Vol. 42 • N. 168 Ottobre-Dicembre 2012

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INDICE numero 168 Ottobre-Dicembre 2012
Malattie metaboliche ereditarie (a cura di Generoso Andria)
Presentazione......................................................................................................................................................................................193
Aggiornamento sulle malattie metaboliche ereditarie...................................................................................................................195
Roberto Cerone, Maria Cristina Schiaffino, Anna Rita Fantasia, Michela Cassanello, Simone Murgia, Ubaldo Caruso
Encefalopatie mitocondriali infantili.................................................................................................................................................202
Daria Diodato, Anna Ardissone, Graziella Uziel, Daniele Ghezzi, Massimo Zeviani
Nuovi approcci terapeutici alle malattie da accumulo lisosomiale..............................................................................................209
Giancarlo Parenti, Caterina Porto, Roberto Della Casa
Diabetologia (a cura di Francesco Chiarelli)
Presentazione......................................................................................................................................................................................219
Diabete in età pediatrica: cosa c’è di nuovo?..................................................................................................................................221
Maria Loredana Marcovecchio, Francesco Chiarelli
Diagnosi del diabete nel bambino: quando pensare anche al diabete non-autoimmune...........................................................226
Franco Meschi, Valeria Favalli, Giusy Ferro
Novità nel trattamento del diabete di tipo 1: dal microinfusore al pancreas artificiale............................................................231
Stefano Tumini, Silvia Carinci
Frontiere (a cura di Andrea Biondi, Achille Iolascon, Luigi D. Notarangelo, Massimo Zeviani)
Nuove frontiere per la terapia genica: enzimi artificiali per correggere le mutazioni genetiche.............................................236
Claudio Mussolino
Focus (a cura di Generoso Andria)
La promozione della salute riproduttiva..........................................................................................................................................243
Pierpaolo Mastroiacovo
In ricordo di Franco Panizon..............................................................................................................................................................253
Malattie metaboliche ereditarie
La dizione “malattie metaboliche” può risultare spesso equivoca. Il medico dell’adulto pensa al diabete, alle dislipidemie, all’aterosclerosi,
all’iperuricemia. Il pediatra, invece, pensa subito a quelli che una volta erano chiamati “errori congeniti del metabolismo” (Inborn errors of
metabolism). Oggi quest’ultima definizione non è considerata “politicamente corretta”, in quanto etichettare un bambino con una malattia
metabolica congenita come un “errore” non è più accettabile (uno scrittore francese, Michel Quoist, diceva che “ogni bambino è una parola
che esce dalla bocca di Dio…e Dio non dice parolacce)”. È meglio, quindi, indicare questo gruppo di patologie genetiche come “Malattie
metaboliche ereditarie”(MME).
Di queste, in realtà, si sono da sempre occupati soprattutto i pediatri. Infatti esse esordiscono nella maggior parte dei casi alla nascita o nei
primi anni di vita: perciò in tutto il mondo sono state sempre curate da specialisti, chiamati “pediatri metabolisti”. D’altra parte i nuovi programmi di screening neonatale allargato, grazie all’uso di tecnologie come la spettrometria di massa in tandem, stanno progressivamente
aumentando il numero di malattie che possono essere identificate nei primi giorni di vita: la maggior parte di esse sono appunto Malattie
metaboliche ereditarie. Un problema da risolvere nella formazione medica specialistica è oggi quello di addestrare medici dell’adulto che
abbiano competenza nella diagnosi e cura delle Malattie metaboliche ereditarie, analogamente a quanto avviene per tutta una serie di
patologie croniche che, pur esordendo nell’età pediatrica, trovano, dopo la pubertà, centri specialistici competenti nell’area della medicina
interna (ad esempio per diabetologia, reumatologia, epilettologia, cardiologia, gastroenterologia, etc.).
Non è da sottovalutare il fatto che le Malattie metaboliche ereditarie, tra tutte le malattie genetiche, siano quelle che hanno messo a punto
approcci terapeutici efficaci, sulla base dei quali, tra l’altro, sono stati estesi i programmi di screening neonatale. Per questo il medico deve
avvertire la responsabilità di riconoscere in tempo utile pazienti di qualunque fascia di età, se pur rari, che possono essere sottratti con
opportuni trattamenti a un destino di malattia e di disabilità.
Non dimentichiamo,infine, che le Malattie metaboliche ereditarie hanno rappresentato e ancora rappresentano un modello di studio estremamente interessante nel campo della genetica: sono state, infatti, un primo esempio di ricerca proteomica, in un’epoca in cui la genomica
era ancora in fase di sviluppo. È importante, quindi, che un aggiornamento sulle malattie metaboliche ereditarie sia periodicamente presente
nel curriculum formativo del pediatra, non solo per le ricadute in campo assistenziale, cioè diagnostico e terapeutico, ma anche per la loro
valenza educativa, in quanto modello per approfondire le basi genetiche e molecolari della medicina.
La sezione sulle Malattie metaboliche ereditarie di questo numero di Prospettive in Pediatria comprende, come di consueto, tre articoli.
L’articolo di Roberto Cerone e collaboratori riporta i progressi più recenti nel settore, anzitutto per discutere le problematiche circa l’allargamento del panel di malattie che oggi sono sottoposte a screening nei vari paesi del mondo. Vengono, poi, presentati alcuni esempi di malattie metaboliche con interessamento neurologico di recente individuazione e viene fatto il punto sui differenti approcci terapeutici, già in atto
o in corso di sperimentazione, per le iperfenilalaninemie, prototipo delle malattie metaboliche identificabili mediante screening neonatale.
Il secondo articolo di Daria Diodato e collaboratori presenta il capitolo delle encefalopatie mitocondriali pediatriche, a cui il gruppo che fa
capo a Massimo Zeviani ha contribuito in maniera determinante negli ultimi anni con ricerche all’avanguardia, che hanno permesso di chiarire la patogenesi di molte entità nosografiche, la loro storia naturale e la possibilità di applicare interventi terapeutici innovativi.
Infine il contributo di Giancarlo Parenti e collaboratori costituisce un’aggiornata revisione circa le nuove terapie oggi disponibili per le malattie da accumulo lisosomiale. Anche in questo caso le ricerche del gruppo di Parenti sono risultate di grande interesse per identificare in
vitro e poi in modelli animali nuove possibilità di trattamento, con piccole molecole, tipo chaperone, che stanno oggi per essere trasferite al
campo clinico con trial sperimentali in pazienti.
Generoso Andria
Dipartimento di Pediatria, Università Federico II, Napoli
193
Ottobre-Dicembre 2012 • Vol. 42 • N. 168 • pp. 195-201
malattie metaboliche ereditarie
Aggiornamento sulle malattie metaboliche
ereditarie
Roberto Cerone, Maria Cristina Schiaffino, Anna Rita Fantasia, Michela Cassanello,
Simone Murgia, Ubaldo Caruso
Centro Regionale di riferimento per lo screening neonatale e la diagnosi delle malattie metaboliche dell’Università,
Istituto Giannina Gaslini, Genova
Riassunto
I recenti lavori scientifici hanno evidenziato un importante avanzamento delle conoscenze nel campo delle malattie metaboliche ereditarie, in particolare
nel settore degli screening neonatali, nelle identificazione di nuove patologie e nel campo della terapia.
Il presente articolo di revisione descrive i progressi fatti in questi ultimi anni in particolare in tre aree:
gli screening neonatali con particolare riguardo alle nuove metodologie che hanno permesso l’espansione dello spettro di patologie identificabili nelle prime
epoche della vita;
nuove malattie metaboliche di interesse neurologico, nello specifico: il deficit di piridox(am)ina 5’-fosfato ossidasi, il deficit del trasportatore della dopamina,
gli errori congeniti del metabolismo e trasporto dei folati;
nuovi approcci terapeutici, con particolare riguardo alle iperfenilalaninemie, alla malattia delle urine a sciroppo d’acero e ai difetti del ciclo dell’urea.
Summary
Several recent scientific papers have showed a growing interest in the field of inborn errors of metabolism.
This review describes the progress made in the last years, mostly in three important fields:
newborn screening, with special attention to the new technologies used to expand the metabolic panel;
newly identified metabolic disorders with neurological involvement, i.e. the pyridox(am)ine 5’-phosphate oxidase deficiency, the dopamine transporter
defect, the inborn errors of folate metabolism and transport;
new therapeutic approaches, particularly to hyperphenilalaninemias, maple syrup urine disease and urea cycle defects.
Introduzione
In questi ultimi anni le conoscenze nel settore delle malattie metaboliche ereditarie hanno avuto una crescita significativa.
In particolare l’attenzione si è rivolta: all’individuazione precoce di
un numero sempre maggiore delle suddette patologie mediante lo
screening neonatale, alla scoperta di nuove malattie o di fenotipi
clinici di malattie già note, nonché allo sviluppo di nuove terapie.
Questo aggiornamento si focalizzerà soprattutto sugli errori congeniti del metabolismo intermedio (non facendo quindi riferimento alle
terapia delle malattie da accumulo lisosomiale e alle encefalopatie
mitocondriali oggetto di due articoli in questo fascicolo di Prospettive in Pediatria), presentando le più rilevanti novità emerse dalla
revisione della letteratura più recente.
Novità in tema di screening neonatale
L’applicazione della spettrometria di massa tandem (o MS/MS) allo
screening neonatale ha permesso di espandere significativamente
le malattie evidenziabili in epoca neonatale passando dal concetto
tradizionale di un test-una malattia al concetto completamente nuovo un test-molte malattie.
In questo contesto, la diagnosi di diverse malattie metaboliche precede l’esordio sintomatologico, talora acuto, permettendo di mettere
in atto metodiche e trattamenti adeguati preventivi.
La MS/MS permette di analizzare aminoacidi e acilcarnitine su uno
spot del diametro di circa 5 mm di sangue essiccato su carta bibula.
L’introduzione di questa tecnica ha permesso di aumentare notevolmente il numero di condizioni diagnosticabili con un unico test.
Infatti con la MS/MS è possibile sottoporre a screening oltre 40 malattie (aminoacidopatie, acidemie organiche, difetti dell’ossidazione
degli acidi grassi).
Esiste tuttavia una notevole disparità tra i vari Centri di screening
in USA e in Europa riguardo al numero di patologie sottoposte a
screening.
Di fatto mentre negli USA vengono sottoposte a screening almeno
40 patologie metaboliche (Tortorelli et al., 2008) in Europa la situazione è molto disomogenea con un numero di malattie che a seconda della nazione è variabile da 1 a 40 (Loeber et al., 2012).
In Italia, l’offerta e la distribuzione dello screening neonatale metabolico esteso, presenta tutt’ora delle differenze regionali.
Dai dati pubblicati nell’ultimo rapporto tecnico della Società Italiana
per lo Studio delle Malattie Metaboliche ereditarie e lo Screening
Neonatale (SIMMESN) dell’anno 2011, lo screening neonatale esteso
mediante MS/MS era effettuato dai Centri di Firenze (per i neonati
della Toscana e Umbria) e come progetti pilota dai Centri di Genova
(anche per alcuni punti nascita della Sardegna), Roma “La Sapienza”, Catania e Napoli (CEINGE) (Cerone et al., 2011). Nell’anno 2012
si è aggiunto il Centro di Bologna.
Il successo internazionale dello screening neonatale metabolico
esteso ha spinto la comunità scientifica a considerare un numero
maggiore di patologie sottoponibili a screening. Oggi il gruppo di
maggiore interesse è rappresentato dalle malattie da accumulo lisosomiale (LSD) e dalle immunodeficienze combinate gravi (SCID).
195
R. Cerone et al.
Malattie da accumulo lisosomiale
Le malattie lisosomiali sono un gruppo di oltre 40 patologie ereditarie con una prevalenza stimata di 1:7000-1:9000 (Fletcher, 2006);
per i possibili interventi terapeutici, che si sono resi disponibili in
questi anni recenti o lo saranno nell’immediato futuro (malattia di
Gaucher, malattia di Fabry, malattia di Pompe, mucopolisaccaridosi
I, II e IV, malattia di Niemann-Pick e malattia di Krabbe) alcune di
queste sono state candidate per lo screening neonatale.
Di fatto pur esistendo alternative biochimiche per la misura delle attività specifiche nel cartoncino per lo screening per singola malattia,
la MS/MS presenta il vantaggio di poter rilevare, mediante l’analisi di
differenti substrati, più difetti enzimatici simultaneamente.
Tale possibilità è stata applicata per l’individuazione della malattia
di Pompe, Fabry e MPS-I sullo stesso spot di sangue (Duffey et al.,
2010).
Recentemente è stata discussa la possibilità di introdurre nell’ambito di programmi di screening neonatale, il dosaggio di enzimi specifici, il cui deficit è causa di alcune malattie da accumulo lisosomiale;
nello specifico il dosaggio dell’α-glucosidasi per la malattia di Pompe, quello della dell’α-galattosidasi A per la malattia di Fabry e della
β-galattocerebrosidasi per la malattia di Krabbe. I dati attualmente
disponibili non supportano l’inclusione delle suddette metodiche in
programmi di screening neonatali applicabili nella pratica comune,
poiché non rispondono ai criteri classici di fattibilità, di efficacia e di
appropriatezza di prevenzione secondaria (Ross, 2011) (Tab. I).
Uno dei problemi posti dallo screening per le malattie lisosomiali è l’identificazione di pazienti il cui fenotipo non è chiaro: ad esempio la maggior
parte dei pazienti con malattia di Fabry identificati allo screening sono
affetti da forme late-onset che potrebbero non sviluppare sintomatologia
anche senza trattamento (Spada et al., 2006, Doi et al., 2012).
Sono in corso ulteriori studi su un più vasto campione di neonati per
confermare la specificità di tale metodica.
(ADA). Solo le ultime due forme sono anche errori congeniti del metabolismo.
Abitualmente le SCID si manifestano in bambini di età inferiore
all’anno, tipicamente nei primi tre mesi di vita, per l’elevata suscettibilità alle infezioni ed il grave interessamento multiorgano (polmonite interstiziale cronica, candidiasi, epatosplenomegalia, rash cutanei, diarrea cronica e deficit di accrescimento).
In assenza di un trattamento adeguato (trapianto di cellule staminali
ematopoietiche) l’exitus avviene entro 1 o 2 anni per infezioni da
agenti opportunisti e virus.
I bambini che sono stati diagnosticati precocemente (abitualmente
per una storia familiare positiva) e trapiantati hanno una prognosi
quod vitam più favorevole e minori complicanze rispetto ai soggetti
diagnosticati tardivamente e con manifestazioni cliniche.
Le SCID per alcune caratteristiche cliniche e terapeutiche (alta mortalità se non trattata, possibilità di terapia se riconosciuta precocemente e markers di malattia specifici, identificabili sullo spot del
cartoncino per lo screening) sono potenziali candidate per lo sviluppo di screening neonatali.
Per l’interesse specialistico di questa review, rivolto per lo più alle
patologie metaboliche ereditarie, si approfondisce la forma di SCID
associata al difetto di adenosina deaminasi, coinvolta nel metabolismo delle purine, che rappresenta il 30% dei casi di SCID.
Il deficit di adenosina deaminasi (ADA) è una immunodeficienza grave, a trasmissione autosomica recessiva, fatale nei primi mesi di vita
se non trattata. Uno studio pilota italiano ha dimostrato che la valutazione su spot di sangue alla nascita dell’adenosina e della 2- deossiadenosina (suo metabolita) tramite spettrometria di massa è una
metodica efficace, economica, semplice e disponibile per diagnosi
neonatale di ADA (Azzari et al., 2011). Auspicabile è la validazione
dei risultati con studi di popolazione.
Nuove malattie metaboliche con presentazione
Le immunodeficienze combinate gravi (SCID) rappresentano un neurologica
Immunodeficienze combinate gravi (SCID)
gruppo molto eterogeneo di patologie, che compromettono gravemente la funzione del sistema immunitario, ed in particolare dei linfociti T spesso associata ad assenza di linfociti B (Buckley, 2000).
Si distinguono almeno 15 differenti malattie; in base alla modalità
di trasmissione e al tipo di difetto, si riconoscono diverse forme di
SCID: SCID con ipoplasia emopoietica generalizzata, SCID con mancato sviluppo della cellula staminale linfoide (con assenza dei linfociti B e T), SCID con linfociti B normali, SCID con deficit di purina
nucleoside fosforilasi (PNP), SCID con deficit di adenosindeaminasi
Vengono di seguito descritti i fenotipi associati ai disordini metabolici
con prevalente coinvolgimento neurologico di recente identificazione:
il deficit di piridox(am)ina 5’-fosfato ossidasi, il deficit del trasportatore
della dopamina, gli errori congeniti del metabolismo e trasporto dei
folati. La tabella II fornisce una sinossi di queste condizioni.
Deficit di piridox(am)ina 5’-fosfato ossidasi
Il piridossal-5’ fosfato, coenzima della vitamina B6 può essere formato dalla piridossina o piridossamina mediante l’azione di due
Tabella I.
Caratteristiche di alcune malattie da accumulo lisosomiale, esaminate come possibili candidate per test di screening neonatali (da Ross, 2012).
Malattia di Pompe
Malattia di Fabry
Malattia di Krabbe
Esistenza di un test di screening
sì
sì, per i maschi
sì
Test diagnostici discriminanti forme
infantili da forme non classiche
no
no
no
Storia naturale nota
sì, nuove problematiche gestionali
stanno sorgendo in bambini
sopravvissuti
sì
sì
Trattamento efficace
Trattamento enzimatico sostitutivo,
non per i pazienti CRIM negativi
Terapia enzimatica sostitutiva
Trapianto di cellule staminali
Possibilità di introduzione in
programmi di screening neonatali
Non ancora
Non ancora
Non ancora
196
Aggiornamento sulle malattie metaboliche
Tabella II.
Caratteristiche genetiche e cliniche di malattie metaboliche con presentazione neurologica di recente caratterizzazione.
Nome
Gene e cromosoma
Fenotipo clinico
Diagnosi
Terapia
Deficit di piridox(am)ina
5’-fosfato ossidasi
PNPO
17q21.32
Manifestazioni comiziali
(mioclonie, convulsioni,
movimenti oculari abnormi),
acidosi lattica, bradicardia,
asfissia perinatale,
encefalopatia epilettica,
ritardo cognitivo e del
linguaggio
Ipoglicemia, acidosi, vanil
lattato nelle urine;
alla rachicentesi riscontro
di: aumento di glicina,
taurina, istidina, treonina e
bassi livelli di arginina;
burst suppression all’EEG;
analisi molecolare per
PNPO;
valutazione attività
enzimatica residua di PNPO
su fibroblasti.
Piridossal-5 fosfato (dopo
mancata risposta alla
terapia con vitamina B6)
Deficit del trasportatore
della Dopamina
SLC6A3
5p15.3
Irritabilità e difficoltà di
alimentazione in epoca
neonatale
Ipotonia assiale
Parkinsonismo
Sintomi ipercinetici
(distonie, corea, discinesia)
Movimenti oculari abnormi
Segni piramidali
Lieve aumento di
escrezione urinaria di acido
omovanillico;
alla rachicentesi evidenza
di aumento del rapporto
acido omovanillico/5idrossindoloacetico;
lieve aumento della PRL;
aumento CPK;
alterazione dei gangli della
base alla PET-scan;
analisi molecolare gene
SLC6A3
Rilassanti muscolari,
Agenti dopaminergici,
anticolinergici,
antiglutamatergici,
acido γ-aminobutirrico
Difetto del recettore α dei
folati
FOLR1
11q13.3-q14.1
Disordini del movimento
Regressione psicomotoria
Epilessia
Leucodistrofia
Riduzione della
Acido folinico
concentrazione dei folati nel
liquido cefalo-rachidiano
RMN-encefalo
Ipomielinizzazione
Spettroscopia: riduzione
della colina e dell’inositolo
Deficit di diidrofolato
reduttasi
DHFR
5q11.2-q13.2
Anemia megaloblastica e/o
pancitopenia
Epilessia generalizzata tipo
assenze atipiche o forme
tonico-cloniche
Manifestazioni neurologiche
Ritardo mentale
Riduzione dei livelli dei folati Acido folinico
nel liquido cefalo rachidiano Idrossicobalamina
Deficit di metilene tetra idrofolato deidrogenasi
MTHFD
14q24
Anemia megaloblastica
Elevati livelli plasmatici
Sindrome emolitico-uremica di omocisteina e acido
Immunodeficienza
metilmalonico
enzimi: la piridossal chinasi e la piridox(am)ina 5’-fosfato ossidasi
(PNPO). Mentre l’epilessia piridossina responsiva è un’entità nota,
ormai da circa 50 anni, il deficit di piridox(am)ina 5’-fosfato ossidasi,
è una patologia di più recente identificazione, che causa una grave
encefalopatia epilettica neonatale.
La diagnosi clinica della classica epilessia piridossina responsiva si
basa sui seguenti criteri: comparsa delle convulsioni prima o entro il
primo mese di vita, non risposta ai farmaci antiepilettici, rapida risposta
alla terapia con piridossina, controllo delle convulsioni con una terapia
di mantenimento (5-10 mg/Kg/die), ricomparsa delle convulsioni dopo
pochi giorni dall’interruzione della terapia di mantenimento.
L’epilessia piridossina responsiva è una malattia autosomica recessiva causata da mutazioni nel gene ALDH7A1 localizzato sul cromosoma 5q31. La più comune mutazione responsabile di circa il 30%
degli alleli mutati è la E399Q (Mills et al., 2010).
Per quanto riguarda il deficit di PNPO sono stati riportati in letteratura 16 pazienti di otto diverse famiglie (Khayat et al., 2008; Ruiz et
al., 2008).
Il quadro clinico è caratterizzato da: convulsioni fetali (3/16), distress
fetale prima del parto (5/16), parto prematuro, basso punteggio APGAR
(5/16), convulsioni nelle prime 24 ore di vita (11/14) quadro EEG di
burst-suppression (10/11) con mancata risposta alla terapia antiepilettica (13/18) e alla terapia con piridossina (7/10).
La maggior parte dei pazienti risponde alla terapia con piridossal-fosfato.
Il gene della PNPO è localizzato sul cromosoma 17q21.2. Le principali mutazioni individuate sono: una mutazione missenso in omozigosi (p.R95H), un composto eterozigote per una missenso mutazione (p.D33V) e una mutazione nonsenso in omozigosi (p.A174X)
(Hoffmann et al., 2006; Ruiz et al., 2008).
197
R. Cerone et al.
Deficit del trasportatore della dopamina
Il deficit del trasportatore della dopamina è stato descritto recentemente in 11 bambini che presentavano un quadro clinico caratterizzato da ipercinesia e parkinsonismo (Kurlan et al., 2011). Tutti i
pazienti hanno sviluppato un grave quadro di distonia con disordini
del movimento oculare e del tratto piramidale.
Nei pazienti studiati sono state identificate mutazioni SLC6A3.
Il quadro biochimico presenta un aumentato rapporto acido omovanillico/acido 5-idrossiindolacetico e una aumentata escrezione
urinaria di acido omovanillico.
Tutti i soggetti hanno presentato una scarsa risposta alla terapia con
neurotrasmettitori.
Errori congeniti del metabolismo e del trasporto dei folati
Nell’ambito degli errori congeniti che interessano il trasporto e il
metabolismo dei folati cinque sono stati ampiamente studiati: 1) il
malassorbimento ereditario dei folati (OMIM 229050),causato da
mutazioni del gene che codifica il trasporto dei folati (SLC46A1) e
caratterizzato clinicamente da anemia megaloblastica, infezioni
ricorrenti con diarrea cronica, convulsioni e ritardo mentale; 2) il
deficit di glutamato formiminotransferasi (OMIM 229100), dovuto a
mutazioni nel gene FTDC (proteina bi-funzionale contenente la glutamato amino transferasi e la formimino tetraidrofolato ciclodeaminasi con un fenotipo clinico caratterizzato principalmente da ritardo
mentale; 3) il deficit della metilenetetraidrofolato reduttasi (OMIM
236250), il più frequente degli errori congeniti del metabolismo dei
folati, causato da mutazioni nel gene MTHFR (metilentetraidrofolato reduttasi) e con sintomatologia clinica variabile rappresentata da
ritardo mentale e trombosi; 4) il deficit di metionina sintasi (OMIM
236270) e 5) il deficit di metionina sintasi reduttasi (OMIM 250940)
che sono causate da mutazioni che interessano le funzioni delle
metionina sintasi reduttasi o sintetasi. Questi due ultimi difetti (autosomici recessivi) presentano clinicamente anemia megaloblastica,
atrofia cerebrale, cecità e alterazioni del tono muscolare.
Ai cinque difetti conosciuti se ne sono recentemente aggiunti altri
tre: il deficit cerebrale di folati dovuto a mutazioni nel gene che codifica il recettore alfa, il deficit di diidrofolato reduttasi e il deficit di
metilene tetraidrofolato (THF) deidrogenasi.
Il deficit cerebrale di folati (OMIM 613068) dovuto a mutazioni nel
gene che codifica il recettore α è stato identificato in un piccolo
numero di famiglie (Cario et al., 2009). Il quadro neurologico dei
pazienti è molto ampio e include ritardo mentale, ritardo motorio ed
epilessia.
Il trattamento con acido folinico ha aumentato i livelli di folato cerebrale (che sono invece normali nel sangue) ma ha avuto effetti
limitati sul quadro epilettico.
Il deficit di diidrofolato reduttasi (OMIM 613839) è stato descritto in
tre famiglie con anemia megaloblastica, deficit cerebrale dei folati e
convulsioni: nei casi più gravi è presente pancitopenia, atrofia cerebrale e grave ritardo mentale (Banka et al., 2011). Nei pazienti affetti
sono state identificate mutazioni allo stato omozigote nel gene DHFR
suggestive di una trasmissione autosomica recessiva della malattia
(Carlo et al., 2011). Il trattamento con acido folinico ha determinato
una normalizzazione del volume dei globuli rossi e un miglioramento
del quadro neurologico, ma nei casi più gravi la terapia non ha modificato il decorso del ritardo mentale.
Il deficit di metilene THF deidrogenasi è stato identificato in un bambino di due mesi che presentava anemia megaloblastica, sindrome
emolitica uremica atipica e grave immunodeficienza combinata. Il
quadro biochimico é caratterizzato da aumentate concentrazioni
198
plasmatiche di omocisteina e acido metilmalonico. Alla base del difetto sono state identificate mutazioni nel gene MTHFD1 (Watkins
et al., 2011).
Nuove terapie
Nell’ambito degli errori congeniti del metabolismo il trapianto di fegato o di epatociti e l’impiego di alcuni farmaci sono le terapie che
hanno permesso l’introduzione di nuove strategie di trattamento.
Trapianto di fegato o di epatociti
Le malattie metaboliche ereditarie rappresentano, dopo la colestasi,
la seconda più comune indicazione all’epatotrapianto in età pediatrica (Burlina et al., 2002).
Le esperienze più recenti fanno riferimento all’impiego del trapianto
epatico e degli epatociti nella leucinosi, in alcune organicoacidemie
e nei difetti del ciclo dell’urea (Meyburg-Hoffmann, 2010).
Per quanto riguarda la leucinosi sono stati presi in considerazione
35 pazienti con leucinosi classica sottoposti a trapianto di fegato da
donatori deceduti, dimostrando l’efficacia della terapia a lungo termine nel bloccare la progressione del danno cerebrale, senza alcun
miglioramento, però, del quadro neurologico preesistente (Mazariegos et al., 2012).
Per le organicoacidemie l’esperienza si è rivolta principalmente alla
propionico e alla metilmalonico acidemia con risultati contrastanti,
che necessitano di un follow-up a lungo termine per conclusioni definitive (Vara et al., 2011).
Il trapianto epatico, effettuato in 4 soggetti ad una età media di 1
anno e mezzo, è stato eseguito utilizzando in tutti i casi il lobo sinistro epatico.
Tra i difetti del ciclo dell’urea, i pazienti affetti da: difetto di ornitintranscarbamilasi, carbamilfosfatosintetasi e arginino succinico liasi,
più frequentemente necessitano del trapianto epatico. L’esperienza americana relativa a circa 113 pazienti affetti da difetti del ciclo
dell’urea, trattati con trapianto epatico, ha identificato una sopravvivenza a cinque anni pari all’86% (Chang et al., 2005).
Tali risultati sono sovrapponibili a quelli riportati in una casistica inglese
con un miglioramento della qualità di vita e netta riduzione del numero
dei ricoveri per episodi di scompenso metabolico (Leonard et al., 2004).
Farmacoterapia
Iperfenilalaninemie
In un nostro precedente articolo (Cerone et al., 2005) sono state
riferite le terapie che erano all’epoca oggetto di studio per le iperfenilalaninemie: la terapia genica, la supplementazione con aminoacidi neutri, la terapia con tetraidrobiopterina (BH4) e la terapia con
fenilalanina ammonia liasi (PAL).
Riprendiamo brevemente ciascuna delle terapie alternative alla dietoterapia convenzionale segnalando le novità pubblicate negli ultimi
anni.
Aminoacidi neutri: la fenilalanina e gli altri aminoacidi neutri (LNAA)
(tirosina, triptofano, treonina, isoleucina, leucina, valina, metionina
e istidina) condividono un trasportatore comune a livello cerebrale;
aumentando la quantità degli LNAA è possibile ridurre il trasporto
della fenilalanina a livello della barriera emato-encefalica (Fig. 1).
Studi recenti hanno evidenziato in soggetti in terapia con LNAA una
riduzione dei livelli della fenilalanina cerebrale e risultati positivi sulle funzioni neuropsicologiche, in particolare quella verbale e cognitiva (Giovannini et al., 2012).
Aggiornamento sulle malattie metaboliche
Figura 1.
Gli aminoacidi neutri (LNAA), saturando i trasportatori disponibili, riducono il trasporto della Fenilalanina (Phe) a livello cerebrale.
La terapia con LNAA può essere considerata una terapia alternativa
in quei pazienti adolescenti/adulti che presentano una scarsa compliance con la classica dietoterapia.
Terapia con BH4: come è noto alcuni pazienti affetti da iperfenilalaninemia da deficit di fenilalanina idrossilasi possono essere responsivi
a dosi farmacologiche di BH4, cofattore della fenilalanina idrossilasi.
Tali pazienti mostravano una riduzione dei livelli della fenilalanina
del 30% dopo una somministrazione di BH4 di 20 mg/Kg. Circa il
20-60% dei pazienti con iperfenilalaninemia risultano responsivi alla
terapia con il cofattore (Macdonald et al., 2011).
La sapropterina diidrocloruro (Kuvan ®), una formulazione sintetica
del 6R-isomero della tetraidrobiopterina, è stata recentemente approvata in Europa per il trattamento dei pazienti con iperfenilalaninemia o fenilchetonuria di età superiore ai 4 anni.
Il trattamento con BH4 consiste in una singola somministrazione
giornaliera alla posologia di 5-20 mg/Kg/die.
Fra i soggetti responsivi, principalmente affetti dalla forma “lieve”,
un numero ridotto di pazienti è in grado di mantenere il range terapeutico dei livelli della fenilalanina (2-6 mg/dl in età pediatrica)
solamente con la dietoterapia; la maggior parte dei pazienti, pur con
un’aumentata tolleranza (compresa fra i 500 e 1000 mg di fenilalanina al giorno), devono associare alla terapia il trattamento dietetico.
Nei follow-up a breve termine non sono stati segnalati effetti collaterali importanti legati alla somministrazione della BH4.
Sicuramente la terapia con BH4 ha portato, nel gruppo dei soggetti
responsivi, ad un sostanziale miglioramento della qualità di vita ed è
attualmente una valida terapia alternativa alla dietoterapia. La BH4
può pertanto essere definita uno chaperone farmacologico. Dato
l’elevato costo della BH4 e la sua scarsa efficacia in alcuni pazienti
con PKU classica è stata avviata la ricerca di chaperone molecolari
alternativi. In particolare due composti sono stati identificati: la benzil-idantoina e il 6-amino-5-(benzilamino)-uracile; essi incrementano l’ossidazione delle fenilalanina e riducono la sua concentrazione
ematica in vivo nel topo (Santos-Sierra et al., 2012).
Fenilalanina ammonia liasi: la fenilalanina ammonia liasi (PAL) trasforma la fenilalamina in acido trans-cinnamico, metabolita che
presenta una tossicità molto bassa e che non presenta effetti embriotossici a livello animale (Fig. 2).
L’acido trans-cinnamico è trasformato nel fegato in acido benzoico,
che viene eliminato con le urine principalmente come acido ippurico.
Dopo i numerosi studi sul topo, la somministrazione dell’enzima per
Figura 2.
La PAH converte la fenilalanina in tirosina utilizzando come cofattore
la BH4 (A)
La PAL trasforma la fenilalanina in acido trans-cinnamico che viene
metabolizzato nel fegato in acido benzoico (B).
via sottocutanea alla dose di 0.1 mg/Kg ha ridotto i livelli della fenilalanina in pazienti con fenilchetonuria.
Studi clinici attualmente in corso (fase 2 terminata e fase 3 programmata per i primi mesi del 2013) stanno valutando l’efficacia e
la sicurezza del prodotto a dosi ripetute di PAL.
Nello stesso tempo sono in corso studi per valutare l’efficacia della
PAL per via orale (Kang et al., 2010).
Contrariamente alla terapia con BH4 che sembra avere effetto solamente in un numero esiguo di pazienti con fenilchetonuria classica,
la terapia con PAL potrebbe essere in un futuro prossimo un effettivo
trattamento per questo gruppo di pazienti e nei pazienti non responsivi alla BH4.
Terapia genica: un gene funzionale ricombinante, in questo caso il
gene della PAH, viene introdotto nel fegato o in altri tessuti, utilizzando differenti vettori: questi comprendono vettori nonvirali, adenovirus ricombinanti e retrovirus ricombinanti.
Nell’approccio in vivo i vettori vengono infusi direttamente nella circolazione portale o sistemica.
I differenti vettori ed approcci sono stati valutati nella loro potenzialità ad attivare la funzione della PAH negli epatociti del topo con deficit
di PAH (Yagi et al., 2012).
Ad oggi, come nella precedente revisione, la loro applicazione in
vivo, è sempre limitata dalla loro bassa efficacia e dalla transitoria
efficacia.
Proseguono gli studi per individuare nuovi vettori con una efficacia
più duratura.
Nella tabella III sono riassunti i nuovi approcci terapeutici e la loro
applicazione: nell’uomo, ad esclusione della terapia genica, tutte le
altre terapie alternative alla dieta sono utilizzate.
Leucinosi
La leucinosi o malattia delle urine a sciroppo d’acero (MSUD) è causata dal deficit del complesso enzimatico coinvolto nel processo di
decarbossilazione ossidativa dei chetoacidi (BCKD) che risultano
dalla transaminazione dei tre aminoacidi ramificati leucina, isoleucina e valina (BCCA).
La leucinosi sulla base del quadro clinico e biochimico viene classificata in 5 forme: una “classica” forma grave neonatale, una forma
“intermedia”, una forma “intermittente”, una forma “tiamino-responsiva” e una forma dovuta al deficit della diidrolipoil deidrogenasi (E3).
199
R. Cerone et al.
Tabella III.
Strategie di trattamento per la fenilchetonuria e sue applicazioni.
in vitro
in vivo
nell’uomo
Terapia genica
sì
sì
no
Terapia con fenilalanina ammonia liasi
no
sì
sì
Supplementazione con aminoacidi
neutri
no
sì
sì
Terapia con BH4
no
sì
sì
I pazienti con la forma grave neonatale, dopo un periodo di benessere che può variare da poche ore ad alcune settimane, presentano
una sintomatologia caratterizzata da rifiuto dell’alimentazione, sonnolenza a cui fa seguito un coma progressivo. In concomitanza con
l’inizio della sintomatologia i pazienti eliminano urine con un odore
caratteristico che ricorda quello dello sciroppo d’acero (dolce e caramellato). Da qui la denominazione anglosassone di Maple Syrup
Urine Disease (MSUD).
Nella forma intermedia il quadro clinico è caratterizzato da ritardo
mentale e/o convulsioni e possono non avere episodi di scompenso metabolico. L’attività enzimatica residua è maggiore rispetto alla
forma classica, ed è compresa fra il 3 e il 30% della normale attività.
I pazienti con forma intermittente presentano uno sviluppo psicomotorio e una crescita staturo-ponderale nella norma, ma sono a rischio di scompenso metabolico acuto in occasioni di episodi febbrili
intercorrenti e in tutte le situazioni di stress.
L’attività enzimatica è compresa fra il 5 e il 20%.
Nella forma tiamino-responsiva il quadro clinico è sovrapponibile a
quello della forma intermedia ma i pazienti con questa forma rispondono a dosi farmacologiche di tiamina a dosaggi molto variabili e
compresi tra i 10 e i 1000 mg/die.
La forma, infine, dovuta al deficit di diidrolipoil deidrogenasi si caratterizza per un quadro clinico simile a quello della forma intermedia
ma è presente una grave acidosi metabolica.
In tutte le forme di leucinosi il quadro biochimico presenta una marcato aumento nel sangue degli aminoacidi ramificati (leucina, valina,
isoleucina) sempre accompagnato da un aumento dell’alloisoleucina
(marker patognomonico) e da una marcata eliminazione dei cheto-e
idrossiacidi a catena ramificata.
Il trattamento a lungo termine si basa su una dieta ad apporto calcolato e ridotto di leucina.
Una recentissima pubblicazione ha proposto una terapia con sodio
fenilbutirrato, farmaco abitualmente utilizzato nei difetti del ciclo
dell’urea (Brunetti-Pierri et al., 2011).
Tale terapia è stata proposta sulla base dell’osservazione clinica che
pazienti con difetti della ciclo dell’urea in trattamento con sodio fenilbutirrato presentano una selettiva riduzione dei livelli plasmatici
dei BCCA, nonostante un adeguato apporto proteico.
Su queste basi gli autori hanno posto in terapia con sodio fenilbutirrato 5 pazienti con MSUD con una riduzione dei valori della leucina
compresa fra il 28 e il 34% rispetto al valore basale e una stabilità
del quadro clinico sovrapponibile a quello in dietoterapia.
Se confermato in ulteriori trial il fenilbutirrato potrebbe rappresentare in futuro un potenziale trattamento aggiuntivo nei pazienti affetti
da leucinosi.
Difetti del ciclo dell’urea
I difetti del ciclo dell’urea, come è noto, possono essere causa di
gravi episodi di iperammoniemia, pericolosi per la vita del paziente.
Durante gli episodi di scompenso metabolico, oltre all’interruzione
dell’apporto proteico con un adeguato apporto calorico e supplementazione con arginina, vengono utilizzati farmaci, quali benzoato
e fenilbutirrato, che favoriscono l’escrezione dell’azoto attraverso
vie alternative.
Da pochi anni sono stati introdotti in Italia due farmaci da utilizzare
nel trattamento degli episodi di scompenso metabolico acuto: somministrabili per via e.v. e contenenti sia sodio fenilacetato che sodio
benzoato (Ammonul ®).
Il sodio fenilacetato è un composto metabolicamente attivo che si
coniuga per acetilazione con la glutamina nel fegato a formare fenilacetilglutamina, poi escreta attraverso i reni per filtrazione glomerulare e secrezione tubulare. Una mole di fenilacetato rimuove due
moli di azoto.
Anche il sodio benzoato è un composto metabolicamente attivo che
coniugandosi con la glicina per formare ippurato, viene anch’esso
escreto per filtrazione glomerulare e secrezione tubulare. In questo
caso ciascuna mole di benzoato rimuove una mole di azoto.
La rimozione di glutamina da parte del fenilacetato è di notevole
importanza, essendo proprio la glutamina il metabolita neurotossico.
La pronta disponibilità sia di sodio benzoato sia di sodio fenilacetato
in forma attiva permette di rimuovere rapidamente ed efficacemente
l’iperammoniemia.
Il secondo farmaco, a disposizione in Italia, viene utilizzato sotto
forma di capsule contenenti ciascuna 200 mg di acido carglumico
(Carbaglu ®) ed è di particolare efficacia nel trattamento dell’iperammoniemia da difetto di N-acetilglutamato sintasi, un raro difetto
enzimatico del ciclo dell’urea. Oggi è approvato l’utilizzo dell’acido
carglumico nell’iperammoniemia associata alle “classiche” organico acidurie (Nordenstrom et al., 2007).
Box di orientamento
Le malattie metaboliche ereditarie continuano a rappresentare un capitolo rilevante nell’ambito della patologia pediatrica.
L’applicazione della massa tandem (MS/MS) allo screening neonatale ha permesso di espandere significativamente il panel di malattie evidenziabili in
epoca neonatale.
Sono state individuate in questi ultimi anni ulteriori nuove malattie metaboliche con presentazione neurologica.
In tema di terapia il trapianto di fegato o di epatociti e l’impiego di alcuni farmaci nuovi hanno permesso di individuare nuove strategie di trattamento
che hanno dato stimolanti risultati.
200
Aggiornamento sulle malattie metaboliche
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** Importante lavoro che descrive un nuovo difetto del metabolismo dei folati.
Corrispondenza
Roberto Cerone, Centro Regionale di riferimento per gli screening neonatali e la diagnosi delle malattie metaboliche dell’Università, Istituto Giannina
Gaslini, Largo Gaslini 5, 16148 Genova. Tel. +39 010 5636369. Fax +39 010 3773210. E-mail: [email protected]
201
Ottobre-Dicembre 2012 • Vol. 42 • N. 168 • pp. 202-208
malattie metaboliche ereditarie
Encefalopatie mitocondriali infantili
Daria Diodatoa, Anna Ardissoneb, Graziella Uzielb, Daniele Ghezzia, Massimo Zeviania
a
Unità di Neurogenetica Molecolare, Fondazione Istituto Neurologico Carlo Besta (IRCCS), Milano
Unità di Neurologia Pediatrica, Fondazione Istituto Neurologico Carlo Besta (IRCCS), Milano
b
Sommario
I mitocondri sono organuli, presenti in tutte le cellule eucarioti, deputati alla produzione di energia sotto forma di adenosina trifosfato (ATP), prodotto a
livello della membrana mitocondriale interna attraverso il processo della fosforilazione ossidativa, effettuato da cinque complessi multieteromerici (I-V) che
costituiscono la catena respiratoria mitocondriale.
Il deficit energetico, conseguente alla disfunzione mitocondriale, esita spesso in gravi encefalopatie ad esordio nell’infanzia o nell’adolescenza. Le malattie
mitocondriali sono caratterizzate da un’estrema eterogeneità sia clinica che genetico-molecolare. La lista dei geni malattia responsabili di queste patologie
è in costante crescita, grazie anche alle tecniche di sequenziamento di nuova generazione. Ciò rende il percorso diagnostico particolarmente difficile, nonostante sia di grande importanza arrivare ad una diagnosi genetica definita per poter fornire un opportuno consiglio genetico familiare ed, eventualmente,
una diagnosi prenatale. Questo articolo intende presentare al pediatra una classificazione clinica delle principali encefalopatie mitocondriali ad esordio
precoce, riunite in gruppi distinti, sulla base delle caratteristiche clinico-radiologiche più salienti, e al profilo biochimico e genetico. I gruppi nosologici
principali comprendono (i) sindromi da deplezione del DNA mitocondriale, (ii) malattia di Leigh, (iii) leucoencefalopatie, (iv) encefalo-cardiomiopatie, e (v)
un quinto gruppo che raccoglie “disordini miscellanei”, caratterizzati da ampia variabilità fenotipica. Commenteremo inoltre l’importanza della gestione
dei piccoli pazienti con patologie mitocondriali, basata sull’approccio multidisciplinare, ed infine delle strategie terapeutiche attuali, la cui base razionale si
fonda sulla crescente conoscenza dei meccanismi patogenetici del danno cellulare conseguenti alla disfunzione mitocondriale.
Summary
Mitochondria are organelles responsible for energy supply to eukaryotic cells, based on the production of adenosine triphosphate (ATP), through the process
of oxidative phosphorylation, which is carried out by the mitochondrial respiratory chain (MRC), composed by five multi-heteromeric complexes embedded
in the inner mitochondrial membrane. The energy loss due to mitochondrial dysfunction often leads to severe encephalopathy with onset in infancy or early
childhood. Both clinical features and genetic causes of mitochondrial disease are extremely heterogeneous. The list of known genes associated to these
conditions is steadily increasing, and has recently further boosted by the systematic use of next generation sequencing technology. Hence, the diagnostic
work-up can be very difficult; however, the achievement of a molecular definition for a given disease entity is the ultimate goal for the diagnostic investigation, since this information allows the physician to offer reliable family counselling, including prenatal diagnosis. This review, intended for the paediatric
practitioner, has been organized according to clinical classification of early onset mitochondrial encephalopathies, based on the clinical-radiological hallmarks of the diseases, and on the corresponding biochemical and genetic profiles. The main nosological groups include: i) mtDNA depletion syndromes; ii)
Leigh disease; iii) leukoencephalopathies; iv) encephalocardiomyopathies; and (v) miscellaneous disorders, encompassing a large group of phenotypically
heterogeneous syndromes. We will also comment the importance of clinical management of children with mitochondrial disorders, based on a multidisciplinary approach, and will discuss the currently vailable treatments, the rational basis of which is linked to increasing knowledge of the pathogenetic
mechanisms underlying mitochondrial dysfunction.
Introduzione
I mitocondri, organuli presenti in tutte le cellule eucariotiche, sono
la maggior fonte di adenosina trifosfato (ATP), il “carburante” delle cellule, sintetizzato attraverso il processo della fosforilazione
ossidativa (OXPHOS). L’OXPHOS è svolta dalla catena respiratoria
mitocondriale (MRC) composta di complessi multi-eteromerici localizzati nella membrana mitocondriale interna (MIM). I mitocondri contengono un proprio DNA (mtDNA), che, nelle specie sessuate, è trasmesso esclusivamente attraverso la linea materna.
Il DNA mitocondriale umano, codifica 13 proteine e 24 RNA (22
tRNA e 2 rRNA), essenziali per la sintesi proteica mitocondriale. Le
subunità codificate dal DNA mitocondriale interagiscono con più
di 70 subunità codificate dal DNA nucleare per formare quattro
dei cinque complessi della MRC. Mutazioni nei geni mitocondriali,
o in geni nucleari correlati alla OXPHOS, possono portare ad una
insufficienza energetica causata dal deficit di ATP, e all’insorgenza
di una malattia mitocondriale.
Il buon funzionamento dei diversi tessuti ed organi del corpo umano dipende dall’adeguata produzione di ATP, specialmente quando
la richiesta energetica è cospicua, come nei neuroni e nelle cel-
202
lule muscolari scheletriche. Ciò spiega perchè disfunzioni primitive dei mitocondri causino solitamente neuro-degenerazione o
miopatia in bambini ed adulti. Tuttavia, le malattie mitocondriali
possono coinvolgere ogni altro organo, sia singolarmente sia in
associazione con muscolo e cervello. Individualmente rare, prese
nel complesso le malattie mitocondriali risultano tra le più frequenti malattie genetiche neurologiche, con una prevalenza minima superiore a 1 su 5000 individui nella popolazione europea
(Schaefer et al., 2004).
In più del 50% dei pazienti adulti e in una percentuale ancora maggiore di pazienti pediatrici non si è ancora in grado di giungere alla
definizione genetica, e la diagnosi si basa esclusivamente sui risultati biochimici e/o morfologici nei campioni di muscolo scheletrico
e, più raramente, di fibroblasti cutanei in coltura. La mancanza di
una diagnosi genetica impedisce ai genitori di ottenere un’affidabile
diagnosi prenatale. L’analisi del DNA mitocondriale è una procedura
relativamente ben standardizzata offerta da diversi centri specialistici; tuttavia, la lista dei geni malattia di origine nucleare, associati
a patologie mitocondriali, è costantemente in crescita, tanto da rendere le procedure diagnostiche e i percorsi diagnostico-terapeutici
Encefalopatie mitocondriali infantili
Tabella I.
Classificazione delle encefalopatie mitocondriali secondo criteri clinici.
Malattia
Caratteristiche cliniche
Deficit CR
Genotipo
Sindrome Di Alpers-Huttenlocher e
Epatoencefalopatie
Encefalopatia precoce e
progressiva con atrofia corticale e
sottocorticale.
Epilessia ad esordio precoce.
Segni di epatopatia
Complesso I, III, IV
Complesso IV
Deficit multiplo
POLG1, DGOUK, MPV17
SCO1
EFG1
Complesso I
TWINKLE
Esordio nella prima infanzia con
lesioni simmetriche della sostanza
grigia profonda.
Ipotonia, difficoltà di accrescimento,
vomito ricorrente, alterazione dei
movimenti oculari, atassia, distonia,
neuropatia periferica, disfagia,
difficoltà respiratorie
Complesso I
MTND2, MTND3, MTND5, MTND6
NDUFS1, NDUFS3, NDUFS4
NDUFS7, NDUFS8, NDUFA2,
NDUFV1, NDUFAF2, C8ORF38,
C20ORF7, FOXRED1
SHDA
UQCRQ
SURF1, COX10, COX15, TACO1
MTATP6
EFG1, C12ORF65
LRPPRC
Esordio neonatale o nella prima
infanzia con anomalie della
sostanza bianca +/- alterazioni
corticali.
Ritardo psicomotorio, tetraparesi
spastica, atassia, ritardo mentale,
sordità, cecità
Complesso I
Complesso II
Complesso IV
Complesso I, III
NUBPL, NDUFV1
SDHAF1
COX6B1, SURF1
TUFM
Nessuno
DARS2
Atassia spino cerebellare ad
esordio precoce (IOSCA)
Malattia di Leigh
Variante franco-canadese
Leucoencefalopatie
LBSL*
Encefalocardiomiopatie
Complesso II
Complesso III
Complesso IV
Complesso V
Deficit multiplo
Complesso IV
Esordio neonatale.
Complesso I
Cardiomiopatia ipertrofica, miopatia
grave e/o ipotonia centrale,
Complesso II
difficoltà di crescita e precoce
Complesso IV
distress respiratorio.
Esito fatale nel 1 mese, o ritardo
psicomotorio + vari segni
neurologici.
RM aspecifica.
Cardiomiopatia
Complesso V
Non riportati
NDUFS2, NDUFV2,NDUFA11,
NDUFAF4, ACAD9
SDHA
SCO2, COX15
TMEM70, SLC25A3
DNAJC19, TAZ
* LBSL: leucoencefalopatia con coinvolgimento del tronco-encefalo e del midollo spinale con aumento del lattato.
molto difficili. Inoltre, l’identificazione di nuovi geni malattia è resa
difficoltosa dalla limitata disponibilità di famiglie informative. Nuove
tecnologie di sequenziamento nucleotidico ad alta efficienza, come
il sequenziamento esomico, offrono ora l’opportunità di ridurre il divario tra diagnosi biochimica e genetica.
Questa review è focalizzata sulle patologie mitocondriali che si presentano nei primi anni di vita con un coinvolgimento prevalente del
sistema nervoso centrale. Per la presentazione delle diverse categorie e sindromi nosologiche seguiremo la classificazione riportata
nella tabella I, che è organizzata secondo criteri prevalentemente
clinici.
La ricerca degli articoli è stata condotta utilizzando PubMed come
motore di ricerca con parola chiave “Early onset mitochondrial encephalopathies”, in un intervallo di tempo compreso tra il 1990 ed il
2011. Gli articoli sono stati scelti sulla base della pertinenza e della
rilevanza rispetto al tema della review. Sono stati inclusi, inoltre,
articoli pertinenti pubblicati dal nostro gruppo negli ultimi anni. La
descrizione degli approcci terapeutici è basata su articoli che descrivono trials clinici controllati o strategie terapeutiche sperimentali
supportate dalle recenti evidenze in campo genetico-molecolare.
Sindrome di Alpers-Huttenlocher e sindromi da
deplezione del DNA mitocondriale
Quadro clinico
Questa patologia è caratterizzata da diffusa degenerazione della sostanza grigia del cervello, associata ad un grado variabile di coinvolgimento del fegato (dal semplice aumento dei livelli plasmatici degli
enzimi epatici fino a grave epatopatia a rapida evoluzione cirrogena). L’esordio è generalmente nella prima infanzia o adolescenza,
con sintomi, quali ipotonia e crisi epilettiche resistenti alla terapia.
La terapia con acido valproico è da evitare, poiché può precipitare il
quadro epatopatico. Lo “stato epilettico” è un’evoluzione frequente di
questa condizione. Nella maggior parte dei pazienti con esordio precoce il decorso della malattia è rapidamente progressivo con morte
generalmente entro i tre anni d’età. La risonanza magnetica cerebrale
mostra una grave atrofia subcorticale, ma è frequente il coinvolgimento di strutture nucleari profonde, particolarmente dei talami.
Genetica molecolare
La malattia è trasmessa con modalità autosomica recessiva; il fe-
203
D. Diodato et al.
gato e, più raramente, il muscolo, presentano deplezione del mtDNA
che può, nel fegato, raggiungere livelli drammatici, >90%. Mutazioni
in POLG1 sono la causa più frequente di questa grave encefalopatia
(Naviaux et al., 1999, Naviaux et al., 2004). POLG1 codifica per la
subunità A della polimerasi mitocondriale. La sindrome di AlpersHuttenlocher si trova all’estremo di uno spettro clinico riferibile a
mutazioni di POLG1, che comprende anche l’epilessia ed atassia
spino cerebellare ad esordio giovanile (SCAE) e la sua variante, atassia sensitiva, sordità neurosensoriale, oftalmoplegia (SANDO, OMIM
607459), l’oftalmoplegia esterna progressiva (PEO) cronica ad esordio adulto, che può venire trasmessa sia come tratto autosomico recessivo (ar) che autosomico dominante (ad) (OMIM #258450; OMIM
#157640) con o senza segni aggiuntivi come ad esempio la miopatia
generalizzata, la neuropatia periferica sensitivo-motoria, il parkinsonismo, o i disordine bipolari, la menopausa precoce, le insufficienze
poliendocrine, ecc. Le sindromi PEO associate a mutazioni in POLG1
sono caratterizzate dall’accumulo di delezioni multiple del mtDNA
nel muscolo scheletrico (e anche nel cervello). Questa è una caratteristica molecolare comune delle PEO a trasmissione mendeliana, a
prescindere dalla causa genetica primaria, che risiede in mutazioni
in geni nucleari che controllano l’integrità del DNA mitocondriale (ad
es. l’elicasi del mtDNA, detta Twinkle, il traslocatore ATP-ADP muscolare, oltre, naturalmente, a POLG1).
La deplezione epato-cerebrale del mtDNA è una sindrome da deplezione mitocondriale, MDS che, oltre a POLG1, può essere causata
da mutazioni in almeno altri due geni nucleari, codificanti, rispettivamente, la deossiguanosina chinasi (DUOGK) (Salviati et al., 2002)
e MPV17 (Spinazzola et al., 2006). In questi pazienti il coinvolgimento epatico prevale sul coinvolgimento neurologico, determinando
un’importante acidosi metabolica connatale, o neonatale, con episodi di grave ipoglicemia, ed epatopatia rapidamente progressiva ad
evoluzione cirrotica, ed exitus. DGUOK codifica per dGK, la deossiguanosina chinasi che ricicla i nucleosidi purinici ai rispettivi nucleotidi monofosfato mediante fosforilazione. L’attività deficitaria di dGK
e del suo partner enzimatico specifico per i nucleosidi pirimidinici,
la timidina chinasi 2, TK2, determina una riduzione e “squilibrio”
dei nucleotidi mitocondriali, i “mattoni” per la costruzione di nuovo
mtDNA, risultante nella deplezione dello stesso. Per ragion ancora
poco chiare, mutazioni in TK2 causano una MDS prevalentemente a
carico del muscolo e del cervello a esordio precoce, mentre il fegato
risulta indenne (variante 2, OMIM 609560).
Encefalopatia di Leigh: malattia di Leigh (LD)
Quadro clinico
Si tratta della più frequente encefalopatia mitocondriale dell’infanzia
e adolescenza. La malattia di Leigh è definita in primis come entità
neuropatologica e neuroradiologica, essendo caratterizzata da lesioni focali bilaterali in una o più aree della sostanza grigia profonda,
incluso il midollo spinale rostrale, il tronco encefalico, il talamo, il
cervelletto e i gangli basali. Le lesioni consistono in aree di demielinizzazione, gliosi, necrosi con vacuolizzazione spongiforme e proliferazione capillare. Nella maggior parte dei casi la malattia di Leigh è
la via finale comune di un danno primario nel sistema bioenergetico
delle cellule nervose nel cervello in sviluppo. Questo spiega anche
perché l’acidosi lattica, dovuta al blocco nella respirazione cellulare,
è sempre presente anche se di variabile gravità. I segni neurologici
consistono inizialmente in ipotonia e regressione psicomotoria, seguiti da esordio variabile di distonia, movimenti involontari, atassia
ed eventualmente tetraparesi spastica. Anche se il sistema nervoso,
204
Figura 1.
(A, B): Risonanza magnetica di un paziente con fenotipo Leigh e deficit
del complesso I da mutazione del gene ND5 13514 A>G: sezione coronale in FLAIR (A) e assiale in T2 (B) dimostrano un alterazione bilaterale
dei caudati e putamina. (C, D): Risonanza magnetica di un paziente con
leucoencefalopatia mitocondriale da difetto del complesso II dovuta a
mutazione 169C>G del gene SDHAF1: C sezione coronale in FLAIR (C)
e assiale in T2 (D) con iperintensità di segnale che coinvolge la sostanza bianca lobare anteriore e posteriore, il corpo calloso e la sostanza
bianca cerebellare.
incluso il muscolo scheletrico, è la struttura di gran lunga più colpita,
in rari casi vi può essere un interessamento extraneurologico, sotto forma, ad esempio, di cardiomiopatia ioertrofica, o di nefropatia,
spesso causata da insufficienza del tubulo prossimale renale, nel
quadro di una sindrome di De Toni-Debrè-Fanconi. Altri, frequenti,
segni extraneurologici sono il ritardo di crescita staturo-ponderale,
l’irsutismo, particolarmente nei casi dovuti a mutazioni di SURF1, e il
vomito ricorrente, spia di episodici aggravamenti dell’acidosi lattica.
Genetica molecolare
Un deficit grave d’attività in ciascuno dei complessi della MRC può
determinare la LD (OMIM 256000). In particolare, si possono distinguere le seguenti categorie di difetti biochimico/molecolari: 1) difetti
isolati di complesso I (Fig. 1A-B); 2) difetti isolati di complesso IV; 3)
difetti multipli della MRC; 4) mutazioni nell’ATPasi 6, una subunità
del complesso V codificata dal mtDNA. Nella nostra esperienza, il
deficit del complesso piruvico deidrogenasi (PDHC) è causa piuttosto
frequente di LD, anche se può causare quadri encefalopatici precoci
meno specifici, con caratteristiche cliniche e neuroradiologiche che
differiscono da, o si sovrappongono solo parzialmente, a quelle tipiche della LD.
Difetti del complesso I
Il complesso I (NADH deidrogenasi ubichinone-ubichinolo reduttasi)
catalizza l’ossidazione del nicotinamide adenin-dinucleotide ridotto
(NADH) accoppiata alla riduzione dell’ubichinone (CoQ) a ubichinolo.
Encefalopatie mitocondriali infantili
Il complesso I consiste di circa 45 subunità (Carroll et al., 2006),
delle quali sette codificate dal genoma mitocondriale mentre le altre
dai geni nucleari. La LD è stata associata a diverse mutazioni che
colpiscono sia le subunità codificate dal mtDNA (ad es. MTND2 o
MTND5) sia a quelle codificate dal DNA nucleare (ad es. NDUFS1 e
NDUFA1), ed anche a mutazioni in fattori di assemblaggio specifici
per il complesso I.
di lattato anche nelle regioni cerebrali non ancora anatomicamente alterate e quindi non rilevabili alla RM standard.
La leucoencefalopatia, associata a deficit specifico del complesso I è causata da mutazioni nelle subunità strutturali o nei fattori di assemblaggio.
Per esempio, mutazioni in NDUFV1 o in NDUFS1, possono causare leucodistrofia ed epilessia mioclonica (Schuelke et al., 1999), oltre alla LD.
Difetti del complesso IV
Mutazioni nei geni che codificano fattori d’assemblaggio del complesso IV (citocromo c ossidasi, COX) sono la causa principale di
difetti del complesso IV. Trattandosi di proteine a cdifica da geni nucleari, sono patologie trasmesse come tratto autosomico recessivo,
e si presentano nella prima infanzia con un quadro di LD.
Le mutazioni più frequentemente riportate in letteratura sono a carico di SURF1, una proteina coinvolta nella formazione dell’olocomplesso IV (Tiranti et al., 1998). Molto più rare sono le mutazioni in
COX10 (Valnot et al., 2000) e COX15 (Antonicka et al., 2003), due
enzimi coinvolti nella biosintesi del gruppo eme COX-specifico, e in
TACO1 (Weraarpachai et al., 2009), fattore indispensabile per l’efficiente traduzione della subunità 1 della COX, che costituisce la prima tappa nella formazione del complesso IV.
Encefalocardiomiopatie mitocondriale
Difetti del complesso V
L’ATP sintasi (complesso V) comprende una porzione integrale di
membrana, la particella F0, ed una porzione periferica, F1. Due piccole ma essenziali proteine della porzione F0, le ATPasi 6 e 8, sono
codificate dal mtDNA.
La mutazione più frequente del complesso V è la trasversione nucleotidica T8993T>G nel gene codificante ATPasi 6. A seconda della percentuale di mutazione rispetto alla quota selvatica (eteroplasmia) presente
nei tessuti critici, particolarmente il sistema nervoso, la mutazione può
determinare una grave forma di LD, a trasmissione materna ed esordio infantile (MILS), o una condizione meno grave, detta NARP (astenia
neurogena, atassia, retinite pigmentosa; OMIM 551500), ad esordio
giovanile o in età adulta. La MILS tipicamente si riscontra quando la
mutazione 8993T>G è presente in percentuale >90%, mentre la NARP
è comunemente associata a percentuali intorno al 50%-60%.
Leucoencefalopatia mitocondriale
Le alterazioni di segnale RM prevalenti o esclusive nella sostanza
bianca, con minima o assente alterazione di segnale nei gangli della
base o nel tronco cerebrale, comprendono circa il 20% dei nostri
320 casi infantili di patologia mitocondriale.
La leucoencefalopatia mitocondriale dell’infanzia è spesso associata a
difetti del complesso I o del complesso II, sebbene alcuni rari pazienti
con deficit di COX e mutazioni in SURF1 possano presentarsi con lesioni prevalentemente di tipo leucoencefalopatico (Rahman et al., 2001).
A prescindere dal difetto biochimico, due sono le principali presentazioni cliniche: 1) deficit psicomotorio precocissimo e ritardo di crescita,
seguiti da rapido peggioramento esitante in tetraparesi spastica con
grave ritardo mentale; 2) un quadro caratterizzato da un periodo libero
da malattia durante i primi anni di vita, seguito dall’esordio acuto di sintomi focali motori e/o crisi epilettiche e decorso lentamente progressivo. La diagnosi differenziale, primariamente basata sulle caratteristiche
RM, deve considerare lo spettro delle leucoencefalopatie ad esordio
precoce, incluse la malattia di Alexander, la malattia di Canavan, la leucoencefalopatia megaencefalica con cisti sottocorticali, e la vanishing
white matter disesase. Un aiuto alla diagnosi differenziale viene dalla
spettroscopia protonica cerebrale, che può ben evidenziare l’accumulo
L’encefalocardiomiopatia è una grave, sindrome mitocondriale
spesso fatale nella prima infanzia. I piccoli sono di solito gravemente
ammalati già alla nascita, con deficit della funzione di pompa cardiaca ed acidosi lattica. Le caratteristiche cliniche includono cardiomiopatia ipertrofica, ipotonia, ritardo di crescita, e precoce distress
respiratorio.
La risonanza magnetica è piuttosto aspecifica, mostrando in genere
anomalie non specifiche d’intensità di segnale nella sostanza bianca
periventricolare e, talora, dei nuclei grigi profondi. Il decorso clinico
può essere fulminante, mentre i pazienti che sopravvivono ai primi mesi di vita possono sviluppare un ritardo psicomotorio, e segni
quali nistagmo, deficit cognitivo, atassia e miopatia. Spesso sono
presenti alti livelli di lattato nel plasma, nel liquor e nelle urine. Come
nella maggior parte delle patologie mitocondriali ad esordio precoce,
la biopsia muscolare non è dirimente e soltanto l’analisi biochimica
nel muscolo può portare alla diagnosi.
Genetica molecolare
I difetti biochimici più frequentemente riscontrati colpiscono il complesso I, il complesso IV o il complesso V.
ACAD9 codifica per una acil-CoA deidrogenasi mitocondriale che ha
verosimilmente un ruolo marginale nella beta ossidazione degli acidi
grassi, ma è direttamente coinvolto nell’assemblaggio del complesso I,
interagendo con altri fattori come ECSIT e FoxRed (Nouws et al., 2010);
mutazioni in ACAD9 sono tipicamente associate a grave acidosi lattica
connatale, a volte fatale, seguita da cardiomiopatia ipertrofica.
Mutazioni in SCO2 e COX15, due fattori d’assemblaggio della COX,
sono state descritte in pazienti con, rispettivamente, cardio-encefalopatia e cardiomiopatia infantile a decorso fatale (Böhm et al.,
2006).
Mutazioni in TMEM70, che si suppone sia un fattore d’assemblaggio del complesso V, sono state trovate in pazienti, prevalentemente
d’origine ROM, con cardiomiopatia e deficit isolato di ATP-sintasi
(CÍzkova et al., 2008).
La sindrome di Barth, cardiomiopatia dilatativa, neutropenia e aumentata escrezione di 3-metilglutaconico (OMIM 302060) è causata
da mutazioni in TAZ, un gene X-linked che codifica per l’acil Co-A
sintetasi cardiolipina specifica (tafazzina) cruciale per l’integrità dei
complessi della MRC nella membrana interna mitocondriale, MIM
(Schlame et al., 2000).
Miscellanea
Un gran numero di encefalopatie mitocondriali che non rientrano tra le
presentazioni cliniche tipiche sono raccolte in un gruppo molto eterogeneo di patologie neurologiche (Tab. II). Alcune sono molto rare, essendo state descritte solo in singole famiglie o in popolazioni isolate.
A dispetto della loro rarità, questi disordini ben illustrano la complessa
relazione tra disfunzione mitocondriale e patologia umana. I neurologi
pediatri e i pediatri clinici devono essere consapevoli della loro esistenza, in modo da poter meglio indirizzare l’indagine molecolare.
205
D. Diodato et al.
Tabella II.
Caratteristiche di altre encefalopatie mitocondriali.
Gene
Funzione della proteina
Fenotipo clinico
Deficit catena respiratoria Altre caratteristiche
biochimiche/molecolari
BCS1L
Fattore di assemblaggio cIII
Tubulopatia neonatale,
epatopatia ed encefalopatia
+/- pili torti, accumulo di
ferro, facies grossolana,
sindrome GRACILE (ritardo
di crescita, aminoaciduria,
colestasi, accumulo di
ferro, acidosi lattica e
morte precoce), sindrome
di Bjornstand, (sordità
congenita neurosensoriale
e pili torti)
Complesso III
TTC19
Fattore di assemblaggio cIII
Encefalopatia progressiva
Complesso III
UQCRB
Subunità strutturale cIII
Ipoglicemia e acidosi lattica
Complesso III
FASTKD2
Dominio FAST kinasi
Ritardo sviluppo
psicomotorio, emiplegia,
epilessia, atrofia cerebrale
asimmetrica
Complesso IV
ETHE1
Zolfo-diossigenasi
Encefalopatia progressiva,
petecchie, acrocianosi,
diarrea cronia
Complesso IV
Etilmalonico aciduria
SUCLA2-SUCLG1
Sub unità della succinilCoA
sintetasi
Sindrome
encefalomiopatica da
deplezione del mtDNA con
metilmalonico aciduria
Difetti multipli
Meiltmalonico aciduria –
Deplezione mtDNA
AIF
Fattore che induce apoptosi
Encefalomiopatia
Difetti multipli
Deplezione mtDNA
MRPS16
Componente dei ribosomi
mitocondriali
Agenesia del corpo calloso,
caratteristiche dismorfiche,
grave acidosi, esito fatale
Difetti multipli
Difetto di sintesi delle
proteine mitocondriali
RARS2
Arginil tRNA sintetasi
Ipoplasia pontocereballare
tipo 6
Difetti multipli
Difetto di sintesi delle
proteine mitocondriali
GFER
Componente del sistema di
rilascio del disulfide
Miopatia progressiva con
cataratta congenita
Difetti multipli
COQ2
Biosintesi coenzima Q10
Encefalo miopatia,
nefropatia, epatopatia
Complesso I+III Complesso
II+III
Deficit coenzima Q
COQ9
Biosintesi coenzima Q10
Acidosi lattica neonatale,
successivo esordio
di epilessia farmaco
resistente, ritardo di
sviluppo, cardiomiopatia
ipertrofica, tubulopatia
renale
ComplessoII+ III
Deficit coenzima Q
PDSS1
Biosintesi coenzima Q10
Esordio precoce di sordità,
encefaloneuropatia, obesità
Complesso II+III
Deficit coenzima Q
PDSS2
Biosintesi coenzima Q10
Sindrome di Leigh con
nefropatia
Complesso II+III
Deficit coenzima Q
CABC1
Biosintesi coenzima Q10
Atassia spinocerebellare
Complesso I+ III
Deficit coenzima Q
APTX
Biosintesi coenzima Q10
Atassia aprassia oculomotoria
Complesso II +III
Diagnosi
Segni e sintomi clinici come il vomito ricorrente, alterazioni della
motilità oculare, ipotonia, crisi epilettiche focali, difficoltà di accrescimento e ritardo o regressione psico-motoria sono segni evocativi,
seppur aspecifici, di patologia mitocondriale; l’analisi dei livelli di
lattato e la risonanza magnetica sia di imaging che spettroscopica
206
risultano spesso alterati nelle encefalopatie mitocondriali infantili.
A differenza dei pazienti adulti, i livelli di lattato sono di solito aumentati nei bambini con malattie mitocondriali, sia nel plasma che
nel liquor, con valori che concordano con la gravità clinica. Se la
risonanza magnetica cerebrale può essere inizialmente normale,
durante il decorso della malattia in genere rivela pattern caratteristi-
Encefalopatie mitocondriali infantili
ci e utili all’orientamento diagnostico. Un buon esempio è il pattern
di risonanza tipo Leigh, che dovrebbe spingere il neurologo infantile
o il pediatra ad eseguire indagini della catena respiratoria e/o del
complesso della piruvico deidrogenasi; in altri quadri di risonanza
magnetica, come per esempio nel caso della leucoencefalopatia, i
difetti di OXPHOS devono venire presi in considerazione nella diagnosi differenziale con la malattia di Alexander, la CACH (childhood ataxia with central hypomyelination), la malattia di Canavan e
le forme associate a diversi tipi di aciduria organica. A proposito di
quest’ultimo gruppo di patologie, la ricerca degli acidi organici urinari è sempre importante; si pensi all’aciduria etilmalonica nei pazienti ETHE1, all’aciduria metilglutaconica nella sindrome di Barth,
e all’aciduria metilmalonica nei pazienti con mutazioni in SUCLA1 e
SUCLG1. Spesso è uno screening negativo degli acidi organici a suggerire un difetto della catena respiratoria piuttosto che, ad esempio,
della beta-ossidazione, caratterizzato invece da alterazioni piuttosto
specifiche del profilo degli acidi organici urinari. A differenza delle
encefalopatie mitocondriali ad esordio adulto, in quelle ad esordio
infantile l’esame istologico della biopsia muscolare è raramente informativo. Le fibre ragged red (rosse stracciate) o un’anomala distribuzione della colorazione per la succinato deidrogenasi si riscontrano raramente nei pazienti pediatrici, mentre sono più frequenti
alterazioni relativamente aspecifiche, come la sproporzione dei tipi
di fibra o una diffusa riduzione della colorazione per la COX.
Gestione del paziente
I medici chiamati a gestire le malattie mitocondriali devono affrontare numerosi problemi differenti legati all’età dei pazienti e
alle diverse presentazioni cliniche. Non esistono, di regola, terapie efficaci in grado di bloccare la progressione della malattia. La
gestione delle principali manifestazioni della malattia è spesso
l’unico approccio in grado di offrire beneficio al paziente ed alla
sua famiglia e consiste in trattamenti di supporto quali: 1) correzione dell’acidosi lattica con bicarbonato nella fase acuta dello
scompenso metabolico; 2) terapia delle infezioni che possono peggiorare le già compromesse funzioni neurologiche, 3) prevenzione
della disidratazione in occasione di disfagia o vomito ricorrente, 4)
trattamento aggressivo delle crisi epilettiche. L’ipotonia, il ritardo
psicomotorio e le complicanze artro-scheletriche dovrebbero essere trattati con la terapia fisica, la correzione posturale o quella
chirurgica. Uno dei problemi principali nei disordini mitocondriali
infantili è il difetto di crescita. Questi sintomi possono generare
ansia nei genitori, che di solito sviluppano un senso di inadeguatezza personale o sensi di colpa che influenzano negativamente la relazione tra i diversi membri della famiglia e con il piccolo
paziente. È importante, inoltre, inquadrare ed affrontare razionalmente i problemi nutrizionali del bambino con malattia mitocondriale, distinguendo la vera disfagia dal reflusso gastro-esofageo,
la dismotilità intestinale, l’anoressia o la debolezza dell’apparato
muscolare di supporto alle funzioni digestive ed escretorie. In conclusione, le malattie mitocondriali, in virtù della loro complessità
e del loro interessamento multisistemico richiedono un approccio
multidisciplinare (Kisler et al., 2010).
Terapia
Il danno energetico dovuto alla disfunzione mitocondriale si accompagna di solito a produzione eccessiva di radicali liberi, a fenomeni
di apoptosi cellulare, e in alcuni casi, ad accumulo di sostanze tos-
siche. Tali fenomeni possono costituire l’oggetto di trattamenti razionali. Le strategie disponibili si sintetizzano come segue: (i) evitare
l’effetto tossico di alcuni farmaci (valproato, aspirina, antibiotici aminoglicosidici, medicinali antiretrovirali); (ii) fornire come supplemento dosi farmacologiche di coenzimi o vitamine coinvolti nel processo
di fosforilazione ossidativa o sostanze che tamponano metaboliti
tossici (CoQ10, riboflavina, carnitina, tiamina); (iii) fornire molecole
antiossidanti per combattere la produzione di specie reattive dell’ossigeno (vitamina C, E, acido alfa-lipoico ed N-acetilcisteina).
È ben documentato che il dicloroacetato (DCA) abbassa i livelli di lattato
in diversi disturbi metabolici. Il DCA mantiene il complesso della piruvico
deidrogenasi in forma attiva aumentando così la formazione di acetilCoA dal piruvato e riducendo la formazione di lattato. Questi effetti benefici sembrano limitati alla fase acuta dell’acidosi lattica, mentre l’esposizione cronica al DCA è stata associata all’insorgenza di una neuropatia
periferica progressiva (Stacpoole et al., 2006). La L-Arginina, che funge
da donatore di ossido nitrico, agisce come un vasodilatatore della microcircolazione cerebrale, ed è stata usata con qualche effetto benefico
nella MELAS (miopatia mitocondriale con encefalopatia, acidosi lattica e
stroke), potendo limitare le conseguenze di episodi simil-stroke acuti e
ridurre la loro frequenza (Koga et al., 2005).
Tra i diversi cofattori e vitamine usati nelle malattie mitocondriali,
il coenzima Q10 e la riboflavina hanno dimostrato la maggiore efficacia. I disordini dovuti a difetti biosintetici del CoQ10 rispondono
parzialmente ad alte dosi di ubichinone esogeno. La riboflavina può
migliorare le condizioni neurologiche di alcuni pazienti con leucoencefalopatia dovuti a deficit del complesso I o del complesso II. Il
meccanismo d’azione consiste, verosimilmente, nella stabilizzazione di un complesso difettivo, ma parzialmente funzionante, aumentando l’apporto del precursore vitaminico del FMN e del FAD, i due
gruppi prostetici rispettivamente dei complessi I e II.
Molto recentemente, l’uso combinato di metronidazolo ed N-acetilcisteina si è dimostrato parzialmente efficace nel trattamento dell’encefalopatia etilmalonica, dovuta a mutazioni del gene ETHE1. L’effetto
battericida del metronidazolo sugli anaerobi intestinali e l’aumentata
disponibilità di glutatione derivato dall’N-acetilcisteina portano alla
diminuzione delle concentrazioni plasmatiche di idrogeno solforato
(H2S), un composto altamente tossico prodotto prevalentemente dagli
anaerobi intestinali, che non viene detossificato se manca l’attività della zolfo-diossigenasi mitocondriale codificata da ETHE1.
Il coinvolgimento multisistemico delle patologie mitocondriali rende difficile il trapianto d’organo (Dimmock et al., 2008). L’encefalopatia mio-neuro-gastro-intestinale MNGIE, una malattia che porta
all’accumulo di timidina a livelli tossici, ha mostrato un sostanziale
miglioramento aumentando la capacità dell’organismo di rimuovere
la sostanza tossica attraverso il trapianto di cellule staminali ematopoietiche. In linea di principio, altri disordini caratterizzati dall’accumulo di composti tossici, come la stessa encefalopatia etilmalonica,
potrebbero essere trattati efficacemente con lo stessa strategia.
In conclusione, con poche eccezioni, il trattamento delle encefalopatie
mitocondriali ad esordio precoce è ancora inadeguato e la prevenzione, attraverso il consiglio genetico e la diagnosi prenatale, è di primaria importanza. La diagnosi prenatale è stata applicata con successo
in diversi casi di madri portatrici di mutazioni NARP/MILS (Harding et
al., 1992) dal momento che l’eteroplasmia della mutazione T8993G è
uniformemente distribuita tra i vari tessuti, inclusi i villi coriali, per cui
conferisce un alto valore predittivo alla analisi quantitativa in questo
tessuto. L’applicazione dello stesso approccio ad altre mutazioni eteroplasmiche che invece variano in percentuale da tessuto a tessuto,
come la MELAS, è ancora un punto eticamente controverso.
207
D. Diodato et al.
Box di orientamento
La causa più frequente di encefalopatie metaboliche dell’infanzia è la disfunzione mitocondriale, la cui caratteristica è il deficit energetico dovuto a
difetti del processo di fosforilazione ossidativa, effettuato nei mitocondri. Individualmente rari, come gruppo nosologico gli errori congeniti del metabolismo rappresentano una porzione significativa delle encefalopatie ad esordio precoce.
A causa della loro rarità ed eterogeneità, le encefalopatie metaboliche sono ancora una difficile sfida per la maggior parte dei medici pediatri.
Le nuove tecnologie e la crescente conoscenza delle basi biochimiche e molecolari di queste patologie consentono però già ora, ed ancor più nel prossimo futuro, a neurologi infantili e pediatri di arrivare alla diagnosi molecolare precoce, indispensabile per il consiglio genetico informato, la gestione
del paziente secondo la buona pratica medica, basata sull’evidenza, ed infine l’approntamento di terapie razionali, e sperabilmente efficaci.
Bibliografia
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* Il presente studio descrive le basi genetico-molecolari ed il quadro clinico di
un’ampia coorte di bambini con patologia mitocondriale associata a deficit di
COX offrendo spunti e suggerimenti diagnostici ai pediatri chiamati ad affrontare
questo tipo di patologie.
Carroll J, Fearnley IM, Skehel JM, et al. Bovine complex I is a complex of 45 different subunits. J Biol Chem. 2006;281:32724-7.
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** Poche reviews si occupano della gestione dei pazienti con malattie mitocondriali ad esordio nell’infanzia ed adolescenza. Quest’ultima offre una visione ampia e strutturata dell’approccio multidisciplinare indispensabile nell’affrontare
questo tipo di patologie.
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* Questa review descrive in due distinti pedigree il quadro clinico e geneticomolecolare di una delle prime sindromi mitocondriali mai descritte.
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* Sono qui sintetizzate le attuali conoscenze sulla reale prevalenza delle malattie
mitocondriali, meno rare di quanto si creda, sottolineando quindi l’importanza di
investire risorse nella ricerca, gestione e trattamento di questi disordini.
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* Mutazioni in SURF-1 sono una causa comune di malattia di Leigh associata a
deficit di COX. Attraverso studi di complementazione su linee cellulari di pazienti
con malattia di Leigh e successiva analisi di linkage questo articolo descrive la
scoperta del gene e della sua associazione con questa patologia mitocondriale.
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Corrispondenza
Daria Diodato, U.O. Neurogenetica Molecolare, Fondazione IRCCS Istituto Neurologico “C. Besta”- sede Bicocca, via Libero Temolo 4, 20126 Milano.
Tel. +39 02 2394.2663. Fax +39 02 2394.2619. E-mail: [email protected]
208
Ottobre-Dicembre 2012 • Vol. 42 • N. 168 • pp. 209-218
malattie metaboliche ereditarie
Nuovi approcci terapeutici alle malattie
da accumulo lisosomiale
Giancarlo Parenti, Caterina Porto, Roberto Della Casa
Dipartimento di Pediatria, Università Federico II, Napoli
Sommario
Le malattie da accumulo lisosomiale (LSD) sono un gruppo di malattie metaboliche ereditarie causate dal deficit di una delle diverse funzioni lisosomiali.
Le LSD sono tipicamente caratterizzate dall’accumulo di substrati complessi in diversi tessuti e organi. Le manifestazioni cliniche di queste malattie sono
spesso responsabili di handicap fisici e neurologici. Negli ultimi due decenni la ricerca ed il miglioramento delle conoscenze sulla fisiopatologia delle LSD
hanno consentito lo sviluppo di tecnologie e di approcci terapeutici altamente innovativi. Questi approcci comprendono strategie che hanno lo scopo di
aumentare l’attività residua dell’enzima mancante, quali il trapianto di cellule staminali ematopoietiche, la terapia enzimatica sostitutiva, la terapia con
chaperones farmacologici e la terapia genica, nonché approcci basati sulla riduzione della sintesi del substrato accumulato. I recenti progressi compiuti nel
trattamento delle LSD rappresentano un buon modello che potrebbe essere esteso anche ad altre malattie genetiche.
Summary
The lysosomal storage diseases (LSDs) are a group of inherited metabolic disorders due to the deficiency of any of the lysosomal functions, in most cases
of the lysosomal hydrolases. LSDs are typically characterized by the storage of a variety of substrates in multiple tissues and organs and by the variable association of peculiar clinical manifestations that are often responsible for physical and neurological handicaps. During the past two decades the research in
the field of LSDs has made impressive progress, particularly with the development of a variety of innovative therapeutic approaches. These include several
strategies aimed at increasing the residual activity of the missing enzyme, such as hematopoietic stem cell transplantation, enzyme replacement therapy,
pharmacological chaperone therapy and gene therapy. An alternative approach is based on reducing the synthesis of the stored substrate. More recently the
improved knowledge on LSDs pathophysiology has indicated additional targets of therapy. The recent progresses made in the treatment of LSDs represent
a good model that may be extended to other genetic disorders.
Introduzione
Obiettivo
Le malattie da accumulo lisosomiale (lysosomal storage diseases,
LSD) sono un gruppo di malattie metaboliche ereditarie causate da
mutazioni in geni che codificano per enzimi, proteine ​​integrali di
membrana e proteine di trasporto a localizzazione lisosomiale (Futerman and van Meer, 2004). La mutazione di questi geni comporta
quindi un difetto di una o più delle diverse funzioni dei lisosomi,
organelli subcellulari deputati al turnover e riciclo di una vasta gamma di molecole complesse, tra cui sfingolipidi, glicosaminoglicani,
glicoproteine ​​e glicogeno.
La caratteristica principale delle LSD è pertanto l’accumulo all’interno dei lisosomi di questi substrati. In generale l’accumulo si osserva
in diversi tessuti e organi. Di conseguenza le manifestazioni fenotipiche di questi disturbi sono complesse, e caratterizzate dall’associazione variabile di manifestazioni viscerali, oculari, ematologiche, scheletriche e neurologiche. Queste manifestazioni sono nella
maggior parte dei casi responsabili di handicap fisici e neurologici.
In particolare, quelle relative al coinvolgimento del sistema nervoso
centrale (SNC) possono causare neurodegenerazione progressiva e
grave compromissione cognitiva.
Attualmente sono note circa 50 LSD che sono tradizionalmente
classificate secondo le caratteristiche chimiche del substrato accumulato. Anche se ognuna di queste patologie è rara se considerata
singolarmente, la loro prevalenza globale è relativamente elevata
rispetto ad altri gruppi di malattie rare, ed è stimata in circa 1 su
8.000 nati vivi (Fuller et al., 2006).
All’interno della revisione sarà fornita una rassegna delle nuove
strategie terapeutiche basate sul miglioramento delle conoscenze
della fisiopatologia delle malattie lisosomiali.
È stata svolta una ricerca attraverso PubMed utilizzando termini
chiave come: “lysosomal storage disease; therapy; enzyme replacement therapy; substrate reduction; gene therapy; hematopoietic
stem cell transplantation”, anche tra loro incrociati. Sono stati selezionati articoli originali, revisioni, e linee guida più recenti.
L’interesse delle malattie lisosomiali per il pediatra
Come molte malattie rare le LSD sono meno note ai pediatri generalisti. Tuttavia la loro prevalenza globale, gli effetti debilitanti delle loro
manifestazioni cliniche ed il loro pesante impatto in termini di salute
pubblica e di costi assistenziali devono essere motivi di interesse ed
attenzione per i tutti pediatri. Il riconoscimento tempestivo di queste
malattie, grazie ad un corretto sospetto diagnostico, può consentire
di intervenire precocemente quando il fenotipo non è ancora severo.
Inoltre, per la necessità di un approccio multidisciplinare alla gestione di queste malattie, esse devono essere ben note anche a tutti gli
specialisti coinvolti nell’assistenza dei pazienti con LSD.
In aggiunta a questi motivi più squisitamente clinici, un motivo di
particolare interesse per le LSD è legato al fatto che soprattutto negli
ultimi decenni esse hanno rappresentato un modello per lo sviluppo di approcci terapeutici altamente innovativi, basati su tecnologie
molto avanzate e potenzialmente esportabili ad altre malattie genetiche (Beck, 2007).
209
G. Parenti, C. Porto, R. Della Casa
Diversi fattori hanno fornito uno stimolo ai progressi nel trattamento
delle LSD. La disponibilità di tecnologie che consentono la produzione, purificazione e manipolazione su larga scala di nuovi farmaci,
proteine ​​ricombinanti e vettori virali, ha giocato un ruolo importante
in questo senso, insieme alla legislazione in materia di farmaci orfani, che ha incoraggiato le aziende biotecnologiche ad investire nella
ricerca di nuove terapie per le malattie rare (Beutler, 2006).
Tuttavia, il fattore che ha maggiormente stimolato lo sviluppo di
nuove terapie per le LSD, e che rappresenta un modello anche per
altre patologie, è stato l’avanzamento delle conoscenze sulla fisiopatologia e sui meccanismi cellulari e molecolari alla base di queste
malattie.
I progressi nella comprensione della fisiopatologia
delle LSD e le loro implicazioni terapeutiche
La cascata di eventi alla base della patogenesi delle LSD (Fig. 1A)
è innescata da mutazioni dei geni codificanti per proteine coinvolte
nella funzione lisosomiale, in massima parte enzimi lisosomiali. La
conseguenza è la totale assenza di una proteina o la sintesi di una
proteina non funzionale, malconformata nella sua struttura terziaria,
che viene riconosciuta come alterata dai sistemi di controllo di qualità della cellula e per tale motivo viene degradata. La conseguenza a livello dei lisosomi è l’impossibilità di degradare uno specifico
substrato, che quindi si accumula nei lisosomi. È diventato ormai
chiaro che l’accumulo di substrati all’interno del compartimento lisosomiale è soltanto il primum movens di una serie di risposte cellulari secondarie che hanno come risultato finale la morte cellulare ed
il danno di tessuti e organi. L’accumulo dei substrati non degradati
interferisce, infatti, con diverse funzioni cellulari, con meccanismi
che comprendono l’attivazione di recettori da parte di ligandi non
fisiologici, la modulazione di risposte recettoriali e di cascate di
trasduzione del segnale, l’attivazione di una risposta infiammatoria, l’alterato traffico intracellulare di vescicole, di membrane e di
proteine legate alle membrane, l’alterazione dei meccanismi legati
all’autofagia (Ballabio and Gieselmann, 2009).
La precisa conoscenza di questi meccanismi è di importanza cruciale perchè ciascuno degli eventi nella cascata patogenetica delle LSD
è un potenziale bersaglio della terapia. Di conseguenza è possibile
che vari approcci, basati su differenti strategie e razionale, ognuno
mirato ad un diverso bersaglio terapeutico, possano essere sfruttati,
singolarmente o in combinazione, per il trattamento di queste patologie (Fig. 1B).
La terapia delle LSD
Fino a circa due decenni fa il trattamento di pazienti affetti da LSD
era basato esclusivamente su terapie palliative o di supporto. Le
prime strategie terapeutiche dirette verso la correzione del difetto
di base di queste malattie sono state introdotte nei primi anni ’90,
e da allora un certo numero di nuovi approcci sono stati divenuti
disponibili o testati in studi preclinici.
L’approccio più ovvio per correggere le malattie da perdita di funzione, come le LSD, causate nella maggior parte dei casi dal deficit funzionale di una idrolasi lisosomiale, è quello di ripristinare o sostituire
l’attività enzimatica deficitaria. Quindi, la maggior parte dei metodi
finora sviluppati per trattare le LSD sono volti ad aumentare i livelli
dell’enzima mancante in cellule e tessuti. Questi approcci si basano sul trapianto di cellule staminali ematopoietiche (hematopoietic
stem cell transplantation, HSCT), sulla terapia enzimatica sostitutiva
210
a
b
Figura 1.
A. La cascata di eventi alla base della patogenesi delle LSD è innescata
da mutazioni dei geni codificanti per proteine coinvolte nella funzione
lisosomiale, in massima parte enzimi lisosomiali. La conseguenza è la
totale assenza di una proteina o la sintesi di una proteina non funzionale, malconformata nella sua struttura terziaria, che viene riconosciuta
come alterata dai sistemi di controllo di qualità della cellula e per tale
motivo viene degradata. La conseguenza a livello dei lisosomi è l’impossibilità di degradare uno specifico substrato, che quindi si accumula
nei lisosomi. L’accumulo innesca meccanismi secondari, ad esempio
anomalie dell’autofagia, che sono responsabili del danno cellulare e
tessutale.
B. Ciascuno degli eventi nella cascata patogenetica delle LSD è un
potenziale bersaglio della terapia. La maggior parte dei metodi finora sviluppati sono volti ad aumentare i livelli di dell’enzima mancante,
come la terapia enzimatica sostitutiva (enzyme replacement therapy,
ERT), la terapia farmacologica con molecole chaperone (pharmacological chaperone therapy, PCT), la terapia genica (gene therapy, GT). Un
approccio alternativo, la terapia di riduzione del substrato (SRT), si basa
sull’uso di inibitori della sintesi dei substrati accumulati nei lisosomi.
Di recente sono stati proposti approcci ancora più innovativi, basati sulla correzione delle anomalie cellulari secondarie o sulla stimolazione
della esocitosi lisosomiale.
(enzyme replacement therapy, ERT), sulla terapia farmacologica con
molecole chaperone (pharmacological chaperone therapy, PCT), e
sulla terapia genica (gene therapy, GT). Questi tipi di approccio possono risultare particolarmente adatti per disordini come le LSD, nelle
quali si assume che i sintomi clinici nei pazienti si presentino solo
quando il livello dell’enzima residuo scende al di sotto di una soglia
critica. Pertanto attività residue superiori a circa il 10% del livello
normale possono, in linea di principio, essere sufficienti per impedire l’accumulo, ed è possibile ipotizzare che anche lievi aumenti di
Nuovi approcci terapeutici alle malattie da accumulo lisosomiale
attività enzimatica si possano tradurre in un beneficio clinico per i
pazienti.
Un approccio alternativo, la terapia di riduzione del substrato (SRT),
si basa sull’uso di inibitori della sintesi dei substrati accumulati nei
lisosomi.
Negli ultimi anni, grazie al miglioramento delle conoscenze sulla fisiopatologia delle LSD, sono state proposte, inoltre, altre strategie
terapeutiche innovative che sono in corso di valutazione in studi
pre-clinici.
Il trapianto di cellule staminali ematopoietiche
(HSCT)
L’HSCT è stato il primo approccio terapeutico introdotto per il trattamento delle LSD. Il midollo osseo è stato tradizionalmente usato come
fonte di cellule da trapiantare per questa procedura. Tuttavia, negli
ultimi anni, molti pazienti sono stati trattati con trapianti da sangue
di cordone ombelicale da donatore non correlato, che permette un
rapido e più facile accesso al trapianto (Prasad and Kurtzberg, 2010).
Per l’HSCT l’agente terapeutico sono le cellule staminali ematopoietiche derivate da un donatore sano. Con questo approccio può
essere ottenuto un duplice effetto (Fig. 2). Uno è quello di ripopolare tessuti specifici da parte delle cellule sane del donatore. Un
secondo effetto, molto importante, è conseguenza della secrezione
di idrolasi lisosomiali funzionali da parte delle cellule del donatore
nello spazio extracellulare e nella circolazione sanguigna. L’enzima
normale secreto può essere, infatti, assorbito dalle cellule riceventi
e correggere il difetto dell’enzima in queste cellule (effetto definito
come cross-correction).
L’esperienza clinica finora ottenuta con il trapianto, tuttavia, suggerisce che questa procedura deve limitarsi a poche malattie lisosomiali. Il trapianto è risultato efficace per il trattamento della mucopolisaccaridosi (MPS) tipo I (Valayannopoulos et al., 2011) ed ha effetti
benefici sulle manifestazioni viscerali nella MPS VI, nella malattia
di Krabbe pre-sintomatica o ad insorgenza tardiva, e nelle forme
attenuate di leucodistrofia metacromatica (Orchard et al., 2007). Per
la MPS I le indicazioni, i tempi ottimali, la sicurezza e l’efficacia di
trapianto sono stati recentemente esaminati da un gruppo europeo
di specialisti che hanno partecipato ad un consensus su questo approccio (de Ru et al, 2011). Secondo tale consensus l’HSCT è considerato il trattamento preferenziale per i pazienti con MPS I gravi, che
hanno ricevuto la diagnosi prima dell’età di 2 anni e mezzo, e può
essere preso in considerazione anche in singoli pazienti con fenotipi
intermedi se vi è un donatore idoneo.
Per la malattia di Krabbe e la leucodistrofia metacromatica, il fenotipo della malattia e la gravità della malattia al momento del trapianto
sono di fondamentale importanza nel determinare il risultato (Orchard and Tolar, 2010).
Un potenziale vantaggio dell’HSCT è che alcune cellule di derivazione del donatore sono in grado di migrare al cervello e di produrre
enzimi normali che possono essere internalizzati dalle cellule neuronali del ricevente con il meccanismo di cross-correction precedentemente citato. In linea di principio, quindi, questa procedura ha la
possibilità di migliorare le funzioni neurocognitive e la qualità della
vita, in particolare, quando eseguita precocemente nel corso della
malattia.
D’altra parte l’uso dell’HSCT è limitato dal rischio di mortalità legato alla procedura, dalla scarsa disponibilità di donatori idonei, dal
numero esiguo di patologie che possono essere trattate con questo
approccio e dall’insufficiente attecchimento e correzione della patologia in alcuni tessuti, quali ossa e cuore.
La terapia enzimatica sostitutiva (ERT)
Figura 2.
Per l’HSCT l’agente terapeutico sono le cellule staminali ematopoietiche derivate da un donatore sano. Con questo approccio può essere ottenuto un duplice effetto. Uno è quello di ripopolare tessuti specifici da
parte delle cellule sane del donatore. Un secondo effetto è conseguenza
della secrezione di idrolasi lisosomiali funzionali da parte delle cellule
del donatore nello spazio extracellulare e nella circolazione sanguigna.
L’enzima normale secreto può essere, infatti, assorbito dalle cellule
riceventi e correggere il difetto dell’enzima in queste cellule (effetto
definito come cross-correction).
La ERT ha rappresentato la più importante acquisizione degli ultimi decenni nel trattamento delle LSD. Questo approccio si basa su
infusioni endovenose periodiche di enzimi lisosomiali ricombinanti
umani, prodotti e purificati su larga scala da fonti diverse con tecniche di DNA ricombinante. Una volta iniettati, gli enzimi ricombinanti
si distribuiscono ai tessuti, vengono internalizzati dalle cellule ed
indirizzati al compartimento lisosomiale, dove devono sopperire alla
disfunzione dell’enzima difettoso.
Lo sviluppo della ERT è un eccellente esempio di come i progressi
nella conoscenza della biologia lisosomiale possano favorire lo sviluppo di nuovi approcci terapeutici. Il razionale della ERT, infatti, si
è evoluto a partire da studi sui meccanismi molecolari e cellulari
coinvolti nel traffico e la secrezione degli enzimi lisosomiali. Questi
studi hanno dimostrato che le idrolasi lisosomiali recano sulla loro
struttura marcatori, cioè il mannosio o il mannosio-6-fosfato, che
sono riconosciuti da specifici recettori presenti nella cellula. Grazie
a questi recettori gli enzimi neo-sintetizzati dalla cellula vengono
indirizzati al compartimento lisosomiale, laddove devono svolgere
211
G. Parenti, C. Porto, R. Della Casa
Figura 3.
Gli enzimi lisosomiali recano sulla loro struttura marcatori, quali il mannosio ed il mannosio-6-fosfato, che sono riconosciuti dagli specifici recettori presenti nella cellula. Grazie a questi recettori gli enzimi neo-sintetizzati dalla cellula vengono indirizzati al compartimento lisosomiale,
laddove devono svolgere la loro funzione. I recettori del mannosio o del
mannosio-6-fosfato sono espressi anche sulla membrana plasmatica
delle cellule e questo fa sì che enzimi lisosomiali ricombinanti prodotti e
purificati in laboratorio possano essere “captati” dalle cellule, e seguendo il percorso della via endocitica, essere correttamente trasportati ai
lisosomi. Una volta raggiunti i lisosomi gli enzimi ricombinanti possono
rimpiazzare l’enzima deficitario e degradare il substrato accumulato.
la loro funzione. I recettori del mannosio o del mannosio-6-fosfato
sono espressi però anche sulla membrana plasmatica delle cellule
(Sly, 1985). Questo fa sì che enzimi lisosomiali ricombinanti prodotti
e purificati in laboratorio possano essere “captati” dalle cellule, e
seguendo il percorso della via endocitica, essere correttamente trasportati ai lisosomi (Fig. 3).
I primi tentativi di sviluppare una ERT sono stati effettuati nella malattia di Gaucher, una malattia dovuta al deficit di beta-glucosidasi
caratterizzata da visceromegalia, coinvolgimento osseo e segni
ematologici. Dopo oltre due decenni di esperienza clinica con migliaia di pazienti trattati, il successo della ERT è stato chiaramente
documentato in questa malattia. È stato definitivamente dimostrato
che la ERT è efficace nel migliorare le manifestazioni viscerali, ematologiche e biochimiche nella malattia di Gaucher e nel migliorare la
qualità di vita dei pazienti.
Il successo della ERT nella malattia di Gaucher (Barton et al., 1991;
Barton et al., 1990), ha stimolato lo sviluppo di questo approccio per
il trattamento dei altre LSD, in generale quelle più prevalenti, per le
quali la ERT è attualmente considerata la terapia standard.
Nella malattia di Fabry, una malattia lisosomiale dovuta al deficit
di alfa-galattosidasi A e che coinvolge prevalentemente endoteli
vascolari, cuore, rene e sistema nervoso periferico, sono stati documentati effetti benefici sulle funzioni cardiache e renali, con riduzione del dolore e miglioramento della qualità della vita (Mehta et al.,
2009; Lidove et al., 2010; Feriozzi et al., 2012). Inoltre, la riduzione
dei livelli plasmatici ed urinari del substrato accumulato avvalorano
l’efficacia della ERT.
Nella malattia di Pompe, dovuta al deficit di alfa-glucosidasi acida e
che si manifesta con una quadro di miopatia generalizzata, l’esperienza clinica ha mostrato effetti sorprendenti sulla cardiomiopatia,
con rapida riduzione dell’indice di massa ventricolare sinistra. Inoltre
la ERT ha prolungato significativamente la sopravvivenza dei pazien-
212
ti affetti dalla forma più severa ad esordio precoce (van der PloegReuser, 2008), ed ha migliorato le prestazioni fisiche, stabilizzando
o migliorando la funzione muscolare, nei pazienti ad esordio tardivo
(Strothotte et al., 2010; van der Ploeg et al., 2010).
Nelle MPS I, II e VI l’impiego della ERT ha consentito un miglioramento delle prestazioni generali, delle funzioni respiratorie e della qualità
della vita (Valayannopoulos et al., 2011). Un marcatore biochimico di
efficacia della ERT in queste patologie è la ridotta escrezione urinaria di glicosaminoglicani nei pazienti trattati.
Alla luce dei successi della ERT in queste patologie l’uso di questo
approccio è stato proposto ed in corso di studio anche per il trattamento anche di altre LSD, tra cui la MPS IVA (malattia di Morquio A),
la MPS VII (malattia di Sly), la MPSIIIA (malattia di Sanfilippo A), la
leucodistrofia metacromatica, la mannosidosi, ed il deficit di lipasi
acida.
D’altra parte, l’esperienza clinica con la ERT ha dimostrato che questo approccio ha alcuni limiti, principalmente legati alla biodisponibilità degli enzimi ricombinanti. Gli enzimi ricombinanti sono grandi
molecole che non diffondono liberamente attraverso le membrane
e non sono in grado di raggiungere concentrazioni terapeutiche in
alcuni dei tessuti bersaglio. Pertanto, un certo numero di tessuti rimangono refrattari a questo trattamento e alcuni pazienti in trattamento con ERT mostrano un beneficio clinico limitato o continuano a
mostrare segni di progressione della malattia. Limitazioni della ERT
sono state osservate nelle MPSI, II e VI, dove i risultati terapeutici
sono insufficienti in tessuti quali ossa, cartilagine e cuore, che peraltro sono tra gli organi maggiormente interessati dalla patologia.
Nella malattia di Pompe a livello del muscolo scheletrico i benefici
della ERT sono in alcuni casi insufficienti (Parenti and Andria, 2011).
Di rilevanza clinica ancora maggiore è l’incapacità degli enzimi ricombinanti di attraversare la barriera ematoencefalica e di raggiungere il sistema nervoso centrale (Anson et al., 2001; Begley et al.,
2008). In circa due terzi dei pazienti affetti da LSD è presente coinvolgimento neurologico e neurodegenerazione progressiva. In questi
casi, quindi, l’impossibilità di ottenere livelli correttivi di enzimi nel
cervello è una grave limitazione alla efficacia terapeutica della ERT.
Per aggirare questi problemi e aumentare i livelli terapeutici di enzimi ai tessuti bersaglio, tra cui sistema nervoso centrale, sono in corso di valutazione diverse strategie. Purtroppo, tutte queste strategie
sono ancora in fase largamente sperimentale.
Sono stati fatti diversi tentativi di ottenere livelli correttivi di attività
enzimatica nel cervello nelle LSD neuropatiche, manipolando chimicamente gli enzimi ricombinanti. Ad esempio la beta-glucuronidasi,
l’enzima carente nella MPSVII, è stata modificata per aumentare
l’emivita plasmatica e facilitarne il traffico attraverso la barriera
ematoencefalica (Grubb et al., 2008). Altri approcci che vengono
attualmente esplorati sono basati sulla penetrazione recettore mediata della barriera ematoencefalica, mediante coniugazione degli
enzimi ricombinanti con molecole di transferrina al fine di sfruttare
l’endocitosi mediata da recettori di tale proteina per il trasporto attraverso la barriera (Osborn et al., 2008).
Oltre a questi approcci è stata sperimentata anche una procedura
invasiva, che prevede somministrazione intratecale della ERT, valutata in studi pre-clinici per diverse patologie lisosomiali e introdotta
in terapia umana per la MPS I (Munoz-Rojas et al., 2008).
Sono stati effettuati anche tentativi per migliorare il targeting della
ERT ai muscoli scheletrici nella malattia di Pompe. Nel 2009 è stata
sviluppata (Zhu et al., 2009) una rhGAA ingegnerizzata nella componente oligosaccaridica (neo-rhGAA), nella quale sono state aggiunte
ulteriori residui di mannosio 6-fosfato. Questa neo-rhGAA ha mostrato una maggiore affinità per il recettore del mannosio-6-fosfato.
Nuovi approcci terapeutici alle malattie da accumulo lisosomiale
In un modello murino di malattia di Pompe l’enzima così modificato
ha mostrato una maggiore capacità correttiva e di conseguenza una
più efficace riduzione del glicogeno lisosomiale nei muscoli rispetto all’enzima tradizionale. Altri approcci sono basati sulla fusione
sulla rhGAA con un peptide derivato dall’insulin-like growth factor
2 (IGF-II), che è anch’esso un ligando per il recettore del mannosio6-fosfato.
Un altro fattore che non va assolutamente sottovalutato e che può
rappresentare un’ulteriore limitazione per la ERT, è rappresentato
dagli elevati costi degli enzimi ricombinanti. Gli investimenti iniziali
per la ricerca ed i costi relativi alla produzione di grandi quantità
di enzimi ricombinanti secondo i criteri della good manufacturing
pratice, ha contribuito a mantenere i costi della ERT estremamente
elevati. Il trattamento di un singolo paziente affetto da LSD può richiedere perciò fino a diverse centinaia di migliaia di euro all’anno.
Tali costi elevati, che sono accettabili nei paesi occidentali, sono
difficilmente accessibili nei paesi del terzo mondo o nei paesi emergenti, e limitano quindi l’accesso dei pazienti alla ERT. La disponibilità di nuove tecnologie molecolari, tuttavia, apre una speranza per
consentire la produzione di preparazioni enzimatiche meno costose.
Ad esempio, la beta-glucosidasi ricombinante, l’enzima carente nella malattia di Gaucher, è stato prodotto anche in specie vegetali o in
cellule derivate da vegetali (Zimran et al., 2011).
La terapia con chaperones farmacologici (PCT)
Come si è detto in precedenza uno dei meccanismi implicati nella
patogenesi delle LSD è la sintesi di proteine enzimatiche alterate
nella loro conformazione tridimensionale, in quanto derivate dal geni
recanti mutazioni missenso. Tali proteine sono riconosciute dalla
cellula e degradate. In queste malattie, definite da misfolding proteico, la perdita di funzione non è quindi dovuta alla perdita di attività
catalitica della proteina mutata, ma è il risultato della degradazione
della proteina.
Un approccio che ha recentemente attirato molto interesse per il
trattamento delle malattie dovute a misfolding proteico in generale
e in particolare per le LSD è la stimolazione enzimatica con piccole
molecole definite chaperones farmacologici (Parenti, 2009; Valenzano et al., 2011). È stato dimostrato che gli chaperones farmacologici
possono interagire fisicamente con la proteina mutata, favorendone
la corretta conformazione facendo in un certo senso da stampo, e
migliorandone la stabilità. Come risultato l’attività enzimatica della
proteina mutata viene parzialmente recuperata (Fig. 4).
Come per la ERT e gli altri approcci diretti verso la sostituzione o
l’aumento dell’attività residua dell’enzima difettoso, è ragionevole
ipotizzare che anche un piccolo incremento dell’attività potrebbe
avere un impatto favorevole sullo stato dei pazienti e sulla progressione della malattia.
L’uso di chaperones farmacologici per il trattamento di malattie da
accumulo lisosomiale è stato proposto per la prima volta nella malattia di Fabry (Fan et al., 1999). In cellule di pazienti con malattia di
Fabry è stato dimostrato che uno dei più potenti inibitori dell’alfa-galattosidasi A, la 1-deossigalattonojirimicina (DGJ), paradossalmente
stimolava l’attività residua dell’alfa-galattosidasi A. Tale effetto era
osservato anche in vivo, in topi transgenici che iperesprimevano un
forma di alfa-galattosidasi A mutata (Germain and Fan, 2009). Lo
stesso approccio è stato successivamente valutato per un numero
limitato di altre malattie di questo gruppo (Parenti, 2009; Valenzano
et al., 2011), compresa la malattia di Gaucher (Sawkar et al., 2005)
e la malattia di Pompe (Parenti et al., 2007; Okumiya et al., 2007).
In linea di principio, gli chaperones (come tutte le piccole molecole)
Figura 4.
A causa di mutazioni missenso gli enzimi lisosomiali mutati sono alterati nella loro conformazione tridimensionale, riconosciuti dalla cellula
e degradati.
Gli chaperones farmacologici possono interagire fisicamente con la
proteina mutata, favorendone la corretta conformazione, migliorandone
la stabilità e favorendone il corretto traffico verso i lisosomi, dove il
complesso chaperone-enzima si dissocia. Come risultato l’attività enzimatica della proteina mutata viene parzialmente recuperata.
hanno diversi vantaggi, rispetto alla ERT, in quanto possono essere
assunti oralmente, consentendo un trattamento non invasivo, non
sono immunogenici e non hanno bisogno di essere captati dalle cellule attraverso il recettore del mannosio-6-fosfato, che può essere
secondariamente compromesso in alcune di queste patologie. Inoltre, si assume che queste piccole molecole chaperone diffondano
liberamente attraverso le membrane cellulari e raggiungano concentrazioni terapeutiche in diversi tessuti e sistemi, inclusi sistema
nervoso centrale. Nel modello animale di gangliosidosi GM1, un grave disturbo neurodegenerativo dovuto al deficit di beta-galattosidasi, l’uso dello chaperone N-ottil-4-epi-β-valienamine (Noev) ha consentito un aumento dell’attività residua nel cervello e una migliore
clearance del substrato (Suzuki et al., 2012).
D’altra parte anche i farmaci chaperones possono presentare limitazioni. La terapia con questi farmaci sembra essere praticabile solo
in pazienti con specifiche mutazioni responsive, per lo più situate in
specifici domini strutturali dell’enzima (Flanagan et al., 2009).
Desta inoltre preoccupazione ai fini dell’impiego di tali molecole in
clinica il fatto che la maggior parte degli chaperones finora individuati per il trattamento delle LSD sono molecole che interagiscono con i siti attivi degli enzimi. In altre parole, esse sono inibitori
competitivi degli enzimi bersaglio, anche se ci sono evidenze che
nell’ambito dei lisosomi tale effetto inibitorio non si verifichi.
In linea di principio, queste limitazioni possono essere superate
mediante l’individuazione di nuove molecole che interagiscono con
altri domini proteici, diversi dal sito attivo. Recentemente, sono stati
identificati i primi chaperones allosterici per l’alfa-glucosidasi, l’enzima carente nella malattia di Pompe, mediante la combinazione
di una caratterizzazione biochimica ed un’analisi computazionale
delle interazioni di questi farmaci con l’enzima (Porto et al., 2012).
213
G. Parenti, C. Porto, R. Della Casa
Screening ad ampio spettro (high throughput screenings) di librerie
chimiche potrebbe essere un metodo rapido ed efficiente per identificare altri chaperones di nuova generazione (Urban et al., 2008;
Marugan et al., 2010).
Dopo gli studi in vitro, che hanno consentito di identificare potenziali
chaperones farmacologici per il trattamento delle LSD, la ricerca si
sta ora spostando verso la traduzione clinica. Studi clinici in Fase 1/2
sono stati condotti per le malattie di Fabry, Gaucher e Pompe. Per
la malattia di Fabry, studi clinici di fase 2/3 hanno mostrato risultati
incoraggianti in termini di potenziamento dell’attività enzimatica residua dell’alfa-galattosidasi A e clearance del substrato [http://www.
amicustherapeutics.com/clinicaltrials/at1001.asp].
sieme di meccanismi che controllano la sintesi, la conformazione (il
folding), il traffico, l’aggregazione, e la degradazione delle proteine.
Piccole molecole, definiti regolatori della proteostasi, hanno la capacità di regolare le funzioni di questo network, e sono potenzialmente
in grado di ripristinare il normale equilibrio tra sintesi e degradazione delle proteine. È stato dimostrato che due di questi regolatori
della proteostasi erano in grado di ripristinare la funzione di due enzimi lisosomiali mutati in due distinte LSD, quali malattia di Gaucher,
di cui si è parlato in precedenza, e la gangliosidosi GM2, una grave
malattie neurodegenerativa dovuta al deficit di beta-esosaminidasi
(Mu et al., 2008). Questo approccio, tuttavia, è ancora in gran parte
sperimentale.
La combinazione di chaperones ed ERT
La terapia genica (GT)
Sebbene la terapia con chaperones sia stata sviluppata come strategia per proteggere gli enzimi mutati dalla degradazione intracellulare, studi recenti hanno dimostrato che questi farmaci sono
anche in grado di migliorare la stabilità fisica e potenziare l’azione
terapeutica degli enzimi normali, in particolare quelli utilizzati per
la ERT (Porto et al., 2009; Porto et al., 2012; Benjamin et al., 2012;
Khanna et al., 2012). Questi studi, effettuati in sistemi cellulari e nei
modelli animali delle malattie di Pompe e di Fabry, hanno fatto da
apripista per un importante cambiamento nell’uso degli chaperones.
In entrambe le patologie, quando gli enzimi ricombinanti sono stati
somministrati in associazione con le molecole chaperoniche, il traffico ai lisosomi, la maturazione e l’attività intracellulare (in altri termini l’efficacia) degli enzimi ricombinanti usati per la ERT è risultata
notevolmente migliorata.
Sebbene il meccanismo alla base dell’effetto sinergico tra chaperones farmacologici ed ERT non sia ancora del tutto chiaro, questa
sinergia può avere importanti vantaggi rispetto all’uso “tradizionale”
degli chaperones per proteggere enzimi mutati dalla degradazione. Innanzitutto, in questo caso l’effetto terapeutico è diretto verso
l’enzima esogeno normale, quello utilizzato per la ERT, e quindi è
indipendente dalla mutazione del paziente. Questo significa che tale
effetto può essere sfruttato in tutti i pazienti trattati con ERT e non
solo in quelli che hanno specifiche mutazioni (Porto et al., 2012;
Porto et al., 2012).
In secondo luogo, mentre la stimolazione mediante chaperones degli
enzimi endogeni mutati nella maggior parte dei casi sfocia in piccoli
aumenti in termini di attività residua (probabilmente con un esito
modesto sul decorso clinico dei pazienti), la sinergia tra chaperones
e ERT induce apparentemente, almeno in modelli cellulari, notevoli
aumenti di attività specifica con una correzione completa o quasi
completa del difetto enzimatico.
Studi clinici basati sulla combinazione di chaperones ed ERT sono
già in corso (Trials NCT00214500 e NCT01196871 a http://clinicaltrials.gov; Telethon fondazione Trial GUP09017, http://www.telethon.
it/ricerca-progetti/progetti- finanziati).
La GT è una strategia interessante che rappresenta una grande promessa per i pazienti affetti da LSD ed è comunemente vista come
l’approccio che ha le maggiori potenzialità per la correzione completa e prolungata del difetto enzimatico (Sands and Davidson, 2006;
Cardone, 2007). La GT è anche un ottimo esempio di una strategia che si sta sviluppando grazie alla combinazione di una migliore
conoscenza delle basi molecolari delle LSD, e dei progressi tecnici
ottenuti nell’ottimizzazione e preparazione di agenti terapeutici, in
questo caso i vettori virali.
La GT, come tutti i metodi già citati, è finalizzata ad aumentare o
ripristinare l’attività dell’enzima carente nelle cellule dei pazienti.
Questo risultato non è ottenuto rimpiazzando l’enzima difettoso con
un enzima ricombinante funzionante, ma fornendo la copia normale
del gene mutato, contenuta in un vettore virale che verrà introdotto
nelle cellule mediante infezione, e che consentirà la sintesi dell’enzima normale nelle cellule che l’avranno ricevuto.
Questo approccio terapeutico sembra essere particolarmente adatto
per il trattamento delle le LSD per diversi motivi. Primo, queste patologie sono monogeniche ed è teoricamente possibile curarle correggendo il difetto genetico. In secondo luogo, anche se solo un piccolo
numero di cellule conterrà copie normali del gene mutato in grado
di sintetizzare l’enzima normale, sarà possibile correggere le cellule
adiacenti tramite una cross-correction, grazie al fatto che la maggior parte degli enzimi lisosomiali vengono secreti e ricaptati tramite
il recettore del mannosio-6-fosfato. Tale cross-correction, simile a
quella documentata nell’HSCT, evita la necessità di trasferire il gene
in tutte le cellule, con il vantaggio che una piccola percentuale di
cellule trasdotte potrebbe agire terapeuticamente con conseguenti
benefici per molti organi. Infine, come già detto, anche lievi aumenti
di attività enzimatica (fino al 10%) potrebbero essere sufficienti per
un beneficio clinico e per un sia pur parziale correzione fenotipica.
Sono state progettati diversi vettori virali e diverse strategie per realizzare il trasferimento genico in vivo. Sono stati testati come vettori
Herpes virus, lentivirus, virus adeno-associati (AAV), adenovirus (Ad)
ed altri (Sands and Davidson, 2006). La modificazione genetica può
essere eseguita sia ex vivo che in vivo (Fig. 5). La prima strategia
prevede la modificazione ex vivo di cellule ed il trapianto delle cellule
modificate nei pazienti. Le cellule che vengono comunemente considerate come bersagli terapeutici per le LSD sono cellule progenitrici
ematopoietiche.
Un’altra strategia testata è basata invece sulla GT diretta in vivo.
Questo approccio si basa sulla iniezione di un vettore di trasferimento genico direttamente in un tessuto o in circolo.
Il vantaggio di un approccio con GT rispetto alla ERT è la potenziale espressione della proteina terapeutica a lungo termine. Pertanto,
questo approccio potrebbe rappresentare una procedura definitiva,
I farmaci regolatori della proteostasi
In aggiunta alla terapia con chaperones, sono stati proposti altri approcci deputati al salvataggio degli enzimi mutati nelle LSD. Mentre,
come si è detto in precedenza, gli chaperones sono ligandi che interagiscono specificamente con le proteine ​​mutate (e sono quindi
in grado di salvare una singola proteina), altri farmaci sono in grado
di regolare i meccanismi cellulari che controllano l’omeostasi delle
proteine, definita “proteostasi”. La proteostasi è un complesso in-
214
Nuovi approcci terapeutici alle malattie da accumulo lisosomiale
della barriera ematoencefalica, che esclude gli enzimi lisosomiali
esogeni dal cervello. Per le LSD con manifestazioni neuropatiche è
stata studiata come possibile strategia l’iniezione intracerebrale del
vettore virale. Nel modello animale del deficit multiplo di solfatasi
(multiple sulfatase deficiency, MSD), una grave malattia autosomica
recessiva, causata da mutazioni nel gene di un fattore che rende
attive le solfatasi (SUMF1), la combinazione di somministrazione sistemica e intracerebrale del vettore recante il gene SUMF1 normale
ha consentito correzione del difetto genetico, la quasi completa clearance dei glicosaminoglicani, e ha migliorato performance fisica
degli animali (Spampanato et al., 2011).
La GT è in fase di studio per diverse malattie, per lo più in studi preclinici condotti in modelli animali delle LSD. Tuttavia, i primi studi
clinici sono già in corso o in fase di preparazione.
La terapia di riduzione del substrato – SRT
Figura 5.
La GT è finalizzata ad aumentare o ripristinare l’attività dell’enzima carente nelle cellule dei pazienti fornendo la copia normale del gene mutato, contenuta in un vettore virale, che consente la sintesi dell’enzima
normale nelle cellule che ricevono il vettore.
Anche se solo un piccolo numero di cellule conterrà copie normali del
gene mutato, in grado di sintetizzare l’enzima normale, grazie al fatto che la maggior parte degli enzimi lisosomiali sono secreti, l’enzima
potrà comunque essere captato tramite il recettore del mannosio-6fosfato, dalle cellule adiacenti non infettate. Tale cross-correction, è
simile a quella documentata nell’HSCT.
La GT può essere eseguita sia ex vivo che in vivo. La prima strategia
prevede la modificazione ex vivo di cellule, in genere cellule staminali
ematopoietiche, che vengono modificate in laboratorio e reiniettate nel
paziente. Un’altra strategia testata è basata invece sulla GT diretta in
vivo. Questo approccio si basa sull’iniezione di un vettore di trasferimento genico direttamente in un tessuto o in circolo al fine di ottenere
direttamente la modificazione genetica delle cellule del ricevente.
con vantaggi evidenti rispetto alla ERT, che richiede la somministrazione periodica di enzimi per via endovenosa, e alle terapie con piccole molecole, che necessitano di una somministrazione giornaliera
e per tutta la vita. Un altro vantaggio è che la GT può essere disponibile per i pazienti con patologie così rare per le quali lo sviluppo di
un enzima per la ERT sarebbe una impresa commercialmente non
vantaggiosa.
Anche se la GT è un trattamento promettente per le LSD, restano
alcune problematiche aperte. Il problema principale è la sicurezza
del vettore virale e la possibilità di carcinogenesi conseguente al
trasferimento genico mediato da retrovirus o adenovirus. In questo
senso i vettori AAV potrebbero risultare vantaggiosi e più sicuri in
quanto non sono patogenici e generalmente non si integrano nel
genoma dell’ospite. Una seconda considerazione è che i vettori generalmente esprimono livelli sovra-fisiologici di enzima e non è noto
se questo sia del tutto sicuro negli esseri umani.
Altri problemi sono legati alle dosi di vettori da utilizzare, alla scelta
dei vettori per ottenere la migliore correzione possibile in specifici tessuti ed organi, nonché alla possibilità di risposta immunitaria
verso l’enzima normale prodotto grazie alla GT, che potrebbe essere
una proteina “estranea” per il paziente.
Inoltre, modificare geneticamente o far arrivare l’enzima normale
prodotto nei tessuti trasdotti al sistema nervoso centrale rimane un
problema irrisolto. Ciò è dovuto anche in questo caso alla presenza
La SRT si basa sul concetto che l’inibizione di specifiche tappe delle
vie biosintetiche dei substrati possono ridurre il loro flusso ai lisosomi, contribuendo così a ristabilire l’equilibrio tra la loro sintesi e il
catabolismo (Platt and Jeyakumar, 2008; Schiffmann, 2010). Questa
operazione viene generalmente eseguita utilizzando farmaci inibitori
di enzimi coinvolti nella biosintesi dei substrati.
SRT è stata già approvata per l’uso clinico nel trattamento della malattia di Gaucher di tipo 1, la forma più lieve di questa malattia, e
per la malattia di Niemann-Pick di tipo C (NPC), una grave malattia
caratterizzata da manifestazioni viscerali (epatosplenomegalia, colestasi, pneumopatia) e da manifestazioni neurodegerative, e dovuta
ad un difetto del traffico intracellulare del colesterolo.
L’esperienza clinica più ampia per questo approccio è stata ottenuta con l’uso dell’ N-butildeossinojirimicina (Miglustat) nella malattia
di Gaucher. In questa malattia il Miglustat ha dimostrato di essere
efficace nel migliorare o stabilizzare markers biochimici, viscerali,
ematologici e ossei della malattia (Giraldo et al., 2009), causando
limitati eventi avversi (Hollak et al., 2009).
Un nuovo inibitore del substrato, l’Eliglustat tartrato, è stato recentemente introdotto e valutato in uno studio clinico aperto, multicentrico, di fase 2 (Lukina et al., 2010). Il trattamento con Eliglustat
tartrato ha migliorato i livelli di emoglobina e la conta piastrinica,
ridotto il volume della milza e del fegato, e favorito una maggiore
densità ossea della colonna vertebrale nella zona lombare.
È stato dimostrato nella NPC che i glicosfingolipidi giocano un ruolo
patogenetico nel coinvolgimento cerebrale (Lachmann et al., 2004).
Pertanto, è stato proposto l’utilizzo del Miglustat, lo stesso agente
terapeutico usato per la malattia di Gaucher, nei pazienti con NPC. In
uno studio controllato in 29 pazienti adulti e giovani con NPC, il Miglustat si è dimostrato in grado di stabilizzare i disturbi neurologici,
migliorando i movimenti orizzontali saccadici degli occhi, stabilizzando la deambulazione, e migliorando la deglutizione (Patterson et
al., 2007; Wraith et al., 2010). Un miglioramento della deglutizione
è stato anche osservato in uno studio sull’efficacia del Miglustat in
quattro pazienti pediatrici (Fecarotta et al., 2011).
L’approccio basato sulla SRT è stato esteso anche al trattamento
delle MPS. Gli studi pre-clinici e clinici in questo caso erano basati
sull’uso di inibitori non specifici della sintesi dei glicosaminoglicani,
quali la genisteina e la rodamina B, un colorante chimico (Piotrowska et al., 2006; Roberts et al., 2006; Roberts et al., 2010; Malinowska et al., 2010). Gli effetti di questi farmaci, tuttavia, sono stati
finora molto variabili. In due anni di follow-up di otto pazienti MPS
III (Piotrowska et al., 2011) trattati con genisteina, cinque pazienti
hanno mostrato un miglioramento o una stabilizzazione delle funzio-
215
G. Parenti, C. Porto, R. Della Casa
ni cognitive, mentre tre hanno mostrato un ulteriore peggioramento.
La SRT è stata proposta anche in alcuni studi pre-clinici per il trattamento di altre LSD, come la malattia di Sandhoff (Ashe et al., 2011),
la malattia di Fabry (Marshall et al., 2010), e la malattia di Pompe
(Douillard-Guilloux et al., 2008; Douillard-Guilloux et al., 2010).
Anche gli inibitori della sintesi del substrato, essendo piccole molecole, presentano vantaggi rispetto all’uso di ERT e GT, in particolare
in termini di biodisponibilità in vari tessuti ed organi, compreso il
sistema nervoso centrale.
Altri approcci sperimentali
L’avanzamento delle conoscenze sulle basi molecolari delle malattie
genetiche e sulla fisiopatologia delle LSD ha recentemente aperto
nuove prospettive terapeutiche.
Ad esempio, è stato dimostrato che la manipolazione del pathway
dell’autofagia ha un effetto benefico nel modello murino della malattia di Pompe. La soppressione genetica dell’autofagia nel topo Pompe è responsabile di una riduzione dal 50% al 60% dell’accumulo di
glicogeno nel muscolo scheletrico rispetto ai topi in cui l’autofagia
non era geneticamente soppressa (Raben et al., 2010). Inoltre, in
modelli murini Pompe in cui l’autofagia era soppressa l’efficacia della ERT è risultata notevolmente migliorata, con una clearance quasi
completa del glicogeno nel muscolo scheletrico, un obiettivo terapeutico mai raggiunto in topi con malattia di Pompe con autofagia
normale.
Sono state sviluppate anche strategie terapeutiche per indurre
read-through ribosomiale di mutazioni di stop nel mRNA e consentire la produzione proteina funzionale. In altri termini, grazie
ad alcuni farmaci, le mutazioni di stop non vengono riconosciute
e la sintesi della proteina può continuare fino al codone di stop
canonico. Farmaci come aminoglicosidi e Ataluren (PTC124) sono
efficaci in tal senso e sono in fase di sperimentazione clinica in
pazienti affetti da diverse malattie genetiche, come Becker / distrofia muscolare di Duchenne, la fibrosi cistica, la metilmalonico
acidemia e altre (Jones-Helm, 2009; Nelson et al., 2009; SermetGaudelus et al., 2010; Finkel et al., 2010). In linea di principio, la
soppressione di mutazioni nonsenso potrebbe offrire nuove prospettive anche per il trattamento di pazienti con altre malattie
genetiche causate da un’anticipata interruzione di lettura ribosomiale, comprese le LSD. Questo approccio è stato esplorato
in studi pre-clinici in cellule di ceroidolipofuscinosi con deficit di
palmitoil-tioesterasi (Sarkar et al., 2011).
Un approccio totalmente nuovo e affascinante per il trattamento delle LSD è di recente emerso grazie a nuove scoperte sulla biologia dei
lisosomi. È stato dimostrato che la biogenesi dei lisosomi e la sintesi
degli enzimi lisosomiali sono regolate da un fattore di trascrizione
chiamato TFEB (Sardiello et al., 2009). Tra le altre funzioni di TFEB
c’è quella di regolare anche l’esocitosi lisosomiale (Sardiello et al.,
2009). La sovraespressione di TFEB, infatti, aumenta il numero di
lisosomi nella periferia delle cellule e facilita la fusione dei lisosomi
con la membrana plasmatica con conseguente espulsione del loro
contenuto all’esterno della cellula. È possibile sfruttare questo effetto nelle LSD per favorire l’eliminazione del substato accumulato nei
lisosomi, anche se è presente un difetto enzimatico che impedisce
la normale degradazione del substrato.
Si è infatti osservato sperimentalemente che la sovraespressione di
TFEB riduce l’accumulo patologico nelle cellule e consente il recupero della normale morfologia cellulare in diverse LSD (malattia di
Pompe, deficit multiplo di solfatasi, MPS III). Questi risultati indicano
perciò una strategia terapeutica alternativa e totalmente innovativa
per le LSD, non basata sull’incremento dell’attività enzimatica residua o sulla riduzione delal sintesi del substrato.
Conclusioni
Gli ultimi due decenni hanno visto notevolissimi progressi nel trattamento delle LSD. Diverse opzioni terapeutiche sono disponibili o
sono in corso di valutazione in studi pre-clinici. Tuttavia, nessuna
di queste opzioni è applicabile a tutte le malattie lisosomiali e la
maggior parte degli approcci hanno importanti limitazioni, relative a
biodisponibilità degli agenti terapeutici, tossicità, risposta immunitaria, e impatto sulla qualità di vita del paziente.
La ricerca futura sarà indispensabile per affrontare questi problemi.
Particolare attenzione deve essere prestata alla chiara definizione di
linee guida per il trattamento dei pazienti. In questo senso sarà utile
la raccolta accurata di informazioni in registri internazionali sulla
storia naturale delle LSD, e sugli effetti delle terapie.
La possibilità di combinare diversi approcci e di personalizzare protocolli di trattamento per ogni disturbo e per ogni singolo paziente potrà rappresentare una strategia vincente al fine di ottenere la
massima efficacia terapeutica.
Box di orientamento
Che cosa si sapeva prima
Le malattie lisosomiali sono state a lungo considerate malattie trattabili soltanto con terapie di supporto. Negli ultimi venti anni sono iniziati i primi
tentativi terapeutici con la terapia enzimatica sostitutiva e con il trapianto di cellule staminali ematopoietiche.
Che cosa sappiamo adesso
L’avanzamento delle conoscenze sulla fisiopatologia e sui meccanismi cellulari e molecolari alla base delle malattie lisosomiali ha fortemente stimolato
lo sviluppo di nuove terapie per queste malattie. Oggi sono in corso di valutazione o già in fase di applicazione clinica altre strategie terapeutiche, quali
la terapia di riduzione del substrato, la terapia farmacologica con molecole chaperone e la terapia genica.
Quali ricadute sulla pratica clinica
Si sono aperte nuove prospettive per il trattamento di pazienti affetti da malattie da accumulo lisosomiale. La disponibilità di diversi approcci terapeutici
potrà consentire la scelta dell’approccio migliore per la singola malattia e nel singolo paziente, consentendo di personalizzare la terapia.
L’esperienza ottenuta con le terapie già disponibili già oggi consente di fornire linee guida per il trattamento dei pazienti.
216
Nuovi approcci terapeutici alle malattie da accumulo lisosomiale
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Corrispondenza
Giancarlo Parenti, Dipartimento di Pediatria, Università Federico II, Via S. Pansini 5, Napoli. Tel. +39 081 7463390. Fax +39 081 7463116. E-mail:
[email protected]
218
Diabetologia
Dedicare una sezione al “Diabete in età pediatrica” è di particolare attualità ed importanza, offrendo l’opportunità di discutere temi caldi
riguardanti tale patologia, che rappresenta una frequente endocrinopatia dell’età pediatrica.
Il crescente numero di casi di diabete di tipo 1, insieme al recente affermarsi di casi di diabete di tipo 2 in età pediatrica, senza dimenticare
poi casi di diabete monogenico o secondario, continuano a stimolare ricerche volte ad una migliore comprensione della loro patogenesi e
allo sviluppo di metodologie diagnostiche e terapeutiche appropriate. Una diagnosi e trattamento precoce del diabete nei bambini e negli
adolescenti sono di fondamentale importanza al fine di evitare complicanze sia a breve termine, come ad esempio la chetoacidosi diabetica,
che complicanze a lungo termine, soprattutto complicanze vascolari, che possono influire negativamente sulla prognosi di giovani pazienti.
Questa sezione comprende tre articoli: il primo che riassume alcune delle novità salenti sul diabete in età pediatrica, sulla base di studi
pubblicati nella letteratura internazionale nel corso degli ultimi anni. Gli altri due articoli si soffermano su aspetti diagnostici e terapeutici del
diabete. In particolare, essi sono incentrati sulla diagnosi del diabete non-autoimmune nel bambino e su un aggiornamento sul trattamento
del diabete di tipo 1.
Nel corso degli ultimi anni vi è stato un approfondimento delle conoscenze su forme di diabete monogenico, come il diabete neonatale e il
maturity-onset diabetes of the young. Progressi nel campo della genetica hanno permesso di identificare le basi genetiche di queste forme
di diabete, la cui identificazione e caratterizzazione precoce sono fondamentali ai fini dell’impostazione di un trattamento adeguato.
Durante gli ultimi decenni sono stati compiuti numerosi progressi, volti a migliorare il trattamento del diabete di tipo 1 nel bambino, con
l’obiettivo di garantire un controllo metabolico ottimale ed evitare complicanze a breve e lungo termine. Tra i vari progressi in termini di
trattamento del diabete di tipo 1 ci sono stati la diffusione della terapia con microinfusore, e l’introduzione di un monitoraggio continuo della
glicemia. L’articolo sul trattamento del diabete di questa sezione si baserà soprattutto sulla terapia insulinica con microinfusore e di come
questa, insieme all’introduzione di vari sistemi di monitoraggio continuo della glicemia, stia conducendo verso lo sviluppo del ‘pancreas
artificiale’.
Attraverso questi tre lavori speriamo di fornire una overview sullo ‘stato dell’arte’ del diabete in età pediatrica e di stimolare l’interesse
del lettore ad approfondire ulteriormente l’argomento facendo riferimento ad altri lavori rilevanti presentati tra le referenze bibliografiche.
Francesco Chiarelli
Clinica Pediatrica, Università di Chieti
219
Ottobre-Dicembre 2012 • Vol. 42 • N. 168 • pp. 221-225
diabetologia
Diabete in età pediatrica: cosa c’è di nuovo?
Maria Loredana Marcovecchio, Francesco Chiarelli
Clinica Pediatrica, Università di Chieti, Chieti
Riassunto
In questo articolo verrano presentate novità in tema di diabete in età pediatrica, soprattutto sul diabete di tipo 1 (T1D), sulla base di recenti pubblicazioni
in letteratura internazionale.
Nel corso degli ultimi anni numerosi studi hanno portato a capire meglio i meccanismi alla base del T1D. Progressi nell’ambito della genetica hanno condotto all’identificazione di numerosi geni implicati nella patogenesi del T1D. Un’altra area di intensa ricerca è stata quella volta ad identificare fattori ambientali
in grado di spiegare il rapido aumento nell’incidenza del T1D. Numerosi studi hanno analizzato fattori quali infezioni virali, deficit di vitamina D, fattori pre-,
peri- e post-natali, quali ad esempio aumento di peso materno durante la gravidanza, peso alla nascita, alimentazione nei primi mesi di vita che possano
contribuire alla patogenesi del T1D, e che potrebbero rappresentare bersagli di strategie preventive future.
Ulteriori argomenti che verranno discussi in questa sezione sono i risultati di recenti trial clinici con farmaci immunosoppressori, incretine e nuovi analoghi
insulinici (insulina degludec). Infine verranno presentate novità in tema di diabete di tipo 2 e diabete monogenico nei bambini e adolescenti.
Summary
In this article recent findings on paediatric diabetes, with particular emphasis on type 1 diabetes (T1D), will be presented. Over the last years, several studies have allowed a better understanding of the mechanisms implicated in the pathogenesis of T1D. Genetic studies have led to the identification of several
loci associated with the disease. In addition, a large number of studies have assessed the potential role of viral infections, vitamin D deficiency, as well as
prenatal, neonatal and post-natal factors, such as maternal weight gain during pregnancy, birth weight, early feeding, in the pathogenesis of T1D. These
factors could represent important targets for future preventive strategies. Recent progresses in terms of treatment of T1D, including immunosuppressive
therapies, incretins and new insulin analogues (degludec) will be discussed. New findings in the context of type 2 diabetes and monogenic diabetes in
children and adolescents will be also presented.
Introduzione
Il diabete mellito è un disordine metabolico caratterizzato da iperglicemia cronica con disturbi del metabolismo dei carboidrati, lipidi e
proteine conseguenti a difetti nella secrezione o nella azione insulinica o in entrambe (American Diabetic Association, 2012).
Tra le varie forme di diabete (Tab. I e II), la più frequente in età pediatrica è
il diabete di tipo 1 (T1D), caratterizzato da una distruzione su base autoimmune delle β-cellule pancreatiche. Negli ultimi anni, parallelamente con la
crescente epidemia dell’obesità infantile, si è assistito anche all’emergere
del diabete di tipo 2 (T2D), patologia a lungo considerata come esclusiva dell’età adulta. Il T2D deriva dalla presenza di uno stato di insulinoresistenza e da una progressiva perdita della secrezione β-cellulare. Il
Maturity Onset Diabetes of the Young (MODY) rappresenta un’altra forma
di diabete che si può manifestare in bambini e adolescenti. Si tratta di un
gruppo di disordini ereditati in modo autosomico dominante, con esordio
prima dei 25 anni, in presenza di familiarità per diabete e in assenza di
obesità e chetosi. Questa condizione è dovuta ad un deficit primario della
funzione β-cellulare e della secrezione insulinica. Altre forme di diabete,
che in misura minore possono interessare l’età pediatrica, sono il diabete neonatale, condizione monogenica rara (1/400.000-500.000 nascite),
caratterizzata dalla comparsa di iperglicemia richiedente terapia insulinica nei primi mesi di vita, e legata a difetti nello sviluppo o funzione delle
β-cellule pancreatiche. Tra le forme di diabete monogenico è da ricordare
anche il diabete mitocondriale, in genere associato a sordità neurosensoriale, e legato anch’esso a perdita della funzione β-cellulare su base
non-autoimmune. Infine, in età pediatrica possono aversi anche forme di
diabete secondario ad altre patologie (fibrosi cistica, malattie endocrine) o
all’uso di farmaci, quali ad esempio i corticosteroidi.
Il diabete in età pediatrica rappresenta un argomento di notevole
importanza per via della crescente incidenza soprattutto di forme
quali il T1D e il T2D, ma anche delle forme monogeniche, molte delle quali sono state a lungo incorrettamente classificate. Nel corso
degli ultimi anni, notevoli progressi sono stati compiuti in termini di
comprensione della patogenesi delle varie forme di diabete e dello
sviluppo di migliori modalità diagnostiche e terapeutiche.
Obiettivo
L’obiettivo di questo articolo è quello di riassumere novità in tema di
diabete in età pediatrica pubblicate nella letteratura internazionale
negli ultimi 2-3 anni.
Metodologia della ricerca bibliografica
La ricerca degli articoli è stata effettuata sulla banca dati bibliografica Medline utilizzando il motore di ricerca PubMed. Sono state utilizzate le seguenti parole chiave: “diabetes”, “type 1 diabetes”, “type 2
diabetes”, “monogenic diabetes” and “children” and “adolescents”.
Sono stati selezionati articoli pubblicati prevelentemente tra 2010 e
2012, riguardanti la fascia di età tra 0 e 18 anni.
Novità in tema di epidemiologia del diabete in età
pediatrica
Il T1D rappresenta il 90% di tutti i casi di diabete durante l’infanzia
e l’adolescenza. Nel corso delle ultime decadi l’incidenza del T1D
221
M. L. Marcovecchio, F. Chiarelli
Tabella I.
Classificazione eziologica del diabete
Diabete di tipo 1 (T1D)
immuno-mediato
idiopatico
Distruzione delle cellule β che conduce ad un deficit assoluto di insulina
Diabete di tipo 2 (T2D)
Resistenza all’insulina e deficit di insulina di grado variabile
Altri tipi di diabete
a) Difetti genetici dello sviluppo o funzione delle β-cellule
MODY, DNA mitocondriale, Diabete neonatale
b) Difetti genetici dell’azione insulinica
insulino-resistenza di tipo A, diabete lipoatrofico, Leprechaunismo,
sindrome di Rabson-Mendenhall, altri
c) Malattie del pancreas esocrino
fibrosi cistica, pancreatite, emocromatosi, trauma/pancreatectomia, neoplasie
d) Endocrinopatie
sindrome di Cushing, feocromocitoma, ipertiroidismo, somatostatinoma,
alderosteronoma, acromegalia
e) Indotto da farmaci o prodotti chimici
glucocorticoidi, diazossido, pentamidina, agonisti β-adrenergici, ac nicotinico,
tacrolimus, α-Interferon
f) Infezioni
rosolia congenita, cytomegalovirus, enterovirus, altri
g) Forme non comuni di diabete immuno-mediato
sindrome dello ‘stiff-man’, anticorpi anti-recettore dell’insulina
h) Altre sindromi genetiche associate talora a diabete
s. di Wolfram (DIDMOAD), s. Di Down, s. di Klinefelter, s. di Prader-Willi, s. di BardetBiedl, s. di Turner, distrofia miotonica, altre
Diabete gestazionale
dell’obesità infantile, si è assistito anche all’emergere del T2D, patologia a lungo considerata come esclusiva dell’età adulta. Il T2D è
particolarmente frequente negli USA e soprattutto tra adolescenti
appartenenti a minoranze etniche (D’Adamo-Caprio, 2011). Tuttavia,
un crescente numero di casi di T2D è stato riportato anche in altre
parti del mondo, come in Giappone e in Europa. Per quanto riguarda
la situazione italiana, sebbene casi di T2D manifesti non siano particolarmente frequenti tra i bambini e adolescenti (prevalenza: 0,5%),
un recente studio ha documentato una prevalenza di intolleranza
glucidica di circa il 12,4% tra i giovani pazienti obesi (Brufani et al.,
2010).
Progressi nell’ambito della genetica hanno permesso anche una
migliore caratterizzazione e definizione epidemiologica di casi di
diabete mongenico, come il diabete neonatale e il MODY, che seppur rappresentino forme rare di diabete, necessitano di una corretta
diagnosi ai fini di una ottimale gestione ed impostazione terapeutica.
è aumentata significativamente nella fascia di età 0-14 anni, con
un aumento particolarmente marcato nei bambini di età inferiore ai
5 anni (Patterson et al., 2009). Sulla base di recenti dati pubblicati
dalla International Diabetes Federation (IDF), relativi all’anno 2011,
nel mondo ci sono circa 490.000 bambini di età inferiore ai 14 anni
affetti da T1D; con 79.000 nuove diagnosi ogni anno e un incremento annuo dell’incidenza di circa il 3% (IDF, 2011).
Per quanto riguarda la situazione italiana, recenti dati del Registro
Italiano del Diabete mellito in Italia (RIDI) indicano un’incidenza del
T1D, nel periodo 1990-2003, di 12,26 per 100.000 persone-anno,
con aumento temporale pari a 2,9% per anno. La più alta incidenza
si riscontra in Sardegna, seguita da regioni del Nord Italia, soprattutto della provincia di Trento, mentre un’incidenza intermedia è stata
riscontrata nel centro-Sud e la più bassa incidenza in Campania
(8,10 per 100.000 per anno) (Bruno et al., 2010).
Inoltre, negli ultimi anni, parallelamente con la crescente epidemia
Tabella II.
Diagnosi differenziale tra le principali forme di diabete in età pediatrica.
Caratteristiche
T1D
T2D
Diabete monogenico
Età alla diagnosi
6 mesi→età adulta
Pubertà (o più tardi)
Spesso post-pubertà (eccetto deficit di
glucochinasi e diabete neonatale)
Presentazione clinica
Acuta, rapida
Variabile: presentazione con
sintomi da lievi a gravi
Variabile (può essere incidentale in deficit
glucochinasi)
Autoimmunità
Si
No
No
Chetosi
Comune
Non comune
Comune nel diabete neonatale, rara in altre
forme
Obesità
Stessa frequenza della
popolazione
Aumentata frequenza
Stessa frequenza della popolazione
Acanthosis nigricans
No
Si
No
Frequenza (% di tutti i casi di diabete)
90%
<10% (60-80% in Giappone)
1-3%
Genitore con diabete
2-4%
80%
90%
Associazioni
222
Diabete in età pediatrica: cosa c’è di nuovo?
Novità in tema di patogenesi del T1D
Il T1D è una patologia complessa che risulta dalla interazione di vari
fattori genetici e ambientali e in cui il sistema immune rappresenta
una componente cardine (Todd, 2010).
Progressi nell’ambito della genetica hanno portato alla identificazione di numerosi geni implicati nella patogenesi multifattoriale del
T1D. Gli alleli del sistema HLA di classe II sono alla base di gran
parte del rischio genetico del T1D (circa il 30-50%). Tuttavia, recenti
studi hanno dimostrato che vi sono anche numerosi loci non-HLA
(ad esempio geni dell’insulina, PTPN22, CTLA4, IL2RA, IFIH1) che
contribuirebbero al rischio di sviluppare il T1D, sebbene ciascuno
di tali alleli avrebbe un contributo di minima entità (Pociot et al.,
2010). I nuovi casi di diabete che si sono manifestati nel corso degli
ultimi anni presentano una minore frequenza di genotipi HLA ad alto
rischio ed una più alta frequenza di genotipi a basso rischio (Gillespie et al., 2004). Molte regioni cromosomiche associate con il T1D
sono state identificate grazie a studi di genome wide association
(GWAS), anche se ulteriori studi sono necessari per identificare i geni
corrispondenti a tali regioni e la loro funzione. Recenti studi hanno sottolineato l’importanza di combinare studi GWAS con studi di
espressione genica e analisi di network proteici, al fine di poter meglio capire la componente genetica del T1D (Bergholdt et al., 2012).
Recenti studi indicano che cambiamenti nel fenotipo immune potrebbero in parte spiegare l’aumentata incidenza del T1D. In particolare recenti evidenze suggeriscono che i casi di T1D diagnosticati
nelle decadi più recenti si associano ad una risposta immune più
matura e aggressiva, rispetto ai casi diagnosticati in decadi precedenti, come sottolineato da una maggiore frequenza e concentrazione di autoanticorpi quali IA-2 and ZnT8A, che normalmente
compaiono durante fasi avanzate del processo autoimmune diretto
contro le β-cellule pancreatiche (Long et al., 2012).
Da un punto di vista epidemiologico, il trend di aumento nell’incidenza del T1D appare essersi verificato in maniera troppo rapida
per poter essere semplicemente giustificato da cambiamenti nel
background genetico, mentre appare essere più facilmente spiegabile con cambiamenti in fattori ambientali (Vehik-Dabelea, 2011).
Numerosi studi hanno analizzato fattori pre-, peri- e post-natali, il
deficit di vitamina D e le infezioni virali, che possono rappresentare
bersagli di strategie preventive future (Vehik and Dabelea, 2011).
Fattori prenatali, come un eccessivo aumento ponderale materno
durante la gravidanza, un elevato peso alla nascita sono emersi
come fattori predisponenti allo sviluppo di T1D. Il parto cesareo è
stato inoltre associato ad una maggiore frequenza di T1D quando
confrontato con il parto spontaneo in nati da genitori con T1D, probabilmente dovuto ad una diversa composizione della flora intestinale del neonato, quale risultato di microorganismi con cui si viene a
contatto al momento del parto, che sono diversi a seconda che esso
si espleti per via vaginale o attraverso taglio cesareo (Bonifacio et
al., 2011).
Numerosi sarebbero i potenziali fattori di rischio che agirebbero durante fasi precoci della vita postnatale. Di particolare interesse in
tale contesto sono stati i risultati di un recente trial che ha valutato
l’effetto di due diverse formule per neonati, una formula standard
(80% proteine del latte e 20% proteine idrolisate) e una formula
alternativa basata su caseina idrolizzata, sulla sieroconversione agli
autoanticorpi del T1D, in neonati a termine con suscettibilità genetica (Knip et al., 2010). L’intervento con formula idrolizzata è stata
associata a riduzione significativa del rischio di sieroconversione. Infatti durante il follow-up, la sieroconversione si è verificata nel 17%
dei bambini del gruppo della formula idrolisata rispetto a un 30% dei
bambini allattati con formula standard. Vari studi hanno inoltre dimostrato una diretta associazione tra deficit di vitamina D e aumentato rischio di sviluppare T1D (Cooper et al., 2011; Sorensen et al.,
2012). Inoltre, come ben emerso da una recente meta-analisi, una
diretta associazione esiste anche tra evidenza molecolare di infezioni da enterovirus e rischio di sviluppare T1D (Yeung et al., 2011). Il
meccanismo attraverso cui gli enterovirus contribuiscono al rischio
di T1D sono complessi, ma probabilmente è importante considerare
l’interazione tra virus, sistema immune, cellule pancreatiche e genotipo del paziente. Recenti studi hanno evidenziato come le infezioni
da enterovirus più che agire da trigger per l’innesco del processo
autoimmune agirebbero sulla progressione dalla comparsa degli autoanticorpi al diabete manifesto vero e proprio.
Novità in tema di patogenesi del T2D e diabete
monogenico
Per quanto riguarda il T2D, studi condotti negli ultimi anni hanno
confermato che, come nell’adulto, anche nel bambino, vi sia un ruolo concomitante di ridotta sensibilità insulinica a livello epatico e
muscolare e deficit nella secrezione insulinica nella patogenesi di
questa forma di diabete (Fig. 1) (D’Adamo and Caprio, 2011).
Vari studi nel corso degli ultimi anni hanno cercato di smascherare
la componente genetica che influenza il rischio di T2D. Tale componente appare essere complessa e studi GWAS hanno portato alla
identificazione di circa 60 loci associati con il T2D, anche se ciascuno di essi ha un minimo contributo sul rischio globale (Ntzani and
Kavvoura, 2012).
In età pediatrica non bisogna dimenticare l’esistenza di altre forme
di diabete, come il diabete monogenico (diabete neonatale, MODY),
che spesso non richiedono terapia insulinica, ma possono beneficiare del trattamento con ipoglicemizzanti orali, quali le sulfaniluree. Recenti studi hanno evidenziato come vi siano numerosi casi
di MODY incorrettamente diagnosticati, come T1D o T2D. Inoltre recenti dati supportano l’idea che la classificazione classica del MODY
e del diabete neonatale su base clinica debba essere sostituita da
una diagnosi e classificazione su base genetico-molecolare, che offrirebbe una migliore e più utile guida per il management clinico
(Hattersley et al., 2009).
Novità in tema di trattamento del diabete in età
pediatrica
Nel corso degli ultimi decenni sono stati anche compiuti numerosi
progressi volti a migliorare il trattamento del T1D nel bambino, con
Figura 1.
Rappresentazione schematica della patogenesi del diabete di tipo 2.
223
M. L. Marcovecchio, F. Chiarelli
l’obiettivo di garantire un controllo metabolico ottimale ed evitare
complicanze a breve e lungo termine. Questi hanno incluso l’introduzione di analoghi insulinici ad azione rapida e lenta nell’ambito di
una terapia basal-bolus (basata sull’uso di analogo insulinico lento,
per coprire il fabbisogno insulinico basale e analoghi insulinici rapidi, per coprire le richieste associate ai pasti), la terapia con microinfusore, e l’introduzione di un monitoraggio continuo della glicemia.
Di crescente interesse sono i vari studi, ancora in corso, volti allo
sviluppo di un ‘pancreas artificiale’, che consiste in un dispositivo
che integra un microinfusore, un sistema di monitoraggio glicemico
e un algoritmo, che aggiusta l’infusione insulinica in base ai valori
glicemici rilevati (Elleri et al., 2011). Un’ulteriore area di particolare
interesse riguarda la valutazione di nuove terapie, come gli immunosoppressori e le incretine, da iniziare subito dopo la diagnosi o anche
prima della diagnosi clinica di T1D, per cercare di bloccare il processo autoimmune, e di preservare la residua produzione insulinica e
la funzionalità β-cellulare (Tooley et al., 2012). Vari trial su terapie
immunosoppressive di breve durata volte a preservare la funzionalità β-cellulare hanno fornito risultati deludenti, come ad esempio i
recenti risultati di un trial di fase III sull’uso di anti-GAD (Ludvigsson
et al., 2012). Tali risultati negativi sottolineano tuttavia l’importanza
di una migliore selezione dei pazienti da sottoporre a tali terapie,
l’importanza di un periodo di trattamento probabilmente più lungo,
cosi come la possibilità che il trattamento ideale non si debba basare su una singola terapia, ma su diversi approcci diretti a diverse
componenti del sistema immune implicate nella patogenesi del T1D.
Per quanto riguarda il trattamento del T2D in età pediatrica, esso
si basa soprattutto su dieta e esercizio fisico (Flint and Arslanian,
2011). La Metformina è l’unico farmaco approvato per l’uso in adolescenti con T2D, mentre in casi specifici può essere necessario il
ricorso alla terapia con insulina. Di recente sono stati pubblicati i
risultati di un ampio trial condotto in vari centri negli USA, che ha
evidenziato come la combinazione di Metformina e Rosiglitazione
fornisce qualche beneficio in più rispetto a Metformina e cambiamenti dello stile di vita (Zeitler et al., 2012). Vari studi sono in corso e
stanno valutando ulteriori approcci terapeutici con farmaci approvati
per l’adulto con T2D, quali ad esempio gli incretino-mimetici (analoghi del GLP-1, DPP-4 inibitori).
Inoltre in termini di nuovi analoghi insulinici, promettenti sono i risultati di studi condotti su pazienti adulti con T1D e T2D sull’uso dell’insulina degludec, un analogo a lunga durata d’azione, con maggiore
stabilità rispetto agli analoghi lenti attualmente in commercio e in
uso. Si attendono però i risultati di studi in età pediatrica.
Conclusioni
Il diabete mellito è senz’altro un’importante endocrinopatia dell’età
pediatrica, la cui diagnosi e trattamento precoci sono di primaria
importanza al fine di evitare la morbidità e mortalità associate con
tale patologia.
I dati epidemiologici di un crescente numero di casi di T1D e T2D
sono allarmanti e suggeriscono l’importanza di ulteriori studi volti
a chiarirne l’eziopatogenesi, al fine di poter implementare strategie
preventive e di trattamento mirate.
Box di orientamento
Che cosa si sapeva prima
Il T1D è stato a lungo considerato come la forma prevalente di diabete nel bambino e la terapia insulinica è da qualche tempo nota come l’unico trattamento di tale patologia.
È noto che la patogenesi del T1D è multifattoriale ma non è del tutto chiara.
Cosa sappiamo adesso
Recenti studi hanno documentato una crescente incidenza del T1D. Inoltre l’epidemia dell’obesità in età pediatrica si è associata con un sempre maggior numero di casi di T2D.
Studi di genetica hanno permesso sia l’identificazione di varie regioni geniche associate con il rischio di sviluppare T1D o T2D che una migliore caratterizzazione delle forme di diabete monogeniche, fondamentale ai fini diagnostici e prognostici.
Vari fattori ambientali, agenti già in epoca pre-natale e durante le fasi precoci postnatali, appaiono essere implicati nella patogenesi del T1D e potrebbero pertanto rappresentare targets di future strategie preventive.
Quali ricadute sulla pratica clinica
Una diagnosi corretta di diabete è di fondamentale importanza per stabilire un trattamento mirato e adeguato.
Gli analoghi insulinici, la terapia con microinfusore, e altre terapie (metformina, sulfuniluree), hanno migliorato il management del diabete in età pediatrica.
Altri studi sono tuttavia necessari per una migliore definizione eziopatogenetica delle varie forme di diabete e per guidare lo sviluppo di nuove strategie
preventive e di trattamento.
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** Recente trial randomizzato multicentrico negli USA sull’uso di metformina e
glitazoni in adolescenti con diabete di tipo 2.
Corrispondenza
Francesco Chiarelli, Clinica Pediatrica, Università di Chieti, Via dei Vestini, 5, 66100 Chieti. Tel.: +39 0871 35815. Fax +39 0871 574831. E-mail:
[email protected]
225
Ottobre-Dicembre 2012 • Vol. 42 • N. 168 • pp. 226-230
diabetologia
Diagnosi del diabete nel bambino:
quando pensare anche al diabete
non-autoimmune
Franco Meschi, Valeria Favalli, Giusy Ferro
Clinica Pediatrica, Istituto Scientifico Universitario, Ospedale San Raffaele, Milano
Sommario
La maggioranza di casi di diabete mellito dell’infanzia e dell’adolescenza è rappresentata dal diabete di tipo 1 (autoimmune). Negli ultimi anni sono però
aumentati in tutto il mondo i casi di diabete a eziologia differente, ovvero diabete mellito di tipo 2 (correlato all’aumento dell’obesità infantile) e diabete monogenico. Riguardo a quest’ultimo, tecniche diagnostiche e conoscenze genetiche sempre più accurate ne hanno permesso una caratterizzazione sempre
più precisa. Anamnesi familiare e personale e caratteristiche cliniche peculiari permettono di formulare un corretto sospetto diagnostico e di orientare la
diagnosi differenziale tra i diversi tipi di diabete, per un adeguato approccio diagnostico terapeutico.
Summary
Type 1 (autoimmune) diabetes still represents the majority of cases of diabetes mellitus in children and adolescents. However, cases of different types of
diabetes have recently increased, mainly type 2 diabetes (due to the global obesity epidemic) and monogenic diabetes. More accurate diagnostic techniques and genetic knowledge have led to a better characterization of monogenic diabetes. Personal/family medical history and specific clinical features
allow a correct clinical suspect and to distinguish between types of diabetes, in order to implement an appropriate diagnostic and therapeutic approach.
Introduzione
Il diabete è definito come un gruppo di patologie metaboliche caratterizzate da iperglicemia, che può derivare da un difetto nella
secrezione di insulina, nell’azione dell’insulina o in entrambi. Diversi meccanismi eziopatogenetici possono condurre allo sviluppo di
diverse forme di diabete.
Tradizionalmente i pediatri hanno avuto esperienza clinica del diabete nella forma definita come insulino dipendente o giovanile e
successivamente, in modo più preciso in base alla patogenesi, come
autoimmune o di tipo 1 (DMT1), contrapposto al diabete di tipo 2
(DMT2), tipico dell’età adulta.
Negli ultimi 10-20 anni con il perfezionamento delle metodiche di
indagine di biologia molecolare e di studio dell’autoimmunità, il
quadro si è modificato, consentendo di identificare nuove forme di
diabete causate da mutazioni monogeniche, in particolare per ciò
che riguarda il diabete neonatale. Si tratta diagnosi rare che hanno
importanti implicazioni patogenetiche e terapeutiche
Inoltre come conseguenza dell’attuale epidemia di obesità è atteso
un importante incremento del diabete tipo 2 già in età adolescenziale.
Obiettivo
Presentare le diverse forme di diabete non autoimmune, l’iter diagnostico da seguire in base al sospetto clinico e le conseguenti possibilità terapeutiche
Modalità di ricerca
I dati per questo articolo sono stati selezionati da una Medline utilizzando le parole “type 2 diabetes children”, “MODY”, “neonatal dia-
226
betes”, con filtro per articoli successivi al 2008. Sono inoltre stati inclusi studi noti agli autori, anche se pubblicati prima di questa data.
I criteri diagnostici per la diagnosi di diabete mellito sono stati rivisti
dall’“American Diabetes Association” nel gennaio 2011 (Tab. I)”; la
novità più rilevante è l’introduzione di un valore di emoglobina glicosilata pari a 6.5% come criterio diagnostico isolato sufficiente alla
diagnosi. (ADA, 2012). Tuttavia ci sono difficoltà nella standardizzazione dei metodi analitici e nella variabilità inter-individuale nella
relazione tra glicemia e HbA1c.
La maggioranza dei casi di DM rientra nelle categorie DMT1 o DMT2,
a seconda che l’eziologia sia il danno auto immune delle beta-cellule pancreatiche, con conseguente mancata produzione di insulina,
o anomalie che si traducono in una resistenza all’azione dell’insulina
e in un’inadeguata aumentata produzione compensatoria.
Il DMT1 rappresenta circa il 90% delle forme ad esordio in età pediatrica; la diagnosi clinica (poliuria, polidipsia, calo ponderale associati a riscontro di iperglicemia) viene confermata dalla presenza di
positività per almeno uno dei noti autoanticorpi contro le beta cellule
pancreatiche: ICA (anti isola pancreatica), IAA (anti insulina), GAD
(anti glutammico decarbossilasi), IA2 (anti fosfo-tirosin-fosfatasi),
ZnT8 (anti trasportatore dello zinco).
Un inquadramento anamnestico (che comprenda anche un’accurata
anamnesi familiare) del paziente affetto da DM è fondamentale per
avanzare un sospetto clinico di diabete non autoimmune. Dati che
devono far porre il sospetto di diabete su base non autoimmune:
• età di esordio inferiore ai 6 mesi;
• insulinoresistenza importante (valori di insulinemia anche 100
volte superiori alla norma) (eventualmente associata a iperlipemia, ipertensione, acanthosis nigricans, policistosi ovarica, steatosi epatica);
Diagnosi del diabete nel bambino: quando pensare anche al diabete non-autoimmune
Tabella I.
Diabete Mellito: criteri diagnostici (IDF/ISPAD/ADA 2011).
Sintomi di diabete + riscontro di glicemia casuale ≥ 200 mg/dL
Oppure
Glicemia a digiuno ≥ 126 mg/dL
Oppure
Glicemia a 2 ore dopo carico orale di glucosio** ≥ 200 mg/dL
Oppure
HbA1c ≥ 6.5%
* per digiuno si intende la non assunzione di calorie per almeno 8 ore.
** il test deve essere eseguito secondo le indicazioni OMS usando un carico di
glucosio pari a 75 g di glucosio dissolto in acqua o 1,75 g glucosio/Kg di peso fino
ad un massimo di 75 g.
• storia familiare di diabete ad eredità autosomica dominante;
• iperglicemia lieve (valori compresi tra 100 mg/dl e 150 mg/dl a
digiuno) in paziente con familiarità;
• fabbisogno insulinico minimo al di fuori della fase di parziale
remissione;
• diabete associato a peculiari caratteristiche sintomatologiche/
cliniche extrapancreatiche (sordità, atrofia ottica, facies sindromica);
• storia di esposizione a farmaci responsabili di tossicità nei confronti delle beta cellule o responsabili dello sviluppo di insulinoresistenza.
Il sospetto clinico è avvalorato dalla negatività dello screening per
autoimmunità correlata a DMT1.
Diabete mellito tipo 2
Sta diventando un problema sanitario sempre più importante in tutto
il mondo, ed è correlato in primo luogo al progressivo incremento
della percentuale di bambini e adolescenti obesi (Gupta et al., 2012).
Negli Stati Uniti il DMT2 in età adolescenziale rappresenta circa il
50% di tutte le diagnosi di DM (Reiner et al., 2006) mentre in Italia
non si è ancora avuto un simile aumento della frequenza.
Diventa quindi importante anche per il pediatra avere le competenze necessarie per effettuare una diagnosi tempestiva di questa
forma di diabete al fine di limitarne i rischi sul breve e sul lungo
termine.
Sospetto DMT2 nei seguenti casi:
• Insorgenza in età puberale (fisiologico picco di insulinoresistenza);
• Associazione con obesità e segni di insulinoresistenza (iperlipidemia, ipertensione, acanthosis nigricans, policistosi ovarica,
steatosi epatica);
• Razza non caucasica;
• Familiarità per DMT2;
• Assenza di autoanticorpi contro le beta cellule pancreatiche e
assenza di HLA predisponente.
Le modalità di presentazione sono:
• iperglicemia occasionale rilevata in corso di esami di routine o
episodi infettivi;
• poliuria, polidipsia, glicosuria ed eventuale chetosi/chetoacidosi
(in questi casi molto spesso viene erroneamente posta diagnosi
di DMT1);
• in rari casi disidratazione severa e potenzialmente fatale (coma
iperglicemico iperosmolare, iperkaliemia).
La modalità di presentazione alla diagnosi influenzerà anche il tipo
di trattamento (terapia dietetica ed esercizio fisico, metformina o
insulina) e gli esami diagnostici da effettuare
Nei soggetti asintomatici con riscontro di iperglicemia occasionale sarà necessaria la conferma del dato su almeno due prelievi ed
eventualmente un test da carico orale con glucosio. Non esiste possibilità di diagnosi genetica in quanto si tratta di forme a eziologia
poligenica con il coinvolgimento di numerosi geni in buona parte
ancora ignoti.
Nei soggetti sintomatici, per la diagnosi è sufficiente un singolo valore di glicemia superiore a 200 mg/dl.
È inoltre fondamentale indagare già al momento della diagnosi la
presenza di eventuali comorbilità e complicanze che possono associarsi al DMT2 attraverso:
•
•
•
•
Misurazione della pressione arteriosa;
Ricerca della microalbuminuria;
Profilo lipidico;
Tests di funzionalità epatica ed eventualmente esame ecografico
del fegato.
Dovranno essere infine effettuati il dosaggio dell’insulinemia e del
C-peptide e lo screening autoanticorpale: la distinzione tra DMT1e
DMT2 non è però sempre così chiara, andandosi a delineare soprattutto negli ultimi anni (a causa dell’aumento del numero dei bambini
sovrappeso) il “diabete doppio” o “diabete uno e mezzo” (Badaru
and Pihoker, 2012).
Si tratta della presenza di autoanticorpi (solitamente uno) contro la
beta cellula in bambini con caratteristiche di insulinoresistenza e
spesso familiarità per DMT2. Un confronto tra pazienti affetti da
DMT2 con o senza autoanticorpi non pare evidenziare differenze in termini di età alla diagnosi, profilo lipidico, pressione, peso
all’esordio, livelli di C-peptide e emoglobina glicosilata (Rheiner et
al., 2006). Un altro studio indica l’importanza di una corretta classificazione eziologica del diabete con esordio in età giovanile: seb-
Figura 1.
Acantosis nigricans in paziente affetto da sindrome da insulinoresistenza severa.
227
F. Meschi, V. Favalli, G. Ferro
bene la maggior parte rientri nelle categorie DMT1 (autoimmunità e
insulinosensibilità) o DMT2 (non autoimmunità, insulinoresistenza),
esiste una significativa percentuale di pazienti che si colloca al confine tra i due gruppi (circa il 20% presenta sia autoimmunità sia
insulinoresistenza, circa il 10% non presenta né autoimmunità né
insulinoresistenza) (SEARCH, Dabelea et al., 2011).
Diabete monogenico
È dovuto a mutazioni in singolo gene, spesso di geni che regolano la
funzione beta cellulare; in rari casi possono essere mutati geni che
si rendono responsabili di quadri di grave insulinoresistenza, oppure
può essere mutato direttamente il gene dell’insulina.
Deve essere sottolineato che le diverse forme di diabete monogenico rappresentano una piccola percentuale (1-5%) di tutti i casi di
diabete (Massa et al., 2005).
Il sospetto clinico deve insorgere nei casi di diabete neonatale, di
diabete associato a particolari caratteristiche extrapancreatiche, di
marcata familiarità per diabete, e di modesta iperglicemia a digiuno.
A questo si andranno poi ad aggiungere elementi che permettano di
escludere DMT1 e il DMT2: assenza di autoanticorpi, obesità, acanthosis nigricans, insulinoresistenza.
La diagnosi di diabete monogenico può essere confermata da specifici test genetici, che andranno effettuati in modo mirato in base
alla storia clinica e all’età di esordio in pazienti selezionati (ISPAD,
2009).
Diabete neonatale
La definizione classica è quella di presenza di iperglicemia persistente (valori superiori a 126 mg/dl dopo 4 ore di digiuno) che necessiti di terapia insulinica per almeno 3 giorni e compaia nel primo
mese di vita (incidenza 1: 90.000 circa in Italia negli anni 20052010) (Iafusco et al., 2011).
In seguito alla definizione di eziologia prevalentemente genetica del
diabete ad esordio nei primi sei mesi di vita, anche grazie ad uno
studio italiano è stata proposta la definizione di Diabete Monogenico
dell’Infanzia, che include tutti i casi di diabete mellito non autoimmune nei quali la diagnosi è effettuata nei primi sei mesi di vita
(ADA, 2012).
Gli esami ematici da effettuare sono: profilo glicemico, dosaggio insulinemia e C-peptide basale e post-prandiale, autoimmunità correlata a DMT1 e fruttosamina.
A seconda dell’esito di tali esami la diagnostica verrà indirizzata
verso una forma di deficit funzionale della beta cellula (insulinemia
e C-peptide indosabile), una forma autoimmune da inquadrarsi verosimilmente in IPEX (sindrome da immunodisregolazione, poliendocrinopatia, enteropatia, legata alla X) o APECED (poliendocrinopatia
autoimmune, candidosi, distrofia ectodermica) o una forma di insulinoresistenza ad esordio precoce (Insulinemia e C-peptide francamente elevati).
Dopo la stabilizzazione del quadro clinico ogni caso di diabete ad
esordio in età inferiore ai 6 mesi (e i genitori) deve essere sottoposto
insieme con i suoi genitori a screening per le alterazioni genetiche
più probabili in base alla storia clinica (Greeley et al., 2011).
Le indagini genetiche unitamente alla clinica permetteranno di differenziare:
• diabete mellito neonatale transitorio: una forma compare entro
le prime 6 settimane di vita e va in remissione entro i primi 18
mesi; una forma transitoria recidivante può invece ricomparire nelle età successive (50% dei casi). Le basi genetiche sono
228
spesso anomalie del cromosoma 6q24 (disomia uniparentale) o
mutazioni in KCNJ11 o ABCC8 (che codificano per le subunità
proteiche Kir 6.2 e SUR1 del canali ATP-potassio dipendenti per
l’insulina) (Greeley et al., 2011);
• diabete mellito neonatale permanente: la maggior parte dei casi
è dovuta a mutazione in eterozigosi o omozigosi di uno dei geni
che codificano per il canale dell’insulina (talvolta inquadrabile
nel contesto della sindrome DEND-Developmental delay, Epilepsy, Neonatal Diabetes) o del gene INS che codifica per l’insulina.
Il deficit assoluto di glucochinasi da omozigosi è una causa non
frequente di diabete mellito neonatale permanente, che determina perdita della funzione di glucose sensor, con conseguente
incapacità a produrre insulina in presenza di iperglicemia (Russo et al., 2012, Massa et al., 2005, Ashcroft and Harris, 1984);
• Sindrome da insulinoresistenza severa: mutazione a carico del
gene che codifica per il recettore dell’insulina. L’esordio in età
neonatale è tipico delle mutazioni responsabili delle espressioni
fenotipiche particolarmente severe (leprecaunismo e sindrome
di Rabson Mendenhall) (Fig. 1).
La terapia con insulina deve essere instaurata precocemente e
mantenuta finché pemane l’iperglicemia, con l’importante eccezione delle mutazioni del canale del potassio, che beneficiano di un
trattamento con sulfaniluree per via orale con migliore controllo glicometabolico e qualità di vita (Tonini et al., 2006). Non esiste invece
terapia efficace per il diabete da mutazioni del recettore per l’insulina: tentativi terapeutici sono stati effettuati con Insulin Like Growth
Factor (IGF1) con incerti risultati.
Diabete familiare (mody: maturity onset diabetes of the young)
È la forma più comune di diabete monogenico in Europa (1-2%) e
rappresenta una forma autosomica dominante di diabete non insulino-dipendente, solitamente diagnosticata entro i 25 anni di vita.
Diverse forme con specifiche mutazioni genetiche vengono raggruppate sotto l’acronimo MODY, e differiscono per a età d’esordio, entità
dell’iperglicemia e caratteristiche cliniche associate.
Molte forme di MODY vengono ancora erroneamente classificate
come DMT1 o DMT2 (Shield et al., 2010); i test genetici molecolari
attualmente disponibili permettono di effettuare diagnosi accurate,
di definire il decorso clinico, il rischio di complicanze e il corretto trattamento (dieta, ipoglicemizzanti orali, insulina). Dato il costo
ancora elevato dell’analisi genetica molecolare, viene sottolineata
l’importanza di effettuare un’accurata selezione clinica dei pazienti
sui quali effettuare tali indagini.
I difetti genetici più frequenti (75-90%), sono mutazioni a carico
della glucochinasi (MODY 2) e a carico del fattore nucleare degli
epatociti (HNF) (MODY 3) (Tab. II) (Thanabalasingham et al., 2011).
Il sospetto di MODY2 insorge in caso di:
• Persistente iperglicemia a digiuno (110-140 mg/dl), confermata
su un periodo di mesi o anni;
• Emoglobina glicosilata lievemente superiore ai limiti (raramente
oltre 7,5%);
• Minimo incremento della glicemia dopo esecuzione di test da
carico orale con glucosio (OGTT);
• Genitori, fratelli, zii, nonni con diagnosi di DMT2 senza complicanze o di diabete gestazionale o di iperglicemia persistente
diagnosticate in età giovanile;
• È raccomandato, prima di procedere a test genetici, effettuare misurazione di glicemia e C-peptide nei genitori: si evidenzierà nella
madre o nel padre la presenza di iperglicemia a digiuno (tranne
rari casi di mutazione de novo nel bambino) (Ellard, 2008).
Diagnosi del diabete nel bambino: quando pensare anche al diabete non-autoimmune
Tabella II.
Caratteristiche del MODY (Maturity Onset Diabetes of the Young).
Mutazione
Prevalenza
Clinica
Età diagnosi
Terapia
MODY 1
HNF 4α
<5%
Marcata sensibilità alle sulfaniluree,
macrosomia fetale e ipoglicemia
neonatale, HDL basse, LDL elevate
Prepubere
dieta/insulina
MODY 2
GCK
30-70%
Iperglicemia a digiuno moderata, scarso
incremento dopo OGTT
Neonatale o prima infanzia
dieta
MODY 3
HNF 1α
30-70%
Bassa soglia renale per glicosuria,
marcata sensibilità alle sulfaniluree
Prima infanzia
ipoglicemizzanti orali, insulina
MODY 4
IPF1
<1%
Agenesia pancreatica
Neonatale (omozigote) /
giovane adulto (eterozigote)
insulina (omozigote) / dieta
(eterozigote)
MODY 5
HNF 1β
5-10%
Malformazioni genitourinarie (cisti renali),
atrofia pancreatica, insufficienza esocrina
In uno studio italiano del 2009, condotto su una popolazione pediatrica emerge che circa un quarto dei pazienti con riscontro di iperglicemia occasionale rientra dei criteri diagnostici per MODY: di questi
il 63% risulta positivo per una mutazione del gene della glucochinasi
(Massa, 2001, Lorini, 2009). La glucochinasi converte il glucosio in
glucosio 6 fosfato, il cui metabolismo stimola la secrezione insulinica da parte delle beta cellule pancreatiche. Un difetto nell’enzima
causa la necessità di una soglia glicemica più elevata per innescare
la secrezione insulinica.
Il MODY 2 costituisce la forma di diabete monogenico più spesso
diagnosticata in stati dove il dosaggio della glicemia viene effettuato
di routine in pazienti asintomatici (Italia, Francia, Spagna), mentre
il MODY 3 rappresenta la forma più frequentemente diagnosticata
laddove si ricorre meno frequentemente al dosaggio della glicemia
come indagine di routine (Thanabalasingham et al., 2011).
MODY 3 e il più raro MODY 1 sono causati da mutazioni a carico
di un fattore di trascrizione epatico che causa una diminuzione del
riassorbimento renale di glucosio. Sono caratterizzate da minima
iperglicemia a digiuno ma importante rialzo dopo OGTT e presenza
di glicosuria per valori glicemici inferiori alla soglia renale.
Le altre forme di devono essere sospettate in base alle caratteristiche cliniche riportate in tabella II.
Negli ultimi anni sono state identificate altre mutazioni, non riportate
in tabella, che rappresentano forme rarissime di diabete monogenico.
dieta/insulina
Mutazioni del gene dell’insulina
Mutazioni del gene dell’insulina sono state individuate come responsabili dell’insorgenza di diabete neonatale o della prima infanzia:
hanno un effetto proteotossico che causa un danno persistente al
reticolo endoplasmatico e risulta in ultima istanza nell’apoptosi della
cellula beta. Studi recenti hanno evidenziato casi in cui il diabete
dovuto a mutazione del gene dell’insulina si presenta al di fuori del
periodo neonatale e viene quindi erroneamente diagnosticato come
diabete di tipo 1. Si tratta di casi rari che devono essere presi in considerazione nel caso di pazienti che risultano negativi allo screening
autoanticorpale (Bonfanti et al., 2009).
Sindrome di Wolfram
Una rara forma di diabete non autoimmune è presente nella sindrome di Wolfram: diabete mellito, atrofia del nervo ottico,diabete insipido, anomalie renali (acronimo DIDMOAD). La sindrome è autosomica recessiva ed il diabete ha patogenesi ignota, con età media di
esordio a 6 anni. L’associazione di diabete non autoimmune e atrofia
del nervo ottico e/o diabete insipido consente di porre la diagnosi
che può essere confermata con la ricerca di mutazione specifica
(Wolframina – WFS1). La sindrome richiede terapia insulinica per
tutta la vita, ha una prognosi severa, con progressione della atrofia
del nervo ottico fino alla cecità, possibilità di insufficienza renale e
deterioramento cognitivo (Greeley et al., 2011).
Box di orientamento
Cosa si sapeva prima
Il diabete in età evolutiva viene tradizionalmente identificato con la forma insulino dipendente, dovuta al danno beta cellulare su base autoimmune
diagnosticabile per la presenza di autoanticorpi specifici (Diabete mellito di tipo 1).
Cosa sappiamo adesso
Il perfezionamento delle tecniche di biologia molecolare e di studio dell’autoimmunità hanno consentito di identificare forme di diabete monogenico
non autoimmune.
L’attuale “epidemia” di obesità porta a prevedere un aumento della prevalenza di diabete di tipo 2 con necessità di sicura diagnosi differenziale rispetto
al tipo 1.
Quali ricadute
La somministrazione di insulina per via sottocutanea rimane la terapia di gran lunga più comune in età evolutiva, tuttavia esistono alternative terapeutiche, come le sulfaniluree nel diabete monogenico neonatale e la metformina nel diabete tipo 2.
229
F. Meschi, V. Favalli, G. Ferro
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Corrispondenza
Franco Meschi, Clinica Pediatrica, Istituto Scientifico Universitario, Ospedale San Raffaele, Via Olgettina 60, 20139 Milano. Tel. +39 02 2643 2624.
Fax 02 2643 4050. E-mail: [email protected]
230
Ottobre-Dicembre 2012 • Vol. 42 • N. 168 • pp. 231-235
diabetologia
Novità nel trattamento del diabete di tipo 1:
dal microinfusore al pancreas artificiale
Stefano Tumini, Silvia Carinci
Clinica Pediatrica, Università di Chieti, Chieti
Riassunto
L’introduzione della Continuous Subcutaneous Insulin Infusion (CSII) e del Continuous Glucose Monitoring (CGM) ha comportato un miglioramento nella
cura del diabete. Tuttavia l’impegno richiesto ai pazienti e/o alle famiglie rimane considerevole (controlli glicemici capillari, calcolo dei carboidrati, gestione
dell’attività fisica e calcolo della dose d’insulina). Il rischio di ipoglicemia rimane inoltre un fattore limitante nel raggiungimento di un controllo glicemico
ottimale e si associa a compromissione della qualità della vita. Le nuove tecnologie hanno riaperto le ricerche di un sistema ad ansa chiusa (Closed-Loop):
il pancreas artificiale. Teoricamente l’utilizzo di un sistema CGM Real-Time (RT-CGM) associato ad un microinfusore, gestiti da un algoritmo computerizzato,
è oggi fattibile. Per un uso clinico diffuso saranno necessari molti studi per superare le attuali limitazioni legate alla latenza con la quale viene rilevata la
glicemia nel comparto interstiziale rispetto al sangue circolante e auspicabilmente saranno utili insuline con farmacocinetica ancora più favorevole rispetto
agli attuali analoghi rapidi.
Summary
Since their introduction in clinical practice, CSII (Continuous Subcutaneous Insulin Infusion) and CGM (Continuous Glucose Monitoring) have contributed
to a significant improvement in daily care of diabetes. However, they require an intensive involvement of patients and families (self-monitoring of blood
glucose, carbohydrates counting, management of physical activity and decisions about insulin dose). The risk of hypoglycaemia remains a limiting factor
in the achievement of an optimal glycaemic control and it leads to a decreased quality of life. New technologies have stimulated research towards the
development of a closed-loop system: the artificial pancreas. In theory, the use of a real-time CGM system (RT-CGM), associated to a pump, managed by
a computerized algorithm, is feasible. For a larger clinical daily use, further studies are needed to overcome the actual technical limitations, consisting in
delayed detection (by glucose sensor) of glucose value in the interstitial fluid, despite of rapid changes of glucose concentration in blood. Moreover new
insulin molecules having a better farmacokinetic profile will be useful in clinical practice.
Obiettivo
L’obiettivo di questo articolo è di evidenziare le enormi ricadute che
l’introduzione delle nuove tecnologie avrà nel prossimo futuro sulla
cura del diabete in età pediatrica.
Metodologia della ricerca bibliografica
La ricerca degli articoli rilevanti è stata effettuata sulla banca bibliografica Medline utilizzando il motore di ricerca PubMed. Sono state
utilizzate le seguenti parole chiave: CSII, CGM, RT-CGM, Closed-loop.
Sono stati considerati gli articoli comparsi negli ultimi 5 anni. È stato
dato particolare rilievo alle linee guida delle società scientifiche (SIEDP, AACE, ESPE-LWPES-ISPAD) e alle revisioni sistematiche (Health
Technology Assessment, Cochrane database of systematic reviews).
Sono stati citati alcuni articoli storici.
cializzazione del primo analogo rapido nel 1996, il potenziale terapeutico della microinfusione è stato rivalutato suscitando nuovo
interesse anche in età pediatrica (Pickup et al., 2002) (Fig. 1). Gli
analoghi rapidi hanno ridotto le dimensioni del deposito di insulina
nel sito di infusione rendendo più prevedibile l’assorbimento della
stessa anche in età pediatrica.
La terapia con CSII ha presentato negli ultimi dieci anni una progressiva diffusione in età pediatrica, dimostrandosi sicura ed efficace
anche per il notevole miglioramento delle caratteristiche tecniche
dei microinfusori (Tab. I).
Nel contempo sono state diffuse linee guida nazionali ed internazionali che hanno contribuito a definire le modalità di utilizzo anche
considerando il rapporto costo/efficacia (Pinelli et al., 2008; Cummins et al., 2010; Grunberger et al., 2010).
Microinfusione
Cenni storici
Gli obiettivi della terapia del diabete prevedono il mantenimento dei
livelli glicemici in un range prossimo ai livelli fisiologici (DCCT, 1993)
evitando le iperglicemie e particolarmente nei bambini in età prescolare le ipoglicemie protratte, che condizionano in maniera negativa lo sviluppo cognitivo.
Dopo l’introduzione nella pratica clinica della Continuous Subcutaneous Insulin Infusion (CSII) negli anni Ottanta e con la commer-
Figura 1.
Principali tappe nello sviluppo tecnologico della CSII e del CGM.
231
S. Tumini, S. Carinci
Tabella I.
Caratteristiche tecniche generali dei microinfusori attualmente in commercio.
Caratteristica
Descrizione
Incremento basale
Incremento dell’erogazione basale a partire da 0,025 U/ora
Basale temporanea
Possibilità di modulare l’erogazione basale in maniera temporanea per intervalli prestabili (minimo 15-30’)
rispetto alla basale attuale
Incremento dei boli
Da un minimo di 0,05 U
Fattore di correzione per i carboidrati
Può essere inserito manualmente o attraverso i software di gestione
Durata di erogazione del bolo
Da 1 a 40”
Peso a vuoto
80-115 gr
Insulina residua
Tiene conto dell’insulina precedentemente erogata per il calcolo dei boli
Profili basali
È possibile preprogrammare profili basali diversi da utilizzare in giorni specifici
Tipi di bolo
Standard, esteso, doppio (esteso + standard), correttivo, onda quadra, ecc.
Sofware di gestione
Generalmente in versione per il paziente e per il medico, con la possibilità di visualizzare i dati in remoto
Selezione dei pazienti
La selezione dei pazienti pediatrici deve tener conto di caratteristiche individuali e familiari. Ai pazienti e alle famiglie è richiesto un
grado elevato di motivazione e una spiccata capacità di autogestione. Infatti in molti casi sono necessarie anche 6-8 glicemie al giorno
(Tab. II). Nel contempo le aspettative dei bambini e delle famiglie
Tabella II.
Indicazioni all’uso e caratteristiche dei centri e pazienti/famiglie che
utilizzano la CSII.
Indicazioni per l’uso della CSII nelle varie età
Età prescolare e scolare
Ipoglicemia ricorrente
Marcata variabilità glicemica
Basse dosi di insulina con difficoltà di
frazionamento
Agofobia
Età neonatale
Adolescenza
Ipoglicemia ricorrente
Fenomeno alba
Insulino resistenza
Miglioramento della qualità della vita
devono essere realistiche in quanto spesso la CSII viene considerata
come di per sé in grado di ottimizzare il controllo glicemico.
Negli ultimi anni si è diffuso l’uso della CSII nei pazienti in età prescolare, visti gli evidenti vantaggi in termini di prevenzione delle ipoglicemie e miglioramento della qualità della vita (Phillip et al., 2007)
(Misso et al., 2010). In epoca neonatale la CSII si è affermata come
terapia di elezione (Phillip et al., 2007) (Fig. 2).
La diffusione della CSII ha permesso di definire dei pattern di fabbisogno basale caratteristici delle varie fasce di età con indubbio
vantaggio nell’approccio clinico pratico nell’avvio della CSII (Maahs
et al., 2010).
I fattori predittivi del successo terapeutico della CSII (riduzione
dell’HbA1c e delle ipoglicemie, miglioramento della qualità della
vita) sono rappresentati da (Shalitin et al., 2010):
• alti livelli di HbA1c all’inizio della terapia (in questi pazienti si
osserva una significativa e persistente riduzione dell’HbA1c);
• età prescolare;
• elevata frequenza dell’autocontrollo glicemico (SMBG);
• bassi livelli di HbA1c all’inizio della terapia (in funzione del grado
dell’elevata motivazione questa tipologia di pazienti).
In termini assoluti il miglioramento dei livelli di HbA1c è modesto
(0,3-0,9%) ma bisogna tener conto degli obiettivi terapeutici specifici ed individuali prefissati, in particolare della riduzione marcata
degli episodi di ipoglicemia grave (Misso et al., 2010) (Pańkowska
et al., 2009).
Scarso controllo metabolico
Caratteristiche e prerequisiti dei centri che utilizzano la CSII
Team pediatrico specializzato anche in
grado di gestire l’istruzione
Reperibilità 24/24 ore
Interazione con personale scolastico
Caratteristiche e prerequisiti dei pazienti e delle famiglie
Consenso e assenso all’utilizzo
Elevato livello di motivazione
Elevato livello di istruzione
all’autogestione
Propensione all’esecuzione di 5-8
glicemie al giorno
232
Figura 2.
A: Sensore per glicemia Medtronic
ENLITETM (Medtronic Minimed, Northridge, USA);
B: Microcannula per infusione sottocutanea d’insulina ComfortTM Short (Unomedical, Lejre, Denmark);
C: Ago per iniezione sottocutanea di
insulina 0,23 mm, 32 G.
Novità nel trattamento del diabete di tipo 1: dal microinfusore al pancreas artificiale
Monitoraggio continuo della glicemia
Vantaggi dell’RT-CGM
Il monitoraggio glicemico continuo utilizza un sensore sottocutaneo
che rileva i livelli di glucosio nei liquidi interstiziali e fornisce una stima della glicemia plasmatica. La differente concentrazione nei due
distretti (plasma e liquidi interstiziali) e la latenza con la quale i livelli
di glucosio nei liquidi interstiziali si allineano a quelli plasmatici, rendono indispensabile una calibrazione attraverso l’esecuzione di glicemie capillari con reflettometri convenzionali (Mazze et al., 2009).
Lo studio STAR 3 ha dimostrato l’efficacia con l’uso assiduo del monitoraggio RT-CGM associato a CSII nel migliorare i livelli di HbA1c
rispetto alla terapia multiiniettiva (Bergenstal et al., 2010) (Szypowska et al., 2012).
I vantaggi dell’RT-CGM sono stati evidenziati anche in studi su casistiche di pazienti in buon controllo metabolico in cui si riducono soprattutto le escursioni glicemiche (Beck et al., 2009). Ulteriori studi
con RT-CGM hanno evidenziato come il problema delle ipoglicemie
notturne rappresenti ancora un ostacolo al raggiungimento di glicemie vicine alla norma (Roup et al., 2010). I sistemi attualmente in
commercio sono il Paradigm Veo (Medtronic, Northridge, CA, USA),
l’Animas Vibe (Johnson & Johnson, New Brunswick, NJ, USA) e il
DexCom SevenPLUS CGM system che può essere utilizzato anche
nei pazienti in terapia multiiniettiva (Carg et al., 2011).
Aspetti tecnici
Allo steady state la glicemia nei fluidi interstiziali è sovrapponibile a
quella plasmatica ma in corso di rapido aumento o diminuzione della
stessa la differenza tra i due distretti è direttamente proporzionale
alla velocità di variazione dei livelli glicemici plasmatici (Cengiz et
al., 2009). Le decisioni cliniche richiedono la conferma dei livelli di
glucosio tramite esecuzione della glicemia capillare. I livelli di glucosio interstiziale presentano una latenza di 15-25 minuti rispetto alla
glicemia plasmatica. L’errore percentuale medio degli attuali sistemi Continuous Glucose Monitoring (CGM) si aggira intorno al 15%
(Cengiz et al., 2009). Il monitoraggio continuo rileva l’andamento
delle glicemie in maniera non evidenziabile con le metodologie tradizionali (Fig. 3).
Monitoraggio glicemico “real-time”
Dopo l’introduzione dei primi modelli, come ad esempio il MiniMed
Continuous Glucose Monitoring System (CGMS©) (Northridge, CA)
che misuravano i livelli di glucosio ogni 5 minuti per tre giorni e che
fornivano l’analisi a posteriori ad uso prevalente dei centri di diabetologia, sono comparsi sul mercato i modelli Real-Time-CGM (RTCGM), che presentano caratteristiche tecniche evolute (peso 7-10
gr, trasmissione dei dati tramite tecnologia wireless (generalmente
onde radio)) e utilizzo di metodiche elettrochimiche basate sulla glucosio-ossidasi. I sistemi attualmente in commercio (Paradigm Veo
(Medtronic, Northridge, CA, USA), l’Animas Vibe (Johnson & Johnson, New Brunswick, NJ, USA) e il DexCom SevenPLUS CGM system)
consentono una rilevazione continua della glicemia per intervalli di
tempo di 7-10 giorni. I dati vengono visualizzati direttamente su un
apposito display o sul display del microinfusore e consentono al
paziente di adeguare l’infusione di insulina anche sulla base della
velocità con la quale la glicemia aumenta o si riduce che viene segnalata con apposite frecce di tendenza. I sistemi attualmente in uso
permettono di impostare limiti di sicurezza e quindi di segnalare gli
episodi di ipo o iperglicemia con appositi allarmi.
Figura 3.
Monitoraggio glicemico continuo (7 giorni) in un paziente con ipoinsulinizzazione prevalentemente notturna ed ampia variabilita glicemica
(Ipro TM, Medtronic Minimed, Northridge, CA, USA).
Rilevazione non invasiva delle ipoglicemie
Recentemente è stato proposto un interessante prototipo non invasivo per la rilevazione degli episodi di ipoglicemia notturna, basato sulla rilevazione di parametri vitali quali: frequenza cardiaca,
sudorazione, temperatura cutanea e tremori attraverso l’utilizzo di
normali sensori transcutanei (privi quindi di aghi sottocutanei) ed
un algoritmo in grado di prevedere le ipoglicemie (Schechter et al.,
2012).
Verso la chiusura dell’ansa: CGM + CSII
I progressi realizzati nel campo della microinfusione e del monitoraggio glicemico hanno portato all’implementazione di funzioni
evolute combinando i due sistemi (Tab. III). Il primo risultato è stato quello della commercializzazione di un sistema (Paradigm Veo –
Medtronic, Inc., Northridge, CA) in grado di sospendere l’erogazione
di insulina in caso di ipoglicemia (O’Grady et al., 2012). Tali sistemi si
sono dimostrati efficaci nel ridurre il numero di episodi ipoglicemici
notturni (Choudhary et al., 2011).
Un’ulteriore evoluzione verso la realizzazione di un pancreas artificiale che utilizzi sistemi commerciali è rappresentato dall’integrazione di CSII e CGM attraverso un algoritmo residente su smartphone e attivo solo durante la notte (Medtronc Portable Glucose Control
System – PGCS) (O’Grady et al., 2012). Tale finestra di applicazione
temporale è favorevole in quanto le escursioni glicemiche sono minori, permettendo di superare i limiti di latenza con i quali i sistemi
CGM stimano la glicemia plasmatica e il ritardo con il quale gli attuali analoghi rapidi vengono assorbiti. Inoltre, per gli stessi motivi
gli algoritmi utilizzati sono relativamente più semplici.
Per le stesse ragioni si ritiene che nel prossimo futuro i sistemi semiautomatici, cioè con annuncio manuale del pasto potranno evolversi
più rapidamente rispetto ai sistemi 24h closed-loop in quanto permettono di anticipare la dose preprandiale manualmente, evitando
l’eccessiva latenza nel rilevare le escursioni glicemiche dei sistemi
completamente automatici.
Al momento le esperienze con sistemi bi-ormonali (insulina e glucagone) sono state realizzate solo in casistiche limitate di pazienti
adulti (El Khatib et al., 2009) (Jacobs et al., 2011). Allo stesso modo
gli studi con sistemi closed-loop ed infusione intraperitoneale attraverso pompe impiantabili in addome sono utilizzati solo da alcuni
gruppi di ricerca anche per il rischio di occlusioni e sovrainfezioni
associati a quest’ultimo tipo di approccio.
233
S. Tumini, S. Carinci
Tabella III.
Esperienze con sistemi Closed-loop nei bambini e negli adulti.
Esperienze in età pediatrica
Sistema
Metodologia
Riferimento
Sospensione per ipoglicemia
Sospensione notturna dell’erogazione d’insulina
in caso di ipoglicemia
Danne et al., 2011; Buckingham et al.,
2009; Buckingham et al., 2010
Closed-loop notturno
Il sistema controlla in autonomia la glicemia
durante le ore notturne
Hovorka et al., 2010
Closed-loop con segnalazione preprandiale manuale
Il paziente informa il sistema dell’intenzione di
cominciare il pasto
Elleri et al., 2011
Closed-loop
Il sistema gestisce in completa autonomia le
glicemie
Weinzimer et al., 2008
Closed-loop bi-ormonale
Il sistema controlla in autonomia la glicemia
attraverso l’infusione d’insulina o, in caso di
ipoglicemia, di glucagone
El Khatib et al., 2009; Jacobs et al., 2011
Closed-loop con infusione intraperitoneale
L’erogazione d’insulina avviene attraverso una
pompa impiantabile intraperitoneale
Renard et al., 2010
Esperienze in età adulta
Prospettive future
Figura 4.
Utilizzo del microinfusore in un caso di diabete neonatale.
Gli sviluppi attesi per i sistemi CGM riguardano i miglioramenti
dell’accuratezza, precisione e affidabilità complessiva. Sono in atto
studi sulla fattibilità della rilevazione CGM in prossimità della sede di
infusione dell’insulina (Rodriguez et al., 2011). Tali studi potrebbero
essere il preludio all’introduzione di un’unica via di infusione/stima
glicemica interstiziale e viste le dimensioni raggiunte da microcannule e sensori tale possibilità non appare remota (Fig. 4). Mentre per
la via d’infusione sottocutanea sono importanti gli studi su nuove
insuline ad azione ultra rapida e con inizio di azione molto anticipato rispetto agli attuali analoghi rapidi (Pohl et al., 2012) (Steiner
et al., 2008). Queste insuline permetterebbero di superare i limiti
imposti dalle caratteristiche farmacocinetiche degli attuali analoghi
rapidi troppo “lenti” per mimare la secrezione insulinica fisiologica
prandiale, riducendo nel contempo le dimensioni del deposito sottocutaneo e conseguentemente il rischio di ipoglicemia legato alla
variabilità di assorbimento.
Box di orientamento
Che cosa si sapeva prima
La microinfusione era considerata terapia di nicchia ed associata a quadri più gravi di malattia.
Cosa sappiamo adesso
Le nuove tecnologie stanno rivoluzionando la cura del diabete del bambino.
La microinfusione è entrata a pieno titolo tra le opzioni terapeutiche per la cura del diabete in età pediatrica.
I sistemi RT-CGM permettono di prevenire le ipoglicemie che condizionano la possibilità di ottenere valori glicemici vicini alla norma.
Gli ostacoli allo sviluppo di sistemi closed-loop sono legati alla farmacocinetica degli attuali analoghi rapidi e ai limiti tecnici dei sistemi RT-CGM.
Quali ricadute sulla pratica clinica
I servizi dedicati alla cura del diabete nel bambino devono assicurare un percorso educativo che consenta di fornire ai pazienti e alle famiglie le migliori
opzioni terapeutiche comprese la CSII e il CGM.
Le figure professionali anche territoriali coinvolte nella cura del diabete dovranno diventare più confidenti con le nuove tecnologie e conoscerle ciascuna
per il proprio ambito di intervento.
234
Novità nel trattamento del diabete di tipo 1: dal microinfusore al pancreas artificiale
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Corrispondenza
Stefano Tumini, Clinica Pediatrica, Ospedale policlinico, Via dei Vestini 5, 66100 Chieti. Tel.: + 39 0871 358014/338 7621977. Fax +39 0871 574831.
E-mail: [email protected]
235
Aprile-Giugno 20112012
Ottobre-Dicembre
• Vol.• Vol.
41 •42
N. •162
N. 168
• Pp.• xx-xx
pp. 236-242
nefrologia
frontiere
Nuove frontiere per la terapia genica:
enzimi artificiali per correggere
le mutazioni genetiche
Claudio Mussolino
Center of Chronic Immunodeficiency, University Medical Center Freiburg, Freiburg, Germania
Sommario
Le malattie genetiche sono causate da alterazioni nella sequenza del DNA genomico di una cellula. Tali cambiamenti (o mutazioni) possono interessare
singoli nucleotidi così come lunghi tratti di DNA e nei casi più comuni aboliscono la funzione di un gene. La terapia genica ha come scopo la cura di un
difetto genetico, utilizzando un frammento di DNA contenente la sequenza nucleotidica del gene “corretto” come agente terapeutico. Tale concetto è stato
applicato nell’uomo per la cura di varie malattie genetiche, utilizzando vettori virali per introdurre il DNA “corretto” nella cellula bersaglio, in modo da ripristinare l’espressione del gene mancante. Tuttavia, quest’approccio non è esente da rischi; il sistema immunitario può, infatti, reagire contro questi vettori
virali o, in alcuni casi, il meccanismo parzialmente stocastico, con cui alcuni vettori si integrano nel genoma, può portare all’inattivazione di geni essenziali
per la vita della cellula o alla pericolosa attivazione di proto-oncogeni. In quest’articolo saranno trattati metodi alternativi e potenzialmente più sicuri, che
possono essere applicati per la “cura” di difetti genetici in un campo della terapia genica noto come “ingegneria genomica” evidenziando potenzialità
terapeutiche e rischi ad essa associati.
Summary
Genetic disorders are due to alterations of the genomic DNA within a cell. These changes (or mutations) can affect single nucleotides as well as long DNA
tracts leading to the loss of a gene function in the most common cases. The aim of gene therapy is the treatment of a genetic defect by using a DNA fragment containing the nucleotide sequence of the “corrected” gene as therapeutic agent. This concept has been applied in humans for the treatment of a
variety of genetic disorders using viral vectors to introduce the “corrected” DNA fragment into the target cells to restore the expression of the mutated
gene. However, this approach has risks; the immune system can react against these viral vectors and the non-random integration patterns used by some
viral vectors to integrate into the host genome can result in the inactivation of endogenous genes important for cell viability or in the activation of protooncogenes. In this article, we reviewed alternative and potentially safer methods of “genome engineering”, a field of gene therapy aiming at the development of a “cure” for genetic disorders, and the risks associated with these approaches.
Introduzione
Le malattie genetiche sono causate da difetti nel DNA (mutazioni)
che possono interessare singoli nucleotidi o ampie sequenze geniche e nei casi più comuni aboliscono la funzione di un determinato
gene all’interno di una cellula, inducendo l’insorgere di determinate
patologie genetiche. La terapia genica ha come scopo la cura di
tali difetti genetici, utilizzando del DNA come agente terapeutico
contenente la sequenza corretta del gene mutato. Il DNA corretto
deve essere tuttavia trasferito all’interno della cellula affetta e ciò è
possibile utilizzando vettori virali, ovvero virus modificati in laboratorio il cui genoma è stato modificato per eliminare i geni codifanti
proteine dannose e per inserire il DNA codificante per la proteina
terapeutica. Tali vettori, una volta entrati nella cellula bersaglio, integrandosi o meno nel genoma ospite, ristabiliranno la funzione del
gene mutato. Negli ultimi venti anni, tale approccio è stato ampiamente applicato anche nell’uomo, sopratutto per alcune malattie
genetiche che interessano il sistema immunitario (Aiuti et al., 2009;
Boztug et al., 2010; Hacein et al., 2010). In tali situazioni, cellule
estratte da un individuo malato sono state coltivate in laboratorio,
modificate ex vivo con vettori retrovirali in modo da ristabilire la
funzione genica mancante e trapiantate nuovamente nel paziente di origine. Questo tipo di approccio, che si basa sul trapianto
di cellule autologhe, rappresenta ad oggi un’alternativa più sicura
236
rispetto al trapianto di cellule eterologhe estratte da un donatore
sano, in quanto quest’ultimo approccio è ancora associato ad un
alto tasso di mortalità dovuto principalmente ai regimi di condizionamento a cui è sottoposto il paziente prima del trapianto, che
sono altamente tossici, e alla malattia del trapianto contro l’ospite
(GvHD), che si verifica quando le cellule del donatore, aggrediscono
i tessuti del paziente che è riconosciuto come estraneo. Tuttavia,
nonostante i primi successi, il rischio che il vettore virale possa integrarsi in porzioni “funzionali” del genoma, alterando l’espressione di oncogeni o onco-soppressori è alto. Casi di leucemia indotti
dal vettore sono stati riportati, ridimensionando le speranze offerte
da tale concetto terapeutico (Stein et al., 2010; Hacein-Bey-Abina
et al., 2003; Hacein-Bey-Abina et al., 2008) in particolare utilizzando vettori gamma-retrovirali che integrandosi preferenzialmente in
prossimità di geni correlati all’insorgenza di tumori, ne alterano i
livelli di espressione, promuovendo lo sviluppo di neoplasie. Questo
genere di tossicità, denominata mutagenesi inserzionale (Fig. 1),
può essere limitata utilizzando vettori che presentano un profilo di
integrazione potenzialmente più sicuro come i lentivirus o gli alfaretrovirus (Montini et al., 2006; Cattoglio et al., 2007; Suerth et al.,
2012) o utilizzando vettori non integranti come gli adenovirus che
tuttavia possono indurre reazioni del sistema immunitario (Teramato et al., 2000).
Questi approcci descritti, prevedono che s’inserisca nella cellula
Nuove frontiere per la terapia genica: enzimi artificiali per correggere le mutazioni genetiche
Figura 1.
Fenomeno della mutagenesi inserzionale.
Il vettore virale integrante, una volta entrato nella cellula, si integrerà in
maniera stocastica nel genoma ospite. Se l’integrazione avviene in una
regione che codifica per un gene oncosoppressore (sinistra) è probabile
che il gene venga inattivato. Tuttavia, l’integrazione può anche avvenire
in prossimità di oncogeni inattivi (destra). In tal caso, elementi genetici
presenti nel genoma del vettore virale essenziali per l’espressione del
gene terapeutico, come ad esempio il promotore o l’enhancer, possono
indurre la riattivazione dell’oncogene. Entrambi questi meccanismi facilitano l’insorgenza di tumore.
questo meccanismo sia molto efficiente e rapido, esso purtroppo
non è preciso, poiché alcuni nucleotidi sono inseriti o escissi per
permettere che la giunzione possa avvenire in modo efficiente.
Pertanto, se la lesione del DNA avviene all’interno di una sequenza
codificante per un gene, il riparo genererà in esso una mutazione
in esso. Il meccanismo di ricombinazione omologa, invece, è attivo
principalmente durante le fasi S e G2 del ciclo cellulare e utilizza
il cromatidio fratello come stampo per il riparo del DNA. In questo
caso, il complesso proteico (MRE11/RAD50/NBS1 (MRN) inizia il riconoscimento del DNA danneggiato, rendendolo a singolo filamento
e successivamente alcuni fattori proteici, come RAD51, BRCA1 e
BRCA2, permettono a quest’ultimo di contattare il cromatidio fratello
che contiene la corrispondente sequenza omologa, che può essere
utilizzata da stampo per il riparo preciso del DNA danneggiato (San
Filippo et al., 2008). In cellule umane, la giunzione delle estremità
non omologhe (non homologous end joining) è il meccanismo di
malata un frammento di DNA esogeno, contenente la sequenza corretta dell’intero gene da rimpiazzare, dalla quale poi sarà espressa
la proteina mancante. Tuttavia, il gene mutato è lasciato inalterato
nel genoma del paziente. Un’alternativa a tale approccio consiste,
invece, nella correzione diretta della mutazione nel gene alterato. A
questo scopo, si utilizzano enzimi artificiali capaci di tagliare il DNA
del paziente in prossimità della mutazione da correggere. Introducendo nella cellula, insieme a tali enzimi, anche un piccolo frammento di DNA “corretto”, quest’ultimo sarà utilizzato dalla cellula
come stampo per correggere la mutazione presente in quella specifica posizione del genoma del paziente. Tale strategia rientra nel
campo della terapia genica noto come “ingegneria genomica” che
sfrutta i naturali meccanismi di riparo del DNA, per introdurre modificazioni specifiche e stabili nel genoma bersaglio e che potrebbe
rappresentare un nuovo potenziale terapeutico in futuro.
Il riparo del dna
In ogni organismo, la stabilità del proprio patrimonio genetico è un
requisito essenziale affinché esso possa essere trasferito alle generazioni future. Tuttavia, ogni giorno il DNA subisce lesioni dovute a
fattori ambientali e metabolici che, se non riparate, potrebbero avere
conseguenze serie per la vita stessa delle cellule. Di conseguenza, meccanismi di riparo estremamente efficienti si sono evoluti
per permettere alla cellula di rispondere rapidamente a tali lesioni.
Quando il DNA genomico di una cellula subisce un danno, questo è
riparato principalmente utilizzando due meccanismi: (i) la giunzione
delle estremità non omologhe (non homologous end joining) e (ii) la
ricombinazione omologa (Kass, 2010). Il primo è il meccanismo più
diffuso in eucarioti multicellulari ed è attivo in tutte le fasi del ciclo
cellulare, ma è principalmente utilizzato durante le fasi G0, G1 e la
fase S iniziale. Quando avviene una rottura nella doppia elica di DNA,
le estremità libere vengono riconosciute da fattori proteici essenziali
che sono altamente conservati in varie specie, come Ku70/Ku80.
Questi, legandosi alla protein-chinasi DNA-dipendente (DNA-PKcs),
formano un complesso enzimatico che, in seguito, richiama altri fattori come nucleasi, polimerasi e ligasi, che ultimano il processo di
giunzione delle due estremità di DNA libere (Lieber, 2008). Sebbene
Figura 2.
Meccanismi di riparo del DNA.
Quando il DNA genomico è danneggiato, la cellula cercherà di riparare
il danno, attivando dei meccanismi specifici molto efficienti che garantiscono l’integrità del patrimonio genetico della cellula. Due meccanismi
sono utilizzati con maggior frequenza: la giunzione delle estremità non
omologhe (non homologous end joining) (sinistra) e la ricombinazione
omologa (destra). Il primo è attivo durante tutto il ciclo cellulare ed è
il meccanismo preferito per il riparo in eucarioti multicellulari. Questo
meccanismo genera tuttavia mutazioni, in quanto pochi nucleotidi sono
rimossi o aggiunti durante la fase di riparo per permettere la giunzione
delle estremità libere di DNA. La ricombinazione omologa invece è attiva principalmente durante la fase S e G2, quando diventa disponibile
il cromatidio fratello, che è utilizzato come stampo per correggere in
modo preciso il DNA danneggiato. Tuttavia, tale meccanismo di riparo
è impiegato più raramente. In figura sono indicati i fattori proteici più
importanti che intervengono durante i due meccanismi di riparo e lo
spessore delle frecce indica la frequenza con cui i due meccanismi
sono utilizzati.
237
C. Mussolino
riparo, mentre la ricombinazione omologa è utilizzata molto raramente (Fig. 2).
Ingegneria genomica
La capacità di introdurre modifiche sito-specifiche in un genoma ha
rappresentato un grande passo in avanti per i ricercatori interessati
nella ricerca di base e nella terapia genica. L’ingegneria genomica
sfrutta i meccanismi naturali che la cellula dispone per il riparo del
DNA appena descritti, al fine di indurre modifiche permanenti nel genoma bersaglio. Affinché ciò sia possibile, il ricercatore deve mimare
la creazione di un danno nella doppia elica del DNA, nella posizione
dove si desidera introdurre una modifica. A questo punto la cellula
bersaglio cercherà di riparare il danno al DNA utilizzando i meccanismi naturali di riparo menzionati in precedenza, che possono essere
sfruttati quindi per indurre la cellula a modificare il proprio genoma
nella regione prescelta. In generale, il meccanismo della giunzione
delle estremità non omologhe (non homologous end joining) è quello più usato in cellule di mammiferi. Come discusso, questo tipo di
riparo per risaldare le due estremità di DNA creerà delle mutazioni,
aggiungendo o rimuovendo alcuni nucleotidi. Pertanto, il ricercatore
può indurre la cellula ad utilizzare questo meccanismo per l’inattivazione mirata di un certo gene (Fig. 3, Box A) al fine di studiarne, ad esempio, la funzione in un organismo modello (Bibikova et
al., 2002) o per esplorare nuovi concetti terapeutici. Strategie più
complesse possono anche essere impiegate per indurre delezione
di lunghi frammenti genomici (Sollu et al., 2010), inducendo due
punti di rottura del DNA in zone diverse su uno stesso cromosoma.
In tal caso, il frammento di DNA compreso tra i due siti di rottura
sarà eliminato ottenendo una delezione (Fig. 3, Box B). Tuttavia, studi
pionieristici in questo campo, effettuati nel laboratorio della Dr.ssa
Jasin, hanno dimostrato che, creando una lesione nella doppia elica
di DNA in una specifica posizione e, contestualmente, fornendo un
frammento di DNA esogeno omologo al sito bersaglio, la frequenza
di ricombinazione omologa in tale regione viene drammaticamente
aumentata in cellule umane (Smih et al., 1994; Smih et al., 1995)
e tale meccanismo di riparo viene preferito rispetto alla giunzione
non omologa. In tale situazione, il frammento di DNA esogeno sarà
utilizzato come stampo per il riparo e l’informazione genetica in esso
contenuta sarà trasferita nel genoma ospite. Tale meccanismo può
essere quindi sfruttato per correggere una mutazione nel caso in
cui il DNA esogeno contiene la sequenza corretta (Fig. 3, Box C) o
per inserire un nuovo gene in una porzione ‘sicura’ (Lombardo et
al., 2011) del genoma bersaglio per scopi terapeutici o biotecnologici (Fig. 3, Box D). Per questo tipo di approccio, generare il DNA
esogeno, che dovrà fungere da templato per il riparo, è un processo
cruciale e complesso, in particolare quando tale DNA è inteso sotto
forma di plasmide (Bibikova et al., 2003). Pertanto, negli ultimi anni
sono stati riportati nuovi approcci per semplificare questa strategia,
utilizzando frammenti di DNA lineare con corte sequenze omologhe
al sito bersaglio (Orlando et al., 2010) o ancora corti oligonucleotidi a
singolo filamento (Radecke et al., 2010; Chen et al., 2011).
Poiché per indurre una modifica nel genoma è essenziale introdurre
una lesione sito-specifica nel genoma bersaglio, grandi sforzi sono
stati compiuti negli ultimi anni per generare enzimi artificiali capaci
di tagliare il DNA genomico in sequenze a scelta, in modo da permettere modifiche permanenti in genomi di diversa complessità. Tali
enzimi, noti anche come nucleasi artificiali, sono dimeri in cui ogni
monomero è composto da una porzione capace di legare il DNA in
modo specifico, e da un dominio che opera il taglio nella doppia
elica di DNA. Ad oggi, diverse classi di nucleasi artificiali sono state
238
Figura 3.
Modifiche sito-specifiche del genoma.
Creando un danno al DNA in una porzione specifica si attivano i meccanismi di riparo che possono essere utilizzati per creare modifiche stabili nel genoma bersaglio. Il danno al DNA sarà principalmente riparato
attraverso il meccanismo di giunzione delle estremità non omologhe
(non homologous end joining) (sinistra) che, inducendo mutazioni (*),
può essere utilizzato per inattivare un gene (Box A) o, inducendo due
tagli nel cromosoma bersaglio, per creare una delezione (D; Box B).
Fornendo alla cellula un DNA esogeno omologo al sito danneggiato, il
meccanismo della ricombinazione omologa sarà preferito (destra) e tale
strategia può essere utilizzata per correggere una mutazione nel caso in
cui il DNA esogeno contiene la sequenza corretta (Box C) o per inserire
un nuovo gene in un sito ‘sicuro’ del genoma bersaglio (Box D).
introdotte a tale scopo. In particolare, tre diversi tipi sono studiati
maggiormente: le nucleasi a “dita di zinco” (ZFNs), quelle basate su
struttura “TALE” (TALENs) e le Meganucleasi (MNs; Fig. 4). In questo
articolo ci interesseremo principalmente delle due classi più diffuse,
le ZFNs e le TALENs, in quanto le MNs rappresentano una classe di
nucleasi con minore flessibilità ad essere manipolate, al fine di riconoscere una sequenza di DNA a scelta e pertanto meno utilizzate nel
campo della terapia genica.
Nucleasi artificiali a “dita di zinco” (ZFNs)
Le nucleasi artificiali più comuni sono le zinc finger nucleases (ZFNs),
composte dal dominio di taglio derivante dall’enzima di restrizione
FokI e il dominio di legame al DNA, formato da moduli con struttura a
“dita di zinco” (Urnov et al., 2010). Tali moduli sono capaci di legare
in una prima approssimazione tre o quattro nucleotidi adiacenti e
il legame avviene attraverso alcuni residui amminoacidici ‘chiave’,
che contattano direttamente il solco maggiore del DNA. Sostituendo tali amminoacidi ‘chiave’, è possibile modificare la specificità
del singolo modulo. Tali modifiche hanno permesso la creazione di
moduli sintetici che riconoscono quasi tutte le 64 possibili triplette
nucleotidiche, e la loro naturale modularità permette la fusione in
serie di moduli con differente specificità, al fine di creare domini di
legame al DNA capaci di legare sequenze di DNA a scelta. Poiché
FokI è un enzima dimerico, affinché il taglio possa avvenire, due nucleasi devono essere generate in modo da legare sequenze di DNA
separate da un opportuno spaziatore, all’interno del quale il dominio
di taglio può dimerizzare e tagliare il DNA (Fig. 4a). Tuttavia, nella
pratica, creare dei domini di legame a dita di zinco che riconoscano
efficientemente una sequenza di DNA prescelta è un processo lungo
e laborioso, in quanto ogni modulo mantiene le sue caratteristiche
di legame solo nel contesto dei moduli adiacenti. Ciò significa che
Nuove frontiere per la terapia genica: enzimi artificiali per correggere le mutazioni genetiche
2012) (Fig. 3b). A differenza dei moduli a dita di zinco, l’interazione
con il DNA dei singoli moduli TALE non è ostacolata dai domini vicini
e, pertanto, generare nuove nucleasi artificiali basate su struttura
TALE (TALENs) con diverse specificità è semplice e veloce e può
essere fatto in ogni laboratorio, utilizzando tecniche di clonaggio
standard (Engler et al., 2008).
Specificità delle nucleasi artificiali
Figura 4.
Tipi di nucleasi artificiali più diffusi.
(a) Nucleasi a ‘dita di zinco’ (ZFNs). Tali nucleasi sono enzimi dimerici in
cui ogni monomero è composto dal dominio di taglio derivante dall’enzima di restrizione FokI (in rosso) e dal dominio di legame al DNA (in
blu) formato in genere da 3 o 4 moduli a ‘dita di zinco’, ognuno capace
di riconoscere una specifica tripletta di DNA. Il taglio avviene nella sequenza di DNA che separa i due siti bersaglio dei singoli monomeri.
(b) Nucleasi con struttura ‘TALE’ (TALENs). In questo tipo di nucleasi artificiali il dominio di taglio è legato a moduli di legame al DNA con struttura ‘TALE’. Un singolo modulo lega un solo nucleotide e in genere fino
a 18 moduli sono fusi insieme per creare il dominio di legame al DNA.
(c) Meganucleasi (MNs). Tali nucleasi presentano una struttura proteica
molto complessa, in cui il dominio di taglio è incorporato nella molecola
insieme al dominio di legame al DNA e pertanto questi enzimi sono
meno flessibili per essere modificati al fine di legare una sequenza bersaglio a scelta.
la specificità di un modulo può cambiare a seconda dei moduli che
ad esso sono fusi e questo fenomeno può portare alla formazione di
nucleasi non specifiche per la sequenza desiderata, ma che possono tagliare il genoma anche in sequenze diverse, creando tossicità.
Inoltre, non tutte le possibili triplette di nucleotidi possono essere,
ad oggi, riconosciute da moduli a dita di zinco e questo complica
ulteriormente il disegno di ZFN con nuove specificità di sequenza.
Nucleasi artificiali basate su struttura “tale”
(TALENs)
Recentemente è stato scoperto un nuovo dominio di legame al
DNA isolato da fattori di trascrizione presenti in batteri del genere
Xanthomonas, chiamati transcription activator-like effectors (TALE)
(Boch et al., 2009; Moscou, 2009). Anche questo dominio di legame
al DNA è modulare, ma ogni singolo blocco è capace di riconoscere un singolo nucleotide; pertanto esistono soltanto quattro diversi
moduli TALE capaci di riconoscere i quattro nucleotidi (Boch, 2010;
Mussolino and Cathomen, 2012). Così come per le ZFNs, anche i
singoli moduli TALE possono essere legati in serie per formare domini di legame al DNA, che riconoscono una sequenza di DNA a scelta,
che è poi unito al dominio di taglio di FokI (Mussolino and Cathomen,
La possibilità di applicare tecniche di ingegneria genomica in organismi modello e, in futuro, anche nell’uomo è strettamente dipendente dall’utilizzo di nucleasi artificiali estremamente specifiche,
che sono capaci idealmente di tagliare un singolo sito in genomi
complessi, come quello umano. Molti progressi sono stati fatti per
rendere le nucleasi artificiali più specifiche, in modo da annullare
o limitare il taglio in regioni genomiche non specifiche, i cosiddetti
off-targets, che possono indurre effetti deleteri sulla cellula bersaglio, come l’inattivazione di geni essenziali per la vita della cellula
o traslocazioni cromosomiche, aumentando il rischio potenziale di
indurre tumori. A tal scopo, sono state introdotte mutazioni nel dominio di taglio, in modo da indurre la dimerizzazione di FokI, solo
quando due eterodimeri sono nella giusta configurazione spaziale,
come mostrato in figura 4 (Miller et al., 2007; Szczepek et al., 2007).
Sebbene tale strategia abbia permesso di limitare notevolmente la
citotossicità associata all’uso di nucleasi artificiali, in particolare per
ZFNs, essa non è del tutto abolita e ancora molto lavoro deve essere
compiuto per rendere tali nucleasi adatte all’utilizzo più diffuso in
clinica. Con l’introduzione delle TALENs, un notevole passo avanti
sembra essere stato fatto verso una piattaforma più sicura e meno
citotossica. Gli off-targets occorrono principalmente in regioni di
DNA che presentano un certo grado di identità nucleotidica rispetto
al sito bersaglio. Ciò è stato osservato in vitro (Pattanayak et al.,
2011) e in vivo (Gabriel et al., 2011), in due studi in cui le ZFNs
analizzate hanno mostrato di tagliare principalmente i rispettivi siti
bersaglio sono stati rivelati numerosi tagli in posizioni differenti del
menoma, ma con sequenze nucleotidiche quasi identiche al bersaglio originale. Pertanto, poiché ogni monomero ZFN riconosce
soltanto 12 nucleotidi nella configurazione più comune, è lecito supporre che le nucleasi TALEN abbiano una maggiore specificità, in
quanto generalmente tali monomeri sono disegnati in modo da riconoscere sequenze bersaglio di 19 nucleotidi. A supporto di tale teoria, una comparazione tra ZFNs e TALENs, specifiche per una stessa
regione nel genoma umano, ha evidenziato meno citotossicità nelle
cellule trattate con TALENs (Mussolino et al., 2011), e simili risultati
sono stati ottenuti in vivo in modello animale di ratto (Tesson et al.,
2011). Inoltre, gli stessi ricercatori hanno anche dimostrato che due
bersaglio quasi identici, differenti per un solo nucleotide, sono efficientemente discriminati da TALENs, ma non da ZFNs (Mussolino et
al., 2011). Tuttavia, ad oggi, è ancora molto complicato identificare
i siti off-targets. Bisogna infatti tenere presente che il taglio in siti
off-targets avviene con una frequenza molto più bassa rispetto al
sito bersaglio anche soltanto in una cellula su mille o meno. Eventi
così rari possono portare a conseguenze deleterie, come l’immortalizzazione di cellule staminali che possono indurre tumori, come
è stato riportato in seguito all’utilizzo di vettori retrovirali integranti
(Modlich et al., 2006); ed è dunque essenziale sia migliorare la specificità associata alle nucleasi artificiali disponibili, sia investire in
tecnologie che facilitino l’identificazione di off-targets rari. Inoltre,
idealmente, il profilo di specificità delle nucleasi artificiali dovrebbe
essere testato direttamente nel tipo cellulare che interessa al fine
terapeutico, e non può essere testato in modelli animale, in quanto il
239
C. Mussolino
differente contesto genomico ed epigenetico risulterebbe nell’identificazione di sequenze off-targets che potrebbero persino essere
assenti nell’uomo.
Applicazioni
Le tecniche di ingegneria genomica, ad oggi, sono utilizzate sempre più frequentemente e ciò è principalmente dovuto alla sempre
maggiore disponibilità di nucleasi artificiali che possono anche essere acquistate da aziende specializzate. ZFNs o TALENs sono state utilizzate in molti laboratori al fine di studiare la funzione di un
gene in un determinato organismo o per creare modelli cellulari di
malattie umane o ancora per generare cellule isogeniche (Dreyer
2012; Soldner et al., 2011) o mammiferi transgenici (Hockemeyer
et al., 2011; Tesson et al., 2011; Wood et al., 2011; Meyer et al.,
2010; Bedell et al., 2012). Dopo i risultati positivi ottenuti in vitro,
dove ZFNs sono state utilizzate per modificare il genoma umano
in maniera sito-specifica, attivando il meccanismo di riparo della
ricombinazione omologa (Bibikova et al., 2001; Porteus, 2003; Urnov
et al., 2005), queste nucleasi artificiali sono state applicate anche
in vivo in modello animale di emofilia B (Li et al., 2011), in cui la
mutazione nel gene del Fattore IX è stata corretta direttamente nelle
cellule epatiche del topo, in modo da ottenere i livelli circolanti di tale
molecola capaci di fornire un beneficio terapeutico (>1-5%).
Invece di correggere la mutazione nel gene dove essa è presente, un approccio alternativo è quello di trasferire il DNA per l’intero
gene terapeutico, in un punto ‘sicuro’ del genoma umano, ottenendo
un’integrazione specifica e non stocastica, come nel caso di utilizzo
di vettori virali integranti. Per questo obiettivo è stato usato un sito
sul cromosoma 19 umano, nel primo introne del gene PPP1R12C
(meglio conosciuto come AAVS1), che rappresenta il naturale sito
di integrazione del virus adeno-associato di tipo 2 (AAV2), un virus
non patogeno per l’uomo. È stato infatti provato che l’introduzione di
geni esogeni in questo sito permette l’espressione del gene inserito
a lungo termine e senza interferire con geni vicini (Lombardo et al.,
2011; Smith et al., 2008) e tale concetto può essere pertanto esteso
per fini terapeutici.
Le tecniche di ingegneria genomica possono essere anche impiegate
nel campo della terapia tumorale, con lo scopo di creare linfociti capaci di riconoscere in modo specifico un tumore ed eliminarlo. Uno
studio pre-clinico effettuato in Italia ha dimostrato che tale approccio
è possibile, sfruttando ZFNs e il meccanismo di ricombinazione omologa per creare linfociti tumore-specifico (Provasi et al., 2012). In tale
studio è stato osservato che linfociti T umani possono essere privati
del recettore delle cellule T (TCR) endogeno che può poi essere sostituito con un TCR artificiale capace di riconoscere in modo specifico le
cellule del tumore di Wilms. Tali linfociti tumore-specifici, trapiantati
in un modello animale di topo con tumore di Wilms, hanno efficientemente eliminato la formazione neoplastica, fornendo nuove speranze
per un approccio simile nell’uomo.
Gli studi riportati hanno anche fornito nuove speranze per l’applicazione di tecniche di ingegneria genomica nell’uomo. Infatti, considerando i grandi successi in modello animale, ZFNs sono state
applicate in clinica per inattivare il gene umano CCR5, che è un corecettore utilizzato da alcuni ceppi del virus HIV per infettare le cellule
T. Quando tale recettore non è presente sulla membrana cellulare, il
virus non può entrare nella cellula bersaglio e l’infezione non può
pertanto aver luogo. La prova che tale concetto può avere rilevanza
terapeutica è stata fornita dal “Berlin Patient” (Hutter et al., 2009).
Tale paziente era affetto da AIDS e, in seguito allo sviluppo di leucemia mieloide acuta (AML), fu sottoposto a trapianto allogenico di
240
cellule staminali ematopoietiche da un donatore omozigote, per una
mutazione che inattiva il gene CCR5 (la mutazione 32). Tre anni dopo,
il paziente non ha alcun segno di infezione virale da HIV e presenta
solo linfociti T circolanti, che non hanno il recettore CCR5. L’esperienza clinica di questo singolo paziente ha aperto la strada a due
studi pre-clinici, in cui è stato dimostrato che tecniche di ingegneria
genomica possono essere impiegate con finalità terapeutiche, inattivando CCR5 direttamente in cellule T (Perez, Wang et al., 2008) o
in cellule staminali ematopoietiche (Holt, Wang et al., 2010). Questi
studi hanno fornito la prova di principio che tale approccio può essere
applicato all’uomo e, nel 2009 e 2010, due trial clinici (NCT00842634
and NCT01044654) sono iniziati con l’intento di estrarre cellule CD4+
da pazienti affetti da HIV, modificare il loro genoma utilizzando ZFNs
in modo da inattivare il gene CCR5 e ritrapiantarle in maniera autologa nei pazienti. Tale approccio è al momento sotto osservazione per
valutarne soprattutto la sicurezza, ma i primi risultati hanno mostrato
miglioramenti importanti in molti parametri clinici associati con un
declino dell’infezione virale. Sebbene le ZFNs utilizzate in questi studi
sull’uomo hanno mostrato di avere effetti off-targets e una certa citotossicità (Gabriel et al., 2011; Pattanayak et al., 2011; Mussolino et
al., 2011), ciò non ha limitato la loro applicazione in clinica su un bersaglio cellulare, le cellule T, che ha un basso potenziale proliferativo.
Tuttavia queste cellule sono ciclicamente rinnovate nell’organismo e
pertanto tale approccio non rappresenta una cura definitiva all’infezione da HIV. In futuro, tale concetto terapeutico dovrebbe essere applicato ad un bersaglio cellulare più rilevante, come le cellule staminali ematopoietiche che, una volta rese HIV-resistenti, produrrebbero
per tutta la vita del paziente cellule T resistenti all’infezione virale.
Tuttavia l’alto potenziale proliferativo di queste cellule, associato al
profilo genotossico delle ZFNs utilizzate per inattivare il gene CCR5
discusso precedentemente, rende questo approccio ancora troppo
rischioso per applicazioni sull’uomo. Pertanto, una piattaforma che
associa una minore tossicità e una maggiore specificità come le
TALENs può essere determinante in futuro per identificare una cura
definitiva per l’infezione da HIV.
Prospettive
L’ingegneria genomica negli ultimi anni ha ottenuto successi di primaria importanza. I risultati pre-clinici per il trattamento di immunodeficienze acquisite o di tumori sono estremamente promettenti
e l’evidenza che cellule umane parzialmente differenziate, come i
linfociti T, possano essere estratte da pazienti, modificate ex vivo in
modo da renderle resistenti ad infezioni virali e ritrapiantate a finalità terapeutiche, rappresenta un traguardo senza precedenti. Con
l’avvento di nuovi tipi di nucleasi artificiali, che riducono l’intrinseco
potenziale genotossico associato a tali enzimi, è lecito immaginare
che in futuro tali tecniche possano essere applicate in cellule ad alto
potenziale proliferativo, come le cellule staminali ematopoietiche, in
modo da fornire una cura definitiva per pazienti che soffrono di immunodeficienze croniche o acquisite al momento incurabili. Tuttavia,
poiché le TALENs sono state studiate da molto meno tempo rispetto
alle ZFNs, c’è ancora molto da capire per evidenziare vantaggi e
limiti associati a questa nuova piattaforma per modificare il genoma.
In particolare, le TALENs sono enzimi di notevoli dimensioni, rispetto
alle ZFNs, e la loro struttura altamente ripetuta rende il loro trasporto
nelle cellule bersaglio molto complicato. Inoltre, un chiaro profilo di
siti off-targets per TALENs non è stato ancora riportato, ma i primi
risultati ottenuti, in termini di specificità e di genotossicità, suggeriscono che tali nucleasi artificiali abbiano un notevole potenziale per
essere applicate in futuro anche sull’uomo.
Nuove frontiere per la terapia genica: enzimi artificiali per correggere le mutazioni genetiche
Box di orientamento
Che cosa si sapeva prima
Le malattie genetiche sono causate da alterazioni nella sequenza del DNA genomico di una cellula (mutazioni), che possono essere ‘curate’ utilizzando
tecniche di ingegneria genomica. In tali approcci una molecola di DNA, che contiene la sequenza corretta del gene da rimipiazzare, è inserita in un
vettore virale, che è utilizzato per infettare la cellula malata. Dopo l’infezione, la sequenza del gene corretto, contenuto nel DNA virale, sarà utilizzata
per esprimere il prodotto proteico deficiente nella cellula.
Cosa sappiamo adesso
L’ingegneria genomica ha compiuto grossi passi avanti negli ultimi anni. Oggi sono disponibili enzimi artificiali capaci di tagliare un genoma complesso,
come quello umano contenente 3 miliardi di nucleotidi, in una sequenza ben precisa. Una volta indotto un danno nel DNA, la cellula attiva i naturali meccanismi di riparo del DNA, che possono essere utilizzati al fine di introdurre modifiche sito-specifiche nel genoma. Tale concetto può essere applicato
a scopi terapeutici per correggere, ad esempio, una mutazione direttamente nel gene dove essa è presente o per inattivare un gene dannoso o ancora
per inserire un nuovo gene in una porzione ben precisa del genoma ospite.
Quali ricadute sulla pratica clinica
Risultati estremamente incoraggianti hanno provato che le tecniche di ingegneria genomica possono essere utilizzate con successo, sia in studi preclinici per la cura di tumori e di malattie genetiche, come l’emofilia B, che in trial clinici per la cura dell’infezione da HIV nell’uomo. Con l’avvento di
nucleasi artificiali più specifiche e metodi più robusti per il controllo degli effetti collaterali, associati all’uso di tali enzimi, è possibile in futuro che tali
metodiche siano applicate per il trattamento di un numero sempre maggiore di malattie genetiche.
Bibliografia
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** Questo articolo dimostra che tecniche di ingegneria genomica possono essere
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** Questo articolo dimostra che tecniche di ingegneria genomica possono essere
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*** Questo articolo rappresenta la base razionale dal quale si sono mossi gli
studi volti ad inattivare il gene CCR5 come terapia per l’infezione da HIV.
Kass EM, Jasin M. Collaboration and competition between DNA double-strand
break repair pathways. FEBS Lett. 2010;584:3703-8.
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*** Questo è il primo articolo in cui ZFNs sono utilizzate in vivo in modello animale di Emofilia B e il loro utilizzo è associato ad un beneficio terapeutico.
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*** Questo articolo ha dimostrato per la prima volta l’esistenza di domini di
legame al DNA basati su struttura TALE.
Mussolino C, Cathomen T. TALE nucleases: tailored genome engineering made
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Mussolino C, Morbitzer R, et al. A novel TALE nuclease scaffold enables high
genome editing activity in combination with low toxicity. Nucleic Acids Res.
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*** Questo articolo ha evidenziato come TALENs siano superiori a ZFNs in termini
di tossicità.
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into mammalian genomes using donors with limited chromosomal homology.
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Pattanayak V, Ramirez CL, et al. Revealing off-targets cleavage specificities of
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** Questo articolo rappresenta la base pre-clinica che ha portato ai trial clinici
per il trattamento dell’infezione da HIV.
241
C. Mussolino
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Provasi E, Genovese P, et al. Editing T cell specificity towards leukemia by zinc
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** In questo articolo che descrive uno studio pre-clinico si dimostra che
l’ingegneria genomica può essere utilizzata anche per la cura del tumore.
Radecke S, Radecke F, et al. Zinc-finger nuclease-induced gene repair with oligodeoxynucleotides: wanted and unwanted target locus modifiRouet P, Smih F,
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* Questo articolo dimostra che la frequenza di riparo del DNA, utilizzando il meccanismo di ricombinazione omologa, può essere aumentata anche in cellule
umane, ponendo le basi per le tecniche di ingegneria genomica volte alla correzione di difetti genetici.
San Filippo J, Sung P, et al. Mechanism of eukaryotic homologous recombination. Annu Rev Biochem. 2008;77:229-57.
Smih F, Rouet P, et al. Double-strand breaks at the target locus stimulate gene
targeting in embryonic stem cells. Nucleic Acids Res. 1995;23:5012-9.
* Questo articolo dimostra che la frequenza di riparo del DNA, utilizzando il meccanismo di ricombinazione omologa, può essere aumentata anche in cellule
umane, ponendo le basi per le tecniche di ingegneria genomica volte alla correzione di difetti genetici.
Smith JR, Maguire S, et al. Robust, persistent transgene expression in human
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Wood AJ, Lo TW, et al. Targeted genome editing across species using ZFNs and
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Corrispondenza
Claudio Mussolino, Laboratory of Cell and Gene Therapy, Center for Chronic Immunodeficiency, University Medical Center Freiburg, Engesserstr. 4,
D-79108 Freiburg, Germania. Tel +49 (0)761 270-77738. Fax +49 (0)761 270-77744. E-mail: [email protected]
242
Ottobre-Dicembre 2012 • Vol. 42 • N. 168 • pp. 243-252
focus
La promozione della salute riproduttiva
Pierpaolo Mastroiacovo
Alessandra Lisi International Centre for Birth Defects and Prematurity, Roma
Premessa
Il pediatra, insieme a ginecologi-ostetrici e altri operatori sociosanitari, si adopera per migliorare la salute delle future generazioni.
La sua missione è: più neonati e più bambini in buona salute; più
di ieri, e domani più di oggi. Anche in presenza di classici indicatori
sanitari soddisfacenti, come quelli raggiunti in Italia, e in molti paesi
Tabella I.
Esiti avversi della riproduzione.
Infertilità1 e subfertilità2
Aborto spontaneo
Gravidanze indesiderate o intempestive3
Interruzione di gravidanza per motivi psico-sociali4
Complicanze della gravidanza, tra cui:
Gravidanza ectopica
Diabete gestazionale
(Pre-)eclampsia
Distacco di placenta
Insufficienza placentare
Rottura precoce membrane
Malformazioni
Basso peso neonatale dovuto a:
Parto prematuro
Restrizione della crescita fetale
Disabilità congenite
Motorie (es.: paralisi cerebrale)5
sviluppati (es.: mortalità infantile), la nostra missione ci spinge ad
intravedere nuovi orizzonti ed affrontare nuove sfide. Ebbene, una
delle ultime sfide della medicina, che vede il pediatra in prima linea,
è la “promozione della salute riproduttiva”1, che può essere definita
come “un continuum integrato di interventi socio-sanitari che promuovendo la salute delle persone in età fertile, di genere femminile
e maschile, sin dalla giovane età e fino a poco prima di avere un
figlio, ha come obiettivo specifico quello di prevenire o ridurre il rischio di alcuni esiti avversi della riproduzione”. Questo nuovo campo
di azione è pieno di promesse e può permetterci di compiere un
ulteriore passo in avanti verso l’obiettivo finale: ridurre ulteriormente
mortalità e morbilità materno-infantile.
Migliorare la salute materno-infantile significa ridurre il rischio individuale che ha ogni donna (coppia) di avere uno o più esiti avversi
della riproduzione, e quindi ridurre la loro incidenza nella popolazione generale. Gli esiti avversi della riproduzione sono molteplici
(Tab. I) e possono essere definiti come “eventi indesiderati, patologici o a rischio di patologia, derivanti dal desiderio riproduttivo (es.:
infertilità, aborto spontaneo) e/o dal suo esito (es.: nati con malformazione o pretermine)”.
Le motivazioni che giustificano l’inserimento della promozione della
salute riproduttiva nel continuum degli interventi socio-sanitari di
promozione della salute in generale e di quella materno-infantile in
particolare, sono quattro: (a) un fatto arcinoto, ma trascurato, (b)
nuove o più solide nozioni emerse negli ultimi anni, (c) una barriera,
(d) una riflessione.
Il fatto arcinoto: la nostra esistenza biologica inizia con il concepimento. Questo è fuori di dubbio, al di là di ogni disquisizione etica
sulla definizione di inizio vita, di persona umana o altro. Il concepimento e le primissime tappe dello sviluppo embrionale sono essenziali per il nostro futuro benessere. È nei primissimi giorni dopo
Cognitive - comportamentali
Tumori congeniti
SIDS6
Malattie genetiche
Cromosomiche
Monogeniche
Note alla Tabella I
1
Infertilità: mancato inizio della gravidanza dopo 12 mesi o più di rapporti sessuali
non protetti nelle fasi fertili del ciclo mestruale (Anonimous, 2008).
2
Subfertilità: mancato inizio della gravidanza dopo 6 mesi di rapporti sessuali non
protetti nelle fasi fertili del ciclo mestruale (Gnoth et al., 2005).
3
Inserita nell’elenco degli esiti avversi della riproduzione, poiché rappresenta un
fallimento del controllo della fertilità da parte della donna (coppia).
4
Inserita nell’elenco degli esiti avversi della riproduzione, poiché rappresenta un
fallimento del controllo della fertilità da parte della donna (coppia).
5
La paralisi cerebrale almeno nel 90% dei casi ha un’origine prenatale (Mc Lennan, 1999; Strijbis et al., 2006).
6
Dopo le campagne Back-To-Sleep il fumo in gravidanza rappresenta il principale
fattore di rischio per la SIDS. Evidenze sperimentali sugli animali da laboratorio
suggeriscono un effetto nocivo della nicotina sui meccanismi di controllo centrale
della respirazione (Abbott-Winzer-Serhan, 2012).
Figura 1.
Rappresentazione schematica dei tempi in cui si verificano i principali
eventi biologici che avvengono subito dopo il concepimento, espressi in
età embrionale e in età gestazionale. Si può notare che la prima visita
ostetrica, anche quando è effettuata precocemente, risulta posteriore
alle principali tappe di sviluppo embrionale.
243
P. Mastroiacovo
Tabella II.
Elenco dei principali effetti sulla riproduzione di stili di vita non salutari1.
Fattore di rischio
Rischio aumentato di:
Fumo
Infertilità e subfertilità (Augood et al., 1998); aborto spontaneo (Nielsen et al., 2006); gravidanza ectopica,
placenta previa, distacco di placenta, rottura prematura delle membrane (Castles et al., 1999); malformazioni
congenite (Hackshaw et al, 2011) in particolare schisi orali (Little et al., 2004); natimortalità (Flenady et al.,
2011); prematurità (Shah-Bracken, 2000); basso peso neonatale (McCowan et al., 2009) (dose dipendente e
per esposizione continua in gravidanza); SIDS (Mitchell-Milerad, 2006); obesità infantile (Ino, 2010). Possibile
subfertilità e infertilità in età adulta nei figli (Shrestha et al., 2011).
Fumo passivo
Natimortalità, malformazioni (Leonardi-Bee et al., 2011); basso peso neonatale (Liu e Chen, 2009).
Alcol
Uso eccessivo (> 50 gr/die): sindrome feto-alcolica, 5% degli esposti (Ornoy-Ergaz, 2010). Uso eccessivo
occasionale (>50 gr): dati pochi chiari: possibili effetti sul neuro-sviluppo (Henderson et al., 2007), un ampio
studio di coorte Danese osserva aumento di convulsioni neonatali ed epilessia per esposizioni 11-16° sett.
(Sun et al., 2009). Uso variabile ad effetto dose, con soglia: nati SGA e pretermine più frequenti sopra 10 gr/
die per SGA e di 18 gr/die per i pretermine (Patra et al., 2011). Uso moderato (10-20 gr/die): disturbi cognitivi e
comportamentali (O’Leary-Bower, 2102). Uso scarso (< 100 gr/sett. e mai > 20 gr in unica occasione): dati incerti
e non conclusivi per disturbi cognitivi e comportamentali (Anonimo, 2012). Inoltre: possibile subfertilità maschile e
femminile, aborti spontanei, ridotto volume spermatico nei figli ventenni (Ramlau-Hansen et al., 2010).
Caffeina
Possibile subfertilità (Stanton et al., 1995; Bolúmar et al., 1997)
Sostanze psico-attive
Cocaina: placenta previa (Faiz-Ananth, 2003), SGA, prematurità (Gouin et al., 2011); possibili deficit cognitivi
(Williams-Ross, 2007). Cannabis: riduzione del peso neonatale (-131 gr per uso 4 volte a settimana) (English et
al., 1997), possibile effetto sul comportamento e salute mentale (Jutras-Aswad et al., 2009). Eroina e metadone:
riduzione peso neonatale (-489 gr e -279 gr rispettivamente) (Hulse et al., 1997), mortalità neonatale (Hulse et al.,
1998). Amfetamine: basso peso neonatale (-279 gr), prematurità, SGA (Ladhani et al., 2011). Possibile aumento di
cardiopatie (McElatthon et al., 1999) e di problemi neuro-comportamentali (Oei et al., 2012).
Alimentazione non-mediterranea2
Possibili esiti: ridotta fertilità (Toledo et al., 2011, Vujkovic et al., 2010); preeclampsia (Brantsaeter et al., 2009,
Borgen et al., 2012); labioschisi e difetti del tubo neurale (Carmichael et al., 2012); spina bifida (Vujkovic et al.,
2009); pressione più alta in gravidanza (Timmermans et al., 2011); parto pretermine (Mikkelsen et al., 2008,
Haugen et al., 2008); peso neonatale inferiore (Timmermans et al., 2012); asma e atopia (Chatzi et al., 2008).
Esercizio fisico
Minimo: diabete gestazionale (Tobias et al., 2011). Eccessivo nel lavoro: nati pretermine, effetto modesto se
esistente (Bonzini et al., 2007).
Sovrappeso e obesità
Aborti spontanei anche ripetuti (Boots-Stephenson, 2011); varie complicazioni della gravidanza (Heslehurst et
al., 2008); diabete gestazionale – anche per sovrappeso (Torloni et al., 2009a); preeclampsia (O’Brien et al.,
2003); alcune malformazioni congenite – per sovrappeso DTN e cardiopatie (Stothard et al., 2009); parto cesareo,
elettivo e di urgenza (Poobalan et al., 2009); natimortalità (Flenady et al., 2012); nati pretermine spontanei
e indotti – anche sovrappeso (McDonald et al., 2010, Torloni et al., 2009b); inizio tardivo e durata inferiore
allattameno (Lepe et al., 2011). Possibile: infertilità (anche maschile), macrosomia, parto cesareo più frequente,
emorragie post-partum, e varie complicanze della gravidanza (Vasudevan et al., 2011).
Magrezza eccessiva
Nati pretermine spontanei ed indotti, e nati di basso peso (Han et al., 2011). Possibile: infertilità, aborti spontanei
(Davies, 2006); gastroschisi (Siega et al., 2009).
Violenza domestica
Nati di basso peso, pretermine, SGA (Shah et al., 2010). Possibili: gravidanze non desiderate, complicanze della
gravidanza, infezioni trasmesse sessualmente (ACOG, 2012).
Note alla Tabella II.
1
Gli esiti avversi della riproduzione elencati in questa tabella sono quelli più documentati e per i quali esiste una revisione sistematica con metanalisi. Fanno eccezione gli
esiti preceduti dall’aggettivo possibile che sono suggeriti da revisioni narrative o singoli studi molto recenti che meritano in futuro conferme più solide.
2
Per alimentazione non-mediterranea, definita variamente, si intende in genere un pattern alimentare a basso contenuto di frutta, verdura, cereali, pesce, olio e zuccheri
complessi, e alto contenuto di carne, burro, grassi, zuccheri semplici e addizionati alle bevande.
Abbreviazioni. SIDS: morte improvvisa del lattante; SGA: nati con peso inferiore alla norma per l’età gestazionale.
il concepimento che si verifica la riprogrammazione epigenetica
(Morgan et al., 2005), la formazione della placenta, e la formazione
degli organi (Fig. 1). Se vogliamo attuare programmi di prevenzione
primaria e ridurre il rischio di infertilità, aborti spontanei o indotti,
complicanze della gravidanza o di condizioni neonatali e infantili che
riconoscono il loro primum movens prima della gravidanza o nei primissimi giorni dopo il concepimento bisogna pensarci prima. La prima visita ostetrica è tardiva per realizzare una prevenzione primaria
a tutto campo degli esiti avversi della riproduzione.
Le nuove o più solide nozioni: da tempo sapevamo che alcuni interventi di prevenzione di uno o più esiti avversi della riproduzione dovevano essere realizzati ben prima del concepimento. Basti
244
pensare alla vaccinazione anti-rosolia, alla supplementazione con
acido folico, al trattamento di condizioni croniche (es.: diabete, iperfenilalaninemia), e alla consulenza genetica. Più di recente abbiamo
imparato che gli stili di vita non salutari, ovvero fumo, uso anche non
eccessivo di bevande alcoliche, uso di sostanze psico-attive, abuso
di caffè, dieta non-mediterranea (o comunque scorretta) e scarso
esercizio fisico con conseguente sovrappeso /obesità, e per finire,
lo stress e la violenza domestica rappresentano fattori di rischio per
uno o più esiti avversi della riproduzione (Tab. II). Infine, si stanno delineando nuove conoscenze sul ruolo della riprogrammazione
dell’epigenoma, sia nei gameti prima del concepimento che nella
fase di pre-impianto dell’embrione, che aprono nuove strade per
La promozione della salute riproduttiva
la comprensione dell’insorgenza di molte patologie (Gabory et al.,
2011) e la loro prevenzione. Tutto ciò sottolinea l’importanza dello
stato di salute dei futuri genitori, a tutto campo, per “programmare” la salute dei propri figli. E forse dovremmo cominciare a parlare di “programmazione peri-concezionale della salute infantile e
dell’adulto”.
La barriera: molte gravidanze non sono programmate. In Italia e
negli Stati Uniti la percentuale di gravidanze che si verificano nei
tempi desiderati è intorno al 50% (Finer, 2006; Mastroiacovo, 2012).
Se tutte le gravidanze fossero programmate, forse, potremmo immaginare di promuovere la salute riproduttiva in un arco di tempo
ben definito. Sottolineo il forse: il breve arco di tempo potrebbe non
essere sufficiente per modificare abitudini inveterate o a ripristinare
uno stato di salute compromesso per affrontare in modo ottimale la
gravidanza.
La riflessione: molti fattori di rischio per gli esiti avversi della riproduzione sono anche fattori di rischio per patologie dell’età adulta, o
più avanzata. Gli esempi più paradigmatici sono tutti gli stili di vita
elencati sopra, ma si possono fare altri esempi a cominciare dalle
malattie croniche non diagnosticate tempestivamente o trascurate.
In altre parole promuovendo la salute riproduttiva si promuove più in
generale la salute delle persone, e viceversa, e con una motivazione,
forse, più emotivamente sentita e più vicina nel tempo.
Sette domande e sette risposte
Quali sono gli interventi utili per la “promozione della salute
(anche) riproduttiva”?
Gli interventi utili per promuovere la salute riproduttiva sono stati
ampiamente descritti altrove (HCN, 2007; Jack et al., 2008; Berghella et al., 2010; Seshadri et al., 2012). In Italia “Pensiamoci Prima”2
nel 2010 ha messo a punto 28 “Raccomandazioni per il Counseling
Preconcezionale” con la condivisione di 22 Società Scientifiche.
Nella tabella III sono elencati tali interventi che possono essere classificati in 4 sezioni, sebbene la distinzione sia strumentale e non
sostanziale:
A. Promuovere la salute della donna (coppia) in generale e proteggerla dal rischio di un esito avverso della eventuale riproduzione;
B. Trattare (o affrontare) eventuali condizioni di salute o sociali della
donna (coppia) che aumentano il rischio di un esito avverso della
riproduzione;
Tabella III.
Interventi utili per promuovere la salute riproduttiva.
A. Promuovere la salute della donna (coppia) in generale e proteggerla dal rischio di un esito avverso dell’eventuale futura riproduzione.
Vaccinazione anti rosolia, varicella, epatite B, tetano, pertosse
Educazione sessuale
Colloqui individualizzati per un efficace controllo della fertilità
Prevenire gravidanze sotto i 20 anni e a breve distanza da una precedente, scoraggiare quelle in età riproduttiva avanzata
Educazione sugli stili di vita salutari: alimentazione mediterranea, esercizio fisico, fumo, alcol, uso di sostanze psico-attive
Identificare e affrontare situazioni di: fragilità socio-economica; stress, depressione, ansietà; violenza domestica
Supplementazione con 0,4 mg/die di acido folico1
B. Identificare e trattare eventuali condizioni di salute della donna (coppia) che aumentano il rischio di un esito avverso della riproduzione.
Malattie sessualmente trasmesse
Sovrappeso e obesità
Eventuali patologie (es.: diabete, epilessia, asma, patologie della tiroide, ipertensione, iperfenilalaninemia, varicocele)
Condizioni che possono aver determinato un precedente esito avverso della riproduzione
C. Aiutare la donna (la coppia) che programma o non esclude la possibilità di una gravidanza ad affrontare le situazioni che aumentano il
rischio di un esito avverso della riproduzione
Revisione generale delle problematiche indicate nelle due sezioni precedenti e correzione di quelle ancora presenti, es.: acido folico, fumo, alcol,
obesità, malattie croniche.
Farmaci
Sostanze chimiche nocive, in ambienti lavorativi e non
Radiazioni ionizzanti
Febbre elevata
Toxoplasmosi
Citomegalovirus2
Gruppo sanguigno, fattore Rh
D. Identificare rischi di natura genetica, informare la coppia e aiutarla a prendere decisioni libere e responsabili
Albero genealogico
Screening malattie genetiche comuni (es.: talassemia), comprese quelle tipiche di specifici gruppi di popolazione
Note alla Tabella III
1
Vedi Box per la raccomandazione di “Pensiamoci Prima” più recente ed elaborata sulla base di ricerche e riflessioni più recenti.
2
Per donne che hanno bambini piccoli o che lavorano con bambini piccoli.
245
P. Mastroiacovo
C. Aiutare la donna (la coppia) che programma o non esclude la possibilità di una gravidanza ad evitare le esposizioni che aumentano il
rischio di un esito avverso della riproduzione;
D. Identificare rischi di natura genetica per informare la coppia e
aiutarla a prendere decisioni libere e responsabili.
Gli interventi della sezione A vanno realizzati sin dall’età adolescenziale (le vaccinazioni ovviamente prima, in età infantile) e reiterati
per tutto l’arco della vita. Si tratta infatti di interventi di promozione
della salute in generale che se non attuati influiscono anche sull’incremento del rischio di esito avverso della riproduzione. Gli interventi inclusi nella sezione B, ovviamente vanno realizzati non appena
vengano identificati, possibilmente in modo proattivo e attraverso
appositi screening (es.: lue, HIV, questionari ad hoc). Nella sezione
C sono elencati quegli interventi che vanno presi in considerazione
non appena la coppia manifesta l’intenzione di avere un figlio e non
ne esclude la possibilità. Il loro obiettivo è evitare rischi nelle prime
settimane di gravidanza, quando ancora la donna non sa di essere
incinta o non ha eseguito la prima visita ostetrica. In questa lista
non sono compresi quegli interventi che dovranno poi essere messi in atto alla prima visita ostetrica. Infine la sezione D comprende
principalmente interventi mirati alla prevenzione per rinuncia3 che
possono essere effettuati sin da quando si forma la coppia, non è
necessario attendere infatti il momento in cui comincia più seriamente a pensare di avere un figlio. Da notare che molti degli interventi suggeriti nella tabella III non vengono forniti dal Sistema
Sanitario Nazionale e talora non fanno ancora parte della comune
pratica medica, ciò non significa che non debbano essere presi in
considerazione e/o offerti ai pazienti. Anzi, è auspicabile, e questo
articolo ne è uno dei tanti strumenti. È importante sottolineare che
nella realizzazione dei vari interventi il ruolo del partner non può
essere sottovalutato, anzi. Contribuisce al controllo della fertilità e a
programmare le gravidanze. Il suo comportamento condiziona quello della donna, induce comportamenti a rischio o al contrario l’aiuta
a seguire quelli salutari. Può essere una fonte di rischio, es.: fumo
passivo, comportamenti sessuali rischiosi, stress, violenza domestica. Infine influisce direttamente sull’esito riproduttivo: il 30-40%
delle cause di infertilità sono attribuibili all’uomo e alcune sono rimuovibili (es.: alcol, fumo, obesità) (Case, 2003), così come può influire direttamente sulla salute dei propri figli (Mocarelli et al., 2000;
Ngo et al., 2006; Wigle et al., 2009; Liu et al., 2011).
Gli interventi elencati e unanimemente ritenuti utili sono
“evidence-based”?
La risposta puntuale a questa domanda è complessa. E richiederebbe ben più ampio spazio. Per tutti gli interventi elencati nella tabella
III esiste una robusta, o sufficiente, dimostrazione o consenso, tale
da essere raccomandata ai sanitari per promuovere la salute riproduttiva. Ma la domanda cruciale è qual è l’evidenza che realizzando
l’intervento si ottiene il risultato atteso? Ovvero la riduzione del rischio di uno o più esiti avversi della riproduzione o almeno, se questo
non è possibile per la sua rarità, la riduzione del fattore di rischio?
Vorremmo, per tutti gli interventi, evidenze chiare e robuste come
quelle prodotte per la vaccinazione anti-rosolia (Muscat et al., 2012),
per la supplementazione con acido folico (De Regil et al., 2010), per
il trattamento del diabete (Wahabi et al., 2010) o della iperfenilalaninemia (Prick et al., 2012). In tutti questi casi l’intervento, effettuato proprio prima della gravidanza è basato su prove di efficacia
robuste, l’esito avverso diminuisce. E per tutti gli altri? L’intervento
proposto è basato su prove di efficacia mutuate da quanto osservato
in gravidanza [(es.: vari metodi di counselling o farmacologici per
far smettere di fumare (Lumley et al., 2009; Moore et al., 2009;
246
Civljak et al., 2010; Cahill et al., 2010; Coleman et al., 2012)] o più
in generale in donne in età fertile. Altri interventi sono raccomandati
sulla base del buon senso. È certo sensato, ad esempio, perseguire
l’obiettivo di un trattamento tempestivo, ottimale e continuato nel
tempo, se esiste una determinata malattia, soprattutto se influisce
sull’esito della riproduzione (es.: diabete, epilessia, asma, ipertensione, ipotiroidismo) o promuovere stili di vita salutari. A prescindere
dalla dimostrazione di decremento dell’esito riproduttivo. Altrettanto
sensato è prodigarsi nei confronti di una donna in età fertile, che può
rimanere incinta il giorno dopo l’incontro con il sanitario di fiducia,
o che ha programmato la gravidanza a breve termine, per evitare
l’esposizione ad un fattore di rischio nocivo per il futuro bambino.
L’industria farmaceutica ha già provveduto. Nelle schede informative
redatte più di recente è infatti riportata a dicitura: “Il medico, all’atto
della prescrizione, dovrà valutare l’opzione di trattamenti alternativi
in donne in gravidanza o che stiano pianificando una gravidanza”.
Quale è il ruolo del pediatra?
La promozione della salute (anche) riproduttiva va perseguita “da
ogni sanitario – ad ogni donna in età fertile – in ogni occasione”. La
domanda di routine da rivolgere alla donna è: “Sta forse pensando
di avere una (altra?) gravidanza?”. Ciò premesso si può affermare
senza ombra di dubbio che il ruolo del pediatra e del neonatologo è
rilevante. Non è necessario ricordare che la sua missione è proprio
quella di promuovere la salute della persona sin da prima della nascita con obiettivi che non si limitano all’età infantile o adolescenziale, ma si estendono all’età adulta. Ma forse va ricordato:
a) il suo ruolo nell’identificazione di un possibile fattore di rischio
che ha determinato una eventuale condizione congenita (es.: restrizione della crescita intrauterina, prematurità, malformazione). Il
conseguente colloquio inter-concezionale con la coppia deve avere
b) l’obiettivo di cercare di rimuovere il fattore di rischio e di evitare il
ripetersi dell’evento avverso;
c) il suo ruolo di medico di fiducia della famiglia in vista di ulteriori
gravidanze, considerato che: (i) il 45-50% dei nati nasce da una coppia che ha già un figlio e… un pediatra (Regione Emilia Romagna,
2010; Regione Lazio, 2012); (ii) una donna con un bambino ha più
spesso contatto con il pediatra che con il proprio medico o ginecologo (Cheng et al., 2012);
d) il ruolo che svolge il pediatra nei confronti degli adolescenti;
il ruolo di educatore sanitario nell’ambito della famiglia.
Senza infine dimenticare il ruolo nell’ambito della rete socio-sanitaria e il ruolo di advocacy. Tutte attività che possono essere svolte
con grande autorevolezza, considerata la missione specifica della
pediatria: più bambini in buona salute.
Quali esperienze esistono nel mondo di programmi mirati alla
promozione della salute riproduttiva?
In Italia esistono esperienze di varia natura, alcune hanno come
obiettivo la promozione degli stili di vita salutari (es.: “Guadagnare
Salute”, promosso dal Ministero della Salute), altri sono mirati a promuovere specifiche tematiche (es.: contraccezione), o a ridurre l’impatto sull’esito riproduttivo di specifici fattori di rischio (es.: alcool,
fumo) o a promuovere la supplementazione di acido folico. L’unico
progetto che affronti in modo olistico la salute riproduttiva è il progetto noto come “Pensiamoci Prima”4 che, tra l’altro, ha dato vita
ad altre iniziative quali “Prima della Gravidanza”5 e “Mamma InForma”6. In Europa, senza ombra di dubbio, l’attività più sviluppata e a
tutto campo, dalla ricerca all’implementazione di programmi, è quella olandese, in particolare quella realizzata dall’Università Erasmus
di Rotterdam da Eric A.P. Steegers7 e Regine P.M. Steegers-Theunis-
La promozione della salute riproduttiva
Tabella IV.
Calcolo del numero di esiti attribuibili in Italia ad alcuni fattori di rischio.
Fattore di rischio
Prevalenza
del fattore
di rischio
Gravidanza
non voluta **
3%
Gravidanza
intempestiva **
40%
Mancata
supplementazione con
acido folico ***
BMI < 18.5 **
BMI 25 - 29.9 **
BMI > 30 **
Asma *
Diabete **
Epilessia **
Ipertensione *
Fumo inizio
gravidanza ***
Fumo durante l’arco
della gravidanza **
Fumo passivo
80%
8%
15%
6%
3%
0.35%
0.30%
2%
25%
12%
5%
Esito
Incidenza
dell’esito
Rischio
relativo
Numero esiti
attribuibili al
fattore di
rischio /anno
Nati di basso peso
7.0%
1.51
601
1.31
4 402
Referenza per stima del rischio
relativo
Shah et al., 2011
DTN
1 per 1.000
2.00
384
De Regil et al., 2010
Cardiopatie congenite
8 per 1.000
1.24
734
Leoncini, 2012
L +/- PS
0.6 per 1.000
1.33
72
Palatoschisi
0.4 per 1.000
1.14
22
Johnson-Little, 2008
Nati pretermine
7.0%
1.22
690
Han et al., 2009
Diabete gestazionale
4.0%
1.97
2.896
Torloni et al., 2009
Nati morti
0.3%
1.23
54
Flenady et al., 2011
Nati pretermine
7.0%
1.06
356
Mc Donald et al., 2011
DTN
1 per 1.000
1.20
17
Stothard et al., 2009
Cardiopatie congenite
8 per 1.000
1.17
113
Stothard et al., 2009
Aborti spontanei
15.0%
1.31
1.561
Boots-Stephenson, 2011
Diabete gestazionale
4.0%
3.01
2.454
Torloni et al., 2009
Nati morti
0.3%
1.63
59
Flenady et al., 2011
Nati pretermine
7%
1.13
309
Mc Donald et al., 2011
Stothard et al., 2009
5 malformazioni
1 per 1.000
Variabile
114
Pre-eclampsia
5.0%
1.54
454
SGA
3.0%
1.22
112
Nati pretermine
7.0%
1.41
485
Nati morti
0.3%
2.90
11
Maformazioni gravi
2.0%
3.00
79
Nati pretermine
7.0%
1.43
60
Maformazioni gravi
2.0%
3.11
72
Murphy et al., 2011
Flenady et al., 2011
Wahabi et al., 2010
Meadow et al., 2008
Nati morti
0.3%
2.58
49
Flenady et al., 2011
Infertilità
5.0%
1.42
2.708
Augood et al., 1998
Gravidanza ectopica
1.3%
1.77
1.196
Placenta previa
0.7%
1.58
476
9 malformazioni
1.1%
Variabile
252
Castles et al., 1999
Hackshaw et al., 2011
Obesità (3-33 anni)
12.0%
1.52
4.017
Ino 2010
Distacco di placenta
0.9%
2.00
550
Ananth et al., 1999
PROM
1.4%
1.70
596
Castles et al., 1999
Nati morti
0.3%
1.36
67
Flenady et al., 2011
Nati pretermine
7.0%
1.19
889
Lumley et al., 2004
Mitchell et al., 2006
SIDS
0.1%
3.93
19
Nati morti
0.3%
1.23
18
Malformazioni
2.0%
1.13
74
Leonardi-Bee et al., 2011
Basso peso neonatale
7.0%
1.60
332
Liu-Chen, 2009
Violenza domestica
0.5%
Nati di basso peso
7.0%
1.53
105
Shah et al., 2010
SGA
3.0%
3.23
189
Cocaina
0.5%
Nati pretermine
7.0%
3.38
469
Placenta previa
0.4%
2.50
17
Gouin et al., 2011
Faiz-Ananth, 2003
247
P. Mastroiacovo
Note alla Tabella IV
1. I fattori di rischio elencati sono stati selezionati sulla base della: (a) disponibilità di almeno una metanalisi che ne abbia stimato la dimensione del
rischio (rischio relativo o odds ratio); (b) possibilità di modificarlo; (c) interesse personale, sperando sia simile a quello del lettore.
2. La frazione attribuibile nella popolazione si calcola matematicamente se si dispone della: (a) dimensione del rischio e (b) della prevalenza del fattore
di rischio nella popolazione di interesse (nel nostro caso quella di donne all’inizio o nell’arco della gravidanza). Il primo dato è ragionevolmente robusto,
deriva sempre e soltanto da metanalisi, il secondo, in mancanza più o meno totale di informazioni affidabili su donne all’inizio o in corso di gravidanza
è una stima basata da varie indagini nazionali o internazionali. Per semplicità il numero degli asterischi indica l’affidabiltà (tre asterischi = buona,
nessun asterisco = del tutto ipotetica).
3. Gli esiti considerati sono stati selezionati con gli stessi criteri dei fattori di rischio (vedi sopra).
4. La stima dell’incidenza degli esiti, insieme al numero dei nati in Italia ogni anno, serve a calcolare la numerosità dei casi attribuibili al fattore di
rischio. La frazione attribuibile ci fornisce infatti solo la percentuale (che va bene per qualunque popolazione). La prima è molto affidabile per tutti gli
esiti neonatali e infantili (tratta da statistiche disponibili, es.: CedAP, registri di malformazioni), ma lo è meno per le complicanze della gravidanza (tratta
dalla letteratura). I dati per gli aborti spontanei e l’infertilità sono tratti dalla letteratura e si adattano molto bene alla realtà italiana. Per quanto riguarda
la numerosità di nati/anno si tratta di una media di quanto avvenuto negli ultimi anni: 570.000/anno.
5. Nella colonna del numero degli esiti attribuibili al fattore di rischio/anno (la più importante) si può osservare che a parità di rischio relativo, ad
esempio 1.5, il numero dei esiti attribuiti al fattore di rischio varia molto: 4.400 per i nati di basso peso attribuiti a gravidanze intempestive (non
desiderate proprio in quel momento), 454 per la pre-eclampsia attribuita all’asma non trattata correttamente. Ciò dipende dalla prevalenza del fattore
di rischio. Tanto più è il fattore di rischio è frequente tanto più elevato è il numero dei casi ad esso attribuiti.
6. Caveat
- L’obiettivo di questa tabella è fornire una stima dei casi potenzialmente prevenibili in Italia, grossolana, e non certo raggiungibile in tempi
brevissimi perché si basa sull’assunto che il fattore di rischio sia rimosso del tutto (leggi fumo, obesità, gravidanze intempestive). Va usata con
estrema cautela, soprattutto per rendersi conto su quali sono le priorità.
- Non sommare mai esiti attribuiti a fattori di rischio diversi, con l’intento di calcolare il numero totale di casi che potrebbero essere prevenuti se si
rimuovono contemporaneamente più fattori di rischio.
sen8. Progetti di vario tipo e natura sono attuati in varie nazioni (Reeve, 2009): negli Stati Uniti (il CDC, che ha rinnovato recentemente
tutta la sezione sulla salute riproduttiva-preconcezionale nella sua
web9, merita una visita), in Cina, nelle Filippine, in Bangladesh, solo
per fare alcuni esempi. A livello internazionale operano organizzazioni quali la March of Dimes10, Preparing for Life. L’OMS ha promosso
un meeting (il primo) di consenso globale sulle cure preconcezionali
il 6-7 Febbraio 2012 (report in preparazione).
Quali sono i potenziali benefici che si possono ottenere con la
promozione della salute riproduttiva?
Il beneficio atteso, finale, è la riduzione della morbilità e mortalità
materna e infantile, e possibilmente quella dell’adulto (se teniamo
presente i dati emersi sulla programmazione fetale delle malattie
dell’adulto). Certo vorremmo avere dati precisi sui vari benefici attesi. La ricerca di sanità pubblica dovrebbe essere così sviluppata,
e non solo in Italia, da aver già proposto esperienze pilota che ci
possano consentire stime affidabili su tutti i possibili vantaggi attesi.
Ciò non è possibile. Possiamo però avventurarci. Calcolare la cosiddetta “frazione attribuibile nella popolazione” almeno per alcuni
fattori rischio e per alcuni esiti e calcolare il numero di esiti che sono
potenzialmente prevenibili in Italia (o in una sua regione) se il fattore
di rischio viene rimosso completamente (Tab. IV). Altro beneficio non
trascurabile di un programma olistico di promozione della salute riproduttiva è la spinta che viene data ad una maggiore attenzione alla
propria salute, soprattutto tra i giovani. La responsabilità di diventare
genitori, presto o tardi, potrebbe aumentare l’efficacia di programmi
di salute mirati a prevenire altre patologie: oncologiche, cardiovascolari e metaboliche.
Quali sono i potenziali svantaggi che si possono verificare?
Il primo svantaggio è deludere le aspettative. Se un programma
di promozione della salute riproduttiva ad esempio promette tout
court la nascita di un figlio sano, osserveremo forti resistenze al
mantenimento di un tale programma. Un figlio sano non può essere previsto da nessuno nonostante tutti gli sforzi si possano fare.
Ciò vale sia per l’intervento globale (promozione della salute ripro-
248
duttiva) che per gli interventi specifici. Per questo motivo è raccomandabile usare più spesso il termine “riduzione del rischio di…”
piuttosto che di prevenzione. Infatti il concetto di prevenzione è associato più spesso a quello di non comparsa della malattia, e può
essere utilizzato solo per le condizioni monofattoriali, per le quali
esiste un intervento preventivo efficace (es.: la sindrome da rosolia
congenita non si verifica se la donna è protetta adeguatamente nei
confronti di questa malattia infettiva). Per la grande maggioranza
degli esiti (di natura multifattoriale) si ottiene una riduzione del
rischio. In pratica si verifica il seguente scenario, utilizzando come
esempio la supplementazione con acido folico. Prescrivendo a
10.000 donne in età fertile 0,4 mg/die di acido folico, invece di osservare 10 casi di difetti del tubo neurale, ne osserveremo solo 5,
dovuti ad altre cause ancora poco sconosciute. Queste 5 donne,
se non informate correttamente, potranno recriminare che l’acido
folico non è servito a nulla, o peggio ancora avere sensi di colpa. È
importante quindi fornire l’informazione in modo realistico e preciso. Il paradosso dello scenario è che né noi, né le loro mamme,
sapranno chi dei rimanenti 9.995 nati è nato senza il difetto del
tubo neurale, che altrimenti avrebbe avuto.
Altri svantaggi possibili sono: (a) considerare la donna, magari sin
dall’età adolescenziale, solo o soprattutto sotto l’aspetto riproduttivo, fino ad arrivare a negare l’eventuale diritto a non volere figli;
(b) focalizzare eccessivamente l’attenzione sull’evento riproduttivo e non sottolineare al contrario il vantaggio prodotto da gran
parte degli interventi per la salute generale della donna (coppia);
(c) stigmatizzare socialmente donne che continuano, per motivi
psico-sociali, a mantenere stili di vita non salutari (es.: fumare in
gravidanza). La comunicazione sociale e individuale deve tener
conto di questi possibili svantaggi e trovare il necessario equilibrio
tra il dovere dei sanitari di proteggere la vita nascente, il diritto
della donna ad ottenere informazioni preventive e il rispetto della
sua autonomia decisionale. Una particolare attenzione dovrà essere data a non creare sensi di colpa ingiustificati. Il nostro dovere
come operatori sanitari è realizzare il diritto delle persone ad essere informate correttamente e ampiamente, senza alcun giudizio
morale sulle loro scelte.
La promozione della salute riproduttiva
Box 1
Box 2
Proposta di nuova raccomandazione per la
supplementazione con acido folico
Comportamento suggerito per sensibilizzare, nel
proprio ambulatorio, le coppie in età fertile a prestare
attenzione alla propria salute riproduttiva.
Si raccomanda ai sanitari1 di donne (coppie) in età fertile, con o senza
figli, che:
a. non utilizzano un efficace metodo di controllo della fertilità (coito interrotto, uso del profilattico o altre barriere chimiche o meccaniche,
metodi basati sul riconoscimento dei giorni fertili);
b. non escludono la possibilità di una gravidanza anche se non attivamente ricercata;
c. programmano una gravidanza,
di prescrivere alla donna la vitamina acido folico alla dose giornaliera di 0,4 mg al giorno per ridurre il rischio di difetti congeniti, altre
malformazioni2 e di altri esiti indesiderati della riproduzione3 oltre
che raccomandare un’alimentazione di tipo mediterraneo (ricca di
frutta e verdura).
Una dose superiore (massimo 4-5 mg/die) va prescritta a donne che
hanno avuto in precedenza un nato affetto da difetto del tubo neurale,
siano esse stesse affette da spina bifida, da diabete o siano in trattamento con antiepilettici. Va anche presa in considerazione all’inizio del
trattamento e per un mese tale dose soltanto per donne che possono
rimanere incinta nel mese successivo. Tale dosaggio non è indicato in
altre situazioni di ipotetici rischi di carenza, genetici o non.
L’assunzione dell’acido folico deve essere continuata per tutto il primo
trimestre di gravidanza.
La prescrizione, a gravidanza iniziata, non è efficace per ridurre il rischio di difetti congeniti.
Note
La raccomandazione è indirizzata ai sanitari, poiché in Italia sono coloro che influiscono maggiormente (90% dei casi) sull’uso (e dosaggio) della supplementazione.
L’acido folico, se usato per la prevenzione dei difetti del tubo neurale (0,4 mg) è in
fascia A.
2
Evidenze osservazionali, meno robuste di quelle esistenti per la riduzione del rischio dei difetti del tubo neurale, ma non trascurabili, suggeriscono una diminuzione
del rischio di cardiopatie e labio e/o palatoschisi.
3
Evidenze osservazionali basate su diversi studi suggeriscono una possibile diminuzione del rischio di vari esiti tra cui: prematurità e basso peso neonatale.
1
Quali strumenti può utilizzare il pediatra, o altro operatore
sanitario, per contribuire a realizzare un programma organico
e completo di promozione della salute riproduttiva?
1. Essere pronti a sostenere un colloquio (possibilmente con modalità di counseling) mirato alla promozione della salute riproduttiva e
preconcezionale:
a) Partecipare ad un corso di aggiornamento;
b) Stampare le raccomandazioni per il counseling preconcezionale, digerirle, e tenerle sempre a disposizione http://www.pensiamociprima.net/sanitario/counseling_eseguire.html;
c) Navigare attentamente sul sito www.pensiamociprima.it e sul sito
www.primadellagravidanza.net e stampare materiale ritenuto utile.
2. Stampare e affiggere nella sala di attesa del proprio ambulatorio il
manifestino di “Pensiamoci Prima” (reperibile su http://www.pensiamociprima.net/content/Manifestino.pdf), per attrarre l’attenzione
di tutti i propri pazienti.
3. Stampare, tenere a propria disposizione, e lasciare sul tavolo della
sala di attesa del proprio ambulatorio il volantino “10 Azioni per la
tua salute e quella dei tuoi figli futuri”.
4. Durante un colloquio, di qualsiasi tipo, trovare il momento adatto per:
a) Rivolgere domande del tipo: Ha visto il manifesto e il pieghevole “10 Azioni per la tua salute e quella dei tuoi figli futuri” che
sono in sala di attesa?
i. Se no, consegnare il volantino, invitare a leggerlo e rimandare al prossimo incontro un approfondimento sul tema.
ii. Se si, rivolgere una domanda del tipo: Questi argomenti le
possono interessare?
1. Se no, chiedere se possono interessare un familiare o un
amico e consegnare il volantino se non già preso.
2. Se si, ovvero se l’argomento interessa personalmente,
perché, uomo o donna che sia, pensa nel futuro, a breve o
lunga scadenza, di avere un figlio, fare un’affermazione del
tipo: è più che giusto pensarci prima e:
a) consegnare con opportune frasi di accompagnamento il questionario auto-compilabile reperibile su http://
www.primadellagravidanza.it/download-materiale-informativo/item/9-questionario-preliminare.html e spiegare che è opportuno compilarlo con calma, a casa, e
poi riportarlo alla prossima visita.
b) far notare che per cominciare a prendere dimestichezza con i vari argomenti è opportuno navigare sui siti
www.pensiamociprima.it e www.primadellagravidanza.
net, su ambedue.
5. Quando la persona interessata torna con il questionario compilato:
a) valutare se è necessario porre ulteriori domande di approfondimento;
b) chiedere se ha navigato sui siti web consigliati;
c) fornire le informazioni necessarie, e sempre che sia necessario, indicare le strutture o gli specialisti da contattare per meglio
affrontare certi problemi (es.: centri antifumo per smettere di fumare, specialista diabetologo).
Dato per scontato che:
a) un programma di promozione della salute riproduttiva non può
che essere multisettoriale, con impegno serio della famiglia, delle
strutture di formazione (scuola dell’obbligo e università), dei servizi sociali, dei mezzi di comunicazione di massa, delle organizzazioni di volontariato e di promozione sociale;
b) i principali attori di un programma di promozione della salute riproduttiva sono i consultori e i ginecologi.
Conclusioni
Che cosa può fare un pediatra, o altro operatore sanitario (medico di
medicina generale, laureata in ostetricia, farmacista), per contribuire
a realizzare un programma organico e completo di promozione della
salute riproduttiva, con il poco tempo a disposizione, i tagli della
spesa pubblica e le continue nuove richieste di salute da parte della
cittadinanza?
Nell’ambito del progetto “Pensiamoci Prima” è stato sviluppato uno
schema di comportamento che è stato apprezzato e messo in pratica da alcuni colleghi, ma non ancora valutato formalmente. Tale
schema è sinteticamente riassunto nel Box 2.
La ricerca bio-medica e di sanità pubblica ha recentemente individuato una nuova strategia per migliorare la salute materno-infantile,
sia nei paesi con un reddito medio-basso che in quelli a reddito elevato: promuovere la salute riproduttiva durante tutto l’arco dell’età
fertile della donna e della coppia e, con una maggiore intensità, in vista di una gravidanza programmata. Non si tratta di introdurre nuove
tecnologie o nuove pratiche sanitarie, ma piuttosto di utilizzare in
modo più organico e sistematico conoscenze già acquisite, di integrarle con quelle esistenti, di renderle accessibili a tutte le fasce di
popolazione, in particolare a quelle più fragili economicamente, con
l’obiettivo specifico di ridurre l’incidenza dei vari e molteplici esiti
avversi della riproduzione. Il pediatra ha la possibilità di contribuire
249
P. Mastroiacovo
significativamente a realizzare questa nuova strategia, considerata
la sua missione di tutore della salute di neonati, bambini e adolescenti e la sua posizione privilegiata nel rapporto con le mamme che
non hanno ancora completato il loro progetto riproduttivo. I risultati
attesi, sebbene ancora non quantificabili nel loro insieme, sembrano
essere di significativa portata.
Note
2
1
Il termine “salute riproduttiva” è preferito a termini più comunemente usati
fino ad oggi in letteratura, come prima della gravidanza, preconcezionale,
interconcezionale (prepregnancy, preconception, interconception,) poiché
questi ultimi fanno pensare a qualcosa che debba essere realizzato poco
prima del concepimento. Ciò è assolutamente vero per alcuni specifici
interventi, ma è riduttivo. Facciamo qualche esempio. Il fumo aumenta il
rischio di svariati esiti avversi della riproduzione. È opportuno promuovere
l’astensione dal fumo in vista di una gravidanza, o piuttosto è necessario
promuoverla sin dall’età adolescenziale? Se non addirittura prima, influendo
sulle abitudini dei genitori? Il diabete misconosciuto, o trascurato, aumenta
il rischio di malformazioni e di altri esiti avversi della riproduzione. Dobbiamo attendere che una donna pensi ad una gravidanza nel breve termine
per identificare il diabete o trattarlo in modo ottimale? Alcuni interventi
quindi si sovrappongono con interventi di promozione della salute in generale, che vanno promossi per tutto l’arco della vita. Oggi sappiamo che
hanno influenza anche sulla salute riproduttiva (dalla fertilità ad esiti neurocomportamentali del nascituro). Per questo motivo, e tenendo presente che
solo il 50% delle gravidanze è programmato, mi sembra più adatto parlare
di promozione della salute riproduttiva piuttosto che di promozione della
salute preconcezionale, anche se fino ad oggi il termine “riproduzione” e
“riproduttivo” è stato usato soprattutto per indicare problematiche relative
alla fertilità.
Bibliografia
Abbott LC, Winzer-Serhan UH. Smoking during pregnancy: lessons learned from
epidemiological studies and experimental studies using animal models. Crit Rev
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** Ampia revisione sugli effetti del fumo in gravidanza con dati epidemiologici e
sperimentali. Consigliato per breve ma interessante revisione degli studi sperimentali dell’effetto della nicotina sulle alterazioni della regolazione centrale della
respirazione e SIDS.
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or inducing feelings of guilt. Prescrire Int. 2012;21:49.
** Va letta, fornisce tutti gli elementi conoscitivi per comprendere con precisione
i problemi associati all’uso di alcol in gravidanza. Non tradisce la tradizione di
questa ottima rivista.
Augood C, Duckitt K, Templeton AA. Smoking and female infertility: a systematic
review and meta-analysis. Hum Reprod. 1998;13:1532-9.
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*Buona e completa revisione di carattere generale.
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250
Pensiamoci Prima è un progetto di promozione della salute riproduttiva e
preconcezionale coordinato da ICBD-Alessandra Lisi International Centre
on Birth Defects and Prematurity, WHO Collaborating Centre, finanziato nel
periodo 2008-2011 dal CCM-Centro Nazionale per il Controllo e Prevenzione delle Malattie del Ministero della Salute, e attualmente svolto sotto la
sua egida.
3
Per prevenzione per rinuncia s’intende quella forma di prevenzione possibile solo in medicina riproduttiva che una Commissione dell’OMS ha definito
“prevention by option”. Si tratta della rinuncia ad avere figli se uno dei due
genitori o entrambi hanno un rischio considerato troppo elevato per tentare
di avere figli propri. La rinuncia all’ipotetico figlio affetto determina una prevenzione della malattia (e del possibile effetto!). Viene distinta dalla prevenzione primaria poiché non consente di avere figli sani invece che affetti da
una qualche patologia.
4
www.pensiamociprima.net
5
www.primadellagravidanza.it
6
www.mammainforma.it
7
www.erasmusmc.nl/47393/1584119/1603959/Eric_Steegers
8
www.erasmusmc.nl/47393/1584119/1603959/RegineSteegersCV
9
www.cdc.gov/preconception/index.html
10
www.marchofdimes.com/pregnancy/getready_indepth.html
* Studio classico. Ipercitato. Il peso neonatale risulta inferiore di 170 grammi nei
nati da madri fumatrici. Esiste un effetto dose.
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rischio di difetti del tubo neurale, basata esclusivamente su studi randomizzati.
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** Imperdibile. Fornisce stime di rischio di natimortalità per i principali fattori di
rischio, e soprattutto per paesi sviluppati. Indicata anche la frazione attribuibile
nella popolazione.
La promozione della salute riproduttiva
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** Articolo chiave di una serie di articoli contenuti in un numero speciale della
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* Il titolo è esplicativo. Il rischio è aumentato. E ciò non si verifica per le donne
fumatrici in gravidanza. L’interpretazione dei risultati va letta e ricordata. È
probabile che il fumo paterno agisca sui meccanismi epigenetici della spermatogenesi.
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cessation during pregnancy. Cochrane Database Syst Rev. 2009;3:CD001055.
* Esiste la concreta possibilità di aiutare donne fumatrici a smettere in gravi-
danza. Probabilmente un simile successo può essere ottenuto in vista di una
gravidanza.
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* Studio svolto nell’area di Seveso dimostra come l’esposizione a diossina,
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Wahabi HA, Alzeidan RA, Bawazeer GA, et al. Preconception care for diabetic
women for improving maternal and fetal outcomes: a systematic review and
meta-analysis. BMC Pregnancy Childbirth 2010;10:63.
** Ottima e aggiornata. Indica l’efficacia dell’intervento preconcezionale nel ridurre il rischio di malformazioni ed altri esiti.
Wigle DT, Turner MC, Krewski D. A systematic review and meta-analysis of childhood leukemia and parental occupational pesticide exposure. Environ Health
Perspect 2009;117:1505-13.
Corrispondenza
Pierpaolo Mastroiacovo, Direttore Alessandra Lisi International Centre on Birth Defects and Prematurity, WHO Collaborating Centre, via Carlo Mirabello
14, 00195 Roma. Tel 063701905. Email: [email protected]
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Ottobre-Dicembre 2012 • Vol. 42 • N. 168 • pp. 253
In ricordo di Franco Panizon
Pochi mesi dopo che Antonio Cao ci ha lasciato, un’altra grande personalità della pediatria italiana è venuta a mancare. Il 15 ottobre 2012
è morto Franco Panizon. Due grandi personalità, diverse per impostazione culturale e per il messaggio che hanno lasciato con la loro lunga
attività di leader, ma ambedue capaci di influenzare grandemente una intera generazione di pediatri italiani.
Prospettive in Pediatria vuole doverosamente ricordare ai suoi lettori Franco Panizon, con commozione e ammirazione.
Doverosamente anche e soprattutto perché il contributo di Franco Panizon alla fondazione e al successo di Prospettive è stato fondamentale,
avendo Lui curato la redazione, e scritto il commento finale di tutte le ventidue Tavole Rotonde che hanno arricchito e caratterizzato la rivista
nei primi undici anni della sua esistenza (dal 1971 al 1981 compreso).
Ricordo, a questo proposito, che uno degli obiettivi fondamentali per cui fu creata Prospettive fu di aprire un colloquio-confronto tra pediatri
e società civile, per sottolineare nuovi problemi e urgenti necessità, nella speranza di incidere positivamente sulla politica assistenziale e
sanitaria per l’infanzia nel nostro Paese. Strumento di questo obiettivo furono le Tavole Rotonde.
Orbene, Franco Panizon, con la sua inimitabile capacità di sintesi, con il suo senso critico, con il suo dire senza reticenze tutto ciò che riteneva rilevante, è stato decisivo per il grande successo delle Tavole Rotonde e, quindi, di Prospettive.
Nel 1982 Franco Panizon lasciò Prospettive per fondare Medico e Bambino, rivista soprattutto dedicata ai problemi clinici e assistenziali della pediatria di famiglia, pubblicazione quindi non certo antagonista nei confronti di Prospettive, ma diversa e sicuramente complementare.
Medico e Bambino non poteva non essere un grande successo, come è poi stato.
E questo anche e soprattutto perchè Franco Panizon è stato il pediatra con il maggiore “carisma” della sua generazione.
Franco non era solo grande pediatra, era molto altro e molto di più. Claudio Magris, sul Corriere della Sera, lo ha ricordato con grande efficacia, e vorrei che tutti i pediatri leggessero il suo lungo articolo, soprattutto per comprendere appieno la grandezza e la poliedricità della
personalità del professor Panizon. Egli non era solo medico, lui era anche, e io mi permetto di dire soprattutto, uomo di cultura umanistica
fuori dal comune.
Nella nostra abitazione, mia moglie Lucia ed io conserviamo con amore innumerevoli disegni e pitture che Franco nei lunghi cinquanta anni
della nostra amicizia ci ha donato. Non ci stanchiamo di mostrarli a tutti gli amici che ci vengono a trovare, per dire loro come un grande
pediatra ha potuto essere anche un artista di valore.
Fabio Sereni
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ERRATA CORRIGE
A pagina 167 del fascicolo n.167, vol. 42 è stata pubblicata una versione parziale
della figura 8, che riportiamo di seguito completa.
a
Figura 8
Figura 8a
GPU sin. acutamente scompensato
Immagini assiali e coronali ottenute da sequenza GRE3D dinamica e GRE 3D urografica ad alta risoluzione dopo mdc.
Bilateralmente apprezzabile il contrast enhancement in fase
parenchimografica; assente la fase urografica a sinistra, completa l’opacizzazione della trafila urinaria a destra.
Figura 8b
Curva parenchimografica pre intervento
Rappresentazione delle curve parenchimografiche del rene
destro e sinistro: si noti la presenza bilaterale del picco vascolare con completo appiattimento della curva, relativamente alla
fase di filatrazione glomerulare. La funzione renale differenziale calcolata con area sotto la curva ( AUC) risulta:
AUC 91% a dx e 9% a sinistra.
b
c
Figura 8c
Curva parenchimografica 6 mesi post intervento di giuntoplastica
Rappresentazione delle curve parenchimografiche del rene
destro e sinistro: si noti la variazione della curva parenchimografica di sinistra rispetto alla valutazione pre-intervento (fig.
8a) con comparsa del picco relativo alla fase glomerulare
non apprezzabile nel precedente controllo. La funzione renale
differenziale calcolata con area sotto la curva ( AUC) risulta:
AUC 62% a dx e 38% a sinistra.