I maestri del sospetto e l`eclissi del soggetto

“Come sull’orlo del mare un volto di sabbia” .
Sono ancora possibili le scienze umane?
L’idea di scienze “umane” può essere intesa in tre modi:
-come l’idea di una scienza “per l’uomo” cioè a favore dell’umano e che tiene al centro della
propria opera il valore dell’umano;
-come l’idea di una scienza che può avere “l’uomo per oggetto” ma senza “oggettificare” l’umano,
cioè che mantiene il riconoscimento della realtà “soggettiva” e “culturale” dell’uomo come realtà
irriducibile, realtà che richiede un modello adeguato di scienza, irriducibile alle scienze della
natura;
-come l’idea di una scienza che può avere “l’uomo per oggetto” procedendo nei suoi confronti a una
“oggettificazione” (parola che preferisco ad “oggettivazione”) che, di fatto, le riconduce a una
“scienza della natura”o di altre realtà in cui l’umano si dissolve (come ad esempio una scienza
“delle strutture”).
Le prime due idee sono cresciute all’interno della possibilità di un collegamento fra “umanesimo” e
scienza e, proprio per questo, sono oggi gravemente minacciate. La terza invece può certamente
permanere e probabilmente si svilupperà. In questo caso l’espressione “scienza umana” avrà lo
stesso significato di “biologia umana”.
Perché il possibile collegamento fra umanesimo e scienza è oggi in crisi? Principalmente per due
ragioni:
-perché il processo di “tecnicizzazione” della scienza è inarrestabile e, proprio per questo,
inevitabilmente agisce in modo annichilente nei confronti dell’umanesimo; la tecnologizzazione
trionfante, secondo questo punto di vista, instaura prassi che non permettono il mantenimento di una
prospettiva centrata sul valore dell’umano, anche quando questo valore viene affermato come
centrale;
-perché il riconoscimento dell’umano come realtà “irriducibile” è stato messo in crisi dalla scienza
tecnologizzata, da ampi settori delle scienze umane, dalla filosofia, dalla cultura.
Dunque: scienze che si disumanizzano e umano che si dissolve. Ecco le due direzioni di ricerca di
questo incontro. Alla fine di esso vorrei tuttavia ipotizzare qualche uscita da tutto ciò “in positivo”.
I maestri del sospetto e l’eclissi del soggetto: Marx, Nietzsche, Freud
E‘ del filosofo francese Paul Ricoeur la definizione di una “scuola del sospetto” che, a cavallo tra
ottocento e novecento apre il varco per la crisi della nostra concezione del soggetto e dell’umano,
attraverso il “dubbio sulla coscienza”.
“La dominano tre maestri che in apparenza si escludono a vicenda, Marx, Nietzsche e Freud. …Sotto la formula
negativa, “la verità come menzogna”, si potrebbero porre questi tre esercizi del sospetto. …Se risaliamo alla loro
intenzione comune, troviamo in essa la decisione di considerare innanzitutto la coscienza nel suo insieme come
coscienza “falsa”. Con ciò essi riprendono, ognuno in un diverso registro, il problema del dubbio cartesiano, ma lo
portano nel cuore stesso della fortezza cartesiana. Il filosofo educato alla scuola di Cartesio sa che le cose sono dubbie,
che non sono come appaiono; ma non dubita che la coscienza non sia cosí come appare a se stessa; in essa, senso e
coscienza del senso coincidono; di questo, dopo Marx, Nietzsche e Freud, noi dubitiamo. Dopo il dubbio sulla cosa, è la
volta per noi del dubbio sulla coscienza.…Ora tutti e tre liberano l’orizzonte per una parola piú autentica, per un nuovo
regno della Verità, non solo per il tramite di una critica “distruggitrice”, ma mediante l’invenzione di un’arte di
interpretare. … A partire da loro, la comprensione è una ermeneutica; cercare il senso non consiste piú d’ora in poi nel
compitare la coscienza del senso, ma nella decifrazione delle espressioni.”
P. Ricoeur, De l’interprétation. Essai sur Freud, Paris, 1965, trad. it. Dell’interpretazione. Saggio su Freud, di E.
Renzi, Il Saggiatore, Milano, 1967, pagg. 46-48
Nello stesso periodo, gli anni sessanta del secolo scorso, Michel Foucault, un altro pensatore
francese, diversissimo dal primo, riprende la riflessione su Marx, Nietsche e Freud.
Marx dimostra, secondo Foucault, che tutto ciò che nella nostra cultura facciamo appartenere alla
profondità dell’umano (ovvero le idee, i valori, le religioni, le espressioni artistiche) appartiene in
realtà alla superficie, è “sovrastruttura” di una struttura profonda reale di rapporti socioeconomici.
(Per Louis Althusser l’umanismo del giovane Marx, insistendo unilateralmente sul soggetto, non
consente di conoscere la collocazione oggettiva degli uomini nei rapporti di produzione; la rottura
nei confronti di questa posizione umanistica conduce al materialismo storico, ovvero della teoria
scientifica della storia, intesa come processo senza soggetto e senza fini predeterminati. Le
ideologie sono “sistemi di rappresentazioni” che condizionano senza passare attraverso la
coscienza”. Il “soggetto” della storia sono in realtà “rapporti di produzione”, e gli individui sono
“effetti della struttura”.)
Freud traccia, afferma poi Foucault, una distinzione tra Io ed Inconscio dove il primo non è più
roccaforte interiore della coscienza, ma un risultato finale delle tensioni tra Inconscio e Super-Io:
semplicemente come «punta dell'iceberg».
In particolare, tuttavia, è a Nietzsche che si riferisce Foucault:
«C'è in Nietzsche una critica della profondità ideale, della profondità della coscienza, accusata di essere una invenzione
dei filosofi; <...> Nietzsche mostra come essa implichi la rassegnazione, l'ipocrisia, la maschera; così quando ne
percorre i segni per denunciarli, l'interprete deve scendere lungo tutta la linea verticale e mostrare che il profondo
dell'interiorità è in realtà altro rispetto a ciò che esprime»
(Cfr. M. Foucault, Nietzsche, Freud, Marx, Aut-Aut, n. 262-263, 1994)
Perché proprio Nietzsche? Prima di prestare attenzione alle ragioni di Foucault, leggiamo questo
passo
Un quantum di forza è esattamente un tale quantum di istinti, di volontà, d’attività – anzi esso non è precisamente
null’altro che questi istinti, questa volontà, quest’attività stessa, e può apparire diversamente soltanto sotto la seduzione
della lingua (e degli errori radicali, in essa pietrificatisi, della ragione), che intende e fraintende ogni agire come
condizionato da un agente, da un «soggetto».
F.Nietzsche, Genealogia della Morale, tr. di Ferruccio Masini, Adelphi, Milano 1984, I, 13.
E questo:
Io vi insegno il superuomo L'uomo è qualcosa che deve essere superato.
L'uomo è un cavo teso tra la bestia e il superuomo, – un cavo al di sopra di un abisso
F.Nietzsche, Così parlò Zarathustra , Prologo, 3; 4; trad. M.Montinari, Adelphi, Milano 1986
Il XX secolo, dunque, si apre con la profezia nietzschiana della morte del soggetto e dell’uomo. Lo
Zarathustra di Nietzsche, proclamando a gran voce la morte di Dio, ha di fatto annunciato la morte
dell'uomo e la necessità di un suo “oltrepassamento”. Se in Hecce Homo Nietzsche afferma che
occorre diventare «ciò che si è», ciò che si è non può più essere il soggetto libero, cosciente,
individuo. Questo soggetto era “culturalmente relativo”: con la fine della religione e del sistema di
valori ad essa connesso,con la “morte di Dio”, esso è condannato ad essere oltrepassato da un
oltreuomo.
Foucault, ne Le parole e le cose dirà dunque:
«il pensiero di Nietzsche<...>annunciò nella forma dell'evento imminente della Promessa-Minaccia, che presto non
sarebbe più esistito l'uomo, ma il superuomo; il che in una filosofia del Ritorno voleva dire che l'uomo, già da tempo
ormai, era scomparso e non cessava di scomparire»
(Ivi, p. 347)
«attraverso una critica filologica <...> Nietzsche ritrovò il punto in cui uomo e Dio si appartengono a vicenda, in cui la
morte del secondo è sinonimo della scomparsa del primo, e in cui la promessa del superuomo significa anzitutto
l'imminenza della morte dell'uomo»
(Ivi, pp. 367-368)
Freud, che conosceva l’opera di Nietzsche, ha contribuito a questa eclissi del soggetto mostrando
che l'uomo non è più padrone della sua coscienza per la forza condizionante dell'inconscio, che
determina il soggetto umano a sua insaputa.
Dopo Nietzsche e Freud Su cosa possiamo fondare dunque “ciò che siamo”? Cosa definisce la
nostra condizione e deve essere voluto per divenire ciò che si è? Che forma assumono la coscienza,
la libertà, l’unicità del soggetto dopo la morte del soggetto umano della tradizione occidentale
moderna?
Secondo alcuni interpreti Nietzsche non vuole “uccidere” il soggetto, quanto piuttosto rileggerne
problematicamente il ruolo alla luce della morte di Dio e della necessità di una “trasvalutazione di
tutti i valori”
La risposta di Nietzsche è il rapporto fra l’oltreuomo e la volontà di potenza.
"Il senso della verità", se respingiamo la moralità del "non mentire", deve legittimarsi davanti ad un altro tribunale cioè in quanto mezzo della conservazione dell'uomo, come volontà di potenza.
[F.Nietzsche, La volontà di potenza, trad.it. a cura di M. Ferraris e P. Kobau, Bompiani, Milano 2000, pag. 277]
Nietzsche affermava che la conoscenza è priva di verità, in quanto quest'ultima è già un
sottoprodotto della volontà di potenza. Secondo la chiave di lettura heideggeriana, il prospettivismo
nichilista nietzscheano deve essere interpretato come un'ontologia della soggettività. L’
nietzscheano era, a detta di Heidegger, il compimento della metafisica antropocentrica.
Nietzsche vuole significare il carattere interpretativo di ogni vivente:
"La volontà di potenza interpreta […] essa limita, determina gradi, diversità di potenza". (frammento dell’autunno del
1885)
«lo penso che oggi per lo meno siamo lontani dalla ridicola presunzione di decretare dal nostro angolo che solo a partire
da questo angolo si possono avere prospettive. Il mondo è piuttosto divenuto per noi ancora una volta 'infinito': in
quanto non possiamo sottrarci alla possibilità che esso racchiuda in sé interpretazioni infinite».
Nietzsche, La gaia scienza, 374
Sarà Foucault a riprendere l’intuizione nietzscheana sul valore dell'interpretazione come compito
infinito. si sofferma, in particolare, sulla «superstizione» dell'inizio. La pratica ermeneutica conduce
ad un momento regressivo che non comporta nessuna origine. L'inizio è solo un punto virtuale, una
traccia ulteriore, l'interpretazione non può mai dirsi esaurita. Soprattutto Nietzsche sa benissimo,
secondo Foucault, che la ricerca filosofica è in fondo, nient'altro, che pratica filologica: una pratica,
comunque, che non può non restare sempre infinitamente aperta. Non vi è nulla al di fuori della
pura interpretazione. L'insegnamento nietzscheano, secondo Foucault, non mira alla vera
conoscenza, ma solo ad una perpetua skepsis di interpretazioni casuali senza fine. Le parole stesse
non sono altro che interpretazioni, significanti puri, senza referenti. Il linguaggio non è altro che una
metafora da sempre sottratta.
A cavallo fra Nietzsche e Freud, dunque, lo psichiatra e psicanalista Jacques Lacan descriverà
l’inconscio come un linguaggio senza soggetto:“Ca parle”
Foucault rovescia radicalmente l'interpretazione heideggeriana, e fa di Nietzsche non il profeta del
tecno-antropocentrismo, ma il suo antesignano nella scommessa sulla «morte dell'uomo».
Nietzsche,
pensa
l'Impensato,
è
un
pensatore
della
Differenza.
Lo strutturalismo ritiene che l'uomo non sia padrone della propria storia e delle proprie azioni,
perché è condizionato da forze o strutture sovrapersonali.
Le scienze umane che si disumanizzano
(Levi-Strauss)
Le scienze umane possono divenire scienze solo cessando di essere umane
Il fini ultimo delle scienze umane non consiste nel costituire l’uomo, ma nel dissolverlo.
Studiare gli uomini “come se fossero formiche”. (Levi-Strauss)
Le neuroscienze e la tecnologizzazione dell’indagine e della rappresentazione dell’umano
Tuttavia, dopo un fortunato successo iniziale, lo strutturalismo iniziava ad assomigliare ad una sorta di neoplatonismo,
con il suo rifiuto della successione diacronica e l’esaltazione della invariabilità nascosta delle relazioni tra le variabili. A
questo i post-strutturalisti opponevano le vertiginose sconnessioni delle pratiche genealogiche nietzscheane. Non
esistono strutture immote e, soprattutto, non può determinarsi alcun primato gerarchico tra le strutture. Tramontata
definitivamente la positivistica dicotomia marxista tra strutture e sovrastrutture, si poteva così concludere che le
strutture fossero tutte uguali. Anzi, non si tratta nemmeno di strutture vere e proprie, quanto di ineffabili centri di potere
che non hanno collocazione in nessun topos determinato. Le relazioni tra le forze sono di gran lunga più importanti
delle forze stesse, che devono essere pensate piuttosto come aggregazioni di differenze. L’autocoscienza è dunque una
solenne impostura, il soggetto è radicalmente giocato dalle nascoste, inconsce, determinazioni del pensiero. Il
poststrutturalismo può così destrutturare le strutture del potere.
La ricerca di Foucault
Si ricorderà che all'inizio si era accennato all'influenza delle Inattuali sul giovane Foucault. In
quegli scritti Foucault aveva subito una sorta di imprinting filosofico, che in ogni fase della sua
ricerca segnerà l'ossessione per la ricerca dell'Altro, dell'Eccedente, del proprio Daimon, che poi
avrebbe significato rispondere alla domanda sull'«essere così e non altrimenti». L'Altro, come già
visto, è per Foucault il Medesimo. Ricercare le radici di noi stessi, liberare il rimosso, significa
essenzialmente metterci in rapporto con tutto ciò che eccede il logocentrismo metafisico. La
Sragione-Differenza conduce alla segreta saggezza del centro del nostro proprio essere-così.
Diventa chiaro che l'Altro è per Foucault l'inconscio, mentre l'Io è genealogicamente strutturato
dalla meccanica del potere. Decostruire il potere, conduce alla spazio d'assenza del Fuori, che
correlativamente riscrive e di-svela il proprio centrum. E' questa la chiave dello «strutturalismo
senza strutture» di Foucault: entrare in relazione con l'Impensato, significa delineare una nuova
forma di Identità, che non riassimila la Differenza, ma vi si rapporta infinitamente. Perchè
solamente l'Altro può dis-velare il segreto su se stessi. In questa prospettiva il Nietzsche di Foucault
è essenzialmente un pensatore della Differenza.
Michel Foucault è stato con Deleuze l’esponente principale degli studi francesi sulla Nietzsche-Reinassance- che hanno
contrassegnato l’’avvio del post-strutturalismo.
scrive Foucault ne Le parole e le cose Un'archeologia delle scienze umane (1966)
<<Come archeologo del pensiero umano sostengo che è facilmente dimostrabile che l'uomo è
un'invenzione di data recente.»
Nel suo libro più oscuro e famoso, Le parole e le cose, Foucault si sofferma da principio sull'opera pittorica di
Velàzquez, Le Meninas. Il pittore fiammingo nel quadro citato mostra se stesso nell'atto di guardare l'osservatore e
rappresenta i suoi veri modelli, cioè il re e la regina di Spagna, solo indirettamente, attraverso un tenue riflesso su uno
specchio in fondo alla stanza. I veri soggetti del quadro- il re e la regina- occupano la stessa posizione dello spettatore
del quadro di Velàzquez e sono nascosti. Foucault elegge il quadro a paradigma della rappresentazione in cui il soggetto
è sempre assente, è altrove. Il soggetto è sempre sottratto alla sua stessa rappresentazione. La nascita della
rappresentazione dell'età classica dalle rovine della rassomiglianza rinascimentale è la prima mutazione epistemica
descritta nel libro. La rappresentazione sarà dunque il paradigma dell'episteme classica, un'epoca grosso modo
compresa tra la metà del XVII secolo e la fine del XVIII. Ora, secondo Foucault, nel dipinto di Velàzquez è racchiusa
l'essenza del nuovo paradigma: «una sorta di rappresentazione», secondo il pensatore francese, «della rappresentazione
classica». Ciò che Le Meninas (1656) esprime è la constatazione che il soggetto non può non sottrarsi alla
rappresentazione. Il quadro non fa altro che testimoniare un cambiamento che si verificherà di lì a poco.
Ad avviso di Foucault l’uomo delle scienze umane, dotato di una specifica “ natura umana”, è soltanto un «indicatore
epistemologico», ossia una nozione utilizzata in modo diverso dagli studiosi a seconda delle epoche storiche. In questo
senso la centralità dell’uomo è un'invenzione recente, che risale agli inizi del 1800. Da Kant in poi il pensiero filosofico
ha indicato nell'uomo la matrice dei valori positivi, della conoscenza e della verità, e ha fatto intravedere
nell'emancipazione dell'uomo la possibilità del ritorno di un regno propriamente umano.
Per questo Foucault invita al risveglio dal «sonno antropologico», di cui sono responsabili le neonate scienze umane che
fanno dell'uomo il fulcro della ricerca per la conoscenza, pur nella consapevolezza della sua finitudine. Tutto questo è,
secondo Foucault, una sopravvalutazione del ruolo e della dimensione umanistica: l'uomo è solo una figura transitoria,
un fugace passaggio destinato ad essere presto dimenticato.
«L'uomo è un'invenzione di cui l 'archeologia del nostro pensiero mostra agevolmente la data
recente. E forse la fine prossima. Se tali disposizioni dovessero sparire come sono apparse, se a
seguito di qualche evento<...> precipitassero<...>, possiamo senz'altro scommettere che l'uomo
sarebbe cancellato, come sull'orlo del mare un volto di sabbia» (Ivi, p. 415)
Ciò che rende possibile l’uomo è un insieme di strutture…che egli, certo, può pensare, può
descrivere, ma di cui egli certo non è il soggetto, la coscienza sovrana”. (Foucault)
L’uomo non è che un’invenzione recente, una figura che non ha nemmeno due secoli, una semplice
piega nel nostro sapere. (Foucault)
Contro le scienze umane
Le scienze umane esistono vagando in un “triedro” di saperi costituito dalle scienze fisicomatematiche, empiriche e dalla filosofia: esse, dunque, “non sono affatto scienze” (Foucault)
Nietzsche si era scagliato contro il cristianesimo, reo di mistificare il corso irrazionale del divenire.
Foucault attacca le scienze umane, perchè diventate tecnologie del potere al servizio della società
punitiva, riportano l'Impensato, la Differenza, all’Identità. Riassorbono l'Inconscio nell' Io. Quindi
le scienze umane, sostituendo il cristianesimo nella sua millenaria influenza culturale, riproducono
la «favola» rassicurante di un'organizzazione omogenea del nostro paradigma sociale. Ancora una
volta l'Altro è osservato e controllato dalla prospettiva rassicurante e totalitaria dell'Identità «ratioeuro-centrica». Per Foucault, dunque, le moderne scienze umane assumono l'eredità del
cristianesimo. Lo psicanalista, il sociologo, l'antropologo hanno la funzione sociale di sostituire,
integrandolo, il ruolo svolto dal prete cristiano nel controllo del corpo e della sessualità. Con l'unica
eccezione della psicanalisi di Lacan, che non riconduce l'Es all'Io, ma si pone completamente
all'ascolto del primo, rispettandone l'alterità. L'archeologia di Foucault si rivela così
un’«eterologia».
Il vuoto dell’uomo scomparso
L'archeologia delle scienze umane mette in luce che pure l'uomo è un oggetto effimero, generato nel quadro di una
precisa episteme, che oggi si sta infrangendo e frammentando.
<<Oggi piuttosto che l'assenza o la morte di Dio viene proclamata la fine dell'uomo... L'uomo sta
per scomparire>>.
Riprendendo, ma senza palesarlo, motivi dell'ultimo Heidegger, Foucault conclude la sua opera asserendo che oggi è
possibile pensare ' solamente entro il vuoto dell'uomo scomparso ' , dove per vuoto bisogna intendere non tanto una
mancanza che va riempita, quanto l'apertura di un nuovo spazio entro il quale pensare. Questo implica, secondo
Foucault, la fine di ogni umanesimo tradizionale, delle filosofie dell'impegno e dello storicismo. La considerazione
della storia come processo continuo di crescita e dell'uomo come agente cosciente di tale processo sono, infatti, per
Foucault due facce della stessa medaglia, le quali conducono a intendere la rivoluzione come 'presa di coscienza', cioè
come operazione che ha al suo centro il soggetto.
oggi, stando a Foucault, psicanalisi, linguistica ed etnologia hanno decentrato l'uomo come soggetto, portando alla luce
le leggi inconsce che presiedono ai suoi desideri, al suo linguaggio, alle sue stesse azioni e i meccanismi di produzione
dei discorsi mistici: chi parla non è propriamente l'uomo, ma è la parola stessa .
L’ordine del discorso
Questi temi, che hanno convinto Foucault ad avvicinare, nonostante le sue smentite, allo strutturalismo, sono state
proseguite e approfondite in L'archeologia del sapere (1969) . Oggetto di quest'archeologia non sono le tradizioni, gli
autori, le opere o le discipline, che rinviano tutte ad un soggetto cosciente come centro portante produttore di esse; essa
ha invece il compito di dissotterrare e descrivere le regole che in una data epoca e società definiscono ' i limiti e le forme
di dicibilità ', che determinano di che cosa è possibile parlare, che cosa si può costruire come sfera del discorso e quali
sono le pratiche discorsive ammesse ed esercitate di fatto. I discorsi non sono sistemi di segni che rimandano ad altro,
ma ' pratiche che formano sistematicamente gli oggetti di cui parlano ': essi sono dunque autosufficienti, si
autoregolano e non sono riconducibili ad una causa o a un fondamento unico esterno ad essi, nè ad un soggetto
trascendentale o empirico, nè a condizioni economiche e storico-sociali, nè allo spirito dei tempi.
I discorsi però si inseriscono in una trama di rapporti di potere che permea ogni società: essi sono pratiche che
dipendono dal potere, ma che generano anche potere. Il tema del potere diviene centrale nella filosofia dell'ultimo
Foucault, a partire dalla lezione inaugurale al Collège de France, L'ordine del discorso , e poi nello studio sull'origine
del sistema carcerario, intitolato Sorvegliare e punire (1975). Foucault fa ancora una volta riferimento a Nietzsche, che
viene ora definito 'il filosofo del potere'. Nietzsche, infatti, ha il merito di aver mostrato che ogni discorso, implicando
una volontà di verità, ha insita in sè la volontà di potenza e che una delle procedure di selezione e di interdizione con
cui il potere opera sui discorsi è data dall'opposizione tra vero e falso. Non solo, ma Nietzsche ha indicato nella
genealogia il metodo che permette di individuare i modi in cui i discorsi si generano e scompaiono, senza postulare un
ordine necessario o un senso unitario della storia. Foucault dice che ' ogni società ha il suo proprio ordine della verità,
la sua politica generale della verità: essa accetta cioè determinati discorsi, che fa funzionare come veri '.
Il sapere e il potere
Questo vuol dire che sapere e potere sono indisgiungibili , in quanto l'esercizio del potere genera nuove forme di sapere
e il sapere porta sempre con sè effetti di potere. Per potere però, spiega Foucault, non si deve intendere quello che
emana da un soggetto cosciente, un sovrano, e si traduce in leggi positive; si tratta invece del potere impersonale,
onnipresente, che non ha dimora fissa, ma opera tramite meccanismi anonimi in ogni anfratto della società. Sotto questa
luce, il potere è un insieme di rapporti di forza , diffusi localmente, non riconducibili ad una sola sede e così Foucault
contrappone la propria microfisica del potere , mirante all'analisi delle molteplici e diffuse strategie di soggiogamento,
alla macrofisica, propria della teoria di Marx, ad esempio, che dà più spazio all'opposizione tra dominatori e dominati.
Di fatto, spiega Foucault, si è sempre allo stesso tempo ambo le cose, dominatori e dominati: si potrà essere dominati in
fabbrica ma, magari, dominatori in famiglia. Rispetto a questi poteri così decentrati e variamente connessi la resistenza
può essere condotta non da un'unica forza organizzata in partito, ma solo in lotte parziali, in una miriade di luoghi da
parte di forze mobili e continuamente cangianti. I dispositivi di potere, attuando selezioni e interdizioni, impediscono il
libero proliferare dei discorsi e originano una società disciplinare, che trova espressione nelle istituzioni del carcere,
dell'ospedale, dell'esercito, della scuola, della fabbrica, dove sono attuate strategie di controllo, anche del corpo, esami,
sanzioni. Il potere, però, non ha solo questa funzione spregevole, ma ne ha anche una positiva e apprezzabile: produrre
nuovi ambiti di verità e nuovi saperi.
L'estensione problematica- in una chiave di ricerca genealogica sulla formazione del soggetto
moderno- delle tematiche di assoggettamento intrecciate al sapere, è affrontato da Foucault nella
Microfisica del potere . Foucault, radicalizzando le conclusioni nietzscheane per cui ogni volontà di
verità è in fondo solo una volontà di potenza, struttura la sua concezione prospettivistica della
conoscenza e la intreccia al potere.
Foucault rovescia il presunto ontologismo della volontà di potenza in una dimensione di critica
libertina della cultura. Se la verità è essenzialmente determinata dal controllo delle tecnologie di
dominio, allora il Sé dell'individuo, la sua formazione storico-culturale, non esiste nella dimensione
propria. Il soggetto deve dissolversi in un rapporto di «di-soggettivazione». Il potere non deve
essere espresso sempre e solamente in termini repressivi, ma deve essere pensato in termini
produttivi. Il potere produce il reale. Il potere struttura meccanismi positivi in cui circoscrive
pratiche discorsive di verità. Foucault si propone di analizzare il «come» del potere, ovvero di
studiare attraverso quali mezzi è esercitato. Il potere agisce re-attivamente sulle azioni del corpo,
non sul corpo stesso. Vi può essere dominio solo su soggetti liberi, anzi a condizione che siano
liberi.. Il potere è innanzitutto produzione, poi- dato che gli individui sono i suoi prodotti- anche
repressione. Foucault radicalizza l'assunto nietzscheano del prospettivismo, ed arriva a concepire il
potere non come volontà individuale e collettiva, né come interesse economico, ma come auto-
rappresentazione. Il potere è onnipresente, non tanto perchè «inglobi tutto, ma perchè viene da ogni
dove». Il potere è un'entità astratta, onnipresente e totalizzante («Alles ist kraft!» ). Ma mentre la
volontà di potenza di Nietzsche era riservata al superuomo il potere di Foucault è sconnesso da
qualsiasi soggetto idealizzato ( Zarathustra) e tantomeno da qualsiasi marxiana entità collettiva (la
borghesia). D'altronde abbiamo già visto che Foucault usa il concetto del superuomo solo per
designare un «passare-oltre-l'uomo» verso la morte dell'uomo. Rendendo il potere qualcosa di
astratto, Foucault elimina completamente da esso l'azione a priori del soggetto-identità, e quindi
riapre alla Differenza. Radicalizzando la volontà di potenza nietzscheana senza il soggetto del
superuomo- che è solo la promessa della morte dell'uomoIl potere non è solo onnipresente, ma anche anonimo e onnicomprensivo. La «struttura dinamica»
del potere è totalizzante: nessuno, né dominatore, né dominato, vi sfugge. La concezione del potere
di Foucault è «pancreatica», onnipotente: appiattisce i rapporti sociali concreti in schemi di dominio
astratti. Tutto è potere nella concezione sociale di Foucault: «Alles ist Kraft!» . Al posto dello
schema hegeliano «coscienza/libertà». Come abbiamo già visto superuomo ed eterno ritorno
servono soltanto a preannunziare la fine imminente dell'uomo.
Il sesso e il potere
Nella sua ultima opera, la Storia della sessualità, il Sé, sottoprodotto delle dinamiche del potere,
viene analizzato, ricostruito genealogicamente dal suo interno. Foucault cerca ora di delineare come
il potere si manifesta all'interno del soggetto moderno. Il potere analizzato a partire dalle tecniche
del Sé. Foucault rinnega lo schema freudiano/marcusiano della repressione sessuale della società
occidentale. Ancora una volta, il potere non reprime, ma produce i meccanismi della verità. La
sessualità occidentale è sottoposta ad un controllo produttivo, propositivo, piuttosto che meramente
repressivo.
Le tecnologie del sé
Ancora richiamandosi a Nietzsche, Foucault ipotizza la fine di quelle forme di soggettività - sottoposte all’incessante
opera del potere - che hanno caratterizzato la nostra epoca a partire dal ‘700. E’ ora - dice Foucault - di esplorate nuove
forme di soggettività. Emerge una prospettiva di libertà e di creatività del tutto nuova. Foucault arriva, nei suoi due
ultimi scritti, pubblicati postumi nel 1984, L'uso dei piaceri e La causa di sè , a ritrovare una posizione alternativa alla
modernità nell'antichità classica: qui, infatti, egli ravvisa all'opera, in opposizione alle morali prescrittive, imperanti a
partire dal cristianesimo, la costruzione di una ' estetica dell'esistenza individuale ', basata su quelle che lui definisce le
'tecnologie del sè', volte all'autocostituzione di un soggetto padrone di sè. Il soggetto, non è più soltanto sottomesso e
plasmato dal potere, ma anche attivamente consapevole e capace di auto-costruirsi attraverso un complesso lavoro di
perfezionamento di stessi, una paidéia fisica e spirituale, inaugurata da Socrate e chiamata cura di sé. Così facendo, egli
sembra riportare in auge proprio quella dimensione umanistica da lui sempre osteggiata.
L’incontro con la tecnica
Di questo tema si è occupato un filosofo centrale nel XX secolo, Martin Heidegger (1889-1976),
che collega la tecnica con il destino dell’Occidente e il nichilismo. All’origine del nichilismo egli
individua l’oblio dell’essere radicato nella nostra cultura attraverso il pensiero metafisico. Con
"metafisica" egli intende quella tradizione di pensiero che pone il problema dell'essere dell'essente,
andando oltre (metà) l'essente stesso, in una dimensione trascendente. Sconfinando in questa
dimensione l'essere stesso non viene più preso in considerazione, dacché vengono messi a fuoco
unicamente gli enti, le cose, ma non ci si accorge del fatto che le cose, innanzitutto, sono, e dello
stupore che questo evento genera.
Per mezzo della cosiddetta “trasvalutazione dei valori” Nietzsche mostrava l'illusorietà dei valori
tradizionali, finendo per porre come unico valore la volontà di potenza. Heidegger sostiene però che
proprio la volontà di potenza diventa il luogo del compimento della metafisica. Con la
caratterizzazione nietzscheana dell’essente come volontà di potenza, l’esistenza viene spogliata di
tutto: alla fine rimane la pura volontà che vuole solo se stessa. Il compimento della metafisica
attraverso Nietzsche si identifica, in ultima analisi, con una Weltanschauung, una visione del
mondo. E proprio questo pensiero metafisico oggettivante rappresenta per Heidegger la causa stessa
del nichilismo: “La metafisica in quanto metafisica è l'autentico nichilismo. L'essenza del
nichilismo si dà storicamente nelle vesti della metafisica. Il paradigma nichilista trova per
Heidegger la sua massima espressione nel cieco funzionare della tecnica.
Nella conferenza La questione della tecnica, tenuta nel 1953, Heidegger afferma che nel dominio
della tecnica il nostro sguardo, nel momento stesso in cui si pone sulle cose, le consideri risorse da
sfruttare: il bosco è una riserva di legname, la montagna una cava di pietra….
Inoltre con la tecnica moderna, secondo Heidegger, il vecchio ideale artigiano del “saper fare” si è
capovolto nella coazione a “dover fare” della produzione industriale; e conseguentemente il “mondo
naturale” viene conosciuto ormai soltanto come “fondo per l’impiego” e non più come semplice
“physis”
In questo quadro l’uomo è la materia prima più importante, è ciò di cui la tecnica si serve per
funzionare.
La scienza, da quando è al servizio della tecnica e del suo procedere, non è più al servizio
dell’uomo, piuttosto è l’uomo al servizio della tecno-scienza e non solo come funzionario
dell’apparato tecnico, ma come materia prima.
Inoltre Heidegger spiega che ciò che lo inquieta maggiormente riguardo al mondo della tecnica è il
fatto che
“tutto funziona (...) [e che] il funzionamento spinge sempre oltre verso un ulteriore funzionare”
(M. Heidegger, Ormai solo un Dio ci può salvare, Intervista con lo "Spiegel", trad. it. di A. Marini,
Guanda, Parma 1987, p. 134.)
Per Heidegger “il modo di pensare della filosofia moderna non offre più alcuna possibilità di fare
esperienza - col pensiero - dei lineamenti fondamentali dell’età della tecnica che è soltanto al suo
inizio”. Al pensiero si presenta così un compito inaudito, perché “al segreto della strapotenza
planetaria dell’essenza della tecnica, corrisponde il non apparire del pensiero che tenta di pensare
questo impensabile”.
“Ciò che è veramente inquietante non è che il mondo si trasformi in un dominio completo della
tecnica. Più inquietante è che l’uomo non sia preparato a questo radicale mutamento. Ed ancora più
inquietante è che non siamo capaci di raggiungere, attraverso un pensiero meditativo, un adeguato
confronto con ciò che sta realmente emergendo nella nostra epoca”.
D’altra parte, per Heidegger, “la scienza non pensa”: in conseguenza del suo modo di procedere e
dei suoi strumenti, non può pensare nel modo in cui pensa il pensiero meditativo.
Nulla dunque sopraggiunge a interrompere il meccanismo di funzionamento della tecnica, così da
far affiorare una domanda sull'essenza della tecnica stessa.
A questo compito Heidegger avvertiva che, pur essendosi incamminato. sul sentiero giusto, non
riusciva ad andare più avanti e doveva limitarsi soltanto ad indicare una direzione di marcia. In una
intervista, pubblicata postuma della fine degli anni Sessanta Heidegger pronuncia così una famosa
invocazione “Ormai solo un dio ci può salvare”.
Secondo Emanuele Severino, continuatore di questa prospettiva e autore de Il destino della tecnica ,
“La tecnica è destinata a diventare lo scopo supremo.”
“L’apparato scientifico e tecnologico sta diventando adesso il signore che non deve più
accontentarsi del riconoscimento di un servo”.
Lo scopo distintivo della tradizione occidentale è quello di plasmare il mondo, e lo strumento
principe per ottenere questo risultato è la tecnica. Così,trasformata da mezzo in fine, la tecnica ha
conquistato il dominio sul mondo contemporaneo.
Quando si parla di tecnica si deve tener presente il sistema planetario della tecnica. Dal momento
che le forze della tradizione occidentale intendono servirsi della tecnica come mezzo, è inevitabile
che la tecnica, per servire tali forze, debba essere la più efficace e potente possibile. È quindi
inevitabile che si produca quel tradizionale rovesciamento per cui lo strumento diventa lo scopo
delle forze che vorrebbero servirsi di esso per realizzare i loro scopi ideologici. Da questo punto di
vista, allora, è ingenuo pensare che gli individui, gli uomini, i singoli, ma anche le forze sociali,
riescano a controllare l’apparato scientifico e tecnologico planetario.
Parallelamente nella storia dell’occidente è accaduto un capovolgimento: l’impossibilità di un
limite, cu si ancoravano i confini tra il naturale e l’artificiale. Il limite era posto dalla sapienza e
dalla tradizione dell’Occidente, dunque soprattutto dalla sapienza filosofica, che poi era anche
sapienza religiosa. Il limite era sostanzialmente una forma di ordine, l’ordinamento necessario del
mondo a cui l’agire umano doveva adeguarsi. Con la cultura del nostro tempo affiora invece alla
luce l’impossibilità di ogni limite di questo genere. Stando così le cose, i confini tra la natura, che
era appunto ciò che sottostava all’ordinamento assoluto del mondo e l’artificiale tendono a non
distinguersi più nel senso che tutto diventa aggredibile, tutto diventa dominabile, nulla rimane come
naturale e quindi come inviolabile, inoltrepassabile.
Questo scenario della tecnica alla quale mi riferisco è essenzialmente fondata sulla filosofia e in
particolare sulla filosofia contemporanea<…>.La filosofia ha la funzione di preparare il terreno, lo
spazio della tecnica perché, contrariamente a quello che ancora si pensa, la filosofia del nostro
tempo e la scienza sono essenzialmente solidali <…>.La tecnica la si può considerare come il modo
più rigoroso in cui si presenta la filosofia greca e la filosofia greca inventa un mondo in cui le cose
diventano altro da sé. Bisognerebbe quindi incominciare a pensare che questo diventare altro da sé,
da parte delle cose, esprime una follia estrema perché paradossale pensare che l’essenza di una cosa
si esprima nell’altro da sé. Eppure, nella nostra cultura è evidente che le cose cambino e diventino
altro da sé. La tecnica spinge al limite massimo la volontà di far diventare altro le cose che sono.
Se da una parte la tendenza del nostro tempo va verso il dominio della tecnica, dall’altra noi siamo
ancora fatti secondo la vecchia maniera, siamo educati secondo valori che appartengono alla
tradizione, quella tradizione che stabilisce un limite inoltrepassabile rispetto all’attività tecnologica.
e quindi siamo impreparati a essere uomini della tecnica.
Psiche e techne, di Umberto Galimberti, riprende e amplifica alcuni di questi concetti. La tecnica
secondo Galimberti è il tratto comune e caratteristico dell’occidente. La tecnica è il luogo della
razionalità assoluta, in cui non c’è spazio per le passioni o le pulsioni, è quindi il luogo specifico in
cui la funzionalità e l’organizzazione guidano l’azione.
Oggi la tecnica ha sostituito la natura: ci circonda e costituisce l'ambiente nel quale viviamo. Siamo
di fronte all’assoluto tecnico, dove l’uomo non è più al centro, non è più soggetto: il soggetto è la
tecnica, l’uomo ne è predicato.
Noi però ci muoviamo nell’ambiente tecnologico con i tratti tipici dell'uomo pre-tecnologico, con
una visione umanistica, soggettocentrica. Questa visione intende la tecnica come un insieme di
mezzi neutrali per raggiungere i propri scopi, mezzi che l'uomo può controllare con la volontà .
Ma la tecnica, oggi, non è più un mezzo perché, essendo diventata la condizione universale per
realizzare qualsiasi scopo, essa diventa il primo scopo: ciò cui ci si rivolge, innanzitutto, e alla cui
conquista tutti gli uomini tendono. Siccome la politica può realizzare i suoi scopi solo se si dispone
dell'apparato tecnico, siccome la stessa religione può realizzare il suo universalismo solo
disponendo di mezzi tecnici, e così via, tutti vogliono la tecnica. Tutto rientra nel sistema tecnico,
qualsiasi azione o gesto quotidiano l’uomo compie ha bisogno del sostegno di questo apparato: se
l’uomo vuole salvare se stesso e il pianeta dalle conseguenze del predominio della tecnica lo può
fare solo con l’aiuto della tecnica: Il circolo è vizioso.
Solo che, quando un mezzo diventa scopo, si rivela anche un mezzo senza scopi: essa,
semplicemente "funziona" e tende esclusivamente al proprio potenziamento: "vuole se
stessa".Come "analfabeti emotivi", dunque, assistiamo all'irrazionalità che scaturisce dalla perfetta
razionalità dell'organizzazione tecnica, priva ormai di qualunque senso riconoscibile. Il progresso
tecnico-scientifico provoca l'irreversibile decadenza dell'umanesimo: il pensiero viene sottomesso
alla potenza della tecnica.
Certo la tecnica non è ancora la forma universale del mondo, innanzitutto perché la tecnica è un
evento solo occidentale. Inoltre, anche all'interno dell'occidente ci sono dei residuati antropologici,
delle scelte possibili su quali aree della tecnica potenziare: "non si è ancora fatta sera".
Ciò di cui necessitiamo è un ampliamento psichico capace di compensare la nostra attuale
inadeguatezza, una sorta di educazione alle consapevolezza che le categorie umanistiche oggi non
funzionano più, cioè sono disadatte ad interpretare questo mondo.
Una speranza sarebbe quella di riuscire a mantenere le differenze tra scienza e tecnica; se riusciamo
a salvaguardare una differenza tra il pensare e il fare, la scienza potrebbe diventare l´etica della
tecnica. La tecnica procede la sua corsa sulla base del "si fa tutto ciò che si può fare". La scienza,
che è il luogo pensante, potrebbe diventare, invece, il luogo etico della tecnica. In questo senso va
recuperato il valore umanistico della scienza: la scienza al servizio dell’umanità e non al servizio
della tecnica. La scienza potrebbe diventare il luogo eminente del pensiero che pone un limite.
Perché la scienza ha un´attenzione umanistica. Promuove un agire in vista di scopi. Mentre la
tecnica è un fare senza scopi, è solo un fare prodotti.
L’accettazione….e il postumano
Il termine postumano descrive una condizione o una prospettiva che pongono radicalmente in
discussione il concetto di umano e che si collocano nel futuro (come condizioni ipoteticamente
realizzabili) o anche nel presente (come stato della soggettività attuale). Il concetto di postumano
implica dunque una ridefinizione del concetto di umano che coinvolge diverse discipline e
orientamenti teorici e ha implicazioni nella sfera sociale, culturale, politica, economica e materiale.
Sebbene il concetto di postumano presenti molte diverse articolazioni, tema comune è l’assenza di
demarcazioni nette e di differenze essenziali tra umani e macchine, e in generale tra meccanismo
cibernetico e organismo biologico. Quest’ultima concezione è stata resa possibile, a partire dagli
anni Quaranta, da discipline quali la teoria dell’informazione, la cibernetica e l’intelligenza
artificiale (IA).
Il termine transhuman (forma abbreviata per transitional human) fu coniato nel 1966 dal futurologo
Fereidoun M. Esfandiary. Correnti di pensiero tecno-ottimistiche che si autodefiniscono postumane
o transumane, che prevedono la trasformazione dell’umanità in trans- e post-umanità tramite lo
sviluppo di biotecnologie e nano-tecnologie e considerano la specie umana come il primo gradino di
una nuova era evoluzionistica post-darwiniana guidata dalla specie umana stessa.
In contrasto con le linee di pensiero tecno-ottimistiche, il concetto di postumano è stato impiegato
da un ampio spettro di teorie come luogo di un ripensamento radicale del soggetto liberale della
tradizione umanistica occidentale.
La concezione umanistica del soggetto è stata sottoposta a critica dalla teoria femminista, dal
pensiero post-coloniale e da teorici quali Gilles Deleuze e Felix Guattari, che, con la loro
concezione del corpo senza organi, hanno inteso illustrare il potenziale liberatorio di una
soggettività dispersa tra diverse macchine desideranti. Fondamentale per il discorso sul postumano
è anche il lavoro di Donna Haraway. è possibile individuare una significativa sovrapposizione
concettuale tra postumano e cyborg (che pure non sono sinonimi). Secondo Sarah Kember (2003),
cyborg e postumano descrivono una simile ontologia (ibridazione di organico e inorganico) ed
epistemologia (trasgressione del confine natura/cultura e di altri binarismi razionalistici), ma non
necessariamente condividono un’etica, una politica, una storia.
Sai, quindi puoi. Puoi, quindi devi. Sapere, potere, dovere: in questa estensione del famoso aforisma
di Bacon sta la cifra del nostro tempo. Noi viviamo in un tempo signoreggiato dalla tecnica.
-La tecnica definisce il nostro sguardo sul mondo (pensiamo alle rappresentazioni della galassia
multimediale in cui siamo immersi);
-la tecnica definisce il nostro sguardo su noi stessi (pensiamo alle potenzialità conoscitive delle
tecnologie mediche)
-la tecnica definisce la nostra possibilità di modificare il mondo e noi stessi (pensiamo alla chirurgia
plastica, ai corpi cyborg, all’ingegneria genetica;)
Quali conseguenze ha questa signoria tecnica sull’umano e sulle scienze umane?
Sul piano della nostra esperienza individuale, potremmo dire che la tecnica condiziona
pesantemente la nostra percezione dell’umano e il modo in cui noi interagiamo con gli altri esseri
umani. La tecnica mette in luce aree, definisce figure,
Perché la psichiatria organicista, quella che impiega i farmaci per intenderci, utilissimi, anzi in
alcuni casi indispensabili per alleviare le condizioni di chi soffre, non ascolta con una certa
continuità e frequenza le parole che sgorgano dalla sofferenza e che riproducono in modo
drammatico le condizioni d'esistenza di ciascuno di noi, e in modo vertiginoso alcuni abissi che solo
l'arte, la poesia, la musica, la mistica fanno dischiudere, chiedendo spesso il sacrificio dell'artista,
del poeta, del musicista, del mistico?
Solo la psichiatria fenomenologica, che in Italia non si insegna in nessuna scuola di
specializzazione, si presta a questo ascolto, per andare incontro alla speranza di chi soffre,
sciogliere i vissuti di colpa che incatenano, perforare i muri della solitudine quando nessuna parola
la raggiunge, nessun gesto la incrina, fino a quel taedium vitae che tutti, per brevi attimi, avvertiamo
come nausea dell'esistenza.
Perché non avviene un'integrazione di questi due orientamenti psichiatrici? Perché la pratica
farmacologica sopprime l'ascolto, disumanizza l'uomo, riducendolo ad un "caso" da rubricare in
quei quadri nosologici, dove e' l'efficacia del farmaco a decidere la diagnosi, mettendo a tacere tutte
le parole del dolore che la follia urla e le nostre anime sussurrano. E così disimpariamo il
vocabolario emozionale, anche se sappiamo che tutte le parole dimenticate diventano opachi silenzi
del cuore, che aprono quei percorsi bui e insospettati di cui ci accorgiamo solo quando approdano a
gesti tragici.
Perché la follia sta diventando solo una faccenda medica e non più un evento umano? Perché la
categoria della "malattia" deve occupare tutto lo spazio, fino a oscurare la profonda parentela che
esiste tra l'eccesso dell'anima e la sua normale condizione? Perché subito un medico o un farmaco
quando la malinconia di un adolescente o la sua angoscia, almeno all'inizio, stanno implorando solo
un po' di ascolto?
"A evitare ambiguita' e oscurita' impiegheremo sempre l'espressione 'comprendere' [verstehen] per
la visione intuitiva dello spirito, dal di dentro. Non chiameremo mai comprendere, ma 'spiegar'
[erklaeren] il conoscere i nessi causali oggettivi che sono sempre visti dal di fuori. [...] E' dunque
possibile
spiegare
qualcosa
senza
comprenderlo"
(Karl
Jaspers,
Psicopatologia
generale
(1913-1959),
p.
30)
La crisi della psichiatria e i sospetti che avvolgono la psicoanalisi non sono del tutto infondati. Sia
l'una che l'altra, infatti, derivano i loro modelli concettuali da quello schema che Cartesio ha
introdotto e che la scienza ha fatto proprio quando, per i suoi scopi esplicativi, ha lacerato
l'uomo in anima (res cogitans) e corpo (res extensa), producendo quello che,
secondo Binswanger, e' "il cancro di ogni psicologia". Questa divisione cosi' radicale non e'
qualcosa di originario che si offra all'evidenza fenomenologica, ma e' un prodotto della metodologia
della scienza la quale, consapevole che il suo potere e la sua efficacia si estendono esclusivamente
nell'ordine quantitativo e misurabile della res extensa, e' costretta a ridurre lo psichico a
epifenomeno del fisiologico che in psichiatria Griesinger chiama "apparato cerebrale" e in
psicoanalisi Freud chiama "ordine istintuale". Cio' che ne nasce non e' una psicologia che, direbbe
Jaspers, "comprende" [verstehen] l'uomo per come si da', ma una psico-fisiologia che lo "spiega"
[erklaeren]
come
si
spiega
qualsiasi
fenomeno
della
natura.
Ma per spiegare l'uomo come fenomeno della natura occorre oggettivarlo e considerare la psiche
non come un atto intenzionale, ma come una cosa del mondo da trattare secondo le metodiche
oggettivanti che sono proprie delle scienze naturali. Ora, se la psicologia oggettiva lo psichico e,
come fa la fisiologia con gli organi corporei, lo tratta come cosa in se' che non si trascende in altro,
la psicologia, per allinearsi al modello delle scienze naturali, perde la specificita' dell'umano.
chiarire la posizione epistemologica della psicologia nella serie di quelle scienze il cui intento e' la
'comprensione' dell'uomo e non la 'spiegazione' del suo comportamento. Questa differenza non
consente un'innocua trasposizione a livello umano dei modelli concettuali e dei metodi che si sono
rivelati idonei nelle scienze della natura, a meno di ridurre l'uomo a evento naturale come hanno
fatto la psichiatria classica e la 'teoria' psicoanalitica in contraddizione con la 'prassi' terapeutica.
Foucault sulla morte dell’uomo
Ai nostri giorni, e Nietzsche anche qui indica da lontano il punto d’inflessione, si afferma non tanto l’assenza o la
morte di Dio, quanto la fine dell’uomo (quel sottile, impercettibile scarto, quell’arretramento nella forma dell’identità,
che hanno portato la finitudine dell’uomo a convertirsi nella sua fine); si scopre a questo punto che la morte di Dio e
l’ultimo uomo sono strettamente legati: non è appunto l’ultimo uomo che annuncia di aver ucciso Dio, ponendo in tal
modo il proprio linguaggio, il proprio pensiero, il proprio riso nello spazio del Dio già morto, ma proponendosi anche
come colui che ha ucciso Dio e la cui esistenza include la libertà e la decisione di tale delitto? Cosí, l’ultimo uomo è, a
un tempo, piú vecchio e piú giovane della morte di Dio; avendo ucciso Dio, è lui stesso che deve rispondere alla
propria finitudine; ma dal momento che parla, pensa ed esiste entro la morte di Dio, il suo crimine stesso è destinato a
morire; nuovi dei, identici, già gonfiano l’Oceano futuro; l’uomo scomparirà. Piú che la morte di Dio – o meglio nella
scia di tale morte e in una correlazione profonda con essa – il pensiero di Nietzsche annuncia la fine del suo uccisore:
ossia l’esplosione del volto dell’uomo nel riso, e il ritorno delle maschere: la dispersione della profonda colata del
tempo da cui l’uomo si sentiva portato e di cui sospettava la pressione nell’essere stesso delle cose; l’identità tra il
ritorno del Medesimo e l’assoluta dispersione dell’uomo. Durante l’intero XIX secolo, la fine della filosofia e la
promessa d’una cultura prossima coincidevano probabilmente con il pensiero della finitudine e l’apparizione
dell’uomo nel sapere; oggi il fatto che la filosofia sia sempre e ancora sul punto di scomparire, e il fatto che forse in
essa, ma piú ancora fuori di essa e contro di essa, nella letteratura come nella riflessione formale, si pone il problema
del linguaggio, dimostrano probabilmente che l’uomo sta sparendo.
M. Foucault, Le parole e le cose, trad. it. di E. Panaitescu, Rizzoli, Milano, 1977, pagg. 411-412
L’umano che scompare
Opere
Umberto Galimberti, Psiche e techne. L'uomo nell'eta' della tecnica, Feltrinelli, Milano
1999;
Umberto Galimberti, Psichiatria e fenomenologia, Feltrinelli, Milano 2006
Umberto Galimberti, «Nessun Dio ci può salvare», MicroMega. Almanacco di filosofia, n. 2 (2000),
Edoardo Boncinelli e Umberto Galimberti, E ora? La dimensione umana e le sfide della scienza,
Einaudi, Torino 2000
M. Heidegger, Lettera sull'Umanismo, trad. it. di P. dal Santo, Adelphi, Milano 1995
M. Heidegger, Nietzsche, trad. it. di F. Volpi, vol. 2, Adelphi, Milano 1994
M. Heidegger, Introduzione alla metafisica, trad. it. di G. Masi, Mursia, Milano 1968
5 M. Heidegger, La questione della tecnica, trad. it. di G. Vattimo, in Saggi e discorsi, Mursia,
Milano 1976, pp. 11-12.
M. Heidegger, cfr. Che cos’è metafisica?, trad. it. di F. Volpi, Adelphi, Milano 2001.
E.Severino, Il destino della tecnica ,Rizzoli, Milano 1998
Emanuele Severino, Essenza del nichilismo, 2ª ed., Adelphi, Milano 1982
F. Nietzsche, Così parlò Zarathrustra , Adelphi, Milano
F. Nietzsche, La Gaia Scienza , Adelphi, Milano
Il postmoderno e le filosofie femministe
Il corpo cyborg
Il sex appeal dell’inorganico
La tecnicizzazione dell’umano e della cura (Galimberti)
“Mentre l’animale può anche non conoscere se stesso perché la sua vita è regolata dall’istinto,
l’uomo, privo com’è di istinti, ci ricorda Platone, è delegato alla cura di sé. La carenza istintuale,
infatti, se da un lato svincola l’uomo da qualsiasi portamento codificato, dall’altro lo libera in
quello scenario possibile dove, se vuole evitare di perdere la propria vita prima ancora che giunga
la morte, deve reperire la propria misura. La misura è data dalla conformità della propria vita a
quella che si è: “Diventa ciò che sei” diceva Nietzsche con riferimento al demone che Eraclito
segnala come guida alla propria condotta. Seguendo il proprio demone si raggiunge l’eudaimonia,
ossia la felicità, che dunque non risiede nel raggiungimento degli oggetti del desiderio, ma nella
realizzazione di sé […] “Conoscere se stessi” significa allora conoscere i propri limiti, perché,
solo nell’esperienza del limite la vita acquista forma, come l’acquista il fiume che, senza argini,
perderebbe la potenza della sua corrente.” Galimberti
“la grandezza dell’uomo consiste nel dare forma alla propria forza che Aristotele chiama
enérgheia, Spinoza conatus, Leibniz vis, Schopenhauer volontà di vita, Nietzsche volontà di
potenza, Freud libido. Ogni esistenza, infatti, o ha la forza di esistere o perisce. Ma si può perire
anche perché non si pone alcun limite all’espandersi della propria forza, perché si cade in quella
colpa che i Greci hanno segnalato con il nome di hybris, che è il travalicare il proprio limite. Qui
la forza, se non manda in rovina, si dissipa, e l’esistenza non assume alcuna forma. Se chiamiamo
virtù il dar forma alla propria forza, allora essere virtuosi significa divenire legge a se stessi”.
Galimberti
DEPOSITO
«Ogni uomo in fondo sa benissimo di essere al mondo solo per una volta, come un unicum, e che
nessuna combinazione per quanto insolita potrà mescolare insieme per una seconda volta quella
molteplicità così bizzarramente variopinta nell’unità che egli è <…> Sii te stesso! Tu non sei tutto
ciò che adesso fai, pensi e desideri»
«Nessuno può gettare sopra il fiume della vita il ponte sul quale tu devi passare, nessun altro che te
<…> Al mondo vi è un’unica via che nessuno oltre a te può fare: dove porta? Non domandare,
seguila» (Cfr. F. Nietzsche, Così parlò Zarathrustra , Adelphi, Milano, p.11)
«All’uomo sono necessarie le sue cose peggiori per le migliori» (Cfr. F. Nietzsche, Così parlò
Zarathrustra , Adelphi, Milano, p.11)
«Il segreto per raccogliere dall’esistenza la fecondità più grande si esprime così: vivere
pericolosamente!» (Cfr. F. Nietzsche, La Gaia Scienza , Adelphi, Milano, p.165)
E.Severino, Il destino della tecnica ,Rizzoli, Milano 1998