Stanato il gene che causa l`insorgere del diabete

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28 Ottobre 2006
Salute
RICERCA
Individuata
la mutazione del
Dna responsabile della
predisposizione alla
malattia.
Al via
ricerche
per futuri
screening
genetici
di Silvia Fabiole Nicoletto
MILANO FINANZA
V
77
Personal
Stanato il gene che causa
l’insorgere del diabete
D
all’Inghilterra giunge
un’importante conferma
della relazione tra un assetto genetico particolare e il diabete: un gruppo di ricercatori ha
infatti riscontrato che i portatori
di una certa mutazione genetica (a
carico del gene TCF7L2) hanno un
rischio maggiore di sviluppare il
diabete di tipo 2 e l’obesità, il fattore di rischio più noto e riconosciuto per il diabete stesso.
Il diabete di tipo 2, la forma più
comune di questa malattia, è
spesso legato all’obesità ed è provocato dall’incapacità di produrre l’insulina in quantità sufficiente o di utilizzarla correttamente. Che questa patologia fosse il risultato di un’azione combinata di geni e fattori ambientali
era un fatto già noto, ma identificare i geni coinvolti è un’impresa
tutt’altro che semplice. «Il diabete è una malattia multifattoriale,
ossia dovuta a un’interazione
complessa tra fattori genetici e
ambientali», premette Vincenzo
Trischitta dell’unità di endocrinologia presso l’istituto scientifico Casa Sollievo della Sofferenza
di San Giovanni Rotondo (Foggia). «Non si tratta dunque di una
malattia monogenica, in cui una
singola alterazione genetica aumenta il rischio di contrarla. Se
così fosse non si spiegherebbe la
relazione tra diabete e obesità
esplosa solo nelle ultime due o tre
generazioni». L’interazione tra
geni e ambiente fa soltanto sì che,
nello stesso contesto, ci siano persone più esposte di altre all’effetto deleterio dell’ambiente. A complicare ulteriormente il quadro vi
è il fatto che nel caso del diabete
non si parla di un solo gene ma di
decine, forse 20 o 30; TCF7L2 è
stato uno dei primi, identificato
nella popolazione islandese e poi
riscontrato anche altrove.
Per confermarne l’associazione
con lo sviluppo del diabete i ricercatori britannici hanno seguito
per 15 anni oltre 2.600 uomini di
mezza età,tutti europei,di cui 158
si sono ammalati di diabete durante lo studio. Ciò che gli scienziati hanno scoperto è che i portatori di una copia alterata del gene
TCF7L2 avevano una probabilità
aumentata del 50% di ammalarsi,
mentre per coloro che avevano due
copie alterate la probabilità aumentava del 100% rispetto ai non
portatori.
Studi simili condotti anche in altre popolazioni, originarie dell’Asia e dell’Africa, sono giunti a conclusioni analoghe. Va detto che ci
sono ancora alcuni punti da chiarire: la funzione di questo gene
nell’organismo non è del tutto nota, anche se si ipotizza che svolga
un’importante funzione nel pancreas (dove è prodotta l’insulina).
Anche il meccanismo attraverso
cui il gene rende più suscettibili
allo sviluppo del diabete non è
chiaro. Nonostante questo, i ricercatori si spingono a ipotizzare futuri screening genetici, nuovi possibili trattamenti e strategie preventive per coloro che sono a rischio maggiore di ammalarsi.
Ma le ripercussioni di indagini di
questo tipo sono davvero così vicine? «In generale il portatore di
una singola mutazione genetica
non ha un rischio significativamente aumentato di contrarre
una malattia come il diabete da
un punto di vista clinico. Questo
ci porta a concludere che siamo
ancora lontani dal pensare a uno
screening genetico del diabete se
si lavora con un singolo gene» precisa Trischitta. Quello che stanno
tentando di fare gli addetti ai lavori, come l’équipe di Vincenzo
Trischitta, è raccogliere più geni
che siano alterati in modo simultaneo e che possano avere un effetto additivo o sinergico tra loro.
«Disponendo di più geni la capacità predittiva aumenta,quindi si
può ipotizzare un utilizzo clinico;
si ha infatti a disposizione un sottogruppo più ridotto di persone
che però svilupperanno molto
probabilmente la malattia. Riducendo il numero di soggetti è anche possibile programmare strategie preventive adeguate, che
per i loro costi non potrebbero essere applicate a tutti» conclude
l’endocrinologo. (riproduzione riservata)
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