La diagnosi e le malattie orfane CLAUDIO RUGARLI In una fortunata serie televisiva di argomento medico, il protagonista, il dottor House, si distingue per l’approccio ruvido nei riguardi dei suoi pazienti, ben diverso da quello gentile e comprensivo che viene generalmente raccomandato. La giustificazione del dottor House è che egli combatte le malattie e non si perde nei dettagli dei singoli pazienti. Se per malattia si intende l’entità che viene definita con la formulazione diagnostica, è chiaro che il dottor House ha una concezione essenzialista della diagnosi, ossia considera questa come la identificazione di una entità naturale, appunto la malattia. Questa opinione, largamente condivisa, che ha il suo fondamento nella classificazione anatomo-clinica introdotta da Morgagni nel XVIII secolo, è, a prima vista, inoppugnabile. Se parliamo di una cirrosi epatica ci troviamo di fronte a una serie di sintomi e segni cui corrisponde un’alterazione del fegato, rilevabile un tempo solo con un’autopsia, oggi anche con un prelievo bioptico, la cui esistenza oggettiva è evidente. Lo stesso se diagnostichiamo una polmonite, a parte dettagli che possono distinguere tra una polmonite alveolare e una interstiziale. E gli esempi potrebbero essere numerosissimi. In una parola, la concezione essenzialista della diagnosi ha la sua base storica nella anatomia patologica. Tuttavia, personalmente trovo più persuasiva una concezione strumentalista della diagnosi, ossia che considera la malattia che viene diagnosticata come una astrazione utile per descrivere classi di pazienti e trarne indicazioni pratiche. Questa concezione spiega perché la nosologia, ossia la classificazione delle malattie che compare nell’indice dei libri di testo, e che corrisponde poi a quello che viene diagnosticato, cambi con il tempo. Questo non dipende solamente dalla emergenza di malattie nuove, ma dal riconoscimento di nuovi criteri, oltre a quelli anatomici e clinici, per classificare gli stati morbosi. Intendo criteri fisiopatologici, eziologici e patogenetici che assumono rilievo man mano che 38 nuove scoperte sono acquisite grazie ai progressi della medicina. Eppure, anche in questo caso l’oggettività anatomica può essere sostituita, per esempio, dall’oggettività delle cause. L’esempio delle malattie infettive è particolarmente evidente. Se diciamo che un paziente è affetto da febbre tifoide intendiamo che la sua malattia è stata provocata dalla Salmonella typhi, la cui esistenza oggettiva è indiscutibile. È proprio pensando alle malattie infettive che, nel linguaggio comune, si dice che un tale è stato “colpito” da una malattia, così come si parla di un pedone investito da un’automobile. Ma anche in questo caso, la concezione essenzialista della diagnosi pone dei problemi. Prendiamo l’esempio dell’infezione da virus dell’epatite C. Questo può provocare un’epatite, per lo più cronica, ma anche quella particolare vasculite che si chiama crioglobulinemia mista. E non si consideri la seconda come una complicanza della prima, dato che, quando c’è la crioglobulinemia il fegato è relativamente risparmiato. Quello che voglio dire è che la classificazione delle malattie, e le diagnosi che conseguentemente vengono fatte, dipendono da criteri che cambiano nel tempo a seconda del punto di vista che viene privilegiato. Questo non significa che in una malattia organica non ci siano alterazioni corporee oggettivamente rilevabili, anatomiche o funzionali, ma che la loro collocazione nella nosologia ufficialmente accettata in un dato momento varia a seconda delle esigenze pratiche. E non è detto che in un dato momento tutte le malattie siano classificate con la stessa logica, perché è facile vedere che anche oggi coesistono criteri diversi per malattie differenti. Per esempio, per l’infezione da virus dell’epatite C il criterio eziologico e quello anatomico prevalgono quando si fa la diagnosi di epatite e quello patogenetico quando si parla di crioglobulinemia mista. Perciò è certamente vero che la diagnosi è una descrizione molto imperfetta dell’insieme delle alterazioni oggettive che si verificano in un singolo ammalato. Naturalmente, si potrebbe sostituire la formulazione molto sintetica della diagnosi con una enumerazione analitica di tutti gli elementi costitutivi dello stato morboso che si è verificato in un paziente. E certamente il buon medico, al di là della diagnosi che pone, deve tenere conto di tutto ciò. Ma questo non esaurisce tutti gli interrogativi. Per esempio, che cosa fa sì che in presenza del virus dell’epatite C si verifichi una crioglobulinemia invece di un’epatite? Può darsi che in un futuro non lontano questo si chiarisca, ma le variabili individuali e le loro possibilità combinatorie sono così numerose da aver suggerito da molto tempo il noto principio della clinica medica secondo il quale non esistono le malattie, ma gli ammalati. Perciò il dottor House, spostando la sua attenzione dagli ammalati alle malattie commette un errore fondamentale. Quanto abbiamo qui detto ha delle conseguenze importanti. La nosologia, e le diagnosi corrispondenti, individuano in realtà classi di ammalati unificati dal criterio scelto in un determinato momento, ma gli ammalati non sono identici. È questo un motivo importante di disorientamento per gli studenti di medicina che si stupiscono di constatare quante siano rare le espressioni tipiche delle malattie, come le hanno studiate sui libri di testo. Questo è un problema ben noto anche ai medici pratici che, in difficoltà nel formulare una diagnosi precisa, ricorrono spesso a terminologie vaghe, come “sindrome febbrile”, “sindrome reumatica”, “sindrome dispeptico dolorosa”, come rilevato da Vito Cagli nel suo bel libro La crisi della diagnosi (Armando, 2007). Inutile dire che questa è una pratica scorretta. Esiste un altro problema. Se noi consideriamo la popolazione di tutti gli esseri umani che possono essere definiti ammalati (e già questa definizione merita delle riflessioni sulle quali sorvoliamo) ci dobbiamo chiedere se ciascuno di essi può essere incluso in una o più delle classi che fanno parte della nosologia. In altre parole, se ogni ammalato ha la sua diagnosi e perciò, se questa non viene fatta, è per difetto interpretativo dei medici. Se ci riferiamo al passato la risposta è chiaramente negativa. In passato non si diagnosticavano moltissime malattie, non perché non esistessero, come è il caso dell’AIDS o della SARS, ma anche perché, pur esistendo, non erano riconoscibili in difetto di conoscenze che si sono acquisite in tempi più recenti. Fino alla introduzione in clinica del dosaggio delle transaminasi nel sangue e della pratica della biopsia epatica, si può scommettere che un buon numero di pazienti con epatite cronica vivessero felici, convinti di essere sani. Fino alla scoperta delle crioglobuline e del virus della epatite C, coloro che presentavano la forma mista di questa malattia venivano considerati affetti da una imprecisata (o erroneamente precisata) malattia reumatica. Nel suo famoso romanzo La montagna incantata che, come è noto, si svolge in un sanatorio, Thomas Mann descrive una paziente con una forma particolarmente grave di tubercolosi, che comportava ulcere alle dita delle mani. È azzardato supporre che questa paziente fosse affetta da sclerodermia e che, in passato, le complicanze polmonari di questa malattia venissero classificate erroneamente come tubercolosi? Perciò, per quanto riguarda il passato la risposta è facile. A molti pazienti toccavano diagnosi che oggi consideriamo erronee o addirittura certi non venivano in alcun modo diagnosticati. Naturalmente, nell’affermare questo noi ci riferiamo alla nosologia che oggi abbiamo a disposizione, frutto dei progressi della medicina scientifica. Ma possiamo considerare questa classificazione delle malattie definitiva? Sappiamo tutto o ancora c’è molto da scoprire? Sorvolare su questi interrogativi mi sembra superficiale e presuntuoso. La mia opinione è che anche adesso vi sono molti punti oscuri nelle conoscenze che abbiamo su tutto ciò che può provocare malattia nell’uomo. La verità è che anche nei campi nei quali si credeva che tutto fosse finalmente conosciuto si è visto che si può scoprire qualcosa di nuovo. L’ Helicobacter pilori fu individuato non molti anni fa, quando si pensava che la microbiologia degli schizomiceti non avesse più altro da aggiungere, e non parliamo di quello che ancora si può conoscere di nuovo nel campo della virologia. Ma sono soprattutto i progressi della medicina molecolare che ci apriranno gli occhi su molti misteri che oggi ancora non sono risolti. In una parola, ammalati ai quali oggi riserviamo una stessa diagnosi potranno essere riconosciuti come eterogenei in futuro ed essere inseriti in classi nosologiche oggi inesistenti. Questo dice molto sui problemi diagnostici che, 39 anche al giorno d’oggi, si possono incontrare. Come abbiamo detto, le classi nosologiche comprendono ammalati unificati secondo uno o più criteri, ma possibilmente differenti secondo altri punti di vista. La difficoltà diagnostica può dipendere dall’incertezza nell’individuare il criterio discriminante quando questo è, per così dire, offuscato da quella sorta di rumore di fondo che è costituito da altri elementi clinici apparentemente non correlati. Ma potrebbe anche derivare dal fatto che la nosologia attuale non ha ancora precisato la classe nosologica alla quale sarebbe meglio attribuito l’ammalato con la diagnosi difficile. Io queste malattie che danno segno di sé, ma non hanno ancora non soltanto un nome, ma più ancora uno statuto riconosciuto nell’ambito delle conoscenze mediche, le chiamo “malattie orfane”. Per descrivere una nuova malattia occorrono due ingredienti. La scoperta di qualcosa di nuovo che permetta di osservare ciò che prima appariva nascosto o confuso. Ma anche un certo numero di casi simili ai quali possano essere applicate le osservazioni innovative. Ebbene, ci si deve stupire che, nonostante i grandi progressi dell’informatica e lo straordinario aumento delle possibilità di comunicazione tra i medici, tanta informazione in campo clinico venga quotidianamente letteralmente gettata. Forse se i medici si scambiassero sistematicamente informazioni sui casi clinici insoliti che hanno occasione di vedere, anche se non tanto singolari e bene studiati da poter comparire su una rivista medica, molte malattie orfane potrebbero trovare una paternità. Ma per ora dobbiamo rassegnarci a questo spreco. 40