Alessandro Cordelli Complessità e mondo dell'uomo 1. Introduzione Gli ultimi decenni del secolo scorso sono stati testimoni di una epocale rivoluzione nel pensiero scientifico, una rivoluzione che per certi aspetti non si è ancora pienamente conclusa, e le cui avvisaglie erano già presenti molto tempo prima di quel giorno d'inverno del 1961 in cui la corretta interpretazione di un apparente errore computazionale aprì la strada ad un cammino irreversibile nella storia della scienza. A proposito di questa rivoluzione si è parlato di caos, nonlinearità, olismo, frattali, catastrofi e altro ancora, ma il concetto che meglio racchiude ed esprime il carattere della nuova linea di pensiero è quello di complessità. Nel giro di poco tempo abbiamo dovuto accettare una serie di cambiamenti nella tradizionale visione della natura che, pur nella varietà degli ambiti di applicazione esplorati, fanno comunque capo a due fondamentali principi: gli effetti non sono proporzionali alle cause, e il tutto è qualcosa in più rispetto alla somma delle parti. Non che questi principi non fossero presenti nella scienza anche in precedenza, ma venivano considerati come caratteristiche non essenziali della natura, contingenze che con opportune approssimazioni potevano essere eliminate senza pregiudicare la profonda comprensione dei fenomeni. Invece gli sviluppi della nuova scienza hanno mostrato come la natura, dal livello dei costituenti elementari a quello dei sistemi biologici più strutturati fino alla rete delle relazioni sociali ed economiche umane, sia intrinsecamente e irriducibilmente complessa, cosicché ogni approssimazione che riporti la descrizione dei sistemi ad un modello con interazioni lineari e che separi una parte dal resto è destinata a mancare l'obiettivo di una corretta spiegazione dei fenomeni. Il paradigma della complessità, molto più di tante altre rivoluzioni scientifiche, ha avuto importanti ricadute anche al di fuori dell'ambito delle scienze naturali, influenzando il pensiero moderno dai livelli più alti fino al senso comune, e ha fornito nuovi strumenti interpretativi per tutta la realtà. Naturalmente la critica al riduzionismo non nasce con la teoria del caos, ma questa ha fornito nuovi potenti strumenti di analisi concettuale per muoversi in tale direzione. Lo scopo del presente lavoro è quello di mettere in evidenza alcuni degli aspetti della scienza della complessità che meglio possono intervenire nella riflessione sull'uomo. La discussione non ha pretese di sistematicità (un interno trattato non sarebbe sufficiente), ma vuole piuttosto essere un volo d'aquila, un'incursione sui vastissimi panorami concettuali che si sono aperti con lo studio dei sistemi complessi, cogliendo ed evidenziando qua e là aspetti che, si spera, possano rappresentare interessanti spunti per il lettore. Dopo aver quindi cercato di focalizzare la nostra attenzione sul concetto di complessità come emerge dalle scienze della natura, passeremo a vedere in quale senso l'uomo e il suo mondo sono complessi, evidenziando due aspetti fondamentali. In primo luogo l'uomo come creatura complessa, non solo e non tanto come qualsiasi essere vivente, ma anche e soprattutto perché ciò che lo caratterizza e distingue dal resto dei viventi, gli aspetti immateriali del pensiero e della coscienza, ha sostanzialmente il carattere della complessità. Ma non solo l'uomo è complesso in sé, egli è anche creatore di complessità. Ogni sistema sociale e culturale ha in sé eminentemente la ricchezza e l'irripetibilità proprie della complessità. Ed è a questo punto che la riflessione, partita dal piano della filosofia naturale e passata poi su quello antropologico, approda a quello etico. La comprensione dei sistemi umani come sistemi complessi svela il profondo nichilismo delle molte operazioni a cui siamo quotidianamente costretti ad assistere, volte a omologare (con le buone o con le cattive) la totalità delle manifestazioni umane ad un unico modello culturale, politico ed economico. 2. L'orizzonte della complessità Contrariamente a quanto accade per molti dei concetti su cui si basano le teorie scientifiche, per la complessità esiste un serio problema di definizione. Uscendo poi dal recinto fisico matematico, la nebbia che sfuma i contorni dell'oggetto dell'indagine si fa ancora più fitta. Alla ricerca di un punto di partenza, un aggancio, un centro intorno a cui costruire la riflessione, facciamo quindi la cosa più ovvia (ma non per questo la meno opportuna) che di solito si fa in queste circostanze. Complessità: s. f., modo di essere o di presentarsi (dovuto generalmente a profondità, minuziosità, disposizione o svolgimento necessariamente complicati) che rende difficile l'orientamento o la comprensione: la c. di un ragionamento, di una situazione. È questa la definizione di complessità fornita da un dizionario della lingua italiana1 che dovrebbe riflettere il significato del termine nel linguaggio comune. Essa però non ci dice cosa è la complessità, ma solo quale è il nostro rapporto di soggetti conoscenti con essa: il complesso è ciò che indubitabilmente è, ma altrettanto indubitabilmente non si lascia afferrare totalmente; a seconda dei contesti sarà causa di sconforto, paura, preoccupazione, ma anche meraviglia e stupore. I due termini 'semplice' e 'complesso' si appoggiano l'uno sull'altro. Pensiamo il semplice come opposto al complesso, ma anche il complesso può essere pensato a partire dal semplice. Non esiste una valenza di neutralità: il non semplice è complesso e il non complesso semplice. Semmai si tratta di un confine mobile. Ciò che per me appare semplice per un altro può essere complesso, e anche la stessa persona può giudicare in due diversi momenti esistenziali lo stesso dato o insieme di dati ora come semplice, ora come complesso. La complessità è quella regione dove la parte analitica del pensiero si smarrisce. Potremmo forse dire che è legata alla molteplicità delle relazioni e degli agenti, ma è facile riconoscere che esistono situazioni estremamente complesse con poche variabili. Addirittura, la complessità come scienza2 nasce con un sistema avente solo tre gradi di libertà.3 E tuttavia è sicuro che un sistema formato da un unico ente, senza alcuna relazione con null'altro, è semplice; lo è per la matematica e per la fisica come per la mentalità comune. Se allora l'unico, l'irrelato, è il semplice, la relazionalità è sicuramente una condizione di complessità: dove c'è complessità c'è relazione. Ma esiste l'unico, l'irrelato, il semplice, nella realtà? Da un punto di vista fenomenologico la domanda non ha senso: un tale ente, se pure esistesse, sfuggirebbe alla percezione, all'indagine scientifica, più in generale a qualsiasi possibilità di conoscibilità. Ogni ente infatti, deve necessariamente avere la capacità di interagire ad un qualsiasi piano dell'organizzazione del reale (materiale o immateriale) altrimenti la sua esistenza è un «per sé" completamente scorrelato dal resto dell'Universo. Quindi ogni ente è relazionale e strutturato, pertanto potenzialmente complesso (o almeno capace di partecipare alla complessità). Si potrebbe pensare che passando dal piano generale ontico a quello più delimitato degli oggetti che cadono nel campo di indagine delle scienze positive la comprensione della complessità come concetto sia più agevole e si possa anche giungere a formularne una definizione soddisfacente ed esaustiva. In realtà questo non accade. E il fatto che sia così difficile definire la complessità utilizzando le categorie galileiane non dovrebbe poi stupirci più di tanto: infatti la scienza occidentale moderna si è sviluppata su una linea diametralmente opposta a quella della complessità, vale a dire seguendo il paradigma del riduzionismo. Da Galileo in poi, ridurre e separare è stato un procedimento che ha permesso di raggiungere grandissimi risultati: nel fenomeno naturale si individuano alcune variabili di interesse trascurando tutte le altre e si descrivono le loro relazioni reciproche mediante un modello matematico basato su equazioni possibilmente lineari (cioè tali che la risposta sia proporzionale alla sollecitazione). Dunque riduzione, separazione, linearizzazione: questi i canoni di un paradigma da cui emerge la semplicità più che come dato di realtà come operazione del pensiero (quindi non semplicità ma semplificazione). Così uno stesso sistema presenta un comportamento lineare se ci riferiamo a un sottoinsieme delle variabili che lo descrivono e sotto particolari condizioni al contorno, ma complesso se allarghiamo l'orizzonte della nostra indagine ad altri aspetti. Prendiamo ad esempio il problema classico della meccanica celeste. L'orbita di un pianeta attorno al Sole è ben descritta dalle equazioni di Newton per il problema dei due corpi4 che ne permettono una esatta e completa risoluzione. Se però andiamo a vedere il reale effettivo moto di un pianeta, osserviamo che la sua orbita è perturbata dalla vicinanza degli altri corpi celesti,5 in modo tale che deve essere considerata l'evoluzione del sistema solare come un tutto. Tale evoluzione presenta tutti i caratteri della complessità6 e non ammette quindi una descrizione matematica completa ed esaustiva. Per i primi quattro secoli della scienza occidentale moderna questa limitazione non ha rappresentato un grosso problema, anche perché tutti i sistemi studiati erano 'naturalmente' riducibili e separabili (nel senso che le variabili trascurate danno origine a effetti quantitativamente ridotti rispetto all'entità del fenomeno principale) e 'naturalmente' lineari (nel senso di essere governati da equazioni in cui il contributo dei termini non lineari è largamente inferiore a quello dei termini lineari). Poi, negli ultimi decenni del secolo appena conclusosi (ma con forti indizi già a partire dai pionieristici lavori di Poincaré7 a cavallo tra otto e novecento), l'indagine scientifica si è trovata di fronte ad una classe totalmente nuova di sistemi, intrinsecamente non riducibili, non separabili, non lineari. Sistemi la cui evoluzione è sostanzialmente non predicibile con i tradizionali strumenti matematici e che presentano fenomeni di emergenza di nuove proprietà e di organizzazione spontanea, gli stessi caratteri all'origine della vita. E la cosa veramente notevole è che tali sistemi non sono peculiari di una o l'altra delle tradizionali divisioni tassonomiche della scienza (chimica organica, fisica dei solidi, biologia molecolare, etc.) ma si ritrovano, legati da forti analogie strutturali, nei campi più disparati: dalla cosmologia8 ai modelli sociali,9 dalla biologia10 alla meteorologia,11 solo per citarne alcuni. Si può dunque affermare che con la nascita della scienza della complessità12 le categorie epistemologiche devono essere radicalmente ripensate. Con tutto questo, se da più parti si fanno tentativi e si cerca di muoversi nella direzione della ricerca di paradigmi qualitativamente nuovi13 e strumenti matematici alternativi,14 una buona parte della comunità scientifica è ancora convinta che la complessità vada comunque affrontata con l'approccio tradizionale del riduzionismo, in quanto la completa conoscenza dei costituenti elementari di un sistema è ciò che occorre e basta per risalire ad ogni comportamento o fenomeno che esso possa esibire.15 A partire dai primi pionieristici lavori di E. Lorenz16 sui semplici modelli non lineari meteorologici moltissimi sistemi fisici, biologici, sociali sono stati studiati sotto un'ottica non riduzionista, ma a tutt'oggi, una definizione chiara ed esaustiva del concetto di complessità non esiste;17 ciononostante le varie definizioni proposte tengono conto ora dell'uno ora dell'altro degli aspetti caratterizzanti i sistemi complessi.18 Fondamentale è la definizione di Kolmogorov19 della complessità di un oggetto come la minima quantità di informazione necessaria a programmare un calcolatore per produrre l'oggetto. Sebbene questa definizione sia strettamente applicabile solo ad enti matematici, essa può essere estesa anche ad oggetti naturali; ad esempio per un essere vivente tale informazione sarà rappresentata dal suo DNA.20 A partire da questa definizione molti studi sono stati effettuati per misurare la complessità di enti matematici e sistemi fisici,21 ma questo tipo di complessità 'algoritmica' presenta comunque un limite: sistemi completamente casuali (come il testo che si otterrebbe facendo battere una scimmia sui tasti di una macchina da scrivere) danno origine ad elevati valori della complessità misurata, mentre sistemi realmente complessi, come un fiocco di neve, ma che vengono generati da regole brevi e compatte risultano essere molto semplici. Il problema è in effetti quello di misurare il significato più che l'informazione. Anche se tentativi in questo senso sono stati fatti,22 una cornice teorica soddisfacente ancora manca. Una alternativa alla misura 'algoritmica' della complessità è la complessità 'descrittiva',23 cioè la quantità di informazione necessaria per descrivere la sua struttura apparente. Questa nozione è meno univoca della precedente, e anche se evita inconvenienti tipo quello del fiocco di neve, ne presenta altri, di cui il principale è la dipendenza da una particolare procedura descrittiva (che naturalmente, per essere oggettiva, non deve tuttavia ricadere nella descrizione del programma che genera l'oggetto su una macchina calcolatrice). Altre definizioni, poi, che potremmo chiamare complessità 'procedurale', utilizzano come misura la quantità di risorse (ad esempio la memoria di lavoro) utilizzate dal calcolatore durante l'esecuzione dell'algoritmo per la generazione dell'oggetto.24 Tutte le definizioni proposte per la misura della complessità, se colgono correttamente alcuni aspetti dei sistemi complessi, ne perdono altri, e inoltre misure diverse applicate allo stesso oggetto (ad esempio un filamento di DNA) possono dare risultati anche molto differenti tra loro. Tuttavia, il fatto che non sia stato ancora stabilito un metodo univoco per la misura della complessità non significa che non se ne siano capiti aspetti importanti; d'altra parte è proprio una delle caratteristiche dei sistemi complessi quella di sfuggire alla predittività matematica, quindi perché stupirsi se la complessità stessa è così refrattaria a farsi rinchiudere nella gabbia di una definizione quantitativa? 3. Uomo e complessità Le precedenti considerazioni non rappresentano una trattazione esaustiva delle problematiche riguardanti definizione e misura della complessità matematica, ma chiariscono i caratteri fondamentali del nuovo paradigma; chiarificazione indispensabile prima di affrontare una riflessione su come queste idee, inizialmente confinate all'ambito degli oggetti matematici e dei sistemi fisici, abbiano avuto un impatto dirompente sul pensiero degli ultimi decenni e ci costringano a rivedere le nostre prospettive sull'uomo e sul suo mondo. Ci sembra di poter indicare due fronti di rilevanza antropologica della complessità: uno interno che riguarda l'uomo come ente intrinsecamente ed essenzialmente complesso, l'altro esterno che riguarda il mondo dell'uomo: quella realtà di relazioni sociali, economiche, produttive, culturali, che ha tutti i caratteri della complessità (tanto che è proprio in questo ambito che si hanno alcune delle applicazioni più interessanti della nuova scienza). Spostiamo dunque la nostra attenzione sull'uomo e iniziamo a farlo dalla sua più profonda radice ontologica. 4. L'uomo come creatura complessa L'imprevedibilità, la gratuità, la ricchezza tipiche dei comportamenti dei sistemi complessi suggeriscono potenti analogie con il carattere essenzialmente non deterministico e libero dell'agire umano. Tuttavia, le tentazioni riduzionistiche in questo campo portano ad un duplice rischio, come ben evidenziato da Searle25 nei suoi studi sulla natura della coscienza; due posizioni diametralmente opposte che però, ad una più approfondita analisi, risultano essere le due facce della stessa medaglia: una non corretta interpretazione del cambiamento sostanziale e qualitativo che la scoperta dei sistemi complessi ha portato nella visione del mondo. Da una parte infatti, possiamo accogliere l'analogia fino al punto di accettare l'idea che i comportamenti liberi e coscienti siano totalmente compresi nell'alveo del sottostante livello biochimico e abbracciare così la visione materialista nelle varie direzioni in cui si è sviluppata.26 Portando coerentemente alle estreme conseguenze questa posizione si arriva a quella forma di materialismo 'evoluto' che è alla base dell'ipotesi dell'intelligenza artificiale forte,27 secondo cui la mente sta al cervello come il programma sta all'hardware (la conseguenza più notevole di tale ipotesi è che la coscienza e gli stati mentali di un uomo potrebbero essere trasferiti su qualsiasi sistema in grado di «eseguire il programma»). A parte argomenti di critica tecnicamente specifici che esulano dai fini della presente trattazione, osserviamo che comunque il fatto che la biochimica del cervello sia governata dalle leggi non deterministiche della fisica quantistica o che la dinamica neuronale sottostante sia non lineare non implica necessariamente la libertà e la coscienza. Tali aspetti, eminentemente umani, non sono causati dalla contingenza fisica, ma la precedono ontologicamente e la trascendono. Non è certo da classificare come libero il comportamento di un elettrone in un diodo solo perché non deterministico. La nostra esperienza quotidiana è ricca di dispositivi (si pensi al LASER o ai circuiti a semiconduttori) che fondano il loro funzionamento sui principi quantistici e tuttavia fanno esattamente quello per cui sono stati costruiti e programmati. L'agire umano appare invece ordinato e finalizzato a molteplici obiettivi che si dispiegano su orizzonti più o meno ampi. Se dunque l'accettazione di una analogia troppo stretta tra indeterminismo delle leggi fisiche e libertà dell'uomo conduce al materialismo, dall'altra parte il rifiuto di considerare la genuina emergenza di nuovi livelli ontologici a partire da dinamiche sottostanti non lineari, ci fa ricadere nel dualismo cartesiano tra res cogitans e res extensa e nell'ipotesi di un principio immateriale completamente scorrelato dalla materialità della struttura. Questa visione, intrisa di un platonismo un po' ingenuo, non ha molte basi critiche su cui fondarsi; in particolare chi scrive non condivide la tendenza di alcuni autori a fondare dimostrazioni della necessità di un principio immateriale che sia alla base dell'agire libero a partire dalle stesse leggi della fisica.28 Più convincente appare allora la prospettiva di chi, come Searle,29 considera la coscienza come un fenomeno intrinsecamente non riducibile, una proprietà emergente, che ha un carattere nuovo e ontologicamente differente rispetto ai costituenti del sistema. È precisamente in questo senso che viene fuori una certa immaterialità, senza tuttavia richiedere l'intervento di entità di carattere extramateriale. Ad ogni modo, quale che sia la posizione che si voglia abbracciare sul problema del rapporto mente-corpo, la complessità di cui è profondamente intrisa la natura umana è un dato incontestabile sul piano fenomenologico, cioè, secondo la celebre definizione di Husserl,30 una «visione originalmente offerente» che rappresenta «una sorgente legittima di conoscenza», ponendo naturalmente la massima attenzione al fatto che tale dato «è da assumere come esso si dà, ma anche soltanto nei limiti in cui si dà». Vediamo allora che, pur lasciando volutamente aperta la questione se la complessità possa essere pensiero, sicuramente potremo asserire che il pensiero richiede la complessità. Cioè la complessità è condizione di possibilità dell'agire umano: solo un sistema che abbia una reale facoltà di molteplici scelte, azioni, comunicazioni, può sostenere l'agire umano nel mondo, con tutta la immaterialità e spiritualità che lo caratterizza. Dunque, c'è un dato fenomenologico la cui evidenza si impone in maniera inconfutabile, ed è rappresentato da tutti quegli aspetti di immaterialità e spiritualità caratteristici dell'Uomo, immaterialità e spiritualità che richiedono un supporto materiale sufficientemente complesso per potersi esprimere, una sorta di materia nobile. L'essenza dell'uomo, superiore a tutto ciò che costituisce l'Universo sensibile, per attualizzarsi richiede una materia che non sia materia qualunque, ma materia complessa, sufficientemente complessa, complessa oltre una certa soglia che renda possibile un pensiero che si rapporti con lo spazio e il tempo, ma che da sola non è pensiero, non più di quanto lo sia la rete telefonica mondiale o il sistema globale di scambi economici e relazioni produttive. Il punto focale della riflessione si sposta quindi sull'origine di questa complessità, così preziosa e necessaria, anche se non sufficiente a spiegare l'essenza dell'uomo. È casuale? È il frutto di una serie di circostanze fortuite che hanno portato l'evoluzione a produrre l'homo sapiens oppure c'è un carattere di necessità in tutto ciò? L'uomo è una «opportunità colta al volo»31 tra gli innumerevoli percorsi potenziali dell'evoluzione della vita sul nostro pianeta? In termini ancora più essenziali, il meraviglioso ordine biologico che si è sviluppato dagli archeobatteri fino a quella materia nobile in grado di essere una casa per lo spirito, ha unicamente un'origine darwiniana? È contingente? Avrebbe potuto non realizzarsi mai se solo il clima dell'Africa centrale di 15 milioni di anni fa fosse stato per esempio un po' più secco o un po' più umido? Fino a non molto tempo fa la risposta a tutte queste domande era positiva, in accordo con le posizioni ufficiali della biologia teorica, secondo cui l'evoluzione darwiniana è tutto ciò che serve per spiegare i caratteri della storia della vita sulla Terra, dalle origini ad oggi, uomo compreso. Recentemente però, sulla scia della scienza della complessità, nuove originali posizioni sono sorte32 secondo cui il meccanismo darwiniano di mutazione fortuita e pressione selettiva non è da solo sufficiente a spiegare l'insorgenza dell'ordine biologico e tantomeno il suo sviluppo. Risulta che la complessità è una tendenza ineliminabile connaturata a tutti i sistemi in grado di differenziarsi e stabilire relazioni, come ad esempio una rete di reazioni chimiche o un ecosistema o anche uno scenario tecnologico produttivo. Per quei sistemi sufficientemente complessi da porsi sul confine tra ordine e disordine (sull'orlo del caos), l'autorganizzazione sorge spontaneamente e gratuitamente, e da lì in avanti innumerevoli potenziali percorsi si affacciano all'orizzonte dell'essere. L'evoluzione, poi, orienterà le contingenze di queste storie, ma in nessun modo potrà influire sulla direzione di tale movimento, che punta verso la massima ricchezza, varietà, complessità. Vi è dunque un telos nello sviluppo della vita, implicito fin dalle prime reti autocatalitiche di reazioni tra molecole organiche nei mari di 3, 8 miliardi di anni fa, una strada che porta all'uomo, pur attraverso una imprevedibile serie di contingenze. È proprio l'evidenza di questo fine, così profondamente inciso nelle leggi della materia inanimata, che fa dire a Kauffman che siamo «A casa nell'Universo»,33 nel senso di una riscoperta del senso più profondo del nostro essere nello spazio tempo, dopo che negli ultimi quattro secoli eravamo passati dal ruolo di specialissime creature create da Dio a propria immagine e poste nel centro geometrico dell'Universo, a quello di una tra le tante specie animali, selezionata fortuitamente, manifestazione di un fenomeno chiamato 'vita', realizzatosi casualmente su un pianeta non troppo grande di una insignificante stella periferica in una galassia simile a moltissime altre sparse qua e là in un Universo senza alcun centro, né geometrico né di altra natura. 5. Complessità e gratuità La complessità è ordine disordinato e disordine ordinato. Ordine perché ogni cosa è al suo posto e non si può modificare nulla senza che la funzione dell'intero sistema ne risulti compromessa, disordine perché in tutto ciò non vi è regolarità. L'ordine è la notte, la morte, il silenzio. Anche il disordine è notte, morte, silenzio. Nell'ordine totale, come nel disordine totale, non è possibile né lo spazio né il tempo; i due estremi sono esattamente equivalenti: dove non è possibile evidenziare una diversità, un punto di riferimento che rompa l'uniformità della situazione circostante non si può parlare di distanze e neanche di prima e dopo. Lo spazio e il tempo richiedono la complessità; la storia è un evento complesso, e senza un substrato complesso non avrebbe senso parlare di storia (anche naturale), basterebbero le leggi dell'ordine o il silenzio del disordine. Se la vita è complessa, la morte è intimamente necessaria alla complessità. La vita è altro dalla cristallizzazione dell'ordine e dall'indifferenza del disordine, ambedue senza tempo. Le strutture aperte che si formano in virtù delle molteplici interazioni, proprio a causa di esse, ad un certo punto devono dissolversi e liberare le risorse materiali che hanno occupato per permettere ad altre strutture di formarsi. Non può essere diversamente, senza questo necessario carattere la stessa complessità non potrebbe sussistere. Una struttura che gratuitamente appare gratuitamente scompare per permettere ad altre strutture di sorgere spontaneamente e gratuitamente. La stessa vita, forse, ha questo destino.34 Da queste considerazioni si capisce come la gratuità sia un concetto intimamente connesso alla complessità. Quella stessa gratuità che sul piano antropologico emerge ad una attenta analisi fenomenologica dal continuo bisogno d'essere dell'uomo, cioè come ontologia indigenziale,35 può essere vista su uno sfondo più ampio, che abbraccia (quantomeno) l'intero mondo della vita. In effetti, in un sistema di enti e relazioni sufficientemente ricco, gratuitamente emergono strutture e proprietà a priori non prevedibili, una realtà totalmente nuova in nessun modo riducibile al precedente livello ontologico. 6. L'uomo come costruttore di complessità L'uomo, creatura complessa, tende naturalmente a formare e creare sistemi complessi. Tali sono le reti di rapporti personali e sociali, la struttura economica, l'organizzazione del lavoro, il sistema politico. Ci troviamo quindi di fronte ancora a un dato fenomenologicamente evidente: l'universo dell'uomo non è un universo a risposta lineare. Non lo è prima di tutto egli stesso -- l'uomo -- in quanto vivente, non lo è egli stesso in quanto capace di pensiero, non lo è infine la sua cultura e il mondo che egli si costruisce. Malgrado questo, vi è un anelito sempre presente alla riduzione, alla semplificazione, alla linearizzazione. Non accettando l'irriducibile complessità che permea il suo mondo, l'uomo ha molte volte percorso la strada della riduzione e separazione, non capendo che, una volta spaccata, la complessità non è più tale e il dato risulta destinato all'incomprensibilità. In altri casi invece egli ha rivolto i suoi sforzi ad abbracciare il tutto senza volerlo dominare e sovrastare, ma accettando quello che del tutto riesce a cogliere. Vi sono profonde analogie strutturali tra un sistema complesso naturale (come ad esempio una cellula) e l'insieme dei rapporti in una qualsiasi comunità umana. In ambo i casi abbiamo una rete di relazioni tra singoli agenti in cui la presenza di ognuno di essi influenza un certo numero di relazioni, o perché ne prende attivamente parte, o perché ne rappresenta una delle condizioni di possibilità. Si tratta inoltre di sistemi aperti, che si sostengono sulla base di scambi con il mondo in cui sono immersi. Sotto quest'ottica si capisce bene quale sia l'effettivo e profondo valore della diversità. Per meglio chiarire questo concetto utilizziamo una analogia biologica, 36 considerando semplici sistemi di molecole organiche interagenti tra loro (il probabile meccanismo che diede origine alla vita sulla Terra). In molti casi una miscela di specie diverse raggiunge una configurazione di equilibrio nella quale nessuna specie nuova si crea e le concentrazioni delle specie esistenti rimangono costanti. Però può accadere che alcune specie che partecipano direttamente a certe reazioni possano giocare anche il ruolo di «facilitatori» per altre reazioni. Aumentando il numero di specie coinvolte e di possibili reazioni chimiche oltre un certo valore di soglia si osserva un rapido incremento di complessità. Da qui in poi il sistema può evolvere, aumentare la propria diversità, esplorare imprevedibili regioni (o anche ripiombare nella morte dell'equilibrio). La diversità è la radice genetica della complessità; intervenire su un sistema per ridurne la diversità significa tagliare alla base le possibilità di una evoluzione che si sviluppi creando novità. Non necessariamente un tale intervento avrà sempre una valenza etica negativa, ma sicuramente la avrà quando lo si applica alle culture umane. Se infatti uno dei caratteri della complessità è la creazione irreversibile di strutture sempre nuove che una volta sparite non si riproporranno più negli stessi termini, vi sarà, in maniera analoga alla preziosità dell'individuo irripetibile, una preziosità irripetibile delle culture. E quindi, poiché la complessità è ordine gratuito che appare e si sviluppa purché vi sia sufficiente diversità, distruggere tale diversità, imporre l'omologazione in nome di una presunta consapevolezza di avere in mano il migliore dei modelli possibili, significa negare le stesse basi ontologiche del mondo dell'uomo. Le implicazioni etiche di queste considerazioni sono di drammatica attualità. L'etica e la politica del mondo moderno sono fondate sul soggetto, sul vuoto cogito cartesiano, autoreferenziale, che trova il suo perfetto compimento nell'enunciazione del principio per cui senza il riconoscimento di un'idea di cui «non posso essere io stesso la causa [...] non avrò proprio nessun argomento che mi possa rendere certo dell'esistenza di una qualche cosa diversa da me».37 È chiaro come in questa prospettiva la diversità non solo non rappresenti un valore, ma anzi la sua cancellazione permetta al soggetto di ridurre il tutto a sé. Nella loro imprevedibilità e ricchezza i sistemi complessi sono estremamente fragili. Essi, in quanto sistemi aperti, dipendono in maniera critica dalle condizioni al contorno. Una cultura umana è una complessa struttura di agenti in interazione, fortemente dipendente dal contesto in cui è immersa. Sulla scala del gruppo ritroviamo quella preziosità e irripetibilità che caratterizza il singolo. In maniera irripetibile e irreversibile si crea, come polpa di un frutto intorno a ciò che è più essenzialmente e profondamente umano, un complesso di saperi, forme, tradizioni, che è ricchezza del gruppo ma che -- una volta conosciuto -- lo è per il resto della famiglia umana. E proprio questa potrebbe essere la maniera corretta di vivere la mondialità: non tentativo egemone di una sola cultura di ridurre tutte le altre ai propri modelli economici e politici, ma interazione reciproca nel rispetto delle peculiarità, magari superando la fase meramente conoscitiva per sperimentare inedite contaminazioni. Si tratta in fondo della risposta alle contraddizioni della cultura occidentale di chi oppone al paradigma della soggettività quello della reciprocità,38 superando anche il concetto stesso di «tolleranza» (che già nella sua etimologia ha il senso negativo di sopportazione di un peso) per sostituirlo con quello di «convivialità». D'altra parte, questa esigenza di un profondo mutamento sul piano valoriale che oramai non è più esclusivo patrimonio di poche avanguardie particolarmente sensibili e illuminate, si manifesta sempre più spesso in concrete battaglie politiche39 e proposte economiche effettivamente alternative.40 Questa diversità, che nasce nella varietà delle culture umane e al tempo stesso è la condizione di possibilità per lo sviluppo di quelle culture, è dunque ricchezza autentica, irripetibile, irreversibile. È ricchezza autentica perché profondamente radicata nell'esperienza, spesso inconsapevole, di generazioni nel corso dei secoli, stratificazione di innumerevoli contributi. Legata alla terra, al mare, alla vita, inconsapevolmente conscia, in un modo misterioso, di molte delle acquisizioni della ratio dianoetica riguardanti il paradigma della complessità.41 Diversità che è ricchezza irripetibile per l'impossibilità oggettiva di ricreare due volte le stesse condizioni. Non ci si illuda, pentimenti tardivi non potranno in alcun modo riavvolgere la pellicola della storia. È inscritto nelle più profonde leggi della complessità, è la nonlinearità per cui una piccola perturbazione riesce ad influenzare radicalmente tutta l'evoluzione di un sistema. Per gli stessi motivi la diversità è ricchezza irreversibile: quando per effetto di una spinta esterna l'equilibrio dinamico di un sistema si rompe e la sua struttura passa ad altro, non sarà possibile né invertendo il segno della spinta né in alcun altro modo ripercorrere a ritroso gli stessi passi; sarebbe come voler far rivivere il cadavere di un annegato semplicemente svuotandogli i polmoni dall'acqua. Appare dunque chiaramente come la tendenza all'omologazione, la mondialità a senso unico, l'imposizione di un modello economico, politico e culturale egemone, abbia il carattere della distruzione, della riduzione al nulla, al non essere, della perdita irreversibile, di un impoverimento generale dell'umanità. Se a questa forma di nichilismo aggiungiamo il fatto che la colonizzazione culturale è accompagnata dall'imposizione in agricoltura di estese monoculture, dalla deforestazione, dalla pesca effettuata con metodi intensivi, dal deterioramento degli ecosistemi a causa dell'inquinamento, si vede come la distruzione si porti dal piano immateriale delle culture a quello concreto della diversità biologica. Il danno per l'uomo è duplice: in quanto soggetto culturale nel primo caso, e in quanto essere vivente partecipante alla biosfera nel secondo. Guardando questa preoccupante situazione sotto la lente della complessità possiamo cogliere ulteriori aspetti che danno pienamente conto della portata della sfida a cui siamo chiamati. Invece, nella miope visione riduzionistica la ricchezza della diversità non è percepita come tale, e la complessa rete di agenti e relazioni che forma il sistema delle relazioni umane è vista solo come un limitato insieme di «qui ed ora» nelle immediate vicinanze del soggetto che, pur essendo uno tra i tanti in una rete chiusa su se stessa e quindi senza centro né periferia, nutre l'illusoria convinzione di occupare una posizione privilegiata. Note 1. G. Devoto, G. C. Oli, Dizionario della lingua italiana, Le Monnier, Firenze (1971). 2. James Gleick, Caos, Rizzoli, Milano (1989). 3. E. Lorenz, Deterministic nonperiodic flow, Journal of the Atmospheric Sciences, 20, 130 (1963). 4. B. Bertotti, P. Farinella, Physiscs of the Earth and the Solar System, Kluwer Academic Publishers (1990), cap 10. 5. Ibidem, cap. 11. 6. Ibidem, § 15. 2. 7. Si veda ad esempio la raccolta di scritti Geometria e Caso, Bollati Boringhieri, Torino (1997). 8. Si veda a proposito lo storico lavoro di Freeman Dyson sul futuro dell'Universo: F. J. Dyson, Rev. Mod. Phys., 51, 447, (1979); ma anche M. L. Kraus, G. D. Starkman, Qual è il destino della vita nell'Universo? , in Le «Scienze», 378, (2002). Si veda inoltre L. Pietronero: La struttura frattale dell'Universo, in «Le Scienze», 354 (1998). 9. Lo studio matematico dei comportamenti sociali, che tanta importanza riveste nella scienza della complessità, trova la sua pietra miliare nei lavori pionieristici di von Neumann sulla teoria dei giochi, idee che sono mirabilmente esposte in J. Von Neumann, O. Morgenstern, Theory of Games and Economic Behavior, Princeton University Press, New Jersey 1944. 10. A partire dagli storici lavori di Volterra e Lotka (V. Volterra, Atti Accad. naz. Lincei Memorie, 2, 31, 1926 e A. J. Lotka, J. Wash. Acad. Sci., 22, 461, 1932) sui modelli non lineari in biologia, la produzione sull'applicazione della scienza della complessità in biologia è stata vastissima, qui ricordiamo solo una delle ipotesi più suggestive, ovverosia il pianeta vivente, Gaia, in J. E. Lovelock, L. Margulis, Atmospheric Homeostasis by and for the Biosphere: the Gaia Hypothesis, in «Tellus", 26, 2-9 (1974). 11. J. P. Peixoto, A. H. Oort, Physics of Climate, in «Rev. Mod. Phys.», Vol. 56, 3 (1984) 12. Una esposizione divulgativa di buon livello è rappresentata dal celebre testo di H. Haken: Sinergetica -- Il segreto del successo della natura, Bollati Boringhieri, Torino (1983). 13. Per esempio, un tentativo molto interessante è quello di affrontare lo studio della biologia partendo da oggetti elementari puramente biologici, cioè non ulteriormente riducibili a sistemi fisici più semplici, illustrato in Galleni L., Forti M., An axiomatization of biological concepts within the foundational theory of E. De Giorgi, in «Rivista di Biologia/Biology Forum», 92, 77 (1999). 14. G. Basti & A. L. Perrone, Le radici forti del pensiero debole, Il Poligrafo, Padova (1996). 15. Mi sembra a tal proposito particolarmente significativo un episodio di cui io stesso sono stato testimone. Di fronte a una platea di insegnanti di fisica delle scuole medie superiori, uno stimato fisico teorico durante una conferenza sull'importanza dello studio delle particelle elementari disse che, tra le altre cose, la conoscenza dei mattoni fondamentali della materia permetterà prima o poi di comprendere tutti i fenomeni posti a un livello di organizzazione più elevato: da quelli chimici, a quelli biologici, e -- passando per la neurofisiologia -- fino alla psiche dell'uomo! 16. E. Lorenz, cit. 17. P. Musso, Filosofia del caos, Franco Angeli, Milano (1997), p. 41. 18. C. H. Bennet, Dissipation, Information, Computational Complexity and the Definition of Organization, D. Pines ed., 1987, pp. 215-231. 19. A. N. Kolmogorov, Three Approaches to the Definition of the Concept of the Amount of Information, Problemy Peredachi Informatsii 1: 1, 293-302 MR. # 2273 (1965). 20. R. Nobili, The Conceptual Basis of Theoretical Biology, in «Annales Biotheoretici», 14, 1, (1997). 21. Per esempio, la complessità di un oggetto può essere valutata dal rapporto tra la lunghezza della sua descrizione e la lunghezza di tale descrizione dopo essere stata compressa per mezzo di un opportuno algoritmo, come illustrato in: F. Argenti, V. Benci, P. Cerrai, A. Cordelli, S. Galatolo and G. Menconi, Information and Dynamical Systems: a Concrete Measurement on Sporadic Dynamics; Chaos, Solitons and Fractals, 13, 461469, (2002). 22. A. Cordelli, L. Galleni, Towards a Definition of Meaning in Biology: a Proposal for an Operative Definition, in «Rivista di Biologia/Biology Forum», 145, 96 (2003). 23. R. Penrose, La mente nuova dell'imperatore, Rizzoli, Milano (1992). 24. R. Nobili, cit., p. 18. 25. J. Searle, La riscoperta della mente, Bollati Boringhieri, Torino (1994). 26. J. Searle, cit., cap 2. 27. Una magistrale illustrazione di questa posizione si trova nel classico D. R. Hofstadter, Gödel, Escher, Bach: un'Eterna Ghirlanda Brillante, Adelphi, Milano (1990), che unisce al rigore espositivo uno stile gradevole e divulgativo. 28. M. Zatti, Dolore innocente, libertà, caso: riflessioni di filosofia naturale, in «Dialegesthai. Rivista telematica di filosofia», ISSN 1128-5478 (2004). 29. J. Searle, cit. 30. E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura e una filosofia fenomenologica (trad. it. di E. Filippini), Einaudi, Torino (1965). 31. J. Monod, Il caso e la necessità, Mondadori, Milano (1970). 32. S. Kauffman, The origins of order, Oxford University Press, New York (1993). 33. S. Kauffman, A casa nell'universo, Editori Riuniti, Roma (2001). 34. M. L. Kraus, G. D. Starkman, cit. 35. Si veda a tal proposito la dettagliata discussione su questi temi di E. Baccarini in La persona e i suoi volti, Anicia, Roma (2003), come pure in La soggettività dialogica, Aracne, Roma (2002). 36. S. Kauffman, A casa nell'universo, cit., cap. III. 37. Cartesio, Meditazioni metafisiche (a cura di Lucia Urbani Ulivi), Rusconi, Milano (1998), p. 197. 38. E. Baccarini, La persona e i suoi volti, cit., cap X. 39. Si veda ad esempio il racconto della lotta degli agricoltori francesi per la salvaguardia delle produzioni di qualità in: Josè Bovè e François Dufour, Il Mondo non è in vendita, Saggi Universale Economica Feltrinelli, Milano 2001. 40. N. Roozen, F. van der Hoff, Max Havelaar -- L'avventura del commercio equo e solidale, Feltrinelli, Milano (2003). 41. Le comunità rurali, anche nelle aree sottosviluppate del sud del mondo, trovano spesso il loro equilibrio all'interno di un sistema integrato che ha tutti i caratteri della complessità e che è formato, oltre che dall'uomo da una grande varietà di specie vegetali e animali. Per queste comunità l'incontro con i grandi gruppi transnazionali alimentari, del legname e delle sementi, che impongono monoculture intensive con mezzi industriali di specie molto spesso estranee all'ecosistema locale, quando non addirittura geneticamente modificate, comporta invariabilmente esiti di estrema drammaticità. L'avvincente descrizione dei sistemi produttivi dei villaggi rurali indiani confrontati con quello delle società multinazionali si trova nell'ormai classico: Vandana Shiva, Monoculture della Mente, Bollati Boringhieri, Torino 1995. Mimmo Pesare Eziologia e genealogia del postmodernismo filosofico 1. Il termine postmoderno Una delle caratteristiche sociolinguistiche che contraddistinguono l'epoca nella quale viviamo è una certa «vocazione» neologistica che, all'interno dei sottofenomeni di essa facenti parte, annovera la radicata attitudine all'uso sfrenato di prefissi e/o suffissi che stemperino o correggano la carica di parole il cui potenziale semantico, a seconda della circostanza, non sia facilmente addomesticabile. Paradigmatica, in questo senso, è la recente abbondanza, nel linguaggio parlato, del prefisso post- prima di sostantivi o aggettivi, ad indicare un imprecisato scarto temporale, modale o stilistico rispetto al lemma che lo segue. Escludendo, quindi, la consapevolezza degli addetti ai lavori, l'uso esagerato del prefisso postimperversa, da circa un trentennio, in ogni discorso e, in generale, in ogni ambito dell'industria culturale (nell'accezione deteriore del termine) e, di fatto, la «post-collocazione», come condizione di appartenenza, ha finito per assumere lo status di doveroso, sebbene reticente, fenomeno di definizionismo modaiolo. Così, i vari post-industriale, post-metafisico, post-comunista, postcritico, post-ideologico, e via dicendo, sono diventati comodi contenitori tuttofare per chi decide di demandare ad essi la propria utenza argomentativa e adottare la favorevole condizione di riparo (finanche molto chic) dietro baluardi di opinabili coordinate limitative e quindi difficilmente confutabili. Il caso probabilmente più emblematico è quello del termine postmoderno, che, a partire dagli anni Sessanta, per la sua insita polisemia e problematicità concettuale (ciò che viene dopo il nuovo?), ha costituito una sorta di «parola magica multiuso» al soldo dei «voltagabbana di turno».1 Probabilmente il fatto che un aggettivo come «postmoderno» abbia riscosso tanta fortuna nel linguaggio del nostro tempo si spiega con la storia stessa del termine postmodernismo. Infatti, rispetto ad altri fenomeni culturali e correnti di pensiero, legate alle transizioni strutturali di questa o quella tendenza disciplinare, scuola filosofica o avanguardia artistica, postmoderno è stato definito un «modo di sentire», e postmoderna è risultata una «temperie», una tendenza interpretativa decisamente trasversale rispetto ai particolarismi e alle differenze metadisciplinari. Non è un caso che a un certo punto (orientativamente tra la seconda metà degli anni Sessanta e i primi anni Settanta di questo secolo), l'architettura, le arti figurative e visive, la letteratura, la sociologia e la filosofia, abbiano manifestato un comune cambio di registro nei confronti del mondo. La categoria di «postmoderno», dunque, prima di codificarsi e trovare statuto nelle varie manifestazioni culturali e in particolare nella filosofia e nella sociologia (cosa che, in seno a questo lavoro, risulta di importanza centrale), nasce come un Kunstwollen, un modo di operare,2 una caratteristica metadisciplinare di spontanea esplosione e diffusione. Per quanto riguarda la genesi del termine, dalle ricerche di Michael Köhler,3 sappiamo che esso compare per la prima volta in Antología de la Poesia Española Hispanoamericana, saggio di critica letteraria di Federico de Onìs, datato 1934 (nel quale l'autore lo usa per indicare una corrente poetica contrapposta al modernismo letterario spagnolo), e in A Study of History, dello stesso anno, a cura dello storico Arnold Toynbee (che denomina «postmodernismo» la nuova fase di imperialismo di fine Ottocento caratterizzata da una politica di interazione globale da parte degli Stati nazionali). Successivamente, negli anni Quaranta e Cinquanta il termine figura sporadicamente nel contesto poetico e letterario angloamericano, come designante un generico atteggiamento di decadente reazione agli eccessi del modernismo,4 senza tuttavia una legittimazione lucida e privo di carattere di sistematicità e di autocoscienza. Solo a partire dagli anni Sessanta, Ihab Hassan, applicando categorie post-strutturaliste e decostruzioniste di matrice europea al suo lavoro di critico letterario, ha riunito sotto il termine «postmodernismo» una serie di valenze teoriche che costituiscono ancora oggi le koinai che hanno staccato dalla nebulosa postmoderna, la «categoria» postmoderno, alla quale, nello stesso periodo, aderiscono l'arte,5 la letteratura,6 l'architettura,7 la musica8 e le tendenze culturali di ogni tipo. L'opera di Hassan ha permesso di decodificare un pulviscolo di sensazioni epocali in un «clima» dotato di autoreferenzialità e di nuclei tematici ben delineati che, a distanza di tempo, rimangono attuali e imprescindibili per la comprensione -- sia pure «a grandi linee» -- del fenomeno postmoderno e che, a distanza di pochi anni, porteranno Jean-François Lyotard a scrivere La condition Postmoderne (1979),9 manifesto e atto di nascita ufficiale della riflessione filosofica sul postmoderno. Come si è accennato precedentemente, prima di arrivare alla sistemazione filosofica di Lyotard e dei filosofi che hanno continuato la riflessione intorno ai caratteri della postmodernità -- che analizzeremo in seguito --, la persuasione secondo la quale all'interno della semiosfera tipica della modernità si sarebbe verificata una sorta di cesura, o meglio un radicale mutamento di paradigma nel modo di concepire la realtà, apparteneva a un sentire comune, nato nella più completa promiscuità fra universi disciplinari differenti e caratterizzato da una tendenza apocalittica (le innumerevoli palinodie degli anni Sessanta-Settanta sulla fine dell'arte, della filosofia, della storia, del sociale, del religioso, del politico, ecc.) tipica dei periodi fin de siécle. È evidente, dunque, come il postmodernismo filosofico più compiuto ed «istituzionale» di Lyotard e seguaci, si sia nutrito di una serie di suggestioni «metafilosofiche» sfociate, poi, in un saggio che sanciva abbastanza casualmente (il lavoro, infatti, era stato commissionato Lyotard dal governo canadese, il quale aveva avviato una ricerca sul rapporto tra il sapere e le società tardo-industriali) la sistemazione di un pregnante stato delle cose. È pressoché impossibile tenere conto della molteplicità di tematiche che costituisce il calderone genealogico della filosofia postmoderna, e, come succede quando un filone di studi viene proiettato così velocemente e con tale fortuna all'interno del dibattito internazionale, la ricerca di possibili ancillarità e contributi viene macchiata di carattere ideologico, a seconda che la ricostruzione filologica del tema sia avanzata da sostenitori o da detrattori. Ci limitiamo, perciò, a soffermarci sui temi la cui influenza sul pensiero postmoderno è universalmente accettata e costituisce una imprescindibile propedeuticità ad esso: il paracriticismo di Ihab Hassan, il post-strutturalismo francese, il decostruzionismo di Jacques Derrida, le tematiche intorno all'entrata della società contemporanea nella fase postindustriale, la riflessione sui nuovi mezzi di comunicazione di massa. 2. Il paracriticismo di Ihab Hassan Il contributo di Ihab Hassan alla causa postmodernista è, in termini temporali, di tipo pionieristico. Il critico letterario statunitense di origini egiziane, infatti, già negli anni Sessanta flirtava con alcuni concetti dell'ambiente filosofico europeo, quelli della cosiddetta «rinascita nietzcheana», strutturalista e poi decostruzionista, inserendoli all'interno del proprio approccio interpretativo alla letteratura. L'importazione di tali concetti (écriture, soggetto in processo, decostruzione, piacere del testo), nel pragmatismo lineare dell'ambiente culturale americano, contribuì a codificare un clima che dai nuovi scrittori d'oltreoceano era già ampiamente condiviso, sebbene ancora disorganico e che porterà alla stesura del celebrato saggio del 1971 The Dismemberment of Orpheus.10 Nel suo lavoro più rappresentativo Hassan riprende il mito greco della cruenta morte del cantore Orfeo ad opera delle Menadi, cifrando una simbologia tutt'altro che trasparente: le Mènadi sono le avanguardie artistiche e letterarie del Novecento, mentre Orfeo rappresenta il lògos, ovvero lo spirito di razionalità elaborato dalla civiltà occidentale. Le prime fanno a pezzi il secondo, che ne aveva rifiutato le avances, e gettano il suo capo in un fiume. Ma questo galleggia e continua a cantare il suo amore per la sventurata Euridice (il mitico poeta e musico non era riuscito a strapparla -- a causa di uno sguardo incauto -- alle tenebre dell'aldilà), segno consolante che l'arte e la letteratura sopravvivranno, anche se profondamente mutate e avulse dal corpo isterilito della modernità. L'importanza dell'opera di Hassan, quindi, sta nel tentativo di dare una «coscienza» al movimento postmoderno,11 la cui struttura di significato viene costruita per mezzo di una serie di opposizioni stilistiche allo scopo di identificare i modi attraverso i quali il postmodernismo si sarebbe posto come reazione al modernismo delle avanguardie artistico-letterarie del Novecento:12 Modernismo Postmodernismo Romanticismo / Simbolismo Patafisica / Dadaismo Forma (chiusa, congiuntiva) Antiforma (aperta, disgiuntiva) Scopo Gioco Disegno Caso Gerarchia Anarchia Mestria / Logos Esaurimento / Silenzio Oggetto d'arte / Opera finita Processo / Performance / Happening Distanza Partecipazione Creazione / Totalizzazione Decreazione / Decostruzione Sintesi Antitesi Presenza Assenza Accentramento Dispersione Genere / Confine Testo / Intertesto Paradigma Sintagma Ipotassi Paratassi Metafora Metonimia Selezione Combinazione Radice / Profondità Rizoma / Superficie Interpretazione / Leggere Disinterpretare Significato Significante Lisible (Leggibile) Scriptible (Scrivibile) Narrativo Antinarrativo Dio Padre Lo Spirito Santo Sintomo Desiderio Fallico / Genitale Androgino / Polimorfo Paranoia Schizofrenia Origine / Causa Differenza -- Differanza / Traccia Metafisica Ironia Determinazione Indeterminazione Trascendenza Immanenza Come si può notare, lo schematismo bipolare di Hassan attinge idee a molti campi -- retorica, linguistica, teoria della letteratura, filosofia, antropologia, scienze politiche, psicanalisi e persino teologia -- e a molti autori -- Jakobson, de Saussure, Derrida, Lévi-Strauss, Robbe-Grillet, Lacan, Deleuze, Foucault, Barthes, Kristeva, ma anche Rosenberg, Bloom, Steiner, Auerbach, de Man, Cage, Brown, Barth, McLuhan -- , eppure lo stesso Hassan riconosce come questo non possa che essere una lista «momentanea», coerentemente con quel principio di indeterminatezza che è la stessa essenza della colonna del postmodernismo, nello schema riportato. Le differenze enucleate «mutano, differiscono, crollano; i concetti di una delle due colonne verticali non sono tutti equivalenti; inversioni ed eccezioni abbondano».13 La metodologia di Hassan, che per il suo ormai codificato carattere di interdisciplinareità ermeneutica fu, all'epoca, denominata «paracriticismo», si giovava inoltre di una serie di definizioni che tendevano a delineare un concetto per mezzo di coordinazioni di frasi indipendenti e «slegate» o per semplice accostamento semiotico: le cosiddette proposizioni paratattiche. Ne fanno parte le cinque preposizioni paratattiche sulla cultura del postmodernismo,14 celeberrime per aver fornito un ulteriore chiarimento della nozione di postmoderno: 1. Il postmodernismo dipende dalla violenta transumanizzazione della Terra, in cui terrore e totalitarismo, frazioni e insiemi, povertà e potere, si richiamano a vicenda. La fine potrebbe essere [...] l'inizio di una genuina planetarizzazione, una nuova era per l'Uno e i Molti [...]. 2. Il postmodernismo deriva dall'estensione tecnologica della coscienza, un tipo di gnosi del XX secolo, cui contribuiscono il computer e tutti i nostri vari media (compreso quel medium mongoloide che chiamiamo televisone). Il risultato è una visione paradossale della coscienza come informazione e della storia come happening. 3. Il postmodernismo si rivela, allo stesso tempo, nella dispersione dell'umano (cioè del linguaggio), nell'immanenza del discorso e della mente. [...] Qui, forse, potremmo sperare di imbatterci in aspetti più propizi del nuovo gnosticismo. 4. Il postmodernismo, quale modalità di cambiamento letterario, potrebbe distinguersi dalle avanguardie più vecchie (cubismo, futurismo, dadaismo, surrealismo, ecc.), come pure del modernismo. [...]. 5. In quanto fenomeno artistico e filosofico, erotico e sociale, il postmodernismo si rivolge verso forme giocose, desiderative, disgiuntive, dislocate o indeterminate, verso un discorso di frammenti, un'ideologia della frattura, una volontà di disfacimento, un'invocazione dei silenzi [...]. Ci si potrebbe ancora domandare: ma è all'opera in mezzo a noi qualche mutazione epistemica o sociale -- coinvolgente arte e scienza, cultura alta e bassa, i principi del maschile e del femminile, frammenti e totalità di ogni tipo? Non ci resta che congetturare in continuazione: la scrittura invisibile, l'inchiostro del tempo, diventa leggibile come storia.15 Appare fin troppo evidente nel brano riportato, come una serie di temi propri della metodologia di Hassan -- la planetarizzazione, la transumanizzazione, l'estensione tecnologica della coscienza, la centralità dei media, la storia come happening, l'immanenza del discorso, la distinzione dalle avanguardie storiche, il gioco, la disgiunzione, il dislocamento, l'autodisfacimento, la frammentazione, la mutazione epistemica-, saranno assorbiti non solo dal postmodernismo filosofico, ma anche dalle derivazioni più recenti di quest'ultimo, dalla sociologia dei media alla sociologia della globalizzazione e alla filosofia ciberpunk. 3. Il poststrutturalismo e il decostruzionismo Più che un contributo teorico, si può affermare che il cosiddetto poststrutturalismo francese abbia rappresentato per la riflessione filosofica intorno al postmoderno, un vero e proprio armamentario di nozioni e di strumenti d'interpretazione. Temi come «de-centramento», «proliferazione», «dislocamento», di importanza fondamentale per la comprensione dell'allontanamento del postmodernismo da concetti quali «centro», «struttura», «campo», sono infatti mutuati dal vasto e immaginifico serbatoio filosofico poststrutturalista.16 Come giustamente osserva Gaetano Chiurazzi, il poststrutturalismo può essere considerato la versione «postmoderna» dello strutturalismo:17 come, infatti, il postmoderno ha rappresentato una presa di coscienza dei limiti del moderno e il suo superamento, così il poststrutturalismo lo è stato dello strutturalismo.18 Esso, infatti, affermatosi in Francia alla metà degli anni Sessanta (e la cui fortuna in Europa risale al decennio successivo), deve il suo nome non all'autocomprensione del movimento, ma alla necessità di collocare temporalmente un gruppo di pensatori (come Gilles Deleuze, «il secondo» Michel Foucault, Jacques Derrida e il giovane Jean-François Lyotard) i cui ascendenti teorici e le cui conclusioni (nonché una certa affinità di linguaggio) partivano da un comune discostamento rispetto ai maestri strutturalisti degli anni Cinquanta. Più che in termini di contrapposizione, è infatti possibile pensare al poststrutturalismo come a un «ultimo sviluppo, in senso in parte antagonistico, dello strutturalismo classico»19 pensato in termini di prosecuzione e correzione del medesimo e le cui componenti essenziali sono rintracciabili all'interno della cosiddetta «Nietzsche-Reinassance» dei primi anni Sessanta, ovvero all'innesto del pensiero di Nietzsche sulla metodologia della struttura e, in maniera più pregnante, la polemica nietzschiana contro la ricerca di un fondamento ultimo, il cui ruolo era, ancora allora, identificato dalla struttura stessa. I punti di riferimento non sono più dunque De Saussure, Jakobson, le scienze umane e la linguistica, ma il trinomio della cosiddetta «scuola del sospetto», ovvero Freud e l'energetica degli istinti, Marx e l'analisi economico-energetica della società, Nietzsche e l'antropologia vitalistica, le teorie del nichilismo «attivo» e della volontà di potenza, lo smascheramento del Soggetto cartesiano e idealistico. In quest'ottica, gli stilemi degli strutturalisti vengono spinti dai loro epigoni fino alle conseguenze più estreme: se per i primi la struttura (linguistica, sociale, letteraria, antropologica, economica) è la forma apollinea della rappresentazione e del senso, per i secondi essa perde il carattere di depositaria del «senso» e viene spinta fino ai limiti dell'irrappresentabile;20 se per i primi il senso delle cose viene scoperto attraverso le differenze, per i secondi queste vengono sovvertite e decostruite. Proprio nella diversa concezione del concetto di differenza, probabilmente, è possibile mostrare la consistente eppure sottile distanza tra il sentire strutturalista e quello poststrutturalista. Da principio organizzatore, classificatore, tassonomico e quindi razionalizzante del reale, la differenza, da Deleuze riproposta col neologismo differance -- talvolta tradotta in italiano con differenza -diventa principio sovversivo e destabilizzante, simbolo della negazione di qualsiasi centralizzazione e unità (fosse anche quella della struttura quale meta-principio di catalogazione e sistemazione). Ogni espressione è un tessuto di ripetizioni, rinvii, innesti che rendono impossibile il pervenimento a un significato ultimo e «trascendentale», il cui dominio sfugge, essendo disseminato e ibridato. Il poststrutturalismo propone, dunque, una realtà completamente desoggettivizzata in cui le differenze, libere e molteplici, non sono assoggettate a nessuna struttura o «centro» organizzatore, ma in continuo processo e divenire. Anche il linguaggio, infine, è considerato, in quanto struttura, un elemento di neutralizzazione e canalizzazione delle energie; la rivoluzione e la liberazione del desiderio deve allora giocarsi anche sul piano linguistico: questa la tesi che costituisce l'essenza stessa del pensiero e dell'opera filosofica di Jacques Derrida, dai cui scritti ha preso vita una corrente, il decostruzionismo, che prende appunto il nome dalla pratica della «decostruzione», possibile traduzione del termine heideggeriano Destruktion,21 ovvero la doverosa distruzione della storia della metafisica e del sistema concettuale da cui, per secoli, è stata dominata. Come gli altri pensatori francesi della sua generazione, Derrida avversa il «logocentrismo della stuttura», ovvero la proiezione del Soggetto22 della metafisica classica che, nello strumento eristico per eccellenza degli strutturalisti, ha messo radici e detta legge. Il progetto filosofico di Derrida, quindi, si identifica in una programmatica decostruzione della «metafisica della presenza»23 che ha caratterizzato la tradizione filosofica occidentale. La metafisica europea, infatti, avrebbe considerato l'Essere come un ente attingibile e reso «presente» attraverso la parola -- il logos- e la voce (da cui il termine logocentrismo), cui Derrida contrappone un Essere che, proprio in quanto definibile solo per differenza e irriducibile a ogni tipo di identità originaria, detiene, invece, gli attributi dell'assenza, di cui non si danno rappresentazioni, ma esclusivamente tracce. In quest'ottica, all'idea metafisica del primato della voce/logos sulla scrittura, ovvero del primato della presenza dell'Essere sull'assenza dell'Essere, viene sostituito il primato della scrittura sulla voce.24 Dall'idea della scrittura come fenomeno risultante dall'oralità, si passa all'idea secondo la quale è il linguaggio a essere anticipato dalla scrittura, poiché, come argomenta Derrida, si parla riferendosi a testi, ovvero a un nodo di tracce che rimandano a un'assenza: quella dell'autore, che nella rappresentazione del testo attua il proprio autodisfacimento. Ecco che in quest'opera di «rovesciamento» dei fondamenti del linguaggio, indicativa risulta la pregnanza della nozione derridiana di testualità, una concezione del testo scritto non come sistema definito e dato in maniera ultima, ma come circolarità aperta, continuamente ri-definibile e non riconducibile a un'unità, nella quale non è mai possibile pervenire a un'origine, né a un originario referente. Si ha sempre e solo a che fare con una catena di rinvii senza soluzione di continuità che viene a essere definita esclusivamente mediante il meccanismo della differance: per negazione, cioè, di ogni composizione unitaria, di ogni telos, di ogni razionalità onnicomprensiva, scardinando l'egemonia del «centro». Appare chiaro, dunque, come l'eredità di questo approccio sia fondamentale per comprendere il tema della pluralità dei codici e dei linguaggi, centrale nella teoria postmoderna, nonché sia applicabile ante litteram alla situazione contemporanea della multimedialità, dell'ipertestualità e della contaminazione «in rete», che della teoria postmoderna sono l'esito ultimo e più complesso. 4. La società post-industriale La nostra ipotesi di lavoro è che il sapere cambi di statuto nel momento in cui le società entrano nell'età detta postindustriale e le culture nell'età detta postmoderna. Questa rivoluzione è iniziata almeno a partire dalla fine degli anni Cinquanta, che in Europa segnano la fine della ricostruzione.25 Questo l'incipit del capitolo I (Il campo: le società informatizzate) de La condizione postmoderna. Com'è evidente, Lyotard parte programmaticamente dai testi di Alain Touraine26 e Daniel Bell27 (indicati in nota dall'autore all'interno del brano riportato), per costruire l'impianto dell'opera che lo renderà celebre nel dibattito filosofico degli anni Ottanta. In effetti le mutazioni strutturali connesse con la fine dell'età moderna intorno agli anni Settanta sono saldamente collegate e quasi ancillari alla messa in luce del ruolo decisivo svolto dal sapere teorico nell'innovazione sociale, e locuzioni quali «condizione postmoderna», «avvento postindustriale», «società dell'informazione», «società tecnotronica» e così via, appartengono a un'infosfera comune che ha come tratto d'unione l'idea che la società contemporanea sia caratterizzata dal ruolo istituzionale svolto dalla scienza, dai valori posti dal sapere, dall'accentuazione del carattere tecnico delle decisioni da prendere, dall'accresciuta partecipazione di nuove elites tecniche alla vita sociale. Lyotard afferma che l'evoluzione verso la società postmoderna dell'informazione è iniziata alla fine degli anni Cinquanta con l'avvento e l'introduzione dei sistemi informatici. In realtà, anche se intuibili dalle menti più acute, la rivoluzione informatica non comportò cambiamenti significativi negli assetti dell'organizzazione sociale in cui andava ad inserirsi: con la sua centralizzazione, con il suo essere fondamentalmente computazionale e gestionale, l'informatica del mainframe rappresentava sicuramente un'innovazione tecnologica importantissima ma non una vera «anomalia» tale da modificare assetti e paradigmi sociali; era uno strumento tecnico al servizio, almeno inizialmente, dei paradigmi dominanti (basati, essenzialmente, sul principio del controllo verticale) della società industriale che stava uscendo «trionfalmente» dalle rovine del suo secondo conflitto mondiale. Già dalla fine degli anni Sessanta, la configurazione geopolitica che legittimava, in nuce, le nozioni di società dell'informazione o di società globale si trovava esplicitata nell'analisi delle conseguenze internazionali della convergenza tra informatica e telecomunicazioni di Zbigniew Brzezinski, ricercatore sociale e storico dei problemi del comunismo, divenuto poi consigliere per la sicurezza nazionale del presidente americano James Carter. La tesi centrale del suo lavoro più fortunato, Between two Ages (Tra due età),28 è che, grazie al dominio delle reti mondiali, gli Stati uniti sono diventati la prima società globale della storia, quella in cui la comunicazione è ai massimi livelli; il modello di "società globale" da essa rappresentato, prefigura il destino delle altre nazioni: i nuovi valori universali irradiati dall'America cattureranno inevitabilmente l'immaginazione dell'intera umanità e questo è stato possibile principalmente grazie al ruolo di testa assunto dalla «classe tecnica» statunitense. In ogni caso, Alain Touraine rimane il primo sociologo che usa l'aggettivo «postindustriale» in maniera sistematica: nel suo noto saggio del 1969,29 infatti, egli definisce la società postindustriale come un campo in cui giocano nuovi attori sociali che si collocano al di là del conflitto precedente tra operai e classe imprenditoriale; dopo il declino del movimento operaio il conflitto si è spostato dal mondo del lavoro al campo della cultura. Di fatto, per Touraine, le nuove lotte e i nuovi movimenti di contestazione si dirigono contro quelle forme di dominazione che, estendendosi ben al di là della produzione materiale, toccano l'insieme della vita sociale a livello dei consumi, dell'informazione, dell'educazione. Tuttavia l'accezione di postindustriale che è rimasta in maniera più pervicace nell'immaginario sociologico contemporaneo è sicuramente quella -- meno socio-politica e più socio-economica -- di Daniel Bell. Nel 1973, appena quattro anni dopo l'uscita del lavoro di Touraine in Francia, Daniel Bell, un ricercatore americano che si era interessato durante tutti gli anni Cinquanta quasi esclusivamente di sociologia dei movimenti politici e che nel 1960 aveva elaborato con La fine dell'ideologia30 una prospettiva teorica sulla messa in crisi delle ideologie politiche o «di partito» nelle società contemporanee, pubblicò The Coming of Post-Industrial Society31 (L'avvento della società postindustriale), in cui la sua precedente tesi della fine dell'ideologia si collega al concetto di un nuovo tipo di società industriali avanzate che sarebbero, appunto, scevre da incanalamenti ideologici e caratterizzate da una radicale trasformazione dei modi di produzione. Nel 1956, per la prima volta in un paese del mondo -- gli Stati Uniti -- i colletti bianchi (impiegati, professionisti, tecnici) superarono, per numero, i colletti blu (operai); Bell individuò in quella data l'inizio simbolico della società post-industriale, evento storico paragonabile a quello che, nell'Inghilterra di cento anni prima, aveva segnato il sorpasso dei lavoratori industriali sui contadini. L'ordine post-industriale si contraddistingue per una crescita del settore dei servizi a discapito dell'occupazione nel settore della produzione di beni materiali; gli operai nelle fabbriche e in officina e, già da prima, quelli agricoli, non rappresentano più la categoria paradigmatica di lavoratori: il numero degli impiegati (di ufficio o liberi professionisti) ha superato quello dei lavoratori manuali e in particolare si richiedono sempre più competenze tecniche e professionali; chi svolge lavori impiegatizi di elevato livello è specializzato nella produzione di oggetti d'informazione e di sapere; la produzione ed il controllo di quello che Bell chiama «sapere codificato» (l'informazione coordinata e sistematica) rappresenta la principale risorsa strategica da cui dipende la moderna società e coloro che sono impiegati nella sua produzione e diffusione acquistano sempre più potere e si sostituiscono ai vecchi gruppi sociali dominanti (industriali e imprenditori). Nell'ambito della società post-industriale si ha un indebolimento della «disciplina», caratteristica della società industriale: gli individui sono ora più liberi di intraprendere condotte innovative sia nel campo lavorativo che nella vita privata. Detto coi termini dell'autore, questo nuovo assetto si caratterizzerebbe attraverso cinque «dimensioni»: 1. settore economico: il passaggio da un'economia fondata sulla produzione di beni a un'economia di servizio; 2. struttura occupazionale: la preminenza della classe professionale e tecnica; 3. principio assiale: la centralità della conoscenza teorica come fonte di innovazione e di formulazione delle scelte politiche della società; 4. orientamento futuro: il controllo della tecnologia e la valutazione tecnologica; 5. processi decisori: la creazione di una nuova «tecnologia intellettuale».32 Come indica il sottotitolo del libro, A Venture of Social Forecasting (Un tentativo di previsione sociale), Bell formula una serie di pronostici, e costruisce, estrapolando alcune tendenze (trends) strutturali osservate negli Stati uniti, una società-tipo ideale, caratterizzata dall'ascesa di nuove élites (il cui potere risiederebbe nella nuova «tecnologia intellettuale» concepita in funzione dei processi decisionali) e dalla preminenza della «comunità scientifica», una «comunità carismatica», universalista e disinteressata, «senza ideologia». Una società gerarchizzata orizzontalmente e governata da uno stato sociale accentratore e pianificatore del cambiamento,33 una società allergica all'idea di rete e al tema della «democrazia partecipativa». In questa società dove l'economia si sposta verso i servizi tecnici e professionali, la crescita è lineare ed esponenziale. Nel 1995, per la prima volta al mondo, sempre negli Stati Uniti, si sono venduti più computer che televisori34 e sono stati scambiati più messaggi tramite Internet che tramite le poste: ormai, infatti, il 40% delle famiglie americane ha un computer, il 25% ha due computer e per dieci anni consecutivi gli abbonamenti a Internet sono aumentati del 5% ogni anno.35 Nel settore dell'informatica il cambiamento è così veloce che l'80% del fatturato attuale deriva da prodotti che due anni fa neppure esistevano.36 Il suo business articolato nel settore dell'informatica vera e propria, dei comunicatori e della commutazione, rappresenta ormai il 6% dell'intera economia mondiale. La presenza di un computer in ogni ufficio e in ogni casa ha agevolato un atteggiamento radicalmente nuovo verso le categorie ancestrali del tempo e dello spazio. Note 1. G. Patella, Sul postmoderno. Per un postmoderno della resistenza Studium, Roma, 1990, p. 7. 2. A questo proposito è interessante la proposta di Umberto Eco, secondo il quale il postmoderno non è una tendenza circoscrivibile cronologicamente, ma una categoria spirituale: «ogni epoca ha il proprio postmoderno, così come ogni epoca avrebbe il proprio manierismo [...] La risposta postmoderna al moderno consiste nel riconoscere che il passato, visto che non può essere distrutto, perché la sua distruzione porta al silenzio, deve essere rivisitato: con ironia, in modo non innocente.» (Postilla a Il nome della rosa, Bompiani, Milano 1984). 3. M. Köhler, «Postmodernismus»: Ein Begriffgeschichtlicher Überblik, in «Amerikastudien/American Studies», n. 22, 1977, pp. 8-18; trad. it. «Postmodernismo»: un panorama storico-concettuale, in AA. VV., Postmoderno e letteratura. Percorsi e visioni della critica in America, Bompiani, Milano 1984, pp. 109-122. 4. Inteso, in questa accezione, semplicemente come Weltanschauung complessiva dei movimenti d'avanguardia dell'Ottocento e inizio Novecento. 5. Nasce negli USA, in questi anni, la tendenza a sfidare in nome del pop l'elitismo dell'arte moderna: l'anello di congiunzione tra le avanguardie e i prodromi della pop-art (vera alter-ego del postmodernismo nelle arti figurative) è costituito da Marcel Duchamp e dalla sua estetica del ready-made, secondo la quale un oggetto di uso quotidiano, firmato dall'artista costituisce un'opera d'arte che diviene oggetto di scambio, perdendo il valore auratico originale. La famosa massima «usare un Rembrandt come asse da stiro» è la sintesi di questa dissacrante estetica iconoclasta che vedrà nella pratica della serializzazione di Andy Warhol (il più rappresentativo e innovativo esponente della pop-art) l'esito più maturo della particolarissima «morte dell'arte» di matrice postmoderna (cfr. R. Barilli, L'arte contemporanea. Da Cézanne alle ultime tendenze, Feltrinelli, Milano 1988, pp. 300-310). 6. Intorno agli anni Sessanta, Hassan e altri studiosi statunitensi (Fiedler, Kristeva) presero ad applicare categorie estetico-teoriche tipiche del post-strutturalismo francese e della Nietzsche-Reinassance europea (come le nozioni di de-costruzione, écriture, soggetto in processo, differance, piacere del testo) alle opere di autori americani, insistendo sulla perdita del «senso umanistico» e pseudo-ideologico che aveva caratterizzato la Beat Generation e la produzione letteraria precedente (cfr. AA. VV., Postmoderno e letteratura, op. cit.). 7. Per quanto riguarda l'architettura è possibile fissare al 1972 la data simbolica di passaggio al postmodernismo, anno in cui il complesso di Pruitt-Igoe di Saint Louis -- una realizzazione di quella «macchina per abitare» teorizzata da Le Corbusier -- venne demolito in quanto ritenuto ambiente inabitabile anche per le persone di basso reddito che vi vivevano. Gli architetti iniziarono a pensare che bisognasse costruire non più per l'Uomo, ma per la gente, per gli uomini concreti, tenendo presenti le loro condizioni effettive di vita e le loro esigenze. Potremmo sintetizzare così questo passaggio: da un tipo di prospettiva che voleva cogliere sì le differenze, le singolarità, ma sempre inscrivendole in una realtà sottostante, sebbene complessa e multiforme, si passò con il postmodernismo a spostare l'accento solo sulle singolarità, sulle differenze, sulla coesistenza e collisione di realtà radicalmente diverse e multiformi. Il postmodernismo rifiutò qualsiasi riferimento ad una realtà sottostante e unificatrice, ritenendo fondamentale solo l'attenzione per ciò che registrava ed evidenziava il senso di frammentazione, di caos, di singolarità, di discontinuità (cfr. D. Harvey, The Condition of Posmodernity, Basil Blackwell, 1990; trad. it. La crisi della modernità, Il Saggiatore, Milano, 1993.) 8. È evidente quanto nella transizione dal rock colto al punk e alla new wave e alla conseguente carnevalizzazione e performatività dei gruppi musicali anni '70 e '80, sia risultata pregnante la temperie culturale postmoderna (cfr. M. McLarhen, The Great Rock'n'Roll Swindle, Arcana Editrice, Milano 1982). 9. J.-F. Lyotard, La condition postmoderne, Minuit, Paris, 1979; trad. it. La condizione postmoderna, Feltrinelli, Milano 1980. 10. I. Hassan, The Dismberment of Orpheus. Toward a Postmodern Literature, The University of Milwaukee Press, Madison, 1971. 11. Definizione, peraltro, rifiutata da Hassan, che reputa «indefinibile» il clima culturale analizzato. 12. Cfr. I. Hassan, Pluralism in Postmodern Perspective, in Critical Inquiry, 12, n. 3, 1986. 13. Ibidem, p. 100. 14. Ibidem, p. 102. 15. Ibidem, p. 106. 16. Cfr. G. Fornero e F. Restaino, Nicola Abbagnano. Storia della Filosofia, vol. X, «La filosofia contemporanea», tomo IV, pp. 3-16. 17. Cfr. Chiurazzi, Il postmoderno, Bruno Mondadori, Milano 2002. 18. Orientamento teorico e metodologico risalente, con diramazioni successive, all'opera del linguista svizzero Ferdinand de Saussure, che considera la lingua come un insieme strutturato di elementi interagenti e interdipendenti; successivamente la definizione è stata adottata anche per indicare gli indirizzi di pensiero che hanno esteso alle scienze umane i principi dello strutturalismo linguistico, per cui i fenomeni culturali sono visti come insiemi organici tra i cui componenti vigono relazioni costanti e sistematiche: l'antropologia (con Claude Levi-Strauss), la critica letteraria (con Roland Barthes), la psicanalisi (con Jacques Lacan), l'esegesi marxista (con Louis Althusser), la filosofia della cultura (con Michel Foucault) e la neo-liguistica (con Roland Jakobson). Per una comprensione analitica del fenomeno cfr. G. FORNERO e F. RESTAINO, Nicola Abbagnano -- Storia della Filosofia, volume decimo -la filosofia contemporanea-, tomo primo pagg. 314-483. 19. F. D'Agostini, Analitici e Continentali. Guida alla filosofia degli ultimi trent'anni, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1997, p. 405. 20. Lo spazio dell'irrappresentabile, per i poststrutturalisti corrisponde a quello «spazio di significazione» i cui motivi trainanti sono le forze pulsionali, il gioco, il desiderio, i «principii dinamici», ovvero tutti quelle strutture psico-energetiche (Deleuze) che alimentano le forze di produzione (culturale, artistica, economica), normalmente inibite e imprigionate dai vari tipi di «struttura» (nuova traduzione «scientistica» di concetti quali «Dio», «Soggetto», «Stato», «Ideologia»). 21. M. Heidegger, Sein und Zeit, Niemeyer, Tübingen 1927. 22. Inteso come «fodamento» che soggiace a ogni fede metafisica tradizionalmente acquisita. Per una definizione analitica del termine, cfr. la voce «soggetto» dell'Enciclopedia Garzanti di Filosofia, ed. 1993. 23. Cfr. N. Abbagnano, G. Fornero, Filosofi e filosofie nella storia, Paravia, Torino 1990, vol. III, p. 611. 24. Cfr. G. Deleuze, La scrittura e la differenza (1967), trad. it. Einaudi, Torino, 1991. 25. J.-F. Lyotard, La Condition Postmoderne, Minuit, Paris, 1979; trad. it. La condizione postmoderna, Feltrinelli, Milano, 1980, p. 9. 26. A. Touraine, La società post-industriale (1969), Il Mulino, Bologna 1970. 27. D. Bell, The coming of post-industrial society. A Venture of Social Forecasting, Basic Books, New York 1973. 28. Z. Brzezinski, Between Two Ages, The Viking Press, New York 1970. 29. A. Touraine, op. cit. 30. D. Bell, The End of Ideology, Glencoe, III., Free Press, 1960. 31. D. Bell, 1973. 32. D. Bell, op. cit., p. 161. 33. Da qui l'insistenza sul ruolo dei metodi di «monitoring» e di «assessment» delle mutazioni tecnologiche. 34. Dati ricavati da http://www.census.gov/epcd/www/econ97.html. 35. Ibidem. 36. Ibidem.