio teatro, aumentandone il grado di fascinazione e il potere contrattuale, cosi come profondamente modificò il teatro inglese della Restaurazione quando venne introdotta, nel periodo carolino, insieme alla scene mobili25. La tradizione, come è noto, era iniziata con le peformances di Isabella Andreini, poetessa e prima diva del teatro moderno, morta nel 1604 e celebrata in Europa26, che nelle scene di pazzia, ma anche nella sua MirtilLi, si era proposta audacemente in situazioni esplicitamente o ambiguamente erotiche27. Una tradizione recitativa portata avanti dalle altre grandi attrici della prima generazione della commedia dell’arte (Silvia Roncagli, Vincenza Armani, Vittoria 25 P.BERTINETTI, Il teatro e la corte nell’età della Restaurazione, in AA.VV., Storia, cit., pp. 472513, alle pp. 480-83. 26 Su Isabella Andreini cfr. F. MAROTTE-G. ROMEI, La commedia dell’arte e la società barocca. La professione del teatro, Roma, Bulzoni, 1991, pp. 163-208; F. TAVIANI, Bella d’Asia. Torquato Tasso, gli attori, l’immortalità, in « Paragone-Letteratura», xxxv 1984, nn. 408-10 pp. 3-76; R. TESSARI, O Diva, o “Estable à tous chevaux”. L’ultimo viaggio di Isabella Andreini, in Viaggi teatrali dall’Italia a Parigi fra Cinque e Seicento. Atti del Convegno internazionale di Torino, 6-8 aprile 1987, Genova, Costa&Nolan, 1989, pp. 128-42; F.R. DE’ ANGEI.ÌS, La divina isabella. Vita straordinaria di una donna del Cinquecento, Firenze, Sansoni, 1991. 27 . Mi riferisco soprattutto alla scena della Mirtilla (III 5 ) in cui il satiro cerca di violentare Filli, la quale riesce a liberarsene con la promessa di un bacio: della scena che nell’Aminta è solo narrata da Tirsi. Maria Luisa Doglio, nell’introduzione ad un’edizione moderna della Mirtillo (pubblicata nel 1588 a Verona da S. dalle Donne e C. Franceschini), sottolinea l’emergere di un forte accento di narcisimo femminile: «una nota voluttuosa, sottilmente ambigua, di un’audacia sconcertante » (I. ANDREINI, La Mirtilla, a cnra di M.L. DOGLIO, LUCCA, FAZZI, 1995, p. 14). Sulla Mirtilla vd. anche F. VAZZOLER, Le pastorali dei Comici dell’Arte: la Mlirtillo di Isabella Andreini, in AA.VV., Sviluppi, cit., pp. 281-99. Piissimi, «bella maga d’amore »)28 e proseguita, nel Seicento, da Orsola Cecchini, da Virginia Ramponi (famosa interprete anche dell’Arianna di Monteverdi nel 1608, particolarmente ammirata dal Marino)29 e poi da quelle attrici che, nella seconda metà del secolo, recitarono sulle scene francesi, come Orsola Cortesi30 moglie del celebre Arlecchino Domenico Biancolelli. Le attrici-donne trionfarono soprattutto nelle scene di pazzia e nei frequenti travestimenti da uomo (con ostensioni, rare a vedersi, di gambe fasciate da calze maschili e petti compressi e liberati in improvvise agnizioni31) in tutte quelle situazioni, cioè, che si offrivano al gioco recitativo dei forti contrasti (volgare/sublime, femminile/maschile)32 ; o anche in più raffinate ed estreme peformances psicologiche in cui la donna, a metà tra carnefice e vittima, vive 28 Sulle prime attrici della commedia dell’arte e sulla “nuova cultura” da loro prodotta, è fondamentale F. TAVIANI-M, SCHENO, Il segreto della commedia dell’arte, La memoria delle compagnie italiane del XVI, XVII e XVIII secolo, Firenze, La Casa Usher, 1982, pp. 331-53 (la citaz., da T. Garzoni, è riportata a p. 332). Sulle tecniche recitative delle attrici vd. F. TAVIANI, Un vivo contrasto. Seminario su attrici e attori della commedia dell’arte, in » Teatro e Storia», I 1986, n. I pp. 25-75. 29 Su queste attrici e in particolare su Virginia Ramponi, in arte Florinda, moglie di Giovan Battista Andreini, si veda la documentazione prodotta in Comici dell’Arte. Corrispondenze (GB. Andreini, N. Barbieri, PM, Cecchini, S. Fiorillo, T. Martinelli, E. Scala), dir. S. FERRONE, a cura di C. BURATTELLI, D. LANDOLFI e A. ZINANNI, Firenze, Le Lettere, 1993; e il cap. VI (Lelio bandito e santo) dell’importante studio sulla commedia dell’arte: S. FERRONE, Attori mercanti corsari. La commedia dell’arte in Europa tra Cinque e Seicento, Torino, Einaudi, 1993, pp. 223-73, in partic. alle pp. 236-38, 240-46, 253-58. Sulle feste mantovane del 1608 per le nozze del principe Francesco Gonzaga con Margherita di Savoia, nelle quali Virginia Ramponi (Florinda) cantò nell’Arianna e prese parte al Ballo delle ingrate, ambedue di Rinuccini e Monteverdi, cfr, P. FABBRI, Monteverdi, Torino, EDT, 1985, pp. 124-48; e C. BURATTELLI, Spettacoli di corte a Mantova tra Cinque e Seicento, Firenze, Le Lettere, 1999, pp. 35-80. Quell’interpretazione è, fra tanti altri, celebrata anche dal Marino nell’Adone («E in tal guisa Florinda udisti, O Manto / là ne’ teatri de’ tuoi regi tetti / d’Arianna spiegar gli aspri martiri / e trar da mille cor mille sospiri», VII 88). Nell’idillio de La Sampogna (1620), il passaggio del Marino ad una ispirazione meno elegiaca e più sensuale, nonché l’insistenza su alcuni dettagli del corpo (come i capelli sciolti: tratto sempre presente nell’iconografia recitativa di fanno pensare ad un’influenza di quella visione scenica. In una lettera, più volte citata, di Virginia Ramponi a Ferdinando Gonzaga, scritta da Tonno il 4 agosto 1609 (Archivio Storico di Mantova, Autografi, b.10, c.57rv) l’attrice riferisce di « cento ottave e quaranta sonetti» scritti dal Marino in suo onore. A tali composizioni fa riferimento anche G.B. Andreini in una lettera a Vincenzo I Gonzaga scritta pochi giorni dopo quella della moglie (il 14 ago. 1609) e sempre da Torino (Comici, cit., vol. I pp. 90-92, lett. II). 30 Su Orsola Cortesi: L. RASI, I comici italiani. Biografia, bibliografia, iconografia, Firenze, Bocca, 1897-1905, vol. I pp. 696-702; V. SCOTT, The commedia dell’arte in Paris. 1644-1697, Charlottesville, Univ. Press of Virginia, 1990, pp. ro8-ii, e soprattutto D. GAMBELLI, Arlecchino a Parigi. Dall’inferno alla corte del Re Sole, Roma, Bulzoni, 1993, pp. 277-81. A questi due ultimi studi si rimanda anche per notizie sulle altre attrici italiane che recitarono in Francia. 31 Esibizioni simili, inaugurate in Italia da Vincenza Armani, saranno tipiche, nell’Inghilterra di Carlo II, delle cosiddette breeches parts che prevedevano, appunto, il travestimento in abiti maschili. 32 Cfr. TAVIANI, Un vivo, cit., pp. 68-70. Per Taviani il segreto del fascino e del successo delle grandi attrici della fine del Cinquecento e della prima metà del Seicento (da Isabella Andreini, che nelle scene di follia riproponeva elementi dell’espressività buffonesca, a Orsola Cecchini, che compariva in scena sparando con l’archibugio, ad Angela d’Orso che guidava i soldati in battaglia come capitano) è in gran parte dovuto al gioco dei contrasti estremi (femminile./ maschile, ridicolo/tragico, volgare/sublime). Eugenio Barba ha individuato nel ricorso, anche simultaneo, a due tipi opposti di energia «uno vigoroso, forte (Animus), e l’altro morbido, delicato (Anima) «, da non confondere con la polarità dei sessi, una regola ricorrente del comportamento transculturale dell’attore. Cfr. E. BARBA, La canoa di carta. Trattato di Antropologia Teatrale, Bologna, il Mulino, 1993, pp. 96-106 quella violenza che Amore non sembra poter abbandonare e che si esprime nel delirio amoroso o nel lamento patetico, poi sfruttato dal melodramma. Nella loro recitazione, l’eros (carne e passione), rimosso in tanta drammaturgia e in tanto spettacolo senza donne, si fece fisicamente sensibile, veicolato anche dal volto senza maschera, nuda finestra dell’anima. Volto di fronte al quale — ricorda Benjamin — la letteratura barocca che pure, nella narrativa, coglie il più piccolo gesto, sembra disarmata33. E furono anche eccitazioni e carezze canore, di cui i testi scritti non serbano che una pallida, prosodica, eco. Ma non si trattò solo di fiammeggiamenti sessuali o di carnale poesia. Credo che il riconoscimento stesso del valore della recitazione come esperienza non superficiale, ma organica e totale di mente e di corpo, derivi soprattutto dalla straordinaria potenza performativa delle attrici. Le attrici, dive e prostitute, avevano infuso nella recitazione, « esercizio tanto pericoloso per donna »34, un senso di rischio e di vibrazione, esaltando il corpo fino alla barbarie più lussuosa e le passioni fino alla più sottile raffinatezza sentimentale. Quel flusso di impulsi emozionali, governato e modellato, quell’energia espressiva in cui sembrava di percepire il fremito della mano interiore della natura, furono per gli spettatori la prova tangibile che la recitazione avrebbe potuto sommuovere il fondo oscuro dell’anima. Quei momenti di pienezza emotiva, creaturale, generarono l’impressione di un’irruzione di realtà vitale, capace di squarciare il velo e l’ipocrisia della finzione. Un’impressione ben diversa da quella provocata dall’artefatto del corpo buffonesco che muoveva i suoi meccanismi corporei per comica necessità35. La presenza delle attrici fu la dimostrazione più certificabile di una potenza recitativa, nuova e insostituibile: «la donna è del teatro il tutto, poiché qual più languida cosa puossi vedere che tutta d’uomini recitar una commedia? Non vedi che ci levi il verisimile, anima e cuore di questo poema, ed ogni grazia, ed ogni affetto?»36. Gli spettatori testimoniarono, per via poetica, una indicibile incantazione, il loro incontrollabile trasporto emotivo (« mi disperaste in un volubil giro»)37 l’efficacia quasi psicagogica della recitazione, l’impotenza di ogni difesa razionale. La voce 33 Cfr. BENJAMIN, op. cit,, p. 59 Benjamin assume il concetto da H. CYSARZ, Deutsche Barockdichtung. Renaissance, Barocle, Rokako, Leipzig 1924 34 Cori scrive, da Vienna il s6 novembre 1628 a Maria Gonzaga, l’attrice Virginia Rotari (Lidia), «madre vedova e carica di sette figliuoli », mostrandosi preoccupata del futuro della figlia Leonora e temendo di doverla avviare «per gran necessità» al mestiere comico (Comici, cit., vol. I pp. 145-46, lett. 54). 35 Il Corago (trattato anonimo scritto tra il 1628 e il 1637), sottolineando il limite imposto dalla maschera agli attori nell’esprimere i sentimenti, scrive: «io non so come potessi rappresentare cosi bene gli afferri come si fa oggi da nostri comici i quali, mutandosi di volto, ora danno segno di allegrezza, ora di malinconia, ora di sdegno e simili. Se una donna si vedesse da noi comparire in scena con la maschera darebbe piti presto noia e fastidio » (Il Corago, o vero alcune osservazioni per metter bene in scena le composizioni drammatiche, a cura di P. FABBRI e A. POMPILIO, Firenze, Olschki, 1983, p. 105). 36 GB. ANDREINI, La Ferza. Ragionamento secondo contra l’accuse date alla Commedia, Parigi, Callemont, (1625), p. 44 (in MAROTTI-ROMEI, op. cit., p.510) 37 F. ELLIO, La Sirena del Mar Tirreno. Stanze in lode della Signora Virginia Ramponi, comica Fedele detta Florinda, in ID., Idilli di diversi ceneri, Milano, Bidelli, 1618 (parzialmente riportato da RASI, I comici, cit., vol. I pp. 149-51, da cui traggo la citaz. a p. 150). angelica di Florinda (Virginia Ramponi) - «questa dolce omicida ed innocente»38 — fu definita «di ragione incognito terrore».39 Di fronte alle attrici, come del resto di fronte al teatro tout court, era messa alla prova una ragione sensibile — ben diversa da quella cartesiana — che pretendeva affinità di sensi e di intelletto, di corpo e mente, e quindi disposta al piacere di percepire simultaneamente il corporeo e lo spirituale. Non a caso, l’accusa rivolta agli attori fu anche quella di constuprare Minervam., prostituere et foedari Parnassum — sintesi che sta pure ad indicare contro chi gli attori dovettero fortificarsi: contro i saggi, i letterati e i moralisti40. Le attrici si difesero come si difende Proteo, facendosi accreditare come corpi doppi: come Veneri terrene e insieme come Veneri celesti, timoniere di un platonico viaggio ad astra: perciò «divine», celesti sirene», «terrene angiolette », «attrici di Dio», 41 collocandosi così in quel punto della contraddizione tra sacro e profano da cui era possibile percepire come Eros ed Ethos esistano non separabili, ma necessariamente dipendenti e posti uno dall’altro. Le attrici incarnavano grandiosamente il Mondo, e furono quindi il nemico per eccellenza della Chiesa42. Ma queste donne — virtuose anche nel canto, nella danza, nella pratica poetica e accademica dell’improvvisazione, e spesso 38 Sonetto di A. SANTA MARIA, Alla Signora Florinda comica fedele, in ID., Concerto poetico, Napoli, s.i.t., 1620, p. 96 39 Sonetto dell’accademico filarmonico Il Preparato Ne gli afeitti di Florinda (Bibl. Naz. Braidense di Milano, Raccolta Morbio, codice n. I: Poesie di diversi in lode dei comici Gio. Battista Andreini, detto Lelio, e la moglie Virginia, nata Ramponi, detta Florinda, c.15 r.). La raccolta contiene 59 componimenti dedicati a Florinda, in gran parte di spettatori vicentini e appartenenti all’Accademia Filarmonica di Verona, probabilmente raccolti da Giovan Battista Andreini (a cui è dedicato solo il primo sonetto), dato che si rilevano sue annotazioni a margine, e anche ironiche, nei confronti dì autori troppo sdolcinati. In un sonetto di risposta agli autori-spettatori intitolato La celeste sirena a’ suoi Filarmonici, è Florinda stessa a mostrarsi meravigliata per come -«falsa sirena», «con il suo parlar dolce» e «un finto adorno viso» - abbia «spenti i pensier casti e santi» (c. 25r). 40 E l’accusa rivolta agli attori da Modestinus nelle Orationes di padre Louis Cellot (Ludovici Cellotii parisiensis S.J. Panegyrici et Orationes, Parisiis, apud Sébastien Cramoìsy, 1631). La citaz. è a p. 330 dell’ed. di Colonia del 1770. Su quest’opera di Cellot, vd. FUMAROLI, Eroi, cit., pp. 307-33 41 Queste definizioni, sempre ricorrenti, fino a diventare topoi nella poesia encomiastica e, probabilmente, nel linguaggio comune, hanno inizio con la strategia di mitizzazione delle attrici già nell’orazione funebre — primo grande manifesto apologetico della dignità e nobiltà del mestiere comico — che Adriano Valerini dedica all’amante e compagna di scena: A. Valerini, Oratione in morte della Divina Sinora Vincenza Armani, Comica Eccellentissima, Verona [1570]. Nel 1606, per il compianto della madre, Giovanni Battista Andreini torna a riproporre l’immagine platonica di Isabella splendente fra le sfere celesti, mentre la musica armoniosa riecheggia il suo canto (Il Pianto d’Apollo. Rime funebri in morte d’Isabella Andreini Comica Gelosa, ed Accademica Intenta, detta l’Accesa, di Gio. Batista Andreini suo figliuolo, con alcune Rime piacevoli sopra uno sfortunato poeta, dello stesso Autore, Milano, Bordoni e Locarni, 1606, p. 25). 42 Fra le tante proibizioni, occorre ricordare che anche in ambito educativo la sessualità di cui la donna è portatrice è considerata una minaccia, tanto che nella rappresentazione gesuitica la donna può solo essere « evocata mediante parole; può mostrarsi irriconoscibile sotto un travestimento maschile; può compatire in figura allegorica, cioè solo simbolicamente femminile, ma di fatto asessuata, non donna» (B. MAJORANA, La scena dell’eloquenza, in AA.VV., Storia, cit., pp. 1043-66, a p. 1059). Per l’organica trattazione del complesso problema pedagogico e comportamentale, anche ID., Finzioni, imitazioni, azioni: donne e teatro, in Donna, disciplina, creanza cristiana dal XV al VII secolo. Studi e testi a stampa, a cura di G. ZARRI, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1996, pp. 121-39. circondate da fama letteraria — costituirono il fenomeno più importante e più nobile del teatro italiano e, credo, un nodo di forte e vitale contraddizione nel sistema culturale barocco, se non altro perché la presenza reale del corpo in scena, nella sua immediatezza, sorpassò ogni estetica basata sul pensiero allegorico e ogni metafisica delle apparenze. La loro poesia performativa rese, inoltre, evidente l’inutilità scenica del vuoto formalismo letterario degli scrittori accademici, e, naturalmente, alimentò la drammaturgia degli attori; di quegli attori o uomini di teatro che si fecero letterati e che realizzarono ciò che per noi, oggi, è quasi un’eccezione: essere un letterato e, nello stesso tempo, un uomo chiuso nei limiti più stretti del mes6ere teatrale. Questi poeti di teatro — come dimostrano i casi eclatanti di Molière, Shakespeare o di Giovan Battista Andreini — che seppero rendere e restituire anche nella scrittura la qualità della parola viva, modificarono profondamente la rigida gerarchia fra poeti e attori, fra letteratura e teatro. Fu questo, l’altro grande fenomeno del teatro europeo — esito di un lavoro attoriale non meramente esecutivo ma creativo, il cui ingenium implicò anche quell’inventio che i comici dell’arte avevano per primi messo in atto con la loro drammaturgia d’attore, riunendo in una sola persona l’invenzione del poeta e l’azione dell’attore. È quello che, sull’esempio degli italiani, sarà e farà esattamente Molière e, in maniera non sostanzialmente dissimile, Shakespeare. Due pilastri del teatro europeo, la cui drammaturgia va ben al di là della vuota sofistica oratoria e letterata, per divenire — quasi paradossalmente — fondamento delle rispettive letterature nazionali. Presa nell’abbraccio del teatro materiale, la stessa letteratura si valorizza, prima prostituendosi e stravolgendo i propri modelli e poi arricchendo come mai la propria gamma espressiva, in virtù della polifonia teatrale e a contatto con la viva parola: come accadde clamorosamente alla lingua inglese con Shakespeare43. Anche la letteratura cerca cosi il teatro, e al teatro, forse, chiede soprattutto la sua diabolica incertezza, perché anche la parola, soggetta alle predeterminazioni poetiche ed ideologiche, possa rendersi sempre più indefinita, polivalente, e trovare un più ampio spazio di libertà. 4. Frutto della forte presenza sociale e culturale del teatro, mai pienamente legittimata, è anche il metateatro — questa pratica che, forse, fu introdotta dal Barocco per far sentire “finti” gli spettatori. Mai come in questa epoca, il teatro si guarda, si mette in discussione, si discolpa, si difende, cerca il suo valore. Significativamente, tra Italia e Francia è pubblicato, per tutto il secolo, almeno un centinaio di metadrammi44. 43 Vd. F. MARENCO, Shakespeare e dintorni:gli inizi del teatro moderno, in AA.VV, Storia, cit., pp. 277-72, a p. 360 44 Il metadramma, strutturalmente derivato, con molta probabilità, dalla tradizione del coro e del prologo, o del doppio prologo (quello, ad es., del Candelaioi, di Giordano Bruno) fa la sua apparizione in Inghilterra con la Spanish Tragedy di Thomas Kid del 1589, ma si sviluppa soprattutto in Italia e in Francia. Lo studio più completo sul metateatro secentesco francese elenca quaranta metadrammi di un certo valore: G. FORESTIER, Le théatre dans le théatre sur la scene francaise du XVII siecle, Genève, Librairie Droz, 1981, App. II pp. 351-54. Ma si veda anche L. D’ALLENBACH, Le Récit spéculaire. Essai sur la mise en abyme, Paris, Seuil, 1977; e L’Introduzione di L. MARANINI a La commedia in commedia. Testi del Seicento francese. Tre «pièces»: Baro, Gougenot, Scudéry (1629-1635), a cura della stessa, Roma, Bulzoni, 1974, pp. 11-15. Manca uno studio valido sul “teatro nel teatro” in Italia, dove il fenomeno si manifesta È una presa di coscienza del teatro che è segno, almeno sembrerebbe, della sua raggiunta maturità. Ma lo è anche della sua aspirazione a trascendersi nell’unico modo in cui gli era concesso trascendersi, e cioè attraverso un’inevitabile metafisica. Il metateatro, presentando uomini che sono attori e che poi, senza cessare d’essere attori, si fanno spettatori d’altri attori, sotto lo sguardo di un pubblico vero, proietta lo stesso smascheramento, interno alla doppia pièce, sul rapporto fra Uomini e Attori. Insomma, un’elevazione al quadrato del rapporto fra teatro e Teatro del Mondo. Se si escludono le prove più banali, che appartengono soprattutto al secondo Seicento, si nota che qui il teatro tende a proporsi come psicagogia della coscienza che passa dalla oscurità alla chiarezza, dalla dipendenza alla libertà, e che fa spettacolo di se stessa. E quello che accade nell’elogio più bello del teatro che è l’Illusion comique di Corneille, in cui il teatro è inteso come viaggio iniziatico per l’attore Clindor e per suo padre, che non solo guarisce dagli errori, ma conduce ad una saggezza superiore di cui detiene le chiavi il mago e demiurgo Alcandre, dietro cui si cela l’autore drammatico e il metteur en scène. Saggezza che coincide con la coscienza del Valore positivo dell’illusione (di cui sono vittime Pridamant, il figlio attore e lo spettatore), che viene conquistata gradualmente e guarisce dai pregiudizi sul teatro. Se qui l’apologia è più del drammaturgo, che sta guadagnando il primo posto nella classifica degli scrittori letterati, l’interesse dei metadrammi più prestigiosi cade sull’attore, sul problema sociologico e antropologico che l’uomo-attore rappresenta nella società barocca. E, non a caso, una serie di metadrammi — la più interessante — propone la vecchia storia di san Genesio, dell’attore pagano Genesio che, mentre finge per derisione il battesimo di fronte a Diocleziano, improvvisamente si converte alla nuova religione e finisce martirizzato. La vicenda, già sceneggiata nel Medioevo, è drammatizzata prima da Lope de Vega (Lo fingido verdadero, scritto fra il 1609 e il 1618), poi da Nicolas Desfontaines (L’Illustre comédien ou Le Martyre de Saint-Genest, Paris, Besongne, 1645, rappr. nel 1644) e da Jean Rotrou nel 1644 (Le Véritable saint Genest, Paris, Toussaint Quinet, 1647, rappr. nel 1645 o nel 1646); in Italia, fiaccamente, da Michele Stanchi (Il San Ginnesio, pubblicato postumo a Roma da Tizzoni nel 1687). Il dramma dell’attore santo e martire, la cui esperienza è esaltata come uno dei modi della “imitazione di Cristo”, che aveva spesso circolato nei collegi dei gesuiti, diventa paradossalmente un modo per difendere la professione di attore e la problematica condizione del teatro profano. Per Rotrou, Genesio è innanzitutto un grande attore. La recita è scelta, infatti, dalla figlia di Diocleziano non in funzione del soggetto, ma della potenza recitativa con cui Genesio è solito interpretare un cristiano condotto al martirio: «Mai on vante sourtout l’inimitable adresse / Dont tu feis d’un chretien le zele et l’allegresse, / Quand, le voyant marcher du bapteme au trepas, / Il semole que les feux soient des fleurs sous prima e con più forza (negli scenari della commedia dell’arte e nella commedia di G.B. ANDREINI, Le due comedie in comedia, Venezia, Imberti, 1623) e comprende un corpus di opere equivalente a quello francese, come mi risulta dall’analisi dei principali repertori bibliografici. Fra gli autori più interessanti, ricordo, oltre al più noto Bernini de L’impresario e de Li due Covielli (1637): Scipione Errico, Onofrio Onofri, Giacinto Andrea Cicognìnì, Giulio Rospigbosi, Giovanni Andrea Lorenzani, Domenico Mancini e l’attore Gennaro Sacchi (Coviello). tes pas»(I 5 293-96) 45. E, rispondendo, Genesio stesso si vanta di interpretare la morte di Adriano «avec un art extrème / et si peu différent de la vérité méme». Sia in Rotrou, sia in Desfontaines, quando l’attore, ormai illuminato dalla Grazia, comincia a parlare a suo proprio nome, nessuno, né Diocleziano, né gli spettatori, sarà più in grado di distinguere se Genesio recita o meno. I compagni saranno convinti che reciti « sur le champ», che improvvisi, crederanno alla sua « art extreme ». A Diocleziano che esalta il talento di Genesio, Valerie risponderà: « Pour tromper l’auditeur, abuser l’acteur méme, / de son métier, sans doute, est l’adresse suprème »46. Soltanto quando Genesio, ormai convertito, confessa a Diocleziano, ancora convinto che l’attore stia improvvisando: « Dieu m’apprend sur le champ ce que je vous recite», allora cessa di essere attore. È ormai divenuto attore di Dio: Il est temps de passer du théàtre aux autels; Si je l’ai merité, qu’ou me mène au martyre; Mon ròle est achévé, je n’ai plus rien à dire47. La portata metafisica è che in un mondo che è teatro sotto lo sguardo di Dio, la vita mondana non è che un ruolo da non confondere con la vita autentica, la quale non esiste che in Dio. Detto in altri termini, Dio non recita, non vuole avere a che fare con il teatro; nè si può essere insieme attori e santi, attori e uomini autentici. Insomma, quando il teatro tenta di trascendersi, di superare se stesso, automaticamente acquisisce un significato metafisico e cessa di essere teatro, come l’attore cessa di essere attore per divenire attore di Dio. L’estremo confine del teatro è questo e deve essere rimarcato48. Si ha però l’impressione che il metadiscorso in difesa dall’attore trattenga anche un sottotesto. Liberata dalla prospettiva metafisica, la recita santificatrice ci dice che è proprio in virtù della recitazione che in Genesio si è compiuto un salto di coscienza, che una coscienza imprevista si è fatta avanti e ha preso il posto di quella prevista. L’atto santificato di Genesio è l’atto estremo in cui l’attore, attraverso la finzione, ha bruciato l’ipocrisia della finzione, ha vissuto un’azione più reale del reale e un’esperienza di coscienza che avrà riflessi sulla sua vita spirituale. 45 Cito, qui e successivamente, da Théatre du XVII siède, textes choisis, établis, présentés et annotés par J. SCHERER, Paris, Gallimard, 1975, p. 953 46 IV 5 1263-64 (p. 987). 47 IV 7 1316, 1369-72 (pp. 989, 991). I versi di Rotrou fanno eco a quelli della dichiarazione di Genesio a Diocleziano ne L’illustre comédien (III 2) di Desfontaines 48 Si veda anche l’efficace analisi di F. TAVIANI, Né profano né sacro: prospettive teatrali, in Luoghi sacri e spazi della santità, a cura di S. BOESCH GAJANO e L. SCARAFFIA, Torino, Rosenberg & Sellier, 1990, pp. 219-39. Per Taviani il mito di san Genesio, tramite l’esempio di un attore che scopre il profondo valore del teatro, ma proprio per questo abbandona il teatro, rivela indirettamente la condizione di extraterritorialità, di « atopia » del teatro: il suo essere da « profano » nel territorio del sacro e da « sacro » nel territorio del profano fino ad affermare l’ultima libertà di essere « né profano né sacro». Per Majorana il mito non esprime l’inconciliabilità ma, al contrario, la convergenza di valori tanto professionali quanto spirituali: B. MAJORANA, Lo pseudo-Segneri e il Teatro celeste: due trarre secentesche, in «Teatro e Storia», IX 1994, n. 16 pp. 357-88, alle pp. 379-88. La recitazione è dunque un processo di trasformazione interiore, ha il valore d’una pratica intellettuale e spirituale. Un valore riconosciuto dalla cultura cattolica, ma forse ritenuto pericolosamente alternativo a più nobili modi di governo del corpo e della mente e quindi scavalcato con un salto metafisico. Come se solo l’ascensione al Cielo potesse liberare l’attore da quella falsa coscienza che la recitazione non può non indurre. L’elogio dell’attore esige un inevitabile appello alla metafisica che spinge a guardare più in là, sempre più in là dell’attore concreto. Fatto santo, l’attore si proietta troppo oltre per poter esser riconosciuto come attore. Ed è tolto alla sua consistenza e alla sua realtà. 5. Il metateatro, tuttavia, per la sua natura di congegno scenico, rese fin troppo congegnata, scoperta e frontale, l’apologia dell’attore e del teatro. I valori del teatro trovarono, allora, un altro modo molto più sottile per esprimersi. Si consustanziarono ai drammi. Laddove la scrittura è alta, e non nei fallimenti, se facciamo attenzione a quella zona oscura che si proietta fino a noi, in cui si preserva ciò che di più inquieto costituisce l’opera stessa, allora ci è dato spesso di ritrovare la presenza del teatro o dell’attore; di quell’attore che rimane la figura antropologica più problematica del secolo, come sapeva Shakespeare che la elesse a immagine di quell’ombra indecifrabile che è l’uomo: « La vita non è che un’ombra che cammina, un povero attore / che si esibisce e si agita per il tempo che gli è dato / e poi scompare, a tutti ignoto […]» (Macbeth, V 5 24-26). Ho l’impressione che tutto il grande teatro del Seicento mostri i segni di un più sottile teatro nel teatro, o, per meglio dire, teatro del teatro: formule — inadeguate — con cui intendo non tanto e non solo la riflessività del teatro su se stesso o un procedimento di mise en abyme, quanto piuttosto il modo in cui il teatro difende i propri valori sottendendo o mostrando nell’opera la propria operatività. Proprio questa forma scenica che esalta se stessa è spesso la cifra che distingue le opere piatte dai capolavori ed esige di essere rilevata dall’analisi testuale, molto più della funzione mimetico-interpretativa. Si potrebbe osservare facilmente, come è stato fatto, quale manifesto allegorico del teatro vi sia in certe opere di Corneille (Médée, Britannicus) o con quale delicata maniera Racine allegorizzi la Tragedia nel personaggio di Phèdre. O, ancora, si potrebbe citare il Tartuffe quale dramma dell’hypocrités; e, ovviamente, l’Amleto, una vecchia, tradizionale tragedia di vendetta sconvolta dall’immissione di teatro e di pazzia “finta” (cioè equivalente al teatro), con un protagonista che difende gli attori, i soli che gli procurino gioia, e che trova la sua verità nel definirsi attraverso un corpo d’attore, doppio e burlesco. Gli esempi potrebbero continuare. Specie se ci si abitua allo sguardo anamorfico e allegorico della mentalità barocca, è possibile evocare non pochi di questi fantasmi teatrali. Ma, a prova significativa, vorrei portare il Don Giovanni, mitica invenzione scenica del secolo, nonché sintesi antropologica dei temi più sacri e scottanti del Barocco. Don Giovanni, quest’eroe che sta di casa solo nei teatri, credo che possa sopportare fra le tante interpretazioni anche quella di essere considerato una delle espressioni più emblematiche dell’attore. Basterà qualche cenno. Non solo Don Giovanni è il caso, unico, di un personaggio che mostra apertamente la sua abilità performativa, pur finalizzandola alla seduzione, sensuale o intellettuale. Ma il dramma stesso sembra essere congegnato per attivare la recita delle simulazioni, per misurare la disponibilità della realtà a lasciarsi contaminare dalla finzione. Tutti sembrano costretti a recitare una parte, ad esporre il loro modo di rappresentarsi. In un’opera che è il teatro dei teatri, tutti recitano le retoriche del teatro: le donne il loro melodramma, i servi la loro commedia, il Cielo la sua tragedia. Tutti recitano, compresi gli dèi tramite il loro intermediario marmorizzato, servendo il ruolo che è stato loro assegnato. Ma tutti recitano in vista di un risultato: un matrimonio, un salario, la redenzione dal peccato. Come attori si muovono entro un percorso previsto e prevedibile e danno l’impressione di figure seriali e un po’ false, perché la recitazione, che conosce il risultato, soffoca la libertà dell’attore. Di fronte a tanti cattivi attori, Don Giovanni appare un vero attore, un attore efficace, quasi un’idealità d’attore. Intanto mostra di recitare. Ostenta tutti i trucchi della recitazione convenzionale (travestimento, virtuosismo verbale, doppiezza di comportamento, ecc.), tentando di far dimenticare che sta recitando, come se tutti conoscessero il suo essere falso e ingannatore. Sa utilizzare ricette sperimentate per entrare con arte nell’animo degli altri e uscirne in immagine. Sa variare stili e modi recitativi in relazione alle aspettative, generando sospetti o credulità e incontrando fallimenti, come accade con la statua e, in Molière, con il Povero. Il gioco è cosi raffinato e pericoloso che lo stesso servo esita, quando Don Giovanni gh propone lo scambio dei vestiti, a entrare nel cerchio della recitazione in cni si dibatte il padrone: «O Ciel — dirà Sganarello —, [.. .j fais-moi la gràce de n’ètre point pris pour un autre» (II 5 )49. Don Giovanni — ha scritto Macchia — è una delle espressioni più autentiche dell’ attore « et comme tous le plus grands acteurs, il pervient à semer la confusion»50. Per Francisco Rico «diabolica, in ogni caso, è la sapienza teatrale del Beffatore »51. E solo recitando, riducendo tutto a teatro, che Don Giovanni può agire sulle connessioni fra vita e teatro, tra verità e menzogna, sfruttarne le ambiguità, permettersi il gioco di rendere vera la finzione e falsa la realtà. Fingendo, assumendo come propri i valori (dei devoti e degli innamorati, dei poveri e dei nobili) può misurarne il grado di falsità; può modificare il rapporto coatto tra dire e fare, fra la promessa e il mantenimento. Non è difficile constatare come, in ogni azione, riesca ad attirare l’attenzione sulla recitazione. Costringe a vedere tutto sub specie theatri, ma sempre mostrando di non appartenere troppo alla finzione, perché se tutto è artificio tutto è falso52. Ma se Don Giovanni è grande attore, lo è soprattutto in virtù dell’improvvisazione che, forse, è l’ideale recitativo del secolo ed è l’aspetto che in fondo più seduce i suoi interlocutori e più ha sedotto gli spettatori, Kirkegaard compreso. È improvvisatore non perché si muove a caso; ma perché è fedele, 49 MOLIÉRE, Don Giovanni, a cura di D. GABELLI, trad. della stessa e di D. Fo, con testo a fronte, Venezia, Marsilio, 1997, p. 114 50 G. MACCHIA, Dan Juan. Metamorphose et immobilitè in « Théatre en Europe», 16 1988, p. 5. 51 F. Rico, Biblioteca spagnola. Dal Cantare del Cid al Beffatore di Siviglia, Torino, Einaudi, 1994, p. 252 52 Come ha scritto, in pagine stimolanti, Cesare Garboli, riferendosi al personaggio di Molière, la recitazione di Dom Juan è «quantistica»: recita a tratti, per intermittenze, entra ed esce dalla finzione, mentre gli altri recitano servi1- mente e meccanicamente la parte loro assegnata dalle istituzioni (C. GARBOLI, Come recita Don Giovanni, in AA.VV., Scritti, cit., vol. II pp. 284-308). come ogni grande attore, a una partitura (quella che gli consente l’azione di seduzione, a cui sempre ritorna), ma vivo dentro la partitura e sensibile al mutamento. Seguendo la partitura può essere preciso, improvvisando non rischia di cadere nella ripetizione meccanica, che è ciò che Don Giovanni si rifiuterà sempre di fare, dato che «[...] tout le plaisir de l’amour est dans le changement»53. Precisione e capacità di reagire al mutamento sono le sue caratteristiche. Come quell’attore ideale che è santo Genesio, Don Giovanni non gode di una coscienza preventiva e perciò sa unire volontà, pensiero e azione. Quando è attore convenzionale, la sua recitazione è scoperta e odora di inganno o di burla, ma quando si fa veicolo di un impulso, le azioni fisiche e i movimenti del suo organismo affettivo e mentale si corrispondono con simultanea immediatezza. Espone così, come l’attore santo, una coscienza vissuta nel farsi stesso dell’azione, non infagottata in una falsa coscienza. Che poi, in fondo, è l’esaltazione di una libertà che permette all’attore di denunciare negli altri la contraddizione fra essere e dover essere. Se Don Giovanni esprime le forze dell’animo in quanto forze, gli altri le esprimono in quanto figure: sono costretti ad avere un’espressione. Se la recitazione convenzionale degli altri è una naturalità fissata e cristallizzata nella coerenza di un modello di comportamento, la recitazione di Don Giovanni, il suo modo di essere, è assimilabile alla connotazione apparentemente spontanea e inesauribile della libertà. È il paradigma irraggiungibile, ma perciò trainante, di un’idea regolativa della libertà dietro cui ammicca misteriosamente l’attore. Perciò le donne si innamorano e chi dovrebbe odiarlo ne è affascinato. Basta così la presenza di Don Giovanni perché gli altri personaggi risultino moli posticci e il loro teatro finzione intollerabile. Se il teatro di Don Giovanni è il regno del possibile, quello degli altri è il regno del già pensato. E l’attore può sfidare gli altri a vivere una vita piena, non determinata da una falsa parodia di coscienza o dalla presenza di una Coscienza soddisfatta e solidificata di una statua interiore. In Don Giovanni c’è una mente teatrale che è la sua arte del pensiero contraddittorio, la sua doppia coscienza, il suo doppio sguardo che gli consente dì gestire l’interfaccia fra realtà e immaginario, fra vero e falso, fra sacro e profano. Il Don Giovanni fu un esempio dell’estrema avventura del teatro. Un modello riuscito della forza maieutica del teatro. Fu una sorta di prova di come il teatro avrebbe potuto esercitare il suo potere. Per questo fu tanto amato dagli uomini di teatro che, a cominciare dai comici dell’arte fino a Molière, lo rielaborarono, ne fecero un cavallo di battaglia, ne temperarono la lama a doppio taglio e, infine, ne accreditarono il mito. Questo eroe antieroe fu particolarmente amato anche dal più grande drammaturgo italiano, dal comico dell’arte Giovan Battista Andreini, figlio di Isabella e Francesco, capocomico dei Fedeli, attore e scrittore54. Il quale 53 MOLIERE, op. cit., I 2, p. 68. Per una analisi della vicenda artistica e della variegata drammaturgia di Andreini rimando agli studi di Siro Ferrone: Commedie dell’arte, a cura di S. FERRONE, Milano, Mursia, 1985-1986, vol. I pp. 36-40 e vol. II pp. 11-16, e soprattutto ID., Attori, cit., cap. v (Arlecchino rapito, pp. 191222), cap. VI (Lelio bandito e santo, pp. 223-73) e passim. Vd. inoltre, per l’accurata analisi dei 54 compose nel 1651, quattordici anni prima di Molière, un Convitato di Pietra sterminato e iperbarocco, di 7665 versi in 5 atti e 52 scene, di cui esistono due versioni manoscritte55. È significativamente l’ultima opera composta dall’attore-drammaturgo e quindi il testamento di chi, come nessun altro, aveva speso la vita scrivendo e operando in difesa del valore del teatro e del mestiere d’attore. È un Convitato che dilata a dismisura il modello tradizionale e presenta molte novità, a cominciare dai personaggi fra i quali troviamo, assente nella tradizione, la madre di Don Giovanni, Lisidora, e figure allegoriche e mitologiche. È strutturato come una pièce a grand spectacle — di quelle che stavano conquistando, grazie anche all’apporto di Torelli, la Parigi di Mazzarino frequentata da Andreini — con musica e canto, effetti macchinistici e ben dodici cambiamenti di scena, fra cui regge, marine, due straordinari inferni e i Campi Elisi. E con un Don Giovanni ateo fin dal primo vagito, “falsatore”, stupratore e assassino di donne, di cui Andreini accentua la dimensione mitica, mostrandolo nel lungo prologo arruolato dai Titani, novello Icaro o Fetonte, per una nuova scalata al Cielo. Scalata che si concluderà, fra le fiamme infernali, in una memorabile ultima scena in cui la madre e il figlio scapestrato si rinfacceranno le reciproche colpe. Come tutti i Don Giovanni, il dramma vive di contrasti e contrappunti, alternando scene di comicità e di tragedia, di mezzogiorno e di mezzanotte, di verginità e peccato, di carne giovane e cadaverica, di bado e di pugnale, di delitto e di preghiera. La stoffa di cui è fatto è la contraddizione; ma è da notare — fra le altre novità su cui non possiamo soffermarci — che qui la dialettica dei contrari investe decisamente la concezione dell’amore. Diversamente da altre versioni precedenti, qui eros è continuazione, sotto altre forme, della violenza. Dell’amore si evidenzia la radice bellica, la compresenza inscindibile di amore e odio, la costitutiva e insopprimibile ambivalenza con cui esso gioca nella vita dell’uomo: veicolo di redenzione ed elevazione, ma anche di degradazione e infine di perdizione. Questo Don Giovanni non è solo l’amante-ape, ossessiva metafora degli amori pastorali, ma anche un’ape-vampiro: «ape sitibonda io sono che godo a bever sangue de i fiori» (IV 9). L’amplesso è lotta: la donna, narra Don Giovanni ad testi, M. REBAUDENGO, Giovan Battista Andreini tra poetica e drammaturgia, Torino, Rosenberg & Sellier, 1994; ID., Letture alfileriane per un «mostruoso spettacolo» Tasso, GB. Andreini, Milton e l’Abele’, in «Giornale Storico della Letteratura Italiana», CXIII 1996, vol. CLXXIII fasc. 561 (1° trimestre), pp. 78-110, alle pp. 85-96. Determinante per l’acquisizione di nuove fonti è stata la pubblicazione dell’epistolario andreiniano curata da A. ZINANNI e C. BURATTELLI in Comici, cit., vol. I pp. 63-172 e vol. II pp. 13-31. Indicazioni e notizie sono anche in S. MAZZONI, Genealogia e vicende della famiglia Andreini, in Origini della Commedia Improvvisa e dell’arte. Atti del XIX Convegno internazionale promosso dal Centro Studi sul Teatro Medioevale e Rinascimentale (Roma, 12-14 ott. 1995-Anagni, 15 ott. 1995), a cura di M. CHIABO’ e F. DOGLIO, Roma, Torre d’Orfeo, 1996, pp. 107-52, alle pp. 126-36 e passim. 55 Si tratta di due mss. autografi e firmati, pronti per l’edizione. Il primo, conservato a Roma, nell’archivio privato Cardelli (segn. XXXXVII, T. VII) si intitolai Il Concitato di pietra ed è dedicato a « Monsignor Pio di Savoia, Chierico di Camera» (Carlo Pio di Savoia) con la data 20 sett. 1651. Il secondo, alla Bibl. Naz. di Firenze (coll. Magliab. VII 16) si intitola Il nuovo risarcito Convitato di Pietra ed è dedicato, in data 17 dic. 1651, al Granduca di Toscana Leopoldo. Un’edizione critica, curata da me e da Silvia Carandini, è in corso di stampa presso l’editore romano Bulzoni. Le citazioni che seguono sono tratte dal ms. fiorentino Ottavio, «ti si avvinchia d’intorno come l’angue / A la cicogna collo, e cosce cinge, / [...] / Qui nel sen serpe vaga, e candidetta, / Strisciandoti stizzosa. / Sudandoti gelata, / Vibra lingua di foco, / E ‘n morsi aventa baci »56. Non si celebrano armonie. Rifiutandosi di introiettare l’immagine della donna, che sente persecutoria, Don Giovanni porta violenza nell’amore e l’amore offeso delle donne diventa amore della violenza o lotta interiore nella donna tra la sua parte femminile e la sua parte virile. Dirà Anna: « Oh sesso femminile, oh sesso involto / Tra’ ceppi, e tra’ ritorte / Di mulièbri invogli; Ah, potess’io / Quelli squarciar, com’io mi squarcio il petto» (III 2). E un’altra guerra tra sessi e del sesso femminile con se stesso, con esiti scandalosamente omosessuali, Andreini l’aveva rappresentata in Arnor nello specchio, pubblicato a Parigi nel 1622, quando era entrato in contatto con i libertini57. 57. Don Giovanni è, insomma, chiamato a rivelare la segreta convergenza dei contrari, di Eros ed Ethos, di Bene e Male che rende l’uomo ancipite. Il male è l’uomo a farlo, eppure è il male che lo seduce, lo domina, se ne fa beffe, schernisce la sua presunta innocenza, lo schianta. Il male essenzialmente non ci appartiene ed essenzialmente ci appartiene. Allora, non meraviglia che il dramma abbia una morale e una contromorale espressa da Lisidora (IV 2) che suona così: il troppo amore, come quello di una madre per un figlio, può generare un mostro, il troppo bene l’estremo male. Anche da questi pochi cenni, si può notare come il dramma trovasse la propria forza in un giuoco d’irrisolte sospensioni, nell’alimentare la vita dei contrari. Ma questa forza — ed è ciò che, qui, più ci interessa sottolineare — è una forza tenuta viva dal teatro, da una mente teatrale che si riflette nel pensiero e nel comportamento del protagonista: nel suo doppio sguardo d’attore, nella sua vocazione a tenersi a distanza da ogni soluzione unilaterale. Se lo statuto del personaggio è la contraddizione non è per suggestioni neoplatoniche, ma perché esso risponde a una poetica alimentata dalla condizione sociale e culturale dei comici professionisti, collocati in una zona franca della cultura da cui era possibile esercitare la molteplicità dei punti di vista e la libertà della 56 Questa descrizione dell’amplesso, in III 5, collocata nel momento in cui Don Giovanni incontra di nuovo Ottavio per restituirgli il mantello e il cappello con cui si è travestito per sedurre Anna, è del tutto originale rispetto alla precedente tradizione. 57 La frequentazione dell’ambiente libertino da parte di Andreini è testimoniata dai versi dedicatigli nella Centaura. Suggetto diviso in commedia, pastorale e tragedia (Parigi, Della Vigna, 1622) da Théophile de Viau e da Saint-Amant, i maggiori esponenti del libertinisnio erudito, e da Scipion de Grammont. Componimenti che, insieme a quelli di Jacques de Fonteny e di E Du Prè, prudentemente scompariranno nell’edizione veneziana del 1633. Théophile è accusato, proprio nel 1622, di essere l’autore del Parnasse satyrique e nel 1623 condannato in contumacia e bruciato in effigie. Un’analisi di Amor nello specchio (Parigi, Della Vigna, 1622) è nel saggio di S. MAIRA, introduttivo all’ed. moderna dell’opera, curata dallo studioso e da A.M. BORRACCI (G.B. ANDREIN1, Amor nello specchio, Roma, Bulzoni, pp. 9-34 Ma vd. anche M. REBAUDENGO, « Grandissima forza ha ‘1 piccolo fanciullo Amore»: l’eterodossia erotica in ‘Amor nello specchio’ di Giovan Battista Andreini, in « Sodoma », VI 1993, pp. 57-74; e il più recente N. BUOMMINO, Lo specchio nel teatro di Giovan Battista Andreini, in « Atti dell’Accademia Nazionale dei Lincei», CCCXCVI 1999, «Memorie», s. IX, vol. XII, in partic. pp. 7-34. - contraddizione58. Il teatro, quello professionale, nomade e sempre fuori luogo, proprio per la sua anomala collocazione nella cultura, per la sua sofferta e lussuosa libertà di appartenere e al contempo disappartenere al consorzio civile, per essere aristocrazia dello spirito e povertà materiale e morale, per essere finzione nella realtà e realtà nel sistema di finzione della società, per essere capace di offrire la presunta oggettività come soggettiva e la presunta illusione come oggettiva — almeno per tutto questo, era nella privilegiata condizione di potersi piantare nel luogo della contraddizione da cui governare le oscillazioni della verità senza accettare passivamente soluzioni predefinite. E per questo che il Don Giovanni — facilmente usabile per l’illustrazione di problemi morali, come lo è un manichino per lo studio dell’anatomia — venne tenuto in vita dagli attori. Non è proprio grazie ai comici dell’arte, ad Andreini e all’attore Molière — attore che più di tutti avverti l’anomala della propria condizione — che la storia di un burlador, rigenerata da una mente attorica, diventa un capolavoro in grado di rappresentare compiutamente l’età barocca non come fattore di sintesi, ma come persistente segno di contraddizione? E interessante notare che Andreini fu ossessionato da un altro personaggio, da Santa Maria Maddalena, tanto da dedicarle una particolare devozione, nonché alcuni componimenti poetici e una sacra rappresentazione nel 1617, poi rielaborata col titolo Maddalena lasciva e penitente nel 1652, proprio a ridosso della composizione del Convitato59. Il dramma, denso di una particolare sensualità che manca alle altre numerosissime sante Maddalene barocche, delinea il personaggio come un alter 58 Cfr. al riguardo la dichiarazione di poetica, basata sulla dinamica degli opposti, di Andreini nell’avvertenza ai lettori de Lo Centaura. 59 ‘La Maddalena lasciva e penitente’, azzione drammatica, e divota in Milano rappresentato, Milano, Malatesta, [1652]. L’attenzione a questo soggetto è ricorrente in Andreini: dal poema in tre canti e in ottave del 1610 (La Maddalena, Venezia, Somasco) a ‘La Maddalena’, sacra rappresentazione (Mantova, Osanna, 1617) a Le Lagrime « divoto componimento » (Paris, Charles, 1643). Sulle due stesure teatrali comparate al poema, vd. S. FABRIZIO-COSTA, Les pleures et la gràce: ‘La Maddalena’ de Giovan Battista Andreini, in Théatre en Toscane. La comédie (XVI’; XVII’ et XVIII’ siècle), Saint-Denis, Presses Univ. de Vincennes, 1991, pp. 11356; ID., Notes sur une mise en spectacle de la sainteté par un « Comico dell’Arte»: GB. Andreini e ‘La Maddalena lasciva e penitente’ (1652), in « Chroniques Italiennes », IV 1988, nn. 1-2 (1314) pp. 71-86. Sul processo di rielaborazione delle tre versioni vd. REBAUDENGO, Giovan, cit., pp. 88-93. Sulla Maddalena del 1652, nel contesto della drammaturgia sacra, cfr. A. CASCETTA, L’«Azione [.. ] divota » e l’anfibologia dell’Arte, La «spiritual tragedia » e l’«azione devota». Gli ambienti e le forme, in La scena della gloria. Drammaturgia e spettacolo a Milano in età spagnola, a cura di A. CASCETTA e R CARPANI, Milano, Vita e Pensiero, 1995, pp. 184-98. Una puntuale analisi dei “retorèmi” dell’opera condotta da M. SARNELLI, « Col discreto pennel d’alta eloquenza». «Meraviglioso » e Classico nella tragedia (e tragicommedia) italiana del CinqueSeicento, Roma, Aracne, 1999, pp. 45-60. Si veda, inoltre, la raffinata indagine iconografica di FERRONE, Attori, cit., pp. 245-47, che mette in luce le somiglianze delle immagini, che accompagnano le edizioni del poema e della sacra rappresentazione, con la celebre Malinconia (quadro del 1618 circa) di Domenico Petti, amico di Andreini. Alla scena terza del quarto atto (testo del 1652) sembrerebbe ispirarsi, secondo O. Milantoni, il quadro di Guido Cagnacci La conversione di Maria Maddalena. Cfr. Guido Cagnacci, a cura di D. BENATI e M. B0NA CASTELLOTTI, Milano, Electa, 1993 (Catalogo della mostra, Roma, dic. 1993-gen. 1994), pp. 166-68. ego di Don Giovanni. Numerosi sono i parallelismi fra i due drammi e continuo, quasi strutturale, il contrappunto fra la penitente e l’impenitente libertino, il quale fallisce perché, al contrario di Maddalena, rifiuta di conoscere il punto in cui Male e Bene, Eros ed Ethos, di per sé contrarissimi, convergono e si nutrono uno dell’altro. L’itinerario dei due drammi è opposto, ma ambedue traggono vita scenica dalla volontà dì esaltare la virtuosa amoralità del teatro. Caratterizzati dall’essere drammi del corpo, dimostravano quello che solo a teatro, arte delle azioni e dei corpi, era dimostra- bile: che Ethos può essere posto come cosa viva solo se scende in quel luogo, che davvero appartiene all’uomo e a cui l’uomo appartiene, che è il suo corpo. Dunque peformances del corpo per eccellenza, teatri d’attore. E, inoltre, evidente quanto la storia della santa potesse rendersi equivalente, nell’ambigua coniunctio di sacro e profano, alla vicenda artistica dell’attrice e farsi esempio emblematico di una trasformazione interiore che anche il teatro, nonostante tutto, avrebbe potuto assicurare. Maddalena mostrava in trasparenza, sotto l’immagine della donna lasciva e «pentita di vagabonda vita» (v 2), il volto santificabile della donna attrice. A cui peraltro si allude chiaramente quando la si definisce — e Andreini non è il solo — « recitante » di cui è « spettator l’Angelo e Dio » (v 9) 60. E s’intravede anche l’immagine che Giovan Battista aveva pazientemente composto della madre Isabella, che sarà accolta, insieme con altri santi attori, nel Teatro celeste: una raccolta di 21 sonetti che Andreini dedica ad attori penitenti o votati alla santità, la cui figura centrale è ancora san Genesio61. 6. Al termine di questo breve percorso, nel quale abbiamo indicato solo alcuni punti di analisi che certo non esauriscono la complessità del problema, emergono un paradosso e un ulteriore interrogativo. Il paradosso è che mentre il Barocco si pensa e si osserva sub specie theatri, il teatro in quanto professione e microsocietà (con ampi margini di antonomia economica che garantiscono autonomia e differenza sociale) stenta ad essere riconosciuto nel sistema culturale e sociale, almeno fino a quando non guadagnerà uno spazio di libertà pubblico, laico, legittimato e garantito (in Francia lo è dal re, nel 1641), istituzionale. L’interrogativo è perché i capolavori della drammaturgia barocca sono autoreferenziali, perché direttamente o indirettamente, velatamente o 60 Le due citaz. sono tratte da La Maddalena, cit., pp. 181, 219. L’intensa e particolare fascinazione procurata dall’interpretazione della Maddalena da parte di un’attrice professionista si avverte nel sonetto, di Pietro Michiele, A un’attrice che rappresenta la peccatrice convertita, in B. CROCE, Lirici marinisti, Bari, Laterza, 1910, p. 309. 61 G.B. ANDREINI, Teatro celeste. Nel quale si rappresenta come la divina bontà habbia chiamato al grado di Beatitudine, e di Santità Comici Penitenti, e Martiri [...], Paris, Callemont, [1625]. Il testo, non datato, fu divulgato in appendice a Lo Specchio pubblicato nel 1625. Alla Bibl. Naz. di Parigi ne esistono due esemplari, uno autonomo con frontespizio identico a quello dell’ed. sopra citata e uno, inserito nel volume Lo Specchio, del 1625, col titolo Comici Martiri, e Penitenti che però — come si deduce dal frontespizio (accompagnato anche da un altro frontespizio simile col titolo Teatro celeste) — risulta edito da Callemont nel 1624. L’ed, originaria del 1624 è simile nel contenuto e nella veste tipografica a quella del 1625, la quale presenta un frontespizio riadattato per inserirvi la dedica a Richelieu (mentre nella precedente ed. al cardinale è dedicato un sonetto). apertamente, “esprimono teatro”; perché, attraverso una forma scenica che esalta se stessa, l’opera esprime la propria operatività. Si potrebbe sostenere che non ci sia mai vero teatro senza teatralità o coscienza della teatralità. Ma l’affermazione rischia fortemente la tautologia. Più semplicemente, è che il teatro di professione cerca di affermarsi e difendersi e comunica questa tensione attraverso il dramma. La grande drammaturgia barocca (in cui è compresa, ovviamente, la commedia dell’arte) è, infatti, una drammaturgia fatta da attori o da uomini di teatro. I quali non solo hanno lottato per accreditare la loro professione, ma hanno interpretato e scritto drammi anche per sperimentare il potere e il valore stesso del teatro. Questa drammaturgia fu, per così dire, una sorta di prova ontologica del teatro: fu un modo di saggiare la resistenza della realtà alla finzione; ma soprattutto un modo di saggiare la resistenza della società e della cultura al teatro. E fu la risposta astutissima (la risposta di Proteo che si rende invulnerabile non fuggendo ma rendendosi visibile-invisibile) e concreta a chi non riconosceva alcun diritto al teatro; oppure a chi, pur riconoscendo il valore del teatro, tendeva a transvalutarlo in metafisica, facendone il tempo e il luogo di un’esperienza eccezionale, del tutto casuale (la recitazione eccezionale di Genesio assicurata dalla Grazia divina), e non quell’esperienza costante che soltanto adeguate condizioni economiche e politiche avrebbero potuto assicurare. In tempi in cui il diritto stesso all’esistenza del teatro non era riconosciuto, la grande drammaturgia degli uomini di teatro dominò proprio quello scarto che nel Barocco si era prodotto tra la concezione metafisica del teatro e la concretezza di un mestiere anomalo come quello d’attore. Uno scarto che ha segnato la storia occidentale del teatro ed ha generato molti dei suoi paradossi.