CONTRADDITTORIETÀ DI TERMINI E PRINCIPI NELLA LOCUZIONE “TRANSAZIONE SU TITOLO NULLO” Sommario: 1. Autonomia privata, negozio giuridico e rapporti etero determinati in un contesto di valori determinato. Dalla libertà ai limiti. La transazione nell’ambito dei fenomeni dispositivi. 2. La teoria delle trasformazioni giuridiche, la pacificatio controversie e l’efficacia preclusiva della transazione. 3. Indisponibilità dei diritti in “senso tecnico” e convalida dell’atto nullo. 4. Il complesso rapporto tra l’art. 1972 c.c. e l’art. 1966 c.c., tra indisponibilità dei diritti, nullità e poteri transattivi 1. Autonomia privata, negozio giuridico e rapporti etero determinati in un contesto di valori determinato. Dalla libertà ai limiti. La transazione nell’ambito dei fenomeni dispositivi. La particolare connotazione che l’autonomia privata assume nel settore della risoluzione extragiudiziale delle controversie non può comprendersi se non si ripercorrono gli istituti e le problematiche che appartengono alla relazione che intercorre tra il potere pubblico e il potere privato; e il contratto di transazione rappresenta punto di vista privilegiato sulla conflittualità che traspare nel settore, per l’esistenza e l’insistenza di interessi naturalmente contrapposti tra l’auto e l’ etero regolamentazione nella soluzione dei conflitti. Ai privati è dato – nell’esercizio della loro autonomia – di dare un assetto determinato ai propri interessi dettando regole sostanziali volte a disciplinare i reciproci rapporti; del pari essi possono – qualora sia insorta una lite o dell’insorgenza di esso vi sia concreto timore – dettare una regola nuova, di più fermo contenuto, di più univoca interpretazione, di più sicura attuazione, che si sostituisca – in tutto o in parte – alla regola anteriore che disciplinava il rapporto controverso. Anche la transazione, dunque, è atto destinato alla posizione di una regola e – rispetto agli altri atti di autonomia privata – presenta una caratteristica ulteriore e peculiare: l’avere essa stessa ad oggetto una regola a questa preesistente e sulla quale è destinata ad incidere, rendendola irrilevante per il futuro e sostituendosi ad essa. Così individuato l’elemento caratterizzante del negozio transattivo, si propone fondamentale quanto ineludibile, il problema del rapporto tra regola transattiva e regola preesistente, tra regola nuova e regola antica, tra regola convenzionale ed il complesso delle regole del sistema normativo. E ciò, tanto più, qualora si consideri la possibilità che la regola sostituita sia regola legale, munita di forza imperativa, o tragga la propria fonte da atti di esercizio di poteri di autonomia collettiva, posti in essere da soggetti portatori di interessi superindividuali. La regola convenzionale è destinata ad operare nell’ambito dell’ordinamento giuridico generale. Tra norma privata e norme del sistema di riferimento deve sussistere una relazione di compatibilità, in difetto della quale la regola convenzionale non può acquisire il connotato della giuridicità e rischia di vedere vanificata e compromessa la propria funzione di regolamento impegnativo e vincolante. Quanto detto si giustifica soprattutto in un ordinamento giuridico caratterizzato da una gerarchia delle fonti e dei valori, laddove ogni norma ordinaria non può non rispondere ad un giudizio di meritevolezza, idoneità, coerenza e ragionevolezza secondo la rilevanza degli interessi e dei valori in gioco nel singolo atto negoziale. La disposizione normativa deve, infatti, essere analizzata sia per identificare il fine in virtù del quale fu emanata (cioè quale fatto storico) sia come frutto di una esigenza ancora non completamente realizzata, per ricavarne l’attuale fondamento “logico in rapporto di principio a conseguenza, se si analizza la norma sotto forma di giudizio logico” e “assiologico in rapporto di stregua ad applicazione, se si analizza la norma sotto forma di valutazione comparativa degli interessi in conflitto o protettiva di una funzione sociale di grado superiore”. Ogni diritto soggettivo attribuisce al suo titolare una serie di facoltà, ma delimita anche la direzione entro cui può esercitarsi il potere dispositivo. Va, infatti, stabilito entro quali limiti l’atto di autonomia può essere utilmente impiegato per perseguire un risultato che lo trascende, costituendo questo il fine ultimo verso il quale l’operazione è protesa. Peculiari risultano, a tal fine, gli indici di rilevanza normativa, che fissano la caratteristica disciplina della nullità del negozio. In virtù di fenomeni di aggiramento, che incontrano il solo limite dell’inopponibilità degli acquisti ai terzi nelle ipotesi della c.d. disposizione giudiziale dei diritti, delle reciproche concessioni nella transazione, la nullità, però, di per sé talvolta corre il rischio di rappresentare piuttosto che un mezzo idoneo a reprimere, uno strumento volto a scoraggiare determinati assetti di interessi. 2. La teoria delle trasformazioni giuridiche, la pacificatio controversie e l’efficacia preclusiva della transazione. Quanto all’effetto preclusivo, che la transazione compie sulla situazione giuridica originaria, questo deve essere visto come l’irrilevanza di ogni pretesa che sia difforme da quella che, oggetto di transazione, ha ricevuto una determinata conformazione. L’effetto tipico della transazione è, infatti, quello di escludere la possibilità di azionare nuovamente la situazione giuridica dedotta nella pretesa e nella contestazione per quella parte che è stata oggetto di concessione nell’ambito dell’accordo transattivo, con conseguente impossibilità di far valere la nullità della situazione originaria senza aver preventivamente impugnato l’accordo transattivo e limitatamente alle ipotesi di impugnativa legislativamente previste. La pacificatio controversie – realizzata attraverso la creazione di una nuova situazione giuridica, che si sostituisce alla precedente per la parte in cui questa è controversa costituisce l’effetto finale della transazione, corrispondente alla funzione tipica del negozio e all’intento ultimo delle parti. Dalla peculiarità di tale effetto finale possiamo dedurre che dalla transazione nasce un’eccezione - chiamata nelle fonti exceptio rei per transactionem finitae – atta a respingere la riproposizione della pretesa originaria e, in genere, di qualsivoglia pretesa che si richiami alla situazione preesistente, nella misura in cui quest’ultima è stata sostituita dal nuovo regolamento. Tradizionalmente si suole distinguere, per i diritti soggettivi, tre figure di trasformazione : costituzione, modificazione, estinzione, tutte raccolte sotto la rubrica di efficacia costitutiva, intesa quale fenomeno genericamente innovativo . Ogni trasformazione che va ad incidere su di un effetto giuridico deriva da un fatto e allo stesso tempo dà luogo ad un ulteriore effetto giuridico. Vi sono trasformazioni con efficacia conservativa e altre con efficacia costitutiva o innovativa, ma anche trasformazioni a carattere ambivalente; ciò in quanto non necessitano né la conservazione né la innovazione dello stato giuridico anteriore. I fatti giuridici che scaturiscono da tali trasformazioni sono presi in considerazione dal legislatore in modo tale da poter eccettuare dalle situazioni giuridiche preesistenti, così da assorbire e precludere già da un punto di vista sostanziale ogni effetto ulteriore. Si attribuisce a tali fatti la qualifica di preclusivi in considerazione di una terza species di efficacia “preclusiva”, distinta sia da quella conservativa che da quella innovativa. Tale efficacia si realizza laddove vi sono fatti che rompono con il passato, dando vita ad una soluzione che seppur è di continuità nel divenire giuridico allo stesso tempo è una situazione giuridica la cui validità non è legata, né condizionata, all’esistenza di un altro rapporto derivato dallo stato giuridico anteriore. Tali fatti, per l’appunto, ubbidiscono all’esigenza fondamentale della discontinuità delle situazioni giuridiche. Nell’ambito di tali fatti, vi sono due ragioni principali che spingono a riconoscere l’esistenza di situazioni giuridiche originarie che restano per tale motivo sottratte ad un qualunque vincolo di derivazione dallo stato giuridico anteriore. Tali esigenze sono quelle espresse, da un lato, dalla necessità di garantire situazioni in modo pieno e assoluto in quanto consolidate dal tempo, dall’altro dalla necessità di rimuovere quei conflitti che impediscono l’attuazione di certe situazioni giuridiche. Entrambe queste situazioni rispondono all’esigenza di certezza espressa dall’ordinamento giuridico, ma una si riferisce al fondamento temporale delle situazione prescindendo da ogni attuale conflitto sulla loro esistenza o contenuto, mentre l’altra è posta in relazione proprio con l’esistenza di un conflitto di apprezzamenti, prescindendo dagli aspetti che quella situazione giuridica ha vissuto nel tempo. A fondamento della seconda classe di fatti preclusivi è posta l’esigenza di vincere l’incertezza sull’esistenza e sul contenuto di certe situazioni giuridiche; quell’incertezza oggettiva derivante dal conflitto intersoggettivo tra due diversi apprezzamenti e diverse versioni tra di loro in contrasto che due soggetti hanno sulla medesima realtà. Tali posizioni vengono a configurare posizioni di segno opposto, che rivestendo il medesimo valore giuridico danno vita ad un dubbio oggettivo, che può essere rimosso solo attraverso un ulteriore fatto giuridico in grado di operare sullo stesso piano delle opposte pretese, rendendo quell’incertezza irrilevante per il futuro, in quanto non più invocabile al fine di sottrarsi a quella situazione giuridica precedentemente fatta valere. L’atto transattivo agisce sempre su un rapporto giuridico preesistente che riveste il carattere della litigiosità, che è configurato da una pretesa e da una contestazione; l’art. 1965 c.c. determina la giuridicità del risultato: la definizione della lite nasce, infatti, come attività umana e muta poi in effetto giuridico. Infatti, le parti transigendo danno luogo ad una nuova situazione specifica, consistente nella proiezione nel tempo di nuovi doveri, poteri, obblighi ecc. Porre fine ad una lite, dunque, significa assumere l’obbligo di adeguare il proprio comportamento futuro alla cognizione di una nuova realtà dalla quale ogni contestazione è stata rimossa . Un comportamento può essere definito doveroso quando è conforme ad una determinata prescrizione normativa; con la stipula di un accordo a carattere transattivo le parti assumono l’impegno di tenere un comportamento che mantenga inalterato il risultato descritto nella norma, cioè la definizione della lite; ciò vale quanto dire che le parti con la stipula di un contratto di transazione assumono l’impegno di non porre in essere comportamenti che si pongano in contrasto con il disposto normativo, assumendo l’obbligo di non modificare ulteriormente l’assetto costituito con l’incontro delle loro volontà. A tali premesse consegue che può essere ricondotto alla transazione un effetto tipico consistente nell’obbligo di tenere comportamenti che non si pongano in contrasto con lo stato di cose che è venuto a crearsi successivamente all’accordo transattivo. Dunque, le parti assumono l’impegno di non dare più seguito alle affermazioni del proprio diritto così per come prospettate nelle relative pretese; e, dunque, in primo luogo si impegnano a non proporre azione in giudizio, atto concreto, per eccellenza, idoneo a determinare l’effettiva violazione dell’obbligo assunto. Appare, pertanto, necessario definire come la transazione operi sulla situazione originaria, cioè come la disposizione della pretesa e della contestazione si ripercuotono sulla situazione giuridica sostanziale . Rinuncia alla pretesta non significa solo rinuncia al diritto sottostante alla pretesa stessa, ma significa prima di tutto rinuncia a pretendere o rinuncia alla rilevanza giuridica della pretesa; ciò sotto il profilo dell'effetto giuridico potrebbe, innanzitutto, significare perdita della tutela giurisdizionale ovvero dell’azionabilità della situazione giuridica soggettiva oggetto di quella pretesa. La disposizione della pretesa deve essere individuata nella disposizione della situazione giuridica sostanziale ovvero nella disposizione delle azioni poste a tutela di quella situazione sostanziale. Ma mentre il primo effetto ha carattere eventuale il secondo ha carattere costante ed ineliminabile. L’effetto tipico della transazione semplice è quello di eliminare la possibilità di azionare la situazione giuridica, di pretesa e contestazione, dedotta in lite per quella parte riconosciuta con il regolamento transattivo. Si parla di un effetto estintivo relativo alla tutela giurisdizionale della situazione giuridica dedotta nell’atto transattivo. Sul riconoscimento di tale effetto come effetto tipico della transazione si basa l’exceptio litis per transactionem finitae, con cui la parte in causa potrà far valere l’inammissibilità di una decisione sul merito nel caso in cui esista una controversia composta transattivamente, salvi, naturalmente, i casi di impugnazione . La conclusione raggiunta presuppone che, in accordo a quella parte della dottrina processualistica che riconosce la possibilità di rinuncia al diritto di azione, si ammetta la capacità dei singoli di abbandono della tutela giurisdizionale relativamente ad un certo rapporto. Il ruolo preclusivo che il contratto di transazione è in grado di svolgere rispetto alla reiterazione della lite che sia fondata su diritti identici, incompatibili e concorrenti rispetto al medesimo diritto o ai diritti transatti trova il suo antecedente nell’attività difensiva che verrà dispiegata dal convenuto con l’eccezione di transazione e che in tale processo introduce una fattispecie sostanziale a carattere estintivo o impeditivo, a seconda che sia riconosciuta dal giudice come novativa o meno, del diritto fatto valere con l’ulteriore domanda. 3. Indisponibilità dei diritti in “senso tecnico” e convalida dell’atto nullo L’art. 1966 c.c. stabilisce, però, che “per transigere le parti devono avere la capacità di disporre dei diritti che formano oggetto della lite” e che “la transazione è nulla se tali diritti per loro natura o per espressa disposizione di legge, sono sottratti alla disponibilità delle parti”. Sull’esegesi della norma si è a lungo dibattuto in dottrina. Secondo una prima ricostruzione, il primo comma farebbe riferimento alla capacità di agire in senso stretto tecnico ed il secondo alla posizione soggettiva delle parti rispetto al rapporto, cioè alla c.d. capacità dispositiva o legittimazione ad agire . La giurisprudenza è ormai da tempo orientata nel senso della seconda delle tesi citate, ritenendo che la capacità a transigere (art. 1966 c.c. I comma) debba essere intesa non come capacità d'agire, bensì come disponibilità soggettiva dei diritti che formano oggetto del contratto. Più precisamente deve riconoscersi la capacità o il potere di transigere una controversia a colui che ha la capacità o il potere di compiere l’atto idoneo a dar vita alla situazione giuridica controversa. La “capacità di disporre dei diritti che formano oggetto della lite”, di cui parla l’art. 1966 I comma, non si trova dunque, né può trovarsi, proprio per il tenore letterale della disposizione, ad un livello costante, ma è diversamente graduata in relazione ai diritti che formano oggetto della lite. Dipende dalla natura di questi diritti che ne possa disporre, e quindi possa transigere, anche il soggetto di limitata capacità, o il soggetto che abbia un potere d’agire per altri variamente limitato. Il secondo comma richiede invece che i diritti sui quali si transige siano disponibili. Così la transazione che non sia conclusa dal titolare del diritto o comunque da un soggetto abilitato ad agire in nome e per conto altrui è nulla, lo stesso vale se essa abbia ad oggetto un diritto indisponibile. La prima osservazione che sorge, quando si ragiona sull’indisponibilità è che questa, come possibilità di disposizione limitata, riguardi più l’esercizio del diritto – o quantomeno la fase dinamica del diritto - che non il diritto in se stesso, come astratto conferimento di poteri al soggetto. L’esercizio del diritto è collegato a due elementi: uno attivo, la volontà del soggetto, ed uno passivo, il contenuto del diritto. Astrattamente inteso, il diritto, delimita i confini all’interno dei quali il soggetto può realizzare la propria volontà rispetto a quella determinata cosa. Possono, però, verificarsi ipotesi in cui la legge fissa delle limitazioni alla normale libertà di scelta e tale limitazione può verificarsi sia vincolando il soggetto che l’oggetto. Nella prima circostanza interviene di massima un principio di diritto pubblico che limita l’attività del medesimo; nel secondo caso la cosa materiale resta vincolata ad un certo scopo, che rappresenta un limite invalicabile per il soggetto. Ma carattere essenziale dell’indisponibilità è la relatività; diversamente ragionando verrebbe meno la ragione di ricorrere al concetto dell’indisponibilità come separato strumento giuridico: in tal caso l’indisponibilità sarebbe talmente penetrante il diritto da modificarne la natura e trasformarlo in una nuova forma giuridica. E’ naturale, infatti, che l’ordinamento giuridico tuteli le condizioni essenziali e gli elementi che integrano la personalità, ma in tal caso deve parlarsi di indisponibilità solo in senso generico. Nella realtà si tratta del riconoscimento che il diritto accorda ad una certa struttura giuridica della personalità, alla quale viene attribuita una speciale tutela; siffatta struttura non deve, però, essere confusa con il vero e proprio diritto soggettivo indisponibile . E’ necessario, dunque, scindere il concetto di indisponibilità come criterio astratto e generale da quello di indisponibilità intesa in senso stretto e tecnico, che comporta una limitazione all’esercizio del potere di disporre di diritti soggettivi. Come correttamente sostiene parte della dottrina, il concetto di indisponibilità giuridica in senso tecnico è proprio dei diritti patrimoniali, in quanto può essere considerato disponibile ciò che si può o meno avere, non ciò che può riferirsi ad uno status o ad una qualità del soggetto basata sull’intuitus personae. Inoltre l’indisponibilità deve essere riferita ad un concetto a carattere temporalmente definito: il non poter disporre permanentemente di un diritto che si può avere o non avere è un concetto contraddittorio. Il potere di disporre non ammette, poi, limitazioni assolute. Di fatti, la sanzione che viene attribuita all’indisponibilità è quella dell’inefficacia del negozio giuridico, cioè è soltanto limitata l’efficacia dell’esercizio del potere di disposizione. Quelli che la dottrina comunemente definisce come diritti indisponibili, dunque, sono più correttamente da qualificarsi come diritti inseparabili dal soggetto o inalienabili, in vista della loro connessione con uno status o con una qualità del soggetto, basata sull’intuitus personae, e della ricorrenza di un interesse pubblico. Il concetto di diritto indisponibile (in senso tecnico) va quindi riservato ad un tertium genus. A tal fine appare di estrema importanza evidenziare che esclusivamente la violazione di un interesse sottratto, a livello legislativo, alla possibilità di disposizione dei singoli può portare con sé la sanzione della nullità, laddove, diversamente, non sarebbe possibile escludere la possibilità di decisione rispetto ad un interesse, che sia privo di una valutazione in termini di indisponibilità da un punto di vista giuridico. Secondo il disposto dell’art. 1423 c.c., salvo che la legge disponga diversamente l’atto nullo non può essere sanato. Secondo i più la ratio legis che governa tale principio è correlata agli interessi generali che la sanzione della nullità è volta a tutelare: la convalida, poiché atto di autonomia privata, è ammissibile solo nei limiti in cui verta su situazioni disponibili e, dunque, è esclusa in caso di negozio nullo. Lo stesso art. 1423 c.c., però, facendo salva la possibilità che la legge disponga diversamente ammette che la regola della non convalidabilità del negozio nullo possa subire delle deroghe. È noto che la configurazione classica dell’invalidità si articola attorno alle concettualizzazioni ereditate dalla Pandettistica, parzialmente recepite nelle scelte operate dal Codice del 1942; in conseguenza di ciò, la dottrina del XX secolo tende – con qualche eccezione – a radicalizzare la contrapposizione fra nullità e annullabilità, ritagliandone i caratteri attorno a schemi funzionali rigidi e non sempre rispondenti ai dati positivi. Alla luce dei recenti sviluppi normativi e dottrinari la vecchia concezione unitaria dell’invalidità come categoria giuridica omogenea, con la sua conseguente articolazione in due diverse ipotesi applicative in base alla maggiore o minore gravità, è entrata in crisi. È, dunque, il caso di rivedere la figura del contratto nullo come mero fatto in senso stretto, per aderire ad una lettura ove l’elemento decisivo dello stesso è dato dalla capacità del contratto nullo di rilevare come fatto costitutivo di pretese ed eccezioni azionabili ex lege e ove questa forza del titolo dell’autoregolamento invalido non é omogenea ma muta in ragione dell’assetto degli interessi coinvolti, mutando in conseguenza di ciò anche le argomentazioni circa il possibile delinearsi di un insieme di nullità recuperabili (e/o sanabili) ex voluntate autoris (e/o autorum). 4. Il complesso rapporto tra l’art. 1972 c.c. e l’art. 1966 c.c., tra indisponibilità dei diritti, nullità e poteri transattivi Laddove si riconosca che l’autonomia privata deve essere vista quale atto d’impulso e di iniziativa, ci si deve, dunque, chiedere se sia possibile stabilire in sede di composizione transattiva della lite regole diverse da quelle imposte dalle fonti eteronome; se sia possibile che il potere regolativo dei privati negato o ristretto in ambiti marginali nella fase costitutiva del rapporto possa tornare, successivamente ad espandersi in relazione al negozio transattivo. L’art. 1965 prevede che con le reciproche concessioni si possono creare anche rapporti diversi da quello che è stato oggetto di controversia. Laddove le parti costituiscano un rapporto diverso rientrante tra quelli conformati dal legislatore, dobbiamo ritenere tale rapporto in tutto e per tutto sottoposto alla disciplina dettata da fonti eteronome. In tali casi sarà, infatti, preclusa la possibilità alle parti di invocare la causa transattiva a legittimazione di una conformazione del rapporto diversa da quella prevista dal legislatore. Dunque, quel negozio seppur realizzato nel contesto tipico della risoluzione convenzionale della lite risponderà alla caratterizzazione della volizione negoziale come mero atto di iniziativa. Laddove, invece, la parti, attraverso le reciproche concessioni, modificano od estinguono lo stesso rapporto che ha formato oggetto della pretesa e della contestazione, riottengono la loro massima autonomia dovendo ritenersi sottoposte alla sola previsione dell’art. 1966 II comma il quale prevede il limite della indisponibilità di quegli stessi diritti che formano oggetto della lite. E siffatta indisponibilità non può essere tratta dalla inderogabilità delle norme che vanno a disciplinare il rapporto (indisponibilità in senso tecnico-nullità). Come già evidenziato le norme inderogabili costituiscono un limite, negativo o impeditivo e positivo o conformativo, all’esercizio del potere regolativo dei privati. L’eterodeterminazione del contenuto contrattuale incide sull’attività regolativa dei privati, prevedendo l’invalidità di accordi derogatori, a cui non si riconosce efficacia giuridica in quanto posti al di là dei limiti normativi. Ma concluso il contratto e dunque la fase regolamentare il contratto si pone quale fonte di situazioni di vantaggio o di svantaggio di diritto o obblighi, che da quel momento fanno parte del patrimonio di ciascuna parte. A tali diritti deve, però, essere riconosciuta autonomia logica, concettuale e soprattutto giuridica rispetto alla fonte da cui sono derivati. In relazione a tali diritti ed obblighi già sorti l’autonomia può tornare ad esplicarsi liberamente. Ma se tutto ciò esposto fino ad ora è vero, ineludibile ne deriva la conclusione che riconosciuto che la nullità (di cui si può disporre per via transattiva) debba essere vista come fatto costitutivo di pretese ed eccezioni azionabili ex lege, attribuita alla transazione efficacia preclusiva si riconosca alla transazione un ulteriore effetto tipico e peculiare: quello della rinuncia “irrimediabile”, se non attraverso un procedimento di annullamento della transazione stessa, a far valere in giudizio la nullità, della situazione originaria, disposta transattivamente. La regola di fondo, che risulta per implicito dall’art. 1972 c.c., è quella della validità della transazione relativa a un titolo nullo, salvo che la nullità del negozio derivi da illiceità; infatti, mentre il primo comma sancisce la nullità della transazione relativa a un contratto illecito, perché la illiceità si comunica alla transazione, il capoverso stabilisce che negli altri casi l’annullamento della transazione può chiedersi solo dalla parte che ignorava la causa di nullità del titolo. La regola è importante, sia perché conferma, sul piano positivo, l’indifferenza per la transazione della situazione preesistente, salvo il limite dell’illiceità; sia perché collega all’errore l’invalidità della transazione sul titolo nullo . Per titolo, nella norma in esame, deve intendersi non solo il negozio, ma anche ogni altro atto o fatto che possano costituire fonte di un rapporto giuridico cui possa seguire una controversia. Nonostante la norma faccia riferimento ai contratti illeciti è pacifico, in giurisprudenza, che essa possa essere estesa a tutti gli atti negoziali, anche non contrattuali. Dunque, la disciplina ad hoc del contratto di transazione, prevede all’art. 1972 II comma, un’ipotesi peculiare di transazione lecita su diritto originariamente indisponibile. Ciò detto val quanto dire che in virtù dell’indicata disposizione normativa, nell’ipotesi di transazione effettuata su titolo nullo è sottratto alle parti, in virtù dell’efficacia preclusiva della transazione, il potere di far valere in giudizio la nullità della situazione preesistente: sempre, nell’ipotesi in cui entrambe le parti erano a conoscenza dell’ipotesi di nullità o nel caso del decorso del termine di legge per far vale l’annullabilità della transazione; talvolta e comunque subordinatamente al precedente esperimento dell’azione di annullabilità della transazione stessa, nell’ipotesi in cui una delle parti non era a conoscenza della nullità di cui era affetta la situazione originaria. Egualmente ragionando le parti, entrambe consapevoli del motivo di nullità della situazione precedente, attraverso il contratto di transazione potranno disporre della sanzione nullità, sottraendo ad essa il suo elemento tipico: il suo essere ragione di pretese azionabili senza limiti di tempo in via giudiziaria. Può valer la pena di precisare che la transazione novativa su un titolo nullo può produrre efficacia nei limiti dell’art. 1972, comma II, c.c., a condizione che questa rimuova il vizio del contratto originario sostituito. Altrimenti il contrasto con la norma imperativa, riproducendosi anche nella transazione, ne determina un’autonoma causa di nullità. E’ certo che tra i presupposti di validità della transazione su di un titolo nullo vi è l’eliminazione della causa di nullità. Ciò comporta che l’eventuale transazione con cui le parti intendano sanare un contratto verbale di trasferimento immobiliare sarà nulla se non conclusa nella forma prescritta. Analogamente, la transazione su di un contratto con oggetto indeterminato dovrà contenere, a pena di nullità, tutti gli estremi necessari per la identificazione dell’oggetto. Occorre dunque che, attraverso la stipula della transazione, le parti rimedino alla non osservanza della regola fonte di nullità del titolo: o facendo si che la transazione rispetti la regola stessa oppure ponendo nel nulla il contratto invalido. In tal caso – a differenza dell’ipotesi di illiceità del contratto – non importa che per ottenere la sanatoria del titolo invalido o, al contrario, l’accertamento dell’invalidità stessa una delle parti abbia dovuto effettuare rinunce e concessioni. Ebbene, se così stanno le cose, si può ragionevolmente dire che dal disposto dell’art. 1972 II comma, non discende solo la validità di una transazione novativa ma pure l’ammissibilità di una transazione semplice su di un titolo illegale, della cui nullità vicendevolmente le parti erano al corrente. Tutto ciò in quanto, al fine di far valere la nullità della situazione originaria, l’accordo transattivo su titolo affetto da nullità diversa dalla illiceità di cui al I comma dell’art. 1972 c.c. - che prevede la nullità della transazione, ancorché le parti abbiano trattato della nullità di questo - si può solo impugnare e ciò solo ad esclusiva cura della parte che riesca a fornire la prova positiva di aver ignorato la causa di nullità del titolo. Pertanto se, in accordo alle indicazioni della migliore dottrina, nullo non è il contratto anomalo o imperfetto ma la fattispecie che viola uno dei limiti fissati dalla legge al riconoscimento dell’autonomia privata, alla luce di quanto evidenziato pare chiaro che il contratto di transazione rappresenti un modo di convalidare il contratto ove il limite fissato abbia carattere procedimentale e non funzionale (rectius ove il contratto sia nullo per un motivo diverso dall’illiceità); cioè di come tale strumento di risoluzione extragiudiziale delle controversie, sia in via autonoma, sia come risultato “comune” delle procedure di ADR, sia il mezzo per disporre di diritti “astrattamente” sottratti alla volontà delle parti in gioco, rinunciando alla possibilità di far valere tale difformità in giudizio; ciò in accordo a quanto previsto all’art. 1972 c.c. che ha quale fine specifico di evitare, giusto quanto dispone l’art. 1966 c.c., che la nullità sia materia sottratta al potere transattivo delle parti anche in accordo a chi sostiene che l’interprete, al cospetto di un vizio capace di importare nullità radicale, sia tenuto a distinguere a seconda di come questo si riverbera sulla struttura dell’atto. Il disposto più severo del I comma dell’art. 1972 si spiega, infatti, analizzando il risultato della transazione in rapporto alla norma violata. Il divieto di transigere una lite relativa ad un contratto illecito trae origine dalla particolare pericolosità della violazione; si vuole perciò impedire non solo il raggiungimento del risultato vietato, ma anche che una delle parti sia costretta ad effettuare la pur minima disposizione o rinuncia – requisiti essenziali del contratto di transazione – per ottenere un accertamento convenzionale dell’inefficacia del contratto illecito. A quanto detto deve aggiungersi che qualora le parti controvertono in ordine alla illiceità di un contratto, nel senso che una vorrebbe gli effetti e l’altra ha interesse a farlo dichiarare inefficace, si possono verificare due eventualità alternative: o i contraenti convengono di salvare in tutto o in parte il contratto illecito oppure decidono di porlo nel nulla. Nel primo caso, la transazione è senz’altro nulla, perché volta ad attuare un fine illecito. Per espressa previsione di legge, infatti, è nulla in modo irrimediabile la transazione relativa ad un contratto illecito seppure le parti abbiano trattato della nullità di questo. Nella seconda ipotesi, benché lo scopo della composizione – in quanto diretta ad eliminare un contratto illecito – sia astrattamente meritevole di tutela, la transazione è ugualmente invalida, poiché quello dei litiganti che voleva ottenere l’eliminazione del negozio avrà comunque dovuto compiere una disposizione o rinuncia, la quale trova causa nel negozio illecito. La transazione su contratto illecito, quindi è vietata, non solo perché riguardi in astratto un diritto indisponibile, ma perché, dovendo ricorrere il requisito dell’aliquid datum et aliquid retentum, realizza in ogni caso una disposizione o una rinuncia considerate illecite dall’ordinamento. Ma ragionando oltre e nonostante i limiti dispositivi imposti dall’ordinamento si deve sottolineare, come sia nella ipotesi di cui al secondo comma, sia nell’ipotesi di cui al I comma dell’art. 1972 c.c., laddove si prevede la possibilità di transigere su di un titolo illecito, la nullità della situazione precedente non potrà essere fatta valere in giudizio se non attraverso una preventiva dichiarazione di annullamento/nullità della transazione. Ciò in quanto, secondo il comune ragionare, laddove le parti abbaiano raggiunto un accordo transattivo l’interesse delle parti a porre fine alla lite viene considerato prevalente su qualunque altro fatto della situazione complessivamente considerata. Come è noto, però, la nullità deve essere fatta valere giudizialmente. Dunque, nell’ipotesi in esame, può verificarsi che le parti transigano su di un titolo illecito esplicando la loro capacità negoziale e dando così vita ad un regolamento contrattuale su “fatto” nullo per illiceità che dispiegherà i propri effetti, fin tanto che nessuna delle parti avrà agito in giudizio per far valere la patologia negoziale. A ciò conseguendo che il decorrere del tempo potrebbe comportare ipotesi in cui la situazione originaria si cristallizzi e/o modifichi a tal punto da far venir meno qualunque interesse della parte, contrattualmente più debole e già originariamente lesa dal fatto illecito, a far valere in giudizio le proprie originarie ragioni. Dunque, può concludersi che la transazione porta con sé un peculiare effetto tombale e preclusivo che da riconoscimento: alla parte forte di un ampio potere derogatorio, tale da rendere l’autonomia negoziale sottratta al controllo eteronomo, laddove posto in essere un accordo transattivo la violazione propria della situazione originaria non potrà essere fatta valere in giudizio, salvo l’annullamento della transazione nei limitati casi di impugnazione del negozio transattivo; e alla parte debole pone un limite all’esplicarsi della sua autonomia, laddove questi non potrà più far valere in giudizio, senza incorrere nell’eccezione di transazione, i diritti sorti in virtù della situazione originaria. Ph. D. Maria Consuelo Citriniti