Ostia Antica religiosa Introduzione Il percorso che si propone in questa visita all’interno del Polo archeologico di Ostia Antica ha un carattere ben definito. Avendo Ostia rappresentato durante i secoli del suo massimo sviluppo e splendore una cittadina ricca, cosmopolita e culturalmente aggiornata, il sito permette di immergersi nel passato più antico per ripercorrere, in un ideale viaggio, i numerosissimi culti che animavano la prima colonia di Roma. Le tappe di questo viaggio saranno rappresentate dalle più interessanti manifestazioni artistiche ed architettoniche che ancora oggi preservano il ricordo di antichissimi culti orientali, giunti a Roma per mezzo dei soldati di ritorno dalle campagne militari nel lontano Oriente, propagano l’eco di un cristianesimo nascente e sempre più praticato nel cuore dell’impero romano, svelano i segreti della religione ufficiale e del suo enorme potere politico. Attraverso templi, mitrei, sacelli e sepolture si potrà indagare la società ostiense ed i più diversi e caratteristici costumi religiosi romani. Breve storia di Ostia Antica Per poter affrontare questo viaggio è però necessario aver chiaro, seppure per cenni sintetici, quale è stata la lunga storia dell’antica Ostia. Numerose fonti letterarie, tra cui la più importante è l’autore latino Livio, tramandano la notizia della fondazione di Ostia da parte del quarto re di Roma Anco Marcio, uno dei monarchi più importanti per la storia della Roma arcaica in quanto primo fra tutti ad ampliare i confini della città (questa si estendeva originariamente soltanto lungo la riva sinistra del fiume Tevere). Al re si deve infatti la conquista della riva destra del fiume, tradizionalmente sotto la giurisdizione etrusca tanto da essere denominata ripa veientana (la riva di Veio, una delle più importanti città etrusche nel territorio laziale), attraverso avamposti militari realizzati all’altezza del Ponte Sublicio, che egli stesso aveva fatto costruire. Questo fattore, apparentemente slegato dalla storia di Ostia, ha profondamente a che vedere con la nascita della colonia poiché fu proprio Anco Marcio ad assoggettare le popolazioni che avevano precedentemente stabilito insediamenti in prossimità della foce del fiume. In tal modo questi popoli potevano controllare le preziosissime saline naturali (il sale serviva non solo alla conservazione dei cibi ma anche alla concia delle pelli e alle operazioni di metallurgia), tra i quali il più rilevante era stato il centro di Ficana presso il Monte Cugno (odierna zona dei Monti di san Paolo).Tuttavia prove archeologiche dell’esistenza di una Ostia di età regia nel sito dove si sviluppò effettivamente la città commerciale che oggi visitiamo non esistono: ciò significa che, allo stato attuale, non sono ancora state ritrovate testimonianze risalenti al VII secolo a.C. sotto le emergenze architettoniche posteriori, prevalentemente di età imperiale. I resti più antichi riportati alla luce risalgono infatti al IV secolo a.C., ovvero all’età repubblicana. Nel corso del tempo il dibattito sulle origini di Ostia si è fatto sempre più acceso e solo negli ultimi decenni ha guadagnato autorevolezza l’ipotesi che il sito dell’Ostia regia fondata da Anco Marcio non sia quello che comunemente viene riconosciuto come tale e dove oggi si trovano i resti della città imperiale. I primi ad avanzare tali ipotesi furono Lorenzo Barbieri (agronomo di professione e archeologo amatoriale) e Giorgio Pascolini (maestro disegnatore della Sovrintendenza di Ostia Antica) che negli anni ’50 effettuarono una serie di ricerche sul territorio dell’odierno X Municipio, protrattesi nel tempo, che permisero ai due studiosi di formulare un’avvincente tesi, supportata da rilievi topografici, archeologici e da studi geologici: secondo la tesi di Barbieri e Pascolini l’Ostia regia fondata dal re romano si trovava presso la sponda meridionale dello stagno di Ostia, laguna alimentata da un braccio del Tevere e collegata direttamente al mare da un canale naturale, nella zona ora corrispondente alla Via di Castel Fusano, quartiere Longarina-Stagni. Lo stagno di Ostia, bonificato in via definitiva grazie all’intervento dei ravennati nel 1884, costituiva in effetti un approdo portuale ben più sicuro ed agevole di quello che si riteneva esser stato costruito alla foce del Tevere, con le sue correnti tumultuose e il perenne problema dell’insabbiamento e dei detriti trasportati dal fiume. I ritrovamenti archeologici compiuti da Barbieri prima e, negli ultimi anni, dalla stessa Sovrintendenza nel luogo dove si estendeva lo stagno sono di particolare importanza: dove oggi è in costruzione il nuovo campeggio Capitol sono state riportate alla luce una serie di costruzioni interpretabili come banchine portuali di prima età repubblicana, una pietra di ormeggio e altri reperti che confermerebbero la tesi Pascolini-Barbieri. Lo spostamento dell’insediamento portuale dalla laguna al sito odierno fu dovuto al restringimento dello stagno, non più capace di accogliere la grande quantità di navi che qui giungevano; fu perciò ri-fondata la colonia di Ostia. La storia di questi due studiosi è particolarmente singolare: per anni i due hanno girato in lungo e in largo la zona dell’antico stagno, potendo effettuare puntuali ricerche e studi anche in porzioni di territorio oggi inaccessibili a causa della selvaggia urbanizzazione, senza essere mai ascoltati dagli accademici e tacciati di essere dei “visionari”. Solo recentemente il lavoro di questi studiosi è stato ripreso ed approfondito, per la prima volta reso degno di analisi scientifica. Detto ciò, la parte più antica del Parco archeologico di Ostia Antica è il castrum. Il nome di questo primo insediamento deriva dalla sua conformazione e dalla sua funzione: il castrum era l’accampamento militare romano, costituito da una sorta di griglia ortogonale emanazione delle due principali vie, il cardo ed il decumano massimi. Dunque la prima Ostia era in realtà un avamposto militare in funzione difensiva della costa, definitivamente posta sotto il controllo romano dopo la sconfitta degli etruschi di Veio nel 396 a.C. Si deve a questo proposito ricordare che la linea di costa attuale è in posizione molto più avanzata rispetto a quella originaria, proprio a causa del continuo apporto di detriti trasportati dal fiume, così che la spiaggia in epoca romana si trovava ai limiti degli scavi oggi visitabili. Pur non esistendo fonti documentarie che informino in maniera precisa della costruzione di questo fortilizio, gli archeologi oggi tendono ad individuare il momento di fondazione del castrum nella seconda metà del IV secolo a.C. Sin dalle sue prime fasi di vita, la città di Ostia non si presentava come una tradizionale colonia romana. Sappiamo infatti che alla creazione del castrum non seguì una lottizzazione dei terreni agricoli, come negli atti di fondazione di tutte le altre colonie romane (e lo sappiamo perché nei terreni circostanti la città non sono venuti alla luce resti di aziende agricole di questo periodo, piuttosto ville rustiche più tarde nella zona di Dragoncello). Ostia aveva un’altra importantissima funzione, oltre a quella bellica (di difesa, con le navi da guerra ormeggiate nel porto, tanto che da Ostia partirono le navi romane durante la prima guerra punica): aveva funzione annonaria, ovvero di approvvigionamento della città di Roma. Essendo uno scalo portuale, ad Ostia giungevano le grandi navi mercantili, cariche soprattutto di grano, olio e vino. Queste grandi navi non erano in grado di risalire il corso del fiume per giungere direttamente agli scali fluviali di Roma. Approdavano ad Ostia, scaricando le merci che venivano in parte direttamente trasportate su imbarcazioni minori o su chiatte condotte per terra da buoi per arrivare a Roma. Oppure erano stoccate nei magazzini ostiensi per poi essere rivendute nei mercati dell’Urbe. E’ questa la ragione principale della sudditanza amministrativa di Ostia rispetto alla città di Roma nei primi periodi della sua storia: Ostia non aveva un’amministrazione autonoma, ma dipendeva direttamente dai magistrati di Roma. Senza Ostia Roma non mangiava. Successivamente, nel periodo di crescente prosperità di Roma (dagli ultimi decenni della Repubblica fino alla fine del II secolo), Ostia si distaccò dall’Urbe dal punto di vista amministrativo: venne creato un organo collegiale di decuriones e si istituirono magistrature autonome a cadenza annuale come i duoviri e gli edili (i Fasti Ostienses ci informano sui nomi di tutti questi magistrati fino al 251). E’ a partire dal III secolo che si registra un’inversione di marcia: la città tornò ad essere sotto il diretto controllo di Roma, a causa della generale crisi che aveva investito l’impero. Tale crisi avviò la città ad una lenta ma inarrestabile decadenza, tanto che in epoca tardoantica Ostia aveva ormai perso la sua principale vocazione, quella commerciale, assunta in prima istanza dalla nuova città di Porto, nata in seguito alla costruzione dei bacini portuali di Claudio e Traiano. Quando nel V secolo si registrarono a Roma le più terribili scorribande dei popoli barbarici, Ostia, stando alle fonti, non sembra essere stata toccata da questi devastanti saccheggi, nemmeno da quello dei Vandali del 455, unico popolo barbarico in grado di navigare e che aveva raggiunto la città di Roma proprio attraverso il fiume, sintomo questo che la città aveva ormai perduto di importanza strategica e di prestigio. Nei secoli seguenti venne quasi definitivamente abbandonata tanto che rimasero funzionanti pochissimi edifici: quelli trasformati in senso cristiano (si veda l’oratorio di san Ciriaco, tappa dell’itinerario proposto) e quelli utilizzati come calcare, sorta di officine della calce, dove si realizzavano forni per la cottura dei materiali architettonici trasformati così in calce. I pochi abitanti rimasti nel IX secolo si rifugiarono nel borgo fortificato fatto costruire da Gregorio IV (da cui la denominazione di Gregoriopoli) in seguito alle incursioni saracene che sarebbe diventato il nuovo centro abitato della zona. Lentamente si perse la memoria dei luoghi della fiorente città di Ostia, ormai sommersa dai calcinacci e dai resti degli antichi grandiosi edifici, ricoperta dai detriti delle piene del Tevere, erosa dall’azione del fiume. Due soli monumenti spiccavano ancora alla vista da quella che era ormai diventata una campagna per il pascolo: il teatro e il Capitolium. Scavi sistematici nella città antica ebbero inizio per volontà di Pio VII Chiaramonti (1824), pontefice particolarmente sensibile alla questione delle antichità (fu infatti lui a promulgare il famosissimo chirografo con cui si proibiva qualsiasi tipo di attività clandestina legata alle antichità, gli scavi, i commerci, i furti e gli usi impropri, alla base del moderno concetto di salvaguardia del patrimonio culturale). Con Pio IX Mastai Ferretti si ebbe invece la prima campagna di scavo vero e proprio, teso al recupero delle vestigia antiche. Il grosso delle ricerche archeologiche furono realizzate dagli anni ’20 agli anni ‘40 del Novecento soprattutto sotto la guida dell’allora Sovrintendente Guido Calza che procedette però, secondo metodologie in voga all’epoca, all’eliminazione di tutto quello strato archeologico pertinente alla prima età medievale che non essendo giunto fino a noi, lascia insolute alcune questioni relative alla storia della città. Prima tappa - Necropoli della Via Ostiense Il percorso di visita inizia dalla necropoli della via Ostiense poiché i ruderi di questo cimitero subdiale danno l’opportunità di raccontare come fosse vissuta la morte dai romani ma soprattutto quali fossero i riti funebri e religiosi connessi con questa tappa fondamentale della vita umana. La necropoli della via Ostiense è il sepolcreto più antico della città di Ostia dal momento che le tombe più longeve che vi si trovano risalgono al II secolo a.C., costruite perciò in un periodo in cui le mura della città ancora non erano state realizzate (Ostia fu infatti fortificata nel I secolo a.C.). L’altra grande necropoli della città, quella della via Laurentina, strada che conduceva alla città romana di Laurentum, sorse in un secondo momento appena fuori la Porta Laurentina; nel complesso questo cimitero appare costituito da sepolture appartenenti a ceti meno elevati di quelli presenti nella necropoli ostiense. Il fatto che questo fosse il più antico e notabile cimitero fu probabilmente dovuto proprio al suo estendersi lungo la via Ostiense dal momento che si trattava della strada più trafficata dell’epoca, collegando direttamente l’Urbe alla sua colonia. Essendo il più antico e rinomato sepolcreto questo rimase attivo per lunghissimo tempo e dunque non deve stupire che, durante le campagne di scavo susseguitesi negli anni, vennero portate alla luce circa 60 tombe, appartenenti a differenti epoche, testimonianze di usi funerari differenti. Tra queste la tipologia più antica è costituita di un semplice recinto in muratura, chiuso da ogni lato ed accessibile soltanto per mezzo di scale; all’interno del recinto venivano ospitate le ceneri dei defunti in urne deposte nel terreno. A partire dalla prima età imperiale (epoca di Augusto) le tombe iniziarono a monumentalizzarsi e furono sostituite dai colombari, camere sepolcrali, anche a due piani, nelle quali venivano realizzate nicchiette sulle pareti in cui riporre le urne crematorie. I colombari maggiori, quelli appartenenti a personaggi facoltosi o famiglie particolarmente numerose, erano provvisti di recinti per il rogo crematorio, il cosiddetto ustrinum. In questo modo i colombari si qualificavano come vere e proprie cappelle di famiglia. Con l’età aurea della Roma imperiale (II secolo d.C., soprattutto durante il principato di Adriano) i riti funerari cominciarono a cambiare, preferendo tipologie sepolcrali legate all’inumazione. Le architetture funerarie perciò si modificarono per poter accogliere nuovi tipi di sepolture: queste erano costruite per ospitare sarcofagi in marmo o più spesso in terracotta (di cui si possono notare degli esempi seppur non pregiati tra le stradine che compongono la necropoli) entro gli arcosoli, grandi nicchie a forma di lunetta o arco. Ma quali erano gli usi funerari romani? Quali culti animavano le celebrazioni funebri? Quali erano le divinità che sovrintendevano alla sfera della morte? La premessa più importante da puntualizzare è che i romani non temevano la morte, in quanto parte del ciclo umano e soprattutto in quanto termine di un’esistenza che doveva essere stata retta ed onorevole. Osservato ciò, appare naturale constatare che anche la divinità preposta alla morte non era percepita né considerata come una divinità orrifica e crudele; in massima parte poiché la dea Libitina più che alla morte era in realtà legata alle pratiche funebri: a lei venivano offerti vino rosso e latte in luogo di sanguinari sacrifici. Il suo stesso nome secondo alcune tradizioni deriverebbe dal termine libagione che designa l’atto di recare delle offerte durante il rito della sepoltura. Il maggior santuario dedicato alla dea si trovava nel bosco sacro presso il colle Esquilino e lì venivano conservati i documenti relativi alle statistiche di morte ma soprattutto gli strumenti usati dai professionisti delle moderne onoranze funebri, chiamati per l’appunto libitinarii. Questi si occupavano di ogni aspetto concernente la sepoltura dei defunti che poteva avvenire tramite pagamento privato, qualora la famiglia avesse avuto la sufficiente disponibilità finanziaria oppure erano affidate ad un‘organizzazione statale che si occupava di seppellire decorosamente i defunti non abbienti entro fosse comuni. Il rito funebre di un notabile romano era elaborato. All’atto della morte un familiare baciava sulla bocca il proprio caro, in parte per assorbire un poco della sua anima nella propria, in parte per non far subito fuggire l’anima del morto nell’oltretomba. Dopo il bacio questo stesso parente chiudeva gli occhi del defunto ripetendo per tre volte il suo nome. Solo a questo punto intervenivano i libitinarii che preparavano il corpo lavandolo, ungendolo, vestendolo della toga (che solo i cittadini romani potevano indossare, essendo una sorta di veste dichiarante l’autorevolezza della persona) e mettendogli tra i denti una moneta, l’obolo per il traghettatore di anime Caronte. Il cadavere era poi trasportato nell’atrio della casa per essere esposto alla cittadinanza per qualche giorno. Durante questa esposizione (che potrebbe definirsi quasi una veglia) avveniva il celebre rito del lamento funebre; alle donne della famiglia toccava piangere e disperarsi: più era forte il lamento più si rimpiangeva la perdita della persona. La naturale conseguenza era che, per esaltare il defunto, si diffuse l’uso di pagare donne estranee alla famiglia, le cosiddette prefiche, per fornire il consono pianto di disperazione durante la cerimonia. Trascorsi i giorni dell’esposizione si apprestava il corteo funebre. A capo della processione vi erano gli uomini in toga che portavano le immagini degli antenati, calchi fatti realizzare alla morte dei parenti che venivano custoditi nelle case dei romani. Del corteo facevano parte anche mimi e danzatori, le donne piangenti, le personalità eminenti come i magistrati. Il corteo aveva termine presso il cimitero, esclusivamente fuori le mura poiché nel diritto romano era severamente vietato seppellire i morti all’interno della cinta muraria. Una volta giunti nel cimitero il defunto veniva adagiato sulla pira funebre accesa da un congiunto per essere bruciato assieme a tutti gli oggetti che ne rappresentavano l’esistenza. Dopo la cremazione il fuoco veniva spento con del vino e le ceneri raccolte per essere depositate nell’urna da collocare nella tomba di famiglia. Una volta deposta l’urna, o il corpo inumato, si celebrava il banchetto funebre a cui partecipava tutto il corteo che aveva luogo accanto alla tomba: venivano offerti cibi speciali in parte sepolti assieme all’urna stessa. Tra i sepolcri più interessanti della necropoli ostiense vi sono i cosiddetti Colombari Gemelli, due camere sepolcrali simmetriche ed identiche risalenti al I secolo d.C. Originariamente questi erano costituiti da un vestibolo cui si accedeva da una stretta vietta parallela alla via Ostiense in cui ancora oggi si possono notare le scale che portavano alla terrazza superiore dove probabilmente si celebravano i banchetti ed i riti funebri annuali nel giorno della ricorrenza della scomparsa. Attraverso il vestibolo si accedeva alla camera sepolcrale vera e propria, in cui erano ricavate le nicchiette per le urne, che ancora oggi si vedono in maniera assai chiara, spesso intonacate e decorate ad affresco. Le urne trovavano posto entro le nicchiette, a volte accompagnate dai busti-ritratto dei defunti. Questi due sepolcri appartengono alla tipologia dei colombari autarchici in quanto provvisti di apparati funebri autonomi: è infatti ancora visibile l’ustrinum tra le due tombe (sul lato della Via dei Sepolcri) che nel II secolo fu trasformato in una sepoltura a inumazione con l’aggiunta di un arcosolio. Seconda tappa - Mura repubblicane e Porta Romana Continuando sulla via Ostiense e lasciandosi alle spalle la necropoli si giunge alla Porta Romana, la porta di accesso più importante della città presso la quale terminava la via Ostiense. Questa breve sosta non riguarda strettamente l’itinerario religioso proposto ma serve a comprendere che da questo tratta in poi si entra ufficialmente all’interno della città di Ostia, con la trasformazione della via Ostiense in decumano massimo. La Porta Romana, come le altre porte principali della città (Porta Marina e Porta Laurentina), era fiancheggiata da possenti torri quadrate di cui si scorgono ancora oggi i resti sulla sinistra. Le mura difensive circondavano la città solo su tre lati dal momento che il lato settentrionale era quello adibito a scalo portuale sul Tevere, si decise perciò di non costruirvi mura per non intralciare i lavori del porto. Inizialmente si riteneva che le nuove mura della città (le originarie sono quelle del castrum, nel cuore più antico di Ostia) fossero state costruite per volontà di Silla dopo che la colonia fu devastata dalle truppe del suo avversario Mario durante la guerra civile dell’87 a.C. Si narra infatti che la città, che parteggiava per Silla, fosse stata presa dai mariani grazie al tradimento del capitano della cavalleria posta a guardia della città. In base al dato della presenza della cavalleria risulta che Ostia a quel tempo doveva essere ancora sprovvista di mura. Oggi si tende invece a postdatare la costruzione delle mura all’età di Cicerone (prima metà I secolo a.C.). Terza tappa - Caesareum della Caserma dei Vigili La Caserma dei Vigili apparentemente nulla ha a che fare con il percorso religioso all’interno dell’antica Ostia. Una città così piena di magazzini e densamente popolata quale era al massimo apice del suo sviluppo non poteva non avere un distaccamento di vigiles: la stessa parola latina ci suona molto familiare. I vigiles erano un corpo di forze dell’ordine costituto da soldati che aveva la fondamentale funzione di prevenire e spengere gli incendi che, in città come questa, erano frequentissimi. Senza scomodare il più famoso incendio di Roma, quello sviluppatosi nel 64 allorquando bruciarono ben 11 regiones delle quattordici che componevano la città (di cui tre completamente distrutte), pensiamo a quanto doveva essere frequente il problema degli incendi soltanto per il fatto che l’illuminazione era garantita esclusivamente dalle torce a fuoco. La caserma che si ammira oggi venne ricostruita da Adriano, seguendo l’iniziale progetto di Domiziano, primo imperatore a dare il via ad un generale riordino urbanistico di Ostia. Ma ciò che caratterizza il luogo tanto da inserirlo nell’itinerario religioso non è la caserma stessa, che tuttavia rappresenta un bellissimo esempio di funzionalità architettonica (con il suo cortile centrale a pilastri, attorno al quale si articolavano tutte le stanze dei soldati e con i due lavatoi semicircolari) bensì il piccolo sacello che si trova in fondo al cortile dedicato al culto imperiale, che nelle maggior parte delle guide archeologiche è segnalato con la denominazione di Caesareum. Che cosa era il culto imperiale? Quale era la sua importanza all’interno del contesto religioso romano? Il culto imperiale può essere sinteticamente definito come la speciale devozione riservata agli imperatori, i quali impersonavano la gloria e la potenza di Roma che, una volta morti, venivano divinizzati. Culti simili erano già anticamente diffusi in Oriente, dove i sovrani viventi erano spesso associati alle divinità e a questi si tributavano onori e sacrifici sulla scia della concezione dell’uomo-dio (si pensi all’esempio più rinomato fra tutti, quello dei faraoni). Ma nella religione romana questo aspetto si era manifestato soltanto in epoca arcaica (VIII secolo a.C.), con l’assunzione tra le divinità di Romolo, fondatore della città di Roma, e soltanto dopo la sua morte, fattore questo molto significativo. Sentori della tendenza a impiantare anche a Roma un simile culto della persona (pur associata alla grandezza della città) vi erano stati nella tarda età repubblicana: Silla, Pompeo, Cesare. Fu quest’ultimo che, riuscendo a ottenere la dittatura a vita, pose le basi per la nascita dell’impero e del culto imperiale. Una volta morto Cesare venne divinizzato per volontà del Senato che lo dichiarò divus: entrò a far parte a tutti gli effetti del pantheon romano, gli venne costruito e dedicato un tempio (il Tempio del Divo Giulio), fu istituito ufficialmente il suo culto. Fu però con Augusto che il cerimoniale dell’apoteosi (divinizzazione) e l’istituzione del culto imperiale si configurò come un vero e proprio sistema religioso. In quanto pacificatore dell’impero (pax augustea) Ottaviano, che si era fatto tributare tutte le più importanti magistrature a vita divenendo così Augusto e dunque imperatore, era già stato acclamato in vita come divus nelle province orientali, avvezze a questo tipo di concezione del sovrano-dio. Ma a Roma tale principio religioso non poteva essere accettato così che l’imperatore delineò un sistema che sarebbe stato ripreso dai suoi successori. Seguendo l’escamotage augusteo all’imperatore ancora in vita non poteva essere associato nessun culto della persona, eppure poteva diventare oggetto di culto il proprio nume tutelare, il genius (nel caso di Augusto il Genius Augusti). Solo una volta deceduto, l’imperatore poteva finalmente essere deificato dal suo successore attraverso una complessa cerimonia, nota come apoteosi. Durante questo pubblico rito la sua immagine di cera era bruciata su una pira affinchè si sollevasse da questa un denso fumo, simbolo dell’assunzione tra le divinità. Contestualmente veniva fatto edificare un tempio a lui dedicato ed istituito il culto. La decisione circa la deificazione veniva presa dal successore al trono imperiale, a volte per mera opportunità politica: ogni apoteosi aveva però l’obbligo di essere giustificata da particolari meriti dell’imperatore nell’aver assicurato grandezza a Roma, alla cui divinizzazione spesso il culto imperiale era associato, come si può notare all’interno della stessa Ostia nel Tempio di Roma e Augusto. Nella caserma fu ricavata questa piccola cappella per il culto imperiale, come spesso accadeva nelle sedi di importanti istituzioni. Sul podio sono infatti presenti le are dedicate a cinque tra i più celebri ed amati imperatori: Antonino Pio, Lucio Vero, Marco Aurelio in vita in quanto erede e già defunto, Settimio Severo. Nella successione degli imperatori manca un nome noto, quello dell’imperatore Commodo, succeduto a Marco Aurelio. Quest’ultimo aveva scelto suo figlio Commodo quale successore, mettendo definitivamente fino al cosiddetto principato adottivo che si era imposto a partire da Traiano e che aveva donato all’impero alcuni fra i sovrani più importanti della sua storia. La ragione della mancanza dell’ara dedicata a Commodo sta nel fatto che dopo la sua uccisione (in una congiura ordita ai suoi danni) l’imperatore fu soggetto a damnatio memoriae, ovvero alla cancellazione di qualsiasi sua immagine e memoria, per essere condannato all’oblio. La condanna fu decisa per principale iniziativa del Senato, suo acerrimo nemico, nonostante Commodo fosse stato un sovrano tollerante e munifico, soprattutto con le truppe. Il Senato non poteva però accettare i suoi atteggiamenti dispotici e autoritari sul modello dei grandi sovrani ellenistici. Quarta tappa - Oratorio di san Ciriaco Tornando lungo il decumano massimo, all’altezza del teatro ci si trova di fronte ad una delle più sicure e durature testimonianze cristiane all’interno della città di Ostia. Le vicende che riguardano l’identificazione di questi resti con l’oratorio di san Ciriaco prendono le mosse nel 1909-1910 quando vennero effettuati gli scavi nella zona del teatro ed emersero resti pertinenti due costruzioni molto importanti, tramandate dalle fonti cristiane: l’arco di Caracalla e il sacello dedicato a san Ciriaco. Documenti medievali come la Passio di Aurea (le passiones sono racconti della vita e del martirio dei più importanti martiri cristiani) e il Martirologio Geronimiano (calendario dei giorni di martirio dei santi con relativa tortura e morte) riportano la storia di un famoso martire ostiense, tale Ciriaco vescovo, che insieme ad altri cristiani che si adoperavano per la conversione della popolazione pagana di Ostia, vennero torturati e condannati a morte proprio nella città marittima e sepolti nei cimiteri limitrofi. Secondo la tradizione cristiana Ciriaco visse durante l’impero di Claudio e dedicò la sua vita, in quanto vescovo della comunità ostiense, alla predicazione e alla conversione. Assieme a lui operava nella città un folto gruppo di cristiani ai quali si aggiunse Aurea, conosciuta dalle fonti con il nome greco di Chryse (dorata), che era stata esiliata da Roma a causa della sua fede cristiana ed era giunta ad Ostia rifugiandosi in una villa di sua proprietà. Aurea, Ciriaco ed altri furono però arrestati dalle autorità cittadine poiché colpevoli di praticare la religione cristiana, il cui culto non era ancora ammesso. Vennero perciò incarcerati e poi uccisi: mentre Aurea e gli altri furono uccisi, secondo le fonti, davanti l’arco di Caracalla, rinvenuto proprio in questo luogo, a Ciriaco venne invece concesso il privilegio di essere ucciso nella prigione stessa. Nel luogo in cui morirono martiri gli altri personaggi di questa leggenda molto tempo dopo (nel tardo IV o nel V secolo) fu costruito questo piccolo luogo di culto per onorarne la memoria dove fu probabilmente traslato il corpo di Ciriaco, prima sepolto altrove. Dell’edificio sopravvivono poche murature, tutte di reimpiego (ovvero murature realizzate con materiali utilizzati per altre costruzioni) e proprio in base a questo elemento si crede che l’oratorio sia di un periodo piuttosto tardo. Questo sorge con la sua abside sopra un ninfeo (fontana monumentale) che originariamente decorava il prospetto centrale del teatro. La sicurezza con cui si ritiene che l’edificio sia tardo è giustificata non solo dalla muratura ma anche perché, al momento della scoperta, fu trovato a poca distanza un sarcofago con la raffigurazione di Orfeo (assimilato a Cristo nell’iconografia paleocristiana) ed un’iscrizione che recitava “Qui Ciriaco riposa in pace”: dal momento che nel diritto romano era severamente vietato seppellire i morti all’interno delle mura si deve obbligatoriamente affermare che il luogo di culto fosse stato realizzato in un momento in cui la città era ormai spopolata e non si badava più alle regole precedenti. Questo piccolo oratorio costituito da una sola navata sopravvisse all’abbandono di Ostia proprio perché divenne uno dei posti più venerati del territorio, in quanto legato alla memoria dei martiri ostiensi. Quando infatti i pochi abitanti rimasti nel medioevo si trasferirono nel borgo fortificato di Gregoriopoli (fatto realizzare da Gregorio IX per proteggere i residenti dalle incursioni dei pirati saraceni nel luogo corrispondente all’odierno borgo di Ostia Antica) non dimenticarono la piccola chiesetta ed anzi continuarono ad effettuare periodici pellegrinaggi alla sepoltura di Ciriaco. Questo luogo di culto ci da l’occasione per aprire un piccolo excursus sul culto dei martiri e sul suo sviluppo. Sappiamo che la religione cristiana ottenne l’autorizzazione al culto soltanto nel IV secolo quando per volontà dell’imperatore Costantino fu emanato nel 313 l’Editto di Milano, togliendo il cristianesimo dalla sfera della clandestinità (nel 381 invece con gli Editti di Tessalonica promulgati dall’imperatore Teodosio il cristianesimo divenne religione di stato, causando la soppressione ufficiale di tutti gli altri culti). Prima di tale data, al di là delle persecuzioni più o meno violente nei confronti dei cristiani, questo culto doveva celebrarsi segretamente e privatamente. Per tale ragione non si ha prova archeologica certa dell’esistenza di luoghi di culto cristiani prima del IV secolo (allorquando Costantino fece costruire le prime basiliche della cristianità): il rito eucaristico, centrale nella liturgia cristiana, veniva celebrato all’interno di residenze private, le famose domus ecclesiae, messe a disposizione della comunità dei fedeli dai patrizi convertiti al cristianesimo, che in nulla si differenziavano rispetto alle altre residenze in cui tali liturgie non avvenivano. Gli unici segni distintivi dei cristiani si trovavano nei cimiteri dove le camere sepolcrali in cui i defunti venivano seppelliti con l’inumazione erano decorate con motivi che alludevano al messaggio salvifico di Cristo. In questi stessi cimiteri (che potevano essere sotterranei, come le catacombe, o subdiali) divennero ben presto meta di pellegrinaggi le tombe dei martiri, considerati dei veri e propri eroi cristiani. Queste tombe non avevano particolari abbellimenti, a volta solo delle semplici iscrizioni commemorative e i viaggi che i fedeli compivano verso questi sepolcri erano del tutto spontanei, perché mossi da sincera fede e devozione. Solo in un secondo momento, dopo l’Editto di Costantino, le tombe dei martiri furono monumentalizzate: spesso costruendo sopra i sepolcri delle chiese (ed è il caso delle basiliche di San Pietro e San Paolo) oppure edificando nei pressi delle tombe degli oratori, come questo di san Ciriaco, in cui i pellegrini potessero agevolmente pregare ed appellarsi ai santi martiri. Dunque è proprio in questo momento che la devozione verso i martiri diventa un culto vero e proprio, regolamentato, gestito e controllato dalla Chiesa. Quinta tappa - Tempio di Cerere Superato a destra l’oratorio di san Ciriaco si entra all’interno del teatro per dirigersi oltre la skenè, verso il tempio che fa scenograficamente da quinta scenica. L’identificazione di questo tempio con un santuario dedicato alla dea Cerere è oggi fortemente messo in discussione. La maggior parte degli archeologici ritiene falsata l’attribuzione del tempio a questa divinità, che deriva dai primi scavi condotti ad Ostia, dal momento che non vi sono prove documentarie che attestino l’appartenenza di questo tempio ad un’area sacra a Cerere. Secondo recenti studi è piuttosto da preferire la dedicazione del tempio al Pater Tiberinus, ovvero al fiume Tevere. I romani, come altre civiltà del passato, usavano attribuire status divino a diversi aspetti della natura, tra cui spesso divinità fluviali a cui si conferiva valore creatore: sulle rive di moltissimi fiumi si svilupparono le più antiche ed avanzate civiltà, basti pensare alla “mezzaluna fertile” tra i fiumi Tigri ed Eufrate o il fiorente popolo degli egizi sulle rive del Nilo. Per i romani grandissima rilevanza aveva il Tevere a cui non a caso avevano attribuito l’appellativo di pater (padre). Il Tevere (Tiber in latino) aveva avuto nella stessa fondazione della città un grande ruolo se si pensa che i due gemelli Romolo e Remo secondo la tradizione sopravvissero proprio perché trasportati dalle acque del fiume fino all’area dove sarebbe sorta Roma. Ma il fiume ebbe fondamentale importanza anche per lo sviluppo economico della città che permise a questo nuovo insediamento nato su sette colli di espandere il proprio dominio in breve tempo, entrando in contatto con i più svariati popoli ma sempre mantenendosi al sicuro poiché nell’entroterra e sulle rive del fiume. E’ dunque verosimile che in questa zona della città di Ostia le autorità avessero fatto edificare un tempio in onore del fiume Tevere. Molto probabilmente l’approdo portuale si trovava proprio alle spalle del tempio, nella parte settentrionale della città che confinava con l’antico corso del fiume. Si trattava di un’area lasciata libera dalle costruzioni secondo precise norme (promulgate dal pretore Caninio che aveva espressamente sancito che tutta l’area compresa tra il castrum e la Porta Romana dovesse essere lasciata sgombra da costruzioni, probabilmente proprio per agevolare i lavori portuali) e che cominciò ad essere edificata soltanto in epoca imperiale, età alla quale risale il nostro tempio. L’aspetto originario del tempio e del complesso circostante noto con il nome moderno di Piazzale delle Corporazioni si mantiene abbastanza integro ancora oggi. Il tempio sorgeva al centro di uno spazio quadrangolare che aveva i lati occupati da una serie di piccole camere sede delle società commerciali stranieri che facevano affari con i mercanti ostiensi (i mosaici che si vedono tutt’intorno raffigurano spesso i simboli di queste terre lontane, si vedano gli elefanti che identificavano l’Africa). Lo spazio interno era occupato da uno spazioso giardino al centro del quale spiccava il luogo di culto. Questo svetta ancora oggi sopra un alto podio; salendo le scale si accede all’edificio vero e proprio attraverso un vestibolo (pronao) ornato, come in origine, da due colonne corinzie. Quando la zona venne scavata per la prima volta il tempio fu identificato come un luogo di culto dedicato a Cerere, dea delle messi e dell’abbondanza, della fertilità e della nascita poiché i frutti, i fiori, le piante, i raccolti, in sostanza la vita, erano considerati suoi doni. Questa divinità è tra le più complesse del pantheon romano dal momento che si può definire come la summa di numerose assimilazioni religiose. Cerere infatti è in parte la trasposizione romana della dea greca Demetra (i romani importarono dalla Grecia anche i misteri legati a questa divinità, particolari culti riservati solo ad iniziati) protagonista di uno dei principali miti oggi conosciuti, quello del rapimento della figlia Persefone da parte di Ade, che venne trasposto dai romani nel rapimento di Core o Proserpina. Ma in parte Cerere è anche il risultato dell’assimilazione di divinità prettamente italiche legate al culto della terra (Liber, Libera, Tellus). Era una delle principali figure divine romane, rappresentata spesso come una vera e propria matrona, severa ed austera ma accogliente e propizia: veniva sempre raffigurata con una corona di spighe e con cesti di frutta e di grano. Agli archeologi che riportarono alla luce il santuario parve plausibile assegnare il tempio a questa benevola dea: secondo tali studiosi infatti i commercianti che si recavano a fare affari nelle sedi delle società mercantili straniere tutt’intorno al tempio, qualora avessero ottenuto contrattazione favorevoli, si recavano immediatamente presso il tempio al centro della piazza per offrire libagioni alla dea. Ma Cerere aveva anche un aspetto ctonio (infero): era legata al mondo dei morti in particolare durante i tre giorni dell’apertura del mundus di Cerere, buca circolare che secondo il credo romano rappresentava il punto di collegamento tra il mondo dei vivi e quello dei morti. Durante questi tre giorni (24 agosto, 5 ottobre e 8 novembre) l’apertura, chiusa con una pietra per tutto il resto dell’anno, permetteva la fuoriuscita delle anime dei defunti buoni, che tornavano ad affiancare parenti e cari. Erano tre fra i più sacri giorni del calendario romano in cui era assolutamente vietato fare attività politica, muovere guerra, armare l’esercito, far salpare le navi. Il tutto sotto la protezione di questa importante dea che aveva un sacerdote specifico, il flamen minor o flamine cereale. Sesta tappa - Mitreo di Felicissimo Tornando sul decumano massimo e compiendo qualche passo in direzione del foro, si troverà sulla sinistra una piccola via che conduce dapprima ad una delle tante fullonicae di Ostia, gli impianti di lavorazione dei tessuti. Affacciandosi sul complesso protetto dai tetti per osservare le diverse vasche di decantazione dei tessuti che qui venivano tinti, si prosegue verso un piccolo passaggio che reca a sinistra una delle testimonianze più preziose circa l’antico e misterioso culto del dio Mitra. Si tratta dei resti di un mitreo, luogo adibito a questo culto di origine orientale (iranica) arrivato a Roma grazie alla mediazione dei legionari romani stanziati in oriente. Il mitreo in questione possiede una particolare importanza per ciò che si è conservato della decorazione pavimentale a mosaico che illustra i vari gradi di iniziazione mitraica, per alcuni versi ancora avvolti nell’ombra. Il mitraismo si diffuse a Roma a partire dal I secolo d.C. ma le sue origini si perdono davvero nella notte dei tempi (tracce tra le più antiche nei territori orientali risalgono al 1300 a.C.) per trasformarsi in uno dei culti più ampiamente praticati nella società romana (escludendo dal computo le donne che non ne erano ammesse) nel III secolo. Ricostruire con esattezza la genesi di questo culto, la sua trasformazione o la stessa identità del dio Mitra è questione intricata, ricca di rimandi mitologici, di assimilazioni e mediazioni. Basti, per poter interpretare i preziosissimi mosaici, un racconto sintetico dei tratti fondamentali di questo mito. Quando il mitraismo giunse a Roma (secondo Plutarco attraverso il contatto tra i soldati romani ed i pirati cilici deportati in Grecia all’epoca di Pompeo) molto si era già perduto dell’originario culto legato allo zoroastrismo che voleva il dio Mitra componente fondamentale della triade persiana costituita anche da Ahura Mazda (il dio creatore) e Anahita (la Grande Madre), in qualità di divinità della distruzione finalizzata ad un nuovo inizio. Il dio Mitra venne ben presto profilandosi sotto un altro profilo, fortemente legato agli aspetti cosmologici ed in particolare alla figura del Sole, tanto che nel momento del massimo apogeo Mitra venne assimilato al Sol Invictus. Il mito del dio che è stato possibile ricostruire attraverso le sole testimonianze archeologiche, mancando del tutto fonti scritte che spieghino rituali, gerarchie ed essenza del culto (essendo questa una religione misterica, riservata cioè ai soli iniziati che dovevano compiere un vero e proprio viaggio attraverso i vari gradi d’iniziazione) ruota intorno alla nascita del dio da una roccia armato di coltello e fiaccola e vestito del berretto frigio. Avendo stretto un patto con il Sole Mitra, dio della salvezza, riceve attraverso un corvo messaggero il compito di uccidere il toro per assicurare al mondo la vita. Aiutato da un cane il dio riesce ad intrappolare il toro all’interno di una cavità e ad ucciderlo conficcandogli il coltello nel ventre: in questo modo dal suo midollo nasce il grano e dal sangue la vite. Nelle raffigurazioni della tauroctonia (l’uccisione del toro che è il fulcro del rituale mitraico) sono sempre rappresentati anche altri due animali, lo scorpione che punge i testicoli del toro ed il serpente che si abbevera del sangue; la loro presenza è tra gli studiosi ancora molto dibattuta, alternativamente interpretata come favorevole o avversa a Mitra. Ucciso il toro e sgorgata la vita, il Sole e Mitra stringono un patto di alleanza attraverso un banchetto cibandosi delle carni del bovino. Ma cosa ci raccontano i mosaici di questo mitreo? Chi erano gli iniziati? Il mitreo del Felicissimo, così chiamato per il committente di cui ancora si può vedere la firma all’estremità del mosaico (Felicissimus ex voto fecit), non conserva la tipica struttura interna dei mitrei. Questi, costruiti preferibilmente al di sotto di altri edifici ma laddove non possibile spesso edificati senza aperture di sorta a riprodurre la vera cavità mitologica, avevano sempre l’entrata in posizione defilata rispetto all’asse dell’aula affinchè il luogo di culto non fosse sotto lo sguardo indiscreto dei non iniziati. L’aula rettangolare era composta da podi paralleli (praesepia) provvisti di appoggi per le vivande e le lucerne su cui si disponevano i fedeli in ordine gerarchico, generalmente distesi; da un thronum (sorta di rialzo) posizionato su uno dei lati corti dell’aula, sul quale veniva apposta l’immagine del dio intento ad uccidere il toro (splendidi esempi si possono ammirare all’interno del Museo ostiense); da due nicchiette opposte al rialzo che ospitavano solitamente statuette dei geni portatori di torce Cautes e Cautopates. L’unica parte che si è ben conservata del mitreo è il lungo corridoio tra un sedile e l’altro in cui sono raffigurate le sette tappe dell’iniziazione mitraica, attraverso i propri simboli, le rispettive protezioni planetarie e gli oggetti rituali corrispondenti. Le raffigurazioni sono racchiuse entro riquadri che suggeriscono l’idea di una scala bidimensionale in cui ciascun piolo rappresenta una stazione verso il massimo grado di iniziazione, quello di pater (unico officiante). Il riquadro più vicino a quella che è oggi l’entrata reca diverse raffigurazioni: un cratere simbolo dell’acqua, un’ara infuocata simbolo del fuoco e due berretti frigi, simbolo dei Dioscuri che a loro volta rimandano ai due emisferi celesti in cui l’anima dell’uomo deve viaggiare. Verosimilmente ai lati di questo riquadro dovevano trovare posto i due dadofori (portatori di torce). Il successivo riquadro svela il primo grado di iniziazione, quello del Corvo, accanto alla protezione del simbolo del pianeta Mercurio (caduceo) e all’oggetto rituale della coppa, probabilmente per le abluzioni che ogni fedele doveva compiere prima di entrare all’interno del luogo di culto (spesso i mitrei conservano presso l’entrata delle cavità interpretabili come piccole vasche, forse in questo caso il buco circolare sulla destra). Il secondo grado è sovrinteso dalla protezione di Venere (diadema) e consiste nel grado del Ninfo a cui corrisponde la lucerna. Marte (con il simbolo della lancia) protegge il terzo grado, quello del Miles a cui è legata la bisaccia del soldato; il quarto grado è quello del Leone (il cui simbolo è la paletta per trasportare il fuoco) a cui si connette il pianeta Giove (la saetta) ed il sistro, oggetto rituale legato alla Magna Mater; il grado del Persiano (spada falcata tipica dei soldati persiani) è il quinto, sotto la protezione della Luna, a cui è connessa la falce; il sesto riquadro è quello dedicato al grado dell’Eliodromo, simboleggiato dalla frusta della quadriga solare, tutelato dal Sole, la corona raggiata (si noti il numero dei raggi, sette come le sfere planetarie dell’iniziazione) e la torcia; il settimo ed ultimo grado è quello del Pater simboleggiato dal berretto frigio, sotto la protezione di Saturno (falcetto) a cui si abbinano gli oggetti rituali della patera per le libagioni e della bacchetta del comando. In corrispondenza delle rappresentazioni trovavano posto i fedeli suddivisi a seconda del grado pronti a partecipare alla cerimonia cultuale che si concludeva con un banchetto denominato agape. Settima tappa - Capitolium e Foro Tornando sul decumano massimo si procede verso il castrum, del quale sono ancora oggi visibili le mura difensive in grandi blocchi di tufo. Superata l’entrata della prima Ostia si giunge presso il foro, punto nevralgico di tutta la città. Dal punto di vista urbanistico il foro era uno slargo (poi diventato piazza porticata nella tarda età repubblicana e imperiale) posto all’incrocio tra le due più importanti strade delle città romane: il cardo e il decumano massimi. Queste due strade perpendicolari davano origine all’impianto urbanistico a scacchiera delle città romane di nuova fondazione, riprendendo la classica disposizione degli accampamenti militari. Il primo nucleo della città di Ostia si sviluppò proprio all’incrocio fra queste vie, senza tuttavia mai realizzare una vera e propria piazza di rappresentanza. All’atto di fondazione di una colonia i romani procedevano sempre attraverso le stesse tappe: si aprivano le due strade principali (cardo e decumano), si cingeva l’area dell’insediamento con delle mura (quelle del castrum ostiense sono del IV secolo a.C.) e si costruiva presso il foro il maggiore e più importante fra tutti i luoghi di culto appartenenti alla religione ufficiale romana: il tempio della Triade Capitolina, dedicato alle principali divinità Giove, Giunone e Minerva, sul modello del Tempio di Giove Ottimo Massimo sul Campidoglio, il colle di Roma che prende il nome tempio (Campidoglio-Capitolium). Il foro e il tempio che oggi si ammirano non appartengono alla prima fase di vita della colonia ostiense; acquisirono infatti questo aspetto soltanto nel II secolo (120 d.C) per volontà dell’imperatore Adriano che aveva proceduto ad una generale sistemazione e riedificazione della zona a nord del decumano massimo. Adriano fece dunque costruire l’attuale tempio che mantiene ancora oggi l’impianto architettonico originale. Si ergeva e si erge ancora su un alto podio (gli scalini sono stati in parte ricostruiti) ed era interamente realizzato in mattoni rivestiti da pregiate lastre di marmo (oggi scomparse). Alla cella (naos) si accedeva tramite un portico a colonne corinzie (di cui rimane qualche resto): all’interno dell’edificio erano posizionate le statue rappresentanti le tre divinità Giove, Giunone e Minerva. Alcuni studiosi ritengono che la cella (il naos, la parte sacra del tempio) fosse tripartita, divisa cioè in tre parti ciascuna delle quali dedicata ad un dio. Altri invece affermano che questo Capitolium fosse a cella unica e che le statue delle divinità fossero collocate nello stesso ambiente ma in diverse nicchie. La Triade Capitolina era il simbolo stesso della città di Roma, ed è per questa ragione che alla fondazione di ogni colonia i romani rinnovavano la loro devozione nei confronti delle tre divinità (di cui la più importante era il Giove Capitolino, ovvero Ottimo e Massimo) con la costruzione di santuari gemelli a loro dedicati. Non è un caso dunque che il corteo che si snodava durante il trionfo (la più importante cerimonia politica romana che celebrava le vittorie militari) e che attraversava tutta la città si concludesse proprio davanti al Capitolium romano dove venivano offerti dei sacrifici alla Triade.