Giusnaturalismo

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Capitolo 1
Giusnaturalismo SOMMARIO: 1. Le origini del giusnaturalismo nel pensiero greco. – 2. Sviluppi del
giusnaturalismo nel pensiero greco-romano. – 3. Giusnaturalismo e pensiero cristiano. – 4. Il giusnaturalismo nel Medioevo e la sistemazione tomistica. – 5. Il giusnaturalismo nell’età moderna. – 6. Le critiche al giusnaturalismo. – 7. La funzione
storica del giusnaturalismo e la sua rinascita nel Novecento.
1. Le origini del giusnaturalismo nel pensiero greco Le origini di quella corrente che nel pensiero moderno verrà
definita giusnaturalismo si collocano in Grecia nel V secolo a.C.
Già Eraclito, uno dei filosofi presocratici o naturalisti, in un
frammento scrive: “tutte le leggi umane sono nutrite da un’unica
legge divina”, ma è Sofocle (circa 497-405 a.C.), uno dei grandi
tragici greci, a porre il problema del rapporto tra le leggi positive, istituite dallo Stato e da questo fatte valere, e le norme che
l’uomo trova dentro di sé, indipendentemente dalla legislazione
statale. È questo infatti il motivo di una delle sue tragedie più
famose, Antigone, in cui si narrano le vicende della figlia di Edipo, Antigone, che, obbedendo alla propria coscienza e trasgredendo agli ordini del re Creonte, aveva dato sepoltura al fratello
Polinice, che era caduto in battaglia combattendo contro la sua
città natale, Tebe.
Condotta al cospetto del re, Antigone così giustifica il suo
comportamento: “… certo non è stato Zeus ad emanare questo
editto e la giustizia che dimora con gli dei sotterranei non ha mai
stabilito per gli uomini leggi simili. Ed io non ritenevo che i tuoi
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bandi avessero tanta forza che un mortale potesse soverchiare le
leggi non scritte (ά ό) ed incrollabili degli dei.
Perché queste non vivono oggi o ieri, ma in eterno, e nessuno
conosce il momento in cui ebbero origine”.
Sono parole di un poeta, che, tuttavia, esprimono la coscienza
che il popolo greco doveva avere di questo problema, che si ritrova formulato in termini filosofici presso i Sofisti e anche in
Socrate.
I Sofisti, come è noto, non rappresentano un indirizzo di pensiero unitario, ma hanno come caratteristica comune un particolare interesse per i problemi etico-politici e giuridici e la convinzione della fondazione razionalistica ed umanistica di tutti i valori, convinzione riassumibile nel celeberrimo frammento di Protagora: “l’uomo è misura di tutte le cose” (άνθ ά
έ). Essi contrappongono giusto per natura (ί
ύ) e giusto per legge (ί ό, in cui ό indica la
legge intesa come creazione umana artificiale), ma argomentano
e risolvono variamente questo contrasto.
Ad esempio, Callicle afferma che per natura l’uomo migliore
e più forte ha la superiorità sugli altri, mentre le leggi, opera dei
più deboli, cercano di neutralizzare questa superiorità naturale:
sono perciò contrarie alla natura ed ingiuste. In Callicle quindi il
diritto di natura appare concepito come principio di condotta esterno all’uomo, imposto dal di fuori da una natura intesa come
istinto, identificato con la forza.
Ippia, invece, sostiene che per natura gli uomini sono “consanguinei, parenti, concittadini”, mentre per legge questo non
avviene, perché “la legge, tiranna degli uomini, alla natura fa
molte volte violenza”. Antifonte afferma che “la maggior parte
di ciò che è giusto secondo la legge è contrario alla natura”: sulla base della legge di natura, ad esempio, “tutti siamo uguali in
tutto, greci e barbari”. Alcidamante arriva a proclamare che
“nessuno la natura ha fatto schiavo”. In Ippia, Antifonte e Alcidamante il diritto naturale non è, come per Callicle, una norma
che si impone all’uomo dall’esterno, ma una norma che all’uomo è data dalla sua stessa natura.
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Appaiono così delineate fin dal V secolo a.C. le tre fondamentali versioni con cui il giusnaturalismo si presenterà nel corso della sua lunga storia, versioni che possono essere definite:
giusnaturalismo volontaristico, giusnaturalismo naturalistico e
giusnaturalismo razionalistico.
Il giusnaturalismo volontaristico, rappresentato da Sofocle,
postula che al di sopra delle leggi positive umane ci siano leggi
non scritte, dettate da una volontà divina.
Il giusnaturalismo naturalistico, rappresentato da Callicle, identifica la legge di natura con l’istinto comune a tutti gli esseri
animati.
Il giusnaturalismo razionalistico, rappresentato da Ippia, Antifonte ed Alcidamante, considera il diritto naturale come l’insieme dei principi di ragione, natura essenziale dell’uomo.
Questi tre filoni hanno avuto nel corso dei secoli storie molto
diverse: il meno influente è stato il secondo, vale a dire il giusnaturalismo naturalistico, privo di spessore filosofico; il giusnaturalismo volontaristico si è coniugato, per lo più, con dottrine
di ispirazione religiosa e sul piano politico ha spesso portato a
concezioni assolutistiche; il giusnaturalismo razionalistico, invece, ha caratterizzato dottrine per lo più laiche e democratiche.
2. Sviluppi del giusnaturalismo nel pensiero greco­
romano Le tre differenti concezioni del diritto naturale che emergono
nel pensiero greco del V secolo si ritrovano conciliate nella dottrina degli Stoici (III sec. a.C.), i quali ritenevano che l’universo
fosse animato da un principio assoluto, razionale e divino insieme, il ό, che pervade e muove la materia, immedesimandosi in essa. Sullo sfondo di questa concezione panteistica, anche il
diritto viene concepito come parte dell’ordine universale, quale
principio insieme divino, razionale e naturale e da esso devono
scaturire le leggi positive che quindi non possono essere che opera dei saggi.
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Le grandi correnti della filosofia del diritto
Questo giusnaturalismo stoico ebbe grande fortuna a Roma,
dove fu divulgato efficacemente soprattutto da Cicerone (106-43
a.C.), uomo politico e “avvocato” di grande fama, che, sopratutto nel De legibus, compie un’ampia e argomentata trattazione
del principio del diritto.
Con evidenti echi stoici egli scrive: “la legge è ragione suprema insita nella natura, che comanda ciò che si deve fare e
proibisce il contrario: ragione che, attuantesi nel pensiero dell’uomo, è appunto la legge”. È da questa legge suprema, uguale
in ogni tempo, che occorre prendere le mosse per ritrovare il
principio del diritto. Il diritto infatti – continua Cicerone – non
nasce dalle leggi positive: se a fondare il diritto fossero le leggi
positive, potrebbe essere diritto rubare, commettere adulterio
qualora queste azioni venissero approvate dal voto o dal decreto
di un legislatore. Inoltre se non vi fosse norma naturale non si
potrebbe distinguere una legge buona da una cattiva.
Questa concezione giusnaturalistica viene ripresa anche in altre opere di Cicerone: una delle sue formulazioni più esplicite la
ritroviamo in una pagina del De republica, tramandata da uno
dei Padri della Chiesa, Lattanzio: “vi è una legge vera, ragione
retta conforme alla natura, presente in tutti, invariabile, eterna,
tale da richiamare con i suoi comandi al dovere e da distogliere
con i suoi divieti dall’agire male ... A questa legge non è possibile che si tolga valore né è lecito che in qualcosa si deroghi, né
essa può essere abrogata; da questa legge non possiamo essere
sciolti ad opera del Senato o del popolo. Essa non è diversa a
Roma o ad Atene, non è diversa ora o in futuro: tutti i popoli,
invece, in ogni tempo saranno retti da quest’unica legge eterna
ed immutabile. Ed unico comune maestro, per così dire, e sovrano di tutti sarà Dio, di questa legge egli solo è l’autore, l’interprete, il legislatore e chi non gli obbedirà rinnegherà se stesso, e,
rifiutando la sua natura di uomo, per ciò medesimo incorrerà
nelle massime pene, anche se potrà essere sfuggito ad altre punizioni”.
L’importanza della concezione ciceroniana è stata grandissima: la teoria del diritto come “summa ratio” di derivazione stoi-
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ca si diffuse largamente e, grazie alle sue opere, penetrò nel pensiero cristiano (come abbiamo detto la pagina del De Republica
sopra citata è riportata da Lattanzio) e in quello medioevale.
Nelle opere dei giuristi romani si trovano anche altre definizioni di diritto naturale, mutuate dalla filosofia greca: Ulpiano,
ad esempio, parla di esso come quel diritto che “la natura ha insegnato a tutti gli esseri animati … non è proprio solo del genere
umano, bensì è comune a tutti gli esseri animati che nascono in
terra ed in mare e anche agli uccelli”. Ulpiano riprende la definizione del diritto naturale in senso naturalistico, che abbiamo già
incontrato in Callicle, definizione che attraverso di lui giungerà
ai filosofi e ai giuristi medioevali tra i quali, ad esempio, Isidoro
da Siviglia e Odofredo Denari, uno dei giuristi dello studio bolognese.
Giulio Paolo definisce il diritto naturale “ciò che è sempre
giusto e buono” e, al tempo di Giustiniano, con evidente influenza cristiana, si diffuse la definizione di esso in senso volontarista, come insieme di norme “stabilite da una provvidenza divina”.
I giuristi romani non comprendevano però la portata filosofica di queste definizioni e, d’altra parte, non si posero mai il problema del possibile contrasto tra diritto naturale e diritto positivo.
3. Giusnaturalismo e pensiero cristiano L’estendersi del cristianesimo nei territori ellenistici e romani
favorì l’assimilazione da parte cristiana della cultura grecoromana. Questo se, da un lato, favorì il radicarsi del cristianesimo, dall’altro, comportò un travisamento dell’autentico messaggio cristiano, come ben si coglie proprio con riferimento al problema del diritto.
Al cristianesimo delle origini l’idea del diritto è del tutto estranea: il Vangelo chiama gli uomini all’unità mistica con Dio e
il regno di Dio non ha bisogno di istituzioni giuridiche. La paro-
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la “giustizia” nell’Antico e nel Nuovo Testamento non ha mai il
significato di virtù regolatrice dei rapporti sociali intersoggettivi,
ma esprime la perfezione religiosa di chi, mediante la grazia, è
redento dal peccato.
La polemica di S. Paolo contro il legalismo è molto dura: la
legge è il segno del peccato, del mondo; si è resi giusti non dalla
legge, ma dalla grazia di Dio, mercé la redenzione, e coloro che
vivono secondo lo spirito non hanno bisogno della legge.
L’atteggiamento degli scrittori cristiani verso il problema giuridico cambia nei Padri della Chiesa (tra il II e l’VIII secolo
d.C.), i quali, ispirandosi alla tradizione classica, ripropongono i
temi del giusnaturalismo razionalistico, postulando una legge
superiore quale fondamento e modello di ogni legge positiva
umana, legge definita divina, ma identificata nella ragione da
autori come Atenagora (II sec.), Origene (III sec.), Tertulliano
(III sec.), Lattanzio (III sec.); così al misticismo e al volontarismo teologico del primo cristianesimo si sostituisce, eredità
classica, il giusnaturalismo razionalistico.
Il primo dei Padri della Chiesa a comprendere le implicazioni
dell’accettazione di una concezione del diritto naturale in senso
razionalistico fu S. Ambrogio (IV sec.), il quale si chiede che bisogno ci fosse di una legge rivelata dal momento che l’uomo
possedeva, innata, quella della natura e, dopo aver risposto che
fu resa necessaria dal fatto che gli uomini non osservavano a
sufficienza quella naturale, conclude che, dopo la venuta di Cristo, il solo strumento di salvezza è la fede.
Ma, nello stesso periodo, S. Giovanni Crisostomo, partendo
dalla stessa domanda di S. Ambrogio, giunge a ben altra conclusione, cioè che l’uomo è capace, grazie alla ragione, di raggiungere la virtù ed evitare il vizio.
Sarà poi S. Agostino (IV-V sec.) a prendere piena coscienza
del problema dopo la polemica con Pelagio, che sosteneva tesi
molto simili a quelle di S. Giovanni Crisostomo.
Anteriormente alla polemica con Pelagio, S. Agostino, analogamente ai Padri della Chiesa che l’avevano preceduto, scriveva
che la legge positiva, storica, non è valida se non è conforme al-
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la legge eterna, che è la legge naturale, cioè ragione suprema.
Dopo la polemica con Pelagio egli si rese conto della inconciliabilità di una simile posizione con il cristianesimo e, pur continuando a parlare di legge naturale e di ordine naturale, li identifica con ciò che è posto dalla volontà divina, riprendendo l’interpretazione volontaristica propria del cristianesimo delle origini.
Si delinea così nell’opera dei Padri della Chiesa, e in particolare di S. Agostino, quello che sarà uno dei motivi costanti del
Medioevo, il contrasto cioè tra intellettualisti, che sostengono
che la legge naturale derivi dalla ragione, e antintellettualisti o
volontaristi, per i quali la legge naturale è posta dalla volontà di
Dio.
Sembrerebbero a prima vista questioni di astratta teologia,
lontane dai problemi concreti, ma dietro ad esse si profilavano
concezioni morali e politiche opposte, dal contrasto tra le quali
si svilupperà il pensiero moderno.
4. Il giusnaturalismo nel Medioevo e la sistemazione tomistica Dopo S. Agostino per cinque secoli almeno la cultura europea fu quasi del tutto spenta, ma quando, a partire dal IX secolo,
cominciarono a fiorire le scuole teologiche e filosofiche, che
dettero il nome alla Scolastica, i pensatori medioevali si trovarono ancora di fronte al dilemma posto da S. Agostino.
Come si accennava sopra, nella Scolastica si possono individuare due correnti, una intellettualista e una antintellettualista:
quest’ultima, recuperando elementi del platonismo e del misticismo agostiniano, è di orientamento volontarista e identifica il diritto naturale con la volontà di Dio; la prima, di ispirazione aristotelica, rivendica alla ragione una sua sfera, seppur limitata, e
identifica la legge naturale con la ragione. In essa sopravvive
l’istanza razionalistica di origine greco-ciceroniana che i Padri
della Chiesa avevano tramandato.
Il più razionalista degli scolastici è Pietro Abelardo (XII
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sec.): egli per la prima volta usa l’espressione “ius positivum”,
derivandola dal commento al dialogo platonico Timeo di Calcidio, e ad esso contrappone lo “ius naturale”, definito come “ciò
che la ragione stessa che per natura è presente in tutti persuade
doversi compiere con l’azione”. Tale concezione si afferma con
Alberto Magno (XIII sec.), maestro di Tommaso d’Aquino
(1225/6-1274), al quale si deve l’opera di chiarificazione e sistematizzazione della dottrina giusnaturalistica medioevale.
Nella Summa theologiae S. Tommaso distingue tra lex divina,
lex aeterna, lex naturalis e lex humana.
La lex divina è la legge rivelata da Dio e come tale è superiore a tutte.
La lex aeterna è la ragione stessa di Dio, sovrano della comunità dell’universo e legislatore di essa. Tutte le cose soggette
alla provvidenza di Dio sono regolate dalla legge eterna, quindi
anche le creature razionali: “questa partecipazione della creatura
razionale alla legge eterna si chiama legge naturale”. Quest’ultima non è una copia imperfetta della legge eterna, ma una parte
di essa, ed è guida all’uomo nel perseguimento dei suoi fini terreni, sulla base del principio fondamentale “bonum faciendum,
malum vitandum”.
La lex humana, cioè il diritto positivo, è istituita dall’uomo
perché con la forza ed il timore egli si astenga dal male se, a
causa delle passioni, non segue la sua natura razionale. La lex
humana deriva da quella naturale in due modi:
– per modum conclusionum, cioè per deduzione da principi
– per modum determinationis, cioè per specificazione di
norme più generali.
Ma il diritto positivo non è una semplice derivazione meccanica dalla legge naturale: esso, per S. Tommaso, nasce dalla volontà comune, sia per un accordo privato, sia per accordo di tutto
il popolo, sia per il comando del sovrano che rappresenta e governa il popolo.
Nella Summa theologiae viene posto anche il problema del possibile contrasto tra la legge positiva e la legge naturale. S. Tomma-
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so premette che “una legge positiva che in qualche cosa differisca dalla legge naturale, non sarebbe più una legge, ma una corruzione della legge (corruptio legis)”, tuttavia, pur negando ad
essa valore morale, sembra riconoscerle validità giuridica al fine
di evitare turbative sociali (propter vitandum scandalum vel turbationem). Solo alla legge contraria alla legge divina si deve disobbedire.
Con questa sistemazione S. Tommaso mette ordine nell’eclettica confusione in tema di diritto naturale in cui il pensiero medioevale si era dibattuto.
Egli distingue più piani: quello della fede e quello della ragione, quello della rivelazione e quello della filosofia. Conseguentemente riconosce alla legge divina un carattere e fine che
la pongono su un piano di superiorità, ma attribuisce alla legge
naturale una sua legittimità che le deriva dall’essere posta dalla
ragione. L’uomo ha infatti un fine soprannaturale e per questo
ha bisogno della legge rivelata da Dio, la legge divina, ma, in
quanto essere naturale e razionale, ha una sua autonomia, nel
senso letterale del termine, cioè capacità di dare a se stesso le
proprie leggi.
I primissimi scrittori cristiani, in particolare S. Paolo, avevano negato valore al diritto perché negavano valore alla natura e
alla ragione, contrapponendo ad esse la grazia e la fede. I Padri
della Chiesa, sotto l’influsso della cultura greco-romana, avevano rivalutato il diritto e la ragione, cadendo in gravi contraddizioni, portate in luce in particolare da S. Agostino, che era ritornato a svalutare la natura, la ragione e quindi il diritto e lo Stato,
legittimando il primo solo nella forma di legge posta dalla volontà di Dio e il secondo nella forma di città di Dio.
S. Tommaso, senza negare il piano soprannaturale della grazia e della fede, riconosce legittimità anche al piano naturale e
umano, in cui regna la ragione che si esprime in campo morale
come legge naturale.
Occorre dunque andare molto cauti nell’accettare l’opinione
di chi vede in S. Tommaso il rappresentante tipico del Medioevo: egli attua un equilibrio tra istanza religiosa e istanza monda-
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na, che portò ad un inasprirsi della tensione tra intellettualisti e
antintellettualisti già presente, peraltro, nel pensiero pretomistico.
La reazione al razionalismo tomistico è rappresentata da Guglielmo da Occam (XIV sec.): in contrapposizione a S. Tommaso – per il quale, come si è visto, l’uomo è partecipe della razionalità divina e ha in sé il criterio della moralità, grazie alla legge
naturale – egli fa risiedere la moralità esclusivamente nell’obbedienza al comando di Dio, la cui volontà è assolutamente libera
ed arbitraria, tanto che egli può volere che due più due non faccia quattro. Anche per Occam il diritto naturale è dettato dalla
retta ragione, ma la retta ragione è per lui solo lo strumento con
cui Dio rende nota all’uomo la propria arbitraria e incondizionata volontà. Quindi il diritto naturale è norma esterna all’uomo,
senza certezza né stabilità, in quanto perpetuamente in balìa della volontà divina: ad esso l’uomo non può derogare e le leggi
positive non hanno valore se in contrasto con questo.
La tarda Scolastica segna così l’arresto di quel processo di
razionalizzazione che la tradizione stoico-ciceroniana e il riscoperto aristotelismo avevano esercitato sull’etica medioevale e il
ritorno al volontarismo dei primi autori cristiani.
Ma fu un discepolo di Occam a formulare per la prima volta
la tesi più esplicita e radicale del razionalismo etico: Gregorio
da Rimini (XIV sec.). Egli, come il suo maestro, è un volontarista radicale, ma, definendo il peccato “l’agire volontariamente
contro la retta ragione”, così prosegue: “se si chiede perché io
dico contro la retta ragione e non contro la ragione divina rispondo che non si deve credere che il peccato sia solamente contro la ragione divina e non contro qualsiasi ragione allo stesso
proposito. Perché se per impossibile ipotesi la ragione divina o
Dio stesso non esistessero o tale ragione non fosse retta, pure se
qualcuno agisse contro la retta ragione degli angeli o dell’uomo
o un’altra se una ce ne fosse peccherebbe. E se non esistesse affatto una ragione retta, pure se qualcuno agisse contro ciò che
detterebbe doversi fare una ragione retta, se ce ne fosse una, egli
peccherebbe”.
Qui è formulata esplicitamente la tesi dell’indipendenza della
legge morale non solo dalla volontà, ma dall’esistenza stessa di
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Dio, e della sua fondazione unicamente nella ragione, tesi che
ritroveremo in Grozio, in un contesto culturale profondamente
cambiato, e che produrrà conseguenze rilevantissime nello sviluppo del pensiero etico-giuridico e politico moderno.
5. Il giusnaturalismo nell’età moderna Il Medioevo era stato caratterizzato da una fondamentale unità: all’universalismo spirituale facente capo alla Chiesa corrispondeva un universalismo temporale rappresentato dall’Impero. Ma, a partire dal XIV secolo, l’universalità e la sovranità dell’Impero si vanno sempre più riducendo ad una finzione: la nuova realtà è costituita da una pluralità di Stati effettivamente sovrani che non riconoscono un superiore (superiorem non recognoscentes), che danno a se stessi autonomamente le proprie
leggi e che non si considerano più, nemmeno formalmente,
membri di uno stesso organismo.
Con la Riforma, luterana prima e calvinista poi, si spezza anche l’unità religiosa e viene a mancare l’ultimo terreno comune
di incontro, quale era la religione: anzi questa diviene nuova
causa di contrasti aggiungendosi alle rivalità vecchie e nuove,
tra le quali, soprattutto, il possesso delle terre recentemente scoperte e il dominio dei mari, divenuto elemento fondamentale
nella politica dei grandi Stati.
Prima della Riforma i rapporti internazionali erano trattati
quali “casi di coscienza” da parte dei teologi, tra i quali, in particolare, gli esponenti della Seconda Scolastica spagnola, quali
Francisco Suárez, Francisco de Vitoria, Domingo de Soto, ma,
dopo la Riforma, al tempo delle guerre di religione, non era certo la teologia a poter fornire un fondamento a norme accettabili
da parte dei contendenti, che proprio questioni religiose avevano
posto in conflitto. Occorreva che il fondamento di queste norme,
che venivano dette di diritto delle genti, e, con terminologia moderna, potremmo definire di diritto internazionale, fosse trovato
al di fuori di qualsiasi legislazione positiva o religiosa, in qual-
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che cosa che fosse comune a tutti gli uomini indipendentemente
dalla loro nazionalità.
Così nella seconda metà del XVI secolo Alberico Gentili, nel
suo De iure belli, riconnette il diritto internazionale a quelle
“leggi non scritte, innate” che, pur avendo il loro fondamento
ultimo in Dio, sono dettate dalla ragione naturale.
Questa via dell’appello alla ragione naturale, il cui dettato è
valido per tutti gli uomini indipendentemente dalla fede religiosa,
è quella che seguirà Ugo Grozio (1583-1645), autore di numerosissime opere letterarie, filologiche, storiche, teologiche, politiche e giuridiche, che deve la sua fama ad un libello Mare liberum, in cui sostiene la libertà dei mari in polemica con il giurista
inglese Selden, autore del Mare clausum e, soprattutto, al De iure
belli ac pacis. Nella prima parte di quest’ultimo, i Prolegomena,
Grozio si pone il problema del fondamento del diritto internazionale e lo individua nella natura razionale e sociale dell’uomo. I
principi fondamentali di esso sono, in primo luogo, l’obbligo di
tener fede ai patti (pacta sunt servanda), poi, come conseguenza,
il rispetto delle cose altrui, la restituzione della proprietà altrui e
del lucro derivatone, il mantenere le promesse e così via.
Tutto ciò, secondo Grozio, non può essere modificato da nessuna volontà e “sussisterebbe in qualche modo ugualmente anche se ammettessimo – cosa che non può farsi senza empietà
gravissima – che Dio non esistesse (etiamsi daremus Deum non
esse) o che non si occupasse dell’umanità”.
In questa proposizione fu scorta dai contemporanei un’audacia grandissima giungente addirittura all’empietà, in quanto
Grozio, affermando l’indipendenza del diritto naturale da Dio,
appare distruggere ogni presupposto trascendente, teologico e
religioso della moralità e, fondando quest’ultima sulla sola natura umana, proclamarne il carattere assolutamente immanentistico, razionalistico e laico.
Tutto ciò valse a Grozio, da un lato, la condanna della Chiesa
e, dall’altro, secondo una interpretazione che risale a Samuel Pufendorf, la fama di fondatore della teoria moderna del diritto naturale.
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