Alcesti nel Novecento letterario italiano

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Alcesti nel Novecento letterario italiano*
L’Alcesti di Euripide La questione morale e la “doppia ricezione” La ricezione del Novecento italiano
L’Alcesti di Savinio L’Alcesti di Raboni Un fraintendimento novecentesco?
L’argomento di questo ultimo incontro s’è imposto da sé alla programmazione del ciclo di conferenze. La sezione classica del “Veronese”, infatti, è impegnata
quest’anno in una serie di attività tutte gravitanti intorno alla figura di Alcesti: la
III classico legge l’Alcesti di Euripide e il programma di latino, di conseguenza, ha
scelto di ospitare, tra testi più canonici, quell’Alcesti di Barcellona che tanto ha sollecitato gli studi filologici nell’ultimo trentennio del secolo scorso. Il triennio
dell’indirizzo, poi, è attivamente coinvolto nella messa in scena del dramma euripideo, onorando una tradizione ormai più che ventennale, da due anni coordinata
da chi vi parla. Il Liceo ha chiesto infine di partecipare al XIV Festival Internazionale del Teatro Classico dei Giovani, organizzato a Palazzolo Acreide (SR)
dall’Istituto Nazionale del Dramma Antico tra il 7 e il 31 maggio. Abbiamo creduto perciò naturale uno sguardo sul possibile permanere, nel secolo da cui siamo
da poco usciti, di suggestioni provenienti dall’incontro – o dalla presa di distanza
– con una eroina legata a temi e situazioni di incredibile longevità culturale.
Alcesti, vedremo, è figura che ha più di qualcosa a che vedere col Novecento.
Non, appena, per il suo essere tornata al centro degli studi filologici in seguito al
ritrovamento di un interessante testo, sconosciuto fino al ’76 – evento non proprio frequente nell’ambito delle discipline classiche1. Sì, invece, perché le sue suggestioni hanno effettivamente raggiunto l’epoca della modernità, sino a varcare le
soglie del millennio.
*
Il presente scritto conserva il taglio discorsivo della lezione, tenuta il 6 marzo 2008 presso l’I.I.S. “Giuseppe Veronese” di Chioggia, nell’ambito del progetto “Volti, eventi, idee del Novecento” 2007-2008. Il contenuto di quella
comunicazione è stato tuttavia integrato con riflessioni, indicazioni bibliografiche e con il testo delle sequenze filmate
proiettate nell’occasione.
1 Per l’Alcestis Barcinonensis (testo di probabile provenienza egizia, assegnato per lo più al IV sec. d.
C.) e il notevole interesse suscitato dal suo ritrovamento ad opera del papirologo catalano R. Roca
Puig, si veda NOSARTI 1992.
Roberto Vianello
L’Alcesti di Euripide
Iniziamo, a beneficio dei presenti, da alcune sintetiche informazioni in merito
alla vicenda dell’eroina così come ci è pervenuta nella versione di Euripide.
Alcesti va in scena nel teatro di Atene in occasione delle Grandi Dionisie del
438 a.C. È il quarto dei drammi della tetralogia mediante la quale Euripide consegue il secondo posto nell’agone scenico di quell’anno, dietro al grande Sofocle. È
La III Classico ’07-’08 porta in scena Alcesti di Euripide al Teatro greco dell’antica Akrai
noto che in essa l’autore si rifà a un omonimo dramma di Frinico, drammaturgo
della generazione precedente, così come è noto, sin dalle indagini del Lesky, il fatto che in essa l’autore riprende e mette in scena, non senza tensioni, due temi folclorici assai diffusi: l’offerta della vita da parte dell’amante per l’amato/a, la lotta
dell’eroe col demone della morte per salvare la giovane vita offerta2.
Per la diffusione dei temi folclorici citati, la distinzione geografica dell’identità di genere
dell’amante, le tensioni determinate dalla azione scenica del tema fiabesco si vedano ora, oltre al
classico LESKY 1925, SUSANETTI 2001, SUSANETTI 2004, PATTONI 2004, BRILLANTE 2005, PATTONI 2006, studi ai quali siamo debitori di gran parte delle osservazioni successive. A essi rinviamo per una comprensione d’insieme del dramma euripideo e per una bibliografia specifica. Per un
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Alcesti nel Novecento letterario italiano
La vicenda ha luogo a Fere, in Tessaglia. L’antefatto è, come sempre nel teatro greco, ben presente al pubblico. Zeus ha fulminato Asclepio, figlio di Apollo,
per aver risuscitato degli uomini, per avere cioè sovvertito le leggi di natura mediante il sapere medico appreso dal centauro Chirone sui monti della regione.
Apollo ha reagito per vendetta sterminando i Ciclopi, artefici del fulmine. Zeus lo
ha dunque punito, relegandolo in una condizione servile presso il mortale Admeto, uno degli eroi dell’impresa del vello d’oro. Di questo mortale il dio ha pascolato per un anno gli armenti. Ma Apollo durante il suo servizio ha conosciuto la
non comune generosità del re di Fere, la sua ospitalità, la sua amicizia. Quale ricompensa ha immaginato per lui un dono speciale. Ha ottenuto dalle Moire, ubriacandole, che Admeto, giunto il giorno fatale, possa non morire, ove qualcuno
sia disposto a offrirsi al suo posto. Admeto, cercando invano, non ha trovato alcuno pronto a sostituirsi a lui nel giorno terribile, tranne la sua sposa.
È a questo punto che prende inizio l’azione scenica euripidea. È giunto il
giorno di Alcesti. C’è silenzio nel palazzo reale. Un’ancella esce a narrare la “vestizione” dell’ ἀρίστη Alcesti, la migliore delle donne che, al pari di un eroe omerico, si prepara ritualmente alla “bella morte”. «Muoio perché t’onoro» (vv. 282 s.)
– dice in scena al marito. «Non ho voluto vivere senza di te» (vv. 287 s.). In cambio di questa sua φιλία, in cambio dello speciale manifestarsi del suo affetto in un
favore inaudito, Alcesti chiede allo sposo fedeltà postuma. E muore. Admeto,
prima del rito funebre, si scontra violentemente col padre, accusandolo di non
aver saputo sacrificarsi in nome di una giustizia generazionale, che avrebbe permesso a lui un gesto degno del rango e dell’età, ad Alcesti la sopravvivenza.
Giunge a Fere Eracle, ospite ignaro di un Admeto che non sa rinunciare alla più
caratteristica delle norme del mondo aristocratico ellenico: il dovere di reciprocità
verso gli amici e di ospitalità verso gli stranieri. Quando conosce la sciagura celatagli, Eracle strappa Alcesti alla morte e la restituisce a un incredulo Admeto. Velata, toccata dalla morte, la donna non potrà parlare fino all’alba del terzo giorno.
Alcesti è testo complesso. Temi diversi vi s’incrociano e sovrappongono tra
spinte di segno opposto. È potuto sembrare testo ambiguo3, a partire dal suo
stesso genere: tragedia o dramma satiresco? Sicuramente è creazione mirata a inscenare tensioni di rilievo. È storia di un sacrificio per amore, frutto di φιλία 4, ma
anche di un rifiuto consapevole di quella che la protagonista immagina come una
vita depauperata5. È riflessione sulla profonda tensione tra il «debito che tutti
dobbiamo pagare» – la morte – e la speranza, assurda ma tenace, che morire non
sia necessario6. È messa in scena della difficoltà di elaborare un lutto: al tempo
inquadramento sintetico e una bibliografia d’insieme su Euripide cf. invece BASTA DONZELLI
1987.
3 Si veda ad es. KOTT 2005: «È una strana opera. […] Tutto in essa … viene usato in modo da
presentare come parodia crudele la resurrezione di Alcesti. Se è una tragedia si autoconsuma» (p.
101).
4
SUSANETTI 2001, p. 22.
5
PATTONI 2004, pp. 286-289.
6
SUSANETTI 2001, pp. 9-10.
3
Roberto Vianello
stesso enciclopedia del rito funebre e riserva di strategie umane contro Ἀνάγκη, la
dura Necessità7. È anche narrazione di un ribaltamento del codice eroicoaristocratico, per il quale una donna straordinaria muore per “difendere” l’ ωἶκος ,
mentre a piangerla resta il marito8. È infine – ma solo per ridurre al minimo queste note sintetiche – spazio di un’opposizione caratteristica della civiltà occidentale: il contrasto, cioè, tra un sapere che pretenda il controllo del reale e quella che
potrebbe chiamarsi la sapienza del cuore, su ben altro avvezza a fondare certezze
e strategie di vita. Perché il Coro nel quinto stasimo del dramma proclama
l’impossibilità di trovare in alcuna dottrina un φάρµακον contro la spietata Ἀνάγκη,
denunciando la presuntuosa inadeguatezza di qualsiasi τέχνη fondata sulla conoscenza di fronte al male per eccellenza. Ma a tale sconsolata certezza il finale contrappone invece l’inattesa superiorità della φιλία, che riesce dove la τέχνη ha fallito, strappando alla morte Alcesti. Condivide Euripide la lettura platonica del mito9? Relega tale vittoria nel tempo del mito per proclamarne razionalisticamente
l’impossibilità nella vita reale10?.
Certo nell’intreccio di avvenimenti e prospettive appare delinearsi con nettezza una separazione, una lontananza tra i due protagonisti della vicenda. Vi si contrappogono personaggi di tempra e indole non comparabile. Alcesti è figura eroica, è un exemplum. È degna di essere cantata dai poeti e che il suo sepolcro divenga un altare. Ella merita la resurrezione. Alcesti è. Admeto, invece, caro agli dei,
capace lui pure di φιλία, vive una situazione imbarazzante e contraddittoria. Il sacrificio volontario della sposa, invertendo i ruoli tradizionali, lo lascia spettatore
passivo, accusabile di debolezza e viltà. Admeto, in fondo, non è quel che vorremmo11. È figura impresentabile ai moderni – obscaena nel senso etimologico del
termine. Non lo riscatta ai nostri occhi neppure la considerazione della progressiva comprensione cui sarebbe chiamato dal ruolo assegnatogli nel dramma: chi
non la considererebbe tardiva? Certamente troppo tardiva, indegna della pronta
ἀριστεία della sua donna12, il cui sacrificio pure nessuno, tranne il padre, gli rimprovera mai d’avere accettato13.
7
SUSANETTI 2001, pp. 15-16, 23; PATTONI 2004, 285-287.
8
PATTONI 2006, p. 14.
9 « E questo gesto da lei compiuto parve così bello non solo agli uomini, ma anche agli dèi, al punto che questi, pur avendo concesso solamente a pochissimi uomini fra i molti che compirono
molte buone azioni il dono di lasciar tornare l’anima dall’Ade, tuttavia lasciarono tornare la sua anima, meravigliati della sua azione. In questo modo anche gli dèi onorarono l’impegno e la virtù a
servizio dell’amore » (Platone, Simposio 179 C-D, REALE 1991. Anni Ottanta-Settanta del IV sec. a.
C.)
WILSON 1968, raccogliendo saggi critici novecenteschi sul dramma, si chiede: «is the salvation
of Alcestis … a sardonic ‘and so they lived happily ever after’ …? » (p. 1).
10
11
Cf. SUSANETTI 2001, p. 28.
12
Cf. il motivo dell’ ἄρτι µανθάνω (v. 940, “finalmente comprendo”).
13
Cf. SUSANETTI 2004, pp. 308 e 313.
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Alcesti nel Novecento letterario italiano
La questione morale e la “doppia ricezione”
La fortuna del tema è largamente attestata in letteratura e in arte, tra gli antichi e tra i moderni14. Ammirazione e riflessione hanno accompagnato la vicenda
dei due mitici sposi a partire dal V secolo a. C., in un durevole seguito di rivisitazioni e riscritture, ingiustificabili senza la percezione di una qualche paradigmaticità ancor viva15.
Si evidenzia, in questa catena di recuperi, quella che è stata definita la “doppia
ricezione” del capolavoro euripideo16. Si sono avuti cioè due diversi atteggiamenti
tra i moderni di fronte alla storia di Alcesti e Admeto, per lo più secondo una distinzione cronologicamente ben definibile.
Fino a tutto il Settecento le riflessioni sulle vicende della coppia mitica, edificate dalla limpidezza del gesto di lei, hanno mostrato un evidente disagio per l’
ἔθος discutibile dell’impresentabile Admeto, per l’accettazione del sacrificio della
consorte, per lo stesso atteggiamento impius nei confronti dei genitori, del padre
in special modo, aggredito verbalmente senza rispetto alcuno. La morale dei tempi nuovi comportava una valutazione diversa di parte di quella condotta, ambi-
Per la ricostruzione puntuale delle tappe letterarie di questa fortuna rinviamo ai già citati SUSAPATTONI. Si vedano in particolare gli atti del ciclo di seminari promossi a Brescia nel 2003
dall’Università Cattolica del Sacro Cuore in PATTONI-CARPANI 2004. Senza presumere di addentrarci in un ambito che non ci compete, segnaliamo, quale evidenza della diffusione del tema, il
noto cratere etrusco a figure rosse (340-330 a.C.), conservato alla Bibliothèque Nationale di Parigi,
nel quale Alcesti abbraccia Admeto tra le figure di Caru e Thuchulcha. Lo si veda all’indirizzo
www.saecula.it (sezione Immagini etrusche).
14
NETTI e
15 Lasciamo alla consultazione dei saggi citati un’informazione completa, comprensiva di opere
perdute, scolii, frammenti, testimonianze, citazioni e allusioni letterarie. Diamo di seguito il semplice elenco di opere che hanno ripreso in modo significativo il personaggio: la sua lunghezza testimonierà efficacemente la persistente fortuna: Palefato, Περί ἀπίστων (Sulle storie incredibili, inizio
III sec. a.C.); Alcestis Barcinonensis (III-IV sec. d.C.); Alcesta (V sec. d. C.), in Anthologia Latina; Geoffrey Chaucer, Legend of Good Women (1385 ?); Hans Sachs, Tragoedia von der Getrewen Frau Alkestis
und ihrem getrewen Mann Admeto (1551); Alexandre Hardy, Alceste ou la fidélité (1602); Aurelio Aureli,
L’Antigona delusa d’Alceste (1664); Emanuele Tesauro, Alcesti o sia l’amor sincero (Torino 1665, “tragedia musicale”); Philippe Quinault, Alceste ou le Triomphe d’Alcide (1674, musicata da Jean-Baptiste
Lully); Pier Jacopo Martello, Alceste (1709; 1715); N. Haym, Admeto re di Tessaglia (Londra 1727;
musicato da G. F. Händel); Ranieri de’ Calzabigi, libretto per l’Alkestis di Christoph Willibald
Gluck (Vienna 1767); Christoph Martin Wieland, Alcesti (singspiel, musica di A. Schweitzer, Weimar
1773); Johann Gottfried. Herder, Admetus’ Haus oder der Tausch des Schicksals (1802); Vittorio Alfieri, Alceste seconda (1798); ‘Issachar Styrke, Gent.’, Euripides’ Alcestis burlesqued (1816, parodia); Francis Talfourd, Alcestis, the Original Strong-Minded Woman (1850, parodia); William Morris, The Love of
Alcestis, in The Earthly Paradise (1868); Robert Browning, Balaustion’s Adventure (1871); Rainer Maria
Rilke, Alkestis (Capri, 7-10 febbraio 1907); Hugo von Hoffmannsthal, Alkestis: Ein Trauerspiel nach
Euripides (1893-94; 1911); Benito Pérez Galdós, Alceste (1914); T. S. Eliot, The Coctail Party (1949);
Marguerite Yourcenar, Le mystère d’Alceste (1942, ma 1963); Theodore Morrison, The Dream of Alcestis (1950); Thornton Wilder, The Alcestiad, or a Life in the Sun (1955).
16
PADUANO 2004.
5
Roberto Vianello
guamente coesistente con atteggiamenti più nobili nella vicenda antica? È un fatto
che fino alle soglie dell’Ottocento i nuovi interpreti della vicenda hanno cercato
di “migliorare” Admeto, ritenendo inadatto al loro pubblico – e alla bellezza della
vicenda stessa – il “vampirismo” di un uomo disposto al sacrificio della sua donna e incapace di rispetto per chi lo ha generato. Vanno in questo senso accorgimenti caratteristici dei nuovi testi ispirati alla vicenda, quali la sua iniziale ignoranza delle scelte di Alcesti (Aureli, 1664), la morte apparente dell’eroina (Martello,
1709), l’inutile rifiuto di lui (Calzabigi, 1767), la scelta del sacrificio per il bene superiore della stirpe regale (Alfieri, 1798), che nella rilettura finiscono in qualche
modo per offuscare, se non ridimensionare, la grandezza della libera donazione di
lei. Anche l’alterco col padre, irrappresentabile, viene eliminato e persino per il rifiuto di Ferete al figlio si invoca l’attenuante dell’affetto ugualmente grande per la
propria sposa (Alfieri). Narcotizzare le tensioni stridenti del testo euripideo sembra necessità preliminare alla possibilità stessa di guardare ancora a quella storia
d’amore e sacrificio, che si vuol comunque raccontare. Si sceglie di censurare i risvolti più ingrati della vicenda, rinunciando, implicitamente, alla vita della quale,
dal loro collidere e cortocircuitare, il dramma euripideo sembrerebbe tuttavia nutrirsi.
Non così le riscritture successive. Dall’Ottocento la ricezione dell’Alcesti euripidea sembra orientarsi verso un Admeto meno innocente: più problematico viene descritto il rapporto coniugale, meno virtuosa la coscienza.
La delimitazione imposta dal tema e dal contesto di oggi ci costringe inevitabilmente solo a qualche riferimento a Ottocento e Novecento per il resto
d’Europa17. Accenneremo qui alla riscrittura di Browning e a quella della Yourcenar, nelle quali la posizione di Admeto tende a risultare più problematica e dubbia. In Browning il re di Fere viene giudicato infantile e solo attraverso la pena e
la sofferenza perviene a un mutamento interiore capace di renderlo degno della
restituzione della sposa18. L’Admeto della Yourcenar è un marito distratto e narcisista, un artista che è divenuto per Alcesti « un irriconoscibile estraneo », un uomo che l’ha fatta soffrire, per il quale ha imparato a provare disgusto tra le incomprensioni. Un marito del cui palazzo Alcesti « non occupava che il giardino »,
che di notte, tra una carezza e l’altra, si alzava dal letto per andare a guardare le
stelle. « Io non ho mai saputo la tua idea delle stelle » – lo rimprovera la donna
prima di morire, opponendo con un certo rancore alle fantasie artistiche di lui la
sua necessità di pensare ad altro, di badare al figlio… E quando Ercole la riporta
17
Non ci risultano riscritture italiane di epoca ottocentesca.
Non ci risultano edizioni italiane di Balaustion’s Adventure (v. n. 15). Rinviamo per esso ancora a
SUSANETTI 2001 e PADUANO 2004 (in cui si possono leggere alcuni passi in lingua). “Fiore di Melograno”, giunta a Siracusa, si impegna a recitare l’Alcesti euripidea e ne fornisce una interessante
lettura critica, commentandone originalmente vari passaggi. Ma propone poi una reinterpretazione
radicale della storia, che sottintende il suo giudizio negativo su Admeto: il suo comportamento diverrà più comprensibile alla luce del sogno condiviso con Alcesti di riportare sulla terra una nuova
età dell’oro.
18
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Alcesti nel Novecento letterario italiano
in vita, vi ritorna con riluttanza, negando di essersi sacrificata per lo sposo: in realtà – confessa – voleva morire19.
La ricezione del Novecento italiano
Ma passiamo al Novecento italiano. Vi troviamo ben quattro riletture del mito euripideo. La prima è l’ Alcesti dai contenuti inopinati20 di Ettore Romagnoli,
pubblicata dal famoso grecista nei suoi Terzi drammi satireschi del 1922. La seconda
è l’ Alcesti di Samuele di Alberto Savinio, edita da Bompiani nel 1949 e messa in
scena nel 1950 dal Piccolo Teatro di Milano21. Segue, terza, una incompiuta Alcesti
di Corrado Alvaro anteriore al 1951, rimasta dattiloscritta e pubblicata solo nel
198322. Ultima infine – solo in ordine cronologico – Alcesti o La recita dell’esilio di
Giovanni Raboni, edita da Garzanti nel 2002 e portata in scena per la prima volta
nel 2004 – pochi mesi prima della scomparsa dell’autore – dal Centro Teatrale
Bresciano, che ci ha cortesemente fornito un video dello spettacolo, autorizzandone la proiezione di qualche scena nel corso di questa lezione.
Ci concentreremo oggi sulle Alcesti di Savinio e di Raboni. Ci inducono a farlo
ragioni di tempo e la possibilità inattesa di vedere la resa teatrale di uno dei due
pezzi. Ma anche la genesi in qualche modo corrispondente dei due drammi, concepiti all’indomani del secondo grande conflitto il primo – e per così dire bilancio
intellettuale di una stagione –, un cinquantennio più tardi l’altro – e dunque verifica di fine secolo delle speranze post-belliche. Non ci verrà, crediamo, imputata
l’incongruenza di inserire un testo del terzo millennio tra gli argomenti novecenteschi di questo ciclo di conferenze. Ci assolveranno dalla accusa di forzatura
cronologica l’ideazione del dramma di Raboni, che ha come verosimile terminus
ante quem l’aprile del primo anno del nuovo millennio23. Ma soprattutto il coincidere della sua realizzazione con gli ultimi atti letterari dell’autore novecentesco e
Il mistero di Alcesti della Yourcenar (scritto nel 1942, ma pubblicato solo nel 1963) è ora fruibile
in EURIPIDE E ALTRI 2006. Si vedano anche su di esso SUSANETTI 2001, TELÒ 2004, PATTONI
2006.
19
20 Admeto vi finge una falsa disperazione per la morte di Alcesti, innamorato com’è della sorella
di lei, con la quale potrà finalmente essere felice dopo la morte della sposa. Il ritorno dall’Ade lo
sorprende proprio nei nuovi progetti per l’avvenire.
21
La si legga ora in SAVINIO 2007. Sull’Alcesti di Samuele cf. CASCETTA 1995.
22 La si legga in MORACE 1983, che ne segnala il terminus ante quem (p. 732). Sul testo cf. anche
MORACE 2001 e LANGELLA 2004. Si tratta di una versione del mito “secolarizzata” e ambientata
nel mondo moderno, sullo sfondo del secondo dopoguerra.
Cf. RABONI 2006, p. CXXXVIII. In un’intervista pubblicata su “Il popolo” del 20 febbraio
2002 Raboni dà per ultimata la sua Alcesti, destinata ad andare in scena al Teatro Olimpico di Vicenza nell’autunno dello stesso anno. L’intervista è ora in Internet all’indirizzo www.italialibri.net.
La messa in scena non si realizzò e la prima dell’opera risultò quella citata nel testo.
23
7
Roberto Vianello
le parole stesse, infine, con cui Raboni ne parlò pubblicamente in una lezione dal
titolo “Alcesti” e i disastri del Novecento24.
L’Alcesti di Savinio
Andrea De Chirico, fratello del più noto Giorgio e noto al pubblico col nome
d’arte di Alberto Savinio, richiede qualche parola di presentazione, dato lo spazio
contenuto di cui gode normalmente nei libri di testo in uso ai più giovani tra il
nostro pubblico. Si tratta del resto di sorte comune alla maggior parte degli autori
novecenteschi: i manuali ne registrano i nomi, insieme a sintesi minime di pensiero e scelte poetiche, scegliendo la completezza informativa, anziché l’approfondimento caratteristico degli scrittori più “canonici”. Alla produzione teatrale di
Savinio, poi, sono dedicate spesso solo poche righe (tre e mezza nell’ultimo libro
di testo adottato qui al Classico).
Savinio è quel che si dice un artista eclettico. Scrittore, musicista, pittore.
L’infanzia in Grecia è per lui solo la condizione originaria di un percorso intellettuale compiuto nel corso di una vita errabonda in Europa. Monaco, Milano, Firenze, Parigi, Ferrara, Roma le tappe di un vagare che ne determina la prospettiva
non provinciale, ponendolo in relazione con le avanguardie culturali del primo
Novecento. Nietzsche e Schopenhauer, con la musica, gli oggetti di interesse della
prima giovinezza. Poi l’incontro con l’avanguardia artistica e letteraria a Parigi, il
sodalizio con Apollinaire, il concerto “sincerista” nella sala delle “Soirées de Paris”25. E ancora i contatti con De Pisis e Carrà, l’esperienza del Teatro Odescalchi
a Roma insieme a Pirandello, l’inizio dell’attività pittorica, la collaborazione con
riviste e quotidiani, l’inserimento, unico italiano, nell’Antologia dello humour nero del
surrealista Breton, la collaborazione con la Scala di Milano26. Savinio evita il confronto col Fascismo, impegnandosi solo dopo la sua caduta nella denuncia delle
radici ideologiche e culturali del totalitarismo. Esse affondano nelle passioni,
nell’istinto, nella vitalità, che determinano pesantemente l’uomo e le sue scelte.
Da essi può salvarlo solo la cultura, intesa come civiltà, come costruzione
dell’uomo per l’uomo: unico strumento in grado di riscattarne la storia27. Cittadino del mondo con l’Ellade nel DNA, come si direbbe oggi, per Savinio la cultura
non può che autocomprendersi in relazione all’Antico. Atteggiamento che non va
inteso come accettazione di un classicismo imbalsamato e anacronistico. Il tempo
dei miti è finito e l’Antico appartiene alla coscienza della modernità, inquieta e
Per la trascrizione dell’intervento nella sede di Brescia dell’Università Cattolica (12 dicembre
2003), a cura di F. Molinari, cf. RABONI 2004. La si legga ora anche nell’apparato critico a cura di
Rodolfo Zucco in RABONI 2006, pp. 1776-1782.
24
Il memorabile concerto di musica non armonica si tenne nel 1914 nella sede della rivista “Les
soirées de Paris” di Apollinaire.
25
Per maggiori notizie su Savinio basti qui rinviare a PIETROMARCHI 1986 e PEDULLÀ 1991. Sulla
vocazione europeistica di S. v. invece GUIDI 2006.
26
27
Si veda, per questi temi, GUIDI 2006.
8
Alcesti nel Novecento letterario italiano
priva di verità condivisa, solo per quel tanto che ci è dato di riconoscerne nel
mondo d’oggi. È vero che, in vesti dimesse, il mito è ancora presente tra noi. Riconoscerlo permette di gettar luce sulla realtà. La coscienza attenta dei moderni
può trovare nell’eredità dei classici un archivio di archetipi capaci di orientare alla
comprensione delle cose. Riconoscervi l’ultima metamorfosi di forme passate,
l’ultimo darsi, sotto altra foggia, di un nietzschiano eterno ritorno dell’identico,
può determinare «nella realtà una irruzione di verità» 28, fare del mito uno strumento conoscitivo privilegiato. Si spiega in gran parte così l’opera letteraria e pittorica di Savinio29, nel suo accostare personaggi e situazioni del quotidiano a riconosciuti omologhi mitici. Si tratta di una interazione nella quale a volte il quotidiano può demitizzare ironicamente il leggendario, per la sua evidente banalità; altre volte accade, invece, che i modelli paludati di un tempo rimitizzino la banalità
dell’ordinario, per quel tanto di universale che se ne può riconoscere dietro il ridimensionamento alla misura dell’oggi.
Il mito irrompe inaspettatamente – ed esemplarmente – nel vissuto di Savinio
un giorno del ’42, in cui, in qualità di critico, egli assiste a prove liriche al Teatro
dell’Opera di Roma30. Vi compare improvvisamente il dott. Alfred Schlee della
Universal Edition di Vienna31. Di lui Savinio giunge a conoscere l’inaudito destino
di vittima costretta dall’inasprirsi delle leggi razziali a una scelta odiosa: divorziare
dalla moglie ebrea o perdere l’incarico presso l’editrice musicale. Il disumano aut
aut istituito tra i valori più costitutivi dell’uomo – lavoro e affetti familiari – basta
di per sé a fare dello Shlee un personaggio tragico. Ben più crudele, tuttavia, scopre Savinio la sorte di quell’uomo, ormai privo di una sposa che, per non intralciarne la carriera, ha scelto di togliersi la vita.
Ecco il mito tra noi! Ecco tra noi una nuova Alcesti, la donna che rinuncia alla vita per lo sposo nel cuore del XX secolo! «Alcesti è rinata» – dirà il personaggio dell’Autore nel dramma che Savinio pubblicherà di lì a qualche anno32 – «Al-
CASCETTA 1995, p. 1407. Senza ambizione di completezza rimandiamo, per il mito e il mondo
classico in Savinio, a RAGNI 2002 e USAI 2005.
28
Si pensi, per citare qualche esempio a titoli saviniani come Hermaphrodito (1918) o Capitano Ulisse
(1934), o a opere pittoriche quali il fatuo Apollo del 1931 (con la testa d’anitra e il busto sopra un
capitello ionico), il Colloquio - Oreste e Pilade del ’32 (in cui i due amici sono ritratti su basamenti
che paiono immobilizzarli), Il ritorno di Ulisse del ’33 (in cui un soggetto nient’affatto eroico porta
in testa un moderno cappello di paglia), Mademoiselle Centaure del ’46 (un vanitoso individuo femminile dalla duplice natura ostenta un cappellino alla moda in riva al mare). Per l’opera pittorica di
Savinio si consulti VIVARELLI 1996.
29
30
Sulla vicenda cf. SAVINIO 2007, pp. 304 ss.
31 Il nome dello Schlee, che operò in circostanze storiche difficili nella sede viennese della editrice
musicale fino al 1945, compare nella storia della Compagnia, tuttora attiva, all’indirizzo Internet
www.universaledition.com (v. anche la versione inglese).
SAVINIO 2007, p. 26. D’ora in poi si farà riferimento tra parentesi alla numerazione di pagina di
questa edizione.
32
9
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cesti non è un individuo, ma una specie. Conoscevamo Alcesti di Pelia: ora conosciamo Alcesti […] di Samuele» (p. 45)33.
La creatività di Savinio, sensibile, come s’è detto, alle occorrenze del mito nel
quotidiano, lo spinge a lavorare su questo spunto di vita vissuta, fino a pubblicare
nel 1949, presso Bompiani, il dramma in prosa Alcesti di Samuele, che verrà portato
in scena l’anno successivo dal “Piccolo Teatro di Milano” per la regia di Giorgio
Strehler34. Sarà un fiasco! La trasformazione che la vicenda della moderna Alcesti
ha subito nel suo farsi testo da recitare, il linguaggio teatrale scelto dall’autore ne
faranno qualcosa di sgradito a critici e spettatori. Verbosità, divagazioni, disarmonie, moduli da avanguardia, col pessimismo e il nichilismo che vi traspaiono, ne
faranno qualcosa di lontano, per ragioni diverse, dalle attese del pubblico35.
La vicenda, s’è detto, passando dalla vita alla letteratura si è trasformata. Il
dott. Shlee è diventato il dott. Paul Goerz, direttore della Musikalische Ausgaben
di Monaco. Alcesti è Teresa Goerz, figlia di Samuele, moglie ebrea di Paul. Il testo prevede l’entrata degli spettatori e di un Autore prima che si apra il sipario.
L’Autore anticipa ai presenti che Goerz è a Roma perché neanche la vicenda della
sua Alcesti può risolversi senza l’intervento di Ercole.
Si apre il sipario. Sulla scena un telefono dieci volte più grande del normale
attira su di sé l’attenzione degli spettatori. Il ricevitore, abbandonato, oscilla a
pendolo. Una voce ripete insistentemente e minacciosamente: «Il dott. Goerz subito al Ministero!» (p. 30). Ai lati della scena due sagome in poltrona: i ritratti di
Padre e Madre seduti e destinati ad animarsi nel corso del dramma. Teresa non
c’è. La servitù e i figli sanno che ha fatto delle telefonate nell’assenza del marito.
Paul, com’è evidente dalle parole dell’Altoparlante, si è recato al Ministero ove è
stato costretto alla dolorosa scelta tra la sposa e il lavoro. Al suo ritorno vorrebbe
dirle che ha scelto lei, coraggiosamente e fedelmente. Ma Teresa non è in casa. La
chiama ripetutamente, salendo sul proscenio. Poi all’improvviso si spengono le
luci. Il nome di lei riecheggia nel buio. Quando la luce torna, in luogo del telefono
si vede un ritratto della donna, a grandezza naturale. Ai piedi del ritratto una lettera: l’addio di Teresa allo sposo e le ragioni del suo irreparabile gesto.
Lascio questa lettera ai piedi del mio ritratto. Così mentre tu leggerai [...] ti sembrerà udire la mia voce. [...] La telefonata di stamattina io l’aspettavo. Ero una cacciatrice in agguato.
Sapevo che la tigre sarebbe venuta. E per divorare te, mio povero Paul. Colpa mia, del resto.
Era giusto che provvedessi io stessa a cacciare la tigre. Tante volte tu hai difeso me. Tu e io, assieme, non abbiamo sempre sostenuto la parità dei diritti tra uomo e donna? La moglie a sua
33
Samuele, come si comprende, è il nome ebreo del padre della nuova Alcesti.
34 Alcune immagini dell’evento teatrale nell’Archivio multimediale del sito Internet del “Piccolo”.
Scenografia e costumi furono a cura dello stesso Savinio. Tra gli attori ivi ritratti Lilla Brignone,
Piero Carnabuci, Camillo Pilotto, Diego Parravicini, Mario Feliciani, Alberto Marché.
Anche per questo il “Piccolo” percorrerà presto altre strade, rileva il citato CASCETTA 1995, p.
1442.
35
10
Alcesti nel Novecento letterario italiano
volta deve difendere il marito. Quale migliore occasione di questa? Quando tu leggerai questa
lettera, io sarò lontana. Molto lontana (p. 44 s.)36.
Paul (Piero Carnabuci) legge la lettera davanti al ritratto di Teresa (Lilla Brignone)
Archivio Piccolo Teatro di Milano
Teresa-Alcesti illustra il suo gesto a un Paul-Admeto lasciato, per così dire,
fuori dal gioco. Incolpevole. E tuttavia non proprio completamente “innocente”37.
Mi serviva una via d’uscita. Ho scelto il fiume. Quale via migliore? Quando eravamo fidanzati tante volte [...] siamo andati a guardare assieme questo nostro fiume, di sera, dal pa-
36 Il presente testo di Savinio, come i seguenti, è stato videoproiettato e letto da chi scrive nel corso della lezione.
37 L’Admeto di Savinio sembra avere qualcosa in comune con l’Admeto della Yourcenar, di cui si
diceva più sopra. Non risultano tuttavia rapporti diretti tra le due opere (cf. PATTONI 2004, p. 292,
n. 44).
11
Roberto Vianello
rapetto del ponte Massimiliano. Poi ci siamo sposati [...] non siamo più andati a guardarlo.
Che peccato. Che peccato questo invadente burocratismo del matrimonio! Io però, qualche volta,
sono tornata da sola a guardare il fiume. Non te ne ho mai parlato. Mi avresti detto che sono
bambinate. Noi donne siamo conservatrici. … Meno di voi accaparrate dall’avvenire. Ci piace
conservare gli oggetti, i ricordi, i luoghi implicati in qualche nostro momento di felicità. E non
amiamo il mutamento. Che impressione strana – non avertene a male – che impressione
di “perdita” al ritorno da quelle mie visite solitarie al fiume, ritrovare qui a casa il te di
ora, dopo il te di allora lasciato poco prima sul parapetto del ponte Massimiliano. Ci sono alcune sottili varianti del tradimento che la legge sull’adulterio non contempla, ma alle quali
il nostro animo non rimane indifferente. Da qualche tempo in qua le mie visite al fiume erano
più frequenti. Tu hai già capito. Non per rievocare una felicità perduta, ma per cercare un amico, un alleato. Il suo movimento instancabile m’ispirava fiducia. Rispondeva a un mio desiderio
sempre più urgente. Questa città nella quale noi viviamo è soffocata dalla terra. ...Terra da ogni parte. Terra, terra. [...] La terra stringe tutt’intorno questo paese, lo strozza, lo porta
all’isterismo e alla pazzia. [...] Con quale altro mezzo andarmene da qui? Perché, andarmene
bisogna. Se no è la morte per me; e anche per te, mio povero Paul - mio povero “innocente”! [...] Quando tu avrai finito di leggere questa lettera, io avrò raggiunto
finalmente quello che ho sempre desiderato [...] la [...] Libertà! [...] Tengo a chiarire la mia situazione: io non sono una donna che si ammazza: sono una donna che “libera se stessa”, che
“salva se stessa” (pp. 46 ss.).
Una voce femminile annuncia che c’è un poscritto: è il ritratto che s’è animato
surrealisticamente e, terminando la lettura, comunica la consapevolezza della moderna Alcesti dell’unicità del suo gesto in cui è certa di poter pienamente realizzare se stessa.
Io, lo sai, non sono donna da contentarmi del marito, della casa, dei figli. Io volevo far
qualcosa di mio, di proprio. Te lo dicevo sempre. Non sapevo cosa. Tu mi pigliavi in giro. La
sorte mi ha favorita. Ecco che anch’io ho trovato una cosa da fare. Una cosa « mia ». E che
cosa! Cara mi costa. [...] Questo mio capolavoro, per di più, non rimarrà sconosciuto. Perciò,
Paul, stattene lontano. Non venire! Non venire! Me, eroina, la tua sola presenza tornerebbe a
fare di me uno straccio di donnetta. E io non voglio, non fosse che per far dispetto a voi uomini… Una parola all’orecchio: in questo mio sublime sacrificio, non riesco a determinare quanto
c’è di eroismo e quanto di vanità (pp. 60 s.).
Nella giustificazione del gesto della nuova Alcesti percepiamo risonanze di
una sensibilità ovviamente moderna e la rivendicazione di una dignità di genere
propria delle stagioni più recenti delle società occidentali. Tratti come questi non
possono certo stupirci, scontatamente necessari come sono al personaggio. Se la
nostra eroina è solo uno degli individui in cui la specie Alcesti s’è riprodotta nella
storia, deve mostrare specificità sue particolari, lati di un’identità “da secolo breve”. Si potrà semmai – rispetto alle scelte dell’autore – chiedere criticamente fino
a che punto possa darsi un’Alcesti moderna, non tanto nel suo affacciarsi alla storia nella riconoscibile somiglianza di una situazione, quanto piuttosto nel suo corrispondere effettivamente ai tratti caratteristici della specie di cui essa sarebbe in-
12
Alcesti nel Novecento letterario italiano
dividuo. E porre, conseguentemente, una questione riconducibile alla precedente,
domandando: a un’Alcesti novecentesca si addice un ritorno dai morti? Quale
spazio, nell’età della scienza e del disinganno, per ciò che inspiegabilmente Platone non problematizzava, ma la lucida ragione dello stesso Euripide è sembrata a
taluni implicitamente rifiutare?38 Prenderemo in considerazione prima la seconda
questione, constatando che Savinio non sceglie di percorrere l’itinerario “più verosimile” di un mancato ritorno, come pure sappiamo si fece nell’antichità39. Per
l’Alcesti moderna, a giudizio di Savinio, un ritorno è possibile almeno nella finzione teatrale. Perché il teatro è il luogo «che corregge quello che è sbagliato,
completa quello che è incompleto. Il teatro è come i sogni. I sogni attuano quello
che da svegli non possiamo attuare» (p. 78). Questo proclama solennemente il
personaggio dell’Autore all’Ercole moderno a cui Savinio affida l’impresa di riportare nel mondo Teresa-Alcesti. E si tratterà di un duplice indennizzo. Perché
se Teresa potrà tornare, anche il nuovo Ercole troverà nell’impresa una personale
compensazione agli oltraggi della sorte. Soltanto al termine, amaramente, comprenderemo in che modo sarà stata fatta «più viva la vita».
Ai tempi del secondo grande conflitto, l’unica figura storica immaginabile in
veste d’eroe è il vincitore morale della guerra, colui che ha saputo ripulire il mondo dall’idra del totalitarismo. È il presidente degli Stati Uniti Franklin Delano Roosvelt, che la morte ha ingiustamente tolto di scena prima che potesse terminare
la guerra, ma a cui il teatro, che completa quel che la vita ha lasciato incompleto,
concede la chance di un’ultima grande impresa.
L’ex Presidente entra in sala al suono d’una marcia militare, con l’aspetto di
un busto poggiante su piedistallo, che si scopre poi nascondere un locomotore, di
cui l’eroe dimezzato si serve per raggiungere il palcoscenico. La trovata, che assimila il personaggio a talune immagini del Savinio pittore40, non è il solo mezzo riservato a quello che sembra un ridimensionamento inspiegabile. Anche un lungo
scambio di battute, ora pedanti ora polemiche, apparentemente fuorvianti, mira a
realizzare, almeno sotto il profilo ideologico, una dissacrante relativizzazione
dell’eroe, uno dei tanti «uomini forti, onesti e soprattutto ottusi», adibiti a «grossi
e periodici lavori di pulitura del mondo» (p. 95). A questo simbolo dell’ottimismo,
che non sa bene se è già morto o è ancora vivo, che, da Americano, crede a tutto
e non ha idee personali; a questo «eroe moralista» (p. 92), simbolo della democrazia e del liberalismo, è affidato il compito che fu dell’Eracle euripideo: dovrà riportare in vita la vittima del razzismo nazionalsocialista. Con quali risultati vedremo.
38
Cf. n. 10
È noto che l’eroina non ritorna in vita nell’Alcestis Barcinonensis, ma gli esametri pervenuti registrano, quale ultimo atto della vicenda, le sconsolate parole di Alcesti: «Coniux, dulcissime coniux /
[…] rapior; venit, mors ultima venit, / infernusque deus claudet ‹ iam › membra sopore».
39
40
Cf. la nota 29
13
Roberto Vianello
L’Autore (Mario Feliciani) e Roosvelt (Camillo Pilotto)
Archivio Piccolo Teatro di Milano
Quando il sipario si riapre Roosvelt sta scendendo nel Kursaal dei morti, un
Aldilà irriconoscibile. In questa sorta di clinica i morti siedono in attesa di dimenticare, fino a non esser più, fino a finire di morire. In una interazione da teatro
moderno è il pubblico a impersonare il ruolo dei morti. Roosvelt si intrattiene
con un Direttore invisibile, di cui si percepisce la presenza unicamente dalla voce
e dai movimenti di una seggiola e di un registro, che bisogna immaginare toccati
da lui41. La voce del Direttore spiega che nel Kursaal trovano posto quanti non
riescono a morire finché nel mondo resta ancora traccia di loro. Si tratta di morti
illustri, che aspirano ora solo all’indifferenza, desiderano l’annientamento della loro individualità. Gli altri, quelli che in vita sembrano vivi ma non sono più vivi dei
morti, passano: e nessuno se ne accorge, né durante la vita, né dopo. La permanenza nella «clinica» (p. 128) è proporzionale alla compattezza della personalità e
Vorremmo poter affermare che questo Direttore di Savinio, come l’intera situazione del
Kursaal, abbia svolto un qualche ruolo nella immaginazione di Dino Buzzati, presente alla prima
dello spettacolo e tra i pochi favorevoli al lavoro (CASCETTA 1995 , pp. 1440, n. 87; 1441). Ha
qualcosa del Direttore del Kursaal, infatti, il Diavolo-Giacca che, nel buzzatiano Poema a fumetti del
1969, sovrintende, incorporeo, a un Aldilà altrettanto sorprendente e straniante.
41
14
Alcesti nel Novecento letterario italiano
quindi al ricordo che resta tra i vivi. Una silenziosa concentrazione aiuta il «riassorbimento» (p. 127). Siedono tra questi morti alcuni grandi della storia e alcuni
grandi della poesia. Rimbaud è più lento di Aleardi nel suo percorso verso
l’annichilimento. I posti di Carducci e Pascoli sono già vuoti! Omero, invece, resiste da tremila anni: lo «chiamano» (p. 132) troppo dal mondo dei vivi. Anche
l’Alighieri è uno degli ospiti «più duri» (p. 136).
I morti coprono Roosvelt di improperi per il turbamento dell’atarassia da loro
cercata e da lui alterata nella pretesa di riportare in vita Teresa Goerz. Pregano il
Direttore di lasciarlo fare, per aver finalmente pace. E finalmente «un grido di nascita» o «di agonia “invertita”» (p. 144) annuncia che Teresa sta per tornare tra i
vivi. Il sipario si chiude. La sala del teatro si illumina. L’Autore afferra il sipario e
lo riapre. Teresa torna attraverso il suo ritratto, ride sommessamente e chiede
perché la si voglia vedere, lei che è «il vomito che la Morte rigetta sui vivi» (p.
166). Le sue parole raggelano e non sembrano affatto corrispondere al ruolo di
nuova Alcesti che s’è immaginato ella possa avere. Forse il ritorno dai morti è
possibile, nel teatro di Savinio, ma non è detto che esso corrisponda alle nostre
attese. E il personaggio dell’Autore osserva che Alcesti rediviva dovrebbe rimettere le cose come stavano prima, mentre Teresa-Alcesti «rovescia la parte, tradisce
l’aspettativa» (p. 167).
L’Alcesti moderna è morta «per volontà di essere», confessa, per poter «far brillare se stessa nella vita» proprio in contrasto con l’ «asfissia dell’essere che sono i regimi totalitari» (p. 168)42. Ma il suo gesto «di vita» sembra aver perso ogni valore
per lei. Non si tratta di rimpianto per la vita perduta, che ella non può più amare.
Teresa non è tornata per merito del nuovo Ercole, che ha creduto di «conciliare
morte e vita» (p. 176) così come si è illuso di portare pace agli uomini con la sua
guerra. Ella non è tornata per ricominciare la sua vita tra i vivi. Troppa differenza
la separa ormai da loro: è altra la sua conoscenza, altra la sua sapienza. E non è
tornata sola… L’ha preceduta la Signora del Profondo, l’Immortale, la Morte, determinata a punire l’orrendo delitto di averla riportata in vita. Roosvelt cade
all’improvviso lungo disteso. Anche Goerz si distende morto. E Teresa, ignorandone il cadavere, si precipita ad abbracciare ciò che del suo amato Paul è ora, invisibile al pubblico, di fronte a lei, per proclamargli la sua nuova verità.
Ora ti posso dir tutto. […] Gli uomini, fino a un certo punto, percorrono un cammino di
vita, e vivere è la meta del loro cammino. Gli uomini allora sono figli. […] Ma, a partire da
quel punto, la meta del cammino della vita non è più la vita: è la morte. […] Gli uomini allora sono genitori. Noi allora […] ci accorgiamo […] che il nostro tempo si abbrevia sempre più.
Questo il meccanismo di quella vita dalla quale e tu e io siamo usciti. Questo il suo dare e il
suo avere. Questo il suo bilancio. […] La vita, ricordi? è rotta tratto tratto da schermi che intercettano la visuale. Uno di questi sono i figli. […] Dolce follia per la nascita di Ghita io sentii, poi per quella di Claus, e le cure per allevare i nostri figli non me le sono risparmiate. Eppure, non so, […] io, di là dalla dolce follia, di là dalle cure, vidi distintamente in fondo alla
Se l’autore ha pensato in questo luogo al famoso Epitafio di Sicilo ( Ὅσον ζῇς φαίνου ), bisognerà attribuirgli una specifica volontà di dotare la moderna Alcesti di una weltanschauung “ellenica”.
42
15
Roberto Vianello
mia strada la luce della vita tramontare, e sorgere l'ombra della morte. Spaventata? Preoccupata? ... No. Contenta. Profondamente contenta. Come della sola verità intravista. […]
Capisci ora come ben preparata io ero alla morte? Capisci ora perché la morte non era per me
quella spaventosa sorpresa che è per altri? Capisci ora perché io non solo non temevo la morte,
ma la sentivo come il mio vero destino? ... E quei là credevano spaventarmi, imponendomi la
morte come un patto – come una punizione ... Imbecilli! Paul, io mi uccisi per liberare te dalla
trappola che quegli imbecilli ti avevano teso. Ma questa è la versione ufficiale. La ragione vera,
e che ora, nella nostra piena identità, non ho più motivo di nasconderti, è che io mi uccisi per
affrettare il destino: per impazienza della promessa ... […] In quell'altro mondo ho dato la vita ai miei figli: in questa vita do la vita a te. Ho attuato la più segreta e assieme la più
grande aspirazione della donna: essere la sposa e assieme la madre dell'uomo amato. […]
Questa immagine di donna viva che ho dovuto indossare prima di venire qui, ora, prima di andarmene, me la toglierò di dosso e la lascerò al suo solito posto. Come richiudere dietro a me il
muro che ho abbattuto per entrare. Tra noi e loro ogni comunicazione sarà rotta. […] Eccomi
pronta! E tu? ... Ti parrà di aver traversato una gola. Lunghissima e stretta. Buia e irta di
macigni. E finalmente uscire sul mare. Su un mare libero, infinito ... Paul! Questa libertà,
questo infinito sono io che te li do. Vedrai quando ci lasceremo alle spalle la gola buia e stretta,
la gola irta di macigni, tutto l'assurdo che i vivi accumulano, roccia su roccia, assurdo
su assurdo ... […] Ti parrà di aver attraversato un corridoio. Un corridoio molto lungo e molto stretto. Un corridoio tanto lungo e tanto stretto, quanto lunga e quanto stretta è stata la tua
vita. Un corridoio buio. Un corridoio sotterraneo. […] Un corridoio pieno di armadi, di casse,
di scatole. Tanti armadi, tante casse, tante scatole. Pesanti. Inamovibili. […] Armadi, casse,
scatole piene di roba. Che roba? Non si sa. Nessuno lo sa. E ti tocca arrampicarti, scavalcare,
andar carponi, passar sotto, passar di lato tirandoti dentro la pancia; e spingere, sollevare, e
andare, andare, andare; affannato, disperato; e il corpo pesa e duole; e l'anima pesa e duole; e
sempre sudore, saliva e pianto giù, dalla faccia; e la paura, la paura, la paura; e volere, volere, volere; non riuscire mai a « non volere »; e questo corridoio che non parla, ma
tu senti lo stesso che dice « no no no ». E sempre armadi, sempre casse, sempre scatole. Piene di
tutto l'assurdo, di tutta l'angoscia che gli uomini, questi mangiatori d'assurdo, questi divoratori
d'angoscia, hanno accumulato per secoli e secoli e secoli; […] Vedrai, quando davanti a noi si
aprirà ... Che cosa? ... Non so. Parliamo ancora una lingua che ormai non serve. Dobbiamo
dimenticare prima di tutto i significati. I significati passati. Gli ultimi significati. Capovolgerli
non basta. Dimenticarli. Cancellarceli da dosso. Che posso dirti? Nulla? ... No. Tutto? ...
Nemmeno. E allora? ... Dimentica, Paul, e sii pronto ... Ti farò da madrina. Ti presenterò al
nostro direttore. Ti raccomanderò. Lo pregherò di favorirci. Di aiutarci a far presto ... Sai? Io,
laggiù, ti ho aspettato. Quale più grande prova d'amore? Non sono morta per aspettarti. Anche se la vostra volontà di riavermi quassù non avesse fermato laggiù il compimento della mia
morte, io egualmente mi sarei trattenuta di morire – per aspettare te ... Ora è passata. Risolveremo presto. Che ci trattiene più? […] Entreremo nella suprema felicità. Pensa!
Non individui più: sciolti nel nulla – nel tutto ... Una parola ancora. L'ultima. In
questa lingua che stiamo per abbandonare. Ascolta. Nascere è un atto individuale: morire è un
atto universale. Il « nostro » atto universale. Il solo nostro atto universale. Questo il grande segreto della morte. Questo il suo immenso bene ... Vieni, Paul. […] Sposa tua e madre, apro a
te l'universo (pp. 183-189).
Ci chiedevamo prima se la somiglianza della situazione vissuta implicasse ipso
facto la corrispondenza piena tra i tratti costitutivi della nuova eroina e quelli del
16
Alcesti nel Novecento letterario italiano
suo archetipo. Bisognerà rispondere di no43. Millenni di storia, l’esperienza di
quella recente – dei due grandi conflitti, delle delusioni a essi conseguenti, delle
atrocità e del dolore generale – hanno evidentemente lasciato il segno. E lunga
sull’orizzonte di questo mondo si proietta l’ombra del nulla, della mancanza di
senso, dell’assurdità del vivere. L’Alcesti del Novecento è deformata nella sua fisionomia dalle conseguenze di una storia che il pensiero stenta a comprendere
come razionale o teleologicamente orientata. Alcesti di Samuele è emblema del
destino di un popolo ingiustamente e irragionevolmente sospinto nell’annichilimento. È forse allegoria di una Europa soggiogata dal totalitarismo e bisognosa dello spirito americano per riscattarsi dalla morte44. È, soprattutto, per chi
sappia prescindere dalla contingenza storica, rivelatrice di una verità più radicale e
universale. La morte ha confermato a Teresa una terribile verità già intravvista nel
trascorrere della vita. Ha squarciato definitivamente per lei una cortina oltre la
quale aveva da tempo iniziato a guardare, quel velo che, secondo certa filosofia,
ricopre di illusioni l’unica indiscutibile verità del mondo: il suo essere cieca, irrazionale volontà, incapace d’appagamento e svincolata da qualsiasi morale. Le parole evidenziate sopra nel testo dichiarano esplicitamente l’ascendenza schopenhaueriana di questa visione, fatta propria nelle premesse come nelle conclusioni.
Come appaiono false, assurde, alla nuova Alcesti, le aspirazioni degli uomini!
Il suo stesso suicidio è stato in fondo un errore: tanto più imperdonabile, quanto
più ha finito per riaffermare un bene – quello della vita – che dalla prospettiva di
quanti “non sono nulla” 45 si rivela affatto inconsistente, nonostante tutta la fatica, la paura, l’angoscia che i vivi finiscono per accumularvi, ostacoli e ostacoli su
un percorso fatto di assurdo. Ma Teresa è morta per liberare Paul dalle trappole
di questa vita, non solo da quella del totalitarismo; ha scelto di non essere, per affrettare per lui il disvelamento della verità e dare all’amato la libertà, quella che
consiste nell’annullamento della volontà, nello scioglimento nel nulla. Teresa non
è l’ἀρίστη, la cui φιλία viene ricompensata col ritorno allo sposo nel mondo dei
vivi. Ella è una Alcesti alla rovescia, che non rimpiange la vita bella sotto la luce
del sole. Maestra di un’opposta comprensione del mondo, sacerdotessa della Noluntas, vuole lo sposo con sé nella felicità di un Nirvana, si fa guida dell’amato –
sorta di antiBeatrice – nella dimensione in cui l’individuo e la sua volontà non sono
più46. Il suo amore per lo sposo non è inferiore a quello dell’antica eroina. Questa
però sceglieva di non essere per donare la vita all’amato, ella, invece, sceglie di
non essere per indicare all’amato nell’annullamento totale la suprema felicità ed
entrarvi con lui.
43 «Alcesti non è più Alcesti. […] Meglio se rimaneva dove stava», proclama il personaggio
dell’Autore (SAVINIO 2007, p. 167).
44
CASCETTA 1995, p. 1418 s.
« ἐν τοῖς οὐκέτ’ οὖσι λέξοµαι » (v. 322), « oὐδέν ἐσθ’ ὁ κατθανών » (v. 381): così si riferisce ai morti
l’Alcesti di Euripide.
45
46
Cf. CASCETTA 1995, p. 1424.
17
Roberto Vianello
«La civiltà è un gioco, una distrazione, il modo più efficace che noi abbiamo
di allontanare dalla nostra mente il pensiero della morte», ha scritto qualche tempo prima Savinio, riprendendo forse un Leopardi divenuto straordinariamente attuale e riscoperto da due decenni dagli amici de “La Ronda” 47. Ma il pensiero della morte non può più turbare chi della morte non ha più paura, ma ha riconosciuto anzi in essa l’unica verità, che non chiede più di essere esorcizzata dal gioco distraente di una coscienza altrimenti disperata. L’Alcesti del Novecento è l’eroina
della negazione di ciò che l’ amor sui del vivente ha creato.
L’Alcesti di Raboni
Passiamo a Raboni, una delle individualità artistiche più interessanti di fine
Novecento, spentasi il 16 settembre 2004. Poeta, saggista, traduttore, critico letterario e critico teatrale del “Corriere della sera”. I più attenti tra i presenti ricorderanno probabilmente le sue apparizioni televisive48. Mondadori ha raccolto in un
Meridiano uscito nel 2006 la sua “opera poetica”, riunendovi, con scritti critici
sulla poesia e traduzioni poetiche, i versi in proprio, tra i quali anche il testo di cui
ci occupiamo oggi49.
Nato a Milano nel ’32, Raboni è stato ascritto alla cosiddetta linea lombarda
della poesia del secolo scorso50. Una scelta delle sue liriche è stata significativa-
In Dico a te, Clio, del 1940, ora in SAVINIO 1992, p. 88. L’affermazione ricorda da vicino (con
una coincidenza lessicale) il noto pensiero leopardiano sull’incapacità della ragione di darci la felicità: «…chi si fissasse nella considerazione e nel sentimento continuo del nulla verissimo e certissimo delle cose […] sarebbe pazzo assolutamente e per ciò solo, giacché volendosi governare secondo questo incontrastabile principio ognuno vede quali sarebbero le sue operazioni. E pure è
certissimo che tutto quel che facciamo lo facciamo in forza di una distrazione e di una dimenticanza, la quale è contraria direttamente alla ragione. E tuttavia quella sarebbe una verissima pazzia,
ma la pazzia più ragionevole della terra, anzi la sola cosa ragionevole, e la sola intera e continua saviezza, dove le altre non sono se non per intervalli» (Zib. 103-104). Si veda sul tema RIGONI 1985,
111 ss. Per l’affinità di pensiero tra Leopardi e Schopenhauer basti ricordare il citatissimo desanctisiano Dialogo tra A. e D., oggi in DE SANCTIS 1995, (rintracciabile anche all’indirizzo Internet
www.liberliber.it). Per la “riscoperta” del Leopardi da parte degli intellettuali de “La Ronda” e di
Vincenzo Cardarelli cf. CARDARELLI 1981, passim (in particolare pp. 721 ss.) e CARDARELLI 1985.
47
Ne segnaliamo una a “Mixer cultura” su RaiTre (15 febbraio 1988) con Carmelo Bene, visualizzabile all’indirizzo Internet www.youtube.com/watch?v=HNFD_Ha58-s . In RAI Raboni collaborò alla redazione della rubrica televisiva Tuttilibri di Giulio Nascimbeni e condusse una rubrica
radiofonica di letteratura e arti (cf. RABONI 2006, p. XCVII).
48
RABONI 2006, pp. 1255 ss. Il volume, a cura di Rodolfo Zucco, offre una Introduzione e una Cronologia utili per inquadrare scelte di poetica e rete relazionale dell’Autore. Per una prima informazione su Raboni (con la possibilità di ascoltarne la voce) si visiti il sito web ufficiale disponibile dal
2007, all’indirizzo www.giovanniraboni.it .
49
50 La formula risale all’omonima antologia uscita nel ’52 per cura di Luciano Anceschi. Criticamente generica, si è consolidata nel tempo, includendovi nomi di autori lombardi per nascita o
adozione di generazione più recente, per identificare una poesia di attenzione alle cose e portatrice
di una vocazione morale. Cf. RABONI 1987, pp. 215-216.
18
Alcesti nel Novecento letterario italiano
mente ospitata nel volume Poeti italiani del Novecento di Pier Vincenzo Mengaldo,
convinto sostenitore del suo valore poetico51. «Poeta di città», lo ha definito Zanzotto, «anzi di una città, Milano, profondamente amata anche se ritratta nei suoi
momenti di squallore, fin entro la cronaca nera». Ma anche «naturaliter poeta civile», portatore di un’ «etica della responsabilità e del civismo»52, lombardo appunto –
diremmo – per quel tanto di istanza etica in poesia che il termine può implicare,
sulla scia di Parini, Manzoni, Rebora. Per Raboni la poesia è «valore che non si
esaurisce in se stesso, che non esclude l’importanza dell’altro, della realtà, di tutto
ciò che la realtà contiene e propone»53. «I temi dell’ingiustizia, della persecuzione,
del processo iniquo, dell’innocenza ingiustamente perseguitata e punita;
l’immagine, esplicita o implicita, della città come teatro della peste, come contenitore di ogni possibile contagio fisico e morale»54 sono i temi di confessata ascendenza manzoniana che attraversano l’intera sua poesia, dai Gesta Romanorum, raccolta d’esordio55, fino agli Ultimi versi, pubblicati postumi, passando per le molte
raccolte date alla luce56. «Rimpiazzare il fantasma della poesia con la poesia in
carne ossa»57, invece, il suo programma poetico, alla ricerca di «qualcosa di possibile: cioè una poesia impura e, al limite, impoetica, infinitamente inclusiva, capace di
compromettersi con la realtà»58. Una poesia in progressivo abbandono dell’influenza dei contemporanei “canonici” e attratta dai Sereni, Betocchi, Luzi – amati fin dagli ultimi mesi di guerra, quando, sfollato da Milano per i bombardamenti
del ’42, ne trovava le raccolte iniziali in una libreria di Varese – e provocata dagli
esempi stranieri di un Eliot e di un Pound.
Le esigenze odierne ci impediscono di aggiungere molto altro all’esile abbozzo sin qui condotto. Come ci impediscono di gettare lo sguardo su una biografia
Cf. MENGALDO 1978. Mengaldo, introducendo MAGRO 2008, scrive: «Per me non c’è dubbio
che Giovanni Raboni, assieme al grande dialettale Raffaello Baldini, è stato il poeta di più alto
rango in Italia nei decenni più recenti» (p. 7). L’introduzione è apparsa sul “Corriere della sera” l’8
Luglio 2008. Su Raboni critico si veda anche MENGALDO 1998.
51
52
A. ZANZOTTO, Per Giovanni Raboni, in RABONI 2006, pp. XI ss., p. XI.
Così RABONI 1992. Ora in RABONI 2006, p. XCIII. Sui termini di accettazione da parte di R.
dell’appartenenza alla linea lombarda cf. ibidem, pp. CXXXIII-CXXXIV.
53
Così l’autore in Raboni Manzoni, Roma, Il Ventaglio, 1985, pp. 19-20. Ora in RABONI 2006, p.
1422.
54
55 Raccolta
di versi con cui R. partecipò nel 1953 al premio di poesia “Incontri della Gioventù”, risultandone vincitore. La raccolta non fu mai pubblicata e alcuni dei testi che la componevano apparvero su rivista, in appendice a Le case della Vetra, nella plaquette fuori commercio dal titolo omonimo apparsa nel 1967. La si veda ora in RABONI 2006.
Nell’ordine Il catalogo è questo (1961), L’insalubrità dell’aria (1963), Le case della Vetra (1966), Economia della paura (1970), Cadenza d’inganno (1975), Il più freddo anno di grazia (1978), Nel grave sogno
(1982), Canzonette mortali (1986), A tanto caro sangue (1988), Versi guerrieri e amorosi (1990), Ogni terzo
pensiero (1993), Nel libro della mente (1997), Quare tristis (1998), Barlumi di storia (2002). Si aggiungano
alle raccolte citate i due volumi di Tutte le poesie editi da Garzanti nel 1997 e nel 2000.
56
57 Parole
58
di Raboni riportate da CORTELLESSA 2005, p. 385.
Così Raboni nell’introduzione a Poesia degli anni Sessanta, in RABONI 2006, p. 209.
19
Roberto Vianello
che meglio aiuterebbe la conoscenza dell’artista. Ci imbatteremmo in una galleria
di figure e istituzioni tra le più note in ambito culturale, con le quali il Nostro avviò frequentazioni e collaborazioni. I nomi di alcune, allineati di seguito, determineranno, forse, tra i presenti una suggestione sostitutiva di quanto non abbiamo il
tempo di dire59. Ascoltiamoli: il filosofo Enzo Paci, i poeti Carlo Betocchi e Bartolo Cattafi, il “suo” Vittorio Sereni, e poi Franco Fortini, ElioVittorini, Dino
Buzzati, Sergio Solmi, Oreste Del Buono. E ancora Patrizia Valduga, l’ultima
compagna, e Renato Guttuso, Vanni Scheiwiller e Livio Garzanti. “aut aut”,
“Quaderni piacentini”, “Questo e altro”, “il verri”, “La città”, “Paragone”, “Nuovi argomenti” i nomi delle riviste con cui collaborò; Garzanti, Mondadori, Guanda le editrici maggiori con cui ebbe rapporti o lavorò. Chiudendo, ricorderemo,
tra le moltissime, le sue traduzioni delle Fleur di Baudelaire e dell’intera Recherche di
Proust, ma anche – particolarmente significativa per noi – quella dell’Antigone di
Sofocle, che appare, sotto ogni rispetto, snodo di capitale importanza tra l’opera
raboniana “di sempre” e l’Alcesti, oggetto delle nostre cure60. Questa traduzione in
versi ci restituisce un Raboni che, restando all’interno dei temi civili a lui più congeniali, si misura contemporaneamente – ed euforicamente – con le possibilità di
«tradurre il sentimento» in un linguaggio moderno, ma anche con la capacità di un
classico di farsi veicolo esemplare di temi universali61. Operazioni con le quali lo
vedremo alle prese nella realizzazione dell’Alcesti della quale è finalmente tempo
di parlare.
Alcesti o La recita dell’esilio vede la luce negli Elefanti Garzanti nel settembre
2002. Il dramma è stato richiesto e pensato per il Teatro Olimpico di Vicenza, ma
è destinato a non esservi rappresentato e Raboni, che ne ha scritto le ultime scene
a Yale nell’aprile dell’anno precedente, in occasione del suo primo viaggio negli
Sati Uniti, dovrà aspettare altri due anni prima di vederlo in scena. La prima avrà
luogo il 7 gennaio 2004 presso il Teatro “Santa Chiara” di Brescia, ad opera del
Centro Teatrale Bresciano, per la regia di Cesare Lievi e l’interpretazione di Ester
Galazzi, Roberto Trifirò, Gianfranco Varetto, Francesco Vitale. In concomitanza
59
Cf. la Cronologia citata alla nota 49 e consultabile sul sito ufficiale.
La traduzione per la Compagnia del Teatro Carcano, diretta da Giulio Bosetti, andò in scena
prima, dall’8 al 18 giugno 2000, al Teatro Greco di Siracusa, poi, il 27 settembre dello stesso anno,
al Teatro Olimpico di Vicenza. Di recente Bosetti l’ha riportata in scena con un nuovo allestimento, di cui ha curato personalmente la regia. Una scheda del nuovo spettacolo e un’intervista
all’attore-regista all’indirizzo Internet http://www.teatroteatro.it.
60
61 Si veda a questo proposito RABONI 2000, p. 14, ora in RABONI 2006, pp.1742 s., dove si leggono
le seguenti, significative, parole: «Antigone, con il suo bisogno di dare sepoltura al corpo del fratello Polinice morto in battaglia, crede di obbedire agli dei; Creonte, con la sua volontà di impedirglielo perché Polinice è morto combattendo contro la sua stessa patria ed è dunque, di fronte
agli uomini, un traditore, è convinto di obbedire alle esigenze della convivenza civile, dell’ordine,
del buongoverno. Chi ha ragione fra i due? Il dibattito è aperto da 2500 anni e riguarda davvero
[…] tutto e tutti in qualsiasi tempo e in qualsiasi luogo: la storia di ogni comunità retta da un patto
sociale, con il suo conflitto forse insanabile fra le ragioni del “progresso” e le ragioni della giustizia, e la vita di ciascuno di noi, con il suo conflitto certamente insanabile fra le ragioni della mente
e le ragioni del cuore».
20
Alcesti nel Novecento letterario italiano
con l’iniziativa teatrale, si tiene in Brescia un ciclo di Seminari promosso dalla sezione locale dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, dal titolo “Sacrifici al femminile. Alcesti in scena da Euripide a Raboni” e propedeutico, per così dire, alla
rappresentazione già programmata62. Al ciclo di seminari Raboni interviene il 12
dicembre 2003, parlando di “Alcesti” e i disastri del Novecento63 e fornendo egli stesso
– diremmo – le ragioni della nostra scelta odierna di parlarne64.
Che Alcesti possa sollecitare la creatività di chi, richiesto di pensare a un testo
d’argomento classico, sembra non volere prescindere da un giudizio sulla storia
più recente, ci pare particolarmente interessante e ci induce a appaiare in certo
modo la riflessione di fine secolo, che la ritrova protagonista, alla riflessione saviniana sopra indagata di metà Novecento. Perché delle «lacerazioni» della storia
più recente ci parla, appunto, la breve vicenda dei «tre personaggi in fuga sullo
sfondo di una persecuzione storica», che Raboni si impegna a non farci individuare, ma appartiene tutta al «secolo terribile che ci siamo appena lasciati alle spalle».
Ancora più interessante – più da fine millennio, diremmo – il fatto che le lacerazioni siano accompagnate dalle «intermittenze del cuore», che alberghino e producano esse stesse nuove umane lacerazioni nei tre personaggi che, sperando di
fuggire dalla follia in cui sta accadendo loro di vivere, trovano ricovero provvisorio, di notte, in un teatro. Il frastuono delle sirene di un inseguimento notturno
accompagna l’ingresso in scena di due uomini e una donna, come potrete ascoltare in questa prima sequenza video65.
*
*
*
La donna in questione è Sara, attrice costretta dall’oppressione del regime a
non calcare più le scene. L’accompagnano Stefano, il marito, e il suocero Simone,
cui la donna è legata da affetto profondo, per l’affinità intellettuale e di sensibilità
che manca invece al suo rapporto con Stefano, uomo “d’azione” assai diverso dal
62 Coordinati dalle docenti Maria Pia Pattoni e Roberta Carpani, i seminari hanno visto la partecipazione di eminenti studiosi, i cui interventi sono raccolti in PATTONI-CARPANI 2004. La prof.ssa
Pattoni ci ha cortesemente messo in contatto con l’Addetto Stampa del CTB, Bianca Simoni, che
ha messo a nostra disposizione il video del dramma, di cui sono state proiettate alcune sequenze
nel corso della conferenza.
Per la trascrizione v. RABONI 2004 e ora RABONI 2006, pp. 1776 ss. Da essa vengono le espressioni virgolettate al capoverso successivo.
63
64 Ivi comprese le ragioni della scelta del verso, certo il mezzo espressivo artistico più congeniale
al poeta Raboni, ma anche quello da lui ritenuto più necessario al teatro contemporaneo, «perché la
presenza del verso, del ritmo, della scansione metrica dà veramente la possibilità di usare il linguaggio di tutti i giorni senza mimetismo, cioè con quel distacco, con quella rifrazione, con quella
torsione senza la quale non si fa teatro e non si fa arte» (RABONI 2004, p. 441. Ora in RABONI
2006, p. 1777.
65 La sequenza cui si fa riferimento corrisponde ai primi diciotto versi del dramma. Una seconda
sequenza video, della durata di tredici minuti, è stata proposta, durante la conferenza, al termine
della presentazione del dramma. Pur mantenendo la veste discorsiva di allora, abbiamo qui intrecciato all’argomentazione i versi di Raboni che il pubblico ha ascoltato solo al suo termine.
21
Roberto Vianello
padre. Usciti dalla nebbia di fuori per entrare nel temporaneo rifugio, possono
sperare di sentirsi tranquilli per un po’, attendendo di venire raccolti e clandestinamente portati verso la libertà. Eppure Stefano, il marito, manifesta un disagio
che appare qualcosa di più di una comprensibile, connaturata diffidenza, quando
si chiede, fin dalla sua prima battuta, se siano finiti in un rifugio o in una trappola.
«Siamo in un teatro»66, proclama Sara, rassicurante. Questa disarmante confidenza
nelle possibilità salvifiche di quel luogo la connota fin dalle prime parole come
personaggio idealista, al limite di una ingenuità irragionevole e non condivisibile,
che i compagni le rinfacceranno lungo tutta la durata della pièce. È certo paradossale la situazione di questi personaggi, chiamati ad affidare la fuga dai disastri della
realtà proprio al luogo per eccellenza deputato alla finzione. Quel che si direbbe,
però, fortuito accadimento, sembra poco a poco rafforzarsi fino a farsi certezza
in lei attrice, che, girovagando qua e là, scopre d’aver già recitato su quel palcoscenico, tanto tempo prima, nel ruolo di ancella in un antico dramma greco che
non ricorda più: Alcesti. I sospetti di Stefano, d’altra parte, sono ben giustificati.
La realtà sta per irrompere brutalmente tra le speranze. E mentre Sara vagabonda
ignara per il teatro, alla ricerca delle proprie memorie – alla ricerca di sé –, Stefano informa il vecchio Simone che qualcosa è andato storto. Gli accordi sono saltati o non sono stati compresi. Il custode notturno che li ha condotti lì – figura
sinistra, temibile nella sua reticente ambiguità, nei sottintesi dei suoi silenzi – gli
ha fatto sapere che ci sono solo due posti per loro: soltanto due potranno sottrarsi al «rischio mortale che incombe sulle loro teste» (p. 1262). Quel teatro rischia di
essere davvero una trappola. Si profila per loro una scelta «fra vivere e morire» (p.
1265). Si tratta di individuare chi, di tre che si amano, destinare al sacrificio, ultima inattesa vittima del potere violento che si sono illusi di fuggire. Poiché Stefano
non può pensare che la scelta ricada su Sara, la partita andrà giocata tra padre e
figlio. Ed ecco riemergere vecchie incomprensioni, conflitti e tensioni modernamente riconoscibili, sinistri sospetti. Ecco riattuarsi uno scontro, non nuovo ai
lettori di Euripide, tra un figlio a rischio di morte e un padre che tiene «forsennatamente a quel po’ d’albe e tramonti» (p. 1291) che gli restano. Ecco marcarsi tra i
tre incomunicabilità e gelosie, acuite, se possibile, dalla straniante condotta di Sara, che, nella lotta inesorabile per la sopravvivenza già avviatasi tra i due, conduce
invece con le memorie la ricostruzione di sé, della sua identità di attrice, cercando
nel vecchio una complicità che, è chiaro, non attende dallo sposo. Proprio per
questa via anche Sara entra, senza avvedersene, nel vero dramma a cui la situazione, la contesa daranno lenta progressiva consistenza: la recita delle loro vite, quali
sono realmente, proprio in un luogo di suprema finzione qual è il teatro; la messa
in scena di quel che sono davvero nell’imminenza dell’esilio, nascosti in quel teatro. A questo «gioco della verità» Sara partecipa confessando con naturalezza
d’amarli entrambi. «Ma com’è possibile, amore mio, / che tu scopra proprio qui,
proprio ora, / qualcosa che è vero da sempre, / che è il senso stesso della nostra
66 RABONI 2006, p. 1258. A questa edizione faranno riferimento le successive indicazioni di pagina tra parentesi.
22
Alcesti nel Novecento letterario italiano
vita, / e cioè che io vi amo uno nell’altro, / uno a causa dell’altro, qualche volta /
uno per rimpianto dell’altro, / indissolubilmente, / inestricabilmente…»(p. 1277).
Sara partecipa completamente al vero dramma, con tutta se stessa, con quanto della sua storia, della sua arte l’ha fatta quel che è. Con quanto ha appreso dalla
recita di Alcesti, dal sacrificio della «sua regina» (p. 1280), che ha accettato di morire per lo sposo, dalle battute stesse pronunciate vent’anni prima, tra cui vuol ricordarne una: «Soltanto / quando l’avrà perduta / saprà veramente cos’ha perduto…» (p. 1279). Una anticipazione – una profezia? – di quanto accadrà tra breve,
o forse, meglio, una esplicitazione del suo modo di intendere, del suo modo di essere. Di lì a poco, finalmente informata da Simone dell’imminente, si opporrà fieramente alla possibilità che si debba scegliere tra loro. Mentre infurierà, a colpi di
sospetti e di sarcasmi, la lotta tra Simone e Stefano, incapaci di morire per gli altri,
negherà solennemente di voler accettare che si finisca « uno dei tre a incarnare /
con amarezza, forse con rancore/ la parte della vittima, / gli altri due a convivere
con l’orrore / d’averglielo permesso o suggerito / o addirittura imposto…» (p.
1292).
È vero, bisogna decidere.
O forse, chissà, non decidere,
non decidere niente,
decidere di non decidere…
Ascoltatemi, vi prego. È da giorni
che io ascolto voi, che cerco
di abitare nei vostri cuori,
che mi sforzo di pensare i pensieri
di ciascuno di voi
nell’orrenda disputa che vi oppone…(p. 1294)
In realtà stanno lì da appena due ore.
[…]
eppure, se ci penso,
continua a sembrarmi un’eternità:
un’eternità di stupore,
di sgomento, di pena ad ascoltarvi
che vi torturate a vicenda, l’uno
con l’aiuto dell’altro,
sempre più a fondo, sempre più
mortalmente nel vivo, a colpi
d’orgoglio e d’ironia.
[…]
Niente e nessuno, lo sapete,
mi è più caro di voi,
e questo è vero sin dal giorno
in cui m’avete presa uno per moglie,
l’altro per figlia – e forse
è più vero, più vero ancora
da quando un odio indecifrabile
trasformatosi in legge dello Stato
23
Roberto Vianello
m’impedisce di fare
la sola cosa che amo quasi
quanto amo voi due: recitare.
[…]
[…] è venuto il momento
di dirvela tutta d’un fiato,
senza giri di frase,
senza neanche tentare di convincervi,
la certezza che mi pesa sul cuore
e insieme lo fa più leggero:
se partire tutti è impossibile
(e so bene, so bene che è impossibile!)
non c’è che una cosa da fare:
restare tutti qui (pp. 1295 ss.).
La salvezza dal teatro. Speranza vana? Sara sa che in un teatro ci sono passaggi impensabili, spazi ignorati o creduti impraticabili, porte nascoste… Non le pare
irrealistico sperare di celarsi di giorno in quell’ambiente labirintico e restarvi tutti
insieme, uscendo solo la notte, a turno e con cautela, per procurarsi di che sopravvivere67. Sente soprattutto di doverlo volere, per opporsi a una necessità che rifiuta con tutta se stessa, proprio per restare se stessa. Rimanere là significa rifiutarsi di cedere al male, respingere il gioco di chi vuol togliere loro l’anima. Come
sarebbe possibile definire salvezza il rinunciare ad essere quelli che sono, «amputarsi degli affetti più cari, / tradire tutte le parole date» (p. 1294)?
Il realismo di Stefano e Simone non sa accettare questo punto di vista. Perfino l’accondiscendente suocero finisce per accusare la donna d’avere letto da giovane troppi romanzi d’appendice, di non comprendere, insomma, che la sua è
posizione illusoria, idealistica, mentre invece c’è di mezzo la vita. Per i due uomini
decidere si deve, deve venire individuata la vittima. Simone allora escogita un
modo per evitare di scegliere tra le ragioni dell’uno e dell’altro, tra la prospettiva
di vita più lunga del giovane e l’attaccamento del vecchio al tempo che gli resta da
vivere. L’uso «un po’ ludico e un po’ statistico» (p. 1301) di una vecchia pistola
carica sorteggerà, in una specie di roulette russa, il sacrificando. La canna non
verrà puntata alla tempia: si sparerà a qualche oggetto. Il risultato sarà garantito in
modo incruento – ma sarà garantito – da un arnese appartenente alla storia della
famiglia, intascato, chissà quanto consapevolmente, quale ultima difesa contro
l’imprevisto e divenuto, all’attuarsi dell’imprevisto, autolesionistico mezzo di risoluzione di un dilemma insolubile, arma puntata contro l’unità affettiva della famiglia, strumento con cui la sorte deciderà incolpevolmente il prescelto a «lasciare»
con la donna «l’inferno per il limbo» (p. 1305).
67 La situazione può ricordare, in certo modo, quella realmente vissuta dalla famiglia Frank prima
della deportazione a Berger Belsen e, soprattutto, quella che ispirò a Truffaut il famoso L’ultimo
metrò (1980), in cui in una Parigi occupata dai nazisti un direttore teatrale ebreo riesce a sottrarsi al
peggio, nascondendosi nei sotterranei del suo teatro.
24
Alcesti nel Novecento letterario italiano
Sara comprende oramai come un muro si opponga tra le sue parole e il cuore
dei due. E se ne va, per non fare più ritorno, senza che essi intuiscano la sua vera
determinazione. «No, non più, / non queste cose. Scusami. Scusatemi» (p. 1303),
sono le sue ultime parole.
Dopo un ultimo contrasto col padre, Stefano va infine alla ricerca di un oggetto da trasformare in bersaglio, per esercitarvi il gioco della sorte, illudendosi
nel contempo di poter trovare la donna. Ma il Custode, apparso d’improvviso, gli
rivela come sia vana ogni ricerca di lei, dato che l’ha appena vista uscire, o meglio
«entrare / in quella gran nebbia che c’è là fuori / e che lei stessa […] ha paragonato all’Ade» (p. 1307). È il momento in cui tale personaggio rivela il massimo
della sua ambiguità – meglio sarebbe dire della sua impenetrabilità – con
l’apparire aguzzino cinico, incapace di pietà, e col suo contemporaneo proclamarsi mero esecutore di ordini che «non sono mai […] / degli ordini inumani» (p.
1306). Lo spedizioniere – come lo hanno definito i nostri personaggi, scopertisi
fardelli in attesa di spedizione in preda al potere incoercibile delle circostanze –,
l’uomo che appare e scompare «come la figura della morte / in certi campanili
gotici» (p. 1284), pare sapere molto più di quel che svela. È tornato a comandare
l’abbandono del teatro, ma le sue allusioni reticenti, le mezze verità suggerite, ne
svelano il vero ruolo. Egli non è, appena, l’intermediario per l’attuazione del piano concordato. Vero deus ex machina, è piuttosto l’agente chiamato a fare lucidamente precipitare l’azione scenica verso la sua conclusione: la conoscenza vera di
un sé decisamente impresentabile, che situazioni disperate, stati di necessità, accade sappiano lasciare emergere. Ai due antieroi, che protestano di non poter partire senza Sara, che, mentendo a se stessi, pretendono di dover far qualcosa per lei,
nella concitazione dell’obbligata partenza, glacialmente il Custode risponde:
Fare cosa?
Non c’è proprio niente da fare,
ci sarebbe, semmai,
qualcosa da capire. Ma più tardi,
adesso non ne avete il tempo:
ricordatevi che dovete partire (p. 1308).
Stefano adesso – cominciando a comprendere? – vorrebbe restar lì per provare a
cercarla. Vano tentativo di acquietare la coscienza? Egli, in realtà, si lascia presto
vilmente travolgere, come il padre, dalla necessità della congiuntura e dalla cruda,
imbarazzante verità che finalmente emerge dalle agghiaccianti battute del dramma
che s’avvia alla conclusione:
STEFANO
Ma qui possiamo cercarla.
CUSTODE
E in che modo?
andandovi a ficcare tra le grinfie
di chi vi dà la caccia?
Credete a me, non avete altra scelta:
25
Roberto Vianello
salite su quel camion.
Oltretutto, se ci pensate,
è quello che tutti e due volevate
con ogni vostra forza
dalla più palese alla più segreta
e che anche lei, evidentemente,
ha voluto per voi.
STEFANO
Ma…
SIMONE
Quell’uomo, chiunque sia, ha ragione.
Diamogli retta, figlio.
Io sono vecchio, tu sei giovane,
ma entrambi, credo, siamo adulti
e letterati quanto basta
per mutare, con l’aiuto del tempo,
in una specie di dolcezza
anche la più atroce delle vergogne.
Su vieni.
STEFANO
Non potrò mai perdonartelo.
SIMONE
Né io a te. Ma ciascuno di noi due,
vedrai, troverà il modo
di perdonarlo almeno un po’ a se stesso (pp. 1309 s.).
La personale convenienza prevale, alla fine, su ogni buona intenzione. L’alibi
dell’impossibilità d’alcunché oscura a pena il significato di disattenzioni, indisponibilità, sordità, cui lo spettatore ha assistito sino a poco prima. La mancata sintonia tra i parenti della nostra recita non trova più spiegazione nella mera differenza del carattere o nella gelosia. Altra è l’inconfessata verità: quella di scelte dettate
dall’istinto puro di conservazione, al quale ogni legame affettivo è risultato sacrificato; forse dettate persino da una inconscia volontà di liquidare conti da troppo
sospesi.
Il custode, prima di lasciarli, comunica che una «compagna di viaggio» partirà
insieme a loro. Nessuno sa chi sia. «Dicono che sia una regina», ma non si sa di
che paese «e nemmeno / se la parola sia da intendere / in senso proprio oppure
figurato» (p. 1312). Con lei e di lei nessuno dovrà nemmeno parlare: gli ordini, misteriosi, sono tassativi, pena il rischio dell’incolumità. I due dovranno limitarsi a
seguirla a qualche passo di distanza, senza azzardare nemmeno con se stessi congetture sul suo conto, che potrebbero risultare addirittura «insopportabili» (ivi).
Una donna velata compare sul fondo della scena. È Sara, riconoscibile al pubblico, ma «misteriosamente mutata» (p. 1311). Forse la sua presenza porterà a compimento la recita delle «lacerazioni della storia» e delle «intermittenze del cuore»
26
Alcesti nel Novecento letterario italiano
cui l’Autore voleva dar vita, e indurrà i nostri antieroi a capire. Forse. È dunque
per salvar lei che uno di loro tre ha dovuto sacrificarsi? – chiede Stefano. «Strana
domanda», commenta il Custode. «Improponibile» e «ridicola»,
– quasi
come voler cercare
qualcuno nella nebbia se la nebbia
è così maledettamente simile
agli opachi labirinti dell’Ade.
Ma che senso ha che io cerchi di convincerti
di quello di cui solo tu
quando e se mai te ne verrà il coraggio
potrai convincere te stesso? (p. 1313)
Il Custode denuncia in quella domanda l’ultimo tentativo di addossare ad altri
una responsabilità propria. Alibi velleitario, quanto l’irrealistica voglia, presto acquietata, di cercare Sara nella nebbia. Solo il coraggio di guardarsi dentro davvero
permetterà di trovare la verità. La verità di viltà ed eroismo che ha preso vita nel
luogo della finzione, il Teatro, dove s’è combattuta la lotta tra l’indole belluina,
ridestata in due personaggi dalle urgenze delle disgrazie, e le esigenze – del cuore
e della ragione insieme – della loro donna. Durante l’accadimento che è la recita
cui abbiamo assistito, i nostri eroi hanno mostrato e forse capito – o cominciato a
capire – di più se stessi, mentre l’ancella d’un tempo s’è potuta trasformare in regina. È stato per il suo gesto? È stato, come altri propone, per la sua volontà di
restare lì, nel Teatro, preferendo «la verità dell’apparire alla menzogna della realtà»68 ? L’Alcesti di Raboni non racconta di un ritorno dall’aldilà. Racconta piuttosto di una fuga dall’inferno nelle coscienze, o – se si vuole, e solo per i due uomini – di un ingresso in un loro purgatorio, al seguito di una donna «immagine del
loro amore e della loro vergogna»69.
Un fraintendimento novecentesco?
Il tempo oramai esaurito ci costringe a concludere. Resterebbe da porre una
domanda che a nostro giudizio merita di non essere elusa, soprattutto alla luce di
recenti sviluppi dell’indagine critica. Il Novecento ha davvero inteso correttamente il rapporto tra l’Alcesti e l’Admeto consegnati da Euripide agli Ateniesi del 438
a.C. e al pubblico di ogni epoca? Savinio ci ha consegnato un Paul-Admeto innocente quanto alla decisione della sposa, ma non del tutto riabilitato quanto alle ragioni che quel gesto hanno determinato, almeno per la parte che può avervi avuto
68
LIEVI 2004, p. 447.
69
RABONI 2004, p. 445. Ora in RABONI 2006, p. 1782.
27
Roberto Vianello
il suo modo di essere sposo (v. p. 12). Raboni ci presenta uno Stefano-Admeto
che accetta ingloriosamente il destino a lui favorevole. Il giudizio degli autori novecenteschi si abbatte impietoso sull’individuo maschile della coppia. Raboni paragonò il desiderio finale di cercare Sara alla «retorica» disperazione di Admeto in
Euripide, per una morte che lui aveva «richiesto o comunque accettato»70. Kott,
per citare solo un’altra voce sulla questione, quando riflette sul rapporto tra i coniugi in Euripide, squalifica lo sposo affermando: «Alcesti è un’eroina di tragedia,
ma ha un marito che viene dalla commedia»71.
Ci chiediamo: e se il Novecento avesse frainteso? Se Admeto non avesse avuto davvero possibilità di scegliere? Bisognerebbe certo postulare un secolare
fraintendimento. Andrebbero indagate, inoltre, le ragioni dell’amplificazione di
quelle che, da sempre, sono apparse ambiguità e contraddizioni del testo euripideo. Admeto implora la sposa di non lasciarlo e la rimprovera, quasi, di abbandonare oltre a lui i figli, proprio mentre la morte la ghermisce. È davvero vuotamente retorica la sua disperazione? O un fuorviante pregiudizio moderno ci preclude la verità, indotti come siamo a biasimarne l’intollerabile ingratitudine per un
gesto ancor più grande ai nostri occhi, in una condizione di subalternità socialmente pretesa? Non sarebbe incomprensibile il manifestarsi di tale fastidio nel
progressivo maturare di una coscienza di genere tra Ottocento e Novecento e
nella ormai conquistata emancipazione femminile. Osiamo suggerire tali considerazioni sulla scia di un interessante intervento critico, apparso di recente sulla rivista “Materiali e discussioni per l’analisi dei testi classici”, cui non c’è tempo di dedicare oggi lo spazio necessario, ma che potrà essere letto con profitto sul sito del
nostro Liceo72.
Carlo Brillante vi sostiene l’implausibilità che Euripide abbia pensato di portare in scena un personaggio doppio e contraddittorio quale appare l’Admeto che
riteniamo di conoscere. Egli suggerisce invece la sciagurata eventualità che Admeto non abbia potuto opporsi al sacrificio della sposa, richiamando in certo modo i
tentativi di moralizzare il personaggio attuati prima dell’Ottocento. Il critico, tuttavia, non è vincolato alle necessità etico-artistiche che animarono in passato un
Aureli o un Alfieri73. Quel che conduce la sua indagine, invece, è l’esigenza ermeneutica di comprendere quanto resta misconosciuto della vicenda degli sposi mitici e della tragedia greca cui, forse erroneamente, si attribuisce la scelta di inscenare una ipocrisia poco onorevole e poco edificante. Perché nulla ci dice il testo
euripideo del ruolo di Admeto negli avvenimenti che hanno preceduto l’azione
scenica. Sappiamo solo che Apollo, ingannando le Moire, ha ottenuto il dono più
prezioso per l’amico, descritto per l’intero dramma come uomo pio verso la divi-
70
RABONI 2004, p. 444. Ora in RABONI 2006, p. 1782.
71
KOTT 2005, p. 104.
72
Cf. BRILLANTE 2005. La riproduzione del saggio sul sito del Liceo è stata autorizzata dalla Redazione scientifica della rivista e dalla sua Casa editrice. La si legga all’indirizzo Internet
www.giuseppeveronese.it (Materiali didattici, Italiano, Vianello Roberto).
73
Cf. p. 5.
28
Alcesti nel Novecento letterario italiano
nità e campione di ospitalità e φιλία. Quale rapporto sia intercorso tra il dono inatteso del dio e la decisione sacrificale di Alcesti non si dice in Euripide, né ci è
dato di ipotizzarne aspetti disonorevoli per Admeto, di cui sappiamo solo che οὐχ
ηὗρε πλὴν γυναικὸς ὃστις ἤθελε / θανὼν πρὸ κείνου µηκέτ΄εἰσορᾶν φάος, “non
trovò, tranne la moglie, chi volesse, / morendo per lui, non più vedere la luce”
(17-18). Osserva Brillante che il verbo εὑρίσκω «può designare un ritrovamento
casuale, senza riferimento a un’intenzionalità del soggetto» 74. Un valore che escluderebbe una richiesta egoistica alla sposa e renderebbe l’offerta di sé della
donna inattesa almeno quanto il dono stesso. Il valore del verbo nel contesto è
certo controverso75, ma di una richiesta esplicita ad Alcesti nel dramma non si fa
mai menzione e forse solo un pregiudizio, naturale quanto si vuole, può farla postulare. Il critico perciò ipotizza che la possibilità di una morte sostitutiva, strappata da Apollo alle Moire, si configuri come un vero e proprio patto, a cui entrambi i contraenti restano vincolati, e che, accettato da Admeto, è divenuto vincolante anche per lui. Admeto non avrebbe dovuto in realtà accettare o meno il
sacrificio di Alcesti, quanto piuttosto scegliere se accettare o meno la vantaggiosa
offerta del dio, senza poter prevedere l’inattesa offerta di sé dell’ormai insostituibile sposa. Più generosa di amici e genitori, Alcesti avrebbe involontariamente
trasformato la più impensabile delle opportunità in un dono avvelenato. I doni
degli immortali sono spesso inevitabili per gli uomini. E il re di Fere non aveva
certo motivo di rifiutare il tributo di una divinità amica alla più onorevole delle
sue virtù. Sono solo l’inatteso rifiuto dei genitori e l’imprevista offerta di Alcesti a
rendere non più vantaggiosa l’offerta di Apollo: quando Thanatos rifiuta di negoziare con Apollo una dilazione della morte di Alcesti, oramai non c’è più nulla da
fare. I rapporti tra uomini e immortali – osserviamo noi – sono normalmente difficili. E spesso – continua Brillante – i doni degli immortali non corrispondono alle
attese di chi li ha sollecitati. Altri eroi, dopo aver stipulato un patto vantaggioso
con la divinità, «subiscono un male maggiore di quello che speravano di evitare»76.
È il caso di Idomeneo, il re di Creta costretto a uccidere il figlio per aver promesso a Poseidone di sacrificargli ciò che avesse incontrato sulla terraferma se fosse
scampato al naufragio. Stessa sorte subirono la sposa e i figli di Meandro, che stipulò un patto analogo con la madre degli dei. Così come accadde alla figlia di Iefte, giudice dell’Antico Testamento che si distinse combattendo contro gli Ammoniti e in cambio della vittoria su di essi promise in olocausto a IHWH – sconsideratamente! – la persona che per prima fosse uscita dalle porte di casa sua per
andargli incontro (Gdc, 11, 30-39). In tutti questi casi eventi inattesi trasformano
nella rovina dell’eroe un patto incautamente ritenuto conveniente. Qualcosa di
simile andrebbe postulato anche per Admeto, che tutto avrebbe potuto prevedere, tranne la dedizione della sposa fino al dono totale di sé.
74
BRILLANTE 2005, p. 17.
75
Cf. ivi, n. 18.
76
Brillante 2005, p. 22.
29
Roberto Vianello
Dobbiamo veramente terminare. Non abbiamo titolo per pronunciarci con
competenza sull’ipotesi sin qui descritta. Se essa dovesse dimostrarsi esatta, bisognerebbe ripensare l’Alcesti di Euripide e restituire al suo sposo un onore troppo a
lungo negato77. Le presunte ombre e ambiguità che lo riguardano risulterebbero
illuminate da una luce di sincero affetto per la sposa, di vera disperazione per la
sua perdita. Giusta si rivelerebbe, come pretendeva Platone, la ricompensa delle
virtù di entrambi col ritorno in vita di lei. Nuova luce prenderebbero poi le letture
artistiche del secolo da poco conclusosi, che abbiamo fin qui descritto. E dovremmo forse attribuire a evoluzione del costume, ai drammi della psiche, a
traumi della sua storia la valutazione antieroica del rapporto immaginato tra gli
sposi in quelle recenti storie. Lasciamo alla vostra riflessione le molte osservazioni
sin qui proposte. Qualsiasi sia la verità su Alcesti e Admeto, siete tutti invitati al
teatro “Don Bosco” ad assistere alla rappresentazione che gli studenti del Classico ne daranno il prossimo 29 Aprile. Grazie.
ROBERTO VIANELLO
Almeno per quel che concerne il suo rapporto con la sposa. Rimarrebbe invero da valutare la
sua pretesa di essere sostituito da amici e genitori. Per i secondi si potrebbe forse invocare il concetto di giustizia generazionale, per il quale la più lunga aspettativa di vita del giovane, il lungo godimento di ricchezze e felicità da parte dei più anziani renderebbero – in modo che lascia perplessa
la coscienza moderna – onorevole la loro dipartita, meno disonorevole la richiesta loro diretta.
Per i primi si dovrebbero forse invocare concetti quali la regalità dell’interlocutore, la ragion di
Stato, la manifestazione concreta di una φιλία , attesa dalla sodalità tra pari, non invece dall’affetto
di una donna. Per entrambi bisognerà poi tener presente l’origine fiabesca della situazione e del
dono stesso.
77
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