Futuring the past - Servizio di Hosting di Roma Tre

Periodico di Ateneo
Anno XVIII, n. 3 - 2016
Futuring the past
Sommario
A Lea Garofalo e a sua figlia Denise Cosco
Anna Lisa Tota
Editoriale
La sostenibilità del passato: “memory work”
e codici estetici
Anna Lisa Tota
Il ciclo sulla sostenibilità
Mario Panizza
Diritti umani, conflitti armati e il diritto
internazionale: il ruolo dell’individuo nel
contesto europeo
Lectio magistralis di Matthew Anthony Evangelista
all’inaugurazione dell’a.a. 2016/2017
4
5
7
8
Primo piano
Che cos’è il ricordo? Cosa significa scrivere
12
la storia?
La memoria tra storia, etica e politica in Paul Ricœur
Francesca Brezzi
L’archivio proustiano
La memoria nella Recherche
Marco Piazza
15
Sant’Agostino tra memoria e ricerca della verità 19
Un’analisi filosofica della relazione tra memoria
e verità nelle Confessioni
Benedetto Ippolito
La memoria della guerra
Ricordare il passato perché non ritorni
Alessandro Cavalli
23
In Codice Ratio
Collaborazione uomo-macchina per una
interpretazione più ricca del passato
Mario De Nonno, Paolo Merialdo
30
Memorie a lungo termine
Sopravvivere all’obsolescenza delle tecnologie
Paolo Atzeni, Riccardo Torlone
26
Memoria
Chiara Giaccardi
33
«L’essere che chiamo io»
Generi, ricordi e memorie autobiografiche
Carmela Covato
Narrazione e cura di sé
La memoria autobiografica per il progetto di vita
Barbara De Angelis
Tracce di memoria
Racconti familiari in migrazione
Maura Di Giacinto
34
37
40
Il fruscìo delle vite comuni
L’Archivio dei diari di Pieve Santo Stefano
Nicola Maranesi
43
Dopo il terremoto
Dove e come ricostruire?
Michele Zampilli
52
Le due memorie
Quando la storia si fa architettura
Raynaldo Perugini
58
Una fabbrica della memoria a Roma Tre
Viaggio nel Museo storico della didattica “Mauro
Laeng”
Lorenzo Cantatore
64
Riconoscere è ricordare
47
Strumenti e metodi per la valorizzazione della memoria
Antonio Pugliano
Lutto individuale e lutto collettivo
Processi di ritualizzazione e di rielaborazione
della memoria
David Meghnagi
55
«Poi compare Testaccio, in quella luce di miele» 61
Archivio Urbano Testaccio _ AUT : la memoria
dei luoghi
Francesca Romana Stabile
Memoria collettiva e identità nazionale
Breve storia di un fenomeno controverso:
l’identità collettiva degli italiani
Paolo Mattera
Nostalgia della polvere
Un caso studio tra storia e memoria: le operaie
dell’industria ceramica di Civita Castellana
Giancarlo Monina
Sul rapporto fra spazio e tempo
Una breve storia da Galilei a Einstein
Davide Meloni
67
70
74
La Universidad Nacional de Avellaneda con
77
le Abuelas de Plaza de Mayo
Un progetto di collaborazione tra l’università
e il movimento dei Diritti Umani
Cristina Inés Bettanin, Elena Calvín, Leticia Marrone
Incontri
Irit Dekel. Mediation at the Holocaust Memorial
in Berlin
Federica Martellini
Rubriche
Audiocronache
Il mondo visto da Roma Tre Radio
Lorenzo De Alexandris
80
83
Palladium
Spettacolo, ricerca e formazione per la
stagione 2016/2017
Giuseppe Leonelli
85
Post Lauream
87
Master di II livello in Restauro architettonico e
cultura del patrimonio
Master di II livello in Housing – Nuovi modi di
abitare tra innovazione e trasformazione
Master di II livello in Progettazione ecosostenibile:
ideare, calcolare, realizzare e valutare
Master di II livello OPEN – Architettura del
paesaggio
Eugenia Scrocca
Master in Salute e Sicurezza negli ambienti
di Lavoro in Sanità
Silvia Conforto
Non tutti sanno che
Recensioni
Finché il tempo non ci separi
Blu, Bansky e gli “stacchi”: è lecito e ha senso
musealizzare la street art?
Giulia Pietralunga Cosentino
Periodico di Ateneo
89
91
Anno XVIII, n. 3 - 2016
Periodico dell’Università degli Studi Roma Tre
Anno XVIII, numero 3/2016
Direttore responsabile
Anna Lisa Tota
(professore ordinario di Sociologia dei processi culturali e comunicativi)
Caporedattore
Alessandra Ciarletti
Vicecaporedattore e segreteria di redazione
Federica Martellini
[email protected]
Redazione
Valentina Cavalletti, Gessica Cuscunà, Paolo Di Paolo, Francesca Gisotti,
Elisabetta Garuccio Norrito, Michela Monferrini, Giulia Pietralunga
Cosentino, Francesca Simeoni
Hanno collaborato a questo numero
Paolo Atzeni (professore ordinario di Basi di dati - direttore del Dipartimento
di Ingegneria), Cristina Inés Bettanin (Universidad Nacional de Avellaneda),
Francesca Brezzi (professore senior di Filosofia morale), Elena Calvín
(Universidad Nacional de Avellaneda), Lorenzo Cantatore (professore
associato di Letteratura per l’infanzia), Alessandro Cavalli (socio
corrispondente Accademia dei Lincei), Silvia Conforto (direttore del Master
in salute e sicurezza negli ambienti di lavoro in sanità), Carmela Covato
(professore ordinario di Storia della pedagogia), Lorenzo De Alexandris
(diplomato del Master in Storia e comunicazione - speaker e autore Radio
Città Aperta), Barbara De Angelis (professore associato di Didattica
speciale), Mario De Nonno (direttore del Dipartimento di Studi umanistici),
Maura Di Giacinto (Phd ricercatrice - docente di Educazione e storia sociale
nelle relazioni interculturali), Matthew Anthony Evangelista (President White
Professor of History and Political Science - Department of Government Cornell University), Chiara Giaccardi (professore ordinario di Sociologia
dei processi culturali - Università cattolica di Milano), Benedetto Ippolito
(ricercatore di Storia della filosofia e docente di Storia della filosofia
medievale), Giuseppe Leonelli (professore ordinario di Letteratura italiana
- presidente CdA Fondazione Roma Tre Palladium), Nicola Maranesi
(Fondazione Archivio diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano), Leticia
Marrone (Universidad Nacional de Avellaneda), Paolo Mattera (professore
associato di Storia contemporanea), David Meghnagi (professore associato
di Psicologia clinica - direttore del Master internazionale in Didattica della
Shoah), Davide Meloni (ricercatore in Fisica teorica), Paolo Merialdo
(professore associato di Analisi dell’informazione su web), Giancarlo
Monina (professore associato di Storia contemporanea), Mario Panizza
(Rettore Università degli Studi Roma Tre), Raynaldo Perugini (professore
aggregato di Storia dell’architettura), Marco Piazza (professore associato
di Storia della filosofia), Antonio Pugliano (professore associato di Restauro
architettonico), Eugenia Scrocca (area didattica - Dipartimento di
Architettura), Francesca Romana Stabile (professore associato di
Restauro), Riccardo Torlone (professore ordinario - docente di Big Data),
Michele Zampilli (professore associato di Restauro)
Immagini e foto
Ilena Antici, Archivio diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano (per gentile
concessione), Archivio storico vaticano (per gentile concessione), AUT_
Archivio urbano Testaccio, Antonio Azzurro, Giulia Bassi, Luigi Burroni,
Lorenzo Cantatore, David Dekel, Barbara Del Brocco, Simone Diaz, Marina
Di Guida, Chiara Fusco, Lucho García, Museo storico della didattica Mauro
Laeng (per gentile concessione), Giulia Pietralunga Cosentino, Luigi Porzia,
Flavia Tronti, Hans Hillewaert, www.abuelas.org.ar
Bia Simonassi (issuu.com/treebookgallery) ha realizzato il mind map alle
pp. 50/51
Progetto grafico
Magda Paolillo, Conmedia s.r.l. - Piazza San Calisto, 9 - Roma
06 64561102 - www.conmedia.it
Il progetto grafico della copertina è di Tommaso D’Errico
Impaginazione e stampa
Tipografia Revelox srl, Viale Charles Lenormant 112 – 00119 Roma
In copertina
Orologio astronomico di Praga, dettaglio (foto: Vera Kratochvil)
Futuring the past
Fine lavorazione
dicembre 2016
ISSN: 2279-9206
Registrazione Tribunale di Roma
n. 51/98 del 17/02/1998
A Lea Garofalo e a sua figlia Denise Cosco
Anna Lisa Tota
Lea Garofalo
«Mai più ti libererai di me»
disse Antigone a Creonte.
Questo numero di Roma Tre News è dedicato alla
memoria di Lea Garofalo, un passato recentissimo che
pesa sulle nostre coscienze come pietra e che reclama
quel futuro di legalità, che questa giovane madre ha
strenuamente voluto per sua figlia. Lea Garofalo è stata
rapita a Milano il 24 novembre 2009; aveva 35 anni e
una figlia, Denise. A Milano quella sera doveva
incontrare il suo ex compagno Carlo Cosco, padre di
Denise e criminale affiliato alla ’ndrangheta. Lea era
una testimone di giustizia proprio contro quella
‘ndrangheta, che da Petilia Policastro in provincia di
Crotone aveva trasferito i suoi loschi affari a Milano.
Lea aveva fatto nomi e cognomi, schierandosi dalla
parte della legalità. Il suo ex compagno e altri cinque
uomini sono stati condannati all’ergastolo per il suo
omicidio e per l’occultamento del suo cadavere: del
corpo di Lea, infatti, non è rimasto quasi nulla, soltanto
frammenti, perché il corpo del nemico deve essere
polverizzato, annientato affinché nessuna sepoltura sia
possibile. Il funerale di Lea si è celebrato a Milano il 19
ottobre 2013 alla presenza del sindaco Giuliano Pisapia,
di don Luigi Ciotti e dell’associazione Libera, di Nando
Dalla Chiesa, della figlia Denise e di una folla immensa.
Denise è oggi una giovanissima donna che ha dovuto
testimoniare al processo contro il padre e contro l’ex
fidanzato: gli assassini di sua madre. Denise ha scelto
di schierarsi dalla parte della legalità, come aveva fatto
Lea, e dovrà vivere sotto protezione per il resto della
sua vita. Onorando sua madre Lea, contribuiamo a
costruire il futuro di Denise e quello di questo intero
paese. Lo vogliamo fare simbolicamente anche dalle
pagine del giornale di questo Ateneo.
Questo numero di Roma Tre News è dedicato alla storia
di queste due donne, che decidono di sottrarsi alla legge
del padre: il tiranno, il Creonte contemporaneo, assume
qui le sembianze delle leggi ferree delle cosche
calabresi, che le due donne decidono di sfidare per
onorare i valori della legalità e della pietas. In questa
vicenda la legge del padre è sfidata di nuovo dalle forze
femminili che incarnano la legge della madre, quella
capace di interloquire con le forze dell’etica e della
morale pubblica. Non ha importanza se si tratti di
un’etica laica o religiosa, è un’etica alla quale nessun
tiranno padre può sottrarsi. Il mito di Antigone sembra
ritornare: Lea può dire – come novella Antigone – all’ex
compagno Carlo Cosco e quella cultura omertosa e
criminale cui appartiene: «Mai più ti libererai di me».
Ed è proprio così infatti. Ci saremmo augurati che
Antigone potesse rimanere un mito eterno ma relegato
alle pagine di Sofocle; invece Antigone ritorna fra noi,
prende vita e muore questa volta con il nome di Lea
Garofalo. L’omicidio di Lea è un femicidio ed è al
contempo un omicidio della ‘ndrangheta: le donne
calabresi rappresentano una sfida per le forze criminali
che nessuna violenza può fermare. Ma è Denise la vera
protagonista di questa storia, perché lei grazie alla forza
di Lea può sovvertire il mito di Antigone con un parziale
lieto fine: Denise sfida la legge del padre (la tirannia
criminale della ’ndrangheta), perché il novello Creonte
Carlo Cosco, uccidendo Lea e annientandone il corpo,
ha violato le leggi della pietas: ha ucciso la madre di
sua figlia. Ma come Creonte egli non sa che la
violazione delle leggi della pietas è atto irrimediabile.
Il diritto alla sepoltura di Lea diventa così il riferimento
simbolico, purtroppo attualissimo, a tutte le vittime
“insepolte” dei terrorismi, delle guerre, delle lotte
criminali della mafia e della ‘ndrangheta, a tutte quelle
morti che per diritto divino meritano di essere onorate.
Ed è proprio Denise ad assumersi l’onore di tradurre
questa legge divina sul piano politico e civile: ella
accetta il destino di vivere sotto protezione per tutta la
vita, perché si ribella e non accetta di “vivere da morta”,
cioè nella violazione della legge spirituale. Ma questa
volta Antigone-Denise si salva e la sua vita assume un
valore simbolico incommensurabile: «Ciao mamma,
ciao Lea» dice la giovanissima Denise al funerale di sua
madre in quella piazza così gremita di Milano. E noi
cosa possiamo dire a Denise?
«Cara Denise, onoriamo la forza e il
coraggio di tua madre. Onoriamo la tua
determinazione e il tuo amore di figlia.
Ricordati che non sei sola».
La sostenibilità del passato:
“memory work” e codici estetici
Anna Lisa Tota
Futuring the past è
il titolo di questo
nuovo numero di
Roma Tre News
dedicato alla memoria
pubblica
nelle sue molteplici intersezioni
con i temi della società civile, della
democrazia, della
giustizia e dell’etica. Da molti
Anna Lisa Tota
anni il dibattito internazionale sui memory studies ha messo a tema
il cosiddetto “memory work”, cioè quel complesso
e delicato insieme di processi, a cui la società civile
e le istituzioni pubbliche sono chiamate a contribuire quando un passato traumatico e controverso
richiede di essere collettivamente rielaborato. Dalla
scuola di Yale in poi, le teorie del cultural trauma
hanno rappresentato un tratto distintivo di qualsiasi
studio e/o ricerca su queste tematiche. Tuttavia, sul
concetto di passato, nonostante gli studi di Maurice
Halbwachs (1949), di Middleton e Edwards (1990)
e di molti altri studiosi provenienti da molteplici
discipline, continua a prevalere una radicata convinzione che anche le riflessioni più autorevoli non
sono riuscite a scalfire: i passati, soprattutto quelli
che “non passano”, quelli traumatici che segnano
irrimediabilmente una comunità, marcandone indelebilmente l’identità sociale, sono percepiti come
granitici, solidi, immutabili, oggettivati una volta
per sempre nella coscienza collettiva e, oserei dire,
universale. E in qualche misura è vero, lo sono.
L’Olocausto, le stragi terroristiche, i naufragi dei
barconi con bimbi, giovani e famiglie migranti,
tutti questi eventi e molti altri ci paiono “pietre”,
macchie indelebili nel tessuto connettivo della nostra società civile che chiede, anzi reclama, di essere “riparato”. Tuttavia si dà un altro piano di
riflessione, proprio quello su cui è possibile tentare
una qualche forma di riparazione, riconnessione, se
questa mai è possibile di fronte all’orrore del male.
Si tratta del piano di riflessione offerto dalle molteplici discipline che si occupano di memory studies e che propongono, pur nella varietà delle
prospettive, una concezione del passato come
“work in progress”, in cui sono gli interessi del presente a riverberare il passato, dando intensità, tonalità e sfumature diverse a quelle parti di esso che
rivestono un particolare valore rispetto alla prospettiva del presente, attraverso cui sono osservate.
Come ricorda Italo Svevo infatti, «Il passato è sempre nuovo: come la vita procede, esso si muta, perché risalgono a galla quelle parti che parevano
sprofondate nell’oblio, mentre altre scompaiono
perché ormai poco importanti. Il presente dirige il
passato come un direttore d’orchestra i suoi suonatori (…)». Svevo sembra parafrasare in queste righe
Halbwachs e le sue memorabili pagine sulla transitorietà di qualsiasi forma di oggettivazione del
passato stesso. Il vero significato di futuring the
past è proprio questo: costruire le traiettorie future
del passato, ma – aggiungiamo – tenendo conto
della sua sostenibilità. In che senso possiamo applicare il concetto di sostenibilità alla memoria? Mi
riferisco a passati altamente traumatici, a quelli che
pesano su un singolo, su una famiglia e/o su una
collettività come macigni e che sembrano avere la
capacità di congelare ogni trasformazione possibile. Sono proprio questi passati che abbiamo in
mente quando parliamo di work in progress, di possibilità di trasformare il significato del trauma in
relazione allo sguardo che il presente ci offre su di
esso. Possiamo allora intuire quanto il memory
work – questo lavoro di trasformazione – sia tutt’altro che semplice o scontato. Nel 2015 è stato
pubblicato Il libro dell’incontro di Ceretti, Bertagna e Mazzucato in cui si rende conto di un tentativo di riconciliazione che ha visto confrontarsi
vittime e carnefici della lotta armata italiana in un
percorso durato otto anni e non ancora concluso.
Se a questa prospettiva aggiungiamo il concetto
della sostenibilità, il compito diviene quello di lavorare sulle trasformazioni possibili dei significati,
sulla plasmabilità dei contenuti, sul riverberarsi
degli interessi del presente sui “passati che non passano”.
Lo studio delle memorie pubbliche diviene modalità emblematica per analizzare le relazioni di potere, per osservare i rapporti tra ricostruzioni
egemoniche e narrazioni marginali. La definizione
5
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pubblica dei passati controversi di una nazione rappresenta una chiave di lettura privilegiata per comprendere come le relazioni di potere siano articolate
in quel determinato contesto nazionale e come, a
sua volta, la definizione pubblica dell’identità nazionale che ne deriva sia il prodotto di quella stessa
articolazione delle relazioni di potere. Il termine
memoria pubblica aggiunge così un focus specifico
sulla relazione con la sfera pubblica e sulla capacità
del memory work di incidere ed influire profondamente sul discorso pubblico di una nazione. La dimensione pubblica del passato è una risorsa
privilegiata, per la definizione della quale competono nell’arena pubblica attori sociali e istituzionali
diversi. La memoria pubblica guarda al passato
come ad un ingrediente del presente: è ciò che del
passato resta ancora qui, nel discorso pubblico attuale. È quel pezzo di passato che non vuole andarsene e con cui siamo costretti a fare i conti nel
presente. In fondo è una strana concezione del passato, come qualcosa che definisce materialmente il
presente. La memoria pubblica guarda al passato
un po’ come a quella zavorra, da cui il presente non
può prescindere.
La memoria pubblica guarda
al passato come ad un ingrediente
del presente: è ciò che del
passato resta ancora qui, nel
discorso pubblico attuale.
È quel pezzo di passato che
non vuole andarsene e
con cui siamo costretti a fare
i conti nel presente
Un particolare filone dei memory studies ha messo
a tema il rapporto tra codici estetico-narrativi e passati controversi (ad esempio, Wagner-Pacifici e
Schwartz, 1991; Zolberg, 1996). Si è trattato di ricerche che hanno analizzato la capacità di un monumento, di una mostra, di un concerto, di uno
spettacolo teatrale, di un film, di un romanzo o di
un fumetto (come Mauss di Art Spiegelmann) di
contribuire all’iscrizione nel discorso pubblico di
passati altamente controversi. Si tratta di ricerche
che hanno analizzato il rapporto tra forma e contenuto della memoria mostrando come sia proprio in
tale rapporto che si articola la possibilità di plasmare le traiettorie future del passato.
Per ricollegarsi al caso di Lea Garofalo a cui è dedicato questo numero del giornale, si pensi al contributo dato dal film Lea del regista Marco Tullio
Giordana. Questo film, uscito in anteprima nazionale il 18 novembre del 2015, rappresenta un esempio emblematico di quel “grande cinema”, capace
di iscrivere passati altamente traumatici nella sfera
pubblica. Ma non si tratta soltanto di questo, un
film come Lea, ispirato alla storia vera di Lea Garofalo e di sua figlia Denise, offre un’opportunità
di democrazia per la società civile nel suo complesso. Lea fa memory work sul caso specifico di
questa vicenda, ma anche su quelli di tutte le vittime di mafia, ‘ndrangheta e camorra che sono state
dimenticate. Cosa ci offre in più la narrazione filmica rispetto a quella di un articolo apparso sulle
colonne di un quotidiano? Qual è lo specifico rapporto di questa forma filmica con il suo contenuto?
È che Lea nel film di questo grande regista prende
vita, diventa una di noi, una madre che lotta per il
futuro di sua figlia e persino Carlo Cosco e gli altri
protagonisti di questo crimine acquisiscono uno
spessore umano che non ci permette più di liquidarli come “mostri criminali” ma ci obbliga a confrontarci per davvero, a metterci in discussione, a
riconoscere la distanza ma anche la contiguità pericolosa nelle nostre quotidianità tra le culture mafiose e quelle della legalità. Un film come questo è
capace di operare un piccolo miracolo nella società
civile, perché cambia per sempre lo sguardo dei
propri spettatori: dopo aver visto film come Lea o
come I cento passi non si torna indietro, lo sguardo
naive sulle culture mafiose è decostruito per sempre. Di fatto i codici estetici offrono opportunità di
avviare e favorire memory works che quelli scientifici sembrano non poter eguagliare. I passati traumatici diventano sostenibili per il singolo e/o per
la collettività quando sono trasformati, resi visibili
e iscritti stabilmente nel tessuto civile di una nazione. Il cinema (ma anche il teatro, l’arte, la musica e la letteratura) diventano dispositivi,
macchine semiotiche capaci di dare voce agli invisibili, di re-includere gli esclusi nella comunità dei
viventi. Misconoscere e non onorare i propri morti
rappresenta una grave violazione della pietas, come
ci insegna Antigone, che mina il tessuto democratico di una nazione. Quando Joan Baez cantava Here’s to you, Nicola and Bart o Sting cantava They
dance alone la funzione politica e civile di queste
canzoni era ed è quella di onorare i nostri morti e
di riammettere coloro che ingiustamente sono stati
esclusi, negati e resi invisibili nella comunità dei
giusti.
Il ciclo sulla sostenibilità
Mario Panizza
La lectio di Matthew Evangelista,
che ha inaugurato
l’anno accademico
2016/17 di Roma
Tre, ha coinciso
con la conclusione
del ciclo sulla sostenibilità portato
avanti nel 2016
dalla nostra università
insieme
agli altri atenei del
Mario Panizza
Lazio.
Nel mese di settembre si è svolto un seminario residenziale internazionale, che raccogliendo presso
la nostra sede studenti universitari provenienti da
molti paesi del Mediterraneo, ha sviluppato un programma accademico multidisciplinare, suddiviso in
tre moduli: “Pace”, “Beni culturali” e “Sviluppo sostenibile”. Questo seminario è stato preceduto da
quattro convegni intitolati Dialoghi sulla sostenibilità – Roma 2016, che hanno accompagnato le istituzioni universitarie nelle attività di didattica e di
ricerca. I quattro incontri sono nati da un percorso
rigorosamente accademico, basato sull’approfondimento della conoscenza, con lo scopo di presentare
una riflessione sul tema della sostenibilità intesa
come responsabilità e declinata nei suoi aspetti più
significativi: “Ambiente, città e territorio”, “Scienza
e benessere”, “Sport e capitale umano”, “Una cultura per la società dell’informazione”.
Il tema della sostenibilità è stato pertanto affrontato
attraverso analisi e precisazioni molto ampie, costantemente alimentate da approfondimenti interdisciplinari. L’obiettivo è sempre stato quello di
proporre agli allievi riflessioni, scientificamente
avanzate, all’interno di un quadro divulgativo, attento a sollecitare approfondimenti rivolti a promuovere interessi e partecipazione sociale.
La sostenibilità individua un campo di approfondimenti sui quali è prioritario far soffermare gli studenti per indurli a comportamenti accorti, misurati
in ogni settore professionale in cui saranno chiamati
a operare. L’impegno accademico, soprattutto integrato dalle attività di contorno, deve puntare con
continuità alla formazione più ampia possibile degli
allievi, non dimenticando mai che dobbiamo traguardare il loro futuro non solo come laureati, ma
come cittadini capaci di leggere e interpretare l’ambiente in cui vivono. Devono essere preparati a saper
adattare il loro sapere a condizioni che possono mutare, sia per nuove esigenze culturali, scientifiche e
produttive, sia per eventuali cambiamenti del posto
di lavoro. Insomma, sempre più, le università devono impegnarsi a preparare professionalmente i
propri allievi, senza però dimenticare il dovere di
farne cittadini di un mondo globale: “sapere”, “saper
fare” e “saper essere” sono i principi etici, oltre che
formativi, alla base del nostro lavoro. Va quindi salvaguardata la dimensione culturale e sociale dello
studente-cittadino, futuro laureato, futuro cittadinolavoratore, accompagnandolo e aiutandolo nel percorso di approfondimento del suo sapere.
La lectio di Evangelista si è collocata al termine di
questo piano di azione accademico e insieme sociale,
affrontando un aspetto della sostenibilità che, per la
sua specificità disciplinare, era stato parzialmente
trascurato: il diritto, o meglio la ragione, nel rapporto
tra il singolo e lo stato. È questo un tema di sostenibilità che pone a confronto il rispetto dell’individualità e delle esigenze della tutela collettiva, soprattutto
nelle condizioni di confronto fisico, di conflitto sul
fronte di guerra. Le riflessioni, anche in questo caso,
sfuggono dal ristretto campo delle competenze monodisciplinari giuridiche: le questioni di diritto sconfinano nel campo dell’etica, della tecnologia, della
strategia militare e mutano in base alle condizioni
geografiche, economiche, antropologiche.
Come si ricava dal testo di Evangelista, la sostenibilità
sottende il più esteso concetto di democrazia, all’interno del quale la libertà e l’uguaglianza completano
i contorni di un territorio dove spesso i due termini
tendono a risultare conflittuali. Concetti apparentemente semplici e indiscutibili, dove il rispetto dell’essere umano appare del tutto lineare ed evidente,
nascondono valutazioni più complesse, da dipanare
attraverso interpretazioni sempre più approfondite. La
sicurezza del singolo e il rispetto degli interessi di un
intero popolo spesso divergono e aprono il campo a
un confronto dove è necessario comparare, servendosi
di unità di misura tra loro quasi sempre incomparabili,
i valori etici e le concrete opportunità di accesso alle
dotazioni primarie per sopravvivere.
7
Diritti umani, conflitti armati e il diritto internazionale:
il ruolo dell’individuo nel contesto europeo
Lectio magistralis del prof. Matthew Anthony Evangelista alla cerimonia di
inaugurazione dell’anno accademico 2016/2017
Magnifico Rettore, Autorità, Signore e Signori, la prima cosa
che vorrei dire è che sono grato al Rettore Mario Panizza per
l’onore che ha voluto farmi invitandomi a tenere questa lectio
magistralis. Credo di dovere il suo invito anche ai miei rapporti
profondi con il Dipartimento di Scienze politiche. Nel 2012 ho
trascorso un semestre come docente-borsista Fulbright presso
il Dipartimento. È stata per me un’esperienza molto ricca fare
la conoscenza di studenti di ottimo livello e di bravi colleghi
con i quali ho potuto condividere in profondità i miei interessi
di ricerca. Durante quel semestre, ho tenuto una lezione sul genere e i conflitti suscitati dal nazionalismo, ispirata al cinema
e al lavoro di Virginia Woolf, Le tre ghinee.
Il saggio, scritto da Woolf nel 1938, tratta di tre realtà – la
guerra, l’educazione universitaria, e le libere professioni –
tutte, secondo lei, dominate dagli uomini, e concepite per escludere le donne. Woolf è stata una scrittrice particolarmente spiritosa. Si è divertita a prendere in giro gli uomini – per esempio
i militari per le uniformi del suo tempo (con le loro stelle, righe,
e piume), i magistrati e gli avvocati inglesi per le loro toghe e
le peculiari parrucche incipriate, e, sì, anche i professori universitari per il loro abbigliamento accademico. Di conseguenza, mi sento un po’ strano, vestito per la prima volta in
questa bellissima toga rossa della mia Università di Cornell.
Tuttavia, mi piace immaginare che Virginia Woolf non mi
avrebbe criticato troppo e avrebbe apprezzato quello che ho da
dire su temi che sono stati molto importanti anche per lei: la
lotta per limitare la guerra e il rispetto della dignità dell’individuo.
Il mio tema è quello che in inglese una letteratura ogni giorno
crescente chiama «the individualization of international politics». Si tratta di un tema difficile. Non solo abbiamo di fronte
un termine infelice, come ogni termine di gergo, e per il quale mi scuso; ma si tratta di un termine non facilmente traducibile
in italiano e di uso non molto comune da voi. Di “individualizzazione” parlano in effetti la sociologia e la scienza politica,
che però, come nel caso di Zygmunt Bauman o di Ulrich Beck, si riferiscono a un processo sociale verso l’individualismo
oppure a un cambiamento sociale che chiede agli individui di costruire in autonomia la propria vita. Invece, di “umanizzazione” o piuttosto di “personalizzazione” si parla nel campo del diritto internazionale, quando ci si riferisce al fatto che esso
sta subendo una trasformazione che tende a rivalutare sempre più il ruolo dell’individuo rispetto a quello tradizionale dello
Stato, sia con riferimento al contenuto materiale del diritto internazionale, sia riguardo ai destinatari formali di tale diritto
(o soggetti nelle terminologia classica). Lo studioso che utilizza il termine nel modo più vicino al mio è la professoressa
Jennifer Welsh dell’Istituto Universitario Europeo, nel suo progetto, The Individualisation of War.
Matthew Anthony Evangelista (foto: Antonio Azzurro)
Cosa si intende dunque nel dibattito attuale con “individualizzazione”?
1. L’estensione agli individui di pratiche normalmente applicate agli stati;
2. un aumento del valore attribuito alla vita e alla dignità umana.
Ci piacerebbe pensare a questi cambiamenti come il prodotto della civiltà europea e occidentale, ma non possiamo dimenticare, allo stesso tempo, che è stata l’eredità del colonialismo, di due guerre mondiali e della Shoah a precedere (anche se
l’ha poi anche prodotta) la rivoluzione dei diritti umani della seconda metà del XX secolo. Questa rivoluzione continua ad
avere una vasta eco nel XXI secolo. L’attenzione al valore della vita individuale influenza profondamente oggi la relazione
tra politica internazionale e diritto internazionale. In particolare, essa tende ad annullare la distinzione tra quelli che erano
tre ambiti una volta nettamente distinti: il diritto internazionale umanitario (al quale ci si riferisce più comunemente come
diritto internazionale bellico), i diritti dell’uomo e il diritto penale internazionale.
In questa lectio desidero concentrarmi su tre paradossi di questo fenomeno:
1. Il diritto di guerra limita sempre più le pratiche militari allo scopo di garantire la protezione dei civili (e dei combattenti)
dai danni della guerra; però, allo stesso tempo, l’interpretazione del diritto da parte degli Stati, gli Stati Uniti per esempio,
permette l’espansione dell’uso della forza per attaccare le persone al di fuori dei conflitti armati riconosciuti, tramite
droni ed altri mezzi.
2. I tribunali penali internazionali e le forme ibride della giustizia transizionale perseguono certi individui; garantiscono
però ad altri l’impunità (ad esempio, ai leader di paesi potenti).
3. I nomi di alcune singole vittime della violenza e del terrore diventano noti come persone (e la loro cittadinanza viene riconosciuta: l’Islamista americano Anwar al Awlaki, per esempio, o il cooperante italiano Giovanni Lo Porto, tutti e due
uccisi dai droni); altri invece rimangono membri anonimi di categorie come “rifugiato” o “vittime di danni collaterali”.
Cosa intendo quando parlo dell’estensione agli individui di pratiche normalmente applicate agli stati? Diamo uno sguardo
alla dimensione giuridica del problema. La Corte internazionale di giustizia, fondata nel 1945, è nata come luogo per risolvere
le dispute fra Stati. Nel 2002, con l’entrata in vigore della Corte penale internazionale, gli Stati membri e il Procuratore della
Corte stessa possono tentare di portare a giudizio le persone ritenute responsabili di crimini internazionali: crimini di genocidio; crimini contro l’umanità; crimini di guerra; crimini di aggressione. La Corte penale internazionale non è l’unica: abbiamo anche i tribunali ad hoc (ad esempio, per l’ex Jugoslavia e il Ruanda), tribunali nazionali (come in Argentina e Cile)
e tribunali ibridi o misti nazionali-internazionali (come in Cambogia o Sierra Leone). Ora, tutte queste corti rappresentano
una sfida all’impunità tradizionale dei capi di Stato e di altri alti funzionari che commettono crimini di guerra e crimini
contro l’umanità.
L’Europa è stata in prima linea per quanto riguarda l’estensione dei diritti umani - e non solo perché la Corte penale internazionale è stata istituita dallo Statuto di Roma nel 1998. Un precedente importante è la Corte europea dei diritti dell’uomo,
fondata nel 1959. La Corte permette agli individui o ai loro rappresentanti (oltre che agli Stati) di portare a giudizio gli Stati
ritenuti responsabili di violazioni dei diritti umani. E questo è stato effettivamente fatto, e con successo, ad un ritmo crescente:
nel 2015, ad esempio, la Corte ha ricevuto più di 6.700 denunce relative alla sola Russia; su quelle recepite, la Corte ha pronunciato 116 sentenze, 109 delle quali hanno trovato la Russia responsabile di aver violato almeno un articolo della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Gli avvocati Julia Lapitskaya e William Abresch presso la New York University Law
School hanno fornito analisi importanti delle implicazioni di questi casi per il diritto internazionale.
Anche in campo militare, si è assistito a un fenomeno che gli osservatori hanno associato a una maggiore preoccupazione
per i diritti umani, e che hanno anzi considerato parte integrante della rivoluzione dei diritti umani stessa: e cioè a una crescente attenzione ai danni civili durante i conflitti armati. Certo, ci sono ragioni pragmatiche che spingono i militari a preoccuparsi dei civili, soprattutto nelle guerre di contro-insurrezione, quando l’esercito cerca di conquistare la lealtà dei civili
a spese dei ribelli. Esiste, del resto, una concomitante, e forse maggiore, attenzione da parte degli Stati a ridurre al minimo
i danni per i propri combattenti (quella che in inglese viene definita come force protection). Pensiamo alla guerra della NATO
contro la Serbia, dove i bombardamenti di Belgrado e di altre città uccisero circa 500 civili – un numero storicamente basso
– senza una sola perdita tra i piloti o i soldati. Anche questo suggerisce un apprezzamento crescente del valore fondamentale
della vita individuale.
Un altro elemento della tendenza alla individualizzazione della guerra si riferisce alla tecnologia - in particolare, al progresso
tecnologico nel settore dei velivoli a guida remota, o droni. Queste armi permettono agli Stati Uniti ed altri paesi di colpire
le persone sospettate di aver compiuto atti di terrorismo o di star pianificando attacchi contro le loro truppe. Naturalmente
la tecnologia non è perfetta, e gli attacchi di droni si basano talvolta su fonti di intelligence infondate. A volte scopriamo i
nomi degli obiettivi, quando gli attacchi hanno successo. Quasi mai sappiamo i nomi delle persone che hanno effettuato gli
attacchi, che si tratti di un membro della Cia, di un militare, o di un dipendente di una società militare privata. In alcuni casi
il presidente degli Stati Uniti ha riconosciuto il proprio ruolo nella decisione di attaccare. Di rado scopriamo i nomi degli innocenti uccisi dai droni.
Abbiamo esaminato finora i due diversi aspetti del fenomeno della “individualizzazione” della politica internazionale: abbiamo detto della “individualizzazione” del sistema del diritto penale internazionale, attraverso la quale anche i leader degli
Stati possono essere condannati per i loro crimini; abbiamo detto della individualizzazione delle azioni di guerra stesse. Le
due questioni trovano un punto di incontro in sentenze che dichiarano alcuni Stati responsabili per le singole perdite che i
loro militari hanno causato nel corso di un conflitto armato.
Normalmente i casi di morte durante i conflitti armati rientrano nel diritto bellico e la responsabilità di indagare e punire i
crimini spetta allo Stato. Ma anche qui gli europei sono stati degli innovatori. Negli ultimi anni, la Corte europea dei diritti
dell’uomo ha ampliato la sfera dei diritti umani per comprendere il conflitto armato - prima con riferimento alla Turchia nel
suo conflitto con i curdi e all’Inghilterra nel suo conflitto con l’esercito repubblicano irlandese, e poi con un gran numero di
sentenze recenti contro la Russia. A partire dal 2005, infatti, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha cominciato a ritenere
la Russia responsabile dei casi di morte e scomparsa avvenuti durante il conflitto armato con i separatisti ceceni, appellandosi
alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Le azioni della Russia sono state dichiarate una violazione del diritto alla
vita (art. 2), anche se le persone sono morte a causa di bombardamenti aerei o dell’uso di mine antiuomo. Si tratta di pratiche
militari che sono normalmente considerate sottoposte al diritto di guerra e, da alcuni punti di vista, alla lex specialis (che sostituisce le altre leggi durante un conflitto armato). Immaginate la situazione: la Russia ha deciso di non firmare il Trattato
di Ottawa per la messa al bando delle mine, ma è tuttavia responsabile per i morti causati dalle mine inesplose, perché queste
costituiscono una violazione del diritto alla vita. L’avvocato russo Kirill Koroteev, tra gli altri, è stato in prima linea nelle
controversie di questi casi alla Corte Europea e ha fornito analisi importanti delle loro conseguenze.
Un’altra area di sovrapposizione di conflitto armato, diritti umani e individualizzazione è rappresentata dalla crisi dei rifugiati,
una conseguenza delle guerre recenti e delle crescenti pressioni economiche, alcune di natura strutturale. Conosciamo infatti
i nomi di alcuni dei rifugiati quando i funzionari li esaminano per determinare il diritto di asilo o quando i loro cadaveri,
trovati sulla spiaggia, sono identificati nelle foto (ricordiamo tutti Aylan Kurdi, il bambino siriano di tre anni e la foto del
suo corpo senza vita sulla spiaggia). Ma molti altri di loro non vengono mai identificati, e neppure contati, quando cadono
preda di trafficanti e scompaiono o annegano in mare.
Fin qui la pressione drammatica della realtà. Ma in che modo gli studiosi delle relazioni internazionali e del diritto internazionale e i loro studenti possono affrontare i fenomeni che ho esaminato - cioè la crescente individualizzazione della politica
internazionale e la progressiva attenuazione dei confini tra i vari ambiti del diritto internazionale? Come si spiega, insomma,
la individualizzazione e quali sono le sue conseguenze? Proporrò solo alcune brevi osservazioni in merito.
Anche se vedo una individualizzazione crescente nella politica internazionale, non credo che possiamo spiegare questa situazione concentrando l’attenzione solo sugli individui a scapito degli Stati. Nel 2001 e soprattutto nel 2003 sembrò di primaria importanza che fosse presidente degli Stati Uniti un essere umano di nome George Bush. Nel 2001 egli reagì agli
attacchi terroristici con una guerra contro il terrorismo, e nel 2003 lanciò una invasione dell’Iraq. Con un presidente diverso,
avremmo evitato queste guerre? Non possiamo saperlo. Ma noi sappiamo che il successore di Bush, il vincitore del premio
Nobel per la pace Barack Obama, ha continuato la guerra al terrorismo e ha ampliato questa guerra a nuovi nemici che nel
2001 non esistevano e l’ha portata in paesi come lo Yemen e il Pakistan, con cui gli Stati Uniti non erano in guerra.
Cosa possiamo dire del un nuovo presidente Donald Trump? Tornerò su questo tema alla fine della mia relazione.
In genere sono scettico nel concedere agli individui un ruolo importante e crescente nelle analisi della politica internazionale.
Al di là dei limiti stessi del ruolo personale della leadership, vi sono però anche altri e più complessi motivi, motivi che, a
mio parere, riflettono una situazione davvero paradossale.
Primo. Anche se singoli individui sono stati in grado di adire le vie legali contro Stati potenti, come nel caso della Russia, i
governi hanno evitato di conformarsi in maniera significativa alle sentenze. Sì, la Russia paga le multe inflitte dalla Corte
europea, ma non ha cambiato il suo comportamento. In realtà si stanno commettendo in Siria gli stessi crimini di guerra che
sono stati commessi in Cecenia, in particolare il bombardamento indiscriminato di civili.
In secondo luogo, le recenti sentenze della Corte europea contro la Gran Bretagna hanno prodotto una reazione negativa, io
direi in inglese a backlash, un contraccolpo. C’è la possibilità di una sorta di eventuale nuova Brexit, dal Consiglio d’Europa
e dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Alcuni di voi si ricorderanno il film dei Monty Python, il famoso gruppo comico
britannico, Brian di Nazareth in italiano, e lo sketch in esso contenuto: «Cosa hanno fatto i romani per noi?». Un altro (meno
famoso) gruppo britannico ha girato uno sketch chiamato: «Cosa ha fatto la Corte europea dei diritti dell’uomo per noi?».
Se fate una ricerca su internet lo troverete subito. Si tratta, peraltro, di uno sketch veramente divertente, ma il rischio di backlash, di contraccolpo negativo, è un problema serio. È possibilissimo infatti che divenga sempre più difficile proteggere i
diritti umani degli individui a scapito della sovranità statale - e in particolare a scapito di ciò che gli Stati considerano un
proprio fondamentale diritto: usare la forza armata per scopi difensivi.
Un terzo paradosso. Nella sua analisi di come l’azione penale in difesa dei diritti umani sta cambiando la politica mondiale,
la professoressa Kathryn Sikkink ha individuato, come la chiama nel titolo del suo libro, The Justice Cascade, la «cascata
della giustizia». Ella mostra come in soli tre decenni molti individui in America Latina, in Europa, in Africa abbiano perso
la loro immunità e siano stati portati a giudizio per crimini contro l’umanità grazie ai tribunali internazionali, nazionali, o
ibridi, con un ampio rilievo mediatico e sentenze pesanti. Come dimenticare però che, allo stesso tempo, i criminali provenienti da paesi potenti, come gli Stati Uniti, da potenze regionali come il Messico, ma persino da stati deboli come il Sudan
sembrano poter godere ancora dell’impunità a tempo indeterminato? Nel caso del Sudan, il presidente Omar al-Bashir è
stato protetto dal governo del Sud Africa. Nel caso dei funzionari del Messico convolti nelle uccisioni degli studenti o di
quelli degli Stati Uniti che hanno autorizzato la tortura ed altri crimini, i governi stessi rifiutano di perseguirli.
In quarto luogo, gli Stati Uniti hanno perseguito una crescente “giuridificazione” della guerra, in particolare nell’uso di aerei
e droni, ma è legittimo dubitare che abbiano raggiunto qualche risultato. Come spiega la professoressa Janina Dill della
London School of Economics, i legali militari plasmano le leggi per servire i propri interessi, spesso a scapito delle vittime
civili della guerra. Gli Stati Uniti, per esempio, scelgono come obiettivi per attacchi dei droni individui al di fuori dei siti di
conflitto armato riconosciuti, e talvolta uccidono invece altre persone. Specialisti del diritto internazionale umanitario esprimono in merito viva preoccupazione per potenziali violazioni sia dello jus ad bellum (quando e dove è giustificato usare la
forza) sia dello jus in bello (quali pratiche militari all’interno di un conflitto sono legali, quali sono gli obiettivi legittimi). Il
governo degli Stati Uniti, però, riesce spesso a ridefinire le norme di legge per rendere le sue pratiche accettabili.
In ultimo luogo, anche se la situazione dei rifugiati turba la coscienza della pubblica opinione in tutto il mondo, la reazione
degli Stati ad essa non fa che rendere la situazione peggiore. Paradossalmente, la reazione può derivare dalla stessa preoccupazione per i diritti umani che motiva la simpatia iniziale per i rifugiati. Nel Mar Mediterraneo - «il confine più mortale
del mondo», come l’ha chiamato in un recente volume l’antropologo Maurizio Albahari che insegna negli Stati Uniti nell’Università di Notre Dame - gli Stati hanno effettuato operazioni con l’obiettivo umanitario di arrestare trafficanti di esseri
umani, ma con il risultato di criminalizzare gli sforzi (anche umanitari) di marinai che cercavano di salvare i rifugiati dal-
l’annegamento. Ciniche motivazioni politiche a parte, un terzo obiettivo umanitario - proteggere i propri cittadini - spesso
prevale sull’obiettivo umanitario (e l’obbligo legale) di accogliere i rifugiati. La situazione mina così gli sforzi di creare regioni senza frontiere, come l’Unione Europea. Ancora una volta, vediamo la riaffermazione della sovranità dello Stato a
scapito dei diritti individuali.
Dal punto di vista della spiegazione, l’approccio che viene dalle scienze politiche e da quelle delle relazioni internazionali
permette quindi sostanzialmente di identificare due processi concorrenti e in vivo contrasto nel mondo attuale. Il primo è la
tendenza a limitare le prerogative dello Stato nell’interesse dei diritti umani individuali in uno spirito di cosmopolitismo,
utilizzando il diritto internazionale e i movimenti sociali. Il secondo processo tende invece a una riaffermazione della sovranità
statale in difesa delle comunità politiche nazionali, in uno spirito di realismo, e forse a scapito dei diritti individuali. Però,
la spiegazione non è l’unica cosa di cui abbiamo bisogno. Dobbiamo chiedere alla filosofia morale di fornire una guida normativa. Dovremmo preferire la sovranità e la sicurezza nazionale oppure i diritti individuali? Abbiamo bisogno di scegliere
tra di loro?
Possiamo dare per certa una cosa: gli estremismi sono sempre evidenti. Negli Stati Uniti abbiamo un presidente eletto, che
assumerà l’incarico in gennaio. Donald Trump ha fatto la sua scelta tra sovranità statale e diritti individuali - con il rischio,
all’estero, di distruggere i rapporti con gli alleati e, nel nostro paese, di creare paura di discriminazione per motivi di religione,
genere, razza, origine nazionale, e status di immigrazione. Le sue politiche minacciano di esercitare una sorveglianza di
massa dei musulmani e l’espulsione di bambini e studenti nati negli Stati Uniti da genitori privi di documenti. Trump ha
promesso di reintrodurre le pratiche di tortura associate con l’amministrazione di George Bush - e “peggio”. I suoi sostenitori
sono stati incoraggiati già a mettere in pratica crimini ispirati dall’odio.
Tuttavia, Trump - che ha ricevuto meno voti popolari della sua rivale Hillary Clinton - ha anche avversari. Qui possiamo
sperare di vedere una certa resistenza alla individualizzazione della presidenza degli Stati Uniti, se i funzionari si rifiutano
di infrangere la legge o di compiere atti in violazione della nostra costituzione e del diritto internazionale. Vediamo anche
gli sforzi delle nostre università, dove i professori hanno promesso di proteggere i nostri studenti musulmani, i nostri studenti
stranieri, ed i nostri studenti privi di documenti. Chiediamo ai nostri presidi e rettori di dichiarare le università santuari per
la difesa dei nostri studenti vulnerabili. Si tratta di un piccolo passo, ma speriamo che le università possano dare un contributo
sia alla pace sia alla salvaguardia dei diritti individuali.
Nelle tre ghinee, Virginia Woolf scrive della discriminazione contro le donne ed esprime l’opinione che tale discriminazione
renda improbabile un sostegno femminile a una guerra, anche in difesa del paese in cui vivono. La voce di una donna rappresenta nel libro quest’opinione: «La “nostra” patria - dice - durante tutta la storia mi ha trattata da schiava, mi ha negato
l’istruzione e qualunque partecipazione alle sue ricchezze. La “nostra” patria cessa di essere mia se sposo uno straniero».
Poi, nel brano più famoso del saggio, Woolf scrive: «io in quanto donna, patria non ho. In quanto donna, non voglio alcuna
patria. In quanto donna, la mia patria è il mondo intero». Nella conclusione del suo saggio, il punto fondamentale sostenuto
da Woolf è che la prevenzione della guerra e la garanzia dei diritti individuali erano “cause inseparabili”. Forse il mondo era
più semplice nel 1938.
Cerimonia di inaugurazione dell'anno accademico 2016/2017 (foto: Antonio Azzurro)
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Che cos’è il ricordo? Cosa significa scrivere
la storia?
La memoria tra storia, etica e politica in Paul Ricœur
primo piano
Francesca Brezzi
Argomento inquietante, la memoria, che spazia
dalle memorie individuali a quelle
collettive, dalle
possibili distorsioni all’oblio vero
e proprio, da un
dovere di ricordare
a un obbligo di dimenticare (e forse
perdonare).
MaFrancesca Brezzi
tassa ingarbugliata
nella quale il filo conduttore è fornito dal filosofo
Paul Ricœur nel monumentale volume La memoria, la storia e l’oblio (2000). Si è trattato per il
pensatore di una navigazione con un tre alberi dotato di vele attorcigliate ma distinte, forse una
“odissea”, aggiungiamo, tre alberi (afferma lo
stesso autore rappresentati dai termini del titolo) intersecantesi in alcuni punti, autonomi in altri. Gettiamo solo dei colpi di sonda per comprendere
come i concetti stessi del libro siano significativi
per noi oggi. Vogliamo iniziare con un accenno
proprio a tale “attualità” per comprendere lo spessore di Ricœur nell’affrontare il tema: richiamandosi alla eccezionale esperienza della commissione
Verità e riconciliazione voluta da Mandela e dall’Arcivescovo Tutu per superare le drammatiche divisioni dell’apartheid in Sudafrica, il filosofo
assume questo modello delle memorie condivise
per costruire un nuovo ethos per l’Europa.
Ma il percorso è lungo e attraversa vari territori. Ricœur riconosce che la memoria è terreno impervio,
suscettibile di usi e abusi, specie nel versante pragmatico, ma insieme sottolinea la difficoltà di sottrarsi al potere seduttivo di essa.
La cornice generale è individuabile nella rappresentazione del passato, che rinvia a precise domande: che cosa è il ricordo? Che cosa significa
scrivere la storia?
Ravvisiamo la prima vela – interpretandone autonomamente il simbolo – nella integrazione di me-
moria individuale e storia, e ciò si attua in molteplici modalità.
Irrompe il drammatico Chi sono Io? che
ha sostituito il vuoto Io penso; vivere la
nostra vita nel tempo implica la
difficoltà di stabilire una nozione di
identità personale immutabile, che
potrebbe essere investita da troppa
memoria. Se Ricœur ha più volte
sottolineato il pericolo rappresentato
dagli eccessi della memoria, suggestive,
allora, sono le pagine scandite dai
termini dimenticanza, debito pagato,
infine perdono, quest’ultima esperienza
difficile, esperienza dell’incognito
Innanzi tutto la memoria e la storia racchiudono in
se stesse l’enigma di presenza/assenza, e l’apporto
della testimonianza, quale realtà di un evento trascorso, contrassegnata dal sigillo dell’anteriorità.
Lo sguardo retrospettivo non è sufficiente, tuttavia,
perché entrambe devono essere rivisitate quali
aperture al presente e Ricœur parla della equiprimordialità di passato, presente, futuro. Ma integrazione (o insegnamento) della memoria e di una
memoria avvertita significa che alla narrazione
scientifica fatta di date, avvenimenti, grandi personaggi, si aggiunge il ricordo delle microstorie del
passato: si deve pertanto dar voce agli anonimi
della storia che arrivano alla memoria del lettore
con le loro inquietudini e speranze, i successi e i
progetti mancati. Nel raccontare altrimenti la loro
storia, magari nell’intreccio di un racconto letterario o filmico si colmano le lacune e si producono
scritture nuove e si può richiamare Hannah Arendt
che invitava ad imparare il raccontare degli altri,
amici o avversari che siano, che può portare ad una
comprensione diversa. Tali inedite forme non aboliscono il sospetto della distorsione, ma la storia, a
sua volta, sarà «l’ereditiera sapiente della memoria» ed eserciterà la sua funzione valutativa, si realizzerà quale storia critica, in un gioco di equilibri
tra fedeltà della memoria e verità della
storia, tra fiducia e
sospetto, che esprimono una tonalità
di militanza o dimensione
etica
dell’una e dell’altra.
In tal modo diventiamo contemporanei degli uomini del
passato, rendiamo
loro omaggio nel riconoscercene debitori ed eredi. Ricœur
aggiunge che solo
con questa attenzione si riparano gli abusi, si risponde a «una domanda di riconoscimento che
viene principalmente dalle vittime dei più grandi
crimini» (e su questo aspetto torneremo nella conclusione). Non si devono immobilizzare i ricordi,
né rifiutarli, quindi né eccesso di memoria, né eccesso di oblio, il filosofo riprende un fecondo dialogo con Koselleck, che sosteneva, come è noto, la
dialettica di spazio di esperienza e orizzonte di attesa, in cui il primo indica le eredità, le tracce sedimentate del passato che si distaccano sul fondo
dell’orizzonte d’aspettativa, da cui deriva una visione dinamica della storia.
La seconda vela è il piano della storia che integra
la memoria: Ricœur tenta il superamento dell’egologismo presente nel soggettivismo moderno e affronta la storia come memoria collettiva del
passato, e di conseguenza, ancora, tratteggia il livello etico, individuato come il dovere della memoria che si presenta anche quale divieto di oblio.
Da qui il pressante invito ad una politica della giusta memoria come consapevolezza dell’adeguata
distanza, che si collega a quanto sopra indicato
quale reciproco rapporto critico di storia e memoria, relazione tra verità e fedeltà, tra fiducia e sospetto, legame critico si è detto o aporia, che ha
tuttavia il merito di ricordare i limiti del sapere storico, e riscoprire le sue fonti originarie nell’esperienza vissuta dagli esseri umani.
Non solo, ma si spezza in tal modo il determinismo
storico, ed emerge il valore terapeutico presente in
tale critica della fatalità (illusione retrospettiva),
che consente altresì di riconsiderare la tradizione.
Se i fatti accaduti non si possono più mutare, il loro
senso si offre a sempre nuove interpretazioni,
eventi avvenuti immutabili sono reinterpretati attraverso tale valutazione critica: la “guarigione”
patologie
dalle
della memoria, è
“utile” agli educatori pubblici, di
cui dovrebbero far
parte anche i politici, per risvegliare
e rianimare promesse non mantenute,
riattivare
significati dimenticati o percorrere
sentieri non intrapresi. La sopra
ricordata opposizione di verità e fedeltà, va decifrata – come è consuetudine in Ricœur – quale circolarità dialettica.
Infine l’ultima vela è rapprese complessa identità
è presente qui come un soggetto che indaga sul sé
nella situazione storica effettiva, quindi si ricapitolano tutti gli ambiti, storico, etico, politico. Lontano
da una visione totalizzante delle vicende umane
riunite in una filosofia della storia, Ricœur propone
una “filosofia critica della storia” e conduce un’ermeneutica della vita umana che, svolgendosi nel
tempo, è storica e, come detto, espressione di memoria e di oblio.
In questo senso l’indagine richiama con forza il
tema dell’identità: irrompe il drammatico Chi sono
Io? che ha sostituito il vuoto Io penso; vivere la nostra vita nel tempo implica la difficoltà di stabilire
una nozione di identità personale immutabile, che
potrebbe essere investita da troppa memoria. Se Ricœur ha più volte sottolineato il pericolo rappresentato dagli eccessi della memoria, suggestive,
allora, sono le pagine scandite dai termini dimenticanza, debito pagato, infine perdono, quest’ultima
esperienza difficile, esperienza dell’incognito.
Emerge l’apporto positivo dell’oblio, non individuabile quale considerazione patologica della memoria ma segno della vulnerabilità della condizione
umana e non solo nell’ambito conoscitivo, bensì in
quello etico e religioso; in riferimento al perdono
è anche una condizione dell’interpretazione del
passato, che Ricœur coniuga con alcune prassi psicoanalitiche, freudiane in particolare, come il processo di rimemorazione e l’elaborazione del lutto,
ravvicinabili al lavoro della memoria. Ma nuovamente, anzi con maggiore profondità, il problema
epistemologico nato dalla veracità o meno della
memoria, diventa questione morale e politica, si
presenta cioè quale divieto di oblio. E ritroviamo
pertanto il richiamo all’immaginare e al narrare,
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così caro a Ricœur, come opportunità di valutazione diversa, giacché la sofferenza inflitta agli altri
è il punto di partenza di un ordine non più politico,
retto dalla giustizia, ma di un livello guidato dall’amore, come Ricœur aveva già affermato (Amore
e giustizia); in questo testo il filosofo vuole riequilibrare l’idea di un imperativo della memoria con
“un lavoro” della memoria stessa, non rivendicare
il ricordo contro la storia dunque poiché le memorie ferite difendono la loro disgrazia contro l’ignoranza o l’oblio.
Ricoeur si sofferma con la consueta analiticità distinguendo due livelli di oblio, uno profondo e uno
manifesto, e su questo secondo ci soffermiamo:
esso è caratterizzato dal diverso ruolo della memoria, che se nel primo agisce come ritenzione e conservazione, qui è funzione di richiamo,
rammemorazione, evocazione, gioco di comparire
e scomparire.
In questo livello troviamo l’oblio attivo, interpretato come perdono, intermediario nel tormentato
itinere che comincia nella memoria e prosegue
nell’oblio. Non solo ma si allarga a raggiera a molti
altri concetti, di rilevante densità come il perdono
difficile contro il perdono facile, e sullo sfondo
tutta la riflessione ricœuriana relativa alla giustizia.
Per completare il travaglio della memoria si apre la
dimensione del perdono quale azione politica e
lungi dal confinare il perdono solo in una dimensione poetica dell’esistenza in cui il religioso rappresenterebbe il culmine, Ricœur conclude con un
forte richiamo, sulla scia di Hannah Arendt, alla
grandezza politica del perdono, presente in certi
gesti significativi, in cui non si chiede l’oblio, ma
si opera per spezzare il debito (il cancelliere tedesco Brandt, il presidente ceco Havel, il re di Spagna
o il presidente del Portogallo che chiedono perdono
alle vittime di atti esecrandi commessi dai loro predecessori).
Conclusivamente vorremmo avanzare due considerazioni: se l’attenzione del filosofo è volta al presente, forte è il richiamo al dovere della memoria
contro vari tentativi di dimenticare i periodi oscuri
della storia individuale e collettiva, dovere che consentirà in fine di parlare di una memoria felice e di
un oblio felice, riequilibrando gli scarti del passato,
pagandone i debiti insoluti e intravedendo l’esperienza del perdono; il rischio dell’oblio, infatti, può
colpire i vinti, gli assenti dalle trame dei fatti, coloro che non hanno avuto parola nella storia, di cui
il filosofo cerca le tracce, e nei confronti dei quali
il dovere della memoria diventa quasi un gesto di
sepoltura.
In secondo luogo ritorniamo al richiamo iniziale
per mostrare come questa ardua problematica
abbia impegnato il filosofo non solo nell’opera ricordata, ma anche in molti saggi, in particolare ci
riferiamo al testo Quale ethos nuovo per l’Europa?
in cui affronta un tema urgente per noi oggi: come
costruire una identità europea, che riconosca l’unità
nella diversità, che armonizzi le varie identità che
la compongono?
Ricœur indica tre possibili livelli di “mediazione
culturale” per disegnare l’ethos europeo: il modello
della traduzione, il modello delle memorie condivise, il modello del perdono, piani tutti che egli
considera in un crescendo di densità spirituale. Lo
scambio delle memorie, (di cui la commissione Verità e riconciliazione è un esempio altissimo) per
esempio, tra vittima e colpevole, tra i vinti e vincitori è il segno di una etica della comunicazione, ovvero di un confronto, di una lettura plurale degli
stessi eventi, e, nel caso del sopra ricordato esprimono un raccontare altrimenti, in cui la prospettiva
è quella sì della sofferenza in una rimeditazione del
passato da parte di entrambi in vista del perdono,
come detto.
Ritorna il narrare diversamente il passato dal punto
di vista altrui, determinante come condivisione
simbolica e commemorazione di eventi fondatori
di altre culture nazionali, di minoranze etniche, o
di confessioni religiose.
La memoria, l’intreccio di storia e storie e il loro
uso critico assumono la funzione di consapevolezza
morale del passato.
Monumento in onore di Willy Brandt a Varsavia nella omonima piazza poco lontano dal Monumento agli Eroi del
Ghetto (foto: Ortobagi - CC BY-SA 3.0)
L’archivio proustiano
La memoria nella Recherche
Marco Piazza
À la recherche du
temps perdu di
Marcel Proust è
nota come quel
romanzo costruito
intorno ai momenti della memoria involontaria, il
cui prototipo è
l’episodio della
madeleine inzuppata in una tazza
di tè, che, nella sua
Marco Piazza
brusca e imprevista restituzione di un passato a cui non vi è accesso
grazie al consueto ricorso alla memoria volontaria,
segna l’aprirsi della ricostruzione del proprio passato da parte del protagonista-narratore. Una narrazione che, dopo migliaia di pagine, può chiudersi
solo dopo che una serie di altri episodi analoghi occorsi al protagonista mentre si trova nell’anticamera di un palazzo dove attende di essere
annunciato, gli hanno svelato le ragioni della «felicità» sprigionata da quel primo episodio: gli rivelano cioè che dentro di noi giace «un libro interiore
di segni» che possiamo decifrare, ricavandone preziose verità, solo se ci affidiamo a determinati indizi e smettiamo di affidarci alla sola «intelligenza
astratta», cioè alla ragione utilitaristica. Quel libro,
nella fiction romanzesca, fa tutt’uno con l’«opera
d’arte» che il protagonista, al termine del romanzo
che abbiamo tra le mani, si prepara a scrivere lavorando sui propri ricordi. La circolarità istituita da
Proust è evidente: l’opera alla cui creazione il protagonista si accinge a dedicarsi non è altro che il
romanzo stesso che abbiamo appena finito di leggere. Una circolarità resa possibile anche dal fatto
che la Recherche non è un romanzo autobiografico
tout court, in quanto l’io narrante è strategicamente
tenuto distinto dal proprio sé da parte di Proust, al
di là della possibilità di rintracciare, con diversi
gradi di probabilità, dietro ai singoli personaggi e
agli eventi narrati, persone e fatti che hanno segnato a vario titolo l’esistenza del romanziere.
La memoria fornisce dunque all’autore il materiale
più prezioso per l’opera d’arte che questi per così
dire porta dentro di sé e che, per noi lettori, funge
da analogon di quel processo di decifrazione di sé
e di ricostruzione del proprio passato che Proust ci
raccomanda di intraprendere per non sprecare la
nostra esistenza. In altre parole, la memoria ci offre
la possibilità di sottrarci ai condizionamenti cui ci
sottopone il nostro essere abitualmente immersi
nella contingenza del tempo, nel divenire stesso da
cui rischiamo di non emergere mai. Per questo, nel
suo introdurre il passato nel presente, la memoria
«sopprime proprio questa grande dimensione del
Tempo secondo cui la vita si realizza». Da questo
punto di vista i momenti della memoria involontaria sono emblematici, perché rappresentano l’irruzione brusca e imprevista del passato nel presente,
tale da obbligarci a sospendere la temporalità routinaria e da permetterci di cogliere una sensazione
al di là della sua contingenza, in quella che Proust,
con un linguaggio derivato dalle sue letture filosofiche, e soprattutto da Schopenhauer, amava chiamare la sua «essenza». In effetti, la restituzione
operata dalla memoria involontaria è integrale, in
quanto si tratta di una memoria affettiva: il passato
ritrovato risorge insieme agli stati d’animo e alle
sensazioni che hanno segnato quel momento su cui
era calato l’oblio. E perché questa restituzione
possa darsi è necessaria proprio l’opera dell’oblio,
ovvero la distanza che separa la sensazione passata
da quella presente. Un’operazione impossibile per
la memoria volontaria, dal momento che questa si
appoggia su quei ricordi del passato che abbiamo
continuato a mantenere vivi, selezionandoli ed ela-
«Da dove era potuta giungermi una gioia così potente? Sentivo che era legata al sapore del tè e del dolce, ma lo superava
infinitamente, non doveva condividerne la natura» (Marcel
Proust, Alla ricerca del tempo perduto, Dalla parte di Swann).
Fotografia riprodotta per gentile concessione di Ilena Antici
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Stereoscopio: apparecchio ottico per ottenere l’impressione di rilievo da immagini piane. Sotto le lenti dello stereoscopio sono
poste due immagini di un oggetto uguali, ma riprese da angoli visuali leggermente diversi – per riprodurre la visione dell’oggetto
di ciascuno dei due occhi dell’osservatore –, in modo che una sia guardata con l’occhio destro e l’altra con il sinistro. Osservandole contemporaneamente esse danno luogo a un’unica immagine virtuale, che in conseguenza della visione binoculare appare
tridimensionale
borandoli coscientemente, e che quindi sono mescolati a elementi della nostra vita successiva.
Come intuisce però anche il lettore meno avvertito,
il quale, una volta giunto al termine della Recherche, ripensi alle migliaia di pagine percorse, non è
affidandosi ai soli momenti della memoria involontaria che diventa possibile accedere alla verità e, in
quanto artisti, ricrearla, tradurla in un «bello stile»,
inteso come forma di un contenuto che scaturirebbe
per così dire autonomamente dal cortocircuito mnemonico. Così come suggerisce lo stesso romanzo
nella sua integralità, le impressioni fornite dalla
memoria involontaria – «preziose», ma «troppo
rare» – sono solo l’innesco per una simile opera di
traduzione: il protagonista, una volta comprese le
potenzialità della memoria grazie all’illuminazione
prodotta dai momenti della memoria involontaria,
si metterà al lavoro, sviluppando deliberatamente
quanto suggerito dal caso.
Che cosa allora suggerisce davvero la memoria involontaria al protagonista, e, di conseguenza a noi
lettori? Suggerisce la possibilità di sottrarci al
flusso fagocitante del tempo per effettuare dei riconoscimenti, per raggiungere delle conoscenze
che non siano l’effetto della semplice applicazione
della nostra intelligenza strumentale alla realtà che
ci circonda e che non siano condizionate in maniera
inconsapevole dalle passioni che stiamo vivendo.
Noi, per Proust, riconosciamo qualcosa o qualcuno
nella sua verità più essenziale soltanto nel confronto tra passato e presente, quando giustapponiamo tra loro diverse immagini di un evento o di
una persona (o di noi stessi). Un’operazione, questa, che possiamo compiere volontariamente, ma
che ci dimentichiamo, per così dire, di effettuare
per effetto dell’«abitudine», il cui potere ambiguo
ha un’enorme presa sulla nostra esistenza. I momenti della memoria involontaria corrispondono
dunque a una sorta di risveglio dall’abbandono ane-
stetizzante alla contingenza del tempo, ossia a un
pungolo che, in forza della sua imprevedibilità, ci
stimola a sobbarcarci un lavoro di ricerca e di comparazione, faticoso, ma necessario se vogliamo sottrarci alla confusione del presente e decifrare i
segni nascosti nel nostro libro interiore.
La restituzione operata dalla memoria
involontaria è integrale, in quanto si
tratta di una memoria affettiva: il
passato ritrovato risorge insieme agli
stati d’animo e alle sensazioni che
hanno segnato quel momento su cui era
calato l’oblio. E perché questa
restituzione possa darsi è necessaria
proprio l’opera dell’oblio, ovvero la
distanza che separa la sensazione
passata da quella presente
Al di là di alcune affermazioni un po’ perentorie e
forse anche un po’ dogmatiche contenute nella
parte finale della Recherche – che però, va ricordato, fu scritta da Proust, insieme all’incipit, prima
di tante pagine che compongono il romanzo, quale
ce l’ha consegnato la sua morte prematura – o nelle
interviste coeve all’uscita di Du coté de chez
Swann, sono proprio le migliaia di pagine contenute nell’arco lirico sotteso dalla madeleine, da un
lato, e dagli episodi narrati nell’ultimo volume
dell’opera, dall’altro, a fornire la prova dell’alleanza necessaria tra «memoria involontaria» e «memoria volontaria», tra «inconscio» e «intelligenza»,
tra illuminazione e razionalità. Un’alleanza il cui
prodotto non si declina tanto nella scoperta di
quelle essenze promesse nel ‘trattato di estetica’
contenuto nel Temps retrouvé, quanto nella lenta
distillazione delle «leggi pure del nostro essere» –
cioè dei nostri comportamenti e delle nostre passioni –, resa possibile dall’applicazione ostinata di
quel metodo di confronto che ha la sua matrice
nella riflessione sulla memoria e sul suo statuto di
deposito o archivio di immagini, molte delle quali
custodite a nostra insaputa e latenti come possono
esserlo dei «negativi» fotografici mai sviluppati
prima. La caoticità di un simile deposito è solo apparente, perché ciò che conta è la prospettiva stereoscopica con cui le diverse immagini stoccate
nella memoria vengono fatte interagire tra loro, determinando un effetto di profondità che rinvia alla
profondità delle conoscenze che possiamo derivare
da simili confronti operati nella nostra coscienza.
Definita in questi termini la dottrina proustiana
della memoria e determinata anche la funzione che
quest’ultima svolge rispetto a quella «ricerca della
verità» che costituisce il meccanismo propulsore di
tutto il romanzo – che dunque non è per nulla
un’antologia di ricordi irrelati tra loro o di riflessioni un po’ snobistiche sul faubourg Saint-Germain – diventa più evidente l’originalità del
pensiero di Proust anche rispetto alle fonti filosofiche a cui è stato via via accostato, si tratti dell’idealismo tedesco – in primis Schelling – o della
dottrina di Bergson sul tempo e sulla memoria. Nel
suo sostanziale eclettismo, Proust combina elementi della riflessione spiritualistica con altri derivanti dalla psicologia positivistisca, amalgamandoli
in un discorso che risente, anche nell’uso della terminologia filosofica, di una serie di letture asistematiche, da Platone a Schopenhauer, da Kant a
Nietzsche. La buona conoscenza da parte sua delle
teorie contenute nell’Essai sur les données immédiates de la conscience e in Matière et mémoire
rientra così in un quadro composito in cui la funzione assegnata alla memoria non è certo quella di
fungere da ponte tra la materia e lo spirito, come
per Bergson, ma, semmai quella di poterci sottrarre
al flusso della temporalità restando però pienamente nella coscienza, e senza fuoriuscire dall’immanenza del tempo. Se entrambi, Bergson e Proust,
condividono l’idea che l’arte è quell’attività che dà
espressione a ciò che è individuale, disfacendo il
lavoro compiuto dall’intelligenza astratta e consentendo l’accesso alle «profondità dell’io», i ricordi
attinti grazie alla memoria involontaria restano inseparabili dalla sensazione presente e dunque non
possono essere concepiti come degli analoghi dei
«ricordi puri» bergsoniani. In altre parole, se entrambi fanno ricorso alla teoria delle due memorie,
una legata all’azione, l’altra alla rappresentazione,
ed entrambi condividono l’idea che il nostro cervello operi una selezione dei ricordi, non c’è un
equivalente proustiano della memoria pura bergsoniana, perché Proust, sulla scorta della psicologia
tradizionale, concepisce tutti i ricordi come tracce
cerebrali, e a differenza di Bergson non ritiene che
tutto il nostro passato sia conservato nella memoria.
È invece convinto che quella parte di passato che
si è conservata lo è con tutte le sue tonalità affettive, ma che l’oblio e il lavoro quotidiano della
«memoria dell’intelligenza» ci allontanano da essa.
Di qui anche la sostanziale frammentazione dell’io,
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che, non appena smette di vivere sulla superficie di
se stesso, si rende conto della molteplicità di identità che ne costruiscono per così dire la sua stessa
storia. Di qui, però, pure lo sforzo che dobbiamo
operare, non solo per sottrarci alla vita mondana e
tentare di comprendere qualcosa di noi stessi scendendo nelle profondità dell’io, ma anche e soprattutto per praticare quei riconoscimenti che possono
dare risultati solo attuando il «lavoro profondo
dell’intelligenza» al di fuori del ristretto campo dell’utilità immediata e muovendo dalla discontinuità
del nostro io per giungere, assai faticosamente, alla
sua ricomposizione, ex post, in quella visione stereoscopica che, collocando un’intera serie di immagini a uguale distanza l’una dall’altra e tutte
rendendole disponibili in un medesimo istante alla
coscienza, ci sottrae al flusso eracliteo del divenire!
Esattamente come per il protagonista, quando comprende il significato che gli può dischiudere la partecipazione al ricevimento a cui è stato invitato:
«una matinée come quella in cui mi trovavo era
qualcosa di molto più prezioso di un’immagine del
passato, mi offriva, per così dire, tutte le immagini
successive, e che non avevo mai viste, che separavano il passato dal presente, meglio ancora: il rapporto tra presente e passato; era come ciò che una
volta si chiamava una veduta ottica, ma una veduta
ottica degli anni, la veduta non d’un momento, ma
d’una persona situata nella prospettiva deformante
del Tempo».
«Quanto al libro interiore di tali segni sconosciuti (segni in
rilievo, sembrava, che la mia attenzione, esplorando il subcosciente, cercava, urtava, contornava come un palombaro
che scandagli) nessuno poteva aiutarmi con nessuna regola a
decifrarlo: perché la sua lettura consiste in un atto di creazione in cui nessuno può sostituirci, e nemmeno collaborare
con noi» (Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto, Il
Tempo ritrovato)
Per un approfondimento bibliografico
M. Proust, À la recherche du temps perdu, J.-Y. Tadié (éd.), 4 voll., Gallimard, Paris, 1987-1989, tr. it. di G.
Raboni, Alla ricerca del tempo perduto, L. De Maria (a cura di), note di A. Beretta Anguissola, D. Galateria, prefazione di C. Bo, 4. voll., Mondadori, Milano, 1983-1993.
L. Fraisse, L’éclectisme philosophique de Marcel Proust, Paris, Presses Universitaires de Paris-Sorbonne, 2013.
H.R. Jauss, Zeit und Erinnerung in Marcel Proust »À la recherche du temps perdu«. Ein Beitrag zur Theorie des
Romans, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1986, tr. it. Tempo e ricordo nella Recherche di Marcel Proust, Firenze,
Le Lettere, 2003.
J.N. Megay, Bergson et Proust. Essai de mise au point de la question de l’influence de Bergson sur Proust, Paris,
Vrin, 1976.
M. Piazza, Passione e conoscenza in Proust, Milano, Guerini e Associati, 1998.
M. Piazza, La camera oscura della memoria. L’archivio proustiano, in G. Girimonti Greco, S. Martina, M. Piazza
(a cura di), Proust e gli oggetti, Firenze, Le Cariti, 2012, pp. 161-172.
S. Poggi, Gli istanti del ricordo. Memoria e afasia in Proust e Bergson, Bologna, Il Mulino, 1991.
R. Shattuck, Proust’s binoculars: a study of memory, time, and recognition in À la recherche du temps perdu,
New York, Random House, 1963.
Sant’Agostino tra memoria e ricerca della verità
Un’analisi filosofica della relazione tra memoria e verità nelle Confessioni
Benedetto Ippolito
È molto difficile
riuscire a sintetizzare in poche battute il significato
incommensurabile dell’intera
opera filosofica di
sant’Agostino.
Tutto ciò è reso
inattuabile
non
soltanto dal corpus
dei suoi scritti,
enorme dal punto
Benedetto Ippolito
di vista quantitativo, ma anche dal carattere occasionale che li contraddistingue, legato profondamente al vissuto
biografico dell’autore. Le opere di Agostino, infatti,
subiscono e ricevono dalla vita personale gli impulsi più importanti, e il loro stile poco sistematico
è tipico di una permanente e inquieta evoluzione.
Oltretutto, come ben si sa, la teologia agostiniana
è penetrata con una forza decisiva in ogni ambito
della cultura medievale e moderna, giungendo a
contrassegnare in modo consapevole e implicito la
sua stessa andatura e il suo stesso evolversi storico.
Anche unicamente a voler concentrare lo sforzo interpretativo sul solo tema della memoria, l’impresa
oltrepassa, quindi, la disponibilità di un articolo divulgativo.
Il fascino dello stile personale di Agostino si può
compendiare però nella coincidenza riuscita tra la
profondità introspettiva, speculativa e spirituale
dell’uomo e la straordinaria capacità di uscire dallo
stretto ambito della tecnica accademica per rendersi
fruibile dalla schiera affascinata dei lettori non specializzati.
È pertanto interessante tentare di spiegare ed evidenziare alcuni aspetti decisivi dell’analisi agostiniana della memoria, tenendo presente
l’indiscutibile fatto che essa rappresenta il filo che
collega e anima l’intero suo itinerario sul senso
della vita.
Possiamo, in effetti, definire sinteticamente il percorso filosofico di Agostino come un’incessante ricerca della verità. Egli come persona, prima ancora
che come intellettuale, ha concepito costantemente
l’esistenza come un cammino, un itinerario, il
quale, provocato dal problema stesso dell’essere e
innescato dal dilemma struggente della morte, si è
indirizzato, in modo incessante e a tratti perfino
spasmodico, alla stregua di una soluzione che fosse
in grado di giustificare in modo integrale, completo
ed esauriente il suo significato.
Il ricordo è saldato strettamente sia a
quanto è intuito e sia a quanto invece è
dimenticato. L’oblio, come perdita della
memoria, consente infatti di
comprendere ancora meglio il valore
intrinseco del ricordare, vero ponte che
unisce il sensibile al sovrasensibile, il
visibile all’invisibile e il tempo
all’eternità
È noto a tutti, d’altronde, anche soltanto dalla semplice lettura delle Confessioni, come la scoperta
della cultura filosofica, prima, e, poi, la passione
delusa per le scuole manichee abbiano spinto Agostino a trovare soltanto in Dio, e nella fede cristiana
che lo rivela, la spiegazione risolutiva, anelata e
ambita fin dall’infanzia. E guardando le cose dalla
conclusione, si rivela sicuramente decisivo il valore
della memoria, l’importanza del ricordo, la preziosa dote di saper trattenere, conservare e rendere
significativo il passato da parte della coscienza
umana. Insomma, Agostino può essere definito il
“filosofo della memoria”, al pari di come solitamente lo si definisce, a giusta ragione, il “filosofo
dell’interiorità”.
Ora, nel raccontare i contorni del suo cammino
d’innalzamento verso Dio, il X Libro delle Confessioni si concentra precisamente su questa particolare attitudine immaginativa dell’uomo che è la
memoria, una potenza spirituale naturale in grado,
attraverso la ritenzione del passato nel presente
della coscienza, di permettere il protendersi della
persona verso il futuro: un percorso conoscitivo e
trascendentale, dall’orizzonte sensibile alla verità
intelligibile, che viene descritto fenomenologicamente con categorie tipicamente neoplatoniche.
È appunto su questa importante spiegazione agostiniana che concentrerò anch’io l’attenzione, con
l’obiettivo di enucleare il senso che Agostino gli
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Antonello da Messina, Sant'Agostino, 1472,
Galleria regionale di Palazzo Abatellis di Palermo
assegna nell’intero quadro complessivo della sua
filosofia.
Fin dalle prime battute, egli affronta la questione
mettendo in relazione la memoria con la conoscenza sensibile. La percezione della realtà, che
passa attraverso il nostro corpo, si confronta con un
insieme caotico di rappresentazioni. L’esperienza
svanirebbe in un permanente divenire, privo di
qualsiasi significato stabile, se l’uomo non avesse
la possibilità di trattenere le sensazioni avute, non
solo conservandole dentro di sé, ma anche ordinandole nel loro giusto valore: «Lì si conservano, distinte per specie, le cose che, ciascuna per il proprio
accesso, vi furono introdotte: la luce e tutti i colori
e le forme dei corpi attraverso gli occhi; attraverso
gli orecchi invece tutte le varietà dei suoni, e tutti
gli odori per l’accesso delle narici, tutti i sapori per
l’accesso della bocca, mentre per la sensibilità diffusa in tutto il corpo la durezza e mollezza, il caldo
o freddo, il liscio o aspro, il pesante o leggero sia
all’esterno sia all’interno del corpo stesso. Tutte
queste cose la memoria accoglie nella sua vasta caverna, nelle sue, come dire, pieghe segrete e ineffabili, per richiamarle e rivederle all’occorrenza.
Tutte vi entrano, ciascuna per la sua porta, e vi vengono riposte» (Le Confessioni, L. X, 8.13).
Questo profondo contatto, dunque, tra esperienza
sensibile e conservazione cosciente costituisce il
modo in cui è possibile all’uomo comprendere
quanto viene appreso in modo iniziale dai sensi,
trattenendone i contenuti appresi dall’esterno nell’interiorità.
Fermare il vissuto, conservandolo consapevolmente nella coscienza, non è soltanto il mezzo con
cui si può ‘gestire’ il mondo sensibile, ma è lo strumento che consente la sopravvivenza stessa della
persona, rendendo fattibile la selezione e la scelta
opportuna delle cose. Senza memoria, infatti, non
sarebbe immaginabile isolare ciò che è dannoso da
ciò che è vantaggioso, e quindi nessuno potrebbe
difendersi dalla morte: «Là stanno tutte le cose di
cui serbo il ricordo, sperimentate di persona o udite
da altri. Dalla stessa, copiosa riserva traggo via via
sempre nuovi raffronti tra le cose sperimentate, o
udite e sulla scorta dell’esperienza credute; non
solo collegandole al passato, ma intessendo sopra
di esse anche azioni, eventi e speranze future, e
sempre a tutte pensando come a cose presenti» (Ivi,
8.14).
L’uomo è, al contempo, alla ricerca del
tempo perduto e perduto nella ricerca
della Verità, vale a dire indirizzato
verso quel piano ontologico
trascendente, nel cui presente eterno è
nascosto quanto si genera, diviene e si
corrompe nell’evolversi continuo degli
eventi temporali
Comincia così progressivamente a manifestarsi la
meravigliosa potenza della memoria, unita alla straordinaria capacità umana di oltrepassare l’orizzonte
strettamente carnale della conoscenza, mediante la
scoperta della riflessione.
L’uomo, infatti, è grazie alla memoria che può
comprendere il significato dell’esperienza, ed è
grazie alla memoria che può far fruttificare la facoltà immaginativa come strumento di rappresentazione unificante del molteplice.
La funzione gnoseologica della memoria, tuttavia,
non si ferma solo a questa mansione di tipo sensibile. Poco oltre Agostino collega la memoria al ricordo e alla possibilità stessa che il soggetto possa
sviluppare dentro la propria anima i contenuti sensibili convertendoli in nozioni concettuali.
Se le immagini non fossero conservate nella memoria, non rimarrebbero come esperienza trattenuta e rammemorata dall’intelligenza. Tale
contenuto resterebbe infruttuoso, infatti, se non po-
tesse divenire, in qualità di vissuto sensibile e cosciente, oggetto della comprensione riflessiva e intellettiva. Egli si spinge così a considerare il
pensiero come vero e proprio cogito, flusso di coscienza nel quale l’attività dell’intelletto opera, utilizzando la memoria, per giungere a definire e a
cogliere i significati ideali, logici e matematici
delle cose: «La memoria contiene anche i rapporti
e le innumerevoli leggi dell’aritmetica e della geometria, senza che nessun senso corporeo ve ne
abbia impressa alcuna, poiché non sono dotate di
colore né di voce né di odore, né si gustano o si palpano» (Ivi, 12.19).
Quest’apertura è fondamentale per intendere la funzione conoscitiva che la memoria permette di realizzare, nonché il movimento di trascendimento che
si compie, attraverso l’unificazione del flusso temporale da parte del ricordo, dalla dimensione materiale della percezione, nelle Confessioni
identificata con il caos del mondo sensibile, a
quella spirituale dell’intelligenza, nella quale si
rende intuibile all’uomo la realtà immateriale, universale e permanente della verità.
Certo la difficoltà della relazione non sfugge ad
Agostino, che si domanda se il ricordo sia intrinsecamente vincolato all’immaginazione, oppure se
sia attraverso esso che la memoria apre all’uomo la
possibilità di andare oltre la pura presenza rappresentativa di ordine sensibile.
La risposta è articolata mediante il ricorso al gioco
che s’instaura nella coscienza tra presente e assente. La capacità immaginativa è certamente congiunta alla ricezione sensibile cui la
rappresentazione presente è vincolata. Tuttavia con
la capacità di conservare anche quanto è ormai assente e che afferisce al passato come vissuto, il ricordo connette l’attualità del mondo sensibile
all’inattualità dell’assente.
Perciò il ricordo è saldato strettamente sia a quanto
è intuito e sia a quanto invece è dimenticato.
L’oblio, come perdita della memoria, consente infatti di comprendere ancora meglio il valore intrinseco del ricordare, vero ponte che unisce il
sensibile al sovrasensibile, il visibile all’invisibile
e il tempo all’eternità. Nella misura in cui ricordare
significa non dimenticare, trattenere nell’orizzonte
del saputo e del cosciente quanto altrimenti si perderebbe nell’oblio, ecco così che lo spirito umano
può, tramite il nesso sottile tra essere e non essere,
oltrepassare la temporalità e l’orizzonte stesso della
propria finitezza.
La descrizione che Agostino propone di questo delicato passaggio merita di essere letta per intero:
«Ecco, io, elevandomi per mezzo del mio spirito
sino a te fisso sopra di me, supererò anche questa
mia facoltà, cui si dà il nome di memoria, nell’anelito di coglierti da dove si può coglierti, e di aderire
a te da dove si può aderire a te. Hanno infatti la memoria anche le bestie e gli uccelli, altrimenti non
ritroverebbero i loro covi e i loro nidi e le molte
altre cose ad essi abituali, poiché senza memoria
non potrebbero neppure acquistare un’abitudine.
Supererò, dunque, anche la memoria per cogliere
Colui, che mi distinse dai quadrupedi e mi fece più
sapiente dei volatili del cielo. Supererò anche la
memoria, ma per trovarti dove, o vero bene, o sicura dolcezza, per trovarti dove? Trovarti fuori
della mia memoria, significa averti scordato. Ma
neppure potrei trovarti, se non avessi ricordo di te»
(Ivi, 17.26).
Secondo Agostino, a muoverci verso la
memoria e il ricordo, in definitiva, è il
desiderio universale di felicità, un
anelito interiore che, nello stesso modo
in cui misura il tempo, rende possibile
la ricerca dell’eternità
La memoria non è, dunque, assente nel mondo animale; anche se nell’uomo essa diventa lo specchio
nel quale appare il volto autentico della Verità,
identificato con Dio e comprensibile dall’intelligenza.
I ricordi, infatti, solo parzialmente conservati, sono
invece trattenuti e raccolti nell’eternità dell’intelligenza divina. Per questo l’uomo è, al contempo,
alla ricerca del tempo perduto e perduto nella ricerca della Verità, vale a dire indirizzato verso quel
piano ontologico trascendente, nel cui presente
eterno è nascosto quanto si genera, diviene e si corrompe nell’evolversi continuo degli eventi temporali.
Il vissuto consapevole, la sfera propria della coscienza, unifica, conserva, mantiene in sé l’intelligibilità dell’esperienza, oltrepassandola in
un’origine che unisce e attrae il tutto, dandogli
senso logico.
Secondo Agostino, a muoverci verso la memoria e
il ricordo, in definitiva, è il desiderio universale di
felicità, un anelito interiore che, nello stesso modo
in cui misura il tempo, rende possibile la ricerca
dell’eternità. Non a caso, Severino Boezio, nel III
Libro della Consolazione della filosofia, rifacendosi ad Agostino, si spingerà fino a proporre una
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perfetta identità tra l’eternità divina e la felicità
umana, definita nei termini di un «possesso simultaneo e perfetto della beatitudine senza fine».
Il bene sommo, d’altronde, non può che essere
sempre ricercato come suprema felicità dall’uomo;
e tale orizzonte propriamente divino, trascendendo
il tempo nella sua permanente immutabilità, oltrepassa il mondo, pur essendo tuttavia una Verità che
fa la propria apparizione parziale nella memoria
umana e si lascia intendere dall’intelligenza creata
come causa creatrice della realtà. Il chiaroscuro del
ricordo, perciò, è per l’uomo volontà di trattenere
il passato e necessità di trascenderlo nell’eternità
di Dio.
L’anamnesi, che Platone nel Menone
aveva indicato come cammino di
recupero delle Idee partendo dal
sensibile, si trasforma in Agostino nel
cammino interiore della coscienza
cristiana dal ricordo temporale
all’essenza personale della Verità eterna
La conclusione di questo excursus agostiniano su
memoria e tempo ha, evidentemente, una risultante
teologica e metafisica di straordinaria importanza.
Il significato dell’essere che diviene è la sua origine
eterna e trascendente, luogo della Verità assente,
che si partecipa nel tempo attraverso l’intimo legame tra lo spirito umano e la sua volontà di far
memoria delle cose vissute nella continua ricerca
del ricordo eterno di Dio. In tal modo l’anamnesi,
che Platone nel Menone aveva indicato come cammino di recupero delle Idee partendo dal sensibile,
si trasforma in Agostino nel cammino interiore
della coscienza cristiana dal ricordo temporale all’essenza personale della Verità eterna: «Dove dunque ti trovai, per conoscerti? Certo non eri già nella
mia memoria prima che ti conoscessi. Dove dunque
ti trovai, per conoscerti, se non in te, sopra di me?
Lì non v’è spazio dovunque: ci allontaniamo, ci avviciniamo, e non v’è spazio dovunque. Tu, la Verità, siedi alto sopra tutti coloro che ti consultano e
rispondi contemporaneamente a tutti coloro che ti
consultano anche su cose diverse. Le tue risposte
sono chiare, ma non tutti le odono chiaramente.
Ognuno ti consulta su ciò che vuole, ma non sempre ode la risposta che vuole. Servo tuo più fedele
è quello che non mira a udire da te ciò che vuole,
ma a volere piuttosto ciò che da te ode» (Ivi,
26.37).
Questa nota conclusiva spiega meglio di qualunque
commento il significato esatto della memoria nelle
Confessioni: il ricordo della vita vissuta e, al tempo
stesso, il dialogo personale con l’eternità di Dio,
sono i luoghi ideali nei quali l’uomo può trovare il
senso della propria fragile e limitata esistenza, soddisfacendo il proprio desiderio inappagato e ineliminabile di felicità, raccolto e conservato nella
memoria interiore.
Si riconosce, in definitiva, all’interno dell’ossatura
sottile di questo contatto tra tempo ed eternità, il
modo in cui la dimensione della fede cristiana diventi per Agostino una risorsa mai esauribile dalla
filosofia, sebbene assolutamente imprescindibile
per l’operare della sua razionalità, una sorta di dialogo permanente nel quale l’intelligenza umana si
scopre in grado progressivamente, tramite la memoria, di partecipare e sentire dentro di sé la Verità
divina, anche senza poter esaurire mai completamente nel divenire limitato e temporale dell’esistenza personale l’interezza del suo mistero,
infinito e trascendente.
La memoria della guerra
Ricordare il passato perchè non ritorni
Alessandro Cavalli
Fare esperienza
della guerra nell’arco della propria
vita è qualcosa di
comune alla maggior parte degli
esseri umani che
hanno vissuto in
quasi tutte le epoche
della storia. Nella
storia europea degli
ultimi secoli non vi
è praticamente stata
Alessandro Cavalli
generazione che non
abbia pagato un tributo di sangue, di atrocità, di
saccheggi, di distruzioni, di violenze fatte e subite,
di devastazioni fisiche e morali. I periodi di pace
sono stati brevi intervalli, temporanee sospensioni
di operazioni di guerra. La guerra è stata per secoli
una condizione endemica e i libri di storia, ma
anche molta letteratura, il cinema, la televisione testimoniano della presenza costante della guerra.
Chi non ha letto almeno uno dei libri di Tolstoj, di
Erich-Maria Remarque o di Elsa Morante (ma
l’elenco è ovviamente lunghissimo)?
Un conto però è leggere o guardare la guerra al cinema o alla televisione e un conto è farne esperienza diretta. È vero che viviamo nella società
dell’informazione e che di scene di guerra sono
pieni i telegiornali, ma tra l’informazione e l’esperienza c’è sempre una bella differenza. Voglio dire:
la guerra, fa differenza vederla in faccia coi propri
occhi, sentirne i suoni e i rumori con le proprie
orecchie, avvertirne gli odori acri col proprio naso.
E un conto ancora è esser stati addestrati a farla, a
tirare fuori il coraggio e a vincere la paura, a celebrare gli eroi, a subire e a provocare sofferenze e
morte. Per millenni, le virtù militari sono state additate come ideali ai quali ispirare la vita, al punto
di esser pronti a sacrificarla.
Per la prima volta nella storia di (alcune) società
europee le armi tacciono da 70 anni e per la prima
volta la grande maggioranza della popolazione non
ha conosciuto l’esperienza della guerra nell’arco
della propria esistenza. Ci sono delle eccezioni: alcuni paesi sono stati coinvolti nelle guerre che
hanno segnato la fine del colonialismo: la Francia
in Algeria e Indocina, il Belgio in Congo, il Portogallo in Angola, altre hanno vissuto le guerre succedute al crollo della repubblica jugoslava, altri
paesi, e anche l’Italia, hanno partecipato alle cosiddette “missioni di pace” in zone calde del mondo.
Ma, salvo Serbia, Croazia, Bosnia e Kossovo, la
vita quotidiana delle masse non è stata sconvolta
dalla presenza della guerra sul proprio territorio. È
un fatto straordinario, di cui non sempre ci si rende
conto, che i giovani d’oggi, ma anche i loro genitori, non hanno vissuto nessuna esperienza diretta
della guerra. Per trovare dei testimoni diretti bisogna risalire alla generazione dei nonni e ai loro ricordi infantili, perché coloro che la guerra l’hanno
vissuta sui campi di battaglia, o nelle città bombardate, sono troppo vecchi o in gran parte già scomparsi.
Per la prima volta nella storia di
(alcune) società europee le armi
tacciono da 70 anni e per la prima volta
la grande maggioranza della
popolazione non ha conosciuto
l’esperienza della guerra nell’arco della
propria esistenza. È un fatto
straordinario che i giovani d’oggi, ma
anche i loro genitori, non hanno vissuto
nessuna esperienza diretta della guerra.
Per trovare dei testimoni diretti bisogna
risalire alla generazione dei nonni e ai
loro ricordi infantili, perché coloro che
la guerra l’hanno vissuta sui campi di
battaglia, o nelle città bombardate, sono
troppo vecchi o in gran
parte già scomparsi
Il fatto di non avere esperienza della guerra e neppure testimoni vicini che hanno fatto quell’esperienza è un’immensa fortuna di coloro che oggi
sono giovani. Ma questa “immensa fortuna” ha
però un lato che può apparire inquietante. L’assenza di memoria può essere insidiosa. In che senso
si può parlare di “assenza di memoria”? Abbiamo
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Cimitero monumentale americano dei Falciani (FI)
visto che la “memoria famigliare”, veicolata da
adulti con i quali si ha un legame forte, è debole e
in via di estinzione nell’arco di un decennio o poco
più. Questa fonte di memoria si sta rapidamente
esaurendo con la scomparsa dei testimoni diretti.
Tuttavia, di guerre sono pieni, anche troppo, i libri
di storia che si studiano a scuola. Potrebbe essere
una fonte importante, ma è anche vero che, così
come spesso viene fatto, l’insegnamento della storia lascia tracce deboli nella mente (e anche nel
cuore) delle studentesse e degli studenti. Sappiamo
poco dell’effetto dell’insegnamento della storia. È
noto che la storia non è una materia molto amata
dalla maggioranza degli studenti. Solo dall’inizio
di questo secolo in Italia la storia contemporanea è
entrata ufficialmente nei programmi scolastici e di
didattica della storia non si sono molto occupati gli
esperti di educazione.
La guerra, tuttavia, non è presente solo nei libri di
storia. È presente spesso anche nel paesaggio urbano. Si pensi ai tanti “monumenti ai caduti” che
si trovano praticamente in ogni centro abitato
(quale paese non ha avuto i suoi morti? ), ai monumenti di “eroi a cavallo” tipici soprattutto nell’Ottocento, alla toponomastica che spesso ricorda date
e battaglie, normalmente vittoriose (raramente si ricordano anche le sconfitte, a meno che non siano
legate ad atti di eroismo individuale o collettivo).
Quasi in ogni città c’è una via o una piazza intitolate a Vittorio Veneto, ma non ci sono, che io sappia, vie Caporetto. I cimiteri di guerra sono sparsi
in ogni angolo di Europa, a testimonianza delle
“guerre civili” che hanno insanguinato il continente. Non sarebbe male che i cimiteri di guerra diventassero mete abituali delle visite delle
scolaresche; la vista di file lunghissime e ordinate
di croci bianche dà veramente l’idea (emotiva e non
solo cognitiva) di che cos’è un’ecatombe di massa.
A Cassino, ad esempio, vi sono più di 4000 tombe
di soldati inglesi, canadesi, australiani, neo-zelandesi, sud-africani, indiani, pakistani e accanto altri
due cimiteri delle vittime tedesche e polacche e non
molto lontano dei caduti francesi e italiani, nonché
di quasi 300 non identificati.
Il tempo trascorso modifica sempre il
ricordo, nel senso che il ricordo è
sempre un atto che ha luogo nel
presente anche se si riferisce al passato.
Nell’arco dei decenni poi, le occasioni
del ricordare sono state ripetute e in
contesti spesso diversi, i ricordi di oggi
sono ricordi di ricordi di ieri
e dell’altro ieri
C’è però anche un’altra fonte alla quale è possibile
attingere per non perdere la memoria dell’esperienza della guerra: coloro che, nati grosso modo
tra il 1932 e il 1942, hanno vissuto gli anni dell’infanzia durante la guerra e oggi sono più o meno ottantenni. Si può fare affidamento sulla loro
memoria? Il tempo trascorso modifica sempre il ricordo, nel senso che il ricordo è sempre un atto che
ha luogo nel presente anche se si riferisce al passato. Nell’arco dei decenni poi, le occasioni del ricordare sono state ripetute e in contesti spesso
diversi, i ricordi di oggi sono ricordi di ricordi di
ieri e dell’altro ieri. Se però all’origine c’è un nocciolo duro di esperienza, ogni rielaborazione successiva può forse aggiungere stratificazioni
interpretative, ma non cancellare l’autenticità del
vissuto. Quando chiedo ai miei coetanei (o quasi)
di raccontare quello che si ricordano dei tempi di
guerra, ne risultano sempre testimonianze vivissime. I vecchi hanno difficoltà col passato recente
e soprattutto recentissimo, ma la loro memoria
della guerra è vivissima e fondamentalmente integra. Certo, i vecchi ricordano oggi quello che
hanno visto settant’anni fa con gli occhi da bambini.
I vecchi ricordano oggi quello che
hanno visto settant’anni fa con gli occhi
da bambini. Quando si riesce in qualche
modo a distinguere nel ricordo di oggi
lo sguardo del bambino di allora si nota
che queste donne e questi uomini hanno
vissuto nella loro infanzia come “normali” situazioni che, secondo i nostri
standard attuali, normali non erano:
mangiare quello che si trovava senza
poter scegliere, andare a dormire vestiti
per poter sempre scappare in cantina,
rovistare nelle macerie per recuperare
resti di abitazioni distrutte
Quando si riesce in qualche modo a distinguere nel
ricordo di oggi lo sguardo del bambino di allora si
nota che queste donne e questi uomini hanno vissuto nella loro infanzia come “normali” situazioni
che, secondo i nostri standard attuali, normali non
erano: mangiare quello che si trovava senza poter
scegliere, andare a dormire vestiti per poter sempre
scappare in cantina, rovistare nelle macerie per recuperare resti di abitazioni distrutte, quando non
assistere ad arresti, fucilazioni e altre atrocità. Mi
chiedo: come mai questo senso di “normalità”?
Forse perché i bambini non hanno ancora criteri per
distinguere ciò che è normale da ciò che non lo è.
Forse perché gli adulti allora, i genitori, hanno cercato di schermare i bambini dalle esperienze più
crude, forse perché hanno nascosto le loro angosce
e le loro paure per non spaventarli. Forse perché
anche loro si sono fatti forza per poter sopravvivere
in situazioni eccezionali e hanno dovuto alzare la
soglia della loro sensibilità emotiva. Sono tutte interpretazioni plausibili. Certo è che la guerra è sempre un trauma per chi la vive a qualsiasi età: un
trauma per gli anziani e i vecchi in ansia per i loro
figli e nipoti al fronte, forse morti, feriti o dispersi,
un trauma per chi teme di perdere o perde effettivamente la casa e i propri averi, un trauma ovviamente per chi combatte e rischia ogni giorno di
perdere la vita e di veder morire i propri commilitoni, un trauma anche per gli imboscati che rischiano il plotone di esecuzione, un trauma anche
per i bambini e le bambine che, senza saperlo, non
hanno potuto avere un’infanzia “normale”. Per
questo forse è bene che i ricordi di coloro che erano
allora bambini, e che vivono ancora tra noi, non
vengano del tutto perduti.
*Se tra coloro che leggono questo articolo vi è qualcuno che
ha nonne o nonni che hanno voglia di raccontare i loro ricordi
del tempo di guerra, può segnalarlo a: [email protected]
25
26
Memorie a lungo termine
Sopravvivere all’obsolescenza delle tecnologie
Paolo Atzeni, Riccardo Torlone
Quando le curatrici
di questa rivista
hanno contattato docenti di ingegneria
informatica, per un
contributo sulla memoria, pensavano
probabilmente a discussioni sulla tecnologia che è alla
base dei dispositivi
di memorizzazione
dei sistemi informaPaolo Atzeni
tici. Ciò ha certamente senso, vista la straordinaria crescita di questi
dispositivi in termini di quantità di informazioni
gestibili, in spazi sempre più piccoli e con velocità
di accesso sempre maggiori. Per limitarci ad un
esempio molto piccolo, il calcolatore portatile su
cui viene scritto questo articolo ha un disco di 256
gigabyte, è cioè in grado di memorizzare 256 miliardi di byte, dove un byte possiamo immaginare
corrisponda ad un carattere tipografico (anche se in
effetti contiene più informazione). Se pensiamo che
una pagina di un libro contiene di solito qualche
migliaio di caratteri, il nostro piccolo disco permette di memorizzare il testo di cento milioni di
pagine, cioè duecentomila libri di cinquecento pagine ciascuno. Analogamente, esso potrebbe mantenere alcune centinaia di migliaia di fotografie con
buona risoluzione.
La capacità delle memorie elettroniche è quindi
enorme e sarebbe certamente molto interessante illustrare la tecnologia che ha permesso questo sviluppo.
Riteniamo però che, per un pubblico ampio, possa
essere preferibile discutere altri temi, che hanno
implicazioni rilevanti e spesso sottovalutate.
In particolare, vogliamo osservare che la grande disponibilità di spazio porta ciascuno di noi a pensare
di poter memorizzare tutte le informazioni di interesse per poterle avere a portata di mano in ogni
momento, anche in un futuro lontano. Ma siamo sicuri che sia così? Le persone metodiche delle generazioni precedenti le nostre (ad esempio il padre
di uno di noi), utilizzavano agende
cartacee, in cui registravano tutti gli
appuntamenti e gli
impegni e, a conclusione di ciascun
anno, le conservavano con cura;
oggi le possiamo
tranquillamente
consultare. Possiamo dire lo Riccardo Torlone
stesso pensando
alle nostre agende elettroniche? Analogamente, abbiamo per anni conservato i negativi e le stampe
delle nostre fotografie, che, magari un po’ invecchiate, sono comunque a nostra disposizione per
una rapida rassegna nostalgica. Molti di noi hanno
qualche centinaio di foto all’anno, per venti o
trent’anni, per un totale di qualche migliaio, a completa disposizione in un cassetto, tutt’al più un po’
sbiadite. Oggi, con le macchine digitali e i telefoni
di nuova generazione, scattiamo molte più foto, che
pubblichiamo su vari siti, lasciamo sulla scheda di
memoria o salviamo su qualche disco, ma spesso
senza una strategia precisa e, cambiando dispositivo, non sappiamo dove siano e non siamo in
grado di recuperarle.
Un punto importante è l’evoluzione della tecnologia: le prime agende elettroniche e le prime fotocamere digitali utilizzavano componenti (ad
esempio schede di memoria, porte di comunicazione e formati di memorizzazione) specifici, da
cui non è possibile recuperare le informazioni se
non con il dispositivo originale. D’altra parte,
chiunque di noi abbia utilizzato calcolatori da più
di quindici anni ricorda diversi formati di dischi e
dischetti e probabilmente ha dati memorizzati su
qualcuno di essi che non riesce più a recuperare.
Negli ultimi anni abbiamo imparato a prestare più
attenzione e quindi ogni volta che passiamo a un
nuovo calcolatore, avendo sempre più memoria a
disposizione, cerchiamo e di solito riusciamo a trasferire tutti i dati, anche in ambienti diversi (ad
esempio diverso sistema operativo). Ma sicura-
trebbero portarci a perdere il nostro patrimonio informativo.
La Stele di Rosetta, British Museum
(foto: Hans Hillewaert©)
mente può continuare a succedere che parte del materiale di interesse (ad esempio fotografie, ma
anche documenti o messaggi di posta elettronica)
sia gestito in un formato “proprietario”, cioè legato
ad uno specifico programma, senza il quale non
possiamo utilizzarlo, o magari lo possiamo utilizzare, ma perdendo parte delle informazioni o dovendo curare una qualche conversione.
Banalmente, ognuno di noi ha spesso qualche difficoltà nel trasferire la rubrica da un telefono cellulare a un altro. Pensando ad un problema molto
più serio, al giorno d’oggi le radiografie sono
spesso rese disponibili solo su CD-Rom.
A parte il fatto che molti calcolatori non hanno più
il lettore di CD, si nota che le strutture sanitarie
(come uno di noi ha sperimentato recentemente)
talvolta forniscono CD con radiografie direttamente compatibili con un solo sistema operativo e
diventano difficili da consultare per molti medici.
Se la consultazione è difficile ora, come sarà fra
venti o trent’anni? Non si deve poi trascurare il
fatto che tutti i supporti possono deteriorarsi o guastarsi: questo tipo di problemi si previene di solito
con la duplicazione, anche se si rischia di sottovalutare le implicazioni, oppure, negli ultimi anni, rivolgendosi a fornitori di servizi cloud, che
memorizzano i nostri dati in rete. In quest’ultimo
caso, a parte i rischi legati alla privacy che sono
pure rilevanti, un mancato rinnovo del nostro abbonamento oppure il fallimento del fornitore po-
L’attenzione al tipo di dispositivo di memorizzazione e al programma in grado di leggere e interpretare i dati ci porta a ragionare su un aspetto che
è importante per qualunque rappresentazione,
anche tradizionale: le informazioni sono memorizzate in una forma codificata (nei calcolatori in formato binario, cioè costituito da sequenze di simboli
ognuno dei quali è uno zero oppure un uno, a loro
volta gestiti con una qualche tecnologia elettronica). Questa rappresentazione, per essere compresa, ha bisogno di un meccanismo di estrazione
(e quindi ad esempio del lettore di floppy disk o di
CD opportuno) e, soprattutto, di interpretazione.
Per interpretare, abbiamo bisogno, di solito, di un
programma che trasformi la rappresentazione in
qualcosa per noi comprensibile (ad esempio, in una
immagine radiografica) o comunque di un sistema
di traduzione o qualcosa del genere: per citare un
esempio a tutti noto, anche se non tecnologico, i
geroglifici sono risultati comprensibili solo attraverso una chiave di traduzione quale la stele di Rosetta.
La capacità delle memorie
elettroniche è enorme,
tuttavia la grande disponibilità
di spazio porta ciascuno di noi a
pensare di poter memorizzare
tutte le informazioni di interesse
per poterle avere a portata di mano
in ogni momento, anche in un futuro
lontano. Ma siamo sicuri
che sia così?
Può essere interessante, al riguardo, un riferimento
alle “placche dei Pioneer” e al “Voyager Golden
Record”: negli anni Settanta del secolo scorso,
nell’ambito di alcune missioni spaziali, in particolare quelle delle sonde Pioneer e Voyager, furono
predisposti “messaggi” scritti su placche e su dischi
diretti a creature extraterrestri, con l’ambizione di
rendere i messaggi stessi informativi e autoesplicativi. In riferimento all’importanza della conservazione delle informazioni prodotte dagli esseri
umani nel tempo (e in questo caso anche nello spazio), resta comunque emblematica la frase registrata sul disco d’oro a bordo del Voyager I e
firmata dal Presidente degli Stati Uniti d’America
ai tempi del suo lancio, Jimmy Carter: «[Con que-
27
28
«Questo è un regalo di un piccolo e distante pianeta, un frammento dei nostri suoni, della nostra scienza, delle nostre immagini,
della nostra musica, dei nostri pensieri e sentimenti. Stiamo cercando di sopravvivere ai nostri tempi, così da poter vivere fino
ai vostri» è il messaggio del Presidente degli Stati Uniti Jimmy Carter inciso sul Voyager Golden Record un disco per grammofono inserito nelle due sonde spaziali del Programma Voyager, lanciato nel 1977, contenente saluti in 60 lingue, campioni di
musica da diverse culture ed epoche e suoni naturali e artificiali dalla Terra. È concepito per qualunque forma di vita extraterrestre
o per la specie umana del futuro che lo possa trovare. La copertura ha il duplice scopo di proteggere il disco e di fornire a un
eventuale scopritore una chiave per la sua riproduzione. (foto: NASA - Great Images in NASA Description, Pubblico dominio,
https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=6455682)
sto messaggio] Stiamo cercando di sopravvivere ai
nostri tempi, così da poter vivere fino ai vostri».
Queste iniziative sono probabilmente velleitarie e
contraddittorie e molto probabilmente non porteranno ad alcun risultato, ma confermano l’esistenza
di un problema importante: la capacità di memorizzare dati non è quindi sufficiente, da sola, a garantire la conservazione delle informazioni. È
anche necessario conservare con cura i meccanismi
di decodifica e interpretazione dei dati per garantirne l’effettiva fruizione da parte di una larga platea (perché no, anche aliena) e, soprattutto, da parte
delle generazioni future. È questo il principale
obiettivo dei “metadati”, ovvero di dati creati appositamente per descrivere altri dati, che spesso si
raccomanda di memorizzare insieme ai dati stessi.
Un esempio semplice, al quale si fa spesso ricorso
anche nella gestione degli archivi cartacei personali, è quello delle note che vengono aggiunte a
margine di testi o immagini per descriverne il contenuto, semplificarne la catalogazione e favorirne
il recupero. A questo proposito, è interessante osservare che anche i più moderni sistemi, come i social network, offrono strumenti per svolgere con
semplicità non solo l’attività di creazione di conte-
nuti ma anche quella della loro annotazione. I meccanismi e gli strumenti per associare metadati ai
dati sono però molto variegati e quindi, come
spesso succede nel mondo dell’informatica, si
creano notevoli opportunità ma, al tempo stesso,
nuovi ostacoli.
In conclusione, possiamo senz’altro affermare che
gli strumenti informatici offrono interessanti strumenti di memorizzazione, i quali però, per raggiungere in pieno gli obiettivi che si prefiggono e
contribuire a una “memoria a lungo termine,”
debbo essere utilizzati con metodo e continuità, con
opportune duplicazioni per resistere ai guasti, con
attenzione all’evoluzione delle tecnologie e, soprattutto, alla comprensibilità della rappresentazione.
Per tutti questi motivi, una delle direzioni di studio
e ricerca nel settore delle basi di dati, di interesse
da quando la disciplina si è formata, cinquant’anni
fa ma tuttora rilevante è quella dei modelli e della
relativa semantica, cioè della loro interpretazione,
nonché delle tecniche di trasformazione dal un modello all’altro, tema al quale gli autori di questo articolo hanno contribuito in modo significativo.
«Noi siamo la memoria che abbiamo e la responsabilità che
ci assumiamo. Senza memoria non esistiamo e senza
responsabilità forse non meritiamo di esistere».
José Saramago
«Ne avevano parlato molte altre volte ma iill p
pass
passato
è
: Come la vita procede esso si muta perché
se
semp nuovo
sempre
nuov
nu
risalgono a galla delle parti che parevano sprofondate
‡ŽŽǯ‘„Žio mentre altre scompaiono perché oramai poco
Il pre
presente
prese
dirige
diri il p
pass
passa
passato come
com un dir
dirett
direttore
importanti. Il
G·R
G·RUF
G·RUFKHVWUDLVXRLVXRQDWRUL. Gli occorrono questi o quei
G·RUFKHVWUDLVXRLVXRQD
G·RUFKHVWUDLVXRLVXRQ
G·RUFKHVWUDLVXRLVX
G·RUFKHVWUDLVXRL
G·RUFKHVWUDLVXR
G·RUFKHVWUDLV
G·RUFKHVWU
G·RUFKH
suoni, non altri. E perciò il passato sembra ora tanto lungo
ed ora tanto breve. Ri
Risuon o aammu
Risu
Risuona
mmutolisce. Nel presente
mmutolisc
mmutolis
”‹˜‡”„‡”ƒ•‘Ž‘“—‡ŽŽƒ’ƒ”–‡…Šǯ°”‹…Š‹ƒƒ–ƒ’‡”‹ŽŽ—‹ƒ”Ž‘‘
per offuscarlo».
Italo Svevo
‹“}”JI?DLP@NOJ^A<OO<G<>DOOVyH<?DM@G<UDJIDOM<G@HDNPM@?@GNPJ
NK<UDJ@BGD<QQ@IDH@IOD?@GNPJK<NN<OJ“}”
'LTXHVW·RQGDFKHULIOXLVFHGDLULFRUGLODFLWWjV·LPEHYHFRPHXQD
spugna e si dilata.
Una descrizione di Zaira quale è oggi dovrebbe contenere tutto il passato di
Zaira.
<G<>DOOVIJI?D>@DGNPJK<NN<OJyGJ>JIOD@I@>JH@G@GDI@@?„PI<H<IJy
scritto negli spigoli delle vie, nelle griglie delle finestre, negli scorrimano delle
scale, nelle antenne dei parafulmini, nelle aste delle bandiere, ogni segmento
rigato a sua volta di graffi, seghettature, intagli, svirgole»
Italo Calvino
30
In Codice Ratio
Collaborazione uomo-macchina per una interpretazione più ricca del passato
Mario De Nonno, Paolo Merialdo
Analizzando i testi
contenuti nelle pagine web è possibile
estrarre importanti
correlazioni tra entità quali persone,
eventi, luoghi, organizzazioni. Le grandi compagnie web
utilizzano queste
Mario De Nonno
correlazioni per offrirci strumenti di ricerca sempre più potenti e precisi (si provi a
chiedere a Google: who are the daughters of the director of fanny and alexander), e per condurre analisi su dinamiche e comportamenti sociali
complessi.
Nonostante il web costituisca la più grande collezione di documenti prodotti dall’uomo, esso
contiene solo una piccola parte delle fonti storiche custodite negli archivi tradizionali. Ad
esempio, se rappresentiamo il patrimonio documentario dell’Archivio Segreto Vaticano attraverso i suoi 85km di scaffali lineari, possiamo
concludere che il web non ne offre che pochi
millimetri. L’applicazione delle tecniche di
estrazione di dati e conoscenza sui contenuti di
questi archivi offrirebbe nuovi e potenti strumenti per un’interpretazione più ricca e approfondita del passato.
Da qualche anno, molte biblioteche e molti archivi
storici hanno iniziato a digitalizzare il proprio patrimonio documentario; sul piano quantitativo si
può ricordare l’imponente sito «Gallica»
della Bibliothèque Nationale de France (http://gallica.bnf.fr), su quello qualitativo l’eccellente raccolta integrata dei manoscritti conservati in
Svizzera (http://www.e-codices.unifr.ch/en). Questo processo ha l’obiettivo principale di acquisire
immagini digitali che riproducono fedelmente i documenti originali. Queste immagini rappresentano
un importante e affidabile mezzo di preservazione
della memoria storica. Tuttavia, per estrarre dati e
conoscenza dal testo riportato nelle immagini è necessario operare un complesso processo di trascrizione.
Esistono soluzioni
informatiche per la
trascrizione automatica che si basano su tecnologie
per il riconoscimento dei caratteri
(OCR:
Optical
Character Recognition).
Purtroppo,
queste Paolo Merialdo
soluzioni funzionano bene su scansioni di testi stampati, non sui
manoscritti antichi: i testi sono in lingue morte, le
scritture sono fortemente eterogenee nel tempo,
nello spazio e nella morfologia e sono costellate di
simboli grafici e linguistici particolari quali abbreviazioni (simboli introdotti dal copista per rappresentare sequenze più o meno frequenti di caratteri),
nessi e compendi.
Nonostante il web costituisca la più
grande collezione di documenti prodotti
dall’uomo, esso contiene solo una
piccola parte delle fonti storiche
custodite negli archivi tradizionali. Ad
esempio, se rappresentiamo il
patrimonio documentario dell’Archivio
Segreto Vaticano attraverso i suoi 85km
di scaffali lineari, possiamo concludere
che il web non ne offre che pochi
millimetri
Lo scorso ottobre ha preso avvio In Codice Ratio,
un progetto di ricerca interdisciplinare del Dipartimento di Ingegneria e del Dipartimento di Studi
umanistici. Obiettivo del progetto è la definizione
di un processo e di un insieme di strumenti informatici di supporto alla trascrizione di fonti storiche
manoscritte. Partecipa al progetto anche l’Archivio
segreto vaticano, che ha messo a disposizione i propri manoscritti e la collaborazione di personale
qualificato.
In generale, la trascrizione di un manoscritto antico
è un processo che richiede conoscenze e compe-
segreto vaticano, offrono molte informazioni e presentano scritture
abbastanza uniformi: un sistema
addestrato su qualche decina di pagine, potrebbe poi operare una trascrizione automatica su interi
volumi.
Uno studente addestra il sistema a riconscere il carattere “f”
tenze raffinate da parte di paleografi esperti con livello di specializzazione molto elevato. Tuttavia,
un sistema software, se opportunamente supportato, potrebbe svolgere una parte consistente, anche
se certo non esaustiva, del lavoro di trascrizione. Il
problema principale è coordinare opportunamente
interventi umani ed elaborazioni informatiche valorizzando al meglio le competenze specialistiche
necessarie al processo.
Lo scorso ottobre ha preso avvio In
Codice Ratio, un progetto di ricerca
interdisciplinare del Dipartimento di
Ingegneria e del Dipartimento di Studi
umanistici. Obiettivo del progetto è la
definizione di un processo e di un
insieme di strumenti informatici di
supporto alla trascrizione di fonti
storiche manoscritte. Partecipa al
progetto anche l’Archivio segreto
vaticano, che ha messo a disposizione i
propri manoscritti e la collaborazione
di personale qualificato
L’idea alla base della soluzione che stiamo sviluppando nel progetto In Codice Ratio è quella di addestrare un sistema di Machine Learning al
riconoscimento di caratteri e parole partendo da insiemi particolarmente omogenei presenti nell’archivio. Le ricchissime serie di registrazioni di atti
raccolte in volumi, che sono tipiche dell’Archivio
Le tecniche di Machine Learning
sono mature e affidabili, ma questo
approccio, applicato nel nostro
contesto, ha due grosse limitazioni.
Primo: una soluzione basata su tecniche di Machine Learning funziona bene solo a fronte di una
costosissima fase di addestramento. In pratica, è necessario fornire al sistema molti esempi delle
possibili varianti con cui ogni carattere può capitare che sia rappresentato nel manoscritto. Secondo: le eccezioni
presenti nei testi, tipicamente sotto forma di abbreviazioni, limitano l’applicabilità dell’approccio. A
valle di una trascrizione dei caratteri dell’alfabeto
latino, sarebbe comunque necessario l’intervento
di un paleografo per la soluzione delle abbreviazioni.
Il coinvolgimento di un numero adeguato di paleografi esperti nella fase di addestramento non è sostenibile: sono molto pochi rispetto al lavoro
necessario. Viceversa, è ragionevole pensare che
essi potrebbero intervenire in una seconda fase, ad
esempio per decifrare abbreviazioni irrisolte. L’idea
che stiamo sperimentando è quella di scomporre
l’addestramento del sistema in azioni elementari
molto semplici, che possano essere affidate a persone meno qualificate. Il sistema di Machine Learning potrà usare gli esempi prodotti in questa fase
per riconoscere la maggior parte dei caratteri. Successivamente, i paleografi potranno concentrarsi
sui simboli più rari e difficili da interpretare.
Per disporre di una massa critica di collaboratori da
coinvolgere nella fase di addestramento del sistema,
abbiamo pensato di rivolgerci agli studenti liceali.
Il loro coinvolgimento in un progetto interdisciplinare complesso, oltre a dare loro concrete motivazioni allo studio di materie apparentemente distanti
quali il latino, la storia e la matematica, diventa un
efficace strumento di orientamento e, come oggi
viene richiesto agli Atenei, di “terza missione”, nel
senso della disseminazione dell’esperienza di ricerca all’esterno del circuito accademico.
31
32
In una prima fase sperimentale sono stati coinvolti
100 studenti del Liceo scientifico Keplero
(Roma). La loro partecipazione al progetto è inserita nell’attività di alternanza scuola-lavoro. Oltre
a essere operativamente coinvolti nella fase di addestramento del sistema di Machine Learning, gli
studenti partecipano a seminari di informatica, storia, paleografia per avere un inquadramento generale del progetto.
L’idea alla base della soluzione che
stiamo sviluppando nel progetto In
Codice Ratio è quella di addestrare un
sistema di Machine Learning al
riconoscimento di caratteri e parole
partendo da insiemi particolarmente
omogenei presenti nell’archivio
A quasi due mesi dall’avvio del progetto, gli studenti hanno analizzato circa 250.000 immagini,
ciascuna contenente una porzione di manoscritto
delle dimensioni approssimative di un carattere.
Agli studenti vengono proposte 40 immagini e gli
viene chiesto di annotare quelle che risultano simili
ad alcuni esempi campione opportunamente predisposti da un paleografo. La Figura 1 ritrae uno studente durante la fase di annotazione: nella parte alta
della schermata sono mostrate le immagini campione; nella parte sottostante, le immagini da analizzare.
porzioni di manoscritto su cui devono lavorare i
preziosi paleografi sono enormemente ridotte. Inoltre, il paleografo può proporre ed addestrare il sistema a riconoscere nuovi simboli (abbreviazioni
più o meno rare).
In conclusione, il progetto In Codice Ratio affronta
temi di ricerca all’avanguardia, sia da un punto di
vista dell’ingegneria informatica (con lo studio di
soluzioni innovative che potranno essere applicate
anche in contesti diversi), che dal punto di vista
delle discipline umanistiche (con la messa a punto
di nuovi strumenti e metodologie a supporto della
paleografia e dello studio delle fonti storiche), ed
apre opportunità di collaborazioni con istituzioni
estere (abbiamo avviato una collaborazione con il
Trinity College di Dublino per estendere gli studi
ad altri manoscritti). Il progetto rappresenta inoltre
uno strumento di divulgazione scientifica e culturale e di orientamento agli studi per gli studenti
delle scuole superiori e per studenti universitari
coinvolti. Infine, valorizza il nostro straordinario
patrimonio culturale: l’Archivio segreto vaticano,
con i suoi 85 km di scaffali, è la più grande banca
dati storica al mondo; i suoi documenti rappresentano uno strumento indispensabile per capire la storia dell’Europa.
Le immagini così annotate dagli studenti sono state
usate per addestrare un sistema di Machine Learning realizzato con reti neurali. I primi risultati
sono molto promettenti: il sistema inizia a riconoscere i caratteri principali con un tasso di errore intorno al 10%. In una fase successiva, le sequenze
di caratteri riconosciute dal sistema iniziano a comporre parole. Eventuali errori di riconoscimento
sono corretti attraverso informazioni statistiche
sulle sequenze di caratteri che normalmente si trovano nei testi del periodo storico a cui fanno riferimento i manoscritti in esame (ad esempio, dopo
una ‘q’ è più probabile che sia una ‘u’ piuttosto che
una ‘n’).
Questo processo riesce a trascrivere parti consistenti del manoscritto. Certo, la presenza di abbreviazioni (e di errori di sistema, ovviamente)
richiede una fase di verifica e completamento del
lavoro da parte di paleografi esperti. Tuttavia, le
Archivio segreto vaticano, Reg. Vat. 12, f. 038r, particolare
(per gentile concessione)
Memoria
Chiara Giaccardi
«La memoria è necessaria per tutte le operazioni della ragione», scriveva
Pascal nei suoi Pensieri.
Non è la coazione a ripetere di chi non sa cambiare, né la nostalgia di ciò
che non può tornare.
Piuttosto, come scriveva Turoldo:
È la memoria una distesa
di campi assopiti
e i ricordi in essa
chiomati di nebbia e di sole
Chiara Giaccardi
È il sagrato dell’interiorità, la porta di quel paesaggio interiore, che ha
preso forma nel corso della nostra esistenza: le tracce degli incontri, delle
esperienze, di tutto ciò che ha lasciato un segno in noi. È il sigillo della
nostra unicità: riconoscerla vuol dire riconoscerci.
Non c’è identità senza Memoria. Noi siamo la nostra memoria, scriveva
Borges, e anche Papa Francesco nella Laudato Si’, scrive che
ognuno di noi conserva nella memoria luoghi il cui ricordo gli fa tanto
bene. (n.84)
Della memoria, poi, si nutre il desiderio.
Anche dell’amore, c’è un’impronta di memoria. È la memoria di gesti che
salvano dalla barbarie e dall’indifferenza e sostengono nell’attraversare
l’impossibile. Ciò che abbiamo conosciuto, anche solo per un attimo, non
possiamo più smettere di cercarlo.
La memoria custodisce le relazioni, le protegge dalla disumanità, è la radice della cura. Non è solo trattenere, ma riconoscere e rispondere. «Noi
siamo la memoria che abbiamo e la responsabilità che ci assumiamo. Senza
memoria non esistiamo e senza responsabilità forse non meritiamo di esistere». Cosi José Saramago.
E per Gabriel Garcia Marquez:
Ricordare
è facile
per chi ha memoria
Dimenticare
è difficile
per chi ha cuore.
Solo una società capace di memoria può essere giusta.
Non dunque facoltà del rimpianto, ma radice di un futuro che chiede perdono per gli errori, e riconosce i legami come fonte di vita.
È un tesoro dell’anima .
Qualcosa che la morte non può vincere, perché come scriveva Tolstoj,
«Moriamo solo se non riusciamo a mettere radici in altri».
Senza memoria non c’è futuro.
Perché fare memoria e fare nuove tutte le cose sono due passi di una stessa
danza.
(Per Il pensiero del giorno, Rai Radio 1)
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«L’essere che chiamo io»
Genere, ricordi e memorie autobiografiche
Carmela Covato
Carmela Covato
«Mi accingo ad una
impresa che non ebbe
mai esempio e la cui
esecuzione non avrà
imitatori. Voglio mostrare ai miei simili
un uomo in tutta la
verità della natura; e
quest’uomo sarò io»
J.J. Rousseau Le confessioni, 1782-1789.
Le scritture di sé,
sempre sospese fra finzione autobiografica e ricerca della verità, hanno nel ricordo, testimonianza
letteraria di una memoria individuale e collettiva,
una fonte privilegiata e ineludibile.
«L’essere che chiamo io – ha scritto Marguerite
Yourcenar in Care memorie (1974 - tr. it 1992) –
venne al mondo un certo venerdì 8 giugno verso le
otto del mattino a Bruxelles […]. Quella creatura
di sesso femminile, già presa nelle coordinate dell’era cristiana e dell’Europa del XX secolo, quel
pezzetto di carne rosea, piangente in una culla azzurra, mi costringe a pormi una serie di domande
che sono tanto più inquietanti nella loro banalità, e
che un letterato esperto del suo mestiere si guarderebbe bene dal formulare. Che quella bambina sia
io non posso dubitarne senza dubitare di tutto».
Lo studio delle memorie autobiografiche ha svolto,
a partire dagli ultimi decenni del Novecento, un
ruolo molto innovativo nell’ambito delle scienze
umane, consentendo di porre in termini inesplorati
la questione della soggettività e della sua storia. La
narrazione autobiografica, d’altra parte, ha accompagnato da sempre la storia dell’umanità, sebbene
finalità e codici diversi abbiano connotato le scritture femminili di sé da quelle maschili.
Le autobiografie degli uomini, infatti, sono apparse
nel passato per lo più caratterizzate da una narrazione logica e tendenzialmente lineare, al cui interno la vita veniva percepita come un progetto
coerente. In esse, ha prevalso, a lungo, un esplicito
interesse per le cronache dei grandi eventi militari
e politici. Al contrario, la scrittura delle memorie
femminili, a partire da un impulso religioso (come
nel caso esemplare di Teresa D’Avila (1515-1582),
si è trasformata nel tempo in una modalità espressiva legata soprattutto alla narrazione delle vicende
della vita interiore, dell’esperienza familiare e delle
relazioni affettive.
Solo dal XVIII secolo in poi, sia nelle riflessioni autobiografiche maschili – si pensi all’esempio straordinariamente moderno di J.J. Rousseau – sia in
quelle femminili, è possibile rintracciare la nascita
di un nuovo discorso narrativo più centrato sul sé,
che ha le sue radici nell’emergere dei valori individuali già insiti, per alcuni aspetti, nella tradizione
rinascimentale europea. Questo nuovo percorso va
ricollegato alla scoperta moderna dell’identità e della
soggettività o, come ha sostenuto Norbert Elias, alla
nascita stessa dell’individuo.
Lo studio delle memorie
autobiografiche ha svolto, a partire
dagli ultimi decenni del Novecento, un
ruolo molto innovativo nell’ambito delle
scienze umane, consentendo di porre in
termini inesplorati la questione della
soggettività e della sua storia. La
narrazione autobiografica, d’altra
parte, ha accompagnato da sempre la
storia dell’umanità, sebbene finalità e
codici diversi abbiano connotato le
scritture femminili di sé da quelle
maschili
Se, come si è detto, le autobiografie maschili, si inseriscono in una tradizione narrativa che ha, fra le
sue testimonianze più significative, le Confessioni
di sant’Agostino (400 circa) e che appare proiettata,
almeno fino al XVIII secolo, nell’elaborazione di
rappresentazioni della realtà e di sé dotate di obiettività descrittiva e di precise intenzionalità pubbliche; al contrario, la scrittura delle memorie
femminili, riservata tuttavia, per ovvi motivi, alle
donne aristocratiche e alle élite intellettuali che
avevano accesso alla scrittura, dà origine a un genere, che tenderà a espandersi a partire dalla seconda metà del Settecento, considerato minore e
privo di precise regole formali, dove i riti della quotidianità assumono una indiscussa centralità descrittiva.
Si tratta di una modalità espressiva che svolgerà, a
lungo, per le donne, una funzione comunicativa legittimata, laddove altri ambiti culturali erano ancora interdetti alla donne in un codice morale non
scritto, ma fortemente costrittivo.
Nell’ambito della tradizione maschile, i cui codici
verranno definitivamente scomposti dagli esiti del
Romanticismo, prima, e della rivoluzione psicoanalitica dopo, solo nel passaggio fra Otto e Novecento, la narrazione autobiografica si avvia a
sfiorare temi esistenziali e ad attingere maggiormente alla sfera della vita privata. Ne è un esempio
la Lettera al padre di F. Kafka (1919).
Bisbigliate in cucina o narrate nei
salotti e nei cortili, raccontate dai
genitori ai figli in forme idealizzate o
pudicamente nascoste nel silenzio
dell’indicibile, le memorie della storia
familiare tracciano, in ogni vicenda
esistenziale, una trama di ricordi e di
significati da cui non è possibile
prescindere. Non si tratta solo di parole
ma anche di luoghi, oggetti, arredi,
abitudini e stili di vita
In questa nuova scena narrativa, le memorie familiari assumono una nuova centralità.
Bisbigliate in cucina o narrate nei salotti e nei cortili, raccontate dai genitori ai figli in forme idealizzate o pudicamente nascoste nel silenzio
dell’indicibile, le memorie della storia familiare
tracciano, in ogni vicenda esistenziale, una trama
di ricordi e di significati da cui non è possibile prescindere. Non si tratta solo di parole ma anche di
luoghi, oggetti, arredi, abitudini e stili di vita.
Sia che vengano trasmesse in una versione apologetica, sulle tracce dell’esemplarità vera o presunta
degli antenati, sia come un passato da cui emanciparsi, le memorie di famiglia rappresentano una
complessa eredità culturale e psichica che può
aprirsi ad una elaborazione consapevole oppure es-
sere inconsciamente subita.
I ricordi, sebbene dalle forme assai mutevoli nello
spazio e nel tempo, traghettano generazioni da
un’epoca all’altra, percorrono classi sociali e paesi,
come nelle vicende di emigrazione dai tanti sud ai
tanti nord del mondo, spesso scandite da una altalena di sentimenti che vanno dal distacco alla nostalgia.
La memoria del passato non può essere slegata,
com’è noto, dalla sua conservazione che la rinnova
e la mantiene in vita.
L’irruzione, nel Novecento, di una nuova visione
dell’idea di passato grazie agli impulsi di un lavoro
storiografico, a partire dalla lezione delle Annales,
per certi versi rivoluzionario, ha aperto i luoghi
della memoria a nuovi scenari – sottratti ad una visione della storia esclusivamente bellica, istituzionale o politico-diplomatica – e ora proiettati nello
scoprire nuovi mondi e nuove dimensioni relative,
ad esempio, alla storia della vita privata, dell’infanzia, delle donne e dell’immaginario.
Elena Raffalovich nel 1863
(fotografia di Alphonse Bernoud, Livorno)
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All’interno di questo percorso, gli archivi di famiglia hanno svolto un ruolo sempre più significativo
come museo di sentimenti, di relazioni, di vicende
esistenziali di uomini e donne, che, alla luce di
nuove ermeneutiche, assumono vigore conoscitivo
e sono fonte di rivelazioni spesso assai sorprendenti.
Nell’inevitabile flusso della memoria che percorre
la quotidianità, sono, a volte, episodi casuali che
determinano scoperte imprevedibili.
I ricordi, sebbene dalle forme
assai mutevoli nello spazio
e nel tempo, traghettano generazioni
da un’epoca all’altra, percorrono
classi sociali e Paesi, come nelle
vicende di emigrazione dai
tanti Sud ai tanti Nord del mondo,
spesso scandite da una altalena di
sentimenti che vanno dal distacco alla
nostalgia
Mi riferisco all’apertura di un baule, al ritrovamento di un carteggio o di un diario da cui affiorano non di rado storie di vite straordinarie, spesso
di donne, le cui vicende esistenziali sono state,
molto più raramente di quelle degli uomini, pubbliche e, dunque, note ma appunto rinchiuse sottochiave, raccolte in un carteggio o custodite in una
cartella magari impreziosita da ricami.
Si esce così dal recinto degli affetti per scoprire imprese straordinarie siano esse politiche, pedagogiche o culturali.
Un esempio significativo è quello di Elena Raffalovich Comparetti (1842-1918), conosciuta dalla
nipote Elisa Milani come una nonna da ospitare in
casa, alla quale fare compagnia, ma in sostanza assente, rinchiusa in un silenzio quasi assoluto, inquietante. Elena era, fra l’altro, la bisnonna di don
Lorenzo Milani.
Solo in seguito Elisa scoprì il ricchissimo epistolario – di cui curerà poi la pubblicazione – fra la
nonna e il marito Domenico Comparetti, grande filologo dal quale si separò piuttosto presto perché
delusa dalla di lui incomprensione delle aspirazioni
culturali che l’animavano, in un ambiente per altro
in Italia ancora diffusamente ostile all’emancipazione femminile. Tutto questo non le impedì tuttavia di continuare ad avere con lui un rapporto di
scambio e di confronto.
È venuto così alla luce il suo straordinario impegno
pedagogico finalizzato alla diffusione degli asili
froebeliani, i viaggi in Germania e in Svizzera, la
corrispondenza e l’incontro con Adolfo Pick, allievo e prosecutore di Froebel, e, inoltre, la delusione per il travisamento, da parte delle autorità
comunali, delle caratteristiche dell’asilo che volle
fondare a Venezia: soprattutto dello spirito laico
che avrebbe dovuto connotarlo.
Si tratta di una storia ancora poco conosciuta ma
oggetto, di recente, di nuovi studi e di nuove ricerche che hanno consentito, a partire dal recupero
delle memorie custodite in un archivio di famiglia,
non solo di ricostruire la vicenda esistenziale di una
figura femminile di grande rilievo ma anche la storia del costume, dei vincoli matrimoniali, del clima
culturale e di un contesto pedagogico, che ha caratterizzato la scena europea dell’ultimo Ottocento
fra conservazione e innovazione, costrizione e progetto consapevole.
Narrazione e cura di sé
La memoria autobiografica per il progetto di vita
Barbara De Angelis
La narrazione è la
forma più affascinante della comunicazione, e per certi
aspetti il mezzo più
efficace e coinvolgente dal punto di
vista emotivo e cognitivo. A ben riflettere, anche tutto ciò
che si percepisce
con i sensi è narrazione, sempre che ci
Barbara De Angelis
sia la disponibilità
di coglierne il messaggio. Qualunque sia il codice
utilizzato, la narrazione conferisce forma ai pensieri perché è profondamente radicata nelle strutture fondamentali dell’esperienza umana: nel
tempo (la memoria-il futuro), nello spazio (il
corpo-il mondo), nell’intenzionalità (l’apertura
all’altro e all’oltre), nella coscienza di sé (Io-sono).
La vita stessa è narrazione, afferma J. Bruner
(1991), e il pensiero narrativo è la condizione di
base del pensiero umano, la forma che anima e coordina i saperi, lo strumento che crea nuovi significati e nuove storie, che può contribuire a
modificare i comportamenti e gli atteggiamenti
dell’individuo nei confronti di una particolare realtà
e può favorire lo sviluppo del pensiero autobiografico e del coinvolgimento emotivo, elementi essenziali nel processo di formazione della personalità e
di orientamento all’azione.
Per opera del pensiero autobiografico la memoria
si integra in modo coerente con la storia di vita e
con l’identità sociale e culturale, affida un significato particolare ad ogni ricordo e lo inserisce dentro
una trama più ampia, in modo da formare un tutto
coerente.
Questa relazione tra memoria autobiografica e narrazione delle esperienze personali definita autonarrazione (self-telling) si riferisce al processo di
costruzione narrativa del sé, che si configura sotto
forma di racconto e permette a ciascun individuo
di acquisire consapevolezza delle proprie esperienze. «La creazione del sé è un’arte narrativa:
essa in parte (a livello interiore) è guidata da idee,
emozioni, memoria, in parte è innata, in parte è
ispirata e condotta dai modelli culturali e dal modo
in cui gli altri si aspettano che dovremmo essere.
(…) Mediante la narrazione, come abbiamo più
volte sottolineato, costruiamo e ricostruiamo in un
certo senso e perfino reinventiamo il nostro “ieri”
e il nostro “domani”» (Bruner, 2002).
Lo spazio del racconto sembra dunque un luogo pedagogico privilegiato per l’apprendimento, dove
possono maturare le radici del pensiero e della conoscenza, dove l’esistente e l’immaginazione si
fondono e la memoria si rinnova di continuo, dove
la struttura narrativa fornisce agli eventi un’organizzazione temporale, una coerenza causale e una
coerenza tematica, e attribuisce un significato culturale alla storia di sé. Il significato assegnato al
flusso della memoria attraverso il racconto genera
la “scrittura” di una biografia personale che, intrecciandosi con le altre storie di vita, conferisce un
senso alle esperienze umane. «L’atto autobiografico lavora, attraverso l’impegno del suo autore, per
realizzare una congiunzione tra cognizione, affetto,
e memoria, e lavora inoltre dentro una dialettica di
posizioni pubbliche e private del soggetto, spesso
giocata in modo complesso» (Zuss, 2003).
Per opera del pensiero autobiografico la
memoria si integra in modo coerente
con la “storia di vita” e con l’identità
sociale e culturale, affida un significato
particolare ad ogni ricordo e lo inserisce
dentro una trama più ampia, in modo
da formare un tutto coerente
Narrare significa, infatti, integrare mentalmente
due diversi piani rappresentativi: quello delle intenzioni, dei sentimenti, della memoria e dei ricordi, delle emozioni dei personaggi e del
narratore; e quello delle azioni e degli eventi organizzati in una sequenza temporale e causale. Il che
sottolinea anche il ruolo della componente sociale
della narrazione di un ricordo autobiografico. In
quanto comportamento sociale, la narrazione prevede la presenza di ascoltatori che influenzano il
livello di elaborazione di una storia di vita nel momento in cui viene narrata. «(…) L’inessenzialità
del testo vale anche e in primo luogo per la memo-
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Il flusso dei significati associabili
ria personale. Ognuno di noi - senza neanche volerlo sapere - si sa infatti narrabile anche quando
non è impegnato a ricordare gli episodi della sua
vita o viene sorpreso dal loro affiorare nel lavoro
incontrollabile della memoria (Cavarero, 1997)».
In questo modo, il senso di unicità di ognuno dipende dal confronto tra il mondo interno di ricordi
e sentimenti e le aspettative culturalmente connotate della realtà sociale esterna.
Narrare significa, infatti, integrare
mentalmente due diversi piani
rappresentativi: quello delle intenzioni,
dei sentimenti, della memoria e dei
ricordi, delle emozioni dei personaggi e
del narratore; e quello delle azioni e
degli eventi organizzati in una sequenza
temporale e causale. Il che sottolinea
anche il ruolo della componente sociale
della narrazione di un ricordo
autobiografico. In quanto
comportamento sociale, la narrazione
prevede la presenza di ascoltatori
I processi di auto-narrazione, descritti da Bruner,
favoriscono la costruzione di una storia di vita o
identità narrativa, cioè di una rappresentazione
complessa di ruoli sociali e/o di rappresentazioni
di sé, in cui esperienze del passato, vicende attuali
e prospettive per il futuro sono organizzati in modo
sincronico e diacronico.
Questa modalità, in ambito educativo ha valenze
motivanti e sociali, oltre che formative ed educative: sfida l’immagine consolidata che ognuno ha
di se stesso e favorisce il confronto, presuppone il
racconto reciproco, la discussione e il coinvolgimento degli aspetti emotivi, senza i quali non può
concretizzarsi nessun risultato apprenditivo, né modificazioni nei comportamenti dei soggetti in formazione, come dimostrano le acquisizioni sulle
pluralità delle forme della comprensione (Gardner,
2005).
Agire, collaborare, discutere con gli altri, ipotizzare
le cause di un evento, assumersi la responsabilità
di una spiegazione e di una interpretazione, sono i
presupposti della ricostruzione narrativa, strumenti
che offrono al soggetto in formazione l’opportunità
di interrogarsi, ma anche di rimodellarsi interiormente, di strutturarsi e ristrutturarsi per formarsi e
trasformarsi attraverso una particolare attenzione e
cura verso se stesso, per aver “cura di sé” e per coltivare la “cultura di sé”.
Sono i filosofi greci a coniare l’espressione «epimelestai eautou» (occupati di te stesso), e M. Foucault, nelle sue ultime opere, ha ricostruito le
«pratiche della cultura di sé»: «(…) cioè le forme
nelle quali si è chiamati ad assumere se stessi come
oggetto di conoscenza e campo d’azione, allo
scopo di correggersi, purificarsi, edificare la propria salvezza» (Focault, 1993), laddove, cioè, rivolgendosi al proprio passato si possa operarne un
ripensamento.
In questo modo l’esperienza di sé è un piacere che
si trae da se stessi, e tale piacere è definito da Foucault come un gaudium, una laetitia, avvertita da
chi è finalmente giunto ad avere accesso a se stesso.
Agli albori del cristianesimo, continua Foucault, tra
i latini, si incontra spesso la parola otium, inteso
come momento necessario all’uomo per dedicarsi
alla riflessione su se stessi e quindi per individuare
il rapporto fra corpo e anima. La realizzazione di
questa pratica veniva sintetizzata nell’espressione
cura sui. In seguito, nel mondo occidentale, filosofi
e poeti hanno attribuito alla scrittura delle proprie
memorie una sorta di pietas di sé, intendendo con
tale espressione quello speciale benessere della co-
scienza dell’uomo che, nell’ammissione delle proprie colpe e attraverso il ricordo del passato, conquista una forma di liberazione. Il ricordo del sé
passato agisce come sfogo interiore e assume una
funzione auto-terapeutica, ma, avverte Foucault le
discipline del sé richiedono impegno, volontà, ed
occupano un tempo non definibile a priori.
Nel mondo occidentale, filosofi e poeti
hanno attribuito alla scrittura delle
proprie memorie una sorta di pietas di
sé, intendendo con tale espressione
quello speciale benessere della coscienza
dell’uomo che, nell’ammissione delle
proprie colpe e attraverso il ricordo del
passato, conquista una forma di
liberazione
Per realizzare l’obiettivo di creare una cultura del
sé è necessario, pertanto, individuare, nell’arco
della vita intera, la parte da dedicare alla riflessione
del sé in modo da chiarire chi si è stati, chi si è, e
chi si vorrebbe diventare. La cultura del sé si realizza impegnandosi in un comportamento dialettico
sicuramente faticoso, ma, in qualche misura, facilitato da procedure di ri-scrittura narrativa, tra le
Lo spazio del racconto
quali il metodo narrativo-biografico rappresenta
uno strumento efficace per la relazione d’aiuto e
per la ri-conquista del benessere psicologico perché
mette al centro della vita mentale l’interpretazione
di una realtà descritta attraverso le narrazioni interpersonali e intersoggettive delle esperienze vissute.
Da queste riflessioni del pensiero di Foucault
emerge un individuo che sembra porsi fortemente
l’obiettivo di coltivare il proprio sé attraverso un
processo, o progetto, di costruzione, in una prospettiva dove non sembra superfluo mettere a fuoco,
come principio del fondamento formativo, anche la
centralità dell’esperienza emotiva nel processo di
formazione personale e sociale.
Se è proprio dell’educazione individuare come si
costituisce e come si disfa la trama socio-emotiva
della soggettività in rapporto alla complessità e
all’eterogeneità che caratterizzano le società attuali,
ovvero, se spetta all’educazione rendere possibile
una sintesi tra le esperienze e gli stili di vita possibili e la valorizzazione del soggetto come protagonista irripetibile, allora sono questi (la cultura della
memoria, l’identità narrativa, il self-telling o autonarrazione, il remembered self) i presupposti che,
consapevolmente elaborati potrebbero costituire il
primo elemento di un paradigma idoneo a ridefinire
il tessuto della formazione del terzo millennio.
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Tracce di memoria
Racconti familiari in migrazione
Maura Di Giacinto
A partire dalla rivoluzione storiografica verificatasi
intorno agli anni
Trenta del Novecento, avvenuta
grazie anche agli
studi e alle ricerche realizzati dalla
scuola francese
delle Annales, in
Italia avviene una
profonda trasforMaura Di Giacinto
mazione epistemologica nei confronti della tradizione avviata dalla
storia della pedagogia che dà l’avvio a un modello
rinnovato di fare storia indirizzato alla ricostruzione sociale delle esperienze educative.
Molteplici sono i luoghi e gli spazi educativi a cui
si rivolge la ricerca storico-sociale; la storia delle
donne, la storia dell’infanzia, la storia della famiglia, la storia dei costumi educativi, l’immaginario;
luoghi e spazi che ripercorrono i destini e, conseguentemente, le pratiche educative relative ai processi di inculturazione e di trasmissione, ai processi
di costruzione delle mentalità educative, di trasmissione dei valori pedagogici e di pratiche formative.
Come sostiene Santoni Rugiu nella Storia sociale
dell’educazione (1987) «l’educazione è un fenomeno molto complesso, influenzato piuttosto dagli
avvenimenti sociali contestuali, nuovi e residui, che
non dal pensiero. (…) Il compito dello studioso del
passato e del presente educativo non si esaurisce
più, allora, nell’esame delle progettazioni di sistemi
teorici o di metodologie didattiche, ma è sempre
più motivato a scoprire i loro nessi con il divenire
sociale e perciò a dipanare l’intreccio di fili prodotti
dai rapporti fra gli uomini e fra questi e le istituzioni, le grandi centrali di produzione e di informazione, e altro ancora. Deve insomma sempre più
fare storia sociale».
Se parlare di storia sociale significa addentrarsi tra
gli spazi abitati dalla storia delle rappresentazioni
sociali, delle ideologie, delle mentalità, fare storia
è possibile solo in virtù dell’esercizio continuo e
costante della memoria che, nel consegnarci l’ere-
dità del passato, ne raccoglie le tracce al fine di
comprendere il presente e progettare il futuro. Si
deve a Reinhart Koselleck in Futuro passato (1979;
trad. it. 1986) una delle sintesi più significative intorno ai temi e alle riflessioni sul paradigma della
memoria; particolarmente interessante è l’analisi
secondo la quale Koselleck individua due intervalli
che la caratterizzano: lo «spazio di esperienza» (Erfahrungsraum) che ci consente di rileggere e ricostruire il passato al fine di comprendere il presente
e l’«orizzonte di attesa» (Erwartungshorizont) che
rimanda ad una sorta di anticipazione che ci proietta verso il futuro. La dimensione dialettica che
contraddistingue questi due «luoghi» fa sì che sia
l’orizzonte di attesa ad indicare all’esperienza del
presente la direzione di senso del nostro agire e
delle nostre scelte. All’interno di questa sequenza
circolare il passato non è separato dal futuro e,
come ci ricorda Eugéne Minkowski nel Tempo vissuto (1933; trad. it. 1971) «il passato e l’avvenire
esistono solo in rapporto al presente e non hanno
altro senso»; in questo spazio temporale in cui il
passato non è separato dal futuro, il presente si situa
nella zona di confine fra i due poli e, come osserva
Vanna Iori Nei sentieri dell’esistere (2006), non si
presenta come «un punto privo di dimensioni che
sta “tra” il passato e il futuro, ma è il tempo che li
comprende entrambi».
«Il passato e l’avvenire esistono solo in
rapporto al presente e non hanno altro
senso»; in questo spazio temporale in
cui il passato non è separato dal futuro,
il presente si situa nella zona di confine
fra i due poli e, come osserva Vanna Iori
Nei sentieri dell’esistere (2006), non si
presenta come «un punto privo di
dimensioni che sta “tra” il passato e il
futuro, ma è il tempo che li comprende
entrambi»
Procedere dal passato verso il futuro attraversando
il presente, in un flusso temporale che consente al
presente di comprende sia il passato che il futuro,
trasforma la sequenza binaria passato-presente e
presente-futuro in
una «interazione
creativa» capovolgendo la convinzione comune
che collega la
memoria all’eredità del passato e
non alla prospettiva del futuro. È
l’esercizio continuo e costante
della memoria
che rende, pertanto, possibile
«la direzione dell’orientazione nel passaggio del tempo: dal passato
verso il futuro» e viceversa, come ci ricorda Paul
Ricœur in Memoria individuale e memoria collettiva (2004); così come il futuro raccoglie dal passato le aspettative e le attese da realizzare, il passato
– attraversando il presente – orienta il futuro stesso.
L’esercizio della memoria, articolato e complesso,
con i suoi scarti e le sue rotture, le asimmetrie e discontinuità, le trasformazioni e le permanenze consente di restituire al tempo storico i suoi caratteri
di pluralismo e di problematicità, i suoi linguaggi,
i suoi saperi, i suoi sentimenti, le sue identità, le
sue narrazioni. Attraversando il passato storico criticamente rivisitato, la memoria – quale «categoria
portante del fare storia», come ci ricorda Franco
Cambi – è, dunque, impegnata a rilegge il presente
a partire dallo «sfondo da cui emerge» (Attivare la
memoria per comprendere il presente, 2002) a relativizzarlo e decostruirlo, al fine di riconsegnarlo
alle sue stesse radici, quelle più antiche ma anche
quelle più sommerse e nascoste. Tra le rappresentazioni che emergono dal passato ricordato, utilizzando la versione husserliana del termine, molto
interessante è la testimonianza della studiosa statunitense Louise De Salvo (docente di Letteratura e
scrittura creativa presso l’Hunter College di New
York) figlia e nipote di italiani emigrati negli Stati
Uniti nei primi anni Venti del secolo scorso. Louise
raccoglie le tracce e ricostruisce i ricordi della sua
famiglia per ripercorrerne la storia; nella raccolta
di contributi interdisciplinari curata da Jennifer Guglielmo e Salvatore Salerno dal titolo Gli italiani
sono bianchi? Come L’America ha costruito la
razza (2006) ricorda che sia il padre che i nonni
«credevano che il pregiudizio contro di loro fosse
nell’ordine delle cose. Perciò non si lamentavano.
E dal momento che la lamentazione è essenziale al-
l’esistenza di una storia orale, e invece loro non
esternavano le loro lagnanze, ma piuttosto le seppellivano, non ho quasi nessuna storia da raccontare su questi nonni, niente che sia arrivato fino a
me su come i nonni e i loro genitori vivevano in
Italia o quando sono arrivati negli Stati Uniti. Poiché, a differenza di altri emigranti, queste persone
erano spesso analfabete, hanno lasciato ben pochi
documenti attraverso cui si possa scrivere la loro
storia».
L’esercizio della memoria, articolato e
complesso, con i suoi scarti e le sue
rotture, le asimmetrie e discontinuità, le
trasformazioni e le permanenze
consente di restituire al tempo storico i
suoi caratteri di pluralismo e di
problematicità, i suoi linguaggi, i suoi
saperi, i suoi sentimenti, le sue identità,
le sue narrazioni
La ricerca delle tracce famigliari consentono a Louise di ricostruire il legame con i suoi «antenati» e
di recuperare notizie e informazioni preziose; in
proposito Louise racconta di aver saputo «solo da
poco che il padre fosse «un italiano del Sud». Procedendo nelle sue ricerche intercetta anche altre
storie di italiani americani che, come i suoi genitori
«hanno sepolto il passato, cercando di integrarsi»;
il peso delle differenze culturali ed etniche era
troppo faticoso da sopportare e tali differenze, commenta Louise, «non solo non erano apprezzate ma,
piuttosto, erano condannate e messe in ridicolo (…
). C’era sempre (e c’è ancora) negli Stati Uniti un
silenzio molto singolare sulla diaspora italiana e
sulle ingiustizie inflitte agli italiani americani».
Racconta di essere entrata in possesso dei documenti di famiglia quasi per caso, il padre: «ha trovato dei documenti, dice, che potrei volere, visto
che da un po’ di tempo mostro interesse per i miei
nonni italiani immigrati (…). Sono documenti di
naturalizzazione, visti, certificati di nascita, e di
morte (…) niente di importante, le dice il padre».
Nel consegnarle la busta di carta contenente i documenti di famiglia, il padre le racconta che i nonni
materni erano originari di un paese vicino a Bari di
cui non ricorda il nome; il nonno paterno era arrivato negli Stati Uniti per lavorare nelle ferrovie e
aveva impiegato tantissimo tempo per restituire i
soldi della traversata. Le confida che avrebbe voluto studiare in Italia ma era stato impossibile e che
il giorno più bello della sua vita era stato quando
sua figlia (la mamma di Louise) era andata a
41
42
scuola. Tra i
documenti di
famiglia contenuti nella busta
consegnatale
dal padre, uno
in particolare
cattura l’attenzione della DeSalvo: è il
documento di
naturalizzazione
della
nonna. La sua
fotografia nel
documento le
riporta alla mente tanti ricordi della sua infanzia e
della sua adolescenza: «come mi proteggeva dalle
ire di mio padre, come mi aiutava a sopportare le
depressioni di mia madre, mi insegnava a lavorare
a maglia, mi dava soldi dalla sua piccola pensione,
mi chiamava figlia mia, mi cantava canzoni italiane, mi cucinava pizza per cena e zeppoli per la
colazione della domenica. Ma la fotografia mi ricorda anche di come il suo aspetto (vestito nero,
maglia nera, calze nere di cotone, foulard nero annodato sotto il mento quando andava in chiesa) segnalasse che ero diversa, che non ero proprio
americana Un’amica: “Da dove viene tua nonna?
Sembra una strega. Come è arrivata fin qui? Su una
scopa? Ah, ah!” Un fidanzato: “mia madre dice che
non ti posso sposare, che dovremmo lasciarci. Sai,
tua nonna. Te la immagini al matrimonio?”. Mia
nonna era un dono di Dio, mandata a proteggermi
in una casa piena di rabbia e di dolore. Ma era
anche qualcuno di cui vergognarsi e che prendevo
in giro insieme ai miei amici, perché gli amici non
mi prendessero in giro a causa sua. Come se nel ripudiarla avessi potuto depurarmi da ciò che avevo
di italiano e diventare quello che allora ritenevo importante. Un’americana, qualunque cosa questo significasse. Ma per chi cresceva nei quartieri
residenziali del New Jersey (…) negli anni Cinquanta, essere americano non comprendeva avere
una nonna così. Allora in pubblico la sbeffeggiavo,
la disprezzavo. In privato correvo da lei, le poggiavo la testa in grembo e, in segreto, le chiedevo
perdono».
La testimonianza di Louise ci consente di raccogliere alcuni spunti di riflessione in particolare sulla
categoria della memoria individuale che nell’esercizio costante di interrogazione del passato storico
si arricchisce di quelle che Maurice Halbwachs in
Quadri sociali della memoria (1952; trad. it. 1994)
definisce le «cornici sociali», cadres sociaux; in
virtù di una serie di strumenti sociali – il linguaggio, la scrittura, i riti, l’organizzazione condivisa
dello spazio e del tempo – i ricordi soggettivi possono essere condivisi e, pertanto, possono concorrere a costruire un punto di vista sulla memoria
collettiva. Ma ci consentono, altresì, di prendere le
distanze dagli eccessi della memoria e dell’oblio –
ricorrendo alla politica ricœriana della «giusta memoria» – e di indirizzare la ricerca storico-educativa verso percorsi interpretativi capaci di far
emergere «i silenzi, i nascosti, i non-detti, l’impensato», di disvelare le zone d’ombra e le esclusioni.
Ieri come oggi i silenzi abitano l’educativo e, come
sostengono Franco Cambi e Simonetta Ulivieri ne
I silenzi nell’educazione (1994) la loro «ombra si
prolunga fino a noi, fino al nostro fare educazione»;
abitano le pratiche sociali e le relazioni educative
che definiscono i «luoghi» fisici e simbolici che
concorrono alla costruzione della memoria, dell’identità e della corporeità; «sono silenzi parziali
o totali, che agiscono come cancellazioni o come
spostamenti/occultamenti, ma che comunque occupano uno spazio cruciale nella storia educativa e
che, come tali, vanno recuperati».
Il fruscìo delle vite comuni
L’Archivio dei diari di Pieve Santo Stefano
Nicola Maranesi
La Fondazione Archivio diaristico
nazionale (Adn) di
Pieve Santo Stefano nasce nel
1984 ad Arezzo,
da un’idea del
giornalista e scrittore Saverio Tutino. Luogo di
raccolta e catalogazione delle fonti
autobiografiche
Nicola Maranesi
(diari, memorie,
lettere) figlio di un’epoca rivoluzionaria in ambito
storiografico. È proprio in quegli anni che anche in
Italia, come avviene da tempo in campo scientifico
internazionale, si comincia a studiare in maniera sistematica le diverse forme di autonarrazione popolare per articolare una ricostruzione storiografica
“dal basso”. L’Archivio nasce dunque anche come
risposta alle esigenze del mondo accademico, e si
propone subito come un bacino documentale in
continua espansione, che invita a depositare le testimonianze in sede attraverso l’incentivo della partecipazione a un Premio annuale (intitolato Premio
Pieve Saverio Tutino dopo la scomparsa del fondatore nel 2011), un concorso riservato alle scritture
autobiografiche inedite. Al contempo, stimola gli
studiosi e gli appassionati a recarsi fisicamente in
sede per consultare i materiali conservati. Sin da
principio, l’Archivio alimenta attività editoriali e
pubblicistiche: riviste scientifiche, libri monografici e antologici, collane editoriali tutte incentrate
sui materiali raccolti e sul racconto dei materiali
raccolti.
È all’interno di queste attività che vengono scovate
ed estratte, come pietre preziose, scritture private
di persone comuni divenute emblemi della cultura
autobiografica. A partire dalla storia della contadina
Clelia Marchi, che racconta la vicenda della sua
vita scrivendola su un lenzuolo matrimoniale; passando per la storia del cantoniere siciliano Vincenzo Rabito, semianalfabeta, che si chiude in una
stanza per imparare ad usare la macchina da scrivere finendo col realizzare una autobiografia di
1027 pagine; c’è poi la storia di Orlando Orlandi
Posti, che si racconta in messaggi clandestini fatti
uscire dal carcere di via Tasso a Roma, prima di essere fucilato alle Fosse Ardeatine. E così via, per
migliaia e migliaia di traiettorie umane tracciate su
carta con l’inchiostro.
Scovate ed estratte, come pietre
preziose, le scritture private di persone
comuni divengono emblemi della
cultura autobiografica come la storia
della contadina Clelia Marchi, che
racconta la vicenda della sua vita
scrivendola su un lenzuolo
matrimoniale, o quella del cantoniere
siciliano Vincenzo Rabito,
semianalfabeta, che si chiude in una
stanza per imparare ad usare la
macchina da scrivere finendo col
realizzare una autobiografia di 1027
pagine; c’è poi la vicenda di Orlando
Orlandi Posti, che si racconta in
messaggi clandestini fatti uscire dal
carcere di via Tasso a Roma, prima di
essere fucilato alle Fosse Ardeatine
Con l’avvento del digitale e di internet, e in particolar modo nell’ultimo decennio, la Fondazione
sviluppa tre linee di intervento per rendere ancor
più capillare l’attività di divulgazione dei materiali
conservati e della propria realtà operativa: la creazione di una Digital Library (DL) destinata prevalentemente alla fruizione del mondo accademico;
la realizzazione di piattaforme informatiche in
serie, collegate alla DL ma monotematiche e di più
immediato accesso, per una divulgazione di massa;
l’edificazione di un percorso museale multimediale
ed esperienziale, un museo di narrazione intitolato
Piccolo museo del diario, rivolto ai visitatori della
fondazione e all’utenza turistica.
Apripista è il progetto Impronte digitali, avviato nel
marzo 2013 e concluso nel febbraio 2016, realizzato in collaborazione con Fondazione TIM, Regione Toscana e la partecipazione del MiBACT,
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Piccolo museo del diario, Pieve Santo Stefano. I cassetti della memoria (foto: Luigi Burroni©)
che ha portato alla completa digitalizzazione del
patrimonio documentario della Fondazione e alla
realizzazione della DL per l’accesso ai documenti
attraverso internet. Il patrimonio documentario dell’Archivio al momento dell’avvio di Impronte digitali era costituito da 6.500 unità archivistiche (nel
frattempo se ne sono aggiunte quasi 1.000).
Apripista è il progetto Impronte digitali,
avviato nel marzo 2013 e concluso
nel febbraio 2016, realizzato in
collaborazione con Fondazione TIM,
Regione Toscana e la partecipazione
del MiBACT, che ha portato alla
completa digitalizzazione del
patrimonio documentario della
Fondazione e alla realizzazione della
Digital Library per l’accesso ai
documenti attraverso internet
Il rilascio della DL è previsto entro la fine dell’anno
2016. La DL è stata concepita come un sistema
aperto che possa interfacciarsi con piattaforme digitali tematiche come La Grande Guerra. I diari
raccontano realizzata in collaborazione con il
Gruppo L’Espresso e come quella intitolata La nostra guerra ’43-’45. I diari raccontano, dedicata
alle testimonianze della Resistenza e della Liberazione, in corso di realizzazione e che sarà accessibile dall’inizio del 2017. Grazie a questo sistema
l’Archivio potrà realizzare più piattaforme tematiche a seconda di ricorrenze, focus su argomenti di
memoria, temi di attualità. Se da una parte, infatti,
si vuole fornire una visione esaustiva del patrimonio digitale, dall’altra si è evidenziato che la fruizione dell’utenza necessita in alcuni casi di una
mediazione. I modelli presentati agli utenti saranno
dunque due: il testo digitale nella sua integrità e gli
estratti trascritti e ricercabili anche in formato testo
che arricchiranno le varie piattaforme tematiche.
I benefici della realizzazione delle piattaforme tematiche, in termini di accesso al patrimonio archivistico, sono lampanti. La Grande Guerra. I diari
raccontano ha fatto registrare 150.000 visite di
utenti unici nel primo anno di vista, e in un anno i
visitatori hanno aperto circa 1.000.000 di pagine.
È difficile poter stimare in quanti mesi o anni
un’istituzione pur affermata come l’Archivio
avrebbe potuto convogliare altrettanti utenti disposti a recarsi fisicamente in sede, a impostare la propria ricerca, a richiedere e consultare le
testimonianze. Inoltre dalla piattaforma sono nati
altri strumenti di diffusione dei contenuti autobiografici e storiografici. Un numero imprecisato di
scuole secondarie di primo e secondo grado hanno
utilizzato lo strumento per delle letture collettive in
classe, altrettanti studenti e studiosi hanno attinto
dai materiali online per le loro pubblicazioni, e numerose altre piattaforme informatiche hanno utilizzato i contenuti sui portali di riferimento. Grazie
alla accessibilità del database sono nati quattro
spettacoli teatrali, uno dei quali intitolato Milite
Ignoto, scritto e interpretato da Mario Perrotta, è
arrivato in finale ai premi Ubu 2015. Almeno due
mostre hanno utilizzato materiali per l’allestimento
(La Grande Guerra, Arte Luoghi Propaganda del
gruppo Intesa Sanpaolo e Dopo i cannoni il silenzio
dell’Istituto del Nastro Azzurro) e altri progetti analoghi sono in corso di realizzazione. Sono anche
stati girati documentari, uno dei quali intitolato
Presente. Volti e voci dei ragazzi di Redipuglia per
Rai Storia. Infine, seguendo le buone pratiche delle
pubblicazioni digital first, il database La Grande
Guerra. I diari raccontano ha generato la collana
editoriale Cronache dal fronte, prodotta sempre in
collaborazione con il Gruppo l’Espresso, stampata
La stanza di Vincenzo Rabito, Piccolo museo del diario, Pieve Santo Stefano (foto: Luigi Burroni©)
e distribuita in edicola, in allegato al settimanale
l’Espresso, nel giugno del 2015.
La nascita del Piccolo museo del diario, museo di
narrazione, multimediale ed esperienziale, ha rappresentato invece l’altra faccia della medaglia della
strategia dell’Archivio nell’era digitale. Da una
parte la Fondazione è andata incontro al mondo, offrendo in consultazione i propri contenuti inediti
attraverso la DL e la rete, dall’altra ha dato vita a
un polo di attrazione che ha incrementato esponenzialmente le visite e l’afflusso turistico presso la
sua sede storica.
Il Piccolo museo del diario è nato
dunque per raccontare la storia e
l’epica dell’Archivio, delle
testimonianze autobiografiche che esso
contiene. È stato concepito con i criteri
del museo di narrazione, un luogo in cui
il visitatore viene chiamato ad assumere
un ruolo attivo
Il Piccolo museo del diario è nato dunque per raccontare la storia e l’epica dell’Archivio, delle testimonianze autobiografiche che esso contiene. È
stato concepito con i criteri del museo di narra-
zione, un luogo in cui il visitatore viene chiamato
ad assumere un ruolo attivo e non passivo come è
sempre avvenuto nella fruizione dei tradizionali
musei di collezione-esposizione.
L’itinerario del Piccolo museo del diario, realizzato
dallo studio di progettazione e design dotdotdot di
Milano (www.dotdotdot.it) è in continua evoluzione. Oggi è articolato attraverso quattro ambienti:
all’interno dei prime due, accessibili dalla sala consiliare del cinquecentesco Palazzo Pretorio di Pieve
Santo Stefano, è stata collocata un’installazione artistica multiutente che permette ai visitatori di
ascoltare, vedere e sfiorare alcune tra le storie più
affascinanti scelte tra gli oltre settemila diari, memorie ed epistolari conservati in Archivio. I visitatori si avvicinano ad uno dei venti cassetti
incastonati in una parete di legno artigianale che
simboleggia gli infiniti scaffali della memoria,
aprono il cassetto e ne contemplano il contenuto.
Quindici schermi digitali e cinque diari originali
permettono di scoprire delle storie che vengono
contestualmente raccontate da alcune voci narranti.
A completare l’impatto emozionale visivo e uditivo, il bisbiglìo di sottofondo dal quale si stagliano
le parole dei protagonisti: è quel «fruscìo degli
altri» che Tutino udiva levarsi dagli scaffali che andavano riempiendosi di diari, con il passare degli
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Il lenzuolo di Clelia Marchi. Piccolo museo del diario, Pieve Santo Stefano (foto: Luigi Burroni©)
anni e con l’incrementarsi del patrimonio autobiografico della fondazione. La terza sala del museo
intitolata Terra Matta presenta un’installazione interattiva multimediale dedicata a Vincenzo Rabito,
mentre la quarta ospita il Lenzuolo di Clelia Marchi, con il “diario” scritto dalla contadina di Poggio
Rusco direttamente su un lenzuolo del proprio corredo, largo più di due metri. Oltre a osservare l’originale posto all’interno di una teca conservativa, da
settembre 2016 i visitatori possono apprezzare
l’exhibit interattivo multimediale progettato per
reinterpretare il racconto della vita di Clelia attraverso una narrazione resa concreta da alcuni oggetti
di vita contadina, sospesi nella stanza e “parlanti”,
che sussurrano segreti e aneddoti della sua vita.
Ogni oggetto, stampato in 3d (gli zoccoli, il secchio, la scopa, il rastrello etc.) all’avvicinarsi dei
visitatori, si attiva per raccontare la parte della storia scritta sul lenzuolo contraddistinta dall’oggetto
stesso.
Per saperne di più. L’Archivio dei diari sulla rete
I diari di Otello Ferri (foto: Luigi Burroni©)
www.archiviodiari.org
Le principali pubblicazioni dell’Archivio su: www.attivalamemoria.it
La piattaforma prototipo sulla Prima Guerra Mondiale, è consultabile all’indirizzo espressonline.it/grandeguerra/
mentre è in corso di realizzazione una seconda piattaforma sulle testimonianze della Seconda guerra mondiale
relative al periodo 1943-1945, che a partire da gennaio 2017 saranno consultabili all’indirizzo
www.lanostraguerra.it
Piccolo museo del diario: www.piccolomuseodeldiario.it
Riconoscere è ricordare
Strumenti e metodi per la valorizzazione della memoria
Antonio Pugliano
La memoria individuale e quella
sociale
La memoria, negli
individui, è la funzione della mente
vocata all’acquisizione delle informazioni, al loro
mantenimento e
alla loro rievocazione in forma di
ricordo, a partire
Antonio Pugliano
dall’esperienza
psichica o sensoriale. Nelle comunità i ricordi individuali sono mediati dall’appartenenza a un contesto sociale e possono essere rievocati dalle
interazioni con coloro che, partecipando del medesimo contesto, condividono analoghe esperienze. Il
passaggio dalla memoria individuale alla memoria
collettiva si giova della mediazione del linguaggio
e di altre espressioni della cultura locale, nello spazio e nel tempo: il “trasmettitore” della cultura di
una comunità è il suo ambiente di vita ed è fondamentale il ruolo delle componenti della società (le
popolazioni e le loro strutture di governo) impegnate a ricevere, a fruire e a vivificare i dati culturali comuni, disseminandoli e assolvendo alla
necessità di ricomporre le narrazioni di un passato
condiviso. Si può ritenere, infatti, che detta necessità non sia riferibile solo a contesti museali circoscritti, ma che riguardi l’intero ambiente di vita, nel
quale la funzione di presidio per la valorizzazione
delle espressioni materiali che veicolano la memoria è assolta dalla pratica del restauro.
Memoria e restauro: conoscere per riconoscere
La nota definizione brandiana di restauro indica
l’esistenza di un approccio strutturato attraverso il
quale individuare ciò che deve essere trasferito al
futuro. L’atto di individuare consiste nel “riconoscere”, ma riconoscere implica aver conosciuto:
non si può “ri-conoscere” ciò che è ignoto o dimenticato. Riconoscere, quindi, è un’azione analoga al
ricordare: all’assistere al nuovo manifestarsi nella
nostra coscienza di un’esperienza già compiuta, divenuta consueta e “tipica” e, per questo, rimasta
“impressa” in forma di memoria incline a essere
rievocata.
La tipicità dell’esperienza implica la permanenza
del “senso”, la riproducibilità nella “percezione” e
la condivisione di un significato. La conoscenza
che presiede al riconoscimento dei dati reali, sperimentabili, quindi è tipologica. Essa è il prodotto
dell’interpretazione critica della realtà, della quale
tende a evidenziare gli elementi permanenti e ricorrenti, fino a comprenderne il pensiero generatore e
la processualità formativa all’interno di un assetto
comune. Tale conoscenza ha nella comunicazione
un momento fondamentale: le sue forme di espressione anche materiale si basano sulla frequentazione di strutture consolidate di linguaggio che
compongono campi associativi.
La definizione di restauro include la sintesi delle
esperienze precedenti in relazione al metodo per il
“riconoscimento di valore”. Il metodo è storico-critico ed è finalizzato alla riattivazione e al mantenimento della condizione “normale” del monumento
che si pone nella forma di una sintesi culturale propedeutica agli interventi tecnici. Il giudizio su cosa
trasferire al futuro risulta dalla comparazione tra la
fisionomia attesa, definita scientificamente, e lo
stato attuale del monumento, una volta compreso
il valore e il senso dell’opera da restaurare, e si
guardi per questo all’attività scientifica, politica e
persino didattica svolta da Giuseppe Fiorelli sul finire dell’Ottocento.
La memoria si costruisce
Il metodo delineato da Fiorelli è stato recuperato
da Paolo Marconi e applicato al riconoscimento del
valore culturale veicolato dal “lessico costruttivo
tipico” dell’architettura tradizionale (fig.1). Lo
“stato normale” diviene il prodotto di un approfondito studio filologico dal quale emerge l’assetto più
rappresentativo dell’eloquenza del monumento,
anche in termini documentali. Diviene essenziale
l’interpretazione in chiave evolutiva dei processi di
formazione, trasformazione e decadimento di manufatti architettonici stratificati e delle loro componenti materiche che sono la cifra linguistica
permanente dei diversi “paesaggi culturali” e delle
loro mutazioni (fig.2). Il paesaggio, quindi, è inteso
come l’espressione della sedimentazione culturale
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Studi storici e tipologici per la ricostruzione della memoria delle tecniche costruttive tradizionali. Ricerche archivistiche e campagne di rilievi tendono alla conoscenza della “regola dell’arte” antisismica la quale, benché efficiente, non è sopravvissuta alle
architetture che a tutt’oggi la manifestano.
Montefranco (Tr) i restauri di Pietro Ferrari all’edilizia cittadina danneggiata dagli eventi sismici del 1785-92. Posa in opera di
catene di legno con testata metallica e bolzone per il contenimento di pareti convergenti in angolate. (A. Pugliano, ricerche
svolte per il Comitato Rischio Sismico del Mibact, negli anni 1985-87 con la direzione di Amedeo Ballardini e Paolo Marconi)
e civile di una comunità, in una parola: della “memoria” del luogo. Il controllo delle fisiologiche mutazioni del territorio è nella pianificazione che
dovrà concepire, proporre e sviluppare azioni fortemente lungimiranti, di carattere “adattativo”,
«volte alla valorizzazione, al ripristino o alla creazione di paesaggi». La pianificazione, quindi, è la
“causa produttiva e necessaria” all’evolvere di un
contesto ambientale dalla condizione generica di
territorio e ne “determina” la condizione peculiare
di paesaggio (fig3).
Contro il paesaggio immemore. Il terremoto e le
ricostruzioni, per concludere
Il paesaggio, pertanto, compone l’ambito di esistenza del patrimonio, lo contiene e da quest’ultimo
non può essere disgiunto nello svolgimento delle
iniziative di restauro e di valorizzazione. Da questo
punto di vista può essere utile riconsiderare esperienze disciplinari precedenti innescate dall’evolvere del concetto di valore storico da riconoscersi
alle vestigia del passato in un senso compiuto affine
all’attuale. Si pensi all’esperienza di restauro filo-
logico e di ambientazione delle permanenze antiche
svolta nel comporre il “museo all’aria aperta della
via Appia” durante il pontificato di Pio IX. Luigi
Canina in quell’occasione svolse una fondamentale
attività di documentazione e restauro sui frammenti
antichi, evitando così la loro dispersione essendo il
luogo parte di un sistema di mobilità territoriale e
di produzione rurale vitale, straordinariamente eloquente, esteso e funzionale. Altro comportamento
esemplare, in tempi successivi, fu svolto dagli archeologhi e architetti costruttori del paesaggio culturale di Ostia. Ivi, Guido Calza e Italo Gismondi
sperimentarono un concetto interessante di restauro
attento agli aspetti tecnici e interpretativi necessari
alla conservazione dei frammenti archeologici attraverso la loro ricomposizione scientifica, funzionale proprio alla “messa in valore”. Il paesaggio
può essere costruito attraverso selezionate mutazioni adattative e, pertanto, è il prodotto d’interventi di “conservazione attiva”, cioè di attività
progettuali commisurate con le vocazioni culturali
residenti. In contesti “viventi” tale orientamento
operativo è attuale e fertile. Esso, infatti, supera
Il restauro per la valorizzazione. La definizione dello “stato normale” dell’organismo architettonico, antisismico, della Fontana
Maggiore di Perugia ha guidato il progetto e la successiva realizzazione cantieristica degli interventi. L’opera restaurata evoca
la concezione architettonica riconosciuta come peculiare alla fase storica che ha preceduto la lunga serie di manomissioni che
ne avevano alterato l’assetto. (A. Pugliano, Il secondo restauro novecentesco della fontana Maggiore di Perugia, in «Ricerche
di Storia dell’Arte» n. 65/98 Carocci, Roma pp. 65-102)
l’esercizio della tutela passiva, adatta ad ambiti di
qualità ma inefficace nella valorizzazione di ambiti
degradati, sottoutilizzati o vulnerati da catastrofi
naturali. Queste ultime, sempre drammaticamente
attuali, sono estremamente lesive delle testimonianze materiali e del tessuto sociale dei luoghi del
territorio apponendo una intollerabile sordina alle
espressioni della cultura residente. Ivi un’appropriata ricostruzione dei tessuti edilizi e, insieme,
dei tessuti sociali e culturali non può che essere
fondata sulla consapevolezza storica ed essere attuata con metodi filologici. Si tratta cioè di operare
il corretto bilanciamento tra la sicurezza e le istanze
della conservazione della memoria, con i suoi valori materiali e immateriali, affinché, anche in sede
di innovazione formale e tecnica, la ricerca di una
dimensione adattativa sia uno dei connotati culturali salienti. Tale consapevolezza e la metodica che
ne deriva, non s’improvvisano ma vanno costruite
nel tempo a partire da appropriate forme di didattica e di ricerca applicata per le quali l’università
deve tendere a svolgere un ruolo fondamentale.
La pianificazione del paesaggio culturale dell’area metropolitana di Roma. Master Plan per la valorizzazione del suburbio sud occidentale lungo il Tevere, sino alla costa con le
importanti presenze archeologiche di Ostia e Portus. (Ricerca
ed elaborazione digitale in ambiente GIS di Simone Diaz per
Mibact-SSBAR e Università Roma Tre, Programma di
Azioni integrate di ricerca e formazione per la valorizzazione
del sito archeologico di Ostia e Portus. Convenzione Quadro
per attività di ricerca scientifica e progettuale, anni 20102013. Responsabili scientifici: Angelo Pellegrino, MibactSSBAR; Antonio Pugliano, Università Roma Tre)
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Dopo il terremoto
Dove e come ricostruire?
Michele Zampilli
Di fronte alla distruzione di interi
nuclei urbani causata dal terremoto
che ha colpito
l’appennino centrale il 24 agosto e
nei mesi successivi, il dibattito
sulla ricostruzione
vede come sempre
confrontarsi
e
scontrarsi posiMichele Zampilli
zioni opposte: ricostruire nello stesso luogo o delocalizzare?
Lasciare il segno del disastro a memoria futura cogliendo l’occasione dell’evento traumatico per proporre nuove forme urbane adeguate alle mutate
condizioni sociali e ai nuovi modi dell’abitare, oppure elaborare il lutto cercando di tornare alla normalità dei luoghi consueti facendo propri i principi
del com’era e dov’era?
Affermazione quest’ultima condivisa da tutti, o
quasi, seppur si sentano voci anche autorevoli di
perplessità in considerazione dell’entità dei danni
procurati dal sisma, dell’insicurezza geologica
delle zone colpite, dell’insicurezza del costruito
storico sia a scala urbana che edilizia, dello spopolamento di quelle aree montane già avvenuto da
molti decenni, e dell’attuale avvenuta “deportazione” delle popolazioni ancora residenti senza una
prospettiva di ritorno in tempi brevi.
È molto probabile che, volendo coinvolgere nel
processo decisionale i diretti interessati, le popolazioni colpite, soprattutto nell’immediatezza dell’evento le scelte sulla ricostruzione ricadrebbero
in gran parte dei casi sul ripristino dello stato precedente al disastro. È talmente forte il bisogno di
tornare a vivere in quei luoghi carichi di ricordi e
di memoria, e non solo conservandola attraverso
tutte le tecniche virtuali che oggi sono disponibili,
che ogni altra possibilità appare impraticabile.
Vengono alla mente due casi emblematici: il terremoto del Belice del 1968 e quello del Friuli del
1976.
Nel primo caso i paesi colpiti e distrutti vennero
tutti delocalizzati e ricostruiti con un disegno urba-
nistico e una tipologia edilizia completamente rinnovati. Rivangare le motivazioni politiche ed economiche di questa operazione, che a mio parere si
è rivelata fallimentare, è inutile in questo contesto
ma vale la pena ricordare che, a distanza di oltre
quarant’anni dall’evento, la cittadinanza di Campo
Reale, uno dei paesi ricostruiti in altro sito, ha deciso con consenso unanime di ripristinare il paese
antico.
La vicenda di Venzone rimane tra i più
significativi esempi del ritorno al
com’era e dov’era di un intero nucleo
urbano all’interno del quale la
ricomposizione testuale della Cattedrale
di San Paolo Apostolo, per opera di
Francesco Doglioni, è ancora oggi un
caso da portare ad esempio: la chiesa
conserva senza occultarli gli effetti del
sisma sulle murature ancora in piedi
(deformazioni, fuori-piombo etc.)
L’altro caso è quello del centro storico di Venzone,
in Friuli, distrutto dal terremoto del ’76. In questa
circostanza i residenti, di fronte ad un progetto calato dall’alto di ricostruzione nello stesso luogo ma
con strutture prefabbricate in cemento armato molto
standardizzate, si oppose ferocemente a questa soluzione richiedendo, e ottenendo, che il centro storico fosse ricostruito esattamente come era prima.
La vicenda di Venzone rimane tra i più significativi
esempi del ritorno al com’era e dov’era di un intero nucleo urbano all’interno del quale la ricomposizione testuale della Cattedrale di San Paolo
Apostolo, per opera di Francesco Doglioni, è ancora oggi un caso da portare ad esempio. Conseguente ad un meditato ed approfondito progetto
culturale e scientifico, attraverso il quale fu prevista
la quasi integrale ricollocazione dei materiali lapidei superstiti sulla base della documentazione grafica dello stato antecedente e di una puntuale lettura
dei singoli conci di pietra riassegnando a ciascuno
la propria posizione originaria, la chiesa conserva
senza occultarli gli effetti del sisma sulle murature
ancora in piedi (deformazioni, fuori-piombo etc.)
ma si evitò di rimarcare eccessivamente le distin-
Alla prima domanda si può rispondere che vi sono rovine e
rovine. In taluni casi, come ad
esempio la cattedrale di Coventry o la Kaiser-WilhelmGedächtniskirche di Berlino,
i relitti conservavano ancora
ampi brani delle antiche strutture e l’avervi costruito a
fianco nuove chiese, in un
contesto urbano già ampiamente trasformato, dava il
senso più di altre soluzioni
possibili della permanenza
del passato, del monito della
distruzione, e della rinascita.
Ma nel caso del campanile di
Venezia (crollato per difetti
costruttivi e non per una catastrofe naturale) avrebbe avuto
senso lasciare un cumulo di
Poggioreale (TP). In alto a sinistra: il paese agli inizi del Novecento. In alto a destra: il macerie in piazza San Marco?
paese oggi dopo la distruzione del terremoto del 1968. In basso: il paese come tornerà ad La torre campanaria non anessere (progetto di L.O. Di Zio)
dava ricostruita per ricomporre un ambiente e uno
zioni tra quanto ricostruito e quanto superstite dello
skyline urbano trai i più celebri che esistano?
stato anteriore con l’obiettivo di restituire la chiesa
E la basilica di San Benedetto di Norcia, recentealla sua comunità e al mondo intero il più possibile
mente devastata dal sisma, non merita di essere susimile a quella dello stato anteriore al disastro.
bito ricostruita nelle sue pristine sembianze per il
A nostro parere quella della ricostruzione nello
valore religioso, civile, architettonico e ambientale
stesso sito e con le stesse forme è la strada maestra,
che rappresenta non solo per gli abitanti di Norcia
beninteso quando le condizioni geologiche lo cono i monaci benedettini, ma per l’umanità intera?
sentono, anche in vista del recupero demografico
A maggior ragione ciò vale per un tessuto edilizio,
ed economico di quelle aree interne che rimane un
il cui valore non risiede nel singolo frammento diobiettivo strategico di tutta la comunità nazionale,
strutto bensì nell’insieme urbano che è più ampio
a prescindere e nonostante il terremoto.
della somma dei valori dei singoli elementi che lo
Dal punto di vista disciplinare, cioè quello del recompongono. E quindi alcuni episodi ritenuti
stauro, e non solo architettonico ma anche urbano
“falsi”, dal solo punto di vista materiale, possono
(che sono la stessa cosa), si deve dare qualche riessere necessari per affermare una “verità” più
sposta a dubbi e perplessità che suscitano tutte le
grande che è quella del significato di quel particooperazioni di ripristino dello stato ante disastro.
lare luogo urbano.
1. Le rovine non fanno parte della storia di un
luogo e perciò stesso non meritano rispetto
Nel rispondere alla seconda domanda si dovrà tecome tali?
nere in considerazione tutto quanto descrive lo
2. Ove si opti per una ricostruzione integrale e fistato dei luoghi prima del disastro: rilievi, viste stolologica è legittimo e opportuno selezionare alriche e fotografie, documenti d’archivio etc.; ma,
cune fasi storiche a scapito di altre cancellando
soprattutto, quanto ancora rimane: le tracce delmomenti del divenire urbano giudicati meno
l’impianto fondiario e delle cellule murarie attestati
degni di essere tramandati nel tempo?
sia dalla strutture di fondazione che dalle mappe
3. Come ricostruire, con quali tecniche e quali tipi
catastali antiche e moderne.
edilizi per assicurare da un lato la sicurezza in ocSe l’obiettivo primario è quello della conservazione
casioni di futuri eventi sismici e dall’altro la condel significato di un luogo, è evidente che non poservazione e la restituzione dell’identità del luogo?
tranno essere ammessi interventi che modifichino
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l’assetto viario e fondiario preesistente in quanto
documento ancora permanente, riconoscibile, e
preziosissimo, per essere la testimonianza più autentica della prima strutturazione antropica.
L’impianto fondiario reca con sé tipi edilizi di prima
edificazione compatibili con tale impianto, che
vanno evolvendosi nel tempo secondo regole relativamente comuni: accorpamenti, sopraelevazioni,
ri-modellazioni per adeguarli alle mutate esigenze
funzionali o anche formali. Questo processo, lento
di secoli, ha avuto una rapida evoluzione soprattutto
negli ultimi decenni con sopraelevazioni eccessive,
ristrutturazioni inadeguate etc. le quali, peraltro,
sono spesso una delle cause principali dei crolli.
Quanto andrà ricostruito deve essere coerente con la
storia edilizia del luogo, quella della lunga durata,
evoluta lentamente senza brusche interruzioni o repentine impennate, rispettando i caratteri architettonici tipologici e costruttivi maturanti con l’esperienza
collettiva durante questo lungo processo.
Non ne risulterà una copia del costruito precedente,
impossibile da replicare e neanche utile a volte,
bensì un tessuto analogo, in grado di dialogare
senza incomprensioni con l’intorno. Un tessuto urbano che, per come è riprodotto, avrebbe potuto esserci sempre stato e comunque non potrebbe che
stare in quel particolare luogo.
Come ricostruire? È evidente che nella ricostruzione andranno contemperate le due esigenze primarie: realizzare edifici in grado di offrire una
adeguata sicurezza sismica ed efficienza energetica
e, nello stesso tempo, conservare i caratteri identitari del luogo senza snaturarli con tipologie edilizie
e costruttive estranee alla cultura edilizia locale.
Difficile da attuarsi ma non impossibile. Servirà un
grande impegno intellettuale e partecipativo e non
dovranno essere disperse le esperienze precedenti,
anche quelle risalenti ad epoche distanti dalla nostra. A solo titolo di esempio, a conclusione di questo breve intervento, dopo il terremoto del 1783
della Calabria meridionale, il governo borbonico
sperimentò la costruzione di una casa antisismica,
la cosiddetta “casa baraccata” costituita da una
struttura mista legno-muratura che ha risposto efficacemente ai terremoti degli anni successivi. Questo tipo costruttivo, ma non solo questo beninteso,
si adatterebbe molto bene alla tradizione dell’appennino centrale e, se attualizzato e testato in laboratorio su prototipi, potrebbe risultare un
interessante modello per una ricostruzione compatibile con tutte le esigenze, non ultima quella di restituire serenità e tranquillità alle persone che vi
potrebbero tornare ad abitare, come tutti auspichiamo.
Venzone (UD). La Cattedrale ricostruita dopo il terremoto del 1976 (F. Doglioni ed altri 1976-95)
Lutto individuale e lutto collettivo
Processi di ritualizzazione e di rielaborazione della memoria
David Meghnagi
«Solo per l’umanità redenta il passato è citabile in
ognuno dei suoi
momenti»
W. Benjamin, Tesi
di filosofia della
storia
Nel dialogo tra le
generazioni il lutto
è un momento importante di riconDavid Meghnagi
ciliazione e di
ricostruzione. Possiamo separarci non solo come sostiene Freud, perché lasciamo morire la persona amata per poter
vivere noi. Possiamo separarci, perché ad altri livelli ci riconciliamo con la persona perduta, facendola rivivere dentro, proiettandone il ricordo nella
vita quotidiana e nel futuro dei nostri figli. Recuperando il passato, redimendo le ferite aperte,
apriamo una porta sul futuro.
Di fronte alla perdita di una persona cara, viviamo,
agiamo e ci comportiamo in una prima fase come
se fossimo noi stessi appartenenti al mondo dei
morti, siamo ripiegati su noi stessi, abbiamo bisogno di stare soli o in compagnia di persone, cui
siamo legati da profondi affetti, i famigliari e i parenti stretti. I rituali elaborati da ogni cultura sono
ricchi di indicazioni per segnalare agli altri questo
nostro stato, per chiedere e ricevere aiuto. Tra gli
ebrei è d’uso non radersi la barba per un intero
mese se la perdita coinvolge i genitori, la moglie,
il marito o i figli. Nello prima settimana del lutto,
si è esentatati anche dalla preghiera quotidiana.
L’unico obbligo è leggere il Kaddish, la preghiera
dei morti. In una situazione normale la vita, dopo
un certo periodo, riprende il suo corso. La persona
ritrova in sé le energie per tornare a vivere. Appunto in una situazione normale. Per normalità intendo la presenza protettiva del gruppo famigliare,
e della cerchia più ampia degli amici, i parenti, i
colleghi di lavoro.
Nel lutto individuale, quando la situazione lo permette, facciamo rivivere al nostro interno le per-
sone che non ci sono più. L’elaborazione del lutto
è possibile non solo come sostiene Freud, perché a
un certo livello, l’Io sceglie di vivere e lascia morire la persona amata, ma anche perché ad altri livelli la persona amata che non c’è più, torna a
vivere dentro di noi.
Nel lutto individuale, quando la
situazione lo permette, facciamo
rivivere al nostro interno le persone che
non ci sono più. L’elaborazione del lutto
è possibile non solo come sostiene
Freud, perché a un certo livello, l’Io
sceglie di vivere e lascia morire la
persona amata, ma anche perché ad
altri livelli la persona amata che non c’è
più, torna a vivere dentro di noi
«Il lutto - scrive Freud - è invariabilmente la reazione alla perdita di una persona amata o di
un’astrazione che ne ha preso il posto, la patria ad
esempio, o la libertà, o un ideale o così via [...]. Orbene, in cosa consiste il lavoro svolto dal lutto?
Non credo di forzare le cose se lo descrivo nel
modo seguente: l’esame di realtà ha dimostrato che
l’oggetto amato non c’è più e comincia a esigere
che tutta la libido sia ritirata da ciò che è connesso
con tale oggetto. Contro tale richiesta si leva un’avversione ben comprensibile [...] gli uomini non abbandonano volentieri una posizione libidica,
neppure quando dispongono già di un sostituto che
li inviti a farlo. Questa avversione può essere talmente intensa da sfociare in un estraniamento dalla
realtà e in una pertinace adesione all’oggetto, consentita dall’instaurarsi di una psicosi allucinatoria
di desiderio». S. Freud (1915), Lutto e melanconia,
in OSF, vol. VIII, pp. 103-104.
La rinascita dentro di noi della persona amata perduta, è l’elemento positivo, che rende possibile la
ricostruzione positiva dell’esistenza. Questo è
quanto accade generalmente nel lutto normale.
Quando non ce la facciamo, ci accusiamo di colpe
immaginarie o reali, secondo una logica tipica del
processo primario, amplificandole nella nostra onnipotenza; diventiamo responsabili di tutto e dob-
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biamo perciò espiare
per tutto sino alla morte.
È il caso della melanconia. Oppure per difenderci da tale pericolo,
cerchiamo rifugio nel
diniego più assoluto, vivendo una vita non nostra, avvolgendo di
normalità quel che non
è più, trasferendo sulle
generazioni che vengono dopo il peso dei
conflitti irrisolti e il fardello di colpa opprimente. La vita di chi viene dopo diventa in questi
dolorosi casi una continua interrogazione alla
Sfinge. I figli sono costretti a diventare adulti prima
del tempo, devono fare da genitori ai loro genitori
per non andare a pezzi loro stessi.
Nel lutto individuale la funzione di mediazione tra le
diverse istanze psichiche è svolta dall’Io. È l’Io a fare
i conti con il fardello di colpa inconscio, a mettere in
atto i meccanismi di difesa e di rielaborazione.
Nei processi collettivi l’azione dell’Io si intreccia
con quella dei movimenti politici, culturali e sociali
e l’elaborazione individuale con quella collettiva.
Il discorso cambia quando il lutto colpisce in modo
estremo una collettività intera. Venendo meno il sostegno diretto del gruppo di riferimento, l’elaborazione del lutto richiede uno sforzo ulteriore, perché
ci si ritrova ancor più soli.
Il suicidio di molti testimoni della tragedia dello
sterminio, molti anni dopo che avevano ritrovato la
libertà, non è un fatto casuale. Per sopravvivere bisognava dimenticare, non pensare a quel che era
accaduto, evitare di voltarsi per guardare il passato,
conservare l’apparente normalità dei gesti, continuare a vivere come se tutto fosse come prima,
anche se nulla poteva essere più come prima.
Per i giovani è più facile, la vita è proiettata sul futuro, il sentimento della perdita può essere rimosso
salvo riemergere molti anni dopo. Per gli anziani è
più difficile, soprattutto se a essere interamente colpite sono le ragioni dell’esistenza e la speranza di
un diverso per i figli. Lasciarsi morire, o peggio,
suicidarsi è una tentazione molto forte, può essere
una forma estrema di manifestazione del sentimento di umiliazione e di dignità offesa.
Il percorso del lutto individuale passa in questi casi
per quello collettivo. Il primo rimanda al secondo
in un intreccio di domande irrisolte che assumono
il carattere di un’ossessione: «Perché a me e non
ad altri? Come impedire che tutto questo si ripeta?»
Di fronte a un lutto estremo che coinvolge la collettività intera, anche la visione religiosa del mondo
appare profondamente intaccata: «Perché Dio ha
permesso questo? Dov’era Dio nel momento della
solitudine più estrema?». Non a tutti è dato poter
rispondere che Dio era presente con le vittime che
soffrivano, nel muto urlo di chi moriva solo e abbandonato, nel grido disperato «Io sono l’ultimo!»,
oggetto di meditazioni diverse e convergenti, da
chi, come Levi, Bettelheim, Amery e Celan, hanno
affrontato il problema da posizioni laiche, e da chi
come Jonas, Frankl, Wiesel, lo hanno fatto tornando a interrogare i testi della tradizione.
Per far fronte al crollo di un intero
mondo dopo la cacciata dalla Spagna, la
Qabbalah sottopose il testo biblico e la
tradizione orale ad una forte tensione,
facendo sprigionare dalle Scritture
significati nuovi in grado di dare un
senso alla tragedia delle espulsioni.
Nella prospettiva della Qabbalah, la
sofferenza di Israele era parte di una
sofferenza cosmica che coinvolgeva la
Shechinah, il grembo divino, il suo
essere madre di ogni creatura
Se nei processi di elaborazione normale del lutto
riprendiamo a vivere riconciliandoci con la persona
perduta. Nella melanconia, come ha sottolineato
Freud, il lutto diventa senza fine e proietta le sue
ombre sul futuro intero. È questa la situazione che
rischia di crearsi
quando il lutto investe un’intera collettività, quando la
distruzione violenta
colpisce un intero
gruppo. Per uscire
dal lutto bisogna
dare un significato al
futuro. Ma come si
può dare significato
al futuro se la possibilità di un futuro è
stata per sempre recisa?
smica che coinvolgeva la Shechinah, il
grembo divino, il suo
essere madre di ogni
creatura.
L’ebreo
chiuso nel suo ghetto,
e con lui ogni altro essere, poteva assolvere
alla funzione di liberare le scintille divine
rimaste intrappolate
nel cosmo dopo la rottura dei Vasi Divini.
Il diniego di fronte ad una grande catastrofe storica,
può scegliere due strade opposte: relativizzare e
minimizzare, amplificare altri eventi correlati al
fine di svuotare la portata dirompente della catastrofe sul pensiero e sulla teoria, lasciando con ciò
che tutto resti come prima. Non potendo negare la
realtà, si opta per il diniego interpretativo. Procedendo per questa strada si può anche arrivare a rendere responsabili di una colpa coloro che vogliono
ricordare, rendendoli responsabili per il fatto che il
passato non passi, accusandoli di poggiare sul ricordo una presunta rendita di posizione.
Per far fronte al crollo di un intero mondo dopo la
cacciata dalla Spagna, la Qabbalah sottopose il
testo biblico e la tradizione orale ad una forte tensione, facendo sprigionare dalle Scritture significati nuovi in grado di dare un senso alla tragedia
delle espulsioni. La lacerazione del corpo di Israele,
il suo dolore, la frammentazione e la dispersione
fra le genti erano il simbolo di un processo che si
svolgeva nel mondo del Pleroma. In questa possente concezione la sofferenza di Israele, le sue
aspirazioni e sogni di redenzione erano parte di un
processo che coinvolgeva l’intero mondo animale
e vegetale. Nella prospettiva della Qabbalah, la
sofferenza di Israele era parte di una sofferenza co-
Una teoria che non fa
il lutto si satura diventando inutilizzabile. Il lutto lo fanno le persone e
la società, ma sotto certi aspetti lo fanno anche le
teorie. Le teorie subiscono l’influenza dei processi
di elaborazione del lutto, di ritualizzazione e di rielaborazione della memoria. La discussione sul passato è anche la maschera con cui si guarda al
presente e si progetta il futuro. La memoria è un
terreno di scontro che non riguarda unicamente il
passato, ma il futuro. Lo scontro sulla memoria riguarda la capacità di fare tesoro dell’esperienza del
passato, l’idea che abbiamo della società, il futuro
che vogliamo darci.
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Le due memorie
Quando la storia si fa architettura
Raynaldo Perugini
«La culture est ce
qui demeure dans
l’homme quand il
a tout oublié».
Questa affermazione, sulla cui paternità si è molto
discusso ma che
viene
generalmente attribuita a
Ėdouard Herriot,
coincide con una
citazione di GaeRaynaldo Perugini
tano Salvemini che in un suo scritto del 1908 intitolato Che cosa è
la cultura scrive: «La cultura è ciò che resta in noi
dopo che abbiamo dimenticato tutto» - che Giuseppe Perugini, autore del Memorial delle Fosse
Ardeatine, era solito ricordare.
Ed è interessante osservare due cose: quanto questa
frase chiami in causa l’idea di memoria e come il
termine stesso di memorial sia sempre stato preferito dallo stesso architetto, parlando della sua opera,
al meno adatto mausoleo, più volte usato invece
dalla critica ma che richiama immagini meno sintetiche e più retrive.
Del resto la memoria è un ambito dalle molte sfaccettature. Come non aver presente quell’ars memorativa cara ai retori dell’antichità classica che
permetteva loro di richiamare alla mente le varie
parti del discorso che dovevano tenere ritornando
con la mente al percorso fatto e associando i diversi
concetti agli edifici e alle immagini che avevano
incontrato? Un’arte che nel Rinascimento doveva
assumere dei caratteri sempre più legati ad aspetti
simbolici ed esoterici ma anche spiccatamente architettonici così come ho avuto modo di esporre nel
mio libro intitolato La memoria creativa.
I cosiddetti loci mnemonici, totalmente immaginari,
dovevano essere concepiti come una sorta di stanza
non troppo grande, non troppo buia ma nemmeno
troppo illuminata all’interno della quale dovevano
essere poste delle immagini – dette imagines agentes – rappresentanti quegli argomenti che si intendeva memorizzare.
A questo metodo iniziale si sovrapporranno poi nel
corso del tempo tutta una serie di ulteriori
precisazioni, anche talvolta a carattere religioso,
spesso legate alle concezioni dell’epoca.
Tant’è vero che un sistema mnemonico rinascimentale poteva infatti prevedere la capacità di creare
con la mente una sorta di meta-edificio – come “un
palazzo con molte stanze” secondo alcuni manuali
– da “arredare” con immagini simboliche che dovevano soprattutto suscitare nel fruitore quella “sintonia cosmica” caratteristica degli ideali filosofici
del momento. E i cosiddetti studioli – da quello di
Francesco I de’ Medici a quello di Federico da
Montefeltro – ne sono una espressione tangibile.
Peraltro va notato che l’immagine della cellula
mnemonica proposta da Romberch nel suo Congestorium artificiosae memoriae, pubblicato a Venezia nel 1583 somiglia moltissimo al ben noto
Modulor di Le Corbusier.
Del resto memoria e architettura, nel corso del
tempo, vengono frequentemente a contatto, e questo vale anche e soprattutto per i rapporti che le legano con la storia.
I cosiddetti loci mnemonici, totalmente
immaginari, dovevano essere concepiti
come una sorta di stanza non troppo
grande, non troppo buia ma nemmeno
troppo illuminata all’interno della quale
dovevano essere poste delle immagini –
dette imagines agentes – rappresentanti
quegli argomenti che si intendeva
memorizzare
Se immaginiamo infatti quanto cultura e civiltà
siano connesse tra loro e quanto a loro volta
debbano alla storia ci troviamo di fronte a uno stato
di cose nel quale alla memoria di quello che
precede – e quindi a una serie di eventi – si
affianca, specialmente nel campo dell’architettura,
il progressivo mutamento – o meglio la costante
evoluzione – del linguaggio. Di un linguaggio
applicato a una serie di interventi, anche talvolta
legati a fattori contingenti che esulano dalla poetica
architettonica dei singoli autori, che vengono risolti
Confronto tra il locus mnemonico di Romberch e il Modulor di Le Corbusier
mediante l’applicazione o meglio la riapplicazione
di soluzioni mutuate dal passato.
Ed è proprio dalla lezione della storia,
dall’apprendimento e quindi dal ricordo di quello
che viene prima nel campo della tecnica e dell’arte
che nasce la consapevolezza di una metodologia
corretta, di una visione architettonica originale.
Spesso, parlando ai miei studenti, faccio presente
quanto la presa di coscienza di come gli architetti
del passato abbiano affrontato e risolto i problemi
che gli si sono presentati di volta in volta nel corso
della loro vita progettuale possa essere utile anche
allo stato attuale. La storia dell’architettura, per noi
architetti di oggi, a differenza dell’idea
rinascimentale di “repertorio operoso” dal quale
attingere elementi e stilemi è piuttosto una
sequenza di situazioni, una lezione attiva che può
influire positivamente sull’oggetto costruito.
Del resto i maestri del Movimento Moderno – così
come lo stesso Giuseppe Perugini – pur avendo
studiato “all’antica” hanno saputo sintetizzare il
linguaggio classico traendone quelle indicazioni e
quei messaggi senza tempo che potevano essere
riapplicati attualizzandoli.
Come si colloca il Memorial delle Fosse Ardeatine
in questo contesto? In un saggio di qualche anno fa
l’ho definito «un evento di pietra». Oggi penso che
forse un tratto interessante sia quello che vede
convergere su questa opera due memorie. Una
memoria storica che riguarda l’evento dell’eccidio
e una memoria architettonica che si riferisce agli
accorgimenti adottati, che vengono da uno studio
attento delle tecniche del passato.
Giuseppe Perugini arriva a sedici anni
dall’Argentina per studiare arte e più precisamente
con l’intenzione di fare lo scultore. Ma un incidente
al braccio destro lo costringe a dirottare la sua
creatività nel campo dell’architettura senza però
precludergli la possibilità di perpetuare la sua
passione per la forma plastica e consentendogli di
creare delle sculture a scala urbana quali sono le
sue opere. Accanto a questo potenziale creativo si
propone però la sua contemporanea passione per la
conoscenza storica. Una storia però che viene
costantemente applicata, sia volutamente sia come
semplice ricordo, come memoria.
Se si osserva nel dettaglio il Memorial – che Bruno
Zevi paragonava a un moderno dolmen – si
riconosce come già nei materiali, ma soprattutto nel
linguaggio e nell’adozione di alcuni particolari
accorgimenti, questa cultura storica, questa
memoria dell’architettura del passato, sia stato uno
dei fili conduttori.
Prima di tutto la posizione di scorcio della lastra che
ripropone l’orientamento “anticlassico” del Partenone
rispetto a chi gli si avvicina venendo dal piazzale, poi
l’inclinazione della stessa e la centina interna della
copertura – che si possono riscontrare dai disegni di
progetto –, accorgimenti questi di carattere percettivo,
“antichi”, destinati l’uno a mantenere l’orizzontalità
visiva e l’altro a evitare il senso di schiacciamento che
una soluzione perfettamente stereometrica avrebbe
potuto generare. Né manca un riferimento alle
tecniche murarie arcaiche nella scelta del materiale
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che fronteggia i sarcofagi.
Però, se si riflette su questa
doppia espressione del concetto
di memoria appare evidente
come la loro sovrapposizione
all’interno di un’opera sia
comunque presente nella grande
architettura.
Un
oggetto
architettonico in quanto tale ha
un messaggio da trasmettere e
se, soprattutto nell’architettura
monumentale, celebrativa o
religiosa, questo si riferisce a un
evento, a un fatto preciso, a un
miracolo, alla scoperta di una
sacra immagine, le scelte
Schizzo autografo di Giuseppe Perugini con la spiegazione delle soluzioni adottate. Si
noti che Giuseppe Perugini considerava “anticlassica” la visione di scorcio – come si compositive e di linguaggio
dall’autore
può vedere in questa immagine – in quanto contestazione della visione frontale tradi- adottate
zionalmente simmetrica e quindi più statica
sottintendono generalmente il
desiderio di recuperare, traendoli
dalla propria conoscenza del
passato – anche attualizzata –, i valori simbolici e
del muro di recinzione. Così come l’idea del “taglio
culturali necessari alla sua realizzazione.
di luce” che mantiene “sospesa” la lastra potrebbe
Quando Adolf Loos scrive «se in un bosco
essere messo in relazione con la sequenza di finestre
troviamo
un tumulo (...) e qualcosa ci dice dentro
tipica dell’architettura bizantina che faceva “volare”
di noi qui è sepolto un uomo. Questa è architettura»
le volte.
fa riferimento alla prima memoria, quella
Ma se le correzioni ottiche in questo caso sono
dell’evento,
ma quando in un altro suo scritto
volute tutte le altre osservazioni che ho esposto
troviamo «il Grande Architetto del futuro sarà un
provengono più dalla memoria, dalla cultura
Classico”
perché tutti “siamo classici nel pensiero
architettonica dell’autore, che dalla volontà di una
e nell’animo» è chiamata in causa la lezione del
consapevole riapplicazione.
passato interpretata con raziocinio e sentimento.
Va detto che anche l’altra memoria, quella
Quell’animo et mente di cui parla Leon Battista
dell’evento storico, si fa a sua volta architettura
Alberti, quella visione completa che è alla base
quando guida il visitatore all’interno delle cave in
dell’atto
creativo che trasforma la staticità del Bello
un percorso, volutamente parte dell’idea
nel dinamismo del Sublime, del "Bello ribelle",
complessiva, che ripropone le sensazioni delle
dove le sensazioni vengono a congiungersi come
vittime prima della loro esecuzione. Il visitatore
nel
Memorial delle Fosse Ardeatine dove il
parte infatti dal piazzale, segue il buio delle grotte
confronto con la sua Architettura è al tempo stesso
fino al luogo dell’eccidio e conclude il suo viaggio
emozione
e consapevolezza di un linguaggio che
nella memoria confrontandosi con i martiri,
trasforma un evento in un oggetto da consegnare
uscendo nella loro sepoltura comune e quindi
alla storia.
“guardandoli negli occhi” da quella sorta di palco
Memorial delle Fosse Ardeatine - Sezione longitudinale (disegno originale conservato nell’Archivio dello Studio Perugini)
«Poi compare Testaccio, in quella luce di miele»
Archivio Urbano Testaccio_AUT: la memoria dei luoghi
Francesca Romana Stabile
«Inutilmente, magnanimo Kublai,
tenterò di descriverti la città di
Zaira dagli alti bastioni. Potrei dirti
di quanti gradini
sono le vie fatte a
scale, di che sesto
gli archi dei porticati, di quali lamine di zinco sono
ricoperti i tetti; ma
Francesca Romana Stabile
so già che sarebbe
come non dirti nulla. Non di questo è fatta la città,
ma di relazioni tra le misure del suo spazio e gli avvenimenti del suo passato».
Italo Calvino, Le città e la memoria, in Le città invisibili, Torino 1972, p. 18
Le evocative parole di Calvino invitano a riflettere
sullo stretto rapporto tra le città e la memoria, un
rapporto ricco e complesso che accompagna l’evoluzione del nostro territorio. Ricostruire, conservare
e trasmettere l’eredità culturale dei luoghi costituisce ormai un obiettivo condiviso da istituzioni, associazioni, comitati cittadini, operatori culturali etc.
Ognuno, a diverso titolo e nelle rispettive discipline, si confronta con la memoria, individuale e
collettiva, che segna gli spazi urbani stratificati,
modellati sull’intero spessore della cultura dei
gruppi sociali. Ragionare sul confronto città-memoria costituisce, inoltre, la necessaria premessa
per la conoscenza e l’interpretazione del patrimonio urbano, al fine di sostenerne una tutela attiva e
partecipata. In tal senso è stato pensato l’Archivio
Urbano Testaccio _ AUT (che coordino), ideato per
promuovere e sviluppare lo studio sulla struttura
urbana e architettonica di Testaccio. Un progetto
nato da una ricerca del Dipartimento di Architettura, Progetto Mattatoio: ricerche e azioni verso la
creazione del Centro Documentazione Sistema
Mattatoio Testaccio e del laboratorio strumentale
(MOtO – Mattatoio One To One), responsabile
Francesco Careri, e sostenuto da Elisabetta Pallottino che, nel 2013, come neo-direttore del Dipartimento di Architettura, ha voluto istituire un centro
di documentazione e ricerca sul territorio dell’ex
Mattatoio di Testaccio, dove ha sede il dipartimento. L’attività di AUT, patrocinata dal Comune
di Roma, nel tempo, si è arricchita del fondamentale contributo di Laura Farroni (responsabile della
sezione Rappresentazione, che da anni studia la
storia dell’ex Mattatoio) e si è accompagnata alla
creazione di una sezione della Biblioteca di area
delle arti – Architettura, contenente libri, articoli,
informazioni digitali, raccolti e catalogati grazie al
prezioso lavoro di Silvia Ruffini (direttrice della biblioteca), Laura Cavaliere e Maria Lopez. Tra le
acquisizioni più importanti la pubblicazione di Gioacchino Ersoch, Roma - Il Mattatoio e Mercato del
bestiame costruiti dal Comune negli anni 18881891, Roma 1891 e il volume di Domenico Orano,
Come vive il popolo a Roma: saggio demografico
sul quartiere Testaccio, Pescara 1912.
Ragionare sul confronto città-memoria
costituisce, inoltre, la necessaria
premessa per la conoscenza e
l’interpretazione del patrimonio
urbano, al fine di sostenerne una tutela
attiva e partecipata. In tal senso è stato
pensato l’Archivio Urbano Testaccio _
AUT, ideato per promuovere e
sviluppare lo studio sulla struttura
urbana e architettonica di Testaccio
La prospettiva di questo Archivio, come detto, è
quella di selezionare il materiale documentario, le
ricostruzioni digitali, le tracce audiovisive sulla storia urbana ed edilizia del quartiere. Una prima sistematizzazione del materiale raccolto è accessibile
dal sito web: aut.uniroma3.it (a cui hanno lavorato
Silvia Rinalduzzi e Ivan Guiducci) dove, alla voce
Catalogo, è possibile consultare una serie di immagini che permettono di ripercorrere l’evoluzione
dell’area. I documenti del Catalogo sono stati divisi
in due sezioni: una dedicata a Testaccio, a cura di
chi scrive, con una serie di schede che descrivono
il territorio, dalle preesistenze archeologiche alla
definizione del quartiere operaio; l’altra al Mattatoio e al Campo Boario, a cura di Laura Farroni,
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rie. Ripercorrere uno dei
luoghi più significativi
della Roma di Pasolini ha
permesso di conoscere, e riconoscere, la forma di una
città che continua a cambiare volto e anima. Una
città che rimane ancora capace di dare forza attraverso ciò che di vitale
resiste nel suo paesaggio
urbano e sociale. Questa
iniziativa, così, ha portato
gli studenti a elaborare un
lavoro fotografico su un
quartiere che costituisce un
patrimonio urbano tra i più
Roma, Cimitero acattolico. Questa e le altre fotografie che illustrano l’articolo sono state
rappresentativi della città,
realizzate da Luigi Porzia, studente del Dipartimento di Architettura, che ha partecipato all’iniziativa TESTACCIO - percorsi fotografici attraverso le tracce di Pasolini, a cura di Fran- dove le tracce della storia
convivono con il tessuto
cesca Romana Stabile.
del quartiere operaio; le
con schede sui progetti di Ersoch e sulle campagne
preesistenze archeologiche si confrontano con le
di rilievo e restituzione virtuale del Mattatoio. Il
aree industriali dismesse; gli spazi pubblici si alterCatalogo sarà aggiornato periodicamente per connano a quelli privati; frammenti di periferia romana
sentirne la divulgazione e la condivisione con altri
preesistono ai recenti interventi di rigenerazione urutenti, dalle scuole, alle istituzioni che si occupano
bana. Inoltre, l’esplorazione di un territorio ricco
di ricerca nel campo della cultura del patrimonio.
di riferimenti materiali e culturali ha avvicinato i
Il materiale consultabile dal sito web, insieme al lagiovani all’universo poetico di Pasolini attraverso
voro di acquisizione e catalogazione di libri e artila ricerca di nuove narrazioni visive che si sono
coli, ha permesso di sviluppare una serie di
confrontate con il tema città-memoria. Per Pasolini,
iniziative didattiche e di ricerca. Tra queste, l’alleRoma è stata l’archetipo di una trasformazione instimento della mostra AUT - Archivio Urbano Tecontrollata che ha colpito, tra gli anni Cinquanta e
staccio: progetti per il Mattatoio, alla Biennale
Settanta, la società italiana e non solo: «quella ridello Spazio Pubblico (21-23 maggio 2015), la parvoluzione – ha scritto Vincenzo Cerami – che cantecipazione al progetto Educare alle mostre, educella ogni diacronia e il millenario zodiaco di
care alla città, a cura della Sovrintendenza
riferimento della società contadina» (V. Cerami, La
Capitolina ai Beni Culturali (2015-2016 e 2016trascrizione dello sguardo, in Per il cinema - Pier
2017) e un percorso didattico rivolto agli studenti
Paolo Pasolini, a cura di W. Siti, F. Zabagli, Milano
di Architettura, dedicato alla rilettura delle tracce
2001, vol. I, p. XLV). Pasolini, perciò, continua ad
di Pier Paolo Pasolini a Testaccio. Quest’ultima iniessere, oltre ad un sensibile testimone, anche una
ziativa è stata l’occasione per capire, in che modo
guida per capire la complessa relazione tra storia,
e in quale forma, la memoria del poeta, a quaranmemoria e processo di omologazione che ci cirt’anni dalla sua morte, fosse ancora viva. Le tracce
conda. A partire dalla sua voce e dal suo sguardo,
dell’opera e della vita di Pasolini nel quartiere
fotografare un luogo come Testaccio, è stato un
sono, infatti, numerose, tra i riferimenti più noti Le
modo per riflettere sul cambiamento generalizzato
Ceneri di Gramsci (1957), i racconti Studi sulla
del legame uomo-territorio e sulla relativa trasforvita di Testaccio (1951) e Storia burina (1956-65),
mazione della città. L’iniziativa, curata da chi
la sequenza finale del film Accattone (1961) e una
scrive, con la collaborazione di Alessio Agresta e
serie di fotografie di Paolo Di Paolo (1960). Questa
Sara D’Abate, è stata pensata anche come un’espegeografia di parole e immagini rappresenta anche
rienza aperta, infatti, sono stati programmati una
la testimonianza del profondo legame di Pasolini
serie di incontri pubblici, organizzati grazie al precon Roma, fatto di infiniti rimandi, segni, incontri
zioso contributo di Graziella Chiarcossi con cui abe visioni che si sovrappongono alle nostre memobiamo selezionato testi, film e documentari
Roma, ex Mattatoio di Testaccio, padiglione 9e (foto: Luigi Porzia)
presentati da Maurizio Ponzi, Mario Martone, Cecilia Mangini, Enrico Menduni (aprile-giugno
2016). Così, attraverso Pasolini è stato possibile ripercorrere le strade e le anime di questa città e ritrovare i segni di una memoria ancora viva, perché
il suo pensiero, rivolto ad orizzonti intellettuali e
tecnici nuovi, rappresenta ancora un’imprescindibile riferimento civile ed espressivo, capace di trasmettere identità e differenza, luoghi di scambio e
comunicazione. Le radici dell’opera di Pasolini
sono profonde e la memoria, attraverso lo sguardo
che si rinnova, invita al viaggio.
Poi compare Testaccio, in quella luce
di miele proiettata sulla terra
dall’oltretomba. Forse è scoppiata,
la Bomba, fuori dalla mia coscienza.
Anzi, è così certamente. E la fine
del Mondo è già accaduta: una cosa
muta, calata nel controluce del crepuscolo.
Ombra, chi opera in questa èra.
Ah, sacro Novecento, regione dell’anima
in cui l’Apocalisse è un vecchio evento!
Roma, ex Gazometro (foto: Luigi Porzia)
Il quartiere operaio del Testaccio. Veduta dal Monte Aventino (convento dei benedettini), lato sinistro (fonte: D.
Orano, Come vive il popolo a Roma: saggio demografico
sul quartiere Testaccio, Pescara 1912)
Pier Paolo Pasolini, Poesie mondane,
12 giugno 1962
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Una fabbrica della memoria a Roma Tre
Viaggio nel Museo storico della didattica Mauro Laeng
Lorenzo Cantatore
C’è un nesso profondo fra i luoghi
e la memoria, pubblica e privata.
Anche il nostro
Ateneo, al tempo
della sua fondazione (1992), scegliendo di far
rivivere l’archeologia industriale
compresa fra Testaccio e Ostiense,
Lorenzo Cantatore
ha fatto della memoria, del suo riuso e della sua riqualificazione urbana una delle cifre inconfondibili e irrinunciabili
che ancora oggi lo caratterizzano. Qualcuno, sfruttando il passaggio di molti edifici dalla funzione
industriale a quella universitaria, parlò opportunamente di «fabbriche della conoscenza». Fra quei
luoghi della memoria Roma Tre inglobava anche il
più centrale e antico edificio di piazza della Repubblica 10, che da decenni, antonomasticamente, veniva chiamato il Magistero. Già spazi termali in età
imperiale, poi, dal XVI secolo, granai pontifici,
quindi orfanotrofio femminile, quelle ampie cubature conservano ancora oggi una forte carica identitaria per il nostro Dipartimento di Scienze della
Formazione. Proprio lì, infatti, trovò stabile collocazione nel 1882 l’Istituto superiore di magistero
femminile (vi avrebbero insegnato, fa gli altri, Giovanni Prati, Luigi Pirandello, Maria Montessori e
Ugo Fleres), esperimento pedagogico tanto impacciato e lento, quanto innovativo, che aprì definitivamente alle donne, future insegnanti, le porte della
formazione universitaria. Era l’embrione della Facoltà di Magistero, nata durante il fascismo, a sua
volta madre della Facoltà, ora Dipartimento, di
Scienze della Formazione. Ma ciò che fa ancora
oggi di quell’indirizzo, piazza della Repubblica 10,
una sorta di formula magica che, appena la pronunciamo, si spalancano vasti e vari scenari del nostro
passato educativo, è quanto il visitatore curioso di
itinerari imprevedibili può trovare in fondo al
grande corridoio del primo piano: il Museo storico
della didattica Mauro Laeng, il più antico museo
italiano (è stato fondato nel 1876) dedicato alla
scuola e all’educazione. Cinque grandi ambienti,
che non sarà inappropriato definire stanze della memoria, dove chiunque può rintracciare un pezzo di
sé bambino, della propria famiglia e origine sociale, delle letture voraci e di quelle più ostiche,
delle paure, dei diritti e dei doveri, delle gioie e dei
dolori, dei divertimenti e delle noie, dei primi
amori. Se è vero, infatti, che la scuola è stata e forse
ancora è tutto ciò e molto altro, le stanze di questo
museo, vera e propria wunderkammer della cultura
pedagogico-educativa italiana fra Ottocento e Novecento, hanno un’irresistibile carica evocativa che
attraversa e fa attraversare al visitatore una ricca
sequenza espositiva di materiali rari e preziosi. Qui
la “fabbrica della conoscenza” e la “fabbrica della
memoria” lavorano all’unisono intorno alle radici
profonde delle nostre origini culturali, sociali e politiche.
C’è un nesso profondo fra i luoghi e la
memoria, pubblica e privata. Anche il
nostro Ateneo, al tempo della sua
fondazione, nel 1992, scegliendo di far
rivivere l’archeologia industriale
compresa fra Testaccio e Ostiense, ha
fatto della memoria, del suo riuso e
della sua riqualificazione urbana una
delle cifre inconfondibili e irrinunciabili
che ancora oggi lo caratterizzano
La passione per la microstoria e per la storia sociale, del vissuto educativo e di quanto quest’ultimo sia stato spesso in stridente contraddizione
con i saperi pedagogici ufficiali, quelli dei trattati
e dei precetti, o quelli delle leggi, dei decreti e delle
circolari ministeriali, è la bussola teorica e metodologica che orienta l’organizzazione di questa
perla del patrimonio museale romano. «Abbiamo
voluto costruire un’occasione di raccordo fra l’attuale dibattito storiografico, la continua evoluzione
del paradigma stesso della memoria storica e le testimonianze documentarie della vita scolastica del
passato – spiega Carmela Covato, ordinaria di Storia della pedagogia a Roma Tre, che è stata a lungo
direttrice del Museo – accogliendo una sfida cultu-
Arredo originale di una scuola rurale toscana
(Val d’Orcia), anni Venti
Banco originale in dotazione nelle scuole del Comune
di Roma alla fine dell’Ottocento
rale, che oggi si vuole realizzare contro ogni tentazione nostalgica o retoricamente celebrativa della
scuola che non c’è».
Ecco allora che, aperta una porta, ci si para davanti
lo stipetto in legno fatto costruire da Maria Montessori, su suo disegno originale, per raccogliere i
materiali di sviluppo (il celebre cofanetto delle figure geometriche piane, l’alfabetiere etc.) destinati
ai piccoli ospitati nella prima Casa dei bambini
ispirata al suo metodo e inaugurata nel quartiere Tiburtino, a Roma, nel 1907. Niente di più appropriato del paradigma montessoriano, che tende a
costruire l’ambiente morale a partire dall’ambiente
fisico, per avvicinarci a quella che le più recenti posizioni storiografiche chiamano “storia materiale”,
un orientamento che indaga il passato sulla base
degli oggetti che hanno condizionato la vita delle
persone. Il meccanismo della memoria, in questi
casi, viene attivato dal contatto con l’oggetto e
dallo sforzo d’immaginazione che, tanto il flâneur
dilettantesco quanto lo studioso rigoroso di questi
temi specifici, mettono in atto, a diversi livelli,
esplorando il Museo. Entriamo nella stanza di
fronte e, dopo aver posato lo sguardo su una grande
scultura lignea di Ferdinando Codognotto, che riproduce l’albero di Pinocchio con tutti i personaggi
che accompagnano il più famoso burattino del
mondo attraverso la sua storia di formazione, chie-
diamo il permesso di curiosare dietro le ante di un
grande armadio a vetri. Basta aprire uno dei bellissimi raccoglitori foderati di carta di Firenze per
scoprire le firme di Benedetto Croce, Luigi Einaudi, Giovanni Gentile, Pietro Jahier, Augusto
Monti, Giuseppe Prezzolini: è l’archivio personale
di Giuseppe Lombardo Radice (1879-1938), uno
dei massimi pedagogisti europei del Novecento.
Così, dalla storia materiale siamo passati alla storia
delle idee. Leggendo questi epistolari, in gran parte
inediti, possiamo infatti ricostruire il formarsi delle
idee (prima che diventassero teorie, saggi o addirittura leggi dello Stato) nelle conversazioni fra
grandi intellettuali che nella scuola e nella necessità
di cambiarla hanno creduto profondamente.
Ancora un passo, una porticina, un corridoio stretto
ed è fatta, siamo nel cuore del Museo, la stanza
dove è ricostruita l’aula di una scuola rurale degli
anni Venti. Sembra di sentire ancora le voci dei
bambini poveri, affamati e analfabeti, le mani imbrattate di inchiostro, un tozzo di pane secco in
tasca, radunati sotto le attente cure di un altro
gruppo di intellettuali benemeriti dell’istruzione
popolare (Sibilla Aleramo, Duilio Cambellotti, Angelo e Anna Celli, Giovanni Cena, Alessandro Marcucci) delle cui imprese si conservano qui prove e
testimonianze, materiali e spirituali, che ci ricordano che la scuola è stata una faticosa conquista
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di cose bambine, se un
dell’umanità, sacrosanta
po’ di tempo rimane, lo
e inviolabile. Tutt’insi può dedicare al patritorno all’aula, nelle vemonio librario: circa
trine, la dimensione
20.000 volumi, fra periomuseale si apre alla sua
dici, monografie e mavocazione più scontata,
nuali scolastici. Molta
ovvero la conservazione
pedagogia e didattica
di opere d’arte. Proprio
ma, soprattutto, tanta letqui infatti, nell’auletta
teratura per l’infanzia, di
per i contadini dell’Agro
quella con le pagine illuRomano, che Alessandro
strate da Enrico MazMarcucci aveva progetzanti, Carlo Chiostri,
tato secondo canoni este- Teatrino per marionette, 1950 circa
Attilio Mussino, Antonio
tici atti a rendere
Rubino, Yambo, Sergio
l’ambiente-scuola accoTofano, Mario Pompei, Libico Maraja, fino a
gliente e allegro proprio per favorire l’educazione
Bruno Munari, Grazia Nidasio e Altan. Qui la medella sensibilità estetica nei figli dei contadini, la
moria prende definitivamente il volo per condurci
firma di Cambellotti, pittore, decoratore, illustranei sogni che un tempo popolavano le fantasie di
tore e scenografo fra i più originali del Novecento,
piccini e giovinetti, dove avvenivano incontri miricorre su copertine di libri, riviste e quaderni, sulle
racolosi tra la Fata Turchina e il Corsaro Nero, il
maioliche miracolosamente salvate dalle mura
Gatto con gli stivali e Peter Pan, Heidi e Oliver
esterne di una scuoletta di campagna ora sommersa
Twist, Topolino e il Signor Bonaventura. Ora però
dal cemento della periferia urbana, e sulle grandi
tavole che ne decoravano l’interno. Sì, c’è proprio
non c’è più tempo. È suonata la campanella, finis.
L’incanto della memoria s’interrompe bruscatutto. La memoria e l’immaginazione non hanno
mente, ma noi di certo torneremo in visita al Museo
più alibi per procrastinare il nostro viaggio insieme
storico della didattica di Roma Tre. (info:
a quelle donne e a quegli uomini illuminati, appassionati e coraggiosi, giustamente definiti “i garibalhttp://host.uniroma3.it/laboratori/museodidattica/c
dini dell’alfabeto”.
hi.htm)
Quaderni scolastici anni Venti e Trenta raccolti da Giuseppe
Lombardo Radice
Mentre lo sguardo, onnivoro e furtivamente veloce,
si posa ora su una raccolta di centinaia di quaderni
scolastici degli anni Venti del Novecento, ora su
teatrini che rievocano scenari borghesi alla Wilhelm Meister, ora su contenitori d’alluminio istoriati, oppure su qualche sguardo fisso di bambola
Lenci, o su incredibili album di figurine Liebig che
avrebbero fatto impazzire il Benjamin collezionista
Giuseppe Lombardo Radice in un ritratto fotografico
dei primi anni Venti
Memoria collettiva e identità nazionale
Breve storia di un fenomeno controverso: l’identità collettiva degli italiani
Paolo Mattera
Immaginiamo di svegliarci una mattina
senza memoria, senza
ricordare assolutamente nulla di noi
stessi e del nostro passato: saremmo completamente smarriti,
non sapremmo cosa
fare, a chi rivolgerci,
come comportarci; e
saremmo esposti a
ogni tipo di influenza
Paolo Mattera
e suggestione, da persone pronte a condizionarci. E ora immaginiamo di
applicare la medesima fantasia non già a una singola persona, bensì a una collettività: senza memoria di sé, quella comunità sarebbe smarrita, non
saprebbe cosa fare e sarebbe esposta a ogni influenza esterna.
Basta forse questa semplice e immaginaria analogia
per cogliere l’importanza della memoria nella identità collettiva di un popolo. Nel linguaggio comune
infatti tendiamo spesso a usare le parole Stato e Nazione come sinonimi. Invece non lo sono: lo Stato
è un ordinamento giuridico; la Nazione è una costruzione culturale che può diventare un sentimento
di appartenenza collettivo. E da dove nasce l’idea
di nazione? Da lontano: dall’Illuminismo e dalla rivoluzione in Francia, che posero il problema della
legittimazione del potere dal “basso”, dal popolo.
Bisognava allora chiarire chi fosse il popolo e in
che modo identificarlo. La soluzione fu di attingere
al passato: coloro che condividevano la stessa lingua creata nei secoli, le stesse tradizioni, gli stessi
riti (spesso religiosi) allora potevano provare quel
sentimento di appartenenza alla medesima comunità chiamata Nazione. Ecco allora come l’identità
collettiva di un popolo diventava strettamente connessa alla memoria che quel popolo aveva di sé e
del proprio passato.
E l’Italia? L’idea di nazione come patria comune
arrivò anche nella penisola, dove esisteva un sostrato su cui fondarla: dal Settecento in poi una
parte estesa dei ceti medi intellettuali italiani non
si sentiva più identificata con l’aristocrazia e volle
vedere nella tradizione italiana (fondata nella lin-
gua, nel passato glorioso, nella cattolicità, nel Rinascimento) la dimostrazione dell’esistenza di una
nazione italiana che doveva acquistare coscienza di
sé. E su questa base poté trovare alimento il grande
fenomeno storico chiamato Risorgimento, il cui
etimo sta indicare l’idea di una resurrezione civile
che, mediante l’unificazione dei vari stati, doveva
segnare la riscossa di un popolo oppresso da secoli
di obbedienza.
L’Unità d’Italia fu l’esito di un processo lungo che
dopo il 1861 non poteva dirsi concluso. Non già
unificazione di un popolo ansioso di convivere,
bensì trama di nazioni diverse che faticavano a
comporsi in un quadro omogeneo, la nuova realtà
stentava ad affermarsi. Raggiunta l’Unificazione
degli Stati, nel 1861 bisognava insomma realizzare
l’unificazione delle Nazioni (il famigerato «fare gli
italiani» di D’Azeglio). Perciò sin dall’inizio i governanti del nuovo Stato cercarono di colmare queste lacerazioni con la creazione di un’epica
nazionale che celebrava il sodalizio armonioso tra
i diversi protagonisti del Risorgimento. Una retorica patriottica imperniata sulla triade Garibaldi,
Cavour e Vittorio Emanuele, cui si aggiungeva con
una certa fatica, l’immagine di Mazzini. Quest’azione retorica poteva però parlare agli intellettuali. Come parlare invece alle grandi masse di
contadini analfabeti? Allora la classe dirigente si
impegnò ad elaborare una “religione della patria”,
con l’inaugurazione di nuovi spazi pubblici, l’avvio
di complessi monumentali come il Vittoriano, e con
le spettacolari sfilate promosse in occasione di anniversari come quello del 20 settembre. La popolazione veniva così coinvolta in un processo di
fusione sentimentale ed emotiva coi valori patriottici, sopratutto attraverso simboli che incarnavano
questi ideali.
I risultati furono contraddittori. Nei cinquant’anni
successivi l’Italia fu sottratta da un destino di sottosviluppo, cui pareva condannata dalle condizioni
preunitarie, e il sentimento patriottico crebbe nei
ceti medi, mettendo in minoranza le nostalgie per
gli Stati preunitari. D’altro canto, per molti sudditi
del Regno la parola “Italia” continuava a risultare
priva di un significato concreto, anche perché si incarnava in uno Stato visto come oppressivo, pronto
a presentarsi per riscuotere le tasse oppure per sot-
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La celebre foto per il settimanale Tempo (edizione del 15 giugno 1946) dal fotografo Federico Patellani come parte di un
servizio fotografico celebrativo della nascita della Repubblica. Il voto referendario del 1946 per la prima volta in Italia
fu riconosciuto il diritto di voto anche alle donne
trarre braccia col servizio militare, ma poi ben più
lento a farsi carico delle esigenze concrete dei cittadini più poveri. Allora la classe dirigente pensò
di cogliere l’occasione del cinquantesimo anniversario dell’Unificazione, nel 1911, per organizzare
grandi festeggiamenti collettivi. E per farlo, decise
di fare leva proprio sulla memoria del passato e
delle tradizioni popolari, in un tripudio di retorica
che riempì i giornali e le piazze, con feste, sagre e
incontri pubblici.
Non si fece però nemmeno in tempo a registrare i
risultati di questo sforzo che sopraggiunse un
evento di svolta: la Grande Guerra. Il sentimento
di appartenenza nazionale ebbe l’occasione di misurarsi nelle trincee. Chiamati a uno sforzo così
estremo, gli italiani sentirono forse per la prima
volta di essere cittadini di una patria comune. E cominciarono a riflettere su quanto importante fosse
questa realtà chiamata “Italia”, se imponeva sofferenze così gravi. Per milioni di italiani la Grande
Guerra costituì quindi la prima vera esperienza nazionale vissuta collettivamente. E tuttavia, lasciando dietro di sé una scia di dolore e di
recriminazioni, il conflitto scavò nella società lacerazioni profonde, che inghiottirono le ultime
scintille di sentimento unitario.
Dopo la Grande Guerra e anche per effetto della rivoluzione d’ottobre si accentuò infatti la radicalizzazione della lotta politica tra opposte visioni della
società: il nazionalismo da una parte, il bolscevismo antinazionale dall’altra. Fu uno scontro frontale, che schiacciò a tenaglia il fragile sistema
parlamentare. Ne scaturì il Fascismo, che intendeva
rifondare il sentimento nazionale su basi nuove. Il
binomio fondante del Risorgimento, Unità e Libertà, venne reciso. Al suo posto venne affermato
un nuovo binomio, Unità e Potenza. La patria smise
così di essere quella immaginata dai liberali: la casa
di tutti gli italiani indipendentemente dalle convinzioni politiche; ora invece diventava monopolio di
uno solo partito, fattosi regime, contro tutti gli altri.
E così, dietro la patina lucente della retorica e delle
parate militari, nuove e più profonde lacerazioni
solcavano la società italiana.
Non è un caso che, caduto il fascismo e con l’Italia
invasa dalle truppe tedesche, la lotta armata contro
il nazismo e il fascismo repubblicano abbia acquistato il carattere di una guerra patriottica di liberazione nazionale. La Resistenza è stata perciò una
pagina fondamentale per la riunificazione delle diverse correnti politiche antifasciste intorno ai valori
dello Stato nazionale. E quello spirito Resistenziale
diede origine alla Costituzione. Ma non sopravvisse a lungo.
La società era stata fortemente colpita dalla guerra.
E il sentimento di appartenenza comune ne aveva
risentito. Tutti cercavano nuovi punti di riferimento, ma in pochi guardavano verso la stessa direzione. Bisognava integrare il proletariato, che si
riconosceva nell’ideale marxista, il popolo cattolico, che guardava al magistero della Chiesa, e
anche i ceti medi che al fascismo avevano creduto.
L’onere cadde sui grandi partiti di massa, che sin
dall’inizio andarono ben oltre il loro ruolo fisiologico di mediatori tra società e istituzioni, per trasformarsi in garanti dello Stato democratico. Erano
i partiti a farsi carico della fedeltà di loro militanti
ed elettori alla Repubblica. Ne discendeva che
l’adesione di molti cittadini alla comunità democratica avveniva solo di riflesso: per milioni di persone la vera patria era il partito, comunista o
cattolico, la cui fedeltà alle istituzioni democratiche
comportava, indirettamente, anche la fedeltà dei
militanti. Con questo “patriottismo di partito”, lo
spirito unitario che aveva animato i primi anni della
nascente democrazia non sopravvisse perciò all’inizio della Guerra Fredda, che introdusse una spaccatura profonda tra i maggiori partiti italiani.
Mentre i grandi partiti di massa erano impegnati a
contendersi la fedeltà degli italiani, intanto si verificava una trasformazione ancora più profonda. Infatti pochi anni dopo il “miracolo economico”,
provocava una vera e propria rivoluzione antropologica: il “cittadino consumatore” stava per scalzare il “cittadino virtuoso” della stagione liberale e
il “cittadino democratico” vagheggiato dalle forze
dell’antifascismo. Il benessere materiale richiamava altri orizzonti, soprattutto costumi e mentalità
radicati Oltreoceano. In questo quadro, tutti gli
sforzi per agire sulle memoria comune e sui valori
della nazione tendevano a cadere nel vuoto. Le
grandi feste nazionali del 4 novembre e del 2 giu-
L’Unità d’Italia fu l’esito di un processo
lungo che dopo il 1861 non poteva dirsi
concluso. Non già unificazione di un
popolo ansioso di convivere, bensì
trama di nazioni diverse che faticavano
a comporsi in un quadro omogeneo, la
nuova realtà stentava ad affermarsi.
Raggiunta l’Unificazione degli Stati, nel
1861 bisognava insomma realizzare
l’unificazione delle Nazioni (il
famigerato «fare gli italiani» di
D’Azeglio)
gno scivolarono ben presto nella sostanziale indifferenza, mentre la ricorrenza del 25 aprile sarebbe
stata a lungo teatro di contesa fra memorie contrapposte. Attratti dal benessere, gli italiani desideravano qualcosa di ben più concreto: istituzioni
funzionanti e servizi efficienti, tali da offrire a tutti
l’opportunità di beneficiare della ricchezza diffusa,
di uscire dall’eventuale emarginazione, oppure evitare di cadervi.
Quando, tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio
degli anni Novanta, la crisi economica e l’inefficienza dei servizi sembrarono minacciare il benes-
Milano, 1963. Arrivo di emigranti dal sud Italia alla stazione
centrale di Milano (foto: Iliano Lucas)
sere e la mobilità sociale, in gran parte della popolazione maturò un senso di vero e proprio rigetto
verso i partiti, provocando il velocissimo e inaspettato crollo di un intero sistema politico. Non si trattava della “sola” caduta di una ceto dirigente. La
crisi affondava le sue radici nell’ormai persistente
frammentazione della società, disgregata in mille
interessi particolari e mai effettivamente unificata.
Risuonarono così i rintocchi funebri che annunciavano la fine della nazione. Da allora, con fortune
altalenanti, il problema si è posto periodicamente,
senza trovare una soluzione definitiva. Un dato
sembra però diventato nel frattempo chiaro. Un popolo privo di memoria è un popolo privo di coscienza di sé e che perciò, costantemente alla
ricerca di orientamento senza una bussola, oscilla
tra soluzioni differenti e spesso opposte, rischiando
di non trovare mai un baricentro e quindi la stabilità.
ll presidente Sandro Pertini con il calciatore Dino Zoff e l’allenatore della nazionale italiana di calcio Enzo Bearzot il 12
luglio 1982 durante il ricevimento al Quirinale dopo la vittoria dei mondiali di calcio di Spagna
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Nostalgia della polvere
Un caso studio tra storia e memoria: le operaie dell’industria ceramica di Civita Castellana
Giancarlo Monina
Parlare di “polvere”
a una lavoratrice e a
un lavoratore dell’industria ceramica
significa richiamare
sofferenze e lutti.
Per chi non ne
avesse nozione, mi
riferisco alla polvere prodotta dalla
lavorazione della
ceramica,
contenente un’alta perGiancarlo Monina
centuale di micro
particelle di biossido di silicio cristallino, la cui inalazione prolungata nel tempo causa un’affezione
polmonare chiamata silicosi che può condurre alla
morte per insufficienza respiratoria o per scompensi cardiaci. Questa patologia ha segnato drammaticamente la popolazione di Civita Castellana
rappresentando fino alla fine degli anni Ottanta del
secolo scorso la principale causa di decessi, per poi
diminuire il suo tragico impatto in corrispondenza
con l’introduzione delle misure di sicurezza nelle
fabbriche e, specialmente, con il rapido processo di
deindustrializzazione prodotto dalla crisi del settore.
Parlare di “polvere” a una lavoratrice e
a un lavoratore dell’industria ceramica
significa richiamare sofferenze e lutti.
La silicosi infatti, patologia causata
dall’inalazione di micro particelle di
biossido di silicio cristallino contenute
nella polvere prodotta dalla lavorazione
della ceramica, ha segnato
drammaticamente la popolazione di
Civita Castellana rappresentando fino
alla fine degli anni Ottanta del secolo
scorso la principale causa di decessi.
Perché dunque “nostalgia”
della polvere?
Perché dunque “nostalgia” della polvere? Per segnalare nella forma più estrema un paradosso di cui
si trova ampia traccia nelle interviste con le operaie
svolte da Laura Guglielmo e Flavia Tronti, due giovani ricercatrici civitoniche: tracce di una memoria
in cui la polvere perde il suo connotato negativo
per avvolgere e infine diventare nostalgia di
un’identità perduta. Questo paradosso trova un’evidente spiegazione nel rimpianto di un tessuto sociale solidale: una rete di relazioni costruita sulla
mutua assistenza, sulla comune difesa dei diritti,
sulla reciproca collaborazione. Una forma di identità che ritorna in diversi ricordi, ma che per lo più
si traduce, e per molti versi si potenzia, nella versione propria all’universo femminile: non necessariamente in termini “politici”, piuttosto praticata
nel vivere quotidiano della fabbrica. È un mondo
fatto di ragazze che si aiutano, che legano tra loro,
che scherzano, che si scambiano esperienze. Questa
rete solidale di giovani donne operaie occupa uno
spazio preminente nei racconti e viene compendiata
attraverso definizioni apparentemente ambivalenti,
che comprendono sia il riferimento alla dimensione
familiare sia il riferimento alla dimensione del lavoro. Proprio nel rapporto tra queste due dimensioni, famiglia e lavoro, così intrecciate da
sovrapporsi, si dipana la narrazione delle lavoratrici
civitoniche che praticano la “differenza di genere”
proiettando la sfera privata in quella pubblica e rivendicando con decisione la loro funzione sociale.
L’identità rimpianta si nutre anche di una comune
cultura del lavoro che emerge chiaramente sia nella
rivendicazione della “disciplina”, sia nell’orgoglio
della “tecnica”. Le ex operaie descrivono con sobria fierezza le loro mansioni, anche le più umili, e
si soffermano sull’arte della decorazione, sull’originalità dell’opera. L’attenzione alla dimensione
tecnica del lavoro restituisce il valore etimologico
della parola techne che indica appunto l’abilità del
plasmare, del manipolare e del trasformare gli elementi. Un fare artigianale, inizialmente meno compromesso dalla serialità del gesto, ricondotto al
campo della conoscenza e della cultura. La tecnica
significa dunque “saperne di qualcosa”, diventa tramite della comunicazione, della condivisione: un
portato culturale che crea identità (M. Heidegger,
La questione della tecnica, 1953). È un aspetto che
emerge nei racconti anche attraverso il valore assegnato alla trasmissione delle conoscenze e delle
Operaie decoratrici della Civita Più di Civita Castellana, 2010 (foto: Flavia Tronti©)
competenze, oppure nel carattere scarno ed essenziale di molte risposte che le rendono lo specchio
di un’epoca della fabbrica e del vivere sociale.
Il sentimento della nostalgia è naturalmente determinato dalla percezione di qualcosa che è andato
perduto, ed è proprio il senso della perdita uno
degli elementi che più caratterizza i racconti. Si
tratta di un passaggio noto ed essenziale nel processo di costruzione della memoria alla cui base
Paul Ricœur ha individuato la nozione di passeità
del passato: una realtà cioè su cui non è più possibile agire perché semplicemente non è più
(L’enigma del passato, 1998). Ricœur attribuisce
questo elemento alla dimensione individuale della
memoria mentre, nel caso di questi racconti, ci troviamo di fronte al suo trasformarsi in discorso collettivo che al tempo stesso potenzia e oltrepassa la
categoria di passeità. Questa, infatti, si rafforza
nella visione comune, ma si svincola anche dalle
regole del modello producendo una memoria sociale. Il senso della perdita riguarda in primo luogo
la fabbrica stessa, andata scomparendo sotto gli effetti di un processo di deindustrializzazione tanto
rapido quanto doloroso. Non è il caso di soffer-
marsi su un fenomeno noto che ha coinvolto molti
distretti industriali del nostro paese e che è stato
particolarmente gravoso per quello della ceramica
di Civita Castellana che nel giro di pochi anni ha
visto chiudere decine di aziende. Qui interessa piuttosto sottolineare non il fenomeno in sé ma la percezione che ne hanno avuto, attraverso il filtro della
memoria e della narrazione, le protagoniste di questa raccolta. Le fabbriche diventano così elementi
di una topografia degli affetti intorno alla quale si
sviluppa il senso dello spazio degli abitanti di Civita Castellana, racchiudono un complesso universo di significati che incide profondamente sui
valori dell’identità. Di questa perdita la dimensione
corale del racconto propone la rappresentazione dei
passaggi chiave del “grande cambiamento”, che
non risiedono nella concorrenza dei prodotti cinesi
o nel processo di globalizzazione economica,
aspetti sia pure ovviamente citati, ma in fattori più
profondi, legati al mondo dell’esperienza e delle
percezioni, dei desideri e delle paure. L’emergere
di questi fattori culturali e antropologici include a
pieno titolo anche valutazioni sul cambiamento di
tipo politico e “istituzionale”: in questo senso risultano esemplari i riferimenti alle organizzazioni sin-
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Impianti della Saturnia Porcellane di Civita Castellana, 2016 (foto: Flavia Tronti©)
dacali, soggette anch’esse a un mutamento di ruolo.
Sia pure con accenti differenti, il tema della perdita
di ruolo e di impegno da parte dei sindacati torna
in numerose interviste. È utile evidenziare come,
anche dal punto di osservazione dello storico, non
sia particolarmente importante la veridicità o meno
di questa “denuncia”, piuttosto notare come questa
sia l’immagine condivisa nei racconti e nella memoria. Si tratta cioè di un elemento di una più
ampia percezione della metamorfosi che riconduce
il fenomeno della crisi economica alla dimensione
“antropologica”: ai comportamenti, alle culture,
alle relazioni. La cifra del cambiamento è così individuata nella progressiva perdita di valore e di rispetto per l’essere umano e per la sua fatica, nella
scomparsa dei sentimenti di solidarietà, dell’altruismo e dell’umiltà. Più in generale, nel venir meno
di quell’ordito unitario che aveva caratterizzato
l’identità delle operaie fino alla fine degli anni Ottanta. Molte delle risposte insistono sul cambiamento del processo produttivo che ha potenziato la
produttività a discapito della qualità appesantendo
l’atmosfera negli ambienti di lavoro. È la fine della
“tecnica” che si è compromessa nell’eccesso della
serialità, nella standardizzazione che esclude il contributo individuale. Il cambiamento, confuso nelle
dinamiche della crisi economica, si presenta come
una vera e propria “corruzione di un mondo” di cui
ormai solo la memoria conserva le tracce preziose.
Questo paradosso trova un’evidente
spiegazione nel rimpianto di un tessuto
sociale solidale: una rete di relazioni
costruita sulla mutua assistenza, sulla
comune difesa dei diritti, sulla reciproca
collaborazione. Una forma di identità
che ritorna in diversi ricordi, ma che
per lo più si traduce, e per molti versi si
potenzia, nella versione propria
all’universo femminile: non
necessariamente in termini “politici”,
piuttosto praticata nel vivere quotidiano
della fabbrica
Le narrazioni delle operaie civitoniche rappresentano una preziosa fonte storiografica che le
ricolloca nella società e nella storia attraverso
un flusso informativo che coinvolge la sfera
della coscienza. La storia si fa concretamente
corpo e coscienza di donne rinviando alla funzione sua propria che è quella di indagare il pas-
sato a partire dalle domande del presente.
Non disgiunto dalla storiografia è il discorso sociale che queste narrazioni offrono. Anche attraverso le teorie della memoria sociale si può tentare
di spiegare il paradosso che ho chiamato la nostalgia della polvere. Nelle distinzioni operate da Ricœur per analizzare le differenti forme di oblio, le
narrazioni delle lavoratrici civitoniche rappresentano una forma di oblio manifesto di tipo attivo
(Passato, memoria, storia, oblio, 1996). Tendono
cioè a operare una selezione del ricordo che porta
in evidenza la dimensione più bella e consolante
del passato perduto. Si tratta in un certo senso di
una distorsione del ricordo, che assume però la
forma di una comprensibile rimozione del dolore,
rifiuto della insopportabile dimensione della malattia e del lutto. Al di là della forma scritta con cui li
leggiamo, questi racconti sono espressione eminente di una forma orale di trasmissione e ne conservano le caratteristiche principali nelle forme
della ripetizione e della circolarità della trama. Così
come sono presenti, sia pure nella mediazione della
forma trascritta, le principali funzioni della narrazione orale: la referenzialità, l’espressività, l’affabulazione. Come il mercante navigatore di Walter
Benjamin, le lavoratrici civitoniche, nel comunicare la propria esperienza, rappresentano l’archetipo della narrazione e trasmettono un patrimonio
di conoscenze, di pratiche e anche di precetti morali
(Il narratore, 1936).
L’identità rimpianta si nutre anche di
una comune cultura del lavoro che
emerge chiaramente sia nella
rivendicazione della “disciplina”, sia
nell’orgoglio della “tecnica”. Le ex
operaie descrivono con sobria fierezza
le loro mansioni e si soffermano
sull’arte della decorazione,
sull’originalità dell’opera. L’attenzione
alla dimensione tecnica del lavoro
restituisce il valore etimologico della
parola techne che indica appunto
l’abilità del plasmare, del manipolare e
del trasformare gli elementi
Narrazioni che evidenziano un conflitto con il
tempo oggetto di memoria (gli anni della fabbrica)
e il tempo del loro svolgimento, che tende inevita-
Due giovani ricercatrici, Laura Guglielmo e Flavia Tronti,
hanno raccolto decine di interviste con operaie ed ex operaie
dell’industria delle stoviglie ceramiche di Civita Castellana
(VT). Una selezione di queste interviste è stata pubblicata in
Veterane. Storie di donne e di fabbriche, Civita Castellana,
Punto Stampa, 2013. Laurea Gugliemo e Flavia Tronti hanno
frequentato Roma Tre, dove hanno conseguito la Laurea magistrale in Cinema, televisione e produzione multimediale nel
2009
bilmente a modificare i contesti, gli attori, le azioni
realmente svolte (P. Jedlowsky, Storie comuni. La
narrazione nella vita quotidiana, 2000). Lo storico
deve dunque operare una distinzione tra storia e
racconto, tra materia narrata e discorso, riconoscendo nelle donne intervistate in primo luogo la
legittima esigenza di farsi sentire, di essere capite
e di vedere riconosciuto il proprio itinerario biografico. Nel nostro caso il racconto riguarda cose accadute veramente, “realtà effettuali”, ma si tratta
pur sempre di una rappresentazione di desideri e di
paure: il desiderio che possa ritornare l’identità perduta e la paura che la realtà del presente lo neghi.
Le donne intervistate sono testimoni di un tempo e
di pratiche di vita che trascendono gli eventi in sé
per diventare patrimonio di una memoria altrimenti
non più conservabile.
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74
Sul rapporto tra spazio e tempo
Una breve storia da Galilei a Einstein
Davide Meloni
Il rapporto tra spazio e tempo e la concezione che
noi ne abbiamo ha subito una profonda modifica
nel corso dei secoli, culminata con la rivoluzione
scientifica di inizio Novecento che ha visto tra i
suoi interpreti uomini del calibro di Hendrik
Antoon Lorentz (1853-1928), Jules Henri Poincaré
(1854- 1912) e Albert Einstein (1879-1955).
Si parla, e giustamente, di rivoluzione in quanto
quello che viene sconvolto non è tanto l’apparato
matematico necessario a descrivere i nuovi concetti
(oggi accessibili a qualunque studente di scuola
superiore) quanto la visione completamente nuova
e per certi aspetti anti intuitiva della correlazione
tra di essi esistente; a mio avviso, questo costituisce
la difficoltà principale nell’intendere e altresì
spiegare quella parte della fisica che di essi si
occupa e che va sotto il nome di cinematica
relativistica.
Senza scomodare la scuola greca, che pur di spazio,
tempo e osservatori in moto relativo si era già
parzialmente occupata per lo meno nella persona di
Aristarco, in epoca più recente il nostro Galileo
Galilei (1564-1642) ha posto sotto la lente di
ingrandimento la relazione che intercorre tra un dato
fenomeno fisico e lo stato di moto di un osservatore.
Nel Dialogo sopra i due massimi sistemi del
mondo, Galilei chiede di osservare diligentemente
il moto di «mosche, farfalle e simili animaletti»
nella stiva di una qualunque nave ferma in un porto
e di riosservare i medesimi fenomeni nella stessa
nave in movimento con qualunque velocità rispetto
al molo, purché priva di rollio e beccheggio; la
conclusione, egli afferma, è che, a patto di rimanere
nella stiva, non si è in grado di affermare se la nave
sia effettivamente in moto o a riposo.
Per primo nella storia della scienza, Galilei eleva
questa osservazione a Principio (Principio di
Relatività) la cui più immediata conseguenza è che
due sperimentatori che eseguano lo stesso
esperimento in condizioni di moto relativo
uniforme otterranno invariabilmente lo stesso
risultato. Pertanto il concetto stesso di quiete perde
di significato, dato che le leggi della fisica non
dipendono dallo stato di moto uniforme
dell’osservatore, e lo spazio nel quale le cose
accadono perde la sua connotazione di assolutezza,
con ciò volendo intendere che la posizione del
rettorato di Roma Tre sulla Terra o quella di un
treno della tratta Roma-Milano non sono porzioni
speciali di Universo.
Isaac Newton (1643-1727) conosceva bene la
posizione galileiana sullo spazio ma non ne
condivideva l’assenza di assolutezza in quanto
questo avrebbe implicato l’inesistenza di un Dio
assoluto, in chiaro contrasto con i prevaricanti
precetti ecclesiastici dell’epoca. Pertanto si trovò
nella necessità di rafforzare il concetto di spazio
assoluto, «per sua natura senza relazione ad
alcunché d’esterno», e di distinguerlo dallo spazio
relativo, «che i nostri sensi definiscono in relazione
alla sua posizione rispetto ai corpi» (Naturalis
philosophiae principia mathematica). Benché non
esplicitamente detto, nei suoi ragionamenti Galilei
utilizzò il fatto che il tempo misurato da orologi
sulla nave o sul molo segnassero il trascorrere del
tempo con la stessa frequenza, ovvero che il
medesimo concetto di tempo fosse un concetto
assoluto. Questa posizione fu condivisa da Newton
il quale non esitò a caratterizzare il tempo come
una entità che fluisce «uniformemente senza
relazione con nulla di esterno». E questo, oserei
dire,è una considerazione che nessuno di noi si
sentirebbe di contraddire.
Il rapporto tra spazio e tempo e la
concezione che noi ne abbiamo ha
subito una profonda modifica nel corso
dei secoli, culminata con la rivoluzione
scientifica di inizio Novecento che ha
visto tra i suoi interpreti uomini del
calibro di Hendrik Antoon Lorentz,
Jules Henri Poincaré ed Albert Einstein
L’ impianto della cinematica pre-relativistica è,
dunque, stabilito e ha a fondamento il principio di
relatività enunciato da Galilei e successivamente
sviluppato nelle leggi della dinamica da Newton.
Un paio di secoli dopo, lo sviluppo
dell’elettromagnetismo (l’insieme dei fenomeni
Fig.1 - Simultaneità degli eventi. In a) gli eventi di ricezione
del segnale luminoso in A e B sono simultanei, in b) la simultaneità viene persa per un osservatore fermo sulla banchina
rispetto al quale il treno si sta muovendo
che riguardano i campi magnetici ed elettrici)
culminò nella formulazione delle leggi di James
Clerk Maxwell (1831-1879). Tali leggi implicano
l’esistenza delle onde elettromagnetiche, scoperte
da Hertz nel 1877, che viaggiano ad una velocità
oggi indicata con c e coincidente con la velocità
della luce, circa 300 mila Km/s. Ma dato che per
specificare completamente una velocità c’è bisogno
di indicare rispetto a cosa il corpo si sta muovendo,
si pose da subito il problema di identificare il
sistema in relazione al quale le onde
elettromagnetiche avessero velocità pari a c.
Identificato un tale sistema questo sarebbe stato,
ovviamente, un sistema di riferimento privilegiato.
In qualche modo il concetto di spazio assoluto
riapparve in fisica sotto mentite spoglie, e non
completamente a caso data la grande influenza
avuta dalle concezioni newtoniane nello sviluppo
delle idee scientifiche del periodo. Solo che, a
differenza di allora, l’esistenza di tale riferimento
(chiamato etere) poteva essere mostrato
sperimentalmente a patto di rilevare un eventuale
moto della Terra rispetto ad esso.
Da un punto di vista tecnico questo equivaleva a
dover misurare rapporti di velocità relative tra Terra
e Sole al quadrato, ovvero di quantità tanto piccole
quanto circa dieci parti su un miliardo. La sfida
sperimentale fu raccolta da Albert Abraham
Michelson (1852-1931) e Edward Williams Morley
(1838-1923) che nel 1887 mostrarono che la
velocità di propagazione della luce non dipendeva
dal moto della Terra attraverso l’etere e che quindi
l’ipotesi di un etere stazionario era falsa.
Francis FitzGerald prima e Lorentz dopo avanzarono
l’ipotesi che un tale risultato sperimentale (e i risultati
negativi di esperimenti simili a quello di MichelsonMorley) si poteva spiegare se la lunghezza dei corpi
materiali cambiasse a seconda del loro stato di moto
rispetto all’etere proprio della quantità a cui
l’esperimento era sensibile.
In particolare Lorentz riuscì a tradurre in formule
tali variazioni postulando che le relazioni tra
coordinate spaziali e temporali in due sistemi di
riferimento in moto relativo fossero diverse da
quelle individuate da Galilei, di forma che il tempo
misurato in un punto A di un certo sistema di
riferimento e quello in un punto B in un secondo
sistema in moto rispetto al primo dipendesse anche
dalle posizioni dei due punti A e B.
Per la prima volta nella storia del pensiero
scientifico si ammette, quindi, la possibilità che
l’intervallo di tempo tra due eventi in un dato
riferimento è un mescolamento tra l’intervallo di
tempo e la distanza tra di essi misurata nel secondo
riferimento. Così come, a sua volta, la loro distanza
in un certo riferimento è un mixing di distanza e
durata nell’altro [A. Bettini, Giornale di Fisica,
vol.LIII, n.2].
Chiaramente viene a cadere l’assunto di tempo
assoluto tanto caro a Galilei e Newton. Le formule
mostrano che il grado di mescolamento tra tempo
e distanza dipende dal rapporto tra la velocità
relativa dei due riferimenti e quella della luce c; alle
velocità che sperimentiamo quotidianamente
questo rapporto è praticamente trascurabile e il
mescolamento è essenzialmente assente; e infatti la
nostra esperienza comune non ha evidenza di strane
“ingerenze” di spazio nel tempo e viceversa.
Tuttavia, nel momento in cui le velocità in gioco
sono una frazione non trascurabile di quella della
luce, l’effetto del mescolamento è grande e dà vita
a fenomeni decisamente poco intuitivi (il
cambiamento delle lunghezze dei corpi materiali è
uno di questi).
Il fatto che viviamo in un mondo in cui il rapporto
v/c è molto piccolo non ha permesso al nostro
cervello di sviluppare l’intuizione del
mescolamento e quindi non abbiamo la capacità di
calcolare seduta stante il grado di “ingerenza”
spazio-temporale al variare istantaneo di v.
A voler essere precisi, l’analogia tra spazio e tempo
insita nelle trasformazioni sopra menzionate non è
completamente simmetrica, nel senso che la
matematica che descrive il mescolamento non tratta
le variabili spaziali e quella temporale allo stesso
modo ma pone tra di esse una differenza sostanziale
che, ma questa è una opinione personale, riflette il
75
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fatto che percepiamo il
di rilevazione non saranno
tempo come qualcosa che
più simultanei. Dato che la
«scorre in avanti» mentre
misura del tempo richiede la
non abbiamo la stessa
sincronizzazione di orologi
sensazione per le coordinate
posti in A e B, ne deduciamo
spaziali.
che la sincronizzazione è
Pur con questa distinzione
persa se si osserva la scena
concettuale,
i
fisici
dalla banchina e non dal
chiamano spazio-tempo il
treno.
mondo quadridimensionale
Benché Poincaré avesse
in cui viviamo, costituito
praticamente formulato la
dalle tre coordinate spaziali
nuova cinematica, rimase
e da quella temporale.
legato al concetto di etere
Ricapitolando, a cavallo tra
come ente fisico e, di
la fine del XIX e l’inizio del
conseguenza, al concetto di
XX secolo la concezione di
contrazione delle lunghezze
spazio e tempo che si era
come fatto puramente
istallata
nel
mondo Justus Sustermans, Ritratto di Galileo Galilei, 1636 dinamico, ossia dettato dalle
scientifico subisce un duro
leggi delle azioni delle forze
colpo a favore di una più
sugli oggetti materiali. Che
moderna
visione,
per
Einstein conoscesse o meno
chiarire completamente la quale scienziati del
gli scritti di Poincaré (e non possiamo non citare
calibro di Jules Henri Poincaré (1854- 1912) e
La science et l’hypothese del 1902) è una domanda
Albert Einstein hanno dovuto spendere parte della
su cui gli storici stanno ancora elucubrando. Quello
propria vita scientifica. Al primo si deve
di cui però dobbiamo dargli atto sia storicamente
essenzialmente una analisi critica della misura
che scientificamente è che Einstein cambiò il punto
degli intervalli temporali, che porta in modo
di vista sullo spazio-tempo; nello scritto del 1905
sorprendentemente semplice alla ridefinizione del
(Sull’ elettrodinamica dei corpi in moto) vennero
concetto di simultaneità tra eventi che accadono in
assunti come postulati il principio di relatività di
punti dello spazio distinti, se visti in sistemi di
Galilei, valido anche per l’elettromagnetismo e non
riferimento in modo relativo. L’esempio classico
solo per la meccanica, e il fatto che la velocità della
che si riporta nel seguito illustra bene la situazione
luce risulti la stessa se misurata in qualunque
(fig.1). Supponiamo di aver sincronizzato due
sistema di riferimento; da qui, dedusse ex-novo la
orologi e di averli posti nei punti A e B di un
cinematica relativistica e tacciò come superfluo il
vagone ferroviario fermo in stazione, caso a); un
concetto di etere. E, non meno importante, mostrò
lampo luminoso generato
che il fenomeno della
nel punto intermedio M e
contrazione delle lunghezze
che si propaga con la stessa
fosse dovuto ad una diversa
velocità sia verso destra che
definizione di simultaneità
verso sinistra verrà rivelato
in due riferimenti in moto
in A e B allo stesso tempo,
relativo piuttosto che dovuto
ossia gli eventi “rilevazione
al moto rispetto all’etere
lampo in A” e “rilevazione
come suggerito qualche
lampo
in
B”
sono
decina di anni prima. Con
simultanei. Se il treno inizia
Einstein, la vecchia visione
il suo viaggio verso destra,
di spazio e tempo visti come
due entità separate venne
caso b), per un osservatore
definitivamente
fermo sulla banchina il
abbandonata per la nuova
raggio
luminoso
cinematica
spazioraggiungerà il punto A
temporale, ormai accettata e
prima di B, dato che
usata
dagli
scienziati
quest’ultimo si muove nella
dell’intero globo.
stessa direzione del raggio
di luce, e pertanto gli eventi Albert Einstein in una fotografia del 1947
La Universidad Nacional Avellaneda con
le Abuelas de Plaza de Mayo
Un progetto di collaborazione tra l’università e il movimento dei Diritti Umani
Cristina Inés Bettanin, Elena Calvín, Leticia Marrone
Il gruppo di lavoro del progetto in occasione dell’anniversario
delle Abuelas il 22 ottobre 2016: seconda e terza da sinistra,
Leticia Marrone e Cristina Inés Bettanin; terza da destra,
Elena Calvín
Nel 2012, la Universidad Nacional de Avellaneda
(UNDAV), ha iniziato un lavoro di collaborazione
con la Asociación Abuelas de Plaza de Mayo
(AAPM) che ha coinvolto docenti e studenti di diversi corsi di laurea.
L’idea è nata da alcuni insegnanti della UNDAV
che hanno iniziato a elaborare azioni di collaborazione con la AAPM nel contesto di una politica universitaria impegnata sul fronte dei movimenti per i
Diritti Umani. Il progetto contribuisce alla battaglia
per la verità e la giustizia, che si materializza, in
questo caso, nella ricerca da parte delle Abuelas dei
nipoti sottratti alle proprie famiglie di origine durante gli anni della dittatura, con l’obiettivo di restituire loro la verità sulla propria origine biologica.
Dalla nascita dell’associazione, nel 1977, le Abuelas hanno lavorato in modo instancabile per aprire
strade, per rintracciare ognuno dei nipoti scomparsi, i cui casi si stima siano circa 500. Se ad oggi
sono stati risolti 121 casi è anche perché la società
argentina e la comunità internazionale hanno appoggiato questa loro ricerca mediante le più diverse
azioni. In alcuni momenti storici sono stati i governi stessi a promuovere la ricerca e facilitare gli
incontri. In tutti questi anni le Abuelas hanno elaborato linee di azione legate alla formazione di un
senso comune e condiviso intorno alla necessità
della verità e alla costruzione della memoria.
Hanno in tutti i modi tentato di mettere in luce
come lo sviluppo della vita in un contesto di alte-
razione dell’identità, costituisse un danno irreparabile per quei bambini sottratti illegalmente, cui è
stata negata la propria storia. Questa strada non è
stata semplice e per questo le Abuelas hanno tessuto reti di collaborazione con diversi settori della
società che si sono uniti alla loro lotta. Oggi hanno
l’appoggio di molte organizzazioni della società civile, artisti, sindacati, istituzioni sportive, educative
etc. In questo contesto la Universidad Nacional de
Avellaneda ha iniziato a pensare e mettere in pratica strategie di diffusione e promozione del diritto
alla identità.
Le università pubbliche in Argentina
articolano la propria azione nelle aree
della formazione, della ricerca e
dell’estensione. Quest’ultima si
concretizza fra l’altro nella formazione
degli studenti in mansioni che offrono
un servizio alla comunità e creano
vincoli di collaborazione tra le
università, le diversi istituzioni di
governo e la società civile. Questo
lavoro permette lo sviluppo di pratiche
che garantiscono equità e qualità delle
istituzioni
Le università pubbliche in Argentina articolano la
propria azione nelle aree della formazione, della ricerca e dell’estensione. Quest’ultima si concretizza
fra l’altro nella formazione degli studenti in mansioni tendenti a offrire un servizio alla comunità, in
modo da promuovere un avvicinamento reciproco
e creare vincoli di collaborazione tra le università,
le diversi istituzioni di governo e la società civile.
Questo lavoro contribuisce alla formazione di professionisti coinvolti con i bisogni sociali e permette
lo sviluppo di pratiche che garantiscono equità e
qualità delle istituzioni.
In questo contesto prende forma l’idea di collaborare con la AAPM, attraverso la Secretaria di Extensión Universitaria, e nasce il progetto La
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Mostra TwitteRelatos por la Identidad presso la scuola n. 30 (Gerli).
(foto: Lucho García)
UNDAV con las Abuelas y por la Identidad.
Nella fase iniziale il progetto coinvolgeva professori e studenti dei Corsi di laurea in Giornalismo e
in Gestione culturale. Il progetto è poi andato
avanti negli anni seguenti e fino ad oggi, ha consolidato e diversificato le proprie attività e ha coinvolto diversi attori della comunità universitaria e
locale nella battaglia per il diritto all’identità.
Il progetto
Nel contesto della problematica sociale di alterazione dell’identità di centinaia di giovani, il progetto ha l’obiettivo di collaborare con il lavoro
della Asociación Abuelas de Plaza de Mayo nel
campo culturale e mediatico, attraverso la partecipazione degli studenti a quelle azioni che la
UNDAV mette in campo sulla tematica, nell’ambito delle sue attività istituzionali.
L’idea è quella che gli studenti possano contribuire
con una attitudine attiva e critica, che permetta loro
di pensarsi come costruttori e parte di un processo
specifico di lavoro, cercando anche di sviluppare
capacità di lavoro in equipe formate da studenti di
diverse discipline. Si cerca inoltre di collaborare
alle attività di informazione e comunicazione della
AAPM, attraverso i mezzi di comunicazione della
UNDAV, in modo da sensibilizzare sul tema la comunità universitaria e locale.
Nell’ambito delle attività del progetto vengono realizzati eventi sociali e culturali e campagne di sensibilizzazione che coinvolgono insegnanti e
studenti della UNDAV e delle scuole vicine all’Università.
Uno dei pilastri fondamentali
è costituito dagli incontri di
lavoro, formazione e riflessione: si analizzano testi teorici sulla tematica e si
condividono esperienze e
sensazioni personali a partire
delle attività realizzate nel
progetto che contribuiscono
alla formazione di uno
sguardo critico, mediante la
problematizzazione di tematiche come le rappresentazioni
sociali
della
sottrazione-restituzione di
identità, il ruolo dei valori e
preconcetti del giornalista nei
mezzi di comunicazione, le
forme artistiche di rappresentazione di storie e passati trau-
matici, tra le altre.
Il coordinamento del gruppo è svolto dagli insegnanti con l’obiettivo di accompagnare il processo
collettivo di lavoro, promuovendo un clima di rispetto verso la diversità che permetta lo scambio
orizzontale di idee e proposte.
In questo spazio, si realizzano attività concordate
con la AAPM che vengono proposte agli studenti
come parte essenziale del progetto: la collaborazione agli eventi commemorativi dell’anniversario
dell’associazione, la realizzazione di un programma radiofonico settimanale nella radio dell’Università e la copertura delle conferenze stampa
delle Abuelas e del ciclo di Teatro por la Identidad
e l’organizzazione di attività culturali ed educative.
Il programma radiofonico
Si tratta di un programma settimanale in onda
ormai da quattro anni. La struttura e i contenuti
sono integralmente pensati e sviluppati dagli studenti del Corso di laurea in Giornalismo, con la collaborazione di studenti di altri corsi di laurea e il
coordinamento degli insegnanti.
L’obiettivo principale del programma radiofonico
è la diffusione delle attività di ricerca dei nipoti sottratti alle proprie famiglie durante la dittatura militare. La trasmissione si configura inoltre come uno
strumento di lavoro fondamentale perché è il
mezzo attraverso cui vengono comunicate tutte le
attività del progetto.
Attraverso la radio si cerca di fare comunicazione e
informazione sul diritto all’identità nella comunità
universitaria e a livello locale, nonché di contribuire
Opere dalla mostra TwitteRelatos por la Identidad (www.abuelas.org.ar)
ad una più globale formazione degli studenti sui Diritti Umani e la difesa della democrazia, che si sostanzia in valori come la memoria, la verità e la
giustizia. L’Università si propone così di operare per
la costruzione di un profilo professionale di giornalista coinvolto con la realtà sociale del suo tempo,
che sappia non solo raccontare i fatti, ma anche contribuire alla ricerca del benessere comune.
L’idea è quella che gli studenti
possano contribuire con una attitudine
attiva e critica, che gli permetta di
pensarsi come costruttori e parte di un
processo specifico di lavoro, cercando
anche di sviluppare capacità di lavoro
in equipe formate da studenti di diverse
discipline. Si cerca inoltre di
collaborare alle attività di
informazione e comunicazione delle
Abuelas, attraverso i mezzi di
comunicazione della UNDAV, in modo
da sensibilizzare sul tema la comunità
universitaria e locale
A questo scopo vengono realizzate produzioni giornalistiche come ad esempio interviste a nonne e a
nipoti, copertura giornalistica delle conferenze
stampa e presentazioni pubbliche realizzate dalle
Abuelas e delle attività culturali promosse nell’ambito del progetto, cronache giornalistiche (radiofoniche e grafiche).
Cultura, TIC’s e Memoria
Ogni anno la AAPM realizza un concorso attraverso la rete sociale Twitter invitando gli utenti a
inviare microracconti di 140 caratteri sulla memoria e l’identità. Una giuria di scrittori ne seleziona
quindici, che vengono poi illustrati da artisti. Così
prende vita la mostra TwitteRelatos por la Identidad. Tutto il materiale prodotto viene poi messo a
disposizione sul sito web www.abuelas.org.ar, per
essere scaricato e utilizzato.
La UNDAV promuove la circolazione della mostra
nelle scuole medie del Municipio di Avellaneda.
Questa attività si è consolidata come parte del progetto e nucleo centrale del lavoro con gli studenti
del Corso di laurea in Gestione Culturale. L’obiettivo è la circolazione della mostra nelle scuole
medie: in un primo momento gli insegnanti delle
scuole lavorano con gli alunni, a questo lavoro
segue poi una esposizione della mostra insieme agli
studenti e ai professori dell’Università.
Le esperienze di lavoro si adeguano alle circostanze, alle diverse possibilità e peculiarità istituzionali, e si possono di volta in volta concretizzare
in incontri con esperti di diritti umani, proiezioni
di film e materiale audiovisivo, laboratori, programmi radiofonici, etc.
Queste sono alcune delle attività che il progetto realizza, con l’obiettivo di contribuire alla costruzione
della memoria collettiva e alla difesa dei diritti
umani. Anche dall’università diciamo MAI PIÙ
alle dittature.
(traduzione dallo spagnolo: Leticia Marrone)
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Mediation at the Holocaust Memorial in Berlin
An interview with the author: Irit Dekel
Federica Martellini
incontri
Irit Dekel earned her PhD in sociology from the New School of Social Research. She has studies collective memory in Germany and Israel, focused on
Holocaust memory, memory of non-violent struggle against war and militarism, and home-museums in Israeli and Germany. Dekel was a postdoctoral
fellow at the Hebrew University of Jerusalem, a research Fellow at the Humboldt University of Berlin and is currently a visiting faculty in Israel Studies
at the University of Virginia. She co-led a German Israeli Foundation international research project (2014-16) on home museums in Israel and Germany,
which studied the presentation and experience of home, belonging and atmosphere.
Irit, in your book Mediation at the Holocaust
Memorial in Berlin you explore, in a renewed
perspective, action and interaction around the
Memorial to the murdered Jews of the Europe,
at the center of Berlin. Drawing on memory
studies and public sphere theories and basing
your work on an extensive ethnographic research you analyze interaction between guides,
memorial workers and visitors. What did you
find out about memorial experience and about
this Memorial experience? I found very interesting when you talk about the act of remembrance and the object of remembrance…
Thank you for this question. In my research at the
memorial on the year of its opening (2005-06) and
five years later (2010-11) I found out that visitors
and guides actually engage with what they and others do at the Holocaust Memorial, the act of remembrance, and how the visit transforms them.
This led me to separate the object of remembrance,
which is the Holocaust, from the act of remembrance, which is performing Holocaust memory at
the memorial and observing how others perform
this memory through various digital media. This
separation, makes possible a theoretical move away
from witnessing, generational transmission and
what Richard Crownshaw called “Holocaust sublime”, toward a consideration of memory work as
civic engagement composed of various mediation
forms. Visitors thus engage with the memorial
through the judgment of appropriate and inappropriate memory performances such as playing hide
and seek or eating. Those reflect the visitor’s wish
to undergo a moral transformation in visiting the
site. This transformation, I claimed, pertains to their
moral career in relation to Holocaust memory as
citizens of Germany, or other nations. I followed
guided tours, participated in workshops held by the
Foundation Memorial to the Murdered Jews of Europe that manages the site, and interviewed visitors
from various countries in English and in Hebrew. I
focused on the German visitors since they are the
majority in the site, and since the site was discussed
and disputed as a national site of remembrance for
Germans. Interestingly, it is the first Holocaust memorial where German visitors can legitimately say
“I do/ don’t like it”. This is most liberating and enables new ways to engage with Holocaust memory
and with remembering groups. I discovered, and
developed this research in later works, that migrants and especially Muslims, are less welcome to
participate in memory action in the site. With this,
and the work of Gokce Yurdakul, Michal Bodemann, Esra Ozyurek, Damani Partridge, and
Michael Rothberg and Yasemin Yildiz in mind, I
suggested that memory work serves as threshold to
a participatory citizenship, and its denial, in turn,
produced counter hegemonic memory acts among
minorities in Germany.
Exploring different forms of participation at the
Memorial, you identify three different phases in
visitors’ moral career. Can you explain what you
observed?
Participation in memory work at the memorial
meant for visitors from Germany a transformative
experience, an ethical engagement with memory.
Following Jurgen Habermas, I analyzed it as a form
of engagement in the public sphere in which certain
groups have more or less claim to the privilege of
remembering the Holocaust correctly. “Remembering correctly” means adhering to the narrative that
Holocaust memory is a form of responsibility, and
(as Dan Diner claims) only German citizens whose
families are historically from Germany and have
extensive knowledge of visiting “authentic” memory sites of Nazi persecution and seeing the Jews
as ultimate victims have such a right and duty to
remember “correctly”. One way to understand this
is to actually study the moral claims visitors made
about their and other’s performances in the site.
These were performed in three phases, which corresponded to the aesthetics of the site itself and lead
to engagement in discussion.
I followed guided tours, participated in
workshops held by the Foundation
Memorial to the Murdered Jews of
Europe that manages the site, and
interviewed visitors from various
countries in English and in Hebrew. I
focused on the German visitors since
they are the majority in the site, and
since the site was discussed and
disputed as a national site of
remembrance for Germans
The first step, “getting in” consists in the presentation of the visitor’s moral career: she or he get into
the site physically, walk in it and reflect on their
own feeling in the site and the meaning of the rules
of conduct written on its perimeter. The second
moralizing phase is “getting lost”, or the invitation
to explore the site as individuals while reflecting
on one’s thoughts and feelings. The third phase,
“getting it”, is where the visitors report that they
have transformed morally and articulate their experience as members of a morally mature community. At the end of the “getting it” phase the visitors
report that they have undergone a process that was
necessary as a duty to themselves, and which helps
realize the remembering publics as part of a mature,
responsible polity.
The Memorial isn’t located in a site of persecution, but instead in the Berlin center, between
the Brandenburg Gate and Potsdamer Platz.
What does it imply
from the point of
view of memory
work?
Thank you for addressing the memorial location and
aesthetics, which are
an essential source
for my research: The
Holocaust Memorial
is new, invented,
commissioned, abstract in form and had
been debated for almost two decades prior to its
opening. It also meant that in order to study it one
needs to bring together the literature on Holocaust
memory with tourism studies, heritage and museum studies. As I joined guided tours and spoke
to visitors, I realized that, there is a new form of
tourism of accidental visitors, both in this memorial site and in the ones that followed its opening
and managed by the same public federally commissioned foundation: the Memorial to the Homosexuals, the Memorial to Sinti and Roma, the
memorial to the persons with disabilities murdered
under the Nazi regime (the so called “Euthanasia
Memorial”). Accidental visitors to one or more of
these memorials either stumble onto the site(s) en
route to other sites of interests or plan to pass by or
through quickly. They react to being in the site
quite differently from a person who chooses to go
to Holocaust memory sites that were also a site of
persecution or that are dedicated to telling the story
of persecution. When the accidental visitors realize
where they are, in the memorial above ground, they
usually enter the site and perform contemplation as
well as document themselves and others.
The Holocaust Memorial is new,
invented, commissioned, abstract in
form and had been debated for almost
two decades prior to its opening. It also
meant that in order to study it one
needs to bring together the literature on
Holocaust memory with tourism
studies, heritage and museum studies
Visitors who chose not to enter the site also performed their choice by laughing loudly or walking
quickly along its perimeter. I further found that vis-
81
82
Il Memoriale per gli ebrei assassinati d’Europa a Berlino (foto: David Dekel)
itors reacted differently according to age, geographical origins such as growing up in East vs.
West Germany and class, and I would love in future
research to bring these aspects together with the
concept of intersectionality, which will also allow
to consider the access and legitimacy migrants have
in the site in a multi-dimensional and multi-directional manner.
In what way remembering the Holocaust in
Germany affects action at the Memorial and, on
the other hand, how do you think this memorial
experience could affects the public reflection
about the past and the present in contemporary
Germany?
I was fortunate to study the memorial just when it
opened, and to return to it five years later, in dialogue with scholars who study memory work
among different groups. I am Israeli, a migrant in
Berlin, albeit a very welcomed one as I am Jewish,
of European descent and educated. This brought
me to think hard about the various people from different groups are excluded or in memory work and
prompted my recent work on philosemitism in Germany and on Jews as subjects of memory. As years
pass, perhaps thanks to the opening of this site, and
the four memorials adjacent to it, I have learned
that there are multiple, culturally-specific ways of
imagining and remembering “others”. With these
come along extra-conventional norms (“they
oughtn’t do that here”) attached to visitors’ performances in the site. I study them as they become
indexical to memory work instead of dismissing
them as unserious conduct. Through this lens, with
the help of Nadine Blumer’s work on memorial
networks focusing on the Sinti and Roma Memorial in Berlin, I conclude that memory work can become means to political action and recognition.
Comparing the ways different groups perform and
see the performances of others Memorial for the
Murdered Jews of Europe with actions and interactions in the Roma and Sinti Memorial sheds light
on the discrimination the Roma face today in Germany, and the kinds of political claims that can be
made in that light.
Audiocronache
Il mondo visto da Roma Tre Radio
Fine estate 2015.
All’Università
degli Studi di
Roma Tre, Scuola
di
Lettere
Filosofia Lingu, io
e il mio collega
Edoardo Angione,
durante un tipico
sabato
mattina
dedicato al Master
di II livello che
stavamo
Lorenzo De Alexandris
seguendo,
veniamo folgorati “sulla via della comunicazione
storica” da una lezione in particolare: quella sulla
radio. Davanti a noi la dottoressa Beatrice Curci
snocciola tutti i segreti del mestiere e le sue
esperienze dirette in anni trascorsi tra cuffie e
microfoni. Questo incontro ci ha rapiti:
attendevamo questa lezione e torniamo nelle
rispettive abitazioni con una selva di domande e
questioni irrisolte. La più complessa, il nostro
Everest da scalare, però è soprattutto una: “si può
fare storia in radio?”
Sì, il master che stavamo seguendo nell’estate
scorsa si chiama Esperto in comunicazione storica:
televisione e multimedialità e noi siamo due storici.
Io studio ormai da qualche anno le vicende
contemporanee dei Balcani, Edoardo la diplomazia
del Seicento. Nel mondo radiofonico, lui ha
esperienza di brevi podcast di argomento storico su
una web radio (Radio Bullets), per me invece ci
sono solo quelle ore passate a pendere dalle parole
della dott. Curci.
Ci siamo chiesti: è possibile creare un programma
di un’ora parlando di storia senza annoiare?
Per noi che abbiamo sempre amato la storia,
sognando di renderla il nostro pane quotidiano, la
risposta era semplice e scontata: “certo!”. Ma per
gli altri, per chi non è fissato con la storia, ma anzi,
la ricorda con orrore pensando alle interrogazioni
del liceo? Come convincere anche loro?
Da qui, da questo obiettivo (misto a sogno) è partita
la nostra avventura: dalla necessità di divulgare la
Storia senza perdere la qualità dei contenuti, ma
usando al tempo stesso un linguaggio e uno stile
capace di arrivare ad un pubblico il più ampio ed
eterogeneo possibile, e di rendere questa materia
“ascoltabile”, anche a livello radiofonico.
Le nostre idee, molto teoriche, si sono convertite,
molto praticamente, in un programma con un
nome, un logo e un’identità chiara: Giano, un talk
che nel linguaggio della comunicazione verrebbe
definito
infotainment,
informazione
e
intrattenimento, in questo caso, al servizio della
divulgazione storica. A scegliere il nome ci ha
aiutati il terzo componente della nostra squadra, la
voce di Valerio Lavorgna, l’unico che ha poco a che
fare con il mondo della storia, ma che è nato con i
tempi radiofonici in testa e nelle corde vocali.
Perché Giano? Giano è la divinità romana capace,
grazie al suo doppio volto, di guardare sia avanti
che indietro; allo stesso modo il nostro programma,
come afferma il claim che abbiamo scelto,
mantiene “uno sguardo al passato, uno sguardo al
futuro”. In altre parole: osserva la storia per cercare
di comprendere criticamente il presente e dove
stiamo andando.
Il format, dopo essere stato buttato giù su carta ed
espresso secondo una struttura fissa con tre voci
che interloquiscono su una ricorrenza storica
settimanale, ha affrontato il giudizio e l’opinione
dell’unica radio a cui abbiamo deciso di proporci:
Roma Tre Radio. La nostra poca esperienza e la
scelta di un tema così complesso, legato al mondo
istituzionale degli studi, sembravano perfetti
proprio per l’ambito universitario radiofonico.
All’interno di Roma Tre Radio la nostra idea ha
trovato una struttura all’avanguardia, dove siamo
stati accolti a braccia aperte, e con molti preziosi
consigli, dalla prof. Marta Perrotta, direttrice dei
programmi, e dallo station manager Marco Cocco.
Grazie a loro abbiamo avuto la possibilità di
sperimentare, cambiare la struttura del programma,
orientarci verso nuovi modi di comunicare,
sfruttando al tempo stesso l’esperienza, le
competenze e l’energia dei ragazzi-colleghi che
abbiamo incontrato (cito uno su tutti: Vincenzo
Gentile).
Siamo partiti il 14 ottobre 2015 con un coretto
gospel interpretato direttamente dalle nostre tre
voci al posto della sigla e una puntata sulle ultime
ore di Ernesto Che Guevara. Di lì in poi il
rubriche
Lorenzo De Alexandris
83
84
programma è andato in onda ogni mercoledì dalle
17 alle 18, passando per gli argomenti più vari,
dall’insolito connubio cinema e Grande Guerra, al
Congo ai tempi della Rumble in the jungle di Ali e
Foreman, passando per l’Affaire Dreyfus, la
modernità di Giordano Bruno fino alla storia di
internet e del quartiere che ha ospitato i nostri studi
e la nostra prima esperienza radiofonica, Ostiense.
In un anno abbiamo scoperto la differenza di
scrittura di un testo per la radio rispetto a tutto
quello che avevamo fatto in passato. Abbiamo
familiarizzato con i tempi radiofonici e conosciuto
il temutissimo horror vacui generato dai silenzi e
dalle pause immotivate. Soprattutto, però, abbiamo
capito l’importanza di una solida redazione alle
nostre spalle, che lavorasse ai contenuti e che ci
permettesse un’alternanza in voce.
Al progetto Giano si sono così aggiunti altri due
nostri colleghi di Master, Francesco Gallo e Diego
Privitera, ed anche, dall’annata successiva, la voce
femminile che colpevolmente ci mancava: Silvia
Farris. Tutti con la curiosità di respirare l’aria della
radio e la frenesia dell’acquario con un microfono
davanti e le cuffie sulle orecchie.
Quell’ora settimanale, a prima vista così semplice,
l’abbiamo vissuta con l’intensità necessaria per
rendere questa esperienza non un semplice hobby,
ma una solida base su cui costruire con fatica e
tempo una professione vera e propria.
Nell’esistenza stessa di Roma Tre Radio è insito
l’aspetto formativo, dato dalla costruzione
(riuscitissima) di un ambiente professionale e
professionalizzante dalla quale apprendere tutte le
dinamiche proprie delle radio, identiche anche fuori
dalle Università.
Conclusa la stagione 2015/2016, Giano non si è
fermato a Via Ostiense 131L. Con un format
rinnovato, incentrato in particolare sul rapporto
attualità-storia, ci siamo presentati a nuove radio, in
FM o web, nel tentativo di rendere davvero un
mestiere la nostra passione.
Temevamo che il connubio
memoria-radio venisse accolto con
un certo scetticismo, ed invece è
stata grande la nostra sorpresa
quando abbiamo ricevuto alcune
risposte positive da altre emittenti.
Giano piaceva perché non era più
solo il sogno di due (ex) studenti
di storia, ma un vero programma,
dove si affrontano argomenti seri,
ma con un tono per quanto
possibile leggero, con un suo
mercato e un
suo interesse.
La
nostra
redazione
è
così migrata,
non
senza
dispiacere nei
confronti della
nostra casa per
un intero anno,
verso altri lidi:
quelli di Radio
Città Aperta,
Valerio Lavorgna, Lorenzo De Alexanstorica
dris e Edoardo Angione, nello studio di
emittente
Roma Tre Radio
locale di Roma,
passata recentemente dall’FM al web.
La passione e l’entusiasmo che abbiamo visto nei
loro volti mentre cercavamo di far comprendere
come Giano utilizzasse la Storia per dare agli
ascoltatori la possibilità di approcciarsi in maniera
più critica alle notizie che ogni giorno ci vengono
propinate, non ha prezzo. Il nuovo format, partito
curiosamente sempre in ottobre come avvenuto a
Roma Tre Radio l’anno prima, ha approfondito
nelle sue prime puntate i temi più vari dell’attualità,
dal duello presidenziale Trump-Clinton, alla serie
tv I Medici guardando all’utilizzo della storia in Tv
e non solo, alla questione colombiana delle Farc e
le motivazioni dietro al premio Nobel per la pace a
Juan Manuel Santos, fino ad argomenti di nicchia
ma curiosi ed interessanti come le votazioni in
Bulgaria e l’incerto erede al trono thailandese.
La storia ha un ruolo fondamentale nella società
contemporanea che purtroppo sembra via via
diluirsi nella matassa di notizie false o giudizi
faziosi espressi nel mondo dei social e nei canali
ufficiali da testate giornalistiche. Come gruppo di
giovani storici è nostro compito cercare di
sperimentare e trovare nuovi modi per comunicare
la nostra passione ad un numero
sempre maggiore di persone:
siamo convinti che il media
radiofonico rappresenti un ottimo
modo per riuscirci. Il tutto senza
perdere mai l’obiettivo di
divulgare
non
per
puro
divertissement personale, ma per
impedire che, come temeva Marc
Bloch nella sua Apologia della
storia,
«dall’ignoranza
del
passato»
cresca
fatalmente
«l’incomprensione del presente».
Palladium
Spettacolo, ricerca e formazione per la stagione 2016/2017
Giuseppe Leonelli
In perfetta corrispondenza
con
quanto scriveva il
Rettore dell’Università Roma Tre
Mario Panizza a
proposito di una
delle più recenti
stagioni del Teatro
Palladium
(«Il
Teatro Palladium
dell’Università
degli Studi Roma
Giuseppe Leonelli
Tre costituisce un
importante elemento di raccordo tra l’Ateneo e la
città di Roma. Un luogo in cui, con sempre maggiore continuità, spettacolo, ricerca e formazione
s’intrecciano per favorire la produzione artistica nel
campo del teatro, della musica e degli audiovisivi,
in rapporto con le altre discipline coltivate nei dipartimenti dell’Università») la stagione 2016/2017
è già in svolgimento. Apertura in musica, il 30 settembre, con Fedra ‘ncora, 2016, opera che ha per
oggetto il mito eterno della Fedra euripidea, appassionato e appassionante dall’antichità ai nostri
tempi, musica di Sylvano Bussotti e coreografie di
Sandra Fuciarelli, con la danzatrice Grazia Galante
e gli allievi della Accademia Nazionale di Danza.
In molte sezioni dell’opera si è mantenuta, con
scelta particolarmente suggestiva, la voce registrata
del Maestro Sylvano Bussotti, che nello spettacolo
originario ricopriva il ruolo di lettore.
Musica, il 9 ottobre, di diverso genere, ossia jazz,
ma jazz che «va al cinema», come si legge, a incuriosire lo spettatore, nella locandina: «In questo
concerto vengono eseguiti infatti i brani più famosi
presenti nelle colonne sonore dei film della cosiddetta “commedia all’italiana”»; ossia, per fare un
solo esempio, quelli presenti nei Soliti ignoti, opera
indimenticata di Mario Monicelli. Ancora musica,
musica universitaria, il 13 e il 14, quella dell’età
del verismo: ovvero, Puccini, Mascagni, Leoncavallo, Giordano. A cura del Coro Roma Tre. Venerdì
28 in scena Die Blaue Stadt, spettacolo musicale
intestato «alle gioie e …abissi della notte», Strumenti: clarinetto, sax, contrabbasso, voce, chitarra
e letture. Spettacolo organizzato dall’Ambasciata
della Repubblica Federale Tedesca.
A novembre, dal 3 al 5, il primo cospicuo incontro
con la prosa, Vecchi tempi di Harold Pinter, regia
di Pippo Di Marca, con Fabrizio Croci, Francesca
Fava, Anna Paola Vellaccio. Pinter, ossia uno degli
autori più discussi, addirittura, a tutt’oggi, amatoodiato. Cesare Garboli, che pure ha lasciato una
bellissima traduzione di Terra di nessuno, considerava Pinter impossibile da tradurre in assoluto
e, in particolare, impossibile da «far parlare in italiano». Difficile, quindi, da mettere in scena, per
qualunque compagnia che parli la nostra lingua.
Il 9 e il 10 è di scena il Coro Roma Tre, con musiche
di Mozart, Rossini, Donizetti, Bellini. E poi, venerdì
11, Ieri, oggi, domani, ovvero registi che s’interrogano sul cinema italiano «fra nuovi discorsi e nuove
pratiche», a cura di Vito Zagarrio e Roberto De Gaetano. Quindi, domenica 13, ancora jazz, anzi I
grandi del Jazz raccontati dal cinema. Mercoledì
23 Sogni e favole io fingo, serata di poesia curata da
chi scrive; si comincia con il Dante di Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io e poi via attraverso i secoli,
fino al nostro tempo. Quindi, martedì 29, Olivetti e
il primo PC, La grande opportunità sprecata, regista e narratore Paolo Colombo. Un’opportunità, soprattutto per i più giovani, di accedere alla
conoscenza d’un periodo eccezionale, e probabilmente irripetibile, del dopoguerra italiano.
Giovedì 1° dicembre La padrona di casa, ovvero
«George Sand racconta Fryderyk Chopin», in occasione dei 70 anni di Daniela Mazzucato, cantante
e attrice, che interpreta qui il ruolo di George Sand,
testo di Sandro Cappelletto e, al pianoforte, Marco
Scolastra.
Ancora jazz domenica 4, correlato al cinema noir,
a cura di Mario Corvini e News Talents jazz Orchestra; quindi venerdì 9 Un’infinita primavera attendo, un’opera in un atto di Sandro Cappelletto
dedicata al grande statista Aldo Moro (Roma Tre
Orchestra). Lavoro bellissimo, di grande complessità scenografica e musicale, che ripropone interrogativi inquietanti sul caso Moro. Dal 10 al 14
dicembre il Festival arcipelago presenta
un concorso di documentari italiani prodotti nell’ultimo anno insieme a una sezione di documentari
stranieri. Per tre giorni consecutivi, dal 16 dicembre
al 18, ritorna Fedra, in forma di opera strutturata 85
86
in un monologo dal poeta
greco Ghiannis Ritsos, a suo
tempo costretto all’esilio dai
colonnelli greci. Protagonista Stefania Barca, con la
regia di Edoardo Siravo. Ritsos, fra i più grandi poeti
moderni, porta fra noi, nella
nostra quotidianità, il grande
personaggio di Euripide .
Chiude l’anno M.H. Charpentier Te Deum H146, per
soli coro e orchestra (Coro
di Roma Tre).
Il 15 gennaio una rassegna
di musica jazz, quella che ha
interessato il cinema, a cura
di Mario Corvini e New Talents Jazz Orchestra. Il 28 Il corno meraviglioso
del fanciullo, un’ensemble vocale e strumentale del
Conservatorio di Milano, a cura di Stelia Doz. Musiche di Schumann, Brahms, Mahler, Strauss.
Nel mese di febbraio, oltre a una serie di eventi musicali e cinematografici, dal 21 al 26 teatro d’autore: in scena Il Pellicano di Strindberg, allestito
da Walter Pagliaro, con Micaela Esdra. Scritto nel
1907, costruito con tecnica antifrastica, il dramma
racconta la storia di una madre che, invece di nutrire di se stessa i propri figli come, secondo la leggenda, farebbe il pellicano, «beve il sangue dei suoi
figli, come un vampiro… Il primo titolo di questo
dramma era I sonnambuli; in effetti sul palcoscenico sembrano muoversi figure avvolte nel sonno
o nella morte» (Pagliaro). A marzo, il 3 e il 4, uno
spettacolo pirandelliano, Centomila, Uno, Nessuno,
scritto e diretto da Giuseppe Argirò, con Giuseppe
Pambieri. Vita e teatro, sempre due reciproci nell’opera dello scrittore e drammaturgo siciliano,
s’inseguono e scambiano di posto sulla scena. La
vita, in Pirandello, è rappresentata come un delirio
in cui non facciamo che ingannare noi stessi. Il 7 è
di scena Glauco Mauri, con Edipo, il mito e la storia, una rilettura, oggettivata in spettacolo, del
grande tema che ha interessato tutta la cultura occidentale, a partire dalla tragedia di Sofocle. Il 2425 Enoch Arden. Naufrago per amore, melologo di
Richard Strauss su un poema narrativo di Alfred
Tennyson, a cura di Vanessa Gravina. Una metamorfosi dalla poesia alla musica.
Aprile si apre «in danza». Il 1° è di scena Pulsazioni, selezione di brani musicali fra il Settecento
e il Novecento da Bach a Debussy, coreografia di
Ricky Bonavita, cui seguono il 5 Je(u), danzatore
Mikael Marklund e il 7 Saknes, coreografia e danza di
Benedetta Capanna. L’8 Festival Le compositrici 2017,
a cura di Orietta Caianiello e
con la collaborazione di
Luca Aversano e Milena
Gammaitoni. Dal 19 al 23 Il
divorzio, una commedia di
Vittorio Alfieri, scritta, assieme ad altre quattro, negli
ultimi anni di vita del grande
tragediografo. Tema dell’opera è la satira del costume settecentesco del
cavalier servente, in servizio
anche galante, che accompagnava la sua dama anche
dopo le nozze di questa con il legittimo marito. Una
situazione diffusissima, prevista e sancita persino
nel contratto nuziale. La messa in scena del Divorzio recupera un silenzio teatrale di secoli: nessuna
delle commedie alfieriane, sicuramente non fra le
cose migliori dello scrittore, ma non degne, forse,
di un oblio quasi totale, è stata mai rappresentata
dopo la morte dell’autore. Dal 28 al 30 va in scena
un testo di ben diversa fortuna, Aspettando Godot
di Samuel Beckett, regia di Maurizio Scaparro.
Scritto tra la fine del 1948 e l’inizio del ’49, dopo
una guerra terribile, En attendant Godot, forse il
capolavoro di Beckett, rappresenta simbolicamente
la condizione drammatica dell’uomo moderno. Può
essere messo in relazione con il poema The Waste
land di Thomas Stearns Eliot, scritto fra il dicembre
1921 e il gennaio 1922, in cui Eliot esprime un’analoga desolazione e aridità spirituale.
Il 5 maggio va in scena Maria Callas, la voce e
il teatro, a cura di Luca Aversano: una serata
d’eccezione in occasione del quarantennale
della morte del grande soprano. Dal 9 al 14 sei
serate di cinema, Roma Tre Film Festival 2017,
a cura di Vito Zagarrio, un appuntamento da non
mancare.
A giugno la stagione inclina alla conclusione. Ancora cinema dal 1° al 4, CINEDEAF. Festival internazionale del cinema sordo. Si chiude con Roma
Tre Orchestra, il 12 (Italian Discoveries, musiche
di Fano, Omizzolo e Dvorak, Roma Tre Orchestra,
direttore Luigi Piovano) e il 28 (Omaggio a Dario
Marianelli, violoncello Silvia Chiesa, pianoforte
Maurizio Ballini, direttore Luigi Acacella). Il Teatro chiude le sue porte, rimandando alla prossima
stagione.
Post Lauream
Master internazionale in Restauro architettonico e cultura del patrimonio
Eugenia Scrocca
Il Dipartimento di Architettura dell’Università degli Studi
Roma Tre organizza
per l’a.a. 2016/2017 il
Master di II livello in
Restauro architettonico e cultura del patrimonio (fondatore:
prof. Paolo Marconi,
direttore: prof. Elisabetta Pallottino). Il
Corso ha lo scopo di
Eugenia Scrocca
formare
architetti
esperti nel recupero e
nel restauro dell’architettura e dell’edilizia storiche e capaci di progettare in sintonia con i contesti urbani e ambientali, per restituire ai centri storici la loro peculiare
bellezza e al patrimonio italiano le sue molteplici identità.
In parallelismo con le collaborazioni già in atto da più di
un decennio con le diverse istituzioni preposte alla tutela
Cantiere di restauro architettonico
a Roma e nel Lazio, la programmazione di contributi di
esperti e docenti di altre discipline, in particolare archeologi, geologi e storici dell’arte, intende promuovere una
visione intersettoriale del patrimonio culturale e rispondere in modo più adeguato ai nuovi assetti territoriali
delle istituzioni statali e locali.
Il master intende promuovere un collegamento sistematico tra l’attività di insegnamento universitario di terzo
livello e il tessuto socioeconomico rappresentato dal lavoro delle imprese specializzate nel settore. A questo
scopo, diverse imprese specializzate nel campo della diagnostica strutturale e dei materiali, del restauro delle superfici architettoniche e del legno sono state direttamente
coinvolte nell’insegnamento mentre altre imprese edili,
che hanno al loro attivo importanti cantieri di restauro architettonico, hanno sponsorizzato l’attività del Master. Al
fine di rendere più concreto il collegamento descritto,
tutte le imprese citate si sono rese disponibili ad ospitare
gli studenti del master all’interno delle loro strutture per
lo svolgimento degli stage.
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Master in Housing - Nuovi modi di abitare tra innovazione e trasformazione
spettro di temi, al fine di fornire un quadro esaustivo delle
nuove complessità dell’abitare contemporaneo.
Le attività teoriche e dei workshop saranno sviluppate intorno a quattro temi fondamentali:
• l’innovazione nel progetto della casa;
• il Social Housing;
• l’abitare ecologico ;
• la costruzione (normative, procedure e strumenti).
Per lo svolgimento degli stage, obbligatori e della durata
minima di 320 ore saranno proposte diverse opportunità
presso enti pubblici o studi privati con i quali, negli anni,
si è consolidata una proficua collaborazione.
Nelle passate edizioni sono stati svolti stage, tra gli altri,
Gli studenti del master al complesso di appartamenti WoZoCo presso: Steidle Architekten (Monaco), Gausa+Raveau
actarquitectura (Barcellona), MDW Architecture (Bruad Amsterdam (Barbara Del Brocco)
xelles), AmmanCanovasMaruri (Madrid), Espegel Fisac
arquitectos (Madrid), SBA Sarl (Parigi), Atenastudio
Il Dipartimento di Architettura dell’Università degli Studi (Roma), Cino Zucchi Architetti (Milano).
Roma Tre organizza per l’a.a. 2016/2017 il Master di II Nel programma del master è compresa la partecipazione
livello in Housing – nuovi modi di abitare tra innovazione al Corso base per progettisti presso l’Agenzia CasaClima
e trasformazione (direttore del Master prof. Valerio Pal- a Bolzano.
mieri). Il Master si propone di far emergere i principali Le lezioni/conferenze, i workshop e il laboratorio di proelementi dei processi di trasformazione dell’Housing. gettazione si svolgeranno tutti i venerdì e sabato mattina
L’obiettivo è definire il tema del progetto della casa attra- + 8 giovedì. L’inizio della didattica frontale è previsto
verso la formazione di tecnici altamente qualificati, ai per il 13 gennaio 2017 e la fine per il 1° luglio 2017, a
quali saranno forniti strumenti progettuali utili a compe- seguito i corsisti saranno impegnati negli stage e nella retere in un mercato sempre più globalizzato. Con il contri- dazione dell’elaborato finale. L’esame finale è previsto
buto di esperti italiani ed europei sarà affrontato un ampio il 15 dicembre 2017.
Master in Progettazione ecosostenibile: ideare, calcolare, realizzare e valutare
Il Dipartimento di Architettura dell’Università degli Studi
Roma Tre organizza per l’a.a. 2016/2017 il Master di II
livello in Progettazione ecosostenibile: ideare, calcolare,
realizzare e valutare (direttore: prof. Lucia Martincigh).
Il corso mira a soddisfare la crescente richiesta di profili
professionali specializzati nel settore della sostenibilità
ambientale e della progettazione di nZEB. La proposta
formativa intende integrare le capacità progettuali con
quelle di simulazione e calcolo e di valutazione e certificazione. Essa mira inoltre a promuovere la conoscenza
diretta nel campo della progettazione e realizzazione di
edifici ecosostenibili attraverso visite in cantiere, esperienze dirette di partecipazione al processo costruttivo,
incontri con aziende produttrici di materiali da costru- Esemplificazione di alcune applicazioni svolte nell’ambito dei
zione ed impianti innovativi. Questa sinergia è garantita workshop del master (foto: Marina Di Guida)
sia dalla partecipazione di imprese e ditte al Master sia
dagli stage svolti presso studi professionali, enti di ricerca
Grazie al carattere interdisciplinare degli insegnamenti e
o imprese.
all’attività
progettuale svolta all’interno dei Workshop, i
Il Master contempla, tra gli altri, anche due moduli spediplomati
saranno
in grado di operare con consapevocifici, dedicati uno alla certificazione energetica e l’altro
lezza
tecnica
e
sensibilità
culturale nel settore della proalla certificazione di qualità (energetica, abitativa ed amgettazione
architettonica
e urbana, alle diverse scale e
bientale). L’Università Roma Tre, soggetto autorizzato
livelli
di
intervento,
con
gli
strumenti metodologici e opedal Ministero dello Sviluppo economico a svolgere tale
rativi
oggi
richiesti
a
fronte
dell’evoluzione continua
corso di formazione, può attribuire il titolo di Certificadella
domanda
di
trasformazione,
dell’urgenza che i temi
tore energetico a livello nazionale e, a seguito della convenzione con la Fondazione ClimAbita, può rilasciare il della sostenibilità e della riqualificazione urbana impontitolo di Supervisor ClimAbita, oltre al diploma di Master gono in termini di bio-eco-compatibilità degli interventi.
con il riconoscimento di 60 CFU.
Master OPEN - Architettura del paesaggio
• conoscenza degli elementi per la progettazione del
paesaggio;
• consapevolezza delle tendenze dell’architettura del
paesaggio contemporanea;
• competenza nel progetto di parchi e spazi pubblici urbani.
OPEN. Gli studenti del master con i docenti Maria Grazia
Cianci, Luca Montuori e Andreas Kipar (foto: Giulia Bassi)
Il Dipartimento di Architettura dell’Università degli Studi
Roma Tre organizza per l’a.a. 2016/2017 il Master di II
livello OPEN - Architettura del paesaggio (fondatore:
prof. Francesco R. Ghio, direttore: prof. Maria Grazia
Cianci). La finalità del corso è formare soggetti che abbiano competenze specialistiche di carattere interdisciplinare e multidimensionale riguardo ai temi della
progettazione dello spazio aperto, in particolare in ambito
urbano, sempre più centrali nella cultura del progetto e
fondamentali per la definizione della qualità dell’habitat.
In particolare, il corso offre competenze relative a:
• lettura della stratificazione storica dei paesaggi e delle
strutture urbane, in rapporto al contesto ambientale e
territoriale;
• conoscenza della storia dell’architettura del giardino
e del paesaggio;
Non tutti sanno che
Il Corso è svolto nella modalità didattica in presenza.
Le attività didattiche del master avranno inizio entro il
15 febbraio 2017 e termineranno entro il 30 novembre
2017. La prova finale si svolgerà entro il 15 dicembre
2017.
OPEN è articolato in tre parti che si intrecciano fra loro:
le prime due - OPEN Lessons e OPEN Talks - hanno carattere teorico-critico; OPEN Workshop, ha invece natura
applicativa.
OPEN Lessons è l’insieme dei seminari tematici di
OPEN, ognuno dei quali organizzato in una serie di lezioni che si svolgono per tutta la durata del Corso e dedicate alle materie di base della formazione del
progettista degli spazi aperti urbani.
OPEN Talks sono le conferenze di OPEN affidate a noti
esperti italiani e stranieri, che sollecitano gli studenti su
alcuni temi chiave della cultura contemporanea sul progetto dello spazio aperto.
OPEN Workshop sono i seminari intensivi di progettazione che approfondiscono specifici temi di diagnosi e di
trasformazione di spazi aperti, tenuti e diretti da noti progettisti italiani e stranieri.
«La morte di Stefano Cucchi è uno di quei fatti di cronaca che segnano una generazione e un pezzo di storia italiana. Perché vicenda simbolo, carica di significati pesantissimi: la violenza del Potere, la fragilità dello Stato di diritto, l’incapacità dello
Stato italiano di fare i conti con le responsabilità dei suoi servitori, il pericolo che
corre un ragazzo che finisce nelle mani di uomini che indossano la divisa di chi garantisce la nostra sicurezza o il camice bianco di chi tutela la nostra salute.
Carlo Bonini, grande firma di “Repubblica” e autore di Acab e Suburra (insieme a
Giancarlo De Cataldo), per sette anni ha seguito da vicino il caso Cucchi – attraverso
la lettura di decine di migliaia di pagine di atti giudiziari, i colloqui con i familiari,
lo studio delle perizie e controperizie medico-legali sulle cause della morte – e in
questo libro, che è una vera e propria inchiesta civile raccontata con gli strumenti
della narrazione più incalzante, mette al centro il testimone primo e ultimo della verità su quanto accaduto: il Corpo del Reato.
Il cadavere di Stefano. Che svelerà le tappe del suo calvario attraverso gli occhi e la
scienza di un medico che, per una coincidenza precisa come un responso, sarà lo
stesso chiamato a interpretare i segni delle torture inflitte a Giulio Regeni, trucidato in Egitto e intrappolato in una
storia oscura, così diversa e così simile a quella di Stefano Cucchi.
Perché è tempo di far parlare quel cadavere martoriato, di fargli raccontare quello che sa e che alcuni non avrebbero
voluto che dicesse, e di spiegare a tutti noi, che forse non vorremmo ascoltare, quanto i nostri corpi siano alla
mercé del Potere, dello Stato, della Storia.
Stefano Cucchi è morto. Lo Stato che lo aveva preso in custodia ha restituito solo un cadavere. Ma quel cadavere
parla. E tutti lo dobbiamo ascoltare». (www.feltrinellieditore.it)
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Master in salute e sicurezza negli ambienti di lavoro in sanità
Silvia Conforto
Lo sviluppo delle
politiche di Salute e
Sicurezza negli ambienti di Lavoro
(SSL) è un argomento di fondamentale importanza teso
alla realizzazione di
diversi obiettivi tra
cui: il miglioramento della produttività riducendo le
Silvia Conforto
assenze per malattia; la riduzione dei
costi dell’assistenza sanitaria; la promozione di metodi e tecnologie di lavoro più efficienti; il mantenimento in attività dei dipendenti più anziani; la
riduzione dei fattori di rischio per lavoratori giovani
(18-24 anni) che risultano una delle categorie più
esposte ad incidenti a causa della scarsa esperienza.
raccolto la sfida di diffondere tale cultura e hanno
progettato e istituito, in convenzione, il Master di II
livello in Salute e sicurezza negli ambienti di lavoro
in sanità.
Tale master, oggi alla terza edizione, si propone di
formare figure professionali di elevata competenza
nell’ambito della SSL, con particolare riferimento al
settore sanitario. Gli ambienti sanitari, infatti, rappresentano un campo di applicazione molto particolare delle strategie di prevenzione, essendo luoghi
ad alto rischio intrinseco per la presenza di pazienti
e per l’impiego di tecnologie avanzate da parte di
personale eterogeneo. Nonostante gli interventi normativi del settore, la realizzazione di miglioramenti
tecnici e gestionali, grazie a figure professionali specifiche e di adeguata competenza, è fortemente auspicata.
Il master si rivolge specificatamente alle professioni
deputate alla sicurezza nelle strutture sanitarie, e
coinvolge come partner del progetto formativo l’Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro (INAIL), l’Ordine degli ingegneri
della Provincia di Roma, l’Università cattolica del
Sacro Cuore, la Luiss Business School e il Corpo nazionale dei Vigili del Fuoco.
Inadeguate gestioni nazionali, trascurando questi
aspetti, possono causare diversi tipi di danni esplicitabili in costi secondari – tra il 2,6% e il 3,8% del
PIL per incidenti sul lavoro e malattie professionali
secondo EU-OSHA – Estimating the cost of accidents and ill-health at work: A review of methodologies, 2014 – e mancati vantaggi.
Il percorso formativo avviene tramite una didattica
Viceversa, gestioni virtuose dovrebbero favorire multidisciplinare di ampio respiro, ottimale per lo
l’adozione di opportune misure di prevenzione e sviluppo delle competenze trasversali necessarie al
protezione dai rischi che, solitamente, conducono a raggiungimento di una preparazione specifica nelle
modifiche dei processi e degli ambienti lavorativi. strutture sanitarie. Al termine del percorso formaQuesto tipo di gestione, favorito dal connubio tra tivo, i partecipanti acquisiranno non solo il titolo di
competenze tecniche specifiche e il consenso degli master di secondo livello, ma avranno anche la posstakeholder, è subordinato alla diffusione della cul- sibilità di conseguire un ampio insieme di attestati e
tura della SSL. Purtroppo l’integrazione dei principi abilitazioni richiesti dalla legge al fine dell’esercizio
della SSL nell’istruzione superiore, soprattutto uni- della professione nel settore.
versitaria, è ancora oggi carente, nonostante ai futuri
professionisti sia comunque richiesto di padroneggiare tale materia nella propria attività lavorativa
(EU_OSHA, Mainstreaming OSH into university
education, 2010).
Per dettagli su attestati e abilitazioni, nonché per
avere informazioni specifiche sui destinatari,
l’organizzazione della didattica, le modalità di partecipazione e la possibilità di accedere a agevolazioni per la copertura anche parziale della quota di
Il Dipartimento di Ingegneria dell’Università Roma partecipazione, il riferimento è http://mastersaluteTre e l’Ospedale pediatrico Bambino Gesù hanno sicurezza.uniroma3.it.
Finché il tempo non ci separi
Blu, Bansky e gli “stacchi”: è lecito e ha senso musealizzare la street art?
che settimana prima, lo street artist Ericailcane
aveva espresso la sua disapprovazione realizzando
un murales che raffigura un topo grattare i muri,
dal titolo significativo, Zona Derattizzata, e con una
didascalia che dipana ancor di più qualsiasi dubbio
o fraintendimento: «Area bonificata da tombaroli,
ladri di beni comuni, sedicenti difensori della cultura, restauratori senza scrupoli e curatori prezzolati, massoni, sequestratori impuniti dell’altrui
opera di intelletto, adepti del Dio danaro e sudditi».
Una chiara e ferma presa di posizione contro gli intenti della mostra. In difesa della pratica degli
“stacchi”, ovviamente troviamo i curatori della mostra Christian Omodeo e Luca Ciancabilla, autore
quest’ultimo anche del volume The Sight Gallery.
Salvaguardia e conservazione della pittura murale
urbana contemporanea a Bologna (Bononia, University Press, 2015). Secondo Ciancabilla, per preservare alle generazioni future la possibilità di
conoscere e ammirare le pitture murarie urbane, è
necessario avviare una mirata campagna di distacco
delle opere in imminente pericolo di deterioramento, anche a costo di rinnegare la loro natura effimera. Tante le domande che hanno acceso il
dibattito: l’artista può opporsi? Può decidere che le
sue opere non vengano conservate, archiviate e che
siano collocate in un museo? La street art può essere ancora considerata una forma d’arte, sovversiva, illecita, estranea ai canali ufficiali dell’arte?
La questione si presenta davvero complessa e ricca
di spunti, soprattutto per un’evidente mancanza di
precedenti, anche in termini di violazione del diritto
d’autore, non solo in Italia ma anche in Europa. Il
caso di Bologna sembra essere davvero il primo
che si interroga, sicuramente in maniera così ufficiale e pubblica, sul destino delle opere di arte urbana. Ma facciamo un passo indietro per capire
meglio la ritrosia della quasi totalità degli artisti che
fanno parte di questo movimento artistico e culturale. La street art è definibile come un evento
espressivo, le cui performance sono accomunate
non tanto dal medium utilizzato quanto più dal
luogo di esecuzione e di fruizione: la strada. Pur
non essendo un insieme organico ed omogeneo, si
possono individuare dei tratti ed un’attitudine comune; avendo la strada come elemento distintivo,
le opere, quantomeno in origine, sono legate alla 91
recensioni
Negli ultimi mesi,
nel mondo dell’arte, si è assistito
a qualcosa di non
molto comune per
il nostro Paese:
ben due grandi
mostre hanno trattato contemporaneamente
un
ambito creativo
così controverso,
attuale e dibattuto
Giulia Pietralunga Cosentino
come la street art.
A Bologna, la mostra Street Art – Banksy e Co.
L’arte allo stato urbano, sostenuta da Fondazione
Cassa di Risparmio in Bologna, curata da Luca
Ciancabilla, Christian Omodeo e Sean Corcoran,
voluta da Fabio Roversi Monaco, presidente di
Genus Bononiae; a Roma, a Palazzo Cipolla, la
Fondazione Terzo Pilastro ha esposto, con il titolo
War, Capitalism and Liberty, un centinaio di opere
dell’inglese Bansky, forse l’artista più popolare di
questo movimento, reso celebre anche dalla sua indefinibile e sfuggente identità. Ma è soprattutto la
mostra di Bologna che ha scatenato un acceso dibattito e diviso l’opinione pubblica e il mondo
dell’arte contemporanea. Il progetto di questa
prima grande retrospettiva dedicata alla storia della
street art è nata dalla volontà del Professor Roversi
Monaco e di un team di esperti nel campo del restauro, di avviare una riflessione sulle modalità
della salvaguardia, della conservazione e della musealizzazione di queste esperienze urbane. Il progetto è ambizioso e ha previsto il distacco di alcuni
dei più significativi murales di Bologna per garantirne loro la conservazione, evitandone il naturale
ed inevitabile decadimento. I fatti successivi sono
noti: Blu, uno degli street artist di maggior rilievo,
inserito dal quotidiano inglese The Guardian nella
top ten dei migliori street artist, insieme a Banksy
ed Haring, ha deciso di cancellare i murales da lui
realizzati a Bologna nel corso degli ultimi venti
anni in segno di protesta. Il percorso di cancellazione è culminato con l’imbiancatura dei muri del
centro sociale XM24 che accoglievano #occupymordor la sua opera, forse, più celebre. Solo qual-
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sfera dell’illegascelta dall’artista?
lità, alla rivendicaOpere che sono efzione
e
alla
fimere ed estemriappropriazione
poranee, e che
di spazi, senza la
hanno in quella
necessità di ottenaturale ed inesonere un’approvarabile decadenza
zione ufficiale.
un’ulteriore afferNegli Stati Uniti è
mazione della loro
a partire dagli anni
definizione
di
Ottanta che la
opera d’arte. Se il
street art va inconpensiero dell’autro a processi di
tore, il suo mesclassificazione, lesaggio, lo spazio
galizzazione e istiscelto, il contesto
tuzionalizzazione,
definito e il suo
diventando ogdestinatario risulgetto di curiosa attano parte intetenzione da parte
grante dell’intera
degli esperti del
opera, ha senso
settore dell’arte. Il
snaturarli e modisuccesso
della Un’opera di Blu in Via Ostiense, angolo Via del Porto Fluviale, a Roma
ficare irrimediabilmente il loro
mostra
Time- (foto: Giulia Pietralunga Cosentino)
messaggio
in
square show del
1980
sancisce
nome di una conl’esistenza in strada di un indirizzo diverso dal semservazione necessaria, soprattutto quando l’autore
ha stabilito di rendere “mortale” l’opera? Interesplice lettering. Jean Michel Basquiat e Keith Haring sono, a posteriori, i più celebri interpreti di
sante sulla questione è il punto di vista di Fabiola
quest’epoca, seguiti da altri artisti come Richard
Naldi, storica dell’arte ed esperta di graffiti e street
Hambleton , le cui sagome a vernice nera (shadowart, con base a Bologna che si è da subito dichiarata
man) sono i primi segni iconici ad apparire con un
contraria alla realizzazione della mostra. «È arte
forte impatto sui muri di New York. Nel contesto
fatta per essere distrutta» – afferma la Naldi –
italiano è solo verso la fine degli anni Novanta che
«Questo tipo di arte contemporanea nasce, vive e
si verificano tali processi. La street art in Italia si
muore, come noi e non ha alcun senso pensare di
muove storicamente sull’asse Milano – Bologna –
utilizzare la stessa filosofia conservativa che si apRoma, seppur con modalità e peculiarità diverse.
plica all’arte antica o moderna. La modalità di fruiEterogeneità ed incompiutezza, mancanza di autozione è completamente diversa». L’idea di museo,
rizzazione, modifica del contesto spaziale e ricerca
secondo l’esperta, dovrebbe modificarsi; fenomeni
di comunicazione con i passanti: questi i tratti cocome la street art si possono prestare a una diffemuni che hanno, sia negli Stati Uniti che in Europa,
rente fruizione metodologica anche sfruttando le
raccolto le esperienze di più di trenta anni di street
nuove tecnologie.
art. Ora, date queste premesse, è lecito che un’istiNell’intervista rilasciata al magazine ArtTribune
tuzione culturale ufficiale intervenga in un mondo
in merito alla questione dei murales di Blu ricorda come «esistano ormai da decenni sistemi di
da sempre autonomo, volutamente illegale, effiregistrazione per le opere cosiddette effimere;
mero, pubblico e popolare come quello della street
casi emblematici di produzione artistica a partire
art per sradicare questi lavori dai loro luoghi di oridal secondo Novecento (Land Art, performance,
gine ed esporli come opere d’arte? Il dibattito sulla
happening, fra le altre) hanno forzato i limiti della
conservazione e il restauro dell’arte contemporafruizione e della trasmissione dell’opera, sottolinea, di cui anche la street art fa parte, è indubbianeando l’imprescindibile contestualizzazione
mente vivo. Sul tema della tutela e del restauro, ha
spazio-temporale. Con pertinenza si potrebbe risenso contrastare il naturale deterioramento di
opere che sono state concepite per esistere su quel
cordare che la migliore storia del writing a New
York si può leggere dalle documentazioni fotodeterminato muro, in quella determinata strada
Street art a Berlino (foto: Chiara Fusco)
Street art a Berlino (foto: Chiara Fusco)
grafiche di Jon Naar, Henry Chalfant, Martha
Cooper etc. Forse il confronto con l’epoca medioevale o moderna andrebbe costruito su base
stilistica piuttosto che su metodologie di conservazione delle opere».
Sicuramente il merito di chi ha organizzato questa
mostra, aldilà delle convinzioni che caratterizzano
le parti in causa, è quello di aver sollevato nuove
ed ulteriori questioni sul destino della street art, e
dell’arte contemporanea in generale che con la sua
versatilità di forme e materiali rende il dibattito
sulla sua conservazione ricco di spunti e riflessioni.
Street art a Bologna (foto: Chiara Fusco)
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Università degli Studi Roma Tre - via Ostiense, 159 - www.uniroma3.it