SCHEDA 1 Il grido dei poveri (Es 1-2) I primi due capitoli del libro

SCHEDA 1
Il grido dei poveri (Es 1-2)
I primi due capitoli del libro dell'Esodo costituiscono il prologo dell'intera storia: ci viene presentato lo
spazio geografico nel quale la storia si svolgerà (l'Egitto) e i protagonisti che la animeranno. Nel primo
capitolo, gli attori del conflitto: gli israeliti, contrapposti al faraone e agli egiziani; nel secondo capitolo,
coloro che risolveranno tale conflitto: Mosè e, proprio alla fine (Es 2,23-25), il protagonista più importante,
Dio.
Il testo di Es 1-2 può essere facilmente diviso in scene più brevi. In Es 1,1-7 abbiamo un'introduzione
che serve a collegare il libro dell'Esodo con quello della Genesi; qui il narratore mette in luce la crescita degli
israeliti in Egitto. In Es 1,8-14 abbiamo la narrazione relativa all'oppressione degli israeliti da parte degli
egiziani, seguita, in Es 1,15-22, dal racconto delle due levatrici che salvano i bambini ebrei appena nati.
Improvvisamente, l'attenzione si sposta su un solo bambino: è l'episodio relativo alla nascita di Mosè (Es 2,110), al quale seguono la narrazione dell'uccisione dell'egiziano fatta da un Mosè ormai cresciuto (Es 2,11-15)
e il racconto della fuga e del matrimonio di Mosè (Es 2,16-22). L'intervento di Dio conclude questa prima
parte della narrazione (Es 2,23-25).
Il lettore attento non mancherà di cogliere in questo racconto iniziale una fortissima tensione drammatica.
Il faraone non vuole soltanto opprimere gli israeliti (Es 1,10-11), ma ne vuole addirittura la morte (Es
1,16.22). Il primo capitolo si chiude infatti con una minaccia terribile: getterete nel Nilo ogni bambino
maschio che nascerà agli ebrei! Che accadrà? Dove finiranno le promesse fatte da Dio ai patriarchi?
Il cap. 2 si apre descrivendo improvvisamente la nascita di un singolo bambino ebreo. Anche lui dovrà
morire? Conosciamo tutti la storia della cesta nella quale il piccolo viene posto e come venga poi trovato
dalla figlia del faraone. Qui la tensione si acuisce: non appena essa si accorgerà che si tratta di un bambino
ebreo, certamente lo farà uccidere, come suo padre ha ordinato. Ma ecco il vertice della narrazione: la figlia
del faraone apre la cesta (Es 2,6), vi scopre un neonato che piange, e «ne ebbe compassione». Su queste
parole, che sottolineano l'amore di una donna per un bambino che piange, la tensione si scioglie.
I FIGLI DI ISRAELE (Es 1,1-7)
Il libro dell'Esodo si apre ricordandoci i nomi dei figli di Giacobbe-Israele scesi in Egitto: dodici figli per
un totale di settanta persone, tante quanti sono i settanta popoli del mondo descritti in Gen 10. È come se ci
trovassimo di fronte a un vero e proprio atto creatore di Dio il quale dal nulla crea un popolo numeroso. Va
sottolineato come i verbi usati al v. 7 siano gli stessi presenti nelle promesse divine fatte all'origine della
creazione (Gen 1,28; 9,1.7). nella crescita di Israele in Egitto il Signore realizza così le sue promesse, in
particolare quella relativa alla discendenza e alla benedizione (cf. Gen 12,1-3).
Manca ancora, tuttavia, la realizzazione della promessa della terra: Israele è in Egitto ed è dunque in una
situazione di attesa. Il ricordo della morte di Giuseppe presuppone un lettore di buona memoria: alla fine del
libro della Genesi, infatti, Giuseppe, poco prima di morire (Gen 50,24-25), aveva preannunziato una «visita»
divina che avrebbe condotto Israele fuori dall'Egitto. In questo modo, chi legge questi versetti si domanda
già se la crescita degli israeliti in Egitto sia davvero la fine della loro storia, o non ne sia piuttosto l'inizio.
IL FARAONE E L'OPPRESSIONE (Es 1,8-14)
Il nuovo faraone «non ha conosciuto Giuseppe»; per lui gli ebrei sono solo stranieri e dunque nemici.
Mai, nel libro dell'Esodo, questo faraone avrà un nome; resterà anonimo, come anonimo è davanti a Dio ogni
potente il cui nome fa tremare il mondo. L'origine del conflitto tra israeliti ed egiziani è la paura dell'altro (cf.
il v. 12); gli egiziani percepiscono gli israeliti come una minaccia alla loro sicurezza (v. 9) e ritengono il
rapporto di forza sbilanciato a loro sfavore. Falsando la realtà, il faraone si appella alla "ragion di stato": gli
ebrei rappresentano una minaccia che va eliminata. Occorre dunque usare la forza, prendere provvedimenti
urgenti. Al v. 10 il verbo tradotto in italiano con «prendiamo provvedimenti» significa in realtà in ebraico
"facciamoci saggi"; il faraone crede di essere saggio, ma non lo è; porterà così il suo popolo alla rovina.
Questo testo è perciò l'occasione per una riflessione approfondita sulle cause della violenza. Il primo di
questi provvedimenti (vv. 11-12) è l'istituzione dei lavori forzati; emerge qui il verbo «opprimere», usato per
due volte. Ma gli israeliti, pur costretti a costruire città per gli egiziani, paradossalmente si rafforzano ancor
di più. Nessun tiranno può davvero riuscire a distruggere del tutto un popolo. Così arriva il secondo
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provvedimento (vv. 13-14): i lavori diventano sempre più pesanti e sono caratterizzati da particolare durezza;
la vita degli israeliti è ormai una vita molto amara.
LE LEVATRICI (Es 1,15-22)
L'episodio delle levatrici ci fa comprendere come il conflitto sia ormai divenuto una questione di vita o di
morte. Il faraone pretende di essere il padrone della vita e vuole una "soluzione finale", una vera e propria
"pulizia etnica". Di fronte al faraone, incarnazione della presenza di Dio sulla terra, emerge la figura di due
schiave egiziane, le levatrici Sifra e Pua (i cui nomi significano "Bellezza" e "Splendore"), che, insieme alle
donne presenti nella scena seguente (Es 2,1-10) valorizzano la figura femminile, a lato di uomini ingiusti e
violenti. Di questi uomini, come il faraone, la Bibbia non ricorda neppure il nome, che rimane invece
scolpito quando si tratta di due schiave. Al di là dell'inverosimiglianza della storia (due sole levatrici per un
popolo così numeroso e, per di più, due schiave che osano discutere con il faraone) la grandezza delle due
donne emerge con forza. Esse «temono Dio», credono cioè in lui e quindi sono in grado di contrastare le
scelte del faraone che le vorrebbe trasformare in strumenti di morte. Là dove c'è il "timore di Dio" vince la
vita e il debole può battere il forte. Eppure il capitolo, come già abbiamo notato, si chiude con un ordine
terribile: vistosi gabbato dalle levatrici, il faraone ordina di gettare nel Nilo ogni bambino maschio che
nascerà agli israeliti: che cosa accadrà adesso?
LA DOPPIA NASCITA DI MOSÈ’ (Es 2,1-10)
Abbiamo già avuto modo di notare la tensione drammatica che anima questo racconto, tensione che si
scioglie solo quando il narratore ci guida a vedere l'apertura della cesta nella quale si trova il bambino e la
compassione che ne prova la figlia del faraone.
Un bambino che piange è un bambino da salvare, chiunque esso sia, anche il figlio dei nostri nemici.
Si osservi come in tutta questa scena Dio non sia per nulla menzionato; sembra che tutto avvenga per
opera degli uomini (meglio, delle donne).
Nel racconto della nascita di Mosè risaltano alcuni particolari importanti: prima di tutto si dice che la
madre di Mosè «vide che il bambino era bello». Cosa strana! Quando mai una madre pensa che il suo
neonato sia brutto? In realtà, il testo dice «vide che il bambino era tób», un termine che in ebraico significa
sia "bello" che "buono". La frase riecheggia così lo stesso ritornello che apre il libro della Genesi (Gen 1):
«Dio vide che era cosa buona/bella». La nascita di Mosè è perciò descritta in un modo che richiama da
vicino il racconto della creazione.
C'è di più: la cesta nella quale è posto il piccolo Mosè è definita con lo stesso termine ebraico con il quale
il racconto di Gen 6,14 descrive l'arca di Noè. È evidente che la cesta di Mosè è così piccola da non poter
essere neppure paragonata all'arca, perché, allora, il narratore la chiama così? Lo scopo è quello di creare uno
stretto rapporto tra Noè e Mosè. In entrambi i casi ci troviamo di fronte a due personaggi salvati dalle acque;
in entrambi i casi, i due saranno protagonisti della salvezza di altri uomini: Noè dell'intera umanità, Mosè di
Israele.
Questo gioco di allusioni, che presuppone nel lettore un'ottima memoria biblica, non è ancora finito. La
cesta nella quale si trova il piccolo Mosè viene a posarsi tra i giunchi del fiume (Es 2,5). In questo modo il
narratore ci anticipa quel "mare dei giunchi" (quello che noi chiamiamo "mar Rosso") attraverso il quale
passerà Israele. Nella nascita di Mosè non c'è così soltanto il passato, ma anche il futuro di Israele. Mosè,
appena nato alla vita fisica, rinasce simbolicamente dalle acque del fiume, anticipando l'esperienza che egli
stesso vivrà: quella del passaggio del mare.
L'episodio si chiude ricordandoci il nome del bambino, in ebraico "Mosheh". Dato che il nome gli viene
posto da una principessa egiziana, va interpretato come parte di un nome egiziano che noi non possiamo più
ricostruire: il suffisso -mosis significa "figlio di" e si ritrova in nomi egiziani come Ra-mses ("figlio di Ra", il
dio sole), oppure Tuth-mosis ("figlio del dio Toth"). Ma la narrazione biblica sembra volersi dimenticare
questa origine egiziana di Mosè e ne connette il nome con il verbo ebraico "trarre fuori", così che Mosheh,
tratto dalle acque, diviene "colui che trae", ovvero colui che trarrà fuori Israele dall'Egitto, attraverso le
acque del mare. Chi è dunque Mosè? Nato ebreo, rinato egiziano, dovrà lottare per scoprire la propria vera
identità.
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L’UCCISIONE DELL’EGIZIANO (Es 2, 11-15)
Potremmo intitolare questo episodio "Mosè alla ricerca della propria identità". Mosè, infatti, fa esperienza
della situazione nella quale si trovano i suoi "fratelli'' ebrei (Es 2, 1 1 ) mentre si trova ancora alla corte del
faraone. È dunque un ebreo, fratello degli oppressi, oppure è un egiziano, figlio degli oppressori?
L'episodio è pieno di violenza e il ritmo della narrazione è incalzante: Mosè uccide l'egiziano che
maltrattava un ebreo, ma il giorno dopo fallisce nel tentativo di metter pace tra due ebrei e, quando la sua
azione precedente viene scoperta, è costretto a fuggire.
I commentatori antichi si sono chiesti spesso se il testo esodico valuti l'omicidio commesso da Mosè in
modo positivo oppure negativo. Con diverse motivazioni i commentatori ebraici tendono a difendere Mosè,
arrivando a dire che Mosè avrebbe sorpreso l'egiziano commettere adulterio con la moglie dell'ebreo avrebbe
così applicato la Legge che Dio stesso gli aveva rivelato. Tra i cristiani, difendono Mosè sia Tommaso
d'Aquino, che considera l'azione di Mosè come un caso emblematico di legittima difesa (Mosè avrebbe agito
addirittura mosso da una ispirazione divina) sia Lutero, che insiste sul fatto che Mosè sta applicando la legge.
Diversa è la lettura di Agostino, che pensa che Mosè abbia agito male, perché lo ha fatto di sua iniziativa,
senza essere stato chiamato da Dio. All'intuizione di Agostino possiamo ricordare come Mosè venga rifiutato
da quegli stessi ebrei tra i quali cercava di metter pace: «Vuoi forse uccidere anche noi?». Chi pretende di
imporre la giustizia con la violenza (cf. Mt 26,52) non è più un pacificatore credibile. Come dice la Bibbia:
«Chi vuole far giustizia con la violenza è simile a un eunuco che vuole violentare una vergine» (Sir 20,4).
C'è di più; il risultato dell'azione violenta di Mosè è senza alcun dubbio negativo: egli è costretto a fuggire e
si ritrova solo, seduto presso un pozzo nel deserto. Questo racconto non condanna apertamente la violenza
(parleremo di questo argomento a proposito delle piaghe d'Egitto), ma in ogni caso ne mette in luce tutta
l'ambiguità. Mosè deve in ogni caso sperimentare il fallimento e l'esilio prima di diventare il liberatore del
suo popolo.
MOSÈ’ E LE FIGLIE DI IETRO (Es 2, 16-22)
Questa breve storia presenta notevoli richiami di due storie precedenti: il matrimonio di Isacco (Gen 24) e
quello di Giacobbe (Gen 29). In tutti questi casi abbiamo un uomo che incontra presso un pozzo, in un
ambiente pastorale, la donna che sarà sua moglie. Il narratore vuole cosi suggerirci che Mosè inizia a
ritrovare il suo passato, le radici del popolo al quale appartiene. Il Dio che egli incontrerà al roveto sarà
proprio «Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe» (Es 3,6). Il vocabolario legato al mondo dei
pastori prepara il testo di Es 3,1, nel quale anche Mosè verrà presentato come pastore, al pari dei suoi padri.
Qui siamo ancora lontani dalla terra promessa, nel territorio di Madian, luogo del quale in realtà non
sappiamo nulla, presso una popolazione che tuttavia vive come vivevano i padri di Israele.
Il legame con i patriarchi è evidente anche nell'unica frase pronunciata da Mosè, dopo la nascita del figlio
Ghersom, avuto dalla moglie Zippora ("Passerotta"): «Sono un emigrato in terra straniera» (Es 2,22). Mosè
chiama così suo figlio perché «gher» significa "emigrato", il termine con il quale venivano chiamati proprio i
patriarchi, emigrati in terra straniera (Gen 15,13; cf. anche Abramo in Gen 17,8; Giacobbe in Gen 28,4;
Isacco in Gen 35,27, etc). Questo legame con il passato è molto importante: nella scena precedente si è
notato il dilemma di Mosè che non riesce a risolvere il problema della sua identità. Ora secondo le figlie di
Ietro egli è «un Egiziano» (v. 19); Mosè sembra ora aver trovato una parte delle proprie radici, anche se la
domanda ritornerà più tardi «Chi sono io?» (cf. Es 3,11). Solo alla luce della propria vocazione, davanti a
Dio, Mosè troverà la risposta definitiva al problema della propria identità.
L'INTERVENTO DI DIO (Es 2.23-25)
La storia di Mosè poteva anche finire qui: egli ha trovato una famiglia, una moglie, una casa, lavoro.
Eppure sa di essere straniero e che il suo destino non è nel paese di Madian. Ora, improvvisamente, il
narratore abbandona Mosè e ci introduce nel mistero del disegno di Dio; ecco una traduzione letterale di Es
2,23-25:
Nel corso di quegli anni il re d'Egitto morì.
E i figli di Israele gemettero
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a causa della schiavitù,
e gridarono e alzarono grida di lamento verso DIO
a causa della schiavitù.
Allora DIO ascoltò il loro grido,
e DIO si ricordò della sua alleanza con Abramo e Giacobbe;
allora DIO guardò i figli di Israele
e DIO se ne prese cura.
Da un lato, per quattro volte, si ricorda il gemito e il grido di Israele che ha preso coscienza della propria
situazione di schiavitù. Di fronte a una situazione di ripetuta oppressione, quando non c'è più alcuna speranza
umana, l'uomo si rivolge a Dio per avere giustizia. Alle quattro menzioni del grido di Israele il narratore fa
così corrispondere quattro azioni di Dio: egli "ascolta", "ricorda" la sua alleanza, "vede" e si "prende cura" di
Israele. Dio si fa carico del dolore degli oppressi (cf. Sal 56,9: Dio raccoglie nel suo otre le lacrime di tutti
gli oppressi). Sorge un altro potere, quello di Dio, opposto a quello del faraone: chi prevarrà? E in che modo
Dio si ricorderà del grido di Israele? E in tutto questo che cosa c'entra Mosè?
PER RIFLETTERE INSIEME
1. Es 1,11-14 - "Asservire", "amareggiare", "opprimere", "schiacciare" sono i verbi con cui nei vv. 11-14
viene descritta la politica del faraone che è quella di ogni potere che vuole autoconservarsi a qualsiasi costo.
Un antico detto ebraico commentava "il faraone non è mai morto". Chi sono oggi i "faraoni" della nostra
società? A quali poteri dispotici siamo anche noi sottoposti? Come cristiani ci poniamo il problema di come
riconoscere ogni occulta oppressione e lottare contro di essa?
2. Es 1,9-16 - I1 faraone avverte la presenza dei figli di Israele come una minaccia per il suo popolo e per il
suo stesso potere; per questo prima ordina una dura oppressione, poi elimina i figli maschi. Oggi il fenomeno
della immigrazione/emigrazione sta assumendo dimensioni planetarie e si sta affermando sempre più una
società multiculturale. Quali sono le espressioni che più frequentemente sono usate a proposito degli
immigrati? Quale idea di umanità veicolano queste parole? La Parola di Dio ci aiuta concretamente a vincere
la paura di chi è diverso da noi e a mantenere atteggiamenti di apertura e tolleranza? Come comunità
cristiana quale contributo possiamo dare per costruire una pacifica convivenza fra le varie etnie e culture
presenti nella nostra città?
3. Es 2,11-12 - L'autore biblico ci dice che Mosè riconosce negli schiavi ebrei i suoi fratelli, non è scontato
rendersi conto della condizione di povertà, di ingiustizia, di sofferenza in cui vivono gli altri. Pur avendo un
nome egiziano e vivendo alla corte del faraone sa uscire dal suo mondo: «è il suo primo esodo» (Card.
Martini). Ci sono state delle situazioni di miseria che hanno risvegliato la nostra coscienza umana e
cristiana? Come credenti sappiamo compiere questo "primo esodo" per porci dalla parte degli sfruttati e dei
poveri?
4. Es 2,11-15 - Mosè è un uomo che vuole combattere per la giustizia facendo ricorso alla violenza. Il testo
ci ricorda che la violenza non risolve ma peggiora la situazione. Il rifiuto della violenza come "arma" di
risoluzione dei conflitti è un valore sempre più sentito dalla cultura occidentale e dalla cristianità, nelle
nostre comunità riflettiamo su quanto sia necessario impegnarsi per la nonviolenza, che non è disimpegno,
ma comporta anche denuncia delle situazioni di ingiustizia? Che differenza c'è fra "non violenza" e
"passività/indifferenza"? Come ci poniamo di fronte alle ingiustizie di cui siamo spettatori?
5. Es 2, 1-10 - Mosè, adottato dalla figlia del faraone, viene introdotto alla sapienza egiziana e può far
tesoro della cultura di una grande civiltà. Quali sono i percorsi attraverso i quali si costruisce l'identità di una
persona e di un popolo? Sappiamo assumere gli apporti delle differenti culture con cui siamo a contatto?
6. Es 2,16-22 - Mosè è costretto a uscire dall'Egitto e a rifugiarsi nel deserto. Presso un pozzo avviene
l'incontro con le figlie del sacerdote di Madian che egli difende da pastori prepotenti. Una di queste gli viene
data in sposa. Egli sembra di nuovo destinato a un'esistenza agiata e tranquilla, ma Dio gli affida un compito
enorme e la sua vita sarà rivoluzionata. Siamo disposti a vivere un'avventura con Dio anche se questo
comporta un cambiamento radicale? Ci è capitato di trovarci di fronte a scelte importanti che possono dare
una direzione completamente nuova alla nostra vita?
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7. Es 2,15 - Mosè fugge a Madian e vive come nomade; vive cioè l'esperienza dei suoi padri. Egli è così
aiutato a recuperare le sue radici. Anche noi oggi in Europa discutiamo delle radici cristiane della nostra
cultura. Cosa sappiamo di questo dibattito? Quale la nostra opinione sull'identificazione fra l'essere
occidentali e l'essere cristiani?
8. Es 2,23-25 - Il popolo oppresso e umiliato lanciò un grido dalla schiavitù. Questo lamento corale che
diventerà di supplica nei Salmi, arriva fino a Dio. La nostra preghiera nasce dalla vita; è ora di supplica, ora
di lamento o di ringraziamento. In che modo riusciamo a rendere corale il nostro lamento e la nostra
supplica? Assumiamo nelle nostre preghiere le intenzioni degli altri (coloro che ci sono vicini e coloro che
sono lontani)? Facciamo nostre le parole dei Salmi per la nostra preghiera quotidiana? Preghiamo anche per
chi ha fatto di se stesso un'arma di morte?
9. Es 2,24-25 - «Allora Dio ascoltò il loro lamento(...) Dio guardò la condizione degli israeliti e se ne
prese pensiero». La chiesa è chiamata a scegliere e ad agire secondo lo stile di Dio. In cosa concretamente
possiamo dire che la nostra comunità parrocchiale e la nostra chiesa locale "ascolta", "guarda", "si prende
pensiero" e "agisce" per la liberazione, come fa il Signore? I cristiani impegnati socialmente o in politica
hanno come obiettivo la difesa e la liberazione degli oppressi?
10. Es 1-2 - Dio si presenta fin dalle prime pagine dell'Esodo come il Dio dei poveri, delle minoranze, degli
sfruttati. Cosa vuol dire questo concretamente per la nostra esperienza di fede? Quali conseguenze comporta
credere in un Dio che ascolta il grido dei poveri e scende per liberare?
PER APPROFONDIRE
Il CdA La verità vi farà liberi, n. 128 propone un approfondimento del tema: Dio difensore degli umili.
PER LA PREGHIERA
Si suggerisce l’utilizzo del Salmo 56
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