Pensiero borghese e proletario in Storia e

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Numero
Athene Noctua
VII
I nostri Saggi
Pensiero borghese e proletario in “Storia e
coscienza di classe”
di
Giogrio Astone
WWW.ATHENENOCTUA.IT
di
Giorgio Astone
Pensiero borghese e proletario in “Storia e
coscienza di classe”
1. Introduzione
Nel corso del XX secolo, attraverso l’esplicitarsi di diverse ideologie trainanti partiti politici e gruppi
sociali, è stata frequente la ritraduzione di categorie particolarmente incisive della filosofia politica
in ambiti diversi e in parte più ampi, come l’estetica e l’arte. L’esempio a cui ci si riferirà è quello
della contrapposizione marxista fra borghesia e proletariato, che ha condizionato per diverse
decadi non soltanto la visione d’insieme della società di alcune generazioni: difatti è possibile
ritrovare tale antagonismo come cardine di alcune letture essenzialmente filosofiche e
antropologiche.
Questo è ciò che avviene nell’opera maxima di György Lukács, “Storia e coscienza di classe”,
raccolta di saggi fra cui spicca in maniera particolare, in più stretta connessione con la nostra
disamina, “Il punto di vista del proletariato”, terza parte, in realtà, di un saggio ancora più ampio,
“La reificazione e la coscienza di classe del proletariato” (1923), testo dal quale non si può
prescindere per la ricostruzione della categoria della Verdinglichung (reificazione) dell’uomo
moderno, mutuata da Karl Marx.
2. La «spettrale rigidezza» del pensiero borghese
Nell’opera di Lukács “borghese” non rappresenta di certo un semplice ceto; ed il bourgeois come
uomo da una mentalità specifica, inquadrata ed ancorata a determinati valori è tuttora uno dei
tanti risultati dell’influenza del marxismo nel pensiero comune, spesso non ricondotto alla sua
radice. Grande rilievo riveste lo studio sociologico di Max Weber, che prende le mosse in larga
parte da un sostrato equivalente a quello di Lukács e a cui il filosofo fa spesso riferimento: è la
nuova struttura razionale che caratterizza le concezione di questa classe, le categorie quantitative
e neutrali che, simili ad una griglia, ad una «matematica universale1» apparentemente neutrale e
perfetta, si applicano a tutte le analisi storiche, sociali ed economiche.
1
«Anche presupponendo che questa matematica universale sia stata completamente realizzata e non presenti lacune,
questo «dominio» della realtà potrebbe consistere soltanto nel contemplare nella loro positività e correttezza i
risultati ottenuti necessariamente e senza alcun nostro intervento per mezzo di un astratto calcolo combinatorio di
queste relazioni e proporzioni». György Lukács, Storia e coscienza di classe, Sugarco, Milano, 1991, pagina 170.
La critica lukácsiana della razionalizzazione borghese ricorre spesso ad un termine,
metaforicamente teoretico: «irrigidimento», «sclerotizzazione». Anche il procedere della
conoscenza e della “mente” in senso generale può essere considerato in due modi diversi: in un
organico relazionarsi di fasi diverse, un susseguirsi in movimento che può condurre a combinazioni
nuove o simile ad un puzzle con un numero limitato di variabili, un «sistema». Le disposizioni
geometriche delle facoltà e delle funzioni antropologiche e sociali sono state influenzate da quella
che il filosofo chiama la filosofia classica; nel saggio immediatamente precedente, “Le antinomie
del pensiero borghese”, il tipico Streben della filosofia verso la purezza teoretica, la costruzione di
una logica formale e morali valide a prescindere dai tempi e dai luoghi vengono messi in relazione
a quello che diventa il modo borghese par excellence di concepire la storia.
Prima della dialettica hegeliana, eccezion fatta per Vico, la filosofia si occupava d’astrarre ed i
soggetti storici delle prime concezioni borghesi vacillavano fra due estremi tendenzialmente
erronei e ingannevoli: i «grandi individui» e le «leggi di natura2». Solo la dialettica storica (in
particolar modo la prima contenente la classi come soggetti empirici e non attorialità inconsce
come quelle delle istanze hegeliane, il materialismo storico) è in grado di ricostruire il reale in
quanto tale: niente è ultimamente determinato, gli oggetti stessi incarnano rapporti di forza e
relazionali e possono ricondurre alle gerarchie sociali mediante l’analisi dei singoli passaggi della
produzione e del consumo. Il pensiero borghese è dunque, in primis, un filosofare a-dialettico:
blocca gli stadi successivi, trasvaluta quelli precedenti in funzione d’una consacrazione
dell’«immediatezza» (che è pur sempre la realtà preferibile per tale classe rispetto al passato e agli
orizzonti futuri appena abbozzati dal proletariato). Le discipline borghesi, perfino gli autori
borghesi, si sforzano per impedire la riconversione delle conoscenze acquisite in momenti dialettici
d’una successione.
Rimanendo nel calderone della filosofia da Lukács classificata come “classica”, il lavoro che
l’individuo borghese compie nel momento in cui cerca di saldare forzatamente i suoi «sistemi»
riporta alla mente del pensatore ungherese una forma di «proiezione assoluta di un oggetto» che
non riconosce la propria fonte luminosa ed i suoi filtri, teorizzata da Fichte. Con le suggestive
parole dell’idealista tedesco: «tra la proiezione e il proiettato vi è l’oscurità ed il vuoto, cosa che io
ho indicato forse un po’ scolasticamente, ma in modo credo efficace, con l’espressione «projectio
per hiatum irrationalem3». Tale forma assoluta ed oggettiva attribuita alla realtà viene in tutti i
modi affermata come impenetrabile ed immodificabile, le sue leggi sono consequenziali e razionali
proprio perché non necessitano di alcun intervento umano e la comprensione delle stesse non
differisce dalla loro contemplazione; molte sono le conseguenze che una scienza esatta,
qualunque essa sia, dona agli imperativi etici della filosofia classica. È possibile, seguendo Lukács,
che il dovere si riduca sostanzialmente ad un imperativo verso se stessi o che, per spiegare come
la moralità possa influire in maniera incisiva nel cambiamento delle dinamiche della realtà, venga
2
«L’incapacità di comprendere la storia da parte dell’atteggiamento contemplativo borghese si polarizza nei due
estremi dei «grandi individui» come sovrani creatori della storia e delle «leggi di natura» dell’ambiente storico, ed
appare chiaro che entrambi questi estremi sono ugualmente impotenti, sia presi separatamente che insieme, di fronte
all’essenza – che richiede una donazione di senso (Sinngebung) – di ciò che è radicalmente nuovo, del presente». Ivi,
pagina 209.
3
Johann Fichte, Fondamenti dell'intera dottrina della scienza. Citato in György Lukács, Storia e coscienza di classe,
pagina 156.
ipotizzata una mediazione fra la soggettività e l’oggettività (ad esempio la società in cui si vive) e la
morale si costruisca in questo spazio di mediazione4. Per la netta presa di posizione di Immanuel
Kant a favore della prima di queste due diverse impostazioni di concepire i valori ed i doveri
morali, il filosofo ungherese lo considera come un pensatore borghese nel senso teoretico che
“borghese” assume: è chiaro già adesso come il pensiero borghese abbia dei connotati
metodologici che non hanno a che fare minimamente con una banale classificazione statistica
della borghesia empirica, ricondotta al censo; la filosofia kantiana assume i connotati d’una
filosofia borghese per un’impostazione essenzialmente dualistica fra il piano dell’essere (storicosociale, aggiungeremmo noi) e del dover essere:
«Tuttavia, proprio questo è stato reso metodologicamente impossibile dalla fissazione del
meccanismo della natura come forma immodificabile dell’essere, dalla separazione rigorosamente
dualistica tra l’essere ed il dover essere, dalla rigidezza che l’essere ed il dover essere posseggono in
questa contrapposizione e che da questo punto di vista non può essere superata5».
Nell’esposizione storica la ricostruzione dei nessi, quando non viene tralasciata od occultata
volutamente, getta una luce del tutto differente sul fenomeno singolo; questo, inserito in una
totalità, cambia radicalmente valore. Uno degli esempi che Lukács riprende dal primo libro del
Capitale a questo riguardo è quello dell’utilizzo delle macchine nella seconda rivoluzione
industriale; l’abbreviazione del tempo di lavoro dovuta alla meccanicizzazione ed automazione dei
processi può essere accolta con compiacenza solo al di fuori d’una teoria complessiva dei tempi di
produzioni come quella marxista6:
«Il contrasto tra questo genere di considerazione che isola i fenomeni storici particolari ed il punto di
vista della totalità, acquista un rilievo anche maggiore se si confronta il modo in cui l’economia
borghese tratta della funzione delle macchine e ciò che dice Marx a questo proposito: «Le
contraddizioni e gli antagonismi inseparabili dall’uso capitalistico delle macchine non esistono perché
non provengono dalle macchine stesse, ma dal loro uso capitalistico! Poiché dunque le macchine,
considerate in sé, abbreviano il tempo di lavoro mentre, adoprate capitalisticamente, prolungano la
giornata lavorativa, poiché le macchine in sé aumentano la ricchezza del produttore e usate
capitalisticamente lo pauperizzano7, ecc.8»
4
«Ogni teoria del dover essere si trova perciò di fronte al seguente dilemma: essa deve lasciare immodificato l’esserci
dell’empiria, che è privo di senso – e questa assenza del senso è il presupposto metodologico del dover essere, poiché
il problema del dover essere non potrebbe neppure porsi in rapporto ad un essere significativo; ed attribuire così al
dover essere un carattere puramente soggettivo; oppure poter spiegare in che modo il dover essere eserciti
un’influenza reale sull’essere, essa deve assumere un principio trascendente, sia rispetto all’essere che rispetto al
dover essere». Ivi, pagina 212.
5
Ivi, pagina 213.
Semplificando e sintetizzando massimamente, senza dire il falso, è la non corrispondenza fra orario di lavoro e paga,
rappresentabile di fatto con un plusvalore generato da un pluslavoro che il capitalista esige dall’operaio la forma
strutturale principale della produzione capitalistica.
7
Per le ragioni esposte nella nota precedente.
8
Ivi, pagina 202.
6
Come vengono interpretate, allora, nella prospettiva borghese, le catastrofi economiche e sociali?
La crisi economica oggi e, nel caso di “Storia e coscienza di classe”, la prima guerra mondiale e la
rivoluzione russa sono, negli adattamenti filtrati dalla censura e dai nazionalismi, banalizzati
oltremisura dagli studiosi borghesi9, che dipingono ogni scossone nel terreno della storia sulla
quale è stata edificata la base dei loro interessi di classe come imperfezione provvisoria, errore
dovuto a cause esterne, a nemici: la vera e propria rimozione del giornalista e dello storico
borghese riguarda una possibile «storia mondiale e universale» dell’essere umano, a meno che
non porti ad una fine liberale e democratica corrispondente alle loro aspirazioni (come nel caso del
politologo neocon Fransis Fukuyama10).
La continuità non può essere presa in considerazione se la struttura del reale è accettata nella sua
datità come unica e immodificabile; nell’opposto procedere dialettico non ci sarebbero veri e
propri eventi inspiegabilmente dannosi e imprevedibili, tali attributi si riscontrano con queste
cariche di “crisi” e “sorpresa” sono nel pensiero borghese, saldato a basi eccessivamente sicure. Il
mutamento viene concepito come sventura proveniente dall’esterno:
«In questa immediatezza, ogni modificazione reale dovrebbe presentarsi come qualcosa di
incomprensibile. Per queste forme di coscienza dell’immediatezza, l’innegabile dato di fatto del
mutamento si rispecchia come catastrofe, come cambiamento rapido ed improvviso, proveniente
dall’esterno e che esclude mediazioni. In generale, per poter comprendere il mutamento, il pensiero
deve andare al di là della rigida separazione tra i suoi oggetti, deve porre sullo stesso piano di realtà i
loro «rapporti» reciproci, l’interazione fra questi «rapporti» e le «cose». Ed il mutamento sembra
tanto più spogliarsi della propria inintelligibilità, della propria natura catastrofica, diventando così
intelligibile, quanto più ci si allontana dalla mera immediatezza, quanto più si estende la rete di
questi «rapporti» e le «cose» penetrano senza residui nel sistema che essi formano11».
Diverse sono le branche del sapere ove una tale assenza di criticità e di rapporti col passato e col
futuro (una forma di eterno presente e asetticità da laboratorio) ma alcune in particolare
manifestano un’aderenza maggiore con gli interessi e la mentalità della borghesia. Nonostante la
teoria della razionalizzazione come destino dell’Occidente12 di Max Weber faccia parte del
9
«Dopo la guerra e la rivoluzione mondiale, ogni uomo di sicuro giudizio ricorda con orrore la totale incapacità di tutti
gli storici e pensatori borghesi di comprendere gli eventi storico-universali del presente come storia universale. E
questo completo fallimento, che ha portato storici peraltro ricchi di meriti e pensatori penetranti al misero e
spregevole livello spirituale del più deteriore giornalismo di provincia, non può essere sempre e semplicemente
spiegato facendo riferimento a motivi esterni (censura, adattamento agli interessi «nazionali» di classe, ecc.): esso ha
anche la sua causa metodologica nel fatto che il rapporto immediato e contemplativo tra soggetto ed oggetto della
conoscenza crea proprio quell’irrazionale spazio intermedio «oscuro e vuoto» descritto da Fichte, la cui oscurità e
vuotezza, pur presenti nella conoscenza del passato e tuttavia occultate per via della distanza spazio-temporale
storicamente mediata, debbono qui venire alla luce senza veli». Ivi, pagina 208.
10
Faccio riferimento alla famosa tesi di filosofia della storia esposta in “La fine della storia e l'ultimo uomo”.
Ivi, pagina 204.
12
Rinvio, in merito alla razionalizzazione in Weber, al saggio di Diego Fusaro “La gabbia d’acciaio. Il destino
dell’Occidente secondo Max Weber”, reperibile al link http://www.filosofico.net/inattuale/occidente_weber.htm.
11
repertorio lukácsiano e sia stata largamente commentata dall’autore (che ricostruisce
parzialmente la tesi weberiana sulla simbiosi fra calvinismo e capitalismo nel saggio13), la
sociologia rientra nella categoria delle conoscenze schematiche ed oggettivate perché dati e “fatti
sociali” non possono superare il distacco di un atteggiamento meramente contemplativo e passivo
dinnanzi alla realtà14.
Ma può, un sapere, prescindere da dei dati di fatto? Nonostante Lukács mitighi le sue posizioni
teoretiche affermando in diversi luoghi che ogni mediazione necessita di fasi d’immediatezza (che
devono rimanere soltanto delle fasi per chi è avvezzo alla materialismo storico-dialettico e lo
padroneggia), è in maniera decisa e chiara che egli prende posizione contro le spiegazioni
meccanicistiche e limitate dei fatti storici e le accumulazioni di dati sul presente concepite in
maniera strumentale; che si chiamino tendenze o processi, le verità che il filosofo marxista ricerca
sono sempre verità in movimento, oggettualità che sussistono in quel determinato stato
qualitativo per determinate ragioni e per che diversi motivi saranno prima o poi minate e
destituite. Riportando una frase di Engels, Lukács insiste sull’aspetto dialettico del marxismo, la
sua «ortodossia», che penetra a tal punto nella comprensione della società da apportare
ripensamenti teoretici attorno ai concetti di “fatti”, “oggetti” e “cose”: «il mondo non è da
comprendere come un complesso di cose già definite, ma come un complesso di processi15». Per
questo motivo i fatti vengono definiti dal pensatore ungherese «il massimo feticcio teorico e
pratico del pensiero borghese16»: una realtà immutabile non può non far sentire l’essere umano
privo di senso, funzioni e d’una collocazione utile.
Se la «processualità di ogni fenomeno17» viene occultata, il piano del pensiero e quello della praxis
si distanziano sempre di più (in questo caso, ciò è favorito consciamente o inconsciamente dalla
classe borghese e dai suoi attori e rappresentanti) ed «ogni movimento si presenta soltanto come
un movimento accanto ad essi», ai fatti che come la res extensa cartesiana si mantengono su un
piano d’alterità.
A seguire, non manca l’obiettivo polemico principale di tutto il marxismo classico, l’economia
politica; sorta come accompagnatrice del capitalismo, innegabile è sempre stata la sua funzione di
sostenitrice e fondamento del medesimo, tant’è che poche sono state le teorie economiche
sistematiche proponenti prospettive interamente differenti da quella capitalista.
Uno degli obiettivi principali della filosofia di Marx è stato ricondurre «espressamente le false
rappresentazioni che l’economia borghese ha del processo economico capitalistico alla mancanza
di mediazione, all’elusione metodologica delle categorie della mediazione, all’immediata
rilevazione di forme derivate di oggettualità, al fatto che ci si arresta al piano meramente
13
I riferimenti al primo volume dei Saggi di sociologia della religione di Max Weber si trovano a pagina 252 e 253.
«Ciò può avvenire nella forma ingenua di una «sociologia» che cerca «leggi» (alla Comte-Spencer), dove l’insolubilità
metodologica del compito viene alla luce nell’assurdità dei risultati; oppure si può anche, fin dall’inizio, avere una
coscienza critica di questa impossibilità metodologica (Max Weber), ed in questo modo si realizza una scienza
ausiliaria della storia, ma il risultato non cambia: il problema della fatticità viene reintrodotto nella storia, senza
superare l’immediatezza dell’atteggiamento puramente storico – e non importa che questo sia o non sia un risultato
intenzionale di questi sforzi ». Ivi, pagina 204.
15
Friedrich Engels, Ludwig Feuerbach e il punto d'approdo della filosofia classica tedesca. Citato in György Lukács,
Storia e coscienza di classe, pagina 263.
16
Ivi, pagina 243.
17
Ibidem.
14
immediato della rappresentazione18». L’attuazione del “liberismo economico”, la separazione
progressiva fra l’economia e la sfera d’azione dello Stato da un lato e l’economia e la politica
dall’altro19, fanno sorgere nuove forme di fatalismo ove il membro della società è «prigioniero
della fatticità empirica immediata20». Avviene, dunque, che questa nuova forma di destino sia
identificabile nell’individuo nella sensazione di vivere una realtà che non gli appartiene, che gli è
estranea: la categoria dell’Entfremdung (estraniazione) viene efficacemente individuata da Marx
nel legame paradossale con l’opposta impressione di libertà e potere crescente del borghese
ingenuo, ragionando sul meccanismo della concorrenza nei Grundrisse: «questo genere di libertà
individuale è perciò al tempo stesso la più completa soppressione di ogni libertà individuale e il più
completo soggiogamento dell'individualità alle condizioni sociali, le quali assumono la forma di
poteri oggetti, anzi di oggetti prepotenti21».
Per un verso, perciò, una razionalizzazione onnipervasiva, per l’altro l’eternizzazione del presente
e delle sue coordinate sul futuro e sul passato. Fatti come le guerre o le crisi sono interpretate
come incidenti esterni e, se esistono dei processi, ritornano su se stessi e non comportano
conseguenze e punti di rottura; ma a questi fattori del pensiero borghese si aggiunge, in maniera
conseguenziale, anche un atteggiamento che abbiamo definito fatalistico, di prigionia ed
estraniazione.
Simili sono le reazioni che le religioni hanno dinnanzi al mutevole flusso degli accadimenti:
l’impotenza dell’uomo ha da sempre comportato un rimettersi obbediente e fiducioso (o ansioso e
affannato) nelle mani della divinità. La religione come sublimazione del naturale desiderio di
comunità umana e convivenza serena, la narcosi dell’oppio del popolo implica sempre una fuga
dall’immediatezza, rifiutata e non accettata, ma è pur vero che tale fuga dissuade da qualsiasi
tentativo di modifica, fuga speranze terrene; il sentimento religioso «è la realizzazione fantastica
dell’essenza umana, perché l’essenza umana non possiede qui alcuna vera realtà22». Il vero trait
d’union fra la dimensione spirituale delle religioni e quella della personalità del bourgeois è
l’incomunicabilità fra la psiche e la realtà, le istanze interiori e le strutture esteriori. Questa
intangibilità comporta un rintanarsi, un ri-flettersi in sé stessi. Ciò viene messo in evidenza da
Lukács specificatamente per il manifestarsi della Verdinglichung nella dicotomia di impersonale e
personale ripresa dall’opera principale di Georg Simmel, “La filosofia del denaro” (1900), e
commentata criticamente. Scrive Lukács:
«Così, ad esempio, dice Simmel proprio sulla struttura coscienziale ideologica della reificazione:
«Perciò, queste direzioni opposte, una volta intraprese, possono anche tendere ad un ideale di
separazione assolutamente pura: quanto più il contenuto «positivo» (Sachgehalt) della vita diventa
«positivo» (sachlich) ed impersonale, tanto più il residuo non reificabile di questo contenuto diventa
personale – una proprietà sempre più incontestabile dell’io». In questo modo, tuttavia, si assume
come principio di spiegazione di tutti i fenomeni, trasfigurato in valore, proprio ciò che dovrebbe
essere derivato e compreso per mezzo della mediazione: la fatticità inesplicabile ed inesplicata
18
Ivi, pagina 206.
«Il fatalismo economico impedirà a qualsiasi azione di penetrare in profondità nel campo economico, mentre una
concezione utopistica dello Stato conduce verso un atteggiamento di miracolistica attesa oppure ad un’avventurosa
politica delle illusioni». Ivi, pagina 257.
20
Ibidem.
21
Karl Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica (Volume I). Citato in Stefano Petrucciani,
Reificazione. Significati e usi di un concetto marxiano, pagina 335.
22
Karl Marx, Critica alla filosofia hegeliana del diritto. Citato in György Lukács, Storia e coscienza di classe, pagina 250.
19
dell’esserci e dell’essere-così della società borghese riceve il carattere di una legge naturale eterna o
di un valore culturale atemporale valido23».
L’Esserci (Dasein) e l’Essere-Così (Sosein) della società borghese provoca indifferenza e sviluppo
introvertito: ma che questo derivi da una presa di posizione nei confronti del transeunte, visto
adesso come ordine immanente ed incontrovertibile delle cose, non viene messo in evidenza dalle
descrizioni unicamente fenomeniche come quelle di Simmel e del Thomas Carlyle di “Past and
present”, altro campione citato dal filosofo marxista. L’analogia con la religione si palesa nella sua
consequenzialità: le combinazioni che portano ad un soggetto assolutamente libero in una realtà
oggettivamente determinata o, viceversa, ad una realtà assolutamente trasformatrice di
soggettività prodotte e reificate, avranno sempre e comunque a che fare con una rinuncia di tipo
religioso. Da questo punto di vista l’habitus della borghesia coincide con lo scavo d’un tunnel
ascetico e schizoide nei confronti delle sorti del futuro ed alle morali sia religiose che borghesi
appartengono diverse formulazioni di «imperativi etici» (c’è ancora, fra le righe, un riferimento a
Kant come pensatore della borghesia) che decretano e potenziano di volta in volta la medesima
«intangibilità24».
Se accettiamo l’accezione di “borghese” come classe (che ha, dunque, un suo essere soggetto)
rispetto al ceto (si vedrà meglio la problematicità di tale dicotomia per quanto concerne il
proletariato) e a tale classe si attribuisce un determinato modo di pensare, una sua propria
filosofia, è possibile indagare la reciproca influenza fra tale modalità d’esistenza e la tensione
religiosa storicamente determinata. Al parallelismo weberiano riguardante l’ascesa del capitalismo
e il calvinismo il filosofo ungherese aggiunge che una proiezione di ciò che nella realtà non si è
riuscito a risolvere, e non ci si è presi nemmeno la briga di tentare di sistemare, si ripresenta nelle
varie rappresentazioni escatologiche dell’oltretomba; paradossalmente, nelle religioni dove il
χάρισμα ha lasciato definitivamente posto ad una ricerca dello spirituale in nessun modo guidata e
veicolata da altre forze, l’asceta o il brav’uomo assegna le pene a chi è rimasto inviluppato nelle
determinazioni sociali, a chi pur nel male ha tentato di modificare lo status quo. Non v’è una
religione che preveda una «soluzione umanistica (e concreta) del problema dell’umanità» così
come non è presente nel pensiero borghese un tentativo di superamento progressivo delle
gerarchie sociali che si possa considerare attuabile. Le divisioni fra schieramenti di giusti e dannati,
fra inferno e paradiso, fra purezza e penitenza da scontare, non fanno altro che riflettere la
limitatezza e l’assenza di praticità della morale borghese:
«Ad una tale teoria dell’essere non corrisponde soltanto la soppressione della realtà empirica ad
opera di Dio nell’apocalissi (una soppressione che talora, come in Tolstoj, può anche mancare senza
che la cosa muti nella sua sostanza), ma anche la concezione utopistica dell’uomo come un «santo»,
che deve realizzare nel proprio intimo il superamento della realtà esterna: quest’ultima resta perciò
insopprimibile. Finché una simile concezione permane in questa originaria rigidezza, essa si
autosopprime in quanto soluzione «umanistica» del problema dell’umanità: essa è costretta a negare
l’umanità alla stragrande maggioranza degli uomini, ad escluderla da quel «riscatto» nel quale
23
Ivi, pagina 207.
«Si può notare questo duplice aspetto in ogni tentativo analogo a quello del cristianesimo evangelico. La realtà
empirica viene lasciata intatta nel suo esserci (sociale) e nel suo essere-così. Che poi ciò assuma la forma del «date a
Cesare quello che è di Cesare», oppure della consacrazione luterana dell’ordine stabilito, del tolstoiano «non resistere
al male», il risultato resta strutturalmente lo stesso. […] Ciò che importa è che la loro forma fenomenica immediata
viene fissata come intangibile da parte dell’uomo e questa intangibilità viene formulata come imperativo etico». Ivi,
pagina 252.
24
l’uomo diventa realmente l’uomo e la sua vita riceve il suo senso che nell’empiria è inaccessibile. Con
ciò essa riproduce – con segni rovesciati, mutando i criteri di valore e capovolgendo i rapporti di
classe – la disumanità della società classista sul piano metafisico-religioso, nell’al di là,
nell’eternità25».
3. Dialettica delle mediazioni e piano dell’immediatezza
Abbiamo fatto più volte riferimento all’atteggiamento contemplativo in quanto, sic et simpliciter,
affermazione (e in una certa misura anche rassegnazione) borghese. L’opportunità di formulare
«leggi eterne» e «matematiche universali» non sussisterebbe senza una visione d’insieme degli
equilibri sociali e del susseguirsi storico quantomeno stabile e costante; ma è questa, in un’ottica
marxista, proprio la mediazione della borghesia applicata alla realtà. L’immediatezza, la datità, l’hic
et nunc, sono mediati dalla borghesia con l’attribuzione di caratteri immobili ed eterni, in
contrapposizione con la mediazione della dialettica storica rivoluzionaria che vede in essa
tendenze che hanno bisogno di produrre nuovi risultati e, soprattutto, contraddizioni ed antinomie
da superare tramite una σύνϑεσις.
Ci ritroviamo, pertanto, davanti a tre elementi differenti, imprescindibili per qualsiasi filosofia della
storia: l’immediatezza empirica, la mediazione (i filtri conoscitivi ed assiologici dell’epoca e della
classe) e la rinnovata ed accresciuta immediatezza ideale, la verità oggettiva dei rapporti fra
uomini, uomini e cose e concezioni esistenti. Davvero fondamentale per la dialettica del
materialismo storico-dialettico è ricostruire l’azione di un soggetto storico sull’oggetto storico e la
creazione teorica di un soggetto teoretico, anch’esso non meno determinato: è la questione,
mutatis mutandis, dell’indagine sul produttore (Erzeuger26) del pensiero.
L’immediatezza stessa, nella pura empiria, quale congerie caotica di dati e fatti, assume una forma
sempre necessariamente ideale di verità oggettiva dell’esistente, senza la quale non sarebbe
«percepita» e studiata in nessun modo come totalità: «Ciò non toglie che, a causa della diversa
posizione che queste due classi occupano nello «stesso» processo economico, siano
fondamentalmente diverse le categorie specifiche della mediazione attraverso le quali esse
portano alla coscienza questa immediatezza27». Esiste, d’altronde, un vessillo dietro al quale la
coscienza borghese si nasconde e attraverso di esso sembra trovare una tregua dagli assalti
frontali del marxismo rivoluzionario che ambisce ad una rilettura teoretica e totale della filosofia:
la cosa in sé. Questo ulteriore riferimento polemico a Kant nell’opera di Lukács è tuttavia
reinterpretato come punto d’arrivo d’un percorso di «fissazione» ontologico-teoretico di tutta la
filosofia classica tedesca; la successione dei tre momenti è invertita nella maggior parte dei casi e
l’immediatezza ideale è considerata come immediatezza empirica, non c’è un passaggio qualitativo
e la mediazione si traduce o in calcolo quantitativo o in qualcosa di soggettivo e “spirituale” in
un’accezione fortemente negativa: «Ritenere dunque che l’influenza esercitata dalla categoria
della mediazione sull’immagine del mondo sia soltanto qualcosa di «soggettivo», un semplice
25
Ivi, pagina 252.
Ivi, pagina 185.
27
Ivi, pagina 198.
26
«modo di valutare» la realtà oggettiva che resta tuttavia sempre «la stessa», significa ancora una
volta attribuire ad essa il carattere di cosa in sé28».
Nondimeno accentuare i caratteri del cambiamento rispetto ad ogni verità oggettiva può produrre
equivoci per il marxismo concepito come mediazione teorica a cui Lukács mira. Essenziale è
ribadire che le transizioni, pur essendo continue ed in movimento perenne, comprendono anche
fasi di oggettività (teorie) ed oggettivazione (pratiche da realizzare) che hanno bisogno di un
tempo e di uno spazio, che sono delle vere e proprie strutture; tutto ciò rappresenta una
differenza sostanziale fra il materialismo storico-dialettico e il relativismo nelle sue diverse
manifestazioni. In realtà la difformità fra il relativismo e la dialettica “classica” pre-hegeliana è
molto sfumata nell’analisi lukácsiana: in un lungo passaggio del saggio vengono considerate
«dialettiche» la concezione eleatica ed eraclitea del movimento ed i loro tentativi di spiegare il
rapporto fra l’Essere ed il Divenire. Le dialettiche classiche29, non essendo storiche, approdano
all’insolubilità di tale rapporto ed i loro risultati riguardo al cambiamento in senso astratto non
possono non riflettersi implicitamente nel senso accordato al divenire storico: Zenone, ad
esempio, può evidenziare le contraddizioni immanenti allo spostarsi di un corpo da un punto
geometrico ad un altro ma metodologicamente le incoerenze insite nell’essere identici e diversi
allo stesso tempo, o in un punto e in un altro che in realtà mai potrebbero collegarsi per l’infinità
di divisioni ipotizzabili fra essi, rimangono tali anche dopo la contemplazione filosofica, che non fa
altro che creare due piani irrelati di Essere-Pensiero e Divenire-Esistenza. Introdurre Marx in un
paragone con la Grecia classica e le tematiche ontologiche può di primo acchito sembrare
azzardato ma il senso di stacco che il pensatore ungherese vuole esprimere nell’evoluzione della
forma dialettica è ben evidente nel passaggio in cui si fa riferimento alle differenze di livello di
“praticità” delle implicazioni teoretiche del simbolismo nell’immersione nel fiume di Eraclito e il
senso complessivo del Capitale di Marx:
«Riconoscere che è impossibile bagnarsi due volte nello stesso fiume è soltanto un’incisiva
espressione per indicare l’incolmabile contrasto tra concetto e realtà, ma non aggiunge nulla di
concreto alla conoscenza del fiume. Invece, riconoscere che il capitale come processo può essere
soltanto capitale accumulato o meglio capitale che si accumula, rappresenta una concreta e positiva
soluzione di un complesso di problemi concreti e positivi, di contenuto e di metodo, che concernono
il capitale. Quindi soltanto se viene superata la dualità fra filosofia e scienza particolare, tra
28
Ivi, pagina 199.
«Tutto ciò presuppone ancora una volta che il rigido essere cosale degli oggetti dell’accadere sociale si scopra come
mera parvenza che la dialettica – la quale rappresenta un’autocontraddizione, un’assurdità logica, finché si tratta del
passaggio di una «cosa» ad un’altra, oppure di un concetto che ha la struttura di cosa ad un altro – trovi la propria
conferma in tutti gli oggetti e che le cose si mostrino perciò come momenti che si risolvono nel processo. Siamo così
pervenuti al limite della dialettica antica, al punto che separa questa dialettica da quella del materialismo storico
(Hegel rappresenta il momento di transizione metodologica, in lui si trovano cioè gli elementi di entrambe le
concezioni in una funzione non interamente chiarita in rapporto al metodo). Infatti, la dialettica eleatica del momento
indica appunto le contraddizioni immanenti nel movimento in generale, ma essa lascia intatta la cosa che si muove.
Sia che la freccia in volo si muova o si trovi in quiete – all’interno del vortice dialettico – essa resta nella sua
oggettualità, come freccia, come cosa. Stando ad Eraclito, è impossibile bagnarsi due volte nello stesso fiume: ma
poiché lo stesso eterno mutamento non diviene, ma è, non produce nulla di qualitativamente nuovo, esso è un
divenire soltanto rispetto all’essere rigido delle cose singole». Ivi, pagina 236.
29
metodologia e conoscenza dei fatti, si può aprire la via verso il superamento nel pensiero della
dualità fra pensiero ed essere30».
Per comprendere pienamente questo passo dobbiamo considerare che il divenire della dialettica
a-storica non ha a che fare con il mutamento qualitativo: l’acqua del fiume scorre tortuosamente
nel letto ed annulla le proprie ondulazioni, i disegni e le forme che l’occhio umano scorge nella
superficie. Il mulinello è quasi un processo, un’energia che appare ma non si mantiene e si
disperde, dissolvendosi nel continuum; «In Marx, invece, il processo dialettico trasforma le forme
di oggettualità degli oggetti in un processo, in un flusso. Nella riproduzione semplice del capitale
appare in tutta la sua chiarezza questa sovversione delle forme di oggettualità che caratterizza in
modo essenziale il processo31». La trasformazione e la sovversione delle forme di oggettualità sono
centrali per la focalizzazione della specificità della dialettica storica e marxista: l’oggettività non è
un’illusione ma un momento necessario e imprescindibile per la continuità il movimento della vita
del pensiero e alla storia umana. Per quanto riguarda il prototipo della nuova dialettica, il capitale
accumulato può essere come mera “accumulazione” esclusivamente nella prospettiva borghese
mentre il problema del passaggio dalla quantità alla qualità non si pone nella dialettica storica,
così come quello più radicale dell’incunearsi del divenire e del mutamento nelle strutture (parola
chiave della filosofia del Novecento) del pensiero e dell’Essere. Il «capitale che si accumula» ha la
parvenza dell’autonomia reificata, indipendente dalle attorialità umane, per la quale il
presupposto dell’accumulazione quantitativa del denaro e dei beni è solo un presupposto storico
antecedente e non sufficiente alla comprensione dell’Aufheben pervenuta.
Il relativismo, così come lo scetticismo, sono a loro volta momenti e criteri della storia del pensiero
che contribuiscono alla nascita della coscienza dialettica e storica. I problemi che derivano dal
rimanere ancorati ad oltranza a tali metodi, però, sono essenziale due: il primo riguarda la sua
improduttività. Il relativismo assoluto non produce nuovi contenuti e, nonostante si separi dalla
razionalizzazione borghese data una volta per tutte, conduce agli stessi risultati nei confronti del
reale: le esigenze d’evoluzione e superamento delle contraddizioni non vengono accolte perché
non s’intravede nel futuro una prossima verità oggettiva. La sicumera della borghesia ed il
relativismo di autori decisamente critici nei confronti di questa come Nietzsche e Spengler sono
nella loro inanità pratica «manifestazioni di decadenza32».
Il secondo problema riguarda il soggetto della posizione relativista-scettica: nel momento in cui
sospendiamo il nostro giudizio sulle cose che ci circondano (ἐποχή) a seguito dell’apprendimento
della precarietà delle valutazioni, dipendenti da circostanze mutevoli, rimaniamo in un certo qual
modo contemplativi. Se non nei riguardi dell’oggetto, del quale s’intuisce la maschera
fantasmatica e le convulsioni che dietro di essa vivono, per quanto concerne il soggetto: l’uomo
rimane un giudice astratto, capace di leggere i fenomeni come se non facesse parte anch’egli del
fenomenico in tutta la sua condizionalità. Il momento nello sviluppo della tradizione marxista in
cui ciò si palesa è il parricidio compiuto da Marx ed Engels nei confronti di Ludwig Feuerbach e
30
Ivi, pagina 268.
Ivi, pagina 237.
32
Ivi, pagina 248. Poco prima nel testo: «La debolezza e l’insufficienza di «audaci pensatori» come Nietzsche o
Spengler consiste appunto nel fatto che il loro relativismo allontana dal mondo l’assoluto solo in apparenza». Ivi,
pagina 247.
31
della sua Gattungswesen (l’essenza della specie umana): l’aspetto decostruttivo della sua filosofia,
incisivo soprattutto nei riguardi delle religioni, difetta nell’assolutizzazione di una soggettività
trascendente la storia. Il relativismo di Feuerbach è definito, in un’espressione ossimorica coniata
da Lukács, «dogmatico»:
«Cercando di imprimere questa svolta alla filosofia, Feuerbach ha esercitato un influsso decisivo sul
sorgere del materialismo storico. Eppure, trasformando la filosofia in «antropologia», egli ha
irrigidito l’uomo in una fissa oggettualità: così facendo, si toglie di mezzo la dialettica e la storia. Qui
si cela il grande pericolo di ogni «umanesimo» o punto di vista antropologico. Infatti, se si concepisce
l’uomo come misura di tutte le cose, sopprimendo ogni trascendenza con l’ausilio di questa
premessa, senza commisurare l’uomo stesso a questo punto di vista, senza applicare la «misura» a se
stessa o – più esattamente, senza rendere dialettico l’uomo stesso – l’uomo così assolutizzato si
presenta semplicemente al posto di quei poteri trascendenti che egli era chiamato a spiegare, a
dissolvere ed a sostituire metodologicamente. Alla metafisica dogmatica subentra – nel migliore dei
casi – un relativismo altrettanto dogmatico33».
La consapevolezza di questo superamento era già presente in Marx ed Engels e si ritrova nelle
undici “Tesi su Feuerbach. Scritte da Marx nel 1845, a soli ventisette anni, vennero pubblicate
postume da Engels all’interno del suo scritto “Ludwig Feuerbach e il punto d'approdo della filosofia
classica tedesca”; a quanto detto da Lukács si aggiunge, nella breve lista marxiana, l’importanza
della dimensione della praxis come punto d’incontro fra pensiero ed esistenza e dimostrazione
stessa della verità d’una teoria. Scrive Marx nella sua seconda tesi: «La questione se al pensiero
umano appartenga una verità oggettiva non è una questione teorica, ma pratica. È nell'attività
pratica che l'uomo deve dimostrare la verità, cioè la realtà e il potere, il carattere terreno del suo
pensiero. La disputa sulla realtà o non-realtà di un pensiero che si isoli dalla pratica è una
questione puramente scolastica34».
Determinazioni razionali e sistematiche borghesi, dialettiche a-storiche e relativismi dogmatici
sono catturati insieme in un’unica rete critica dal marxismo lukácsiano, che non esita ad applicare
anche a tradizioni di pensiero la categoria della reificazione. La Verdinglichung alla sua genesi era
l’espressione utilizzata da Marx per indicare l’oggettivazione riduttiva dei rapporti di
collaborazione alla base dell’organizzazione del vivere civile nei prodotti e nelle merci: gli oggetti
cristallizzano i legami, li sintetizzano talmente tanto da far perdere le loro tracce; uno dei più
riconosciuti meriti di Lukács nella storia del pensiero marxista è stato proprio quello di estendere i
significati di tale riduzione al pensiero e alle attività teoretiche del lavoratore moderno: la
burocrazia diventa una forma di vita psichica ed il giornalismo, per esempio, è considerato la
«punta estrema della reificazione capitalistica35». Nei concetti, comparativamente, si giunge
talvolta ad una cristallizzazione ed una prigionia analoga a quella che le relazioni subiscono nei
prodotti: il filosofo utilizza l’espressione «mitologia concettuale». Sotto un certo punto di vista, si
ha mitologia ogni qualvolta qualcosa di inspiegabile e non-generato viene preso sotto l’ala d’una
33
Ivi, pagina 246.
Ivi, pagina 261. A questa si può aggiungere la celeberrima undicesima tesi, che recita: «I filosofi hanno solo
interpretato il mondo in modi diversi; si tratta però di mutarlo». Il testo integrale delle “Tesi su Feuerbach” di Karl
Marx reperibile al link: https://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1845/3/tesi-f.htm
35
Ivi, pagina 130
34
riflessione. Da un punto di vista tecnico, manca un nesso, si vedono l’inizio e la fine ma non si
trovano i punti intermedi, le «tappe36». Per un altro verso torna ancora quell’assolutizzazione del
soggetto che avevamo indagato a partire da Feuerbach: la mitologia concettuale (pensiamo a
quella hegeliana) è quella nella quale si assume il soggetto assoluto e quello reificato; ciò che
hanno in comune è la ricerca di conferme delle proprie verità ab imo pectore, nel deserto
dell’animo eckhartiano che paradossalmente è visto come il vero habitat di questa psiche pura,
erroneamente non influenzata dall’immediatezza nella libera ingenuità della borghesia:
«Per il reale dominio della realtà immediata è necessario risolvere il problema, abbandonare il punto
di vista dell’immediatezza, mentre la mitologia non rappresenta altro che la riproduzione fantastica
dell’insolubilità del problema stesso; l’immediatezza si ristabilisce ad un grado più elevato. Così quel
deserto che, secondo Meister Eckhart, l’anima deve andare alla ricerca al di là di Dio, per trovare la
divinità, è ancora più vicino all’anima individuale singola che il suo stesso essere concreto nella
totalità concreta di una società umana, che da questo fondamento di vita non può essere percepita
nemmeno nei suoi contorni. Così, per l’uomo reificato, un determinismo cosale decisamente
causalistico è più ovvio e naturale che quelle mediazioni che conducono oltre l’immediatezza
reificata del suo essere sociale. Ma l’uomo individuale come misura di tutte le cose deve
necessariamente condurre nel labirinto della mitologia37».
Ci resta da comprendere, a questo punto, che cosa sia una verità oggettiva nella dialettica storica
del marxismo. Ammettendo categoricamente che le “oggettivazioni” pratiche sussistono
nell’analisi storico-dialettica, come delle incarnazioni di classi e pensieri dominanti, ad esse non
spetta il grado più alto di verità; queste manifestazioni sono già superate dai processi in corso: «le
tendenze evolutive della storia rappresentano una realtà superiore, la vera realtà, rispetto alle
fatticità rigide e cosali dell’empiria, pur emergendo dall’empiria stessa, e quindi senza essere al di
là di essa38».
Le verità si possono intravedere come movimenti che determinano il reale e verità ancora più
interessanti da scorgere sono quelle che lo stanno per determinare nella sua prossima mutazione:
da questo punto di vista molti sono stati i critici che hanno tacciato il marxismo di determinismo o
messianismo nello stesso modo in cui il marxismo lo aveva fatto col pensiero borghese. Da
sottolineare è che nella filosofia di Lukács esiste una rupe dalla quale le correnti del mare e l’intera
valle si scorgono meglio e tale punto di vista privilegiato, metodologicamente superiore per lo
studio filosofico della fenomenologia del capitalismo, è quello del proletariato. Prima di procedere
all’analisi delle motivazioni che portano il filosofo ad accordare tale privilegio alla classe
antagonista alla borghesia, è possibile portare degli esempi concreti di approcci storici-dialettici
che vengono riconosciuti dall’autore come esemplari nell’individuazione di tale tendenze veritiere
nella storia.
36
«Interviene la mitologia ogni qual volta si fissano due punti terminali oppure due tappe di un movimento come suoi
punti terminali – sia che esso appartenga alla realtà empirica oppure si tratti di un movimento di idee per
l’afferramento dell’intero mediato in modo indiretto, senza riuscire a trovare la mediazione concreta tra il movimento
stesso e questi punti che segnano le sue tappe». Ivi, pagina 253.
37
Ivi, pagina 256.
38
Ivi, pagina 267.
Oltre ai molteplici riferimenti a Vladimir Lenin, modello per Lukács è Rosa Luxemburg ed in
particolare la sua opera “L’accumulazione del capitale”. Nelle pagine di Lukács viene ricostruito il
confronto polemico della stessa con i partiti socialdemocratici tedeschi; «l’imborghesimento del
pensiero socialdemocratico » è incarnato, sia per la Luxemburg che per il pensatore ungherese, da
uno dei maggiori militanti del socialismo in Germania a cavallo fra il XIX e il XX secolo, Eduard
Bernstein, che abbandona l’ipotesi di un rovesciamento dell’ordine sociale per un riformismo
moderato ed un dialogo con la classe borghese a favore di concessioni più ampie e benefici per i
lavoratori: «già nei dibattiti intorno a Bernstein si è dimostrato che l’opportunismo deve
necessariamente disporsi sul «terreno dei fatti» per ignorare così le tendenze di sviluppo oppure
per ridurle ad un dover essere di natura etico-soggettiva39». Il riformismo socialdemocratico
ribadisce, in maniera eminentemente borghese, l’immutabilità della datità immediata, a differenza
del comunismo rivoluzionario di Rosa Luxemburg che, in “L'accumulazione del capitale”,
«nell’autentico esercizio della dialettica, ha afferrato l’impossibilità di una società puramente
capitalistica come tendenza dello sviluppo40».Nello scritto della Luxemburg l’accumulazione del
“capitale” ad infinitum viene riconosciuta in pari tempo come la tendenza dominante della
contemporaneità e come astrazione che non si può pienamente concretizzare definitivamente41.
Nonostante l’imperialismo, le guerre ed il colonialismo, la spada di Damocle che pende minacciosa
sulle sorti della produzione della società capitalistica è l’insostenibilità, con la pauperizzazione
progressiva, dell’adeguamento della domanda all’offerta indefinitamente crescente. Le soluzioni
violente e l’extrema ratio della guerra hanno validità limitata se si considera il capitalismo come
forma economica che presto attecchirà in ogni nazione e l’inevitabilità del tramonto di
un’organizzazione della vita collettiva di questo tipo diventa evidente; in questo modo Lukács
tenta di compendiare e commentare la perspicua interpretazione della Luxemburg:
«L’impossibilità economica dell’accumulazione in una società puramente capitalistica non si
manifesta quindi nel «cessare» del capitalismo con l’espropriazione dell’ultimo produttore non
capitalistico, ma nelle azioni che l’approssimarsi di questa situazione (un approssimarsi
empiricamente ancora abbastanza lontano) impone alla classe capitalistica nella colonizzazione
febbrile, nella lotta per la conquista dei mercati e dei territori ricchi di materie prime,
nell’imperialismo e nella guerra mondiale, ecc. […] Nella misura in cui la classe attualmente
dominante cerca di padroneggiare queste modificazioni dell’unico modo ad essa possibile – e sembra
realmente riuscirvi in rapporto ai «fatti» ed ai loro elementi particolari – con la sua cieca e
inconsapevole attuazione delle necessità della sua situazione, essa accelera il realizzarsi di quelle
tendenze il cui senso è il suo stesso tramonto42».
39
Ivi, pagina 240.
Ibidem.
41
Molte sono state le correzioni e le critiche fatte alla teoria luxemburgiana. Una fra tante è l’inserimento di fattori da
considerare come l’incremento della popolazione e dei target di mercato; ciò nonostante, la tensione fra domanda ed
offerta e la sua costante criticità rimane attuale. Fra le più superficiali sono, in aggiunta, le critiche che vedono
inattuali le soluzioni violente e “dall’alto” elencate dalla Luxemburg in relazione alle crisi economiche da parte dei
governi nazionali: che la globalizzazione, ad esempio, non sia altro che la più forte affermazione del neo-colonialismo
vigente è convinzione comune delle sinistre radicali dei nostri giorni.
42
Ivi, pagina 241.
40
4. Il punto di vista del proletariato
Risulta già da quanto detto in precedenza che un motivo per il quale il «punto di vista del
proletariato» è quello che il filosofo deve adottare se vuole scandagliare il senso della storia è la
rigidezza delle forme borghesi e la loro limitata chiaroveggenza per quel che riguarda le tendenze
portatrici di cambiamenti rilevanti e potenzialmente rivoluzionari in germe nel presente. Finora è
stato possibile dimostrare come la filosofia politica di Lukács non possa esaurire i suoi significati in
motivazioni di carattere morale; il marxismo non fa sempre riferimento ad una giustizia sociale da
applicare in quanto volontà ma miscela con consapevolezza istanze di rivalsa a cambiamenti di
carattere teoretico e razionale: quello a cui Lukács mira tramite molte argomentazioni nella sua
opera è comprovare il maggiore acume ed i nuovi dettagli che il filosofo messosi nei panni del
proletariato può scoprire.
In primis, ciò che veramente conta è che il proletariato e la borghesia partono da basi comuni e
comuni sono anche i fenomeni e gli effetti di inumanità ch’esse condividono, di perdita di
controllo e libertà nel sistema perfettamente tecnicizzato ed auto-regolantesi; ma è solo la classe
operaia ad avvertire il malessere derivante dalla reificazione come innegabile, come non plus ultra
delle umiliazioni e punto d’avvio per un rivolgimento dell’organizzazione sociale: è il non avvertire,
il non disperare della borghesia, che le impedisce di apportare cambiamenti sostanziali. La ragione
è che essa non avverte le contraddizioni del vivere collettivo e del vivere fra macchine, leggi e
destini come impeto alla praxis del cambiamento:
«Il proletariato condivide dunque con la borghesia la reificazione di tutte le manifestazioni di vita.
Marx dice: «La classe possidente e la classe del proletariato rappresentano la stessa
autoestraniazione umana. Ma la prima classe si sente completamente a suo agio in questa
autoestraniazione, sa che l’estraniazione è la sua propria potenza ed ha in essa la parvenza di
un’esistenza umana; la seconda si sente annientata nell’estraniazione, vede in essa la sua impotenza,
e la realtà di un’esistenza non umana43».
Abbiamo già affrontato il problema della soggettività tendente esclusivamente all’interiorità nel
borghese; qual è, invece, lo stato della soggettività operaia? Il suo vantaggio è la drammatica
consapevolezza della propria mercificazione, messa più volte in luce da tutta la tradizione marxista
con l’immagine del vender-si come “forza-lavoro”: il lavoratore deve rendersi conto, raggiunta la
sua maturità, che se prescinde dal suo carattere di merce non può sopravvivere ed il suo valore di
scambio è immediatamente il primo passo per una “presa di coscienza” che ha il carattere storicodialettico (dal primo passaggio, l’uomo empirico uguale a tutti gli altri, l’operaio media la visione di
se stesso con la precisa considerazione che la società ha del suo Io e della funzione che gli si
richiede e si specchia nell’uomo costruito socialmente che egli è, esempio d’immediatezza ideale).
Fa parte della sua razionalità, del passaggio alla maturità lucida, realizzare d’essere anche un
oggetto: «in primo luogo l’operaio può prendere coscienza del suo essere sociale soltanto nel
momento in cui diventa cosciente di se stesso come merce. Come abbiamo visto, egli viene
introdotto come puro e semplice oggetto (Objekt) nel processo di produzione dal suo esserci
43
Ivi, pagina 198. La citazione di Marx è tratta da La sacra famiglia.
immediato44». Indubbiamente vi sono alcune condizioni preliminari che permettono il formarsi, in
lui, d’una tale consapevolezza, ad esempio l’avere presente nella quotidianità individui consimili in
tutto e per tutto per quanto riguarda le condizioni di vita e gli stessi ambienti e tempi comuni dei
moderni processi industriali45, ma una volta raggiunto un livello di consapevolezza simile della
propria collocazione nell’essere sociale non è più possibile tornare indietro. Rispetto alla capacità
riflessiva del ruolo del proletariato industriale nel periodo in cui Lukács scrive queste pagine, la
coscienza borghese sfigura per l’imprecisione e l’infantilismo del proprio dis-conoscersi (con le
dovute eccezioni): si staglia fra «la proiezione e il proiettato», per riutilizzare la formula fichtiana,
una lente deformante, l’illusorietà che il vero soggetto della storia e del presente sia “l’individuo”:
«Per la borghesia il soggetto e l’oggetto del processo storico e dell’essere sociale si presentano di
continuo in una duplice forma: l’individuo singolo si contrappone coscienzialmente come soggetto
conoscente all’immensa necessità oggettiva, afferrabile solo in frammenti, dell’accadere sociale,
mentre nella realtà proprio il cosciente fare e lascia fare dell’individuo perviene al lato oggettivo di
un processo, il cui soggetto (la classe) non può essere ridestato sino alla consapevolezza e deve
perciò trascendere di continuo la coscienza del soggetto apparente: l’individuo46».
Abbiamo già visto come lo studioso e lo storico borghese debbano ancorarsi a figure eroiche per
ricostruire gli accadimenti storici. Nondimeno il cittadino ed il bourgeois singolo avverte i
movimenti interni della propria spiritualità e l’estrinsecazione del suo Io in forme astratte di
conoscenza, nelle religioni, nell’art pour l'art, nel culto feticistico delle merci o nell’estensione
delle proprietà, come una attività; come l’Attività umana tout court. Pensiamo, per fare un
esempio, all’imprenditore: la sua individualità gli permette d’illudersi che il capitalismo possa
valorizzare elementi come la creatività e l’innovazione, non curante del fatto che il «velo cosale»
posto sulle persone da quello che al giorno d’oggi si chiama senza mezze misure il mercato del
lavoro possa essere solo accresciuto dal propagarsi delle sue “attività”. Tanto più l’attività
apparente (perché quantitativa e calcolata, sciolta da fini propriamente umani) si diffonde e si
propaga, tanto più l’operaio si scopre inattivo, oggetto, prodotto e reificato e s’avvicina, così, alla
verità di quel processo che lo vede come parte in causa: «per l’operaio, invece, al quale è precluso
questo margine interno di un’attività apparente, la lacerazione del suo soggetto conserva la forma
brutale di un asservimento tendenzialmente illimitato. Egli è perciò costretto a subire come
oggetto del processo la propria mercificazione, la propria riduzione a pura quantità47».
Il filosofo che scopre la novità qualitativa più importante del capitalismo, quella della
riconversione in quantità d’ogni elemento esistente, fra cui la vita umana, non coglierebbe
nessuno elemento fenomenologico e fenomenico rilevante se non adottasse neanche una volta la
prospettiva della classe proletaria (che in quanto classe giunge a questo rifletter-si e s’allontana
dall’individualità come potere-qualcosa valido solo per il borghese).L’operaio è sotto questa luce
44
Ivi, pagina 222.
«[…] potrebbe sorgere nel modo più semplice l’apparenza che questo processo nella sua interezza sia una semplice
conseguenza «secondo legge» dell’unificazione di molti operai in grandi aziende, della meccanizzazione e
dell’omogeneizzazione del processo lavorativo, del livellamento delle condizioni di vita […]». Ivi, pagina 228.
46
Ivi, pagina 218.
47
Ivi, pagina 219.
45
«puro» ma non ingenuo: la sua non-contaminazione gli permette di intuite la vera natura del
processo di reificazione e mercificazione sulla sua pelle e, forse, anche l’illusorietà dalla libertà che
il borghese e il capitalista stesso si attribuisce:
«Il processo della reificazione, la mercificazione dell’operaio, mentre da un lato annienta l’operaio
stesso – sino a quando egli non si ribella coscientemente ad esso, – storpiando ed atrofizzando il suo
«spirito», dall’altro non trasforma in merce la sua stessa essenza spirituale umana. Egli può quindi
completamente oggettivarsi nell’intimo di fronte a questo suo esserci, mentre l’uomo reificato nella
burocrazia, ecc., viene reificato, meccanizzato, diventa merce nei suoi stessi organi che sono gli unici
veicoli della sua rivolta contro questa reificazione. Anche i suoi pensieri ed i suoi sentimenti vengono
reificati nel loro essere qualitativo48».
Chiarita più volte questa posizione privilegiata di studio sugli effetti del capitalismo moderno,
Lukács prosegue con l’affermare che, di fatto, la coscienza proletaria è rimasta l’unica coscienza
possibile, vista e considerata la mancanza di consapevolezza borghese dei processi in atto.
L’aleatorietà, per esempio, dei flussi commerciali, ai quali oggi potremmo aggiungere senza
problemi quella della finanza internazionale, dovrebbe creare un forte senso di estraniazione
nell’uomo che realizza quanto della sua libertà dipenda da un fato impalpabile e invisibile: al
proletario ciò non sfugge per un secondo, in contrapposizione al borghese che edifica roccaforti di
stabilità e spauracchi che negano il carattere anarchico e predatorio dell’investimento del capitale:
«Nel caso delle altre forme vi è invece la parvenza di una stabilità (regolamenti di servizio, pensioni,
ecc.) o la possibilità astratta di un’ascesa individuale49 nella classe dominante. Viene così alimentata
una «coscienza di ceto» che riesce efficacemente ad impedire il formarsi di una coscienza di
classe50».
La «coscienza di ceto», tipica della borghesia, è una in-coscienza per quanto riguarda l’attorialità
storica: sembrerebbe quasi un meccanismo di rimozione difensiva della borghesia, un oblio
volontario del suo ruolo che abbandona le “classi” fra i tanti polverosi retaggi del passato. Il
pericolo di questa auto-percezione della borghesia è che possa diffondersi anche nel proletariato,
sedotto dalle comodità e dalla forma esteriore del denaro; il proletariato che si lascia cullare dalla
speranza di poter accedere alla zona dei privilegi della borghesia perde, con l’assecondare questa
forma di desiderio, la possibilità di risvegliare la sua coscienza di classe e di mantenerla compatta e
coesa. Questo è particolarmente presente nella lotta sindacale e nell’impegno politico-sociale, nel
desistere da continuità in tali ambiti nel momento in cui vengono raggiunte condizioni che
garantiscono una relativa serenità dal punto di vista del benessere economico.
Le differenze teoretiche fra borghesia e proletariato non riguardano soltanto il piano della
fenomenologia soggettiva; differenti sono anche i modi di relazionarsi al presente e al futuro.
48
Ivi, pagina 227.
Sembra echeggiare, nella lettura di questo passo, una forma quasi sentimentale di “tradimento” della causa.
50
Ibidem.
49
Abbiamo più volte ribadito l’inamovibile presa di posizione della borghesia sulla perfezioni delle
leggi indistruttibili, sociologiche ed economiche, che eternizza più o meno coscientemente il
tempo presente; la prospettiva del proletariato è essenzialmente il caso opposto, la più forte
tendenza alla praxis, al risultato del pensiero nel reale delle “Tesi su Feuerbach”, al rinnovamento.
Gli anni in cui “Storia e coscienza di classe” viene concepito sono anche quelli immediatamente
successivi alla rivoluzione russa e non mancano attinenze e riferimenti espliciti. Rilevante è il modo
di accostarsi del filosofo ungherese alla politica di Lenin degli ultimi anni, in riferimento particolare
alla “N.E.P.”, la Nuova Politica Economica applicata in URSS dal 1921 in poi; quest’ultima
prevedeva una parziale apertura al libero mercato, il ripristino della proprietà privata per le
aziende agricole e del diritto di poter vendere i propri prodotti nel mercato nazionale insieme ad
altre misure più moderate rispetto alla chiusura degli anni precedenti. La rischiosa decisione di
Lenin è salutata positivamente da Lukács, che più d’un commento tecnico opta per
l’interpretazione di questa strategia come un «afferrare con tutte le proprie forze l’«anello più
vicino» della catena dello sviluppo dal quale dipende, in un dato momento, il destino della
totalità51».
A prescindere dal concretizzarsi nel comunismo storico delle teorie marxiane o meno, l’approccio
della dialettica storico-materialistica, per funzionare, deve consentire di poter “intravedere” il
futuro; questa pretesa potrebbe sembrare antagonista rispetto a quella della maggiore dignità
razionale che gli occhi del proletariato hanno dinnanzi alla problematicità del reale ma non entra
in conflitto, in realtà, con le premesse generali di ogni dialettica, compresa quella hegeliana: anche
qui il nuovo elemento scaturisce dall’esacerbarsi delle contraddizioni precedenti. Il nuovo non è
«dunque qualcosa che il proletariato trova o «crea» dal nulla, ma una conseguenza necessaria del
processo di sviluppo nella sua totalità; qualcosa che, non appena arriva alla coscienza del
proletariato e viene da essa reso pratico, si trasforma da astratta possibilità in realtà concreta52».
Più che prevedere, il filosofo marxista deve «approssimare il futuro53»: ciò che va evitato non è
soltanto un ripetersi stagnante delle condizioni presenti, proprio perché, nel momento in cui tali
contraddizioni vivono e si esacerbano, il laissez-faire del pensiero borghese può implicare soltanto
un peggioramento di tali tensioni, un riproporsi più violento delle stesse. Nonostante tutto, però,
non è lecito attribuire a questa prima fase del pensiero lukácsiano e del marxismo in generale del
XX secolo un pessimismo che non le è proprio: la contraddizione dialettica, per il suo costituirsi in
questa forma, è destinata ad essere superata ed un ritardo del fiorire delle tendenze sotterranee e
razionali, che preparano un superamento della reificazione per un ritorno all’organico e all’umano,
può protrarsi in maniera limitata senza negare che al proletariato e alla sua prospettiva spetta
«l’esecuzione pratico-concreta del prossimo passo dello sviluppo54».
51
«È merito di Lenin aver riscoperto questo aspetto del marxismo che indica la via verso la presa di coscienza del suo
nucleo pratico. L’esortazione che egli ripete di continuo ad afferrare con tutte le proprie forze l’«anello più vicino»
della catena dello sviluppo dal quale dipende, in un dato momento, il destino della totalità, il suo togliere di mezzo
tutte le istanze utopistiche, quindi il suo «relativismo», la sua Realpolitik, rappresentano appunto l’attualizzazione e la
traduzione pratica delle tesi su Feuerbach del giovane Marx». Ivi, pagina 261.
52
Ibidem.
53
«Soltanto se l’uomo è in grado di afferrare il presente, in quanto riconosce in esso quelle tendenze dal cui contrasto
dialettico egli è capace di creare il futuro, il presente, il presente come divenire diventa il suo presente. Solo chi ha la
vocazione e la volontà di approssimare il futuro può vedere la verità concreta del presente». Ivi, pagina 269.
54
Ivi, pagina 260.
5. Conclusione
La differenza fra coscienza di classe e coscienza di ceto materializza nella nostra riflessioni
numerosi interrogativi che trascendono la speculazione filosofica e tangono problematiche
dell’agire politico nella quotidianità. Gli esempi concreti portati da Lukács, come una migliore
regolazione del lavoro, del sistema pensionistico e del welfare in generale, esplicano
perfettamente quelle incompatibilità, molto spesso dimenticate, fra le prospettive socialiste e
socialdemocratiche e quelle comuniste e rivoluzionarie: il riformismo in quanto palliativo,
accanimento terapeutico di un capitalismo visto come «dominio del passato sul presente55».
Quelle che tuttora vengono chiamate le sinistre europee e che si richiamano spesso a queste due
tradizionali schiere di filosofi politici, sociologi e intellettuali lato sensu, si dividono a loro volta in
sinistre moderate e sinistre radicali. Rimane da stabilire, partendo dai presupposti del
materialismo storico-dialettico di stampo marxista, quale delle due possa fare davvero l’interesse
della classe proletaria (se ancora se ne percepisce una come tale) e quale, al fine d’un processo di
auto-riconoscimento come nuovo soggetto della storia, attui invece una “borghesizzazione”
tendente alla “coscienza di ceto”56.
55
Ivi, pagina 239.
A questo riguardo è possibile trovare argomenti sulla paradossalità d’una sinistra “liberista” o del concetto di
welfare state in relazione all’austerity in filosofi neo-comunisti come Alain Badiou e Slavoj Žižek. Per quanto concerne
il secondo autore, si veda il mio articolo sul “buddhismo occidentale”, consultabile interamente al link:
http://www.athenenoctua.it/?p=4666
56
Bibliografia
György Lukács, Storia e coscienza di classe, Sugarco, Milano, 1991.
Karl Marx, Tesi su Feuerbach. Il testo integrale è reperibile al link:
https://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1845/3/tesi-f.htm
Diego Fusaro, La gabbia d’acciaio. Il destino dell’Occidente secondo Max Weber. Il testo integrale è
reperibile al link: http://www.filosofico.net/inattuale/occidente_weber.htm
Stefano Petrucciani, Reificazione. Significati e usi di un concetto marxiano (in “Politica&Società”
n°3), Il Mulino, Bologna, 2012.
Indice
1. Introduzione..................................................................................................... 3
2. La «spettrale rigidezza» del pensiero borghese................................................ 3
3. Dialettica delle mediazioni e piano dell’immediatezza ................................... 10
4. Il punto di vista del proletariato ..................................................................... 16
5. Conclusione .................................................................................................... 20
Bibliografia ......................................................................................................... 21
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