I licenziati sopra i 45 anni rischiano l`emarginazione

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Domenica 12 dicembre 2004
caritas
informa
SPECIALE DELOCALIZZAZIONE
Per Franca Porto, segretaria provinciale della Cisl, è in gioco il valore della giustizia sociale
I licenziati sopra i 45 anni
rischiano l’emarginazione
«Gli imprenditori veneti vi ricorrono prevalentemente per ridurre i costi»
«Ci sono due tipi di delocalizzazione. La prima, inevitabile,
può essere utile sia per il territorio da cui le aziende se ne
vanno, che per quello dove arrivano. Il lavoro, infatti, è sempre il più grande e potente
strumento di emancipazione e
di crescita sia per una comunità che per i singoli individui.
È un processo di contaminazione che può essere utile anche ai luoghi di partenza, perché permette di spostare l’occupazione su fasce di lavoro
maggiormente qualificato.
Poi c’è una seconda forma
di delocalizzazione, secondo
me prevalente in Veneto, che
io chiamo rapace e predatoria.
È quella di chi ha fatto impresa
e soldi qui, e adesso che la
competizione si fa dura, di
fronte alla scelta se continuare
a fare il padroncino o diventare imprenditore, sceglie la prima strada, all’estero. In questo
caso il danno è doppio: lasciare il territorio e le persone che
hanno consentito la crescita e
andare a proporre lo stesso
modello dove i costi per il personale ed energetici sono molto più bassi». Franca Porto, segretaria provinciale Cisl, fino a
pochi mesi fa nella segreteria
regionale si occupava specificatamente di temi legati alla
delocalizzazione.
Di fronte a una fabbrica che
chiude i battenti e porta le
attrezzature a Est, licenziando decine di operai,
quali rimedi si potrebbero
mettere in atto?
«Bisognerebbe intervenire
in ambito legislativo, imponendo, per esempio, una tassa alle
aziende, da utilizzare per finanziare la riqualificazione
professionale delle persone licenziate, o prevedere forme di
controllo internazionale adeguate, ma mi pare molto difficile ipotizzarle. Servirebbe una
grande capacità di far crescere
il valore della giustizia sociale,
e questo chiama in campo il
ruolo del sindacato, sia qui da
noi che all’estero».
Dove la delocalizzazione si
è maggiormente affermata?
«Nel manifatturiero nel suo
insieme, dove sono scarse l’innovazione tecnologica, la formazione del personale e la ricerca, ma è alto il consumo di
energia e di manodopera, che
nei Paesi di destinazione hanno costi molto più bassi.
Trasferire interi settori produttivi vuol dire perdere tutta
la capacità organizzativa e professionale che ha fatto nascere
i distretti industriali.
Poi ci sono le persone: il nostro è un Paese privo di ammortizzatori sociali e di una
buona rete di servizi che aiuti i
licenziati a riprogettare il futuro, informandoli sulle opportunità lavorative del territorio e
fornendo occasioni formative.
Nel Vicentino in alcuni casi
la delocalizzazione è stata accompagnata da un accordo
sindacale: aziende ed ente
pubblico mettono così a disposizione fondi per facilitare il ricollocamento dei lavoratori.
Vicenza è ancora una provincia dove non si trova il lavoro
che si vuole, ma un lavoro si
trova, anche se i problemi cominciano a essere grandi per
Conseguenze negative
per le cooperative
che avviano al lavoro
persone svantaggiate
La subfornitura è
stata la formula in
base alla quale sono nate e si sono
sviluppate
molte
cooperative sociali
vicentine che offrono un’occasione di
avviamento al lavoro a persone svantaggiate (disabili,
persone con disagio psichico, ex detenuti,
tossicodipendenti in fase di
recupero).
«Sono lavori di
basso profilo tecnico, come l’assemblaggio, quelli
svolti da persone deboli da un
punto di vista professionale»,
spiega Franco Balzi, presidente del Consorzio Prisma, che
raggruppa la maggior parte
delle cooperative sociali della
nostra provincia. Lavori di bassa manualità e che richiedono
pochi investimenti, come l’assemblaggio di semilavorati, di
caricabatterie, saldatrici, di cavi, o di campionari tessili. Atti-
molti lavoratori. Molto dipende dall’età delle persone: i più
giovani hanno più opportunità,
ma per quelli con più di quarantacinque anni è una vera e
propria tragedia. Se non si
reinseriscono, corrono un reale rischio di emarginazione, di
avere problemi per la pensione, oppure di rientrare al lavoro con attività peggiori di prima, sia come professionalità
che come retribuzione».
A fianco: Franca Porto, segretaria provinciale della Cisl. In basso: Massimo Calearo, presidente
dell’Assoindustria vicentina.
vità che negli ultimi due anni sono
state
portate
all’estero, ripercuotendosi sulle cooperative e sulle
possibilità di offrire una chance lavorativa a chi fatica a
tenere i ritmi e le
competenze
del
mercato del lavoro
ordinario.
«Un fenomeno commenta Balzi che negli ultimi
due anni ha avuto
una fortissima accelerazione. Nel meccanismo
della produzione le cooperative sociali sono un anello debolissimo».
Risultato: ricorso alla cassa
integrazione anche per periodi
prolungati e, l’anno scorso,
una mobilitazione per ottenere
dalla Provincia l’esenzione
dall’Irap per le cooperative sociali di tipo B, che si occupano
appunto di inserimento lavorativo.
L’Assoindustria: «Puntiamo
sull’internazionalizzazione»
Basta delocalizzazione, strategia miope, oggi occorre internazionalizzare. Si può riassumere così la posizione di
Massimo Calearo, presidente
dell’Associazione Industriali
della provincia di Vicenza,
sul fenomeno dello spostamento all’estero di attività
produttive.
«La delocalizzazione ha fatto il suo tempo - spiega - e certamente può aver aiutato virtualmente alcune aziende a
restare sul mercato, grazie al
più basso costo del lavoro. Ma
quando si basa solo su questo
presupposto, diventa una visione miope, perché spinge
l’imprenditore a diventare un
nomade, che continua a spostare gli stabilimenti all’inseguimento della manodopera
più a buon mercato. Visto così, è un meccanismo che ha
una valenza negativa per il
territorio d’origine, perché toglie posti di lavoro, anche se,
quando la delocalizzazione è
nata, le aziende qui avevano il
problema della mancanza di
manodopera».
Questo accadeva all’inizio.
E oggi?
«Oggi occorre internazionalizzare. Le imprese, per rimanere sul mercato, devono innovare, ossia investire in design, marketing, nel prodotto,
nel mercato e anche nel processo. Questo significa internazionalizzazione,
essere
sempre più vicini ai nuovi
mercati. Per il Nordest la
grande opportunità è essere
protagonisti dello sviluppo
economico e sociale della
nuova Europa allargata. Per
questo l’Associazione Industriali di Vicenza, prima in Europa, ha creato un distretto
della meccatronica e dell’elettromeccanica a Samorin, a 40
chilometri da Bratislava».
Qualche altro esempio concreto di internazionalizzazione?
«La mia azienda: pur avendo in Slovacchia un’attività
che fa lavorare 60-80 persone,
è in crescita in contemporanea a Isola Vicentina, dove lavorano 230-250 persone. Siamo cresciuti attraverso l’internazionalizzazione.
Eravamo
partiti nel 1957 producendo
campanelli per biciclette, oggi
produciamo antenne per auto,
e proprio in Slovacchia stanno
crescendo nuovi stabilimenti
della Volkswagen, della Citroen, della Hyundai che serviremo direttamente da lì. Se
non lo avessimo fatto noi, lo
avrebbe fatto qualcun altro. E
non siamo l’unico esempio di
lungimiranza imprenditoriale
e di innovazione».
Alla fine del 2004 in provincia di Vicenza si conteranno più di quattromila
persone iscritte alle liste
di mobilità. L’internaziona-
lizzazione è servita per
riassorbire questi lavoratori? Penso, per esempio, a
quelli che hanno già cinquant’anni e per i quali
rientrare nel mercato del
lavoro può essere particolarmente difficile.
«Come imprenditori e sindacato dobbiamo capire, continuo a ripeterlo anche a livello nazionale, che con una situazione globale così difficile,
fra sindacato e impresa non
deve esserci più contrapposizione, ma una forte unione
per contrastare la concorrenza. Abbiamo necessità, e alcune leggi lo permettono, di studiare insieme le modalità per
far sì che queste persone di
50-55 anni possano rinnovarsi,
così come noi rinnoviamo gli
impianti e i prodotti».
Converrà sul fatto che è
difficile ipotizzare questo
su persone che per trenta,
quarant’anni hanno lavorato nella stessa fabbrica come operai.
«È un problema risolvibile
in 30 secondi: è possibile che
non si riesca a trovare infermieri o persone che assistono
gli anziani? Si impazzisce per
far arrivare dall’Est persone
che si dedicano a questi lavori,
perché noi italiani siamo diventati delicati e non siamo
più disponibili a farli. Certi lavori, noi italiani, dobbiamo
tornare a farli».
Anche le cooperative sociali che avviano al lavoro
persone svantaggiate attraverso la subfornitura
soffrono per lo spostamento all’estero di segmenti di attività produttive. Gli imprenditori non
dovrebbero favorire l’affidamento delle commesse a
queste imprese che hanno
una forte funzione sociale?
«È vero, è un discorso correttissimo.
Nel momento in cui far fare un lavoro a un’azienda mi
costa tanto quanto farlo fare
a una cooperativa sociale,
credo sia giusto affidarlo a
quest’ultima, ma se affidarlo
a una cooperativa mi costa
dieci e affidarlo a un’azienda
mi costa cinque, io dico che è
giusto far fare il lavoro dove
costa meno, perché sennò
l’azienda va fuori mercato».