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Alessandro Cordelli
Complessità e mondo dell'uomo
1. Introduzione
Gli ultimi decenni del secolo scorso sono stati testimoni di una epocale rivoluzione nel pensiero
scientifico, una rivoluzione che per certi aspetti non si è ancora pienamente conclusa, e le cui
avvisaglie erano già presenti molto tempo prima di quel giorno d'inverno del 1961 in cui la corretta
interpretazione di un apparente errore computazionale aprì la strada ad un cammino irreversibile
nella storia della scienza. A proposito di questa rivoluzione si è parlato di caos, nonlinearità,
olismo, frattali, catastrofi e altro ancora, ma il concetto che meglio racchiude ed esprime il
carattere della nuova linea di pensiero è quello di complessità. Nel giro di poco tempo abbiamo
dovuto accettare una serie di cambiamenti nella tradizionale visione della natura che, pur nella
varietà degli ambiti di applicazione esplorati, fanno comunque capo a due fondamentali principi:
gli effetti non sono proporzionali alle cause, e il tutto è qualcosa in più rispetto alla somma delle
parti. Non che questi principi non fossero presenti nella scienza anche in precedenza, ma venivano
considerati come caratteristiche non essenziali della natura, contingenze che con opportune
approssimazioni potevano essere eliminate senza pregiudicare la profonda comprensione dei
fenomeni. Invece gli sviluppi della nuova scienza hanno mostrato come la natura, dal livello dei
costituenti elementari a quello dei sistemi biologici più strutturati fino alla rete delle relazioni
sociali ed economiche umane, sia intrinsecamente e irriducibilmente complessa, cosicché ogni
approssimazione che riporti la descrizione dei sistemi ad un modello con interazioni lineari e che
separi una parte dal resto è destinata a mancare l'obiettivo di una corretta spiegazione dei
fenomeni.
Il paradigma della complessità, molto più di tante altre rivoluzioni scientifiche, ha avuto importanti
ricadute anche al di fuori dell'ambito delle scienze naturali, influenzando il pensiero moderno dai
livelli più alti fino al senso comune, e ha fornito nuovi strumenti interpretativi per tutta la realtà.
Naturalmente la critica al riduzionismo non nasce con la teoria del caos, ma questa ha fornito
nuovi potenti strumenti di analisi concettuale per muoversi in tale direzione.
Lo scopo del presente lavoro è quello di mettere in evidenza alcuni degli aspetti della scienza della
complessità che meglio possono intervenire nella riflessione sull'uomo. La discussione non ha
pretese di sistematicità (un interno trattato non sarebbe sufficiente), ma vuole piuttosto essere un
volo d'aquila, un'incursione sui vastissimi panorami concettuali che si sono aperti con lo studio dei
sistemi complessi, cogliendo ed evidenziando qua e là aspetti che, si spera, possano rappresentare
interessanti spunti per il lettore. Dopo aver quindi cercato di focalizzare la nostra attenzione sul
concetto di complessità come emerge dalle scienze della natura, passeremo a vedere in quale senso
l'uomo e il suo mondo sono complessi, evidenziando due aspetti fondamentali. In primo luogo
l'uomo come creatura complessa, non solo e non tanto come qualsiasi essere vivente, ma anche e
soprattutto perché ciò che lo caratterizza e distingue dal resto dei viventi, gli aspetti immateriali del
pensiero e della coscienza, ha sostanzialmente il carattere della complessità. Ma non solo l'uomo è
complesso in sé, egli è anche creatore di complessità. Ogni sistema sociale e culturale ha in sé
eminentemente la ricchezza e l'irripetibilità proprie della complessità. Ed è a questo punto che la
riflessione, partita dal piano della filosofia naturale e passata poi su quello antropologico, approda
a quello etico. La comprensione dei sistemi umani come sistemi complessi svela il profondo
nichilismo delle molte operazioni a cui siamo quotidianamente costretti ad assistere, volte a
omologare (con le buone o con le cattive) la totalità delle manifestazioni umane ad un unico
modello culturale, politico ed economico.
2. L'orizzonte della complessità
Contrariamente a quanto accade per molti dei concetti su cui si basano le teorie scientifiche, per la
complessità esiste un serio problema di definizione. Uscendo poi dal recinto fisico matematico, la
nebbia che sfuma i contorni dell'oggetto dell'indagine si fa ancora più fitta. Alla ricerca di un punto
di partenza, un aggancio, un centro intorno a cui costruire la riflessione, facciamo quindi la cosa
più ovvia (ma non per questo la meno opportuna) che di solito si fa in queste circostanze.
Complessità: s. f., modo di essere o di presentarsi (dovuto generalmente a profondità, minuziosità,
disposizione o svolgimento necessariamente complicati) che rende difficile l'orientamento o la
comprensione: la c. di un ragionamento, di una situazione.
È questa la definizione di complessità fornita da un dizionario della lingua italiana1 che dovrebbe
riflettere il significato del termine nel linguaggio comune. Essa però non ci dice cosa è la
complessità, ma solo quale è il nostro rapporto di soggetti conoscenti con essa: il complesso è ciò
che indubitabilmente è, ma altrettanto indubitabilmente non si lascia afferrare totalmente; a
seconda dei contesti sarà causa di sconforto, paura, preoccupazione, ma anche meraviglia e
stupore.
I due termini 'semplice' e 'complesso' si appoggiano l'uno sull'altro. Pensiamo il semplice come
opposto al complesso, ma anche il complesso può essere pensato a partire dal semplice. Non esiste
una valenza di neutralità: il non semplice è complesso e il non complesso semplice. Semmai si
tratta di un confine mobile. Ciò che per me appare semplice per un altro può essere complesso, e
anche la stessa persona può giudicare in due diversi momenti esistenziali lo stesso dato o insieme
di dati ora come semplice, ora come complesso. La complessità è quella regione dove la parte
analitica del pensiero si smarrisce. Potremmo forse dire che è legata alla molteplicità delle relazioni
e degli agenti, ma è facile riconoscere che esistono situazioni estremamente complesse con poche
variabili. Addirittura, la complessità come scienza2 nasce con un sistema avente solo tre gradi di
libertà.3 E tuttavia è sicuro che un sistema formato da un unico ente, senza alcuna relazione con
null'altro, è semplice; lo è per la matematica e per la fisica come per la mentalità comune. Se allora
l'unico, l'irrelato, è il semplice, la relazionalità è sicuramente una condizione di complessità: dove
c'è complessità c'è relazione. Ma esiste l'unico, l'irrelato, il semplice, nella realtà? Da un punto di
vista fenomenologico la domanda non ha senso: un tale ente, se pure esistesse, sfuggirebbe alla
percezione, all'indagine scientifica, più in generale a qualsiasi possibilità di conoscibilità. Ogni ente
infatti, deve necessariamente avere la capacità di interagire ad un qualsiasi piano
dell'organizzazione del reale (materiale o immateriale) altrimenti la sua esistenza è un «per sé"
completamente scorrelato dal resto dell'Universo. Quindi ogni ente è relazionale e strutturato,
pertanto potenzialmente complesso (o almeno capace di partecipare alla complessità).
Si potrebbe pensare che passando dal piano generale ontico a quello più delimitato degli oggetti
che cadono nel campo di indagine delle scienze positive la comprensione della complessità come
concetto sia più agevole e si possa anche giungere a formularne una definizione soddisfacente ed
esaustiva. In realtà questo non accade. E il fatto che sia così difficile definire la complessità
utilizzando le categorie galileiane non dovrebbe poi stupirci più di tanto: infatti la scienza
occidentale moderna si è sviluppata su una linea diametralmente opposta a quella della
complessità, vale a dire seguendo il paradigma del riduzionismo. Da Galileo in poi, ridurre e
separare è stato un procedimento che ha permesso di raggiungere grandissimi risultati: nel
fenomeno naturale si individuano alcune variabili di interesse trascurando tutte le altre e si
descrivono le loro relazioni reciproche mediante un modello matematico basato su equazioni
possibilmente lineari (cioè tali che la risposta sia proporzionale alla sollecitazione). Dunque
riduzione, separazione, linearizzazione: questi i canoni di un paradigma da cui emerge la semplicità
più che come dato di realtà come operazione del pensiero (quindi non semplicità ma
semplificazione). Così uno stesso sistema presenta un comportamento lineare se ci riferiamo a un
sottoinsieme delle variabili che lo descrivono e sotto particolari condizioni al contorno, ma
complesso se allarghiamo l'orizzonte della nostra indagine ad altri aspetti. Prendiamo ad esempio il
problema classico della meccanica celeste. L'orbita di un pianeta attorno al Sole è ben descritta
dalle equazioni di Newton per il problema dei due corpi4 che ne permettono una esatta e completa
risoluzione. Se però andiamo a vedere il reale effettivo moto di un pianeta, osserviamo che la sua
orbita è perturbata dalla vicinanza degli altri corpi celesti,5 in modo tale che deve essere
considerata l'evoluzione del sistema solare come un tutto. Tale evoluzione presenta tutti i caratteri
della complessità6 e non ammette quindi una descrizione matematica completa ed esaustiva. Per i
primi quattro secoli della scienza occidentale moderna questa limitazione non ha rappresentato un
grosso problema, anche perché tutti i sistemi studiati erano 'naturalmente' riducibili e separabili
(nel senso che le variabili trascurate danno origine a effetti quantitativamente ridotti rispetto
all'entità del fenomeno principale) e 'naturalmente' lineari (nel senso di essere governati da
equazioni in cui il contributo dei termini non lineari è largamente inferiore a quello dei termini
lineari). Poi, negli ultimi decenni del secolo appena conclusosi (ma con forti indizi già a partire dai
pionieristici lavori di Poincaré7 a cavallo tra otto e novecento), l'indagine scientifica si è trovata di
fronte ad una classe totalmente nuova di sistemi, intrinsecamente non riducibili, non separabili,
non lineari. Sistemi la cui evoluzione è sostanzialmente non predicibile con i tradizionali strumenti
matematici e che presentano fenomeni di emergenza di nuove proprietà e di organizzazione
spontanea, gli stessi caratteri all'origine della vita. E la cosa veramente notevole è che tali sistemi
non sono peculiari di una o l'altra delle tradizionali divisioni tassonomiche della scienza (chimica
organica, fisica dei solidi, biologia molecolare, etc.) ma si ritrovano, legati da forti analogie
strutturali, nei campi più disparati: dalla cosmologia8 ai modelli sociali,9 dalla biologia10 alla
meteorologia,11 solo per citarne alcuni. Si può dunque affermare che con la nascita della scienza
della complessità12 le categorie epistemologiche devono essere radicalmente ripensate. Con tutto
questo, se da più parti si fanno tentativi e si cerca di muoversi nella direzione della ricerca di
paradigmi qualitativamente nuovi13 e strumenti matematici alternativi,14 una buona parte della
comunità scientifica è ancora convinta che la complessità vada comunque affrontata con
l'approccio tradizionale del riduzionismo, in quanto la completa conoscenza dei costituenti
elementari di un sistema è ciò che occorre e basta per risalire ad ogni comportamento o fenomeno
che esso possa esibire.15
A partire dai primi pionieristici lavori di E. Lorenz16 sui semplici modelli non lineari meteorologici
moltissimi sistemi fisici, biologici, sociali sono stati studiati sotto un'ottica non riduzionista, ma a
tutt'oggi, una definizione chiara ed esaustiva del concetto di complessità non esiste;17
ciononostante le varie definizioni proposte tengono conto ora dell'uno ora dell'altro degli aspetti
caratterizzanti i sistemi complessi.18 Fondamentale è la definizione di Kolmogorov19 della
complessità di un oggetto come la minima quantità di informazione necessaria a programmare un
calcolatore per produrre l'oggetto. Sebbene questa definizione sia strettamente applicabile solo ad
enti matematici, essa può essere estesa anche ad oggetti naturali; ad esempio per un essere vivente
tale informazione sarà rappresentata dal suo DNA.20 A partire da questa definizione molti studi
sono stati effettuati per misurare la complessità di enti matematici e sistemi fisici,21 ma questo tipo
di complessità 'algoritmica' presenta comunque un limite: sistemi completamente casuali (come il
testo che si otterrebbe facendo battere una scimmia sui tasti di una macchina da scrivere) danno
origine ad elevati valori della complessità misurata, mentre sistemi realmente complessi, come un
fiocco di neve, ma che vengono generati da regole brevi e compatte risultano essere molto semplici.
Il problema è in effetti quello di misurare il significato più che l'informazione. Anche se tentativi in
questo senso sono stati fatti,22 una cornice teorica soddisfacente ancora manca. Una alternativa
alla misura 'algoritmica' della complessità è la complessità 'descrittiva',23 cioè la quantità di
informazione necessaria per descrivere la sua struttura apparente. Questa nozione è meno univoca
della precedente, e anche se evita inconvenienti tipo quello del fiocco di neve, ne presenta altri, di
cui il principale è la dipendenza da una particolare procedura descrittiva (che naturalmente, per
essere oggettiva, non deve tuttavia ricadere nella descrizione del programma che genera l'oggetto
su una macchina calcolatrice). Altre definizioni, poi, che potremmo chiamare complessità
'procedurale', utilizzano come misura la quantità di risorse (ad esempio la memoria di lavoro)
utilizzate dal calcolatore durante l'esecuzione dell'algoritmo per la generazione dell'oggetto.24
Tutte le definizioni proposte per la misura della complessità, se colgono correttamente alcuni
aspetti dei sistemi complessi, ne perdono altri, e inoltre misure diverse applicate allo stesso oggetto
(ad esempio un filamento di DNA) possono dare risultati anche molto differenti tra loro. Tuttavia,
il fatto che non sia stato ancora stabilito un metodo univoco per la misura della complessità non
significa che non se ne siano capiti aspetti importanti; d'altra parte è proprio una delle
caratteristiche dei sistemi complessi quella di sfuggire alla predittività matematica, quindi perché
stupirsi se la complessità stessa è così refrattaria a farsi rinchiudere nella gabbia di una definizione
quantitativa?
3. Uomo e complessità
Le precedenti considerazioni non rappresentano una trattazione esaustiva delle problematiche
riguardanti definizione e misura della complessità matematica, ma chiariscono i caratteri
fondamentali del nuovo paradigma; chiarificazione indispensabile prima di affrontare una
riflessione su come queste idee, inizialmente confinate all'ambito degli oggetti matematici e dei
sistemi fisici, abbiano avuto un impatto dirompente sul pensiero degli ultimi decenni e ci
costringano a rivedere le nostre prospettive sull'uomo e sul suo mondo. Ci sembra di poter indicare
due fronti di rilevanza antropologica della complessità: uno interno che riguarda l'uomo come ente
intrinsecamente ed essenzialmente complesso, l'altro esterno che riguarda il mondo dell'uomo:
quella realtà di relazioni sociali, economiche, produttive, culturali, che ha tutti i caratteri della
complessità (tanto che è proprio in questo ambito che si hanno alcune delle applicazioni più
interessanti della nuova scienza). Spostiamo dunque la nostra attenzione sull'uomo e iniziamo a
farlo dalla sua più profonda radice ontologica.
4. L'uomo come creatura complessa
L'imprevedibilità, la gratuità, la ricchezza tipiche dei comportamenti dei sistemi complessi
suggeriscono potenti analogie con il carattere essenzialmente non deterministico e libero dell'agire
umano. Tuttavia, le tentazioni riduzionistiche in questo campo portano ad un duplice rischio, come
ben evidenziato da Searle25 nei suoi studi sulla natura della coscienza; due posizioni
diametralmente opposte che però, ad una più approfondita analisi, risultano essere le due facce
della stessa medaglia: una non corretta interpretazione del cambiamento sostanziale e qualitativo
che la scoperta dei sistemi complessi ha portato nella visione del mondo. Da una parte infatti,
possiamo accogliere l'analogia fino al punto di accettare l'idea che i comportamenti liberi e
coscienti siano totalmente compresi nell'alveo del sottostante livello biochimico e abbracciare così
la visione materialista nelle varie direzioni in cui si è sviluppata.26 Portando coerentemente alle
estreme conseguenze questa posizione si arriva a quella forma di materialismo 'evoluto' che è alla
base dell'ipotesi dell'intelligenza artificiale forte,27 secondo cui la mente sta al cervello come il
programma sta all'hardware (la conseguenza più notevole di tale ipotesi è che la coscienza e gli stati
mentali di un uomo potrebbero essere trasferiti su qualsiasi sistema in grado di «eseguire il
programma»). A parte argomenti di critica tecnicamente specifici che esulano dai fini della
presente trattazione, osserviamo che comunque il fatto che la biochimica del cervello sia governata
dalle leggi non deterministiche della fisica quantistica o che la dinamica neuronale sottostante sia
non lineare non implica necessariamente la libertà e la coscienza. Tali aspetti, eminentemente
umani, non sono causati dalla contingenza fisica, ma la precedono ontologicamente e la
trascendono. Non è certo da classificare come libero il comportamento di un elettrone in un diodo
solo perché non deterministico. La nostra esperienza quotidiana è ricca di dispositivi (si pensi al
LASER o ai circuiti a semiconduttori) che fondano il loro funzionamento sui principi quantistici e
tuttavia fanno esattamente quello per cui sono stati costruiti e programmati. L'agire umano appare
invece ordinato e finalizzato a molteplici obiettivi che si dispiegano su orizzonti più o meno ampi.
Se dunque l'accettazione di una analogia troppo stretta tra indeterminismo delle leggi fisiche e
libertà dell'uomo conduce al materialismo, dall'altra parte il rifiuto di considerare la genuina
emergenza di nuovi livelli ontologici a partire da dinamiche sottostanti non lineari, ci fa ricadere
nel dualismo cartesiano tra res cogitans e res extensa e nell'ipotesi di un principio immateriale
completamente scorrelato dalla materialità della struttura. Questa visione, intrisa di un platonismo
un po' ingenuo, non ha molte basi critiche su cui fondarsi; in particolare chi scrive non condivide la
tendenza di alcuni autori a fondare dimostrazioni della necessità di un principio immateriale che
sia alla base dell'agire libero a partire dalle stesse leggi della fisica.28 Più convincente appare allora
la prospettiva di chi, come Searle,29 considera la coscienza come un fenomeno intrinsecamente
non riducibile, una proprietà emergente, che ha un carattere nuovo e ontologicamente differente
rispetto ai costituenti del sistema. È precisamente in questo senso che viene fuori una certa
immaterialità, senza tuttavia richiedere l'intervento di entità di carattere extramateriale.
Ad ogni modo, quale che sia la posizione che si voglia abbracciare sul problema del rapporto
mente-corpo, la complessità di cui è profondamente intrisa la natura umana è un dato
incontestabile sul piano fenomenologico, cioè, secondo la celebre definizione di Husserl,30 una
«visione originalmente offerente» che rappresenta «una sorgente legittima di conoscenza»,
ponendo naturalmente la massima attenzione al fatto che tale dato «è da assumere come esso si dà,
ma anche soltanto nei limiti in cui si dà». Vediamo allora che, pur lasciando volutamente aperta la
questione se la complessità possa essere pensiero, sicuramente potremo asserire che il pensiero
richiede la complessità. Cioè la complessità è condizione di possibilità dell'agire umano: solo un
sistema che abbia una reale facoltà di molteplici scelte, azioni, comunicazioni, può sostenere l'agire
umano nel mondo, con tutta la immaterialità e spiritualità che lo caratterizza. Dunque, c'è un dato
fenomenologico la cui evidenza si impone in maniera inconfutabile, ed è rappresentato da tutti
quegli aspetti di immaterialità e spiritualità caratteristici dell'Uomo, immaterialità e spiritualità
che richiedono un supporto materiale sufficientemente complesso per potersi esprimere, una sorta
di materia nobile. L'essenza dell'uomo, superiore a tutto ciò che costituisce l'Universo sensibile,
per attualizzarsi richiede una materia che non sia materia qualunque, ma materia complessa,
sufficientemente complessa, complessa oltre una certa soglia che renda possibile un pensiero che si
rapporti con lo spazio e il tempo, ma che da sola non è pensiero, non più di quanto lo sia la rete
telefonica mondiale o il sistema globale di scambi economici e relazioni produttive.
Il punto focale della riflessione si sposta quindi sull'origine di questa complessità, così preziosa e
necessaria, anche se non sufficiente a spiegare l'essenza dell'uomo. È casuale? È il frutto di una
serie di circostanze fortuite che hanno portato l'evoluzione a produrre l'homo sapiens oppure c'è un
carattere di necessità in tutto ciò? L'uomo è una «opportunità colta al volo»31 tra gli innumerevoli
percorsi potenziali dell'evoluzione della vita sul nostro pianeta? In termini ancora più essenziali, il
meraviglioso ordine biologico che si è sviluppato dagli archeobatteri fino a quella materia nobile in
grado di essere una casa per lo spirito, ha unicamente un'origine darwiniana? È contingente?
Avrebbe potuto non realizzarsi mai se solo il clima dell'Africa centrale di 15 milioni di anni fa fosse
stato per esempio un po' più secco o un po' più umido? Fino a non molto tempo fa la risposta a
tutte queste domande era positiva, in accordo con le posizioni ufficiali della biologia teorica,
secondo cui l'evoluzione darwiniana è tutto ciò che serve per spiegare i caratteri della storia della
vita sulla Terra, dalle origini ad oggi, uomo compreso. Recentemente però, sulla scia della scienza
della complessità, nuove originali posizioni sono sorte32 secondo cui il meccanismo darwiniano di
mutazione fortuita e pressione selettiva non è da solo sufficiente a spiegare l'insorgenza dell'ordine
biologico e tantomeno il suo sviluppo. Risulta che la complessità è una tendenza ineliminabile
connaturata a tutti i sistemi in grado di differenziarsi e stabilire relazioni, come ad esempio una
rete di reazioni chimiche o un ecosistema o anche uno scenario tecnologico produttivo. Per quei
sistemi sufficientemente complessi da porsi sul confine tra ordine e disordine (sull'orlo del caos),
l'autorganizzazione sorge spontaneamente e gratuitamente, e da lì in avanti innumerevoli
potenziali percorsi si affacciano all'orizzonte dell'essere. L'evoluzione, poi, orienterà le contingenze
di queste storie, ma in nessun modo potrà influire sulla direzione di tale movimento, che punta
verso la massima ricchezza, varietà, complessità. Vi è dunque un telos nello sviluppo della vita,
implicito fin dalle prime reti autocatalitiche di reazioni tra molecole organiche nei mari di 3, 8
miliardi di anni fa, una strada che porta all'uomo, pur attraverso una imprevedibile serie di
contingenze. È proprio l'evidenza di questo fine, così profondamente inciso nelle leggi della materia
inanimata, che fa dire a Kauffman che siamo «A casa nell'Universo»,33 nel senso di una riscoperta
del senso più profondo del nostro essere nello spazio tempo, dopo che negli ultimi quattro secoli
eravamo passati dal ruolo di specialissime creature create da Dio a propria immagine e poste nel
centro geometrico dell'Universo, a quello di una tra le tante specie animali, selezionata
fortuitamente, manifestazione di un fenomeno chiamato 'vita', realizzatosi casualmente su un
pianeta non troppo grande di una insignificante stella periferica in una galassia simile a moltissime
altre sparse qua e là in un Universo senza alcun centro, né geometrico né di altra natura.
5. Complessità e gratuità
La complessità è ordine disordinato e disordine ordinato. Ordine perché ogni cosa è al suo posto e
non si può modificare nulla senza che la funzione dell'intero sistema ne risulti compromessa,
disordine perché in tutto ciò non vi è regolarità. L'ordine è la notte, la morte, il silenzio. Anche il
disordine è notte, morte, silenzio. Nell'ordine totale, come nel disordine totale, non è possibile né lo
spazio né il tempo; i due estremi sono esattamente equivalenti: dove non è possibile evidenziare
una diversità, un punto di riferimento che rompa l'uniformità della situazione circostante non si
può parlare di distanze e neanche di prima e dopo. Lo spazio e il tempo richiedono la complessità;
la storia è un evento complesso, e senza un substrato complesso non avrebbe senso parlare di storia
(anche naturale), basterebbero le leggi dell'ordine o il silenzio del disordine.
Se la vita è complessa, la morte è intimamente necessaria alla complessità. La vita è altro dalla
cristallizzazione dell'ordine e dall'indifferenza del disordine, ambedue senza tempo. Le strutture
aperte che si formano in virtù delle molteplici interazioni, proprio a causa di esse, ad un certo
punto devono dissolversi e liberare le risorse materiali che hanno occupato per permettere ad altre
strutture di formarsi. Non può essere diversamente, senza questo necessario carattere la stessa
complessità non potrebbe sussistere. Una struttura che gratuitamente appare gratuitamente
scompare per permettere ad altre strutture di sorgere spontaneamente e gratuitamente. La stessa
vita, forse, ha questo destino.34
Da queste considerazioni si capisce come la gratuità sia un concetto intimamente connesso alla
complessità. Quella stessa gratuità che sul piano antropologico emerge ad una attenta analisi
fenomenologica dal continuo bisogno d'essere dell'uomo, cioè come ontologia indigenziale,35 può
essere vista su uno sfondo più ampio, che abbraccia (quantomeno) l'intero mondo della vita. In
effetti, in un sistema di enti e relazioni sufficientemente ricco, gratuitamente emergono strutture e
proprietà a priori non prevedibili, una realtà totalmente nuova in nessun modo riducibile al
precedente livello ontologico.
6. L'uomo come costruttore di complessità
L'uomo, creatura complessa, tende naturalmente a formare e creare sistemi complessi. Tali sono le
reti di rapporti personali e sociali, la struttura economica, l'organizzazione del lavoro, il sistema
politico. Ci troviamo quindi di fronte ancora a un dato fenomenologicamente evidente: l'universo
dell'uomo non è un universo a risposta lineare. Non lo è prima di tutto egli stesso -- l'uomo -- in
quanto vivente, non lo è egli stesso in quanto capace di pensiero, non lo è infine la sua cultura e il
mondo che egli si costruisce. Malgrado questo, vi è un anelito sempre presente alla riduzione, alla
semplificazione, alla linearizzazione. Non accettando l'irriducibile complessità che permea il suo
mondo, l'uomo ha molte volte percorso la strada della riduzione e separazione, non capendo che,
una volta spaccata, la complessità non è più tale e il dato risulta destinato all'incomprensibilità. In
altri casi invece egli ha rivolto i suoi sforzi ad abbracciare il tutto senza volerlo dominare e
sovrastare, ma accettando quello che del tutto riesce a cogliere.
Vi sono profonde analogie strutturali tra un sistema complesso naturale (come ad esempio una
cellula) e l'insieme dei rapporti in una qualsiasi comunità umana. In ambo i casi abbiamo una rete
di relazioni tra singoli agenti in cui la presenza di ognuno di essi influenza un certo numero di
relazioni, o perché ne prende attivamente parte, o perché ne rappresenta una delle condizioni di
possibilità. Si tratta inoltre di sistemi aperti, che si sostengono sulla base di scambi con il mondo in
cui sono immersi. Sotto quest'ottica si capisce bene quale sia l'effettivo e profondo valore della
diversità. Per meglio chiarire questo concetto utilizziamo una analogia biologica, 36 considerando
semplici sistemi di molecole organiche interagenti tra loro (il probabile meccanismo che diede
origine alla vita sulla Terra). In molti casi una miscela di specie diverse raggiunge una
configurazione di equilibrio nella quale nessuna specie nuova si crea e le concentrazioni delle
specie esistenti rimangono costanti. Però può accadere che alcune specie che partecipano
direttamente a certe reazioni possano giocare anche il ruolo di «facilitatori» per altre reazioni.
Aumentando il numero di specie coinvolte e di possibili reazioni chimiche oltre un certo valore di
soglia si osserva un rapido incremento di complessità. Da qui in poi il sistema può evolvere,
aumentare la propria diversità, esplorare imprevedibili regioni (o anche ripiombare nella morte
dell'equilibrio).
La diversità è la radice genetica della complessità; intervenire su un sistema per ridurne la diversità
significa tagliare alla base le possibilità di una evoluzione che si sviluppi creando novità. Non
necessariamente un tale intervento avrà sempre una valenza etica negativa, ma sicuramente la avrà
quando lo si applica alle culture umane. Se infatti uno dei caratteri della complessità è la creazione
irreversibile di strutture sempre nuove che una volta sparite non si riproporranno più negli stessi
termini, vi sarà, in maniera analoga alla preziosità dell'individuo irripetibile, una preziosità
irripetibile delle culture. E quindi, poiché la complessità è ordine gratuito che appare e si sviluppa
purché vi sia sufficiente diversità, distruggere tale diversità, imporre l'omologazione in nome di
una presunta consapevolezza di avere in mano il migliore dei modelli possibili, significa negare le
stesse basi ontologiche del mondo dell'uomo. Le implicazioni etiche di queste considerazioni sono
di drammatica attualità. L'etica e la politica del mondo moderno sono fondate sul soggetto, sul
vuoto cogito cartesiano, autoreferenziale, che trova il suo perfetto compimento nell'enunciazione
del principio per cui senza il riconoscimento di un'idea di cui «non posso essere io stesso la causa
[...] non avrò proprio nessun argomento che mi possa rendere certo dell'esistenza di una qualche
cosa diversa da me».37 È chiaro come in questa prospettiva la diversità non solo non rappresenti
un valore, ma anzi la sua cancellazione permetta al soggetto di ridurre il tutto a sé.
Nella loro imprevedibilità e ricchezza i sistemi complessi sono estremamente fragili. Essi, in quanto
sistemi aperti, dipendono in maniera critica dalle condizioni al contorno. Una cultura umana è una
complessa struttura di agenti in interazione, fortemente dipendente dal contesto in cui è immersa.
Sulla scala del gruppo ritroviamo quella preziosità e irripetibilità che caratterizza il singolo. In
maniera irripetibile e irreversibile si crea, come polpa di un frutto intorno a ciò che è più
essenzialmente e profondamente umano, un complesso di saperi, forme, tradizioni, che è ricchezza
del gruppo ma che -- una volta conosciuto -- lo è per il resto della famiglia umana. E proprio questa
potrebbe essere la maniera corretta di vivere la mondialità: non tentativo egemone di una sola
cultura di ridurre tutte le altre ai propri modelli economici e politici, ma interazione reciproca nel
rispetto delle peculiarità, magari superando la fase meramente conoscitiva per sperimentare
inedite contaminazioni. Si tratta in fondo della risposta alle contraddizioni della cultura occidentale
di chi oppone al paradigma della soggettività quello della reciprocità,38 superando anche il
concetto stesso di «tolleranza» (che già nella sua etimologia ha il senso negativo di sopportazione
di un peso) per sostituirlo con quello di «convivialità». D'altra parte, questa esigenza di un
profondo mutamento sul piano valoriale che oramai non è più esclusivo patrimonio di poche
avanguardie particolarmente sensibili e illuminate, si manifesta sempre più spesso in concrete
battaglie politiche39 e proposte economiche effettivamente alternative.40 Questa diversità, che
nasce nella varietà delle culture umane e al tempo stesso è la condizione di possibilità per lo
sviluppo di quelle culture, è dunque ricchezza autentica, irripetibile, irreversibile. È ricchezza
autentica perché profondamente radicata nell'esperienza, spesso inconsapevole, di generazioni nel
corso dei secoli, stratificazione di innumerevoli contributi. Legata alla terra, al mare, alla vita,
inconsapevolmente conscia, in un modo misterioso, di molte delle acquisizioni della ratio
dianoetica riguardanti il paradigma della complessità.41 Diversità che è ricchezza irripetibile per
l'impossibilità oggettiva di ricreare due volte le stesse condizioni. Non ci si illuda, pentimenti
tardivi non potranno in alcun modo riavvolgere la pellicola della storia. È inscritto nelle più
profonde leggi della complessità, è la nonlinearità per cui una piccola perturbazione riesce ad
influenzare radicalmente tutta l'evoluzione di un sistema. Per gli stessi motivi la diversità è
ricchezza irreversibile: quando per effetto di una spinta esterna l'equilibrio dinamico di un sistema
si rompe e la sua struttura passa ad altro, non sarà possibile né invertendo il segno della spinta né
in alcun altro modo ripercorrere a ritroso gli stessi passi; sarebbe come voler far rivivere il cadavere
di un annegato semplicemente svuotandogli i polmoni dall'acqua.
Appare dunque chiaramente come la tendenza all'omologazione, la mondialità a senso unico,
l'imposizione di un modello economico, politico e culturale egemone, abbia il carattere della
distruzione, della riduzione al nulla, al non essere, della perdita irreversibile, di un impoverimento
generale dell'umanità. Se a questa forma di nichilismo aggiungiamo il fatto che la colonizzazione
culturale è accompagnata dall'imposizione in agricoltura di estese monoculture, dalla
deforestazione, dalla pesca effettuata con metodi intensivi, dal deterioramento degli ecosistemi a
causa dell'inquinamento, si vede come la distruzione si porti dal piano immateriale delle culture a
quello concreto della diversità biologica. Il danno per l'uomo è duplice: in quanto soggetto culturale
nel primo caso, e in quanto essere vivente partecipante alla biosfera nel secondo. Guardando
questa preoccupante situazione sotto la lente della complessità possiamo cogliere ulteriori aspetti
che danno pienamente conto della portata della sfida a cui siamo chiamati. Invece, nella miope
visione riduzionistica la ricchezza della diversità non è percepita come tale, e la complessa rete di
agenti e relazioni che forma il sistema delle relazioni umane è vista solo come un limitato insieme
di «qui ed ora» nelle immediate vicinanze del soggetto che, pur essendo uno tra i tanti in una rete
chiusa su se stessa e quindi senza centro né periferia, nutre l'illusoria convinzione di occupare una
posizione privilegiata.
Note
1.
G. Devoto, G. C. Oli, Dizionario della lingua italiana, Le Monnier, Firenze (1971).
2.
James Gleick, Caos, Rizzoli, Milano (1989).
3.
E. Lorenz, Deterministic nonperiodic flow, Journal of the Atmospheric Sciences, 20, 130 (1963).
4.
B. Bertotti, P. Farinella, Physiscs of the Earth and the Solar System, Kluwer Academic Publishers (1990), cap
10.
5.
Ibidem, cap. 11.
6.
Ibidem, § 15. 2.
7.
Si veda ad esempio la raccolta di scritti Geometria e Caso, Bollati Boringhieri, Torino (1997).
8.
Si veda a proposito lo storico lavoro di Freeman Dyson sul futuro dell'Universo: F. J. Dyson, Rev. Mod. Phys.,
51, 447, (1979); ma anche M. L. Kraus, G. D. Starkman, Qual è il destino della vita nell'Universo? , in Le
«Scienze», 378, (2002). Si veda inoltre L. Pietronero: La struttura frattale dell'Universo, in «Le Scienze», 354
(1998).
9.
Lo studio matematico dei comportamenti sociali, che tanta importanza riveste nella scienza della complessità,
trova la sua pietra miliare nei lavori pionieristici di von Neumann sulla teoria dei giochi, idee che sono
mirabilmente esposte in J. Von Neumann, O. Morgenstern, Theory of Games and Economic Behavior,
Princeton University Press, New Jersey 1944.
10. A partire dagli storici lavori di Volterra e Lotka (V. Volterra, Atti Accad. naz. Lincei Memorie, 2, 31, 1926 e A. J.
Lotka, J. Wash. Acad. Sci., 22, 461, 1932) sui modelli non lineari in biologia, la produzione sull'applicazione
della scienza della complessità in biologia è stata vastissima, qui ricordiamo solo una delle ipotesi più
suggestive, ovverosia il pianeta vivente, Gaia, in J. E. Lovelock, L. Margulis, Atmospheric Homeostasis by and
for the Biosphere: the Gaia Hypothesis, in «Tellus", 26, 2-9 (1974).
11. J. P. Peixoto, A. H. Oort, Physics of Climate, in «Rev. Mod. Phys.», Vol. 56, 3 (1984)
12. Una esposizione divulgativa di buon livello è rappresentata dal celebre testo di H. Haken: Sinergetica -- Il
segreto del successo della natura, Bollati Boringhieri, Torino (1983).
13. Per esempio, un tentativo molto interessante è quello di affrontare lo studio della biologia partendo da oggetti
elementari puramente biologici, cioè non ulteriormente riducibili a sistemi fisici più semplici, illustrato in
Galleni L., Forti M., An axiomatization of biological concepts within the foundational theory of E. De Giorgi, in
«Rivista di Biologia/Biology Forum», 92, 77 (1999).
14. G. Basti & A. L. Perrone, Le radici forti del pensiero debole, Il Poligrafo, Padova (1996).
15. Mi sembra a tal proposito particolarmente significativo un episodio di cui io stesso sono stato testimone. Di
fronte a una platea di insegnanti di fisica delle scuole medie superiori, uno stimato fisico teorico durante una
conferenza sull'importanza dello studio delle particelle elementari disse che, tra le altre cose, la conoscenza dei
mattoni fondamentali della materia permetterà prima o poi di comprendere tutti i fenomeni posti a un livello di
organizzazione più elevato: da quelli chimici, a quelli biologici, e -- passando per la neurofisiologia -- fino alla
psiche dell'uomo!
16. E. Lorenz, cit.
17. P. Musso, Filosofia del caos, Franco Angeli, Milano (1997), p. 41.
18. C. H. Bennet, Dissipation, Information, Computational Complexity and the Definition of Organization, D.
Pines ed., 1987, pp. 215-231.
19. A. N. Kolmogorov, Three Approaches to the Definition of the Concept of the Amount of Information, Problemy
Peredachi Informatsii 1: 1, 293-302 MR. # 2273 (1965).
20. R. Nobili, The Conceptual Basis of Theoretical Biology, in «Annales Biotheoretici», 14, 1, (1997).
21. Per esempio, la complessità di un oggetto può essere valutata dal rapporto tra la lunghezza della sua descrizione
e la lunghezza di tale descrizione dopo essere stata compressa per mezzo di un opportuno algoritmo, come
illustrato in: F. Argenti, V. Benci, P. Cerrai, A. Cordelli, S. Galatolo and G. Menconi, Information and
Dynamical Systems: a Concrete Measurement on Sporadic Dynamics; Chaos, Solitons and Fractals, 13, 461469, (2002).
22. A. Cordelli, L. Galleni, Towards a Definition of Meaning in Biology: a Proposal for an Operative Definition, in
«Rivista di Biologia/Biology Forum», 145, 96 (2003).
23. R. Penrose, La mente nuova dell'imperatore, Rizzoli, Milano (1992).
24. R. Nobili, cit., p. 18.
25. J. Searle, La riscoperta della mente, Bollati Boringhieri, Torino (1994).
26. J. Searle, cit., cap 2.
27. Una magistrale illustrazione di questa posizione si trova nel classico D. R. Hofstadter, Gödel, Escher, Bach:
un'Eterna Ghirlanda Brillante, Adelphi, Milano (1990), che unisce al rigore espositivo uno stile gradevole e
divulgativo.
28. M. Zatti, Dolore innocente, libertà, caso: riflessioni di filosofia naturale, in «Dialegesthai. Rivista telematica di
filosofia», ISSN 1128-5478 (2004).
29. J. Searle, cit.
30. E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura e una filosofia fenomenologica (trad. it. di E. Filippini), Einaudi,
Torino (1965).
31. J. Monod, Il caso e la necessità, Mondadori, Milano (1970).
32. S. Kauffman, The origins of order, Oxford University Press, New York (1993).
33. S. Kauffman, A casa nell'universo, Editori Riuniti, Roma (2001).
34. M. L. Kraus, G. D. Starkman, cit.
35. Si veda a tal proposito la dettagliata discussione su questi temi di E. Baccarini in La persona e i suoi volti,
Anicia, Roma (2003), come pure in La soggettività dialogica, Aracne, Roma (2002).
36. S. Kauffman, A casa nell'universo, cit., cap. III.
37. Cartesio, Meditazioni metafisiche (a cura di Lucia Urbani Ulivi), Rusconi, Milano (1998), p. 197.
38. E. Baccarini, La persona e i suoi volti, cit., cap X.
39. Si veda ad esempio il racconto della lotta degli agricoltori francesi per la salvaguardia delle produzioni di qualità
in: Josè Bovè e François Dufour, Il Mondo non è in vendita, Saggi Universale Economica Feltrinelli, Milano
2001.
40. N. Roozen, F. van der Hoff, Max Havelaar -- L'avventura del commercio equo e solidale, Feltrinelli, Milano
(2003).
41. Le comunità rurali, anche nelle aree sottosviluppate del sud del mondo, trovano spesso il loro equilibrio
all'interno di un sistema integrato che ha tutti i caratteri della complessità e che è formato, oltre che dall'uomo
da una grande varietà di specie vegetali e animali. Per queste comunità l'incontro con i grandi gruppi
transnazionali alimentari, del legname e delle sementi, che impongono monoculture intensive con mezzi
industriali di specie molto spesso estranee all'ecosistema locale, quando non addirittura geneticamente
modificate, comporta invariabilmente esiti di estrema drammaticità. L'avvincente descrizione dei sistemi
produttivi dei villaggi rurali indiani confrontati con quello delle società multinazionali si trova nell'ormai
classico: Vandana Shiva, Monoculture della Mente, Bollati Boringhieri, Torino 1995.
Mimmo Pesare
Eziologia e genealogia del postmodernismo
filosofico
1. Il termine postmoderno
Una delle caratteristiche sociolinguistiche che contraddistinguono l'epoca nella quale viviamo è
una certa «vocazione» neologistica che, all'interno dei sottofenomeni di essa facenti parte,
annovera la radicata attitudine all'uso sfrenato di prefissi e/o suffissi che stemperino o correggano
la carica di parole il cui potenziale semantico, a seconda della circostanza, non sia facilmente
addomesticabile. Paradigmatica, in questo senso, è la recente abbondanza, nel linguaggio parlato,
del prefisso post- prima di sostantivi o aggettivi, ad indicare un imprecisato scarto temporale,
modale o stilistico rispetto al lemma che lo segue.
Escludendo, quindi, la consapevolezza degli addetti ai lavori, l'uso esagerato del prefisso postimperversa, da circa un trentennio, in ogni discorso e, in generale, in ogni ambito dell'industria
culturale (nell'accezione deteriore del termine) e, di fatto, la «post-collocazione», come condizione
di appartenenza, ha finito per assumere lo status di doveroso, sebbene reticente, fenomeno di
definizionismo modaiolo. Così, i vari post-industriale, post-metafisico, post-comunista, postcritico, post-ideologico, e via dicendo, sono diventati comodi contenitori tuttofare per chi decide di
demandare ad essi la propria utenza argomentativa e adottare la favorevole condizione di riparo
(finanche molto chic) dietro baluardi di opinabili coordinate limitative e quindi difficilmente
confutabili.
Il caso probabilmente più emblematico è quello del termine postmoderno, che, a partire dagli anni
Sessanta, per la sua insita polisemia e problematicità concettuale (ciò che viene dopo il nuovo?), ha
costituito una sorta di «parola magica multiuso» al soldo dei «voltagabbana di turno».1
Probabilmente il fatto che un aggettivo come «postmoderno» abbia riscosso tanta fortuna nel
linguaggio del nostro tempo si spiega con la storia stessa del termine postmodernismo. Infatti,
rispetto ad altri fenomeni culturali e correnti di pensiero, legate alle transizioni strutturali di questa
o quella tendenza disciplinare, scuola filosofica o avanguardia artistica, postmoderno è stato
definito un «modo di sentire», e postmoderna è risultata una «temperie», una tendenza
interpretativa decisamente trasversale rispetto ai particolarismi e alle differenze metadisciplinari.
Non è un caso che a un certo punto (orientativamente tra la seconda metà degli anni Sessanta e i
primi anni Settanta di questo secolo), l'architettura, le arti figurative e visive, la letteratura, la
sociologia e la filosofia, abbiano manifestato un comune cambio di registro nei confronti del
mondo. La categoria di «postmoderno», dunque, prima di codificarsi e trovare statuto nelle varie
manifestazioni culturali e in particolare nella filosofia e nella sociologia (cosa che, in seno a questo
lavoro, risulta di importanza centrale), nasce come un Kunstwollen, un modo di operare,2 una
caratteristica metadisciplinare di spontanea esplosione e diffusione.
Per quanto riguarda la genesi del termine, dalle ricerche di Michael Köhler,3 sappiamo che esso
compare per la prima volta in Antología de la Poesia Española Hispanoamericana, saggio di
critica letteraria di Federico de Onìs, datato 1934 (nel quale l'autore lo usa per indicare una
corrente poetica contrapposta al modernismo letterario spagnolo), e in A Study of History, dello
stesso anno, a cura dello storico Arnold Toynbee (che denomina «postmodernismo» la nuova fase
di imperialismo di fine Ottocento caratterizzata da una politica di interazione globale da parte degli
Stati nazionali). Successivamente, negli anni Quaranta e Cinquanta il termine figura
sporadicamente nel contesto poetico e letterario angloamericano, come designante un generico
atteggiamento di decadente reazione agli eccessi del modernismo,4 senza tuttavia una
legittimazione lucida e privo di carattere di sistematicità e di autocoscienza.
Solo a partire dagli anni Sessanta, Ihab Hassan, applicando categorie post-strutturaliste e
decostruzioniste di matrice europea al suo lavoro di critico letterario, ha riunito sotto il termine
«postmodernismo» una serie di valenze teoriche che costituiscono ancora oggi le koinai che hanno
staccato dalla nebulosa postmoderna, la «categoria» postmoderno, alla quale, nello stesso periodo,
aderiscono l'arte,5 la letteratura,6 l'architettura,7 la musica8 e le tendenze culturali di ogni tipo.
L'opera di Hassan ha permesso di decodificare un pulviscolo di sensazioni epocali in un «clima»
dotato di autoreferenzialità e di nuclei tematici ben delineati che, a distanza di tempo, rimangono
attuali e imprescindibili per la comprensione -- sia pure «a grandi linee» -- del fenomeno
postmoderno e che, a distanza di pochi anni, porteranno Jean-François Lyotard a scrivere La
condition Postmoderne (1979),9 manifesto e atto di nascita ufficiale della riflessione filosofica sul
postmoderno.
Come si è accennato precedentemente, prima di arrivare alla sistemazione filosofica di Lyotard e
dei filosofi che hanno continuato la riflessione intorno ai caratteri della postmodernità -- che
analizzeremo in seguito --, la persuasione secondo la quale all'interno della semiosfera tipica della
modernità si sarebbe verificata una sorta di cesura, o meglio un radicale mutamento di paradigma
nel modo di concepire la realtà, apparteneva a un sentire comune, nato nella più completa
promiscuità fra universi disciplinari differenti e caratterizzato da una tendenza apocalittica (le
innumerevoli palinodie degli anni Sessanta-Settanta sulla fine dell'arte, della filosofia, della storia,
del sociale, del religioso, del politico, ecc.) tipica dei periodi fin de siécle. È evidente, dunque, come
il postmodernismo filosofico più compiuto ed «istituzionale» di Lyotard e seguaci, si sia nutrito di
una serie di suggestioni «metafilosofiche» sfociate, poi, in un saggio che sanciva abbastanza
casualmente (il lavoro, infatti, era stato commissionato Lyotard dal governo canadese, il quale
aveva avviato una ricerca sul rapporto tra il sapere e le società tardo-industriali) la sistemazione di
un pregnante stato delle cose.
È pressoché impossibile tenere conto della molteplicità di tematiche che costituisce il calderone
genealogico della filosofia postmoderna, e, come succede quando un filone di studi viene proiettato
così velocemente e con tale fortuna all'interno del dibattito internazionale, la ricerca di possibili
ancillarità e contributi viene macchiata di carattere ideologico, a seconda che la ricostruzione
filologica del tema sia avanzata da sostenitori o da detrattori. Ci limitiamo, perciò, a soffermarci sui
temi la cui influenza sul pensiero postmoderno è universalmente accettata e costituisce una
imprescindibile propedeuticità ad esso: il paracriticismo di Ihab Hassan, il post-strutturalismo
francese, il decostruzionismo di Jacques Derrida, le tematiche intorno all'entrata della società
contemporanea nella fase postindustriale, la riflessione sui nuovi mezzi di comunicazione di
massa.
2. Il paracriticismo di Ihab Hassan
Il contributo di Ihab Hassan alla causa postmodernista è, in termini temporali, di tipo
pionieristico. Il critico letterario statunitense di origini egiziane, infatti, già negli anni Sessanta
flirtava con alcuni concetti dell'ambiente filosofico europeo, quelli della cosiddetta «rinascita
nietzcheana», strutturalista e poi decostruzionista, inserendoli all'interno del proprio approccio
interpretativo alla letteratura. L'importazione di tali concetti (écriture, soggetto in processo,
decostruzione, piacere del testo), nel pragmatismo lineare dell'ambiente culturale americano,
contribuì a codificare un clima che dai nuovi scrittori d'oltreoceano era già ampiamente condiviso,
sebbene ancora disorganico e che porterà alla stesura del celebrato saggio del 1971 The
Dismemberment of Orpheus.10 Nel suo lavoro più rappresentativo Hassan riprende il mito greco
della cruenta morte del cantore Orfeo ad opera delle Menadi, cifrando una simbologia tutt'altro che
trasparente: le Mènadi sono le avanguardie artistiche e letterarie del Novecento, mentre Orfeo
rappresenta il lògos, ovvero lo spirito di razionalità elaborato dalla civiltà occidentale. Le prime
fanno a pezzi il secondo, che ne aveva rifiutato le avances, e gettano il suo capo in un fiume. Ma
questo galleggia e continua a cantare il suo amore per la sventurata Euridice (il mitico poeta e
musico non era riuscito a strapparla -- a causa di uno sguardo incauto -- alle tenebre dell'aldilà),
segno consolante che l'arte e la letteratura sopravvivranno, anche se profondamente mutate e
avulse dal corpo isterilito della modernità.
L'importanza dell'opera di Hassan, quindi, sta nel tentativo di dare una «coscienza» al movimento
postmoderno,11 la cui struttura di significato viene costruita per mezzo di una serie di opposizioni
stilistiche allo scopo di identificare i modi attraverso i quali il postmodernismo si sarebbe posto
come reazione al modernismo delle avanguardie artistico-letterarie del Novecento:12
Modernismo
Postmodernismo
Romanticismo / Simbolismo
Patafisica / Dadaismo
Forma (chiusa, congiuntiva)
Antiforma (aperta, disgiuntiva)
Scopo
Gioco
Disegno
Caso
Gerarchia
Anarchia
Mestria / Logos
Esaurimento / Silenzio
Oggetto d'arte / Opera finita
Processo / Performance / Happening
Distanza
Partecipazione
Creazione / Totalizzazione
Decreazione / Decostruzione
Sintesi
Antitesi
Presenza
Assenza
Accentramento
Dispersione
Genere / Confine
Testo / Intertesto
Paradigma
Sintagma
Ipotassi
Paratassi
Metafora
Metonimia
Selezione
Combinazione
Radice / Profondità
Rizoma / Superficie
Interpretazione / Leggere
Disinterpretare
Significato
Significante
Lisible (Leggibile)
Scriptible (Scrivibile)
Narrativo
Antinarrativo
Dio Padre
Lo Spirito Santo
Sintomo
Desiderio
Fallico / Genitale
Androgino / Polimorfo
Paranoia
Schizofrenia
Origine / Causa
Differenza -- Differanza / Traccia
Metafisica
Ironia
Determinazione
Indeterminazione
Trascendenza
Immanenza
Come si può notare, lo schematismo bipolare di Hassan attinge idee a molti campi -- retorica,
linguistica, teoria della letteratura, filosofia, antropologia, scienze politiche, psicanalisi e persino
teologia -- e a molti autori -- Jakobson, de Saussure, Derrida, Lévi-Strauss, Robbe-Grillet, Lacan,
Deleuze, Foucault, Barthes, Kristeva, ma anche Rosenberg, Bloom, Steiner, Auerbach, de Man,
Cage, Brown, Barth, McLuhan -- , eppure lo stesso Hassan riconosce come questo non possa che
essere una lista «momentanea», coerentemente con quel principio di indeterminatezza che è la
stessa essenza della colonna del postmodernismo, nello schema riportato. Le differenze enucleate
«mutano, differiscono, crollano; i concetti di una delle due colonne verticali non sono tutti
equivalenti; inversioni ed eccezioni abbondano».13
La metodologia di Hassan, che per il suo ormai codificato carattere di interdisciplinareità
ermeneutica fu, all'epoca, denominata «paracriticismo», si giovava inoltre di una serie di
definizioni che tendevano a delineare un concetto per mezzo di coordinazioni di frasi indipendenti
e «slegate» o per semplice accostamento semiotico: le cosiddette proposizioni paratattiche. Ne
fanno parte le cinque preposizioni paratattiche sulla cultura del postmodernismo,14 celeberrime
per aver fornito un ulteriore chiarimento della nozione di postmoderno:
1. Il postmodernismo dipende dalla violenta transumanizzazione della Terra, in cui terrore e
totalitarismo, frazioni e insiemi, povertà e potere, si richiamano a vicenda. La fine potrebbe
essere [...] l'inizio di una genuina planetarizzazione, una nuova era per l'Uno e i Molti [...].
2. Il postmodernismo deriva dall'estensione tecnologica della coscienza, un tipo di gnosi del
XX secolo, cui contribuiscono il computer e tutti i nostri vari media (compreso quel
medium mongoloide che chiamiamo televisone). Il risultato è una visione paradossale della
coscienza come informazione e della storia come happening.
3. Il postmodernismo si rivela, allo stesso tempo, nella dispersione dell'umano (cioè del
linguaggio), nell'immanenza del discorso e della mente. [...] Qui, forse, potremmo sperare
di imbatterci in aspetti più propizi del nuovo gnosticismo.
4. Il postmodernismo, quale modalità di cambiamento letterario, potrebbe distinguersi dalle
avanguardie più vecchie (cubismo, futurismo, dadaismo, surrealismo, ecc.), come pure del
modernismo. [...].
5. In quanto fenomeno artistico e filosofico, erotico e sociale, il postmodernismo si rivolge
verso forme giocose, desiderative, disgiuntive, dislocate o indeterminate, verso un discorso
di frammenti, un'ideologia della frattura, una volontà di disfacimento, un'invocazione dei
silenzi [...].
Ci si potrebbe ancora domandare: ma è all'opera in mezzo a noi qualche mutazione epistemica o
sociale -- coinvolgente arte e scienza, cultura alta e bassa, i principi del maschile e del femminile,
frammenti e totalità di ogni tipo? Non ci resta che congetturare in continuazione: la scrittura
invisibile, l'inchiostro del tempo, diventa leggibile come storia.15
Appare fin troppo evidente nel brano riportato, come una serie di temi propri della metodologia di
Hassan -- la planetarizzazione, la transumanizzazione, l'estensione tecnologica della coscienza, la
centralità dei media, la storia come happening, l'immanenza del discorso, la distinzione dalle
avanguardie storiche, il gioco, la disgiunzione, il dislocamento, l'autodisfacimento, la
frammentazione, la mutazione epistemica-, saranno assorbiti non solo dal postmodernismo
filosofico, ma anche dalle derivazioni più recenti di quest'ultimo, dalla sociologia dei media alla
sociologia della globalizzazione e alla filosofia ciberpunk.
3. Il poststrutturalismo e il decostruzionismo
Più che un contributo teorico, si può affermare che il cosiddetto poststrutturalismo francese abbia
rappresentato per la riflessione filosofica intorno al postmoderno, un vero e proprio armamentario
di nozioni e di strumenti d'interpretazione. Temi come «de-centramento», «proliferazione», «dislocamento», di importanza fondamentale per la comprensione dell'allontanamento del
postmodernismo da concetti quali «centro», «struttura», «campo», sono infatti mutuati dal vasto e
immaginifico serbatoio filosofico poststrutturalista.16 Come giustamente osserva Gaetano
Chiurazzi, il poststrutturalismo può essere considerato la versione «postmoderna» dello
strutturalismo:17 come, infatti, il postmoderno ha rappresentato una presa di coscienza dei limiti
del moderno e il suo superamento, così il poststrutturalismo lo è stato dello strutturalismo.18 Esso,
infatti, affermatosi in Francia alla metà degli anni Sessanta (e la cui fortuna in Europa risale al
decennio successivo), deve il suo nome non all'autocomprensione del movimento, ma alla necessità
di collocare temporalmente un gruppo di pensatori (come Gilles Deleuze, «il secondo» Michel
Foucault, Jacques Derrida e il giovane Jean-François Lyotard) i cui ascendenti teorici e le cui
conclusioni (nonché una certa affinità di linguaggio) partivano da un comune discostamento
rispetto ai maestri strutturalisti degli anni Cinquanta.
Più che in termini di contrapposizione, è infatti possibile pensare al poststrutturalismo come a un
«ultimo sviluppo, in senso in parte antagonistico, dello strutturalismo classico»19 pensato in
termini di prosecuzione e correzione del medesimo e le cui componenti essenziali sono
rintracciabili all'interno della cosiddetta «Nietzsche-Reinassance» dei primi anni Sessanta, ovvero
all'innesto del pensiero di Nietzsche sulla metodologia della struttura e, in maniera più pregnante,
la polemica nietzschiana contro la ricerca di un fondamento ultimo, il cui ruolo era, ancora allora,
identificato dalla struttura stessa. I punti di riferimento non sono più dunque De Saussure,
Jakobson, le scienze umane e la linguistica, ma il trinomio della cosiddetta «scuola del sospetto»,
ovvero Freud e l'energetica degli istinti, Marx e l'analisi economico-energetica della società,
Nietzsche e l'antropologia vitalistica, le teorie del nichilismo «attivo» e della volontà di potenza, lo
smascheramento del Soggetto cartesiano e idealistico. In quest'ottica, gli stilemi degli strutturalisti
vengono spinti dai loro epigoni fino alle conseguenze più estreme: se per i primi la struttura
(linguistica, sociale, letteraria, antropologica, economica) è la forma apollinea della
rappresentazione e del senso, per i secondi essa perde il carattere di depositaria del «senso» e viene
spinta fino ai limiti dell'irrappresentabile;20 se per i primi il senso delle cose viene scoperto
attraverso le differenze, per i secondi queste vengono sovvertite e decostruite.
Proprio nella diversa concezione del concetto di differenza, probabilmente, è possibile mostrare la
consistente eppure sottile distanza tra il sentire strutturalista e quello poststrutturalista. Da
principio organizzatore, classificatore, tassonomico e quindi razionalizzante del reale, la differenza,
da Deleuze riproposta col neologismo differance -- talvolta tradotta in italiano con differenza -diventa principio sovversivo e destabilizzante, simbolo della negazione di qualsiasi centralizzazione
e unità (fosse anche quella della struttura quale meta-principio di catalogazione e sistemazione).
Ogni espressione è un tessuto di ripetizioni, rinvii, innesti che rendono impossibile il pervenimento
a un significato ultimo e «trascendentale», il cui dominio sfugge, essendo disseminato e ibridato. Il
poststrutturalismo propone, dunque, una realtà completamente desoggettivizzata in cui le
differenze, libere e molteplici, non sono assoggettate a nessuna struttura o «centro» organizzatore,
ma in continuo processo e divenire.
Anche il linguaggio, infine, è considerato, in quanto struttura, un elemento di neutralizzazione e
canalizzazione delle energie; la rivoluzione e la liberazione del desiderio deve allora giocarsi anche
sul piano linguistico: questa la tesi che costituisce l'essenza stessa del pensiero e dell'opera
filosofica di Jacques Derrida, dai cui scritti ha preso vita una corrente, il decostruzionismo, che
prende appunto il nome dalla pratica della «decostruzione», possibile traduzione del termine
heideggeriano Destruktion,21 ovvero la doverosa distruzione della storia della metafisica e del
sistema concettuale da cui, per secoli, è stata dominata. Come gli altri pensatori francesi della sua
generazione, Derrida avversa il «logocentrismo della stuttura», ovvero la proiezione del Soggetto22
della metafisica classica che, nello strumento eristico per eccellenza degli strutturalisti, ha messo
radici e detta legge. Il progetto filosofico di Derrida, quindi, si identifica in una programmatica
decostruzione della «metafisica della presenza»23 che ha caratterizzato la tradizione filosofica
occidentale. La metafisica europea, infatti, avrebbe considerato l'Essere come un ente attingibile e
reso «presente» attraverso la parola -- il logos- e la voce (da cui il termine logocentrismo), cui
Derrida contrappone un Essere che, proprio in quanto definibile solo per differenza e irriducibile a
ogni tipo di identità originaria, detiene, invece, gli attributi dell'assenza, di cui non si danno
rappresentazioni, ma esclusivamente tracce. In quest'ottica, all'idea metafisica del primato della
voce/logos sulla scrittura, ovvero del primato della presenza dell'Essere sull'assenza dell'Essere,
viene sostituito il primato della scrittura sulla voce.24
Dall'idea della scrittura come fenomeno risultante dall'oralità, si passa all'idea secondo la quale è il
linguaggio a essere anticipato dalla scrittura, poiché, come argomenta Derrida, si parla riferendosi
a testi, ovvero a un nodo di tracce che rimandano a un'assenza: quella dell'autore, che nella
rappresentazione del testo attua il proprio autodisfacimento. Ecco che in quest'opera di
«rovesciamento» dei fondamenti del linguaggio, indicativa risulta la pregnanza della nozione
derridiana di testualità, una concezione del testo scritto non come sistema definito e dato in
maniera ultima, ma come circolarità aperta, continuamente ri-definibile e non riconducibile a
un'unità, nella quale non è mai possibile pervenire a un'origine, né a un originario referente. Si ha
sempre e solo a che fare con una catena di rinvii senza soluzione di continuità che viene a essere
definita esclusivamente mediante il meccanismo della differance: per negazione, cioè, di ogni
composizione unitaria, di ogni telos, di ogni razionalità onnicomprensiva, scardinando l'egemonia
del «centro».
Appare chiaro, dunque, come l'eredità di questo approccio sia fondamentale per comprendere il
tema della pluralità dei codici e dei linguaggi, centrale nella teoria postmoderna, nonché sia
applicabile ante litteram alla situazione contemporanea della multimedialità, dell'ipertestualità e
della contaminazione «in rete», che della teoria postmoderna sono l'esito ultimo e più complesso.
4. La società post-industriale
La nostra ipotesi di lavoro è che il sapere cambi di statuto nel momento in cui le società entrano
nell'età detta postindustriale e le culture nell'età detta postmoderna. Questa rivoluzione è iniziata
almeno a partire dalla fine degli anni Cinquanta, che in Europa segnano la fine della
ricostruzione.25
Questo l'incipit del capitolo I (Il campo: le società informatizzate) de La condizione postmoderna.
Com'è evidente, Lyotard parte programmaticamente dai testi di Alain Touraine26 e Daniel Bell27
(indicati in nota dall'autore all'interno del brano riportato), per costruire l'impianto dell'opera che
lo renderà celebre nel dibattito filosofico degli anni Ottanta. In effetti le mutazioni strutturali
connesse con la fine dell'età moderna intorno agli anni Settanta sono saldamente collegate e quasi
ancillari alla messa in luce del ruolo decisivo svolto dal sapere teorico nell'innovazione sociale, e
locuzioni quali «condizione postmoderna», «avvento postindustriale», «società dell'informazione»,
«società tecnotronica» e così via, appartengono a un'infosfera comune che ha come tratto d'unione
l'idea che la società contemporanea sia caratterizzata dal ruolo istituzionale svolto dalla scienza, dai
valori posti dal sapere, dall'accentuazione del carattere tecnico delle decisioni da prendere,
dall'accresciuta partecipazione di nuove elites tecniche alla vita sociale.
Lyotard afferma che l'evoluzione verso la società postmoderna dell'informazione è iniziata alla fine
degli anni Cinquanta con l'avvento e l'introduzione dei sistemi informatici. In realtà, anche se
intuibili dalle menti più acute, la rivoluzione informatica non comportò cambiamenti significativi
negli assetti dell'organizzazione sociale in cui andava ad inserirsi: con la sua centralizzazione, con il
suo essere fondamentalmente computazionale e gestionale, l'informatica del mainframe
rappresentava sicuramente un'innovazione tecnologica importantissima ma non una vera
«anomalia» tale da modificare assetti e paradigmi sociali; era uno strumento tecnico al servizio,
almeno inizialmente, dei paradigmi dominanti (basati, essenzialmente, sul principio del controllo
verticale) della società industriale che stava uscendo «trionfalmente» dalle rovine del suo secondo
conflitto mondiale. Già dalla fine degli anni Sessanta, la configurazione geopolitica che legittimava,
in nuce, le nozioni di società dell'informazione o di società globale si trovava esplicitata nell'analisi
delle conseguenze internazionali della convergenza tra informatica e telecomunicazioni di Zbigniew
Brzezinski, ricercatore sociale e storico dei problemi del comunismo, divenuto poi consigliere per la
sicurezza nazionale del presidente americano James Carter.
La tesi centrale del suo lavoro più fortunato, Between two Ages (Tra due età),28 è che, grazie al
dominio delle reti mondiali, gli Stati uniti sono diventati la prima società globale della storia, quella
in cui la comunicazione è ai massimi livelli; il modello di "società globale" da essa rappresentato,
prefigura il destino delle altre nazioni: i nuovi valori universali irradiati dall'America cattureranno
inevitabilmente l'immaginazione dell'intera umanità e questo è stato possibile principalmente
grazie al ruolo di testa assunto dalla «classe tecnica» statunitense. In ogni caso, Alain Touraine
rimane il primo sociologo che usa l'aggettivo «postindustriale» in maniera sistematica: nel suo
noto saggio del 1969,29 infatti, egli definisce la società postindustriale come un campo in cui
giocano nuovi attori sociali che si collocano al di là del conflitto precedente tra operai e classe
imprenditoriale; dopo il declino del movimento operaio il conflitto si è spostato dal mondo del
lavoro al campo della cultura.
Di fatto, per Touraine, le nuove lotte e i nuovi movimenti di contestazione si dirigono contro quelle
forme di dominazione che, estendendosi ben al di là della produzione materiale, toccano l'insieme
della vita sociale a livello dei consumi, dell'informazione, dell'educazione. Tuttavia l'accezione di
postindustriale che è rimasta in maniera più pervicace nell'immaginario sociologico
contemporaneo è sicuramente quella -- meno socio-politica e più socio-economica -- di Daniel Bell.
Nel 1973, appena quattro anni dopo l'uscita del lavoro di Touraine in Francia, Daniel Bell, un
ricercatore americano che si era interessato durante tutti gli anni Cinquanta quasi esclusivamente
di sociologia dei movimenti politici e che nel 1960 aveva elaborato con La fine dell'ideologia30 una
prospettiva teorica sulla messa in crisi delle ideologie politiche o «di partito» nelle società
contemporanee, pubblicò The Coming of Post-Industrial Society31 (L'avvento della società
postindustriale), in cui la sua precedente tesi della fine dell'ideologia si collega al concetto di un
nuovo tipo di società industriali avanzate che sarebbero, appunto, scevre da incanalamenti
ideologici e caratterizzate da una radicale trasformazione dei modi di produzione.
Nel 1956, per la prima volta in un paese del mondo -- gli Stati Uniti -- i colletti bianchi (impiegati,
professionisti, tecnici) superarono, per numero, i colletti blu (operai); Bell individuò in quella data
l'inizio simbolico della società post-industriale, evento storico paragonabile a quello che,
nell'Inghilterra di cento anni prima, aveva segnato il sorpasso dei lavoratori industriali sui
contadini.
L'ordine post-industriale si contraddistingue per una crescita del settore dei servizi a discapito
dell'occupazione nel settore della produzione di beni materiali; gli operai nelle fabbriche e in
officina e, già da prima, quelli agricoli, non rappresentano più la categoria paradigmatica di
lavoratori: il numero degli impiegati (di ufficio o liberi professionisti) ha superato quello dei
lavoratori manuali e in particolare si richiedono sempre più competenze tecniche e professionali;
chi svolge lavori impiegatizi di elevato livello è specializzato nella produzione di oggetti
d'informazione e di sapere; la produzione ed il controllo di quello che Bell chiama «sapere
codificato» (l'informazione coordinata e sistematica) rappresenta la principale risorsa strategica da
cui dipende la moderna società e coloro che sono impiegati nella sua produzione e diffusione
acquistano sempre più potere e si sostituiscono ai vecchi gruppi sociali dominanti (industriali e
imprenditori). Nell'ambito della società post-industriale si ha un indebolimento della «disciplina»,
caratteristica della società industriale: gli individui sono ora più liberi di intraprendere condotte
innovative sia nel campo lavorativo che nella vita privata. Detto coi termini dell'autore, questo
nuovo assetto si caratterizzerebbe attraverso cinque «dimensioni»:
1. settore economico: il passaggio da un'economia fondata sulla produzione di beni a
un'economia di servizio;
2. struttura occupazionale: la preminenza della classe professionale e tecnica;
3. principio assiale: la centralità della conoscenza teorica come fonte di innovazione e di
formulazione delle scelte politiche della società;
4. orientamento futuro: il controllo della tecnologia e la valutazione tecnologica;
5. processi decisori: la creazione di una nuova «tecnologia intellettuale».32
Come indica il sottotitolo del libro, A Venture of Social Forecasting (Un tentativo di previsione
sociale), Bell formula una serie di pronostici, e costruisce, estrapolando alcune tendenze (trends)
strutturali osservate negli Stati uniti, una società-tipo ideale, caratterizzata dall'ascesa di nuove
élites (il cui potere risiederebbe nella nuova «tecnologia intellettuale» concepita in funzione dei
processi decisionali) e dalla preminenza della «comunità scientifica», una «comunità carismatica»,
universalista e disinteressata, «senza ideologia». Una società gerarchizzata orizzontalmente e
governata da uno stato sociale accentratore e pianificatore del cambiamento,33 una società
allergica all'idea di rete e al tema della «democrazia partecipativa». In questa società dove
l'economia si sposta verso i servizi tecnici e professionali, la crescita è lineare ed esponenziale.
Nel 1995, per la prima volta al mondo, sempre negli Stati Uniti, si sono venduti più computer che
televisori34 e sono stati scambiati più messaggi tramite Internet che tramite le poste: ormai, infatti,
il 40% delle famiglie americane ha un computer, il 25% ha due computer e per dieci anni
consecutivi gli abbonamenti a Internet sono aumentati del 5% ogni anno.35 Nel settore
dell'informatica il cambiamento è così veloce che l'80% del fatturato attuale deriva da prodotti che
due anni fa neppure esistevano.36 Il suo business articolato nel settore dell'informatica vera e
propria, dei comunicatori e della commutazione, rappresenta ormai il 6% dell'intera economia
mondiale. La presenza di un computer in ogni ufficio e in ogni casa ha agevolato un atteggiamento
radicalmente nuovo verso le categorie ancestrali del tempo e dello spazio.
Note
1.
G. Patella, Sul postmoderno. Per un postmoderno della resistenza Studium, Roma, 1990, p. 7.
2.
A questo proposito è interessante la proposta di Umberto Eco, secondo il quale il postmoderno non è una
tendenza circoscrivibile cronologicamente, ma una categoria spirituale: «ogni epoca ha il proprio postmoderno,
così come ogni epoca avrebbe il proprio manierismo [...] La risposta postmoderna al moderno consiste nel
riconoscere che il passato, visto che non può essere distrutto, perché la sua distruzione porta al silenzio, deve
essere rivisitato: con ironia, in modo non innocente.» (Postilla a Il nome della rosa, Bompiani, Milano 1984).
3.
M. Köhler, «Postmodernismus»: Ein Begriffgeschichtlicher Überblik, in «Amerikastudien/American Studies»,
n. 22, 1977, pp. 8-18; trad. it. «Postmodernismo»: un panorama storico-concettuale, in AA. VV., Postmoderno
e letteratura. Percorsi e visioni della critica in America, Bompiani, Milano 1984, pp. 109-122.
4.
Inteso, in questa accezione, semplicemente come Weltanschauung complessiva dei movimenti d'avanguardia
dell'Ottocento e inizio Novecento.
5.
Nasce negli USA, in questi anni, la tendenza a sfidare in nome del pop l'elitismo dell'arte moderna: l'anello di
congiunzione tra le avanguardie e i prodromi della pop-art (vera alter-ego del postmodernismo nelle arti
figurative) è costituito da Marcel Duchamp e dalla sua estetica del ready-made, secondo la quale un oggetto di
uso quotidiano, firmato dall'artista costituisce un'opera d'arte che diviene oggetto di scambio, perdendo il valore
auratico originale. La famosa massima «usare un Rembrandt come asse da stiro» è la sintesi di questa
dissacrante estetica iconoclasta che vedrà nella pratica della serializzazione di Andy Warhol (il più
rappresentativo e innovativo esponente della pop-art) l'esito più maturo della particolarissima «morte dell'arte»
di matrice postmoderna (cfr. R. Barilli, L'arte contemporanea. Da Cézanne alle ultime tendenze, Feltrinelli,
Milano 1988, pp. 300-310).
6.
Intorno agli anni Sessanta, Hassan e altri studiosi statunitensi (Fiedler, Kristeva) presero ad applicare categorie
estetico-teoriche tipiche del post-strutturalismo francese e della Nietzsche-Reinassance europea (come le
nozioni di de-costruzione, écriture, soggetto in processo, differance, piacere del testo) alle opere di autori
americani, insistendo sulla perdita del «senso umanistico» e pseudo-ideologico che aveva caratterizzato la Beat
Generation e la produzione letteraria precedente (cfr. AA. VV., Postmoderno e letteratura, op. cit.).
7.
Per quanto riguarda l'architettura è possibile fissare al 1972 la data simbolica di passaggio al postmodernismo,
anno in cui il complesso di Pruitt-Igoe di Saint Louis -- una realizzazione di quella «macchina per abitare»
teorizzata da Le Corbusier -- venne demolito in quanto ritenuto ambiente inabitabile anche per le persone di
basso reddito che vi vivevano. Gli architetti iniziarono a pensare che bisognasse costruire non più per l'Uomo,
ma per la gente, per gli uomini concreti, tenendo presenti le loro condizioni effettive di vita e le loro esigenze.
Potremmo sintetizzare così questo passaggio: da un tipo di prospettiva che voleva cogliere sì le differenze, le
singolarità, ma sempre inscrivendole in una realtà sottostante, sebbene complessa e multiforme, si passò con il
postmodernismo a spostare l'accento solo sulle singolarità, sulle differenze, sulla coesistenza e collisione di
realtà radicalmente diverse e multiformi. Il postmodernismo rifiutò qualsiasi riferimento ad una realtà
sottostante e unificatrice, ritenendo fondamentale solo l'attenzione per ciò che registrava ed evidenziava il senso
di frammentazione, di caos, di singolarità, di discontinuità (cfr. D. Harvey, The Condition of Posmodernity,
Basil Blackwell, 1990; trad. it. La crisi della modernità, Il Saggiatore, Milano, 1993.)
8.
È evidente quanto nella transizione dal rock colto al punk e alla new wave e alla conseguente carnevalizzazione e
performatività dei gruppi musicali anni '70 e '80, sia risultata pregnante la temperie culturale postmoderna (cfr.
M. McLarhen, The Great Rock'n'Roll Swindle, Arcana Editrice, Milano 1982).
9.
J.-F. Lyotard, La condition postmoderne, Minuit, Paris, 1979; trad. it. La condizione postmoderna, Feltrinelli,
Milano 1980.
10. I. Hassan, The Dismberment of Orpheus. Toward a Postmodern Literature, The University of Milwaukee Press,
Madison, 1971.
11. Definizione, peraltro, rifiutata da Hassan, che reputa «indefinibile» il clima culturale analizzato.
12. Cfr. I. Hassan, Pluralism in Postmodern Perspective, in Critical Inquiry, 12, n. 3, 1986.
13. Ibidem, p. 100.
14. Ibidem, p. 102.
15. Ibidem, p. 106.
16. Cfr. G. Fornero e F. Restaino, Nicola Abbagnano. Storia della Filosofia, vol. X, «La filosofia contemporanea»,
tomo IV, pp. 3-16.
17. Cfr. Chiurazzi, Il postmoderno, Bruno Mondadori, Milano 2002.
18. Orientamento teorico e metodologico risalente, con diramazioni successive, all'opera del linguista svizzero
Ferdinand de Saussure, che considera la lingua come un insieme strutturato di elementi interagenti e
interdipendenti; successivamente la definizione è stata adottata anche per indicare gli indirizzi di pensiero che
hanno esteso alle scienze umane i principi dello strutturalismo linguistico, per cui i fenomeni culturali sono visti
come insiemi organici tra i cui componenti vigono relazioni costanti e sistematiche: l'antropologia (con Claude
Levi-Strauss), la critica letteraria (con Roland Barthes), la psicanalisi (con Jacques Lacan), l'esegesi marxista
(con Louis Althusser), la filosofia della cultura (con Michel Foucault) e la neo-liguistica (con Roland Jakobson).
Per una comprensione analitica del fenomeno cfr. G. FORNERO e F. RESTAINO, Nicola Abbagnano -- Storia
della Filosofia, volume decimo -la filosofia contemporanea-, tomo primo pagg. 314-483.
19. F. D'Agostini, Analitici e Continentali. Guida alla filosofia degli ultimi trent'anni, Raffaello Cortina Editore,
Milano, 1997, p. 405.
20. Lo spazio dell'irrappresentabile, per i poststrutturalisti corrisponde a quello «spazio di significazione» i cui
motivi trainanti sono le forze pulsionali, il gioco, il desiderio, i «principii dinamici», ovvero tutti quelle strutture
psico-energetiche (Deleuze) che alimentano le forze di produzione (culturale, artistica, economica),
normalmente inibite e imprigionate dai vari tipi di «struttura» (nuova traduzione «scientistica» di concetti quali
«Dio», «Soggetto», «Stato», «Ideologia»).
21. M. Heidegger, Sein und Zeit, Niemeyer, Tübingen 1927.
22. Inteso come «fodamento» che soggiace a ogni fede metafisica tradizionalmente acquisita. Per una definizione
analitica del termine, cfr. la voce «soggetto» dell'Enciclopedia Garzanti di Filosofia, ed. 1993.
23. Cfr. N. Abbagnano, G. Fornero, Filosofi e filosofie nella storia, Paravia, Torino 1990, vol. III, p. 611.
24. Cfr. G. Deleuze, La scrittura e la differenza (1967), trad. it. Einaudi, Torino, 1991.
25. J.-F. Lyotard, La Condition Postmoderne, Minuit, Paris, 1979; trad. it. La condizione postmoderna, Feltrinelli,
Milano, 1980, p. 9.
26. A. Touraine, La società post-industriale (1969), Il Mulino, Bologna 1970.
27. D. Bell, The coming of post-industrial society. A Venture of Social Forecasting, Basic Books, New York 1973.
28. Z. Brzezinski, Between Two Ages, The Viking Press, New York 1970.
29. A. Touraine, op. cit.
30. D. Bell, The End of Ideology, Glencoe, III., Free Press, 1960.
31. D. Bell, 1973.
32. D. Bell, op. cit., p. 161.
33. Da qui l'insistenza sul ruolo dei metodi di «monitoring» e di «assessment» delle mutazioni tecnologiche.
34. Dati ricavati da http://www.census.gov/epcd/www/econ97.html.
35. Ibidem.
36. Ibidem.