Nabucco - Teatro Comunale di Bologna

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Proposte didattiche per
Nabucco
a cura di CARLO DELFRATI
Opera domani XV edizione
INDICE*
INTRODUZIONE
p. 2
VERDI E NABUCCO
p. 2
LA NOSTRA OPERA
La trama originale
Il nostro allestimento
I cori degli alunni
Il CD
p. 4
VOgLIO UN mONDO ALL’ALTEZZA DEI SOgNI ChE hO
di Silvia Collazuol
Note di regia
Sinossi
Personaggi
p. 7
IL PRImO FONDALE STORICO DELL’OPERA: LA DIASPORA
Il popolo della Bibbia
Nabucodonosor
L’epoca romana
Le radici dell’odio
Da un secolo all’altro
Un corollario
p. 10
VERDI E IL RISORgImENTO
p. 12
IL SECONDO FONDALE STORICO: L’UNITà D’ITALIA
I valori dell’unità
Opposte situazioni
L’unità linguistica e la musica
I valori dell’autonomia
p. 13
LA VOCE DI mAZZINI
p. 15
ED è SUBITO POLEmICA?
di Giovanni Mocchi
Purché si comunichi
Con gli occhi dello storico
Così in cielo come in terra
L’arte di Verdi
p. 16
TRACCIATI DIDATTICI
Primo tracciato: il libretto
Secondo tracciato: l’autore in scena
Terzo tracciato: ascolta le emozioni
Quarto tracciato: gli strumenti dell’opera
Quinto tracciato: scene e interludi
Sesto tracciato: prima dell’opera, la sinfonia
di Raffaele Sargenti
p. 18
FRATELLI D’ITALIA
Settimo tracciato: a che servono gli inni nazionali?
Ottavo tracciato: inni a confronto
Nono tracciato: l’inno dei due Risorgimenti
Decimo tracciato: un concorso
Undicesimo tracciato: un inno per tre nazioni
Dodicesimo tracciato: educare alla cittadinanza
di Simonetta Del Nero
Tredicesimo tracciato: ascoltare con il corpo (per i piccoli)
di Simonetta Del Nero
p. 22
PENSANDO A Nabucco
di Daniela Coelli
p. 29
BIBLIOgRAFIA
p. 31
*I testi non firmati sono a cura di Carlo Delfrati
INTRODUZIONE
Dopo alcune annate dedicate alle fiabe o al fantasy, Opera domani torna al dramma di carattere storico, sulla scia di Guglielmo Tell, proposto nel 2002. Anche in
questa vicenda incontriamo un popolo oppresso che aspira a liberarsi dell’oppressore: l’antico popolo ebraico soggiogato dagli Assiro-babilonesi. La vicenda raccontata dal librettista, Temistocle Solera, è pura fantasia. Che però mette in scena
nomi storici. Dunque un pretesto che ci consente di rivisitare a scuola quella storia.
Il melodramma verdiano non aggiunge conoscenza storica, ma può spingere i
ragazzi a interessarsene. Fornisce una motivazione in più. Un po’ come dopo aver
visto Il gladiatore uno sente la curiosità di andare a vedere su un libro di storia
com’erano andate veramente le cose tra l’imperatore Marco Aurelio e suo figlio
Commodo.
La storia di Ismaele e dei suoi, raccontata in Nabucco, può anche essere un’occasione per non lasciar mai cadere nei nostri progetti educativi il rifiuto del pregiudizio, quel pregiudizio che al suo estremo conduce alle aberrazioni dei genocidi. In
termini positivi, un ammonimento a coltivare la tolleranza, il rispetto dell’altro, del
diverso. Un obiettivo nevralgico dell’educazione civica dei ragazzi.
Come sempre, Opera domani propone agli alunni e ai loro insegnanti due direzioni
di marcia. Nella prima si approfitta dello spettacolo a cui ci stiamo preparando per
motivare gli alunni allo studio di discipline che possono essere coinvolte: oltre
all’educazione civica, l’italiano, con la lettura del libretto; il disegno, con la figurazione di scene e personaggi; la storia e la geografia, con le vicende narrate o suggerite da Nabucco; la religione, con la riflessione sulla vicenda del re sacrilego; il
movimento fisico e l’azione teatrale, con la drammatizzazione degli episodi di
Nabucco. E naturalmente la musica: l’intera esperienza di Opera domani invita gli
alunni a cantare i cori dell’opera, a suonare i motivi più orecchiabili, a inventare
varianti, a leggere gli spartiti, ad ascoltare riflettendo sui significati suggeriti dalla
musica, analizzandola con attenzione. Il teatro musicale è l’occasione ideale per
mettere concretamente in atto un progetto interdisciplinare.
La seconda direzione inverte il senso di marcia. Si approfitta di un’occasione stimolante, com’è la partecipazione a uno spettacolo ricco di colpi di scena, per portare
l’attenzione degli alunni sull’opera lirica e sul suo linguaggio speciale, con le sue
proprietà e le sue convenzioni. La prima proprietà è il fatto che sulla scena i personaggi non si esprimono con il semplice linguaggio di tutti i giorni, ma per così dire
con un linguaggio a due dimensioni: la dimensione verbale e la dimensione musicale. Ed è soprattutto quest’ultima, la dimensione musicale, che caratterizza l’opera, e che va compresa se si vuole gustarla.
VERDI E Nabucco
Nabucco è la terza opera di Verdi, dopo il suo esordio nel 1839 con l’opera seria
Oberto Conte di San Bonifacio, che lo fece conoscere come un giovane promettente; e dopo l’opera comica Un giorno di regno, del 1840, che fu un fiasco, e lo convinse ad abbandonare definitivamente il genere comico: una decisione su cui solo
alla fine della sua carriera ritornerà, consegnando alla scena lirica il suo ultimo
grande capolavoro, l’opera comica Falstaff. Nabucco viene rappresentato per la
prima volta al Teatro alla Scala di Milano il 9 marzo 1842. Ed è subito un trionfo.
Le vicende che precedono ed accompagnano la composizione sono narrate dallo
stesso Verdi molti anni dopo. Questo lasso di tempo, e le rimozioni che dovettero
offuscare il ricordo dei tragici eventi della sua giovinezza, sono responsabili di alcune imprecisioni del racconto. Ma la sostanza, e soprattutto lo spirito da cui Nabucco vide la luce, sono una testimonianza viva e imprescindibile di quei giorni. Riproduciamo per intero la pagina autobiografica di Verdi.
L’impresario teatrale Bartolomeo Merelli nei primi mesi del 1840 cercò Verdi per
dirgli, come lo stesso musicista scrisse, di aver bisogno assolutamente per l’autunno di un’opera buffa. Scrive Verdi:
Non rifiutai l’invito e Merelli mi diede da leggere vari libretti di Romani, che,
o per cattivi successi o per altri motivi, giacevano dimenticati. Lessi e rilessi,
nessuno mi piaceva, ma viste le premure che mi si facevano, prescelsi quello
che mi parve meno male, e fu II finto Stanislao, battezzato poi in Un giorno
di regno.
Io abitavo in allora un modesto e piccolo quartiere nei pressi di Porta Ticinese, ed avevo meco la mia famigliola, la mia giovane moglie Margherita
Barezzi, cioè, e due figlioletti. Tosto che mi accinsi al lavoro, fui colpito da
grave angina, che mi tenne lunghi giorni a letto: appena cominciò la conva
lescenza mi sovvenni che fra tre giorni mi scadeva l’affitto, per cui occorrevano 50 scudi. In quell’epoca, se quella somma non era per me poca cosa,
neppure poteva dirsi grave: ma la mia penosa malattia mi aveva impedito di
provvedervi in tempo, né le comunicazioni di allora con Busseto (la posta
partiva due volte la settimana), mi dava agio di scrivere all’ottimo mio suocero Barezzi per avere subito la detta somma. L’affitto volevo pagarlo ad
ogni costo nel giorno prefisso, quindi, per quanto mi annoiasse il ricorrere a
terze persone […]. Mia moglie, vedendo le mie ambasce, piglia i pochi
aggetti d’oro di sua proprietà, esce di casa, non so come riesce a radunare
la somma citata, e me la consegna: fui commosso a questo tratto affettuoso, promettendomi restituire il tutto a mia moglie, il che potevo fare in breve, visto il contratto che già tenevo.
Ma qui cominciano gravi sventure: il mio bambino si ammala al principio di
aprile: i medici non riescono a capire quale sia il suo male, ed il poverino languendo si spegne nelle braccia della madre disperatissima. Né basta: dopo
pochi giorni la bambina cade a sua volta malata! E la bambina ha pure un
male letale! Ma non basta ancora: ai primi di giugno la giovane mia compagna è colpita da violenta encefalite ed il 19 giugno 1840 una terza bara esce
da casa mia! Ero solo! Solo! Nel volgere di circa due mesi tre persone a me
care erano sparite per sempre: la mia famiglia era distrutta! In mezzo a queste angosce terribili, per non mancare all’impegno assunto, dovetti scrivere
e condurre a termine un’opera buffa! Un giorno di regno non piacque: vi ebbe di certo una parte di colpa la musica, ma una parte vi ebbe l’esecuzione.
Coll’animo straziato dalle sventure domestiche, esacerbato dall’insuccesso
del mio lavoro, mi persuasi che dall’arte avrei invano aspettato consolazioni, e decisi di non comporre mai più’. Anzi scrissi all’ingegnere Pasetti (che
dopo la caduta di Un giorno di regno non s’era fatto più vivo), perché mi
ottenesse da Merelli lo scioglimento del contratto.
Merelli mi fece chiamare e mi trattò da ragazzo capriccioso. Non ammetteva che io mi disgustassi per un successo poco felice, ecc ecc: ma io tenni
duro, così che, restituendomi il contratto, Merelli mi disse:
«Senti, Verdi, non posso obbligarti a scrivere per forza! La mia fiducia in te
non è diminuita: chi sa che un giorno non ti decida a riprendere la penna!
Basta avvertirmi due mesi prima di una stagione, e ti prometto che la tua
opera sarà rappresentata».
Ringraziai, ma queste parole non valsero a smuovermi dalla mia determinazione, e me ne andai. Fissai dimora in Milano presso la Corsia de’ Servi; ero
sfiduciato né più pensavo alla musica, quando una sera di inverno nell’uscire dalla Galleria De Cristoforis m’imbatto in Merelli che si recava a teatro.
Nevicava a larghe falde, ed esso prendendomi sotto braccio mi invita ad accompagnarlo al camerino della Scala. Strada facendo, si chiacchiera e mi
racconta di trovarsi imbarazzato per l’opera nuova che doveva dare: ne aveva l’incarico Nicolai [un affermato compositore tedesco], ma questi non era
contento del libretto.
«Figurati» dice Merelli «un libretto dì Solera, stupendo! Magnifico! Straordinario! Posizioni drammatiche efficaci, grandiose; bei versi ma quel caparbio di maestro non ne vuoi sapere e dichiara che è un libretto impossibile!
Non so dove dar di capo per trovarne un altro subito.»
Così dicendo si era giunti al teatro: Merelli prende in mano un manoscritto
e mostrandomelo esclama: «Vedi, ecco qui il libretto di Solera! Un così
bell’argomento, e rifiutarlo! Prendi! Leggilo.»
«Che diamine debbo farne? No, no non ho volontà alcuna di leggere libretti.»
«Eh… non ti farai male per questo! Leggilo e poi me lo riporterai» e mi consegna il manoscritto: era un gran copione a caratteri grandi, come s’usava
allora: lo faccio in rotolo e salutando Merelli mi avvio a casa mia.
Strada facendo mi sentivo indosso una specie di malessere indefinibile, una
tristezza somma, un’ambascia che mi gonfiava il cuore!… Rincasai e con un
gesto quasi violento gettai il manoscritto sul tavolo, fermandomici ritto in
piedi davanti. Il fascicolo cadendo sul tavolo stesso si era aperto: senza
saper come, i miei occhi fissano la pagina che stava a me innanzi, e mi si
affaccia questo verso: Va’, pensiero, sull’ali dorate… Scorro i versi seguenti
e ne ricevo una grande impressione, tanto più che erano quasi una parafrasi
della Bibbia, nella cui lettura mi dilettavo sempre.
Leggo un brano, ne leggo due: poi, fermo nel proposito di non scrivere, faccio forza a me stesso, chiudo il fascicolo e me ne vado a letto! Ma sì…

Nabucco mi trottava pel capo! Il sonno non veniva: mi alzo e leggo il libretto, non una volta, ma due, ma tre, tante che al mattino si può dire che io
sapevo a memoria tutto quanto il libretto di Solera.
Con tutto ciò non mi sentivo di recedere dal mio proposito, e nella giornata.
Ritorno al teatro e restituisco il manoscritto a Merelli.
«Bello, eh? » mi dice lui.
«Bellissimo.»
«Dunque mettilo in musica!»
«Neanche per sogno… non ne voglio sapere.»
«Mettilo in musica, mettilo in musica…»
E così dicendo prende il libretto, me lo ficca nella tasca del soprabito, mi
piglia per le spalle, e con un urtone mi spinge fuori dal camerino, non solo,
mi chiude l’uscio in faccia con tanto dì chiave.
Che fare? Ritornai a casa col Nabucco in tasca: un giorno un verso, un giorno
l’altro, una volta una nota, un’atra volta una frase… a poco a poco l’opera
fu composta.
Eravamo nell’autunno del 1841, e rammentandomi la promessa dì Merelli,
mi recai da lui annunciandoci che il Nabucco era scritto, e quindi poteva rappresentarsi nella prossima stagione di carnevale-quaresima.
LA NOSTRA OPERA
La trama originale
Com’è prassi di Opera domani, l’intera opera è contenuta nella durata di circa
un’ora e venti. Per questa ragione vengono selezionate le parti più significative, tali
da consentire uno svolgimento lineare della vicenda. In particolare, la nostra regia
assegna la parte del popolo ebraico ai bambini e ragazzi seduti in platea, che canteranno, durante lo spettacolo, i relativi brani corali. La parte degli Assiri è invece
circoscritta ai solisti, mentre sono tagliati gli interventi corali del popolo oppressore. La vicenda che risulta è la seguente.
Sconfitto in battaglia dagli Assiri, il popolo ebraico vede irrompere in Gerusalemme
il re nemico, Nabucco (propriamente Nabucodonosor). Il sommo sacerdote ebraico
Zaccaria conforta la sua gente: nelle loro mani è infatti caduta, prezioso ostaggio,
Fenena, la figlia del re nemico. Dell’assira Fenena è innamorato il principe ebraico
Ismaele. I due stanno per fuggire quando vengono sorpresi da Abigaille, supposta
altra figlia di Nabucco, anch’ella innamorata non corrisposta di Ismaele. Quando
Zaccaria alza il pugnale su Fenena, Ismaele lo ferma. Liberata Fenena, Nabucco
ordina di saccheggiare Gerusalemme.
La scena si sposta a Babilonia, dove Abigaille entra in possesso di un documento
che rivela la sua vera identità: non è figlia di Nabucco ma solo una sua schiava. Una
sfrenata ambizione le fa desiderare il trono babilonese e la morte della rivale Fenena. Alla fine di un confronto drammatico, in cui Abigaille distrugge sotto gli occhi di
Nabucco il documento che rivela la sua vera identità, Nabucco si proclama dio, un
fulmine lo colpisce e gli strappa la corona, subito raccolta da Abigaille, che si proclama regina. Al frastornato Nabucco Abigaille fa firmare il decreto che condanna
a morte tutti gli Ebrei, e con loro l’odiata Fenena. È qui che gli Ebrei prigionieri alzano al cielo la loro preghiera Va’ pensiero…
Imprigionato, Nabucco vede la figlia Fenena andare al supplizio, quando gli giunge
il grido dei guerrieri che gli sono rimasti fedeli. Liberato, infrange l’idolo babilonese
e libera a sua volta gli Ebrei. Ad Abigaille non resta altra scelta che avvelenarsi:
muore non prima di aver chiesto perdono a Fenena.
L’allestimento
L’opera che viene rappresentata per bambini e ragazzi condensa i quattro atti in
un’unica sequenza, della durata di circa 80 minuti.
Due principi guidano gli allestimenti di Opera domani. Uno è musicale: si tende a
tagliare le ripetizioni, le pagine ridondanti, quelle che frenano l’azione. L’altro è
registico: ogni regista dà una propria lettura dell’opera, prediligendo certi momenti
ad altri.
L’arrangiamento musicale curato da Alberto Cara, prevede i seguenti strumenti:
flauto
ottavino
oboe
clarinetto
fagotto

2 corni
tromba
violini
viole
violoncelli
contrabbasso
I cori degli alunni
Il coro degli alunni impersona sempre, dalla platea, il popolo ebraico.
1. Di lieto giorno un sole
Il popolo esprime la speranza che la cattura dell’ostaggio (la principessa
Fenena) tenga lontana l’aggressione dell’esercito guidato da Nabucco.
2. Come notte a sol fulgente
Il nemico sta per arrivare e gli Ebrei si preparano allo scontro invocando Dio.
3. Dalle genti sei reietto
Il popolo si sente tradito da Ismaele, che ha liberato Fenena, e per questo lo
maledice.
4. S’appressan gl’istanti
Nabucco sfida Abigaille, e con lei i popoli di Babilonia e di Israele. Un brivido
attraversa tutti i presenti, nel terrore che possa succedere qualcosa di tremendo.
5. Oh come il cielo vindice
Una breve esclamazione, per commentare la caduta di Nabucco.
6. Va’ pensiero sull’ale dorate
È il canto con cui gli Ebrei, fatti prigionieri, sognano il giorno della liberazione
7. Viva Nabucco – Divin prodigio!
Due brevi interventi, dopo che Nabucco ha preso le difese degli Ebrei.
8. La misera…
Un semplice gesto di compatimento per la morente Abigaille.
9. Solleva Iddìo
Continuazione del precedente.
10. Fratelli d’Italia
Il nostro inno nazionale eletto a inno di fratellanza tra tutti i popoli.
A proposito di Va’, pensiero, il librettista Solera ha ripreso il biblico Salmo 137:
«Lungo i fiumi di Babilonia ci sedemmo angosciati in memoria della patria. Con le
lacrime appendemmo le nostre cetre sopra i salici. In quell’esilio, parole di canto ci
chiedevano i nostri carcerieri, inni di giubilo i nostri oppressori. No! Come potremmo cantare le lodi del Signore in terra straniera, senza evocare il dramma di Gerusalemme? Come potremmo dimenticare la nostra città? Il suo ricordo è al di sopra
di ogni gioia». Salvatore Quasimodo riprende lo stesso concetto nella sua poesia E
come potevamo noi cantare, con riferimento ai giorni dell’oppressione nazifascista
del Paese: «E come potevamo noi cantare / con il piede straniero sopra il cuore, /
fra i morti abbandonati nelle piazze, / al lamento d’agnello dei fanciulli, / all’urlo
nero della madre / che andava incontro al figlio / crocifisso sul palo del telegrafo?
/ Alle fronde dei salici, per voto / anche le nostre cetre erano appese. / Sussurravano lievi al triste vento».
La fama di questo canto è tale da aver varcato le frontiere. È una delle musiche italiane più conosciute in tutto il mondo. Per esempio è l’unica italiana in una recente
collezione francese1 dedicata alle più importanti canzoni del mondo, accanto alla
Marsigliese, ad Amazing grace, Lily Marlène, We are the world, Les feuilles mortes…
Non si contano le riprese di cantanti moderni. Ci si può divertire a cercare su Youtube le più famose interpretazioni di Zucchero, Pavarotti, Sinead O’Connor, Al
bano…
Alla celebrazione del centocinquantenario dell’Unità d’Italia, Opera domani intende contribuire anche insegnando ai nostri bambini e ragazzi l’inno nazionale. La
nostra regista ha previsto di farlo cantare alla fine di ogni spettacolo.
Più avanti vedremo alcune riflessioni e qualche proposta didattica sul nostro inno.
Il nostro CD
Il CD di corredo, fornito agli insegnanti, contiene i canti eseguiti dal Coro di voci
bianche del Teatro Sociale di Como - AsLiCo e, separatamente, gli accompagnamenti, utilizzabili come basi nelle scuole in cui manchi la possibilità di accompagnare il canto dei bambini con uno strumento.
In aggiunta, viene fornita all’insegnante un’ampia selezione delle pagine dell’originale Nabucco, dalla storica versione della Orchestra della RAI di Roma diretta da

Fernando Previtali, con Paolo Silveri, Mario Binci, Antonio Cassinelli, Caterina Mancini, Gabriella Gatti, Albino Gaggi come principali interpreti.
VOgLIO UN mONDO ALL’ALTEZZA DEI SOgNI ChE hO
Questi i brani contenuti nel CD:
Note di regia
Pagine corali:
1. Di lieto giorno un sole
2. Come notte a sol fulgente
3. Dalle genti sei reietto
4. S’appressan gl’istanti
5. Oh come il cielo vindice
6. Va’, pensiero sull’ale dorate
7. Viva Nabucco – Divin prodigio!
8. La misera…
9. Solleva Iddìo
10. Fratelli d’Italia
Basi pianistiche:
11. Di lieto giorno un sole
12. Come notte a sol fulgente
13.Dalle genti sei reietto
14. S’appressan gl’istanti
15. Oh come vindice…
16. Va’, pensiero sull’ale dorate
17. Viva Nabucco – Divin prodigio!
18. La misera…
19. Solleva Iddìo
20. Fratelli d’Italia
Da Nabucco, diretto da Fernando Previtali: [43’]
Sinfonia:
21.
a) Andante
22.
b) Allegro b (re minore)
23.
c) Andantino (è il tema del Va’ pensiero)
24.
d) Allegro b (re minore)
25.
e) Allegro (re maggiore: prima sezione)
26.
f) Allegro (seconda sezione)
27.
g) Allegro (terza sezione)
28.
h) Allegro (ripresa della prima e seconda sezione)
29.
i) Ripresa dell’Allegro b, in re maggiore
30. Sperate, o figli
31. Fenena, o mia diletta
32. Prode guerrier
33. Io t’amava
34. Finale primo: marcia
35. Introduzione della Parte seconda
36. Salgo già del trono aurato
37. Preludio della scena terza
38. Chi mi toglie il regio scettro?
39. Marcia funebre
40. Su me morente, esanime
L’insegnante farà bene a procurarsi un’edizione completa di Nabucco. Segnaliamo,
su CD:
Direttore: Giuseppe Sinopoli; Interpreti: Piero Cappuccilli, Placido Domingo,
Evgeny Nesterenko, Ghena Dimitrova, Lucia Valentini Terrani; Orchestra Deutschen Oper (DEUTSChE GRAMMOPhON)
Direttore: Riccardo Muti; Interpreti: Nicolaj Ghiaurov, Matteo Manuguerra,
Veriano Luchetti, Elena Obraztsova, Renata Scotto; Orchestra Philarmonia (EMI)
su video:
Direttore: Riccardo Muti; Interpreti: Renato Bruson, Bruno Beccaria, Paata Burchuladze, Ghena Dimitrova, Raquel Pierotti; Orchestra del Teatro alla Scala (NVC
ARTS)

di Silvia Collazuol
C’era una volta un Re,
un Re pazzo di ambizione e di potere,
Sua Maestà del rancore fraterno,
sovrano dell’odio fra nazioni e religioni.
La sua storia di morte e rinascita,
è la storia di un incubo,
una visione oppressiva che in realtà è la Realtà.
Ma è una storia di Amore e di speranza,
la storia di un sogno che vorrei fosse Realtà,
quella che vi racconto:
la storia di Abigaille e delle sue scelte sbagliate.
Presi per mano dal giovane Giuseppe Verdi, entriamo in un luogo magico la cui
frontiera, rappresentata dal golfo mistico, divide due popoli che si odiano. In questa atmosfera di antagonismo, due ragazzi che si amano, lottano per tendere un
ponte che, volando sulle ali dell’amore, unisca i loro rispettivi fratelli.
Bambini e ragazzi, impersonando il popolo oppresso, vivono l’azione che si svolge
tra palco e platea, fianco a fianco degli interpreti: dopo esser stati imprigionati,
canteranno il Va’, pensiero, grido di dolore di un intero popolo che aspira alla libertà. Le parole di questo canto di esuli – che ai tempi di Verdi furono proclama di indipendenza degli Italiani oppressi dalla dominazione austro-ungarica –, sono anche
parole che racchiudono la nostalgia degli emigrati nel ricordare la propria patria,
lasciata per cercare altrove una vita migliore. Perciò nel finale dello spettacolo
bambini, ragazzi e artisti, intonano l’inno Fratelli d’Italia, simbolo di fratellanza e di
unità, nel senso più cosmopolita.
Vorrei che questa mia versione del Nabucco, raccontato ai bambini dopo 150 anni
dall’Unità d’Italia sia un appello di tolleranza, di unione e di comunione sincera. I
bambini che ‘vivranno’ questo progetto sono anche gli uomini di domani e rappresentano la nostra speranza per un futuro in cui il mondo intero sarà considerato la
patria di tutti, senza distinzioni di religione, colore, cultura e classe.
Sinossi
C’era una volta la figlia di un re… si chiamava Abigaille.
In realtà del Re Nabuccodonosor di Babilonia era solo la figlia adottiva.
Aveva una sorella, Fenena, che non amava, anzi, odiava a morte… ma in realtà
odiava tutti a morte… amici, nemici, amori.
Abigaille non sapeva amare: ci aveva provato una volta, con il giovane soldato
Ismaele. Un Ebreo che era a Babilonia come ambasciatore. Aveva provato ad amarlo… ma in realtà il suo era un amore possessivo, ossessivo, persecutorio, malato;
non corrisposta, in accordo col padre, l’aveva fatto addirittura imprigionare. Del
carattere del padre adottivo aveva preso tutti i difetti: l’odio, la cupidigia, la sete di
potere, l’ambizione sfrenata, la propensione alla violenza… ma in realtà dentro di
lei qualcosa di buono c’era; solo che noi lo vedremo solamente alla fine o… per
meglio dire… alla fine della fine.
Ma in realtà… la nostra storia inizia proprio da qui, quando tutto è già successo…
PROLOGO
Un cimitero… provate a immaginare un cimitero, piccolo, molto buio, spaventoso.
Il grande musicista Giuseppe Verdi è triste perché la sua seconda opera è stata
fischiata dagli spettatori; per consolarsi è venuto a far visita alle tombe della moglie
Margherita e dei due figlioletti Virginia e Icilio, che lo hanno lasciato da poco. Mentre con dolore racconta ai suoi cari di voler abbandonare la musica, ecco apparire
un… fantasma. È lo spirito di Abigaille. Dopo aver vissuto una vita piena di odio,
facendo del male alla sorella, al padre, all’uomo che amava, e a tutto un intero
popolo, è arrivata persino a togliersi la vita. Lo spirito di Abigaille ha bisogno di trovare la serenità, altrimenti dovrà vagare in eterno senza pace: per raggiungere
quella pace, chiede a Verdi di mettere in scena la storia della sua vita, affinché la
sua esperienza negativa sia per tutti un esempio da non seguire. Solo così potrà
riposare finalmente in pace e riconciliarsi con la sua famiglia, con se stessa, col
mondo. Verdi, prima cerca di rifiutare, poi, incuriosito, accetta e si lascia affascinare e conquistare dalla storia che Abigaille gli racconta, che ci racconta…

PARTE PRIMA
Gerusalemme, sotto l’assedio del crudele re babilonese Nabucco.
Il popolo ebreo è rifugiato dentro il Tempio. Zaccaria, il sommo sacerdote del popolo ebreo, porta ai suoi fedeli la prova che Dio non li ha abbandonati: Fenena, la
figlia del re nemico è sua prigioniera e, come ostaggio, potrà essere il mezzo di
scambio per fermare l’attacco del padre Nabucco.
Mentre Zaccaria cerca di rassicurare il suo popolo, arriva Ismaele, giovane guerriero ebreo, ad annunciare l’inarrestabile assalto di Nabucco. Il sommo sacerdote
vuole vedere con i suoi occhi l’avanzata del nemico e quindi lascia Fenena nelle
mani di Ismaele, senza sapere però che i due giovani si conoscono da tempo, ovvero da quando Ismaele, andato a Babilonia come ambasciatore, era stato preso prigioniero. Era nato allora tra i due un amore così forte da non temere il passo del
tempo e la distanza.
Ismaele, non visto, cerca il modo di liberare la sua amata Fenena, ma viene bloccato da Abigaille, sorella di Fenena, che nel frattempo, è entrata con la forza nel tempio. Abigaille offre ad Ismaele la salvezza sua e del suo popolo in cambio del suo
amore. Egli rifiuta; non vuole rinnegare il proprio amore per Fenena e non teme di
morire per lei. Chiede però pietà per il suo popolo. In quell’istante, il re Nabucco
entra nel tempio. Zaccaria, che spaventato dall’avanzare di Nabucco e dei suoi era
ritornato a rifugiarsi nel Tempio, minaccia di uccidere Fenena se Nabucco oserà
profanare il luogo sacro degli ebrei.
Nel momento in cui il sommo sacerdote sta per colpire la ragazza, Ismaele riesce a
liberarla. Nabucco, colto da un’immensa rabbia, ordina di saccheggiare e bruciare
il Tempio; Abigaille giura di cancellare il popolo nemico dalla faccia della terra; Zaccaria ed il popolo ebreo maledicono Ismaele che li ha traditi.
PARTE SECONDA
Babilonia.
Abigaille, rovistando tra i documenti di famiglia, trova uno scritto in cui legge di
essere in realtà figlia di schiavi e quindi non la figlia primogenita del re Nabucco.
Questa scoperta avvelena irrimediabilmente il suo cuore.
Il gran sacerdote di Belo informa Abigaille che Fenena, a cui Nabucco ha affidato il
trono prima di partire alla conquista della Giudea, sta liberando tutti gli ebrei prigionieri, e che, per questo, il popolo babilonese è in rivolta. Le confessa quindi di
aver architettato un piano diabolico: ha sparso la voce della morte in battaglia di
Nabucco, così che il popolo acclami lei come regina.
Nel frattempo, Fenena, desiderosa più che mai di unire i due popoli e di estinguere
per sempre le ostilità, decide di farsi esempio di convivenza, facendosi battezzare
da Zaccaria nella religione ebraica. Approfittando della sua nuova condizione chiede agli ebrei di perdonare Ismaele che, salvandola, salvò una di loro.
Abigaille, che di nascosto ha assistito al battesimo, si scaglia su Fenena, pretendendo la corona. Sopraggiunge in quell’istante Nabucco e, nella sorpresa generale,
riprende da sua figlia Fenena la corona e se la pone sul capo. Ordina ad entrambi i
popoli di inchinarsi e di adorarlo come il solo e unico sovrano e dio. All’improvviso
un fulmine mandato dal cielo lo colpisce e gli fa perdere la corona. Nabucco impazzisce e poi, stremato, sviene.
Abigaille, non si lascia sfuggire l’occasione: raccoglie velocemente la corona, se la
mette sul capo e s’impossessa del trono.
PARTE TERZA
Nabucco rinviene e trova Abigaille sul trono; ancora stordito, non la riconosce. Abigaille, approfittando della debolezza e della confusione del padre, si dichiara custode temporanea del trono regale, e non contenta, consegna al deposto re un atto
terribile: la sentenza di morte di tutti gli ebrei. Ultimo atto del suo perfido disegno.
Nabucco è indeciso e non vuole assecondare la figlia, ma Abigaille lo provoca rivelandogli tutto l’odio che la divora, aggiungendo che Fenena, ora convertita
all’ebraismo, dovrà morire assieme agli altri ebrei.
Nabucco è affranto e, in un ultimo disperato tentativo di convincere la figlia a desistere dai suoi crudeli intenti, le rivela le sue origini di schiava e le ordina di risparmiare la sua unica vera figlia Fenena. Abigaille, nella sua perfida determinatezza e
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ferita a morte nell’orgoglio, svelta distrugge la prova della sua nascita e fa imprigionare Nabucco che implora perdono. Il vecchio re, ormai ridotto all’ombra di ciò che
era, è pronto a rinunciare al trono, e supplica invano Abigaille di risparmiare Fenena. Piegato dal dolore e vinto nell’animo, Nabucco si assopisce.
Intanto il popolo ebreo, imprigionato in esilio e sul punto di essere annientato,
ricorda con nostalgia la propria patria lontana.
PARTE QUARTA
Nabucco si risveglia confuso da un brutto sonno agitato e chiede il suo cavallo per
andare in battaglia. Sente allora il grido di condanna a morte di Fenena e ricorda
ciò che è appena accaduto; vuole correre a salvare la figlia, ma si rende conto di
essere prigioniero. Chiede perdono al Dio degli ebrei per tanta tracotanza e promette di ricostruire il Tempio distrutto e di convertirsi. Ritrovando la lucidità e la
forza di reagire, riesce a liberarsi e finalmente libera anche il popolo ebreo. Nel
frattempo, Abigaille nel veder crollare il suo diabolico piano si è avvelenata e, agonizzante, giunge in scena. È aiutata e sorretta da Giuseppe Verdi. Chiede perdono
a tutti per come ha vissuto e per il male che ha commesso, poi ringrazia Verdi per
averla aiutata a trovare la pace dell’anima.
E così finisce la storia di Abigaille la figlia di un re… ma in realtà forse questo è solo
un inizio…
I Personaggi
NABUCCO
Temibile e terribile re di Babilonia, è un conquistatore crudele che arriva persino a
proclamarsi Dio. È il padre di Abigaille e Fenena. Messo di fronte al dolore e alla
paura di perdere l’amata figlia Fenena, la sua blasfemia e crudeltà vengono punite.
Pentitosi, cercherà di redimere la sua vita restituendo la libertà al popolo ebreo.
ABIGAILLE
Presunta figlia primogenita del re Nabucco, scopre di essere in realtà figlia di schiavi. È divorata dall’invidia, dalla gelosia, dall’insicurezza, dalla superbia, dalla brama
di potere e di vendetta. Donna-guerriera forte e spietata, dimostra la sua fragilità
agendo sempre guidata dai più bassi istinti. Era stata innamorata di Ismaele in
segreto quando il ragazzo era a Babilonia: il suo era un amore persecutorio e non
corrisposto che l’aveva resa furibonda di gelosia e odio verso la sorella Fenena.
FENENA
È la sola ed unica figlia naturale di Nabucco. È innamorata del soldato ebreo Ismaele, che ha conosciuto quando era ambasciatore a Babilonia e che aveva aiutato a
fuggire quando era stato preso prigioniero dal padre e perseguitato dalla sorella. È
una ragazza sensibile, premurosa e intelligente. Dimostra tutta la sua forza quando, spinta dall’amore, andando contro tutto e tutti, decide di convertirsi alla religione ebraica, nel tentativo di unire e riappacificare i due popoli nemici.
ISMAELE
Nipote di Sedecia, re di Gerusalemme, è un giovane e fiero guerriero. Era ambasciatore di Gerusalemme a Babilonia, quando il crudele re Nabucco lo aveva fatto
prigioniero. Liberato da Fenena, che da allora aveva amato intensamente. Coerente e sincero, non rinnega se stesso e i suoi sentimenti di fronte a nulla. Cercando di
liberare Fenena, presa in ostaggio da Zaccaria, e poi salvandola dalla morte, Ismaele diventa agli occhi del popolo ebreo un traditore. Solo alla fine riuscirà a riscattare
il suo onore e la sua integrità davanti a tutti e ad unirsi definitivamente con la sua
amata.
ZACCARIA
È il gran pontefice degli Ebrei, profeta e guida per tutto il suo popolo, che esorta, a
volte, quasi in modo militaresco alla rivolta. È il solo in grado di opporsi alla ferocia
di Nabucco. Prende in ostaggio l’amata figlia del re, Fenena, e volendola usare
come ‘merce di scambio’ per ottenere la pace, non esita a sacrificarla, cercando di
toglierle la vita, pur di fermare Nabucco nella sua conquista.
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IL GRAN SACERDOTE DI BELO
È la controparte babilonese di Zaccaria. È complice dell’ascesa al potere di Abigaille
a regina di Babilonia, attraverso l’inganno e il tradimento. Così come il suo alter ego
ebreo, basa la sua predica sull’odio e sulla vendetta, più che sull’amore.
GIUSEPPE VERDI
Compositore italiano leggendario non solo per aver cambiato la storia del melodramma, ma anche per essere stato l’emblema politico di tutta una nazione in cerca della propria identità. È lui che dà vita a tutti i personaggi, per raccontarci una
storia che non ha età: il trionfo dell’amore sull’odio.
IL PRImO FONDALE STORICO DELL’OPERA: LA DIASPORA
Ricapitoliamo qui sinteticamente i fatti salienti dell’epoca storica in cui Nabucco è
ambientato. L’obiettivo è di capire le ragioni del fenomeno periodicamente risorgente del pregiudizio, o addirittura dell’odio mortale, contro l’ebreo; e farne oggetto di riflessione con i ragazzi. Benedetto Croce diceva che ogni storia è sempre storia
del presente. Nel senso che nella massa incontrollabile degli eventi del passato, ogni
storico ne sceglie solo alcuni, in funzione degli interessi forti del momento in cui scrive, cioè appunto in funzione del presente. E il nostro presente è quello che ci
costringe a rivisitare le ragioni profonde per cui un popolo, ieri quello, oggi o domani
un altro, può essere perseguitato. Perché quella storia non è finita, e chissà se finirà
mai: oggi la storia si ripete con altri popoli, altri paesi, altre cause, altri pretesti.
1. Il popolo della Bibbia
La formazione di una comunità ebraica stanziata in Palestina è attestata fin dal
XVIII secolo a. C. Con insediamenti anche nei territori vicini, come l’Egitto. Un popolo in armi, come gli altri con cui si contende i territori, i Filistei, gli hyksos, i Fenici,
gli Egizi, gli Assiro-babilonesi, i Sumeri, i Persiani, e l’elenco non finisce qui. Un
popolo che – a leggere la Bibbia, la testimonianza maggiore di quel popolo, in parte
storica, in parte mitologica – non esitava, come insegnano le guerre di ogni tempo,
a fare strage dei propri nemici: uccidendo non solo i combattenti ma anche la
popolazione inerme, uomini, donne e bambini. Così fa Mosè contro i Madianiti o
Giosuè contro gli abitanti di Gerico (l’impresa celebrata anche nel famoso spiritual
Joshua fit the battle of Jericho). Allo stesso modo la storia di questo popolo è anche
segnata da violenti conflitti interni, fra le diverse tribù e confessioni religiose, di cui
il mito di Caino e Abele è solo un simbolo archetipico.
2. Nabucodonosor
Nabucodonosor è il re dei Babilonesi, i quali nel 587 a.C., a conclusione dell’ennesima guerra, distruggono il tempio di Gerusalemme e deportano in Babilonia gli
abitanti della città. Questo personaggio e la deportazione degli Ebrei sono l’unico
elemento che il libretto di Solera ricava dalla storia; insieme alla citazione del salmo
137, Super flumina, che il librettista usa nel suo Va’ pensiero. Il tempio verrà ricostruito 70 anni dopo. Tutto il resto del libretto è pura fantasia.
3. L’epoca romana
L’occupazione romana comincia con il riconoscimento della Palestina come stato
vassallo, la cui autonomia si esaurisce rapidamente, fino a provocare una prima
rivolta, schiacciata da Vespasiano e Tito nel 70 d.C. Distrutto per sempre il tempio
di Gerusalemme, la popolazione è soppressa o schiavizzata. Un’ultima rivolta al
tempo dell’imperatore Adriano chiude definitivamente (nel 135 d.C.) lo stanziamento ebraico in Palestina e dà inizio alla diaspora (dispersione). Chiedersi perché
gli Ebrei si ribellarono a un potere centrale attento a garantire le autonomie locali
fino ad arrivare a riconoscere la cittadinanza romana ai popoli conquistati (o almeno ai loro maggiorenti) offre la chiave per capire le persecuzioni a cui quel popolo
andrà incontro nei secoli a venire. Quello che univa saldamente il popolo ebraico
era la forte dipendenza da una convinzione religiosa fin allora pressoché inaudita,
e che lo faceva sentire ‘popolo eletto’: il monoteismo. Con un corollario di pratiche
cultuali, alimentari e sociali (il riposo del sabato, la circoncisione, il matrimonio
endogamico, ecc.) con le quali marcavano la propria ‘differenza’. Questo spiega
perché gli Ebrei evitassero fin da allora di lasciarsi assimilare ai popoli in mezzo ai
quali vivevano. Il rifiuto e la chiusura verso gli altri culti urtavano però contro la
permissività politeista della civiltà greco-romana, che reagisce distruggendo i
monumenti stessi dell’ebraismo e condannando le sue pratiche.
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4. Le radici dell’odio
Qui entrano in scena i Cristiani. Gesù era ebreo naturalmente. E il cristianesimo
nasce come variante innovativa della religione monoteista. Una ragione sufficiente
per spingere qualche imperatore a perseguitare anche i Cristiani, come sappiamo.
Per difendersi, questi impugnano la propria distinzione dall’ebraismo (di qui l’abolizione della circoncisione e delle norme alimentari ebraiche), e a maggior ragione
la propria estraneità ai moti rivoluzionari ingaggiati dagli Ebrei contro l’impero
romano. Anche se negli anni Trenta del primo secolo il potere giudiziario era in
mano a funzionari romani (come Ponzio Pilato), i Cristiani attribuiscono agli Ebrei
la crocifissione di Gesù. Di qui alla definizione di ‘popolo deicida’ il passo è breve.
Scrive Eusebio di Cesarea (III-IV secolo): «Dopo il loro deicidio essi sono come ciechi
e non possono servire di guida a nessuno». Questa accusa infamante genera a
cascata ogni sorta di denigrazione. Sentiamo Giovanni Crisostomo (IV secolo): «La
sinagoga è caverna di briganti e tana di belve feroci. Vivendo per il ventre, sempre
a bocca spalancata, gli Ebrei non si comportano meglio dei maiali e dei caproni, con
la loro lubrica rozzezza e la loro eccessiva ingordigia. Sanno fare una cosa sola:
ingozzarsi e ubriacarsi»; e chiude: «È dovere di tutti i Cristiani odiare gli Ebrei».
Seguiranno nei secoli accuse di satanismo, di stregoneria, di omicidi rituali, di avvelenamento dei pozzi. Addirittura sono incolpati della terribile peste nera che a
metà del Trecento decima la popolazione europea. Non sempre l’invito di Giovanni
Crisostomo è raccolto, per fortuna. Per esempio Pietro Abelardo, il grande filosofo
medievale, li difende da una delle accuse rivolte spesso agli Ebrei, quella di essere
usurai, spiegandone la sorgente: spogliati di ogni diritto di proprietà e di impresa,
non restava loro altro mezzo di sopravvivenza che prestare denaro (come oggi fa
qualunque mutuo bancario). Un secolo dopo sarà papa Innocenzo IV a difenderli. E
per quanto fossero a volte vessatorie le posizioni della gerarchia ecclesiastica, non
è detto che venissero condivise dalle popolazioni cristiane, che spesso anzi convivevano felicemente e laboriosamente con gli Ebrei.
5. Da un secolo all’altro
Da quando nel 380 il cristianesimo diventa religione di stato, le sorti dell’ebraismo
sono dunque altalenanti. A momenti e a paesi che li accettano in mezzo a loro si
alternano momenti e paesi in cui gli Ebrei sono perseguitati, con la limitazione crudele dei loro diritti, con l’appropriazione o la distruzione dei loro beni, con l’espulsione, fino all’eliminazione fisica. Nel 1492, con la vittoria di Isabella di Castiglia e
Alfonso d’Aragona contro i Mori, tutti gli Ebrei sono espulsi dal territorio spagnolo.
Nel Cinquecento si creano ghetti in cui gli Ebrei devono obbligatoriamente vivere,
a Venezia prima, poi a Roma, con una bolla di papa Paolo IV. Nei due secoli seguenti si riprendono le stragi, in Polonia e in Ucraina, e nell’Ottocento si moltiplicano i
pogrom in Russia. Persino per giustificare lo spaventoso massacro degli Indiani
d’America, che spazzò via intere civiltà (costò la vita a decine e decine di milioni di
persone) ci fu allora chi li proclamò imparentati con gli Ebrei, come fece il religioso
spagnolo Roldàn agli inizi del Cinquecento.
Tutto questo per ricordare anche ai nostri ragazzi che la persecuzione degli Ebrei
non è una pratica introdotta dai nazisti, ma che ha alle spalle più di 1500 anni di
tragedie. La stessa stella gialla, il marchio imposto dai nazisti agli Ebrei in vista della
soluzione finale, non è una loro invenzione. Fu decretata la prima volta dal Concilio
Lateranense del 1215 (paradosso della storia: questa data è ricordata nei testi per
la promulgazione della Magna charta libertatum, strappata al re inglese dai suoi
feudatari: il primo documento fondamentale per il riconoscimento universale dei
diritti dei cittadini). Per chiudere su questi dolorosi eventi, è bene anche ricordare
che con l’avvento dell’islamismo, fu proprio nei paesi islamici che gli Ebrei poterono trovare rifugio sicuro dalle persecuzioni dei Cristiani. Così avvenne in Spagna,
dopo la battaglia del 711 che portò l’Andalusia sotto il dominio arabo. Così dopo il
1453, quando Bisanzio cadde in mano ai Musulmani (e così fini l’impero romano
d’Oriente), molti Ebrei cominciarono o trasferirsi in Turchia.
Dunque, possiamo prendere l’opera di quest’anno come una metafora, che ci offre
un’occasione per il prossimo Giorno della memoria della Shoa: «processo di disumanizzazione – ricorda, per averla attraversata tutta personalmente, Simone Veil, l’illustre ex-Presidente del Parlamento Europeo –, essa ispira una riflessione inesauribile sulla coscienza e la dignità degli uomini. Perché il peggio è sempre possibile»:2
come sappiamo da quel che è avvenuto dopo in Cambogia, in Jugoslavia, in Rwanda,
in Darfur. Anche la Diaspora ci offre argomenti per incoraggiare in classe il rigetto
verso ogni oppressione di un popolo su un altro, per rivendicare il diritto di un popolo ad essere quello che è, con le sue convinzioni, le sue usanze, le sue abitudini, la
sua lingua, la sua religione, e con tutte le altre manifestazioni della cultura.
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Un corollario
Un corollario delicato, su un tema ancora più delicato di quello storico, da affidare
all’ora di religione, è il rapporto privilegiato che i potenti hanno sempre dichiarato
di avere con Dio. «Non nominare il nome di Dio invano» recita il comandamento. Il
nostro Ungaretti lo diceva in un altro modo: «[l’uomo] ripara il logorio alzando
tombe, / e per pensarti, Eterno, / non ha che le bestemmie». In un certo senso possiamo proprio leggere il sacrilegio di Nabucco, e il fulmine che lo colpisce, come
una metafora della violazione del primo comandamento. Così come è leggibile simbolicamente la vicenda di Abigaille. Muore, e con lei è sconfitto l’odio, il progetto
perverso che mira alla soppressione del nemico.
I nazisti incidevano sui loro stendardi «Gott mit uns» (Dio è con noi). Tutte le volte
che un genocidio, o una semplice strage, si compie in nome di Dio, dobbiamo spaventarci: perché si dissolve qualsiasi freno morale. Quanto abuso gli antichi profeti
ne abbiano fatto, fino a giurare di essere stati scelti e guidati da Dio stesso, e di parlare per lui, è appunto cosa da lasciare agli storici delle religioni. Ma è cosa che ha
ricadute così forti nella vita quotidiana nostra e delle generazioni future, che difficilmente si può pensare di eluderla in una missione educativa.
Un percorso del genere può partire, se non dai tanti «Gott mit uns», dalle meno tragiche rivendicazioni dei tanti sovrani della storia: di quei re che si sentivano liberi
di fare ciò che volevano perché era stato Dio – garantivano – a dar loro il potere.
Va da sé che se è Dio a dar loro il potere, solo Dio può toglierlo (e naturalmente
dovrebbe esistere qualcuno in grado di dimostrare loro che Dio gliel’ha tolto). L’assolutismo monarchico si fondava proprio su questa pretesa.
VERDI E IL RISORgImENTO
L’opera Nabucco è stata scelta anche per l’altra palese ragione. Perché è in qualche
modo il prototipo del nostro teatro risorgimentale. L’unica forma praticata di teatro, in Italia al tempo di Nabucco, era proprio il teatro lirico. Che era un teatro
popolare. Ben pochi a quel tempo avranno visto a teatro Il conte di Carmagnola di
Manzoni: un testo teatrale che si legge, come si fa con le tragedie dell’Alfieri, ma
che non si mette in scena. Invece masse intere vedevano e ascoltavano le opere di
Bellini, Donizetti, Mercadante, Pacini, Rossi. E di Verdi, fin dalle opere giovanili, fin
da Nabucco, che già alla prima ebbe un successo strepitoso. Se non sempre a teatro, certo si conoscevano quelle opere dagli organetti che giravano per le strade a
suonarne le melodie principali. A cominciare dal Va’ pensiero naturalmente.
L’Italia era allora alla vigilia delle sue imprese risorgimentali: un ribollire di moti, di
tentativi sfortunati, di preparativi diplomatici, di contrasti ideologici anche radicali,
com’erano le posizioni di Mazzini o Cavour, per non dire di Garibaldi o Pio IX. I giovani delle classi borghesi – memori dell’esperienza della Rivoluzione francese –
sentivano il fascino delle rivendicazioni di libertà, di indipendenza e di unità.
I musicisti vivevano intensamente questo clima e, se pur si tenevano fuori da un
impegno politico personale, davano voce nelle proprie opere alle sue matrici ideali.
Lo fa Bellini nella Norma e nei Puritani, come lo fa Mercadante con la sua Donna
Caritea, il cui coro Chi per la patria muor era sulle labbra dei Fratelli Bandiera,
quando nel 1844 furono fucilati nel Vallone di Rovito.
E Verdi? Il nostro compositore era di quelli che oggi si chiamerebbero autori ‘impegnati’. Nel 1859 egli arrivò a comperare i fucili per armare la Guardia Nazionale della
sua cittadina, Busseto (ben 172 armi per un totale di 312 napoleoni d’oro), quando
il Ducato di Parma, a cui apparteneva, si accingeva a proclamare l’annessione al
Piemonte. Fu fervente ammiratore di Cavour, che andò a visitare l’indomani dell’infausto trattato di Villafranca. E dal 1861 farà parte del primo Parlamento italiano. E quanto rammarico di non poter partecipare con le armi alle battaglie! C’è una
sua lettera al proposito, indirizzata alla Contessa Maffei, 23 giugno 1859, proprio il
giorno precedente S. Martino e Solferino:
Son dieci o dodici giorni che volevo scrivervi, ma dopoché quelli Illustrissimi
[gli Austriaci in ritirata] hanno fatto saltare i forti di Piacenza, sono successe
e accadono anche in questo guscio tante cose, tanti allarmi, tante notizie e
vere e false, che non si ha mai un’ora di calma. Finalmente se ne sono andati!
O almeno si sono allontanati, e voglia la nostra buona stella allontanarli di più
in più, finché cacciati oltr’Alpi vadano a godersi il loro clima, il loro cielo, che
auguro bello limpido e splendente anche più del nostro. Quanti prodigi in
pochi giorni! Non par vero. E chi avrebbe creduto tanta generosità nei nostri
alleati [i Francesi di Napoleone III, tutt’altro che generoso, come sappiamo]?… L’altro ieri un povero prete (il solo benpensante in tutta questa cam
pagna) mi portò i saluti di Montanelli che aveva incontrato a Piacenza soldato semplice nei volontari. L’antico professore di Diritto patrio che da sì nobile
esempio! Ciò è bello, è sublime! Io non posso che ammirarlo e invidiarlo! Oh,
avessi altra salute e sarei con lui anch’io! Ciò dico a voi, e ben in segreto: non
lo direi ad altri, che non vorrei si credesse vana millanteria. Ma che potrei io
fare, che non son capace di fare una marcia di tre miglia, la testa non regge
a cinque minuti di sole e un po’ di vento o un po’ di umidità mi produce dei
mali di gola da cacciarmi in letto qualche volta per settimane? Meschina
natura la mia! Buono a nulla!
Ma Verdi non era un «buono a nulla». Il suo impegno lo espresse con la sua orchestra e i suoi cantanti, con ben altra convinzione ed energia che non i suoi predecessori. Verdi, che incomincia a scrivere musica quando gli altri grandi hanno finito
(Bellini, Rossini) o stanno per finire (Donizetti), sparge nei suoi melodrammi esplicitamente, a piene mani, la passione patriottica che dimostrò nella vita. I ragazzi
potranno ben immaginare, ascoltando queste pagine di fuoco, con quanto ardore
il pubblico fiorentino accogliesse nel 1847, pochi mesi prima che Novaro musicasse l’inno scritto da Mameli, il prorompente inno La patria tradita dal Macbeth; o
l’entusiasmo con cui i patrioti sostituivano, nel coro Si ridesti il Leon di Castiglia,
dall’Ernani (1844), la parola «Castigli » con «Savoia». II melodramma verdiano è
una miniera di pagine vibranti: dal Cara patria e È gettata la mia sorte, da Attila
(1846), al Viva Italia che apre la Battaglia di Legnano (1849), e naturalmente il Va’
pensiero, dal Nabucco (1842) o O Signore dal tetto natìo, dai Lombardi alla prima
crociata, che Giuseppe Giusti sentirà cantare in Sant’Ambrogio dagli stessi soldati
occupanti, ricordando nella sua poesia (1843) «che tanti petti ha scossi e inebriati».
Per chiudere con Verdi, ogni libro di storia ricorda che il suo nome era scritto sui
muri come acronimo di Vittorio Emanuele Re D’Italia.
IL SECONDO FONDALE STORICO: L’UNITà D’ITALIA
Nabucco è stato scelto per l’edizione 2011 di Opera domani anche perché si presta
a rientrare nelle manifestazioni per il centocinquantenario dell’Unità d’Italia.
Anche allora una storia di popoli oppressi, il lombardo come il napoletano, l’ungherese come il polacco, e via continuando con gli sconvolgimenti che lo scontro fra
oppressi e oppressori produsse sulla scacchiera d’Europa.
L’unità del paese è questione delicata e controversa oggi, dove si oppongono spinte
centripete e spinte centrifughe. In altri termini, rivendicazioni di coesione da una
parte, di autonomia dall’altra. Mentre il XIX secolo vede l’Italia e la Germania impegnate a costruire un’unità nazionale, il XX secolo si apre e si chiude con lo sfaldamento di due imperi: l’austro-ungarico nel 1918, il sovietico nel 1991. Anche la storia del XIX secolo si legge inevitabilmente con gli occhi del presente. In epoche
andate, la storia dell’Italia ottocentesca era narrata come se fin dall’inizio fossero
chiari nelle menti dei ‘patrioti’ non solo la meta finale, l’unità nazionale dalle Alpi
al Lilibeo, ma anche il percorso per raggiungerla. Esiste un unico fenomeno, che si
chiama Risorgimento, preparato dai moti precedenti il ’48, si accende con le Cinque giornate e si conclude nel 1861, con le appendici del 1867 e del 1870; per qualcuno addirittura con quella del 1918. Ogni tappa di questo percorso è segnata da
nomi, diventati mitici, da Santorre di Santarosa a Cesare Battisti… Sappiamo invece
che le vicende si sono svolte in modo ben più complesso. Sappiamo per esempio
che Vittorio Emanuele II nel 1859 aspirava solo a estendere il suo regno nel NordItalia, lasciando il buon Ferdinando di Borbone a regnare tranquillo sulle Due Sicilie.
E che solo l’impresa autonoma e spericolata di Garibaldi fece deviare il percorso
sulla strada che conosciamo. Nel considerare l’unità, e ciò che essa ha rappresentato e rappresenta in positivo, gli storici sanno anche distinguere i suoi intrinseci
valori dai modi in cui l’unità ha funzionato dopo, da come è stata usata dai nostri
governanti. Sanno bene per esempio gli storici che l’unità ha funzionato a volte
come mito, come alibi, per reprimere le rivendicazioni di interi territori: fin dai primi anni, con l’imposizione su tutto il nuovo territorio nazionale della legislazione
propria dello stato sabaudo, come la leva obbligatoria, che sottraeva i contadini
alle loro terre, e che provocò le tante rivolte soffocate nel sangue; oppure certe
scelte di politica economica, che favorivano intere regioni a danno di altre, come
avverrà in occasione della ‘guerra doganale’ degli anni Ottanta dell’Ottocento tra
Italia e Francia.
Come affrontare dunque con i nostri ragazzi questi temi, senza cedere alla tentazione di farne un discorso di parte? Rendendo consapevoli i ragazzi che unità e
autonomia non solo non sono in contraddizione tra loro, ma sono valori entrambi
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preziosi per ogni comunità, grande o piccola che sia, e perfettamente conciliabili,
sempre che chi ha il compito di governare la comunità sappia rendersene conto e
farsene carico.
Non c’è bisogno di aspettare l’anno scolastico dedicato a studiare l’Ottocento per
affrontare questi temi. Anzi, siamo forse troppo imprigionati da una didattica
asservita alla cronologia, e ci facciamo sfuggire certe dinamiche profonde, che
legano l’una all’altra epoche e situazioni certamente diverse fra loro, ma paragonabili proprio in ciò rispetto a cui i nostri bisogni di conoscenza sanno creare feconde analogie. La storia è attraversata da domande e risposte ricorrenti, che invitano
a percorrerla per i sentieri più diversi: il confronto diventa allora un mezzo efficace
per insegnare ai nostri ragazzi, almeno da una certa età in su, più che a ‘imparare
la storia’ (ossia imbottirsi di nozioni) a ‘riflettere storicamente’.
I valori dell’unità
E allora, in cosa consistono i valori dell’unità? Perché merita che ne rendiamo consapevoli i nostri alunni? Se la vediamo con gli occhi di Vittorio Emanuele II o con
quelli di Bismarck, il cancelliere artefice dell’unità germanica, si potrebbe fermarsi
a leggerla come il potenziamento di uno stato (sabaudo da noi, prussiano in Germania) che si prepara al conflitto con gli altri stati. Gli anni fra il 1870 e il 1914 i
governanti dei principali stati europei affilavano le armi per prepararsi a primeggiare sugli altri, contro gli altri.
L’unità diventa un valore positivo quando si identifica con solidarietà, con la capacità di intesa e cooperazione reciproca. Quale che sia l’epoca o la parte del pianeta
in cui comunità diverse si uniscono, l’unità è l’antidoto necessario per impedire o
moderare i conflitti, per disinnescare le micce che portano fino alle guerre. Sappiamo cos’è stata la storia d’Europa prima che ci fosse l’Unione Europea. Mai nella
nostra parte d’Europa siamo stati così in pace come dal 1945 a oggi. Invece, nel raccontare le sue vicende, i nostri libri di storia sono occupati per pagine e pagine da
lotte armate e devastanti: che cominciano dall’arrivo di visigoti, franchi, ostrogoti,
e giungono alla seconda guerra mondiale. E quanti conflitti la storia d’Italia ha
conosciuto al suo stesso interno, dalla guerra gotica in poi, passando per le lotte
comunali e quelle signorili. Anche fra gli stati germanici non si contano le guerre:
concluse solo quando la Germania si è unita, nel 1870.
Opposte situazioni
La condizione perché l’unità ci doni i suoi benefici, è che sia voluta e attuata da chi
si unisce, non sia imposta dall’alto. Proprio due paesi confinanti ci offrono l’esempio delle due opposte situazioni. La Svizzera, tanto celebrata per il suo pacifismo
(guarda caso, gli unici conflitti interni, dal Cinquecento all’Ottocento, sono stati
provocati dalle confessioni religiose) nasce dal volontario confluire, in un unico stato, di comunità originariamente diverse e indipendenti. All’opposto, l’ unione forzata e artificiosa di tante comunità diverse (Sloveni, Croati, Serbi e altri), che nel
1918 ha fatto nascere lo stato jugoslavo, si è dissolta nelle tragedie dei decenni vicini a noi. Proprio come si sono dissolti, si diceva sopra, l’impero asburgico e quello
sovietico. Quella delle comunità jugoslave è un’unità che ha cominciato a ricostituirsi su un piano più alto, il piano dell’Unione Europea. Tra i focolai del nostro
Risorgimento non c’era anche la Giovine Europa di Mazzini?
L’unità linguistica e la musica
L’unità politica non implica necessariamente uniformità culturale (religiosa, etica,
estetica, prassica…). Prima di considerare il valore intrinseco delle scelte locali, e
quindi dell’autonomia, è bene ricordare ai ragazzi l’importanza di una diversa unità, l’unità linguistica. Fondamentale per comunicare, quindi per evitare i conflitti
che nascono dai fraintendimenti. L’unità linguistica come sappiamo è stata raggiunta realmente in Italia solo con l’era della TV. Basti pensare che alle soglie del Novecento, il 78% della popolazione italiana era analfabeta; al sud la quasi totalità!
Eppure non sono stati solo Dante o Manzoni a fissare lo standard di una lingua
comune. Bisogna pur ricordare che quegli autori erano letti da una piccola minoranza. Se vale la pena parlarne in un progetto come Opera domani, è perché a spingere all’unità linguistica – e non solo linguistica – delle comunità regionali, non erano certo i grandi della letteratura. Fu proprio il genere di spettacolo più popolare
nell’Ottocento: l’opera lirica! Dalla sua nascita, più di quattro secoli fa, sulle scene
del nostro melodramma si parla sempre italiano (solo eccezionalmente il napoletano o il veneto). Aggiungiamo che proprio il melodramma è stato, e continua ad
essere, il veicolo principale della lingua italiana oltre i confini, in Europa, nel mondo

intero. Metastasio, Calzabigi, Da Ponte erano familiari a Milano come a Vienna,
Praga, Londra o Amsterdam. Se questi erano ancora appannaggio delle classi colte
(non erano certo i contadini a sentir cantare Catone in Utica di hasse, Orfeo ed Euridice di Gluck, o nemmeno Don Giovanni di Mozart), l’emergere di nuove classi
sociali nel corso dell’Ottocento (anche in Italia) coincide con la crescente popolarità del melodramma. Tanto popolare da spazzar via l’interesse dei nostri avi per il
teatro di prosa.
I valori dell’autonomia
Ed ecco qui affacciarsi l’altro valore, finora lasciato in ombra, il valore dell’autonomia. Si affaccia in uno dei suoi aspetti spesso indagati dagli studiosi e richiamati dai
politici: quello che affianca all’unità della lingua nazionale la diversità dei dialetti
locali. Se l’unità linguistica è un valore indiscutibile, il venir meno delle lingue locali,
o dei dialetti, sarebbe pur sempre una pesante perdita culturale. Ariosto, Leopardi
o Pavese arricchiscono la nostra umanità. Ma quanto perdiamo a non saper leggere ciò che hanno scritto Carlo Porta, Salvatore Di Giacomo, Gioachino Belli, Giovanni Meli, o gli altri grandi poeti dialettali? Il diverso ci arricchisce. E cos’è la scuola se
non il luogo in cui incontriamo quelle ‘diversità’ che sono, per i nostri alunni, i contenuti stessi delle discipline?
Il dialetto è solo uno dei tavoli su cui si giocano i valori dell’autonomia. Basta riportare la riflessione dei ragazzi sul nostro vissuto quotidiano, per rendersi conto della
ricchezza costituita dalla varietà degli usi locali, delle tradizioni. Ogni comunità,
proprio come ogni individuo, ha diritto ad essere se stesso, e – in negativo – a non
veder calpestata la propria individualità (con il solo limite, sappiamo, che la sua
autonomia non nuocia all’autonomia degli altri). Appartiene ai dibattiti educativi
recenti, destinata inevitabilmente a intensificarsi in futuro, l’estensione di questo
valore dell’autonomia all’immigrato. Un valore proprio nella misura in cui sappiamo far diventare l’esperienza ‘diversa’ un arricchimento per tutti.
L’educazione civica è anche educazione politica. Una virtù ben poco esibita dai
nostri media, dove il confronto politico ha il carattere e spesso lo spessore culturale delle risse domenicali dopo la partita di calcio. Quando si confrontano opinioni
politiche diverse, che a esprimerle siano i politici coinvolti, gli osservatori esterni o
semplici cittadini, il tutto si svolge all’insegna del conflitto. Chi se l’immagina una
ricerca comune che metta in evidenza, di ogni formazione politica, i valori positivi
che la sorreggono, che la distinguono dalle altre, e su cui basa la propria azione?
Anche l’avversario politico è un ‘diverso’ da capire. Anche se non lo si condivide.
LA VOCE DI mAZZINI
In un progetto sul Risorgimento non può mancare la voce di Mazzini. Non però del
Mazzini ideologo e agitatore politico, ma dell’appassionato musicofilo, egli stesso
buon dilettante di chitarra. Profondamente turbato dalle degenerazioni a cui era
facile assistere nei teatri lirici, leggiamo cosa scrive in un saggio dal titolo ambizioso, Filosofia della musica.3 Alla sua lettura invita quanti «nell’arte intendono la
immensa influenza che s’eserciterebbe per essa sulle società, se la pedanteria e la
venalità non l’avessero ridotta a meccanismo servile». Oggi – continua – «il concetto che le ha dato vita fin qui è concetto esaurito. Il nuovo non si è rivelato […] La
musica, sola favella comune a tutte nazioni, unica che trasmetta esplicito un presentimento d’umanità, è chiamata certo a più alti destini che non quelli di trastullare l’ore d’ozio a un piccol numero di scioperati […] S’è rivelata onnipotente sugli
individui e sulle moltitudini, ogni qual volta gli uomini l’hanno adottata ispiratrice
di forti fatti […] l’espressione la più pura, la più generale, la più simpatica d’una
fede sociale. Un inno di poche battute ha creata in tempi vicini a noi la vittoria. Più
avanti parla della funzione del coro: «perché il coro, individualità collettiva, non
otterrebbe come il popolo di ch’esso è interprete nato, vita propria, indipendente,
spontanea? Perché, relativamente al protagonista o ai protagonisti, non costituirebbe quell’elemento di contrasto essenziale ad ogni lavoro drammatico?» Quanto
al canto dei singoli personaggi, auspica una musica «che può svolgere i più impercettibili moti del cuore, e svelarne il segreto».
Aveva forse ascoltato Nabucco, Giuseppe Mazzini? No di certo, visto che scrive
queste parole nel 1835, sette anni prima di Nabucco, quando il giovane Verdi aveva
appena cominciato ad abbozzare le sue prime cose scolastiche. All’inizio del saggio
Mazzini rivolgeva il suo studio «al giovane ignoto, che forse in qualche angolo del
nostro terreno s’agita, mentr’io scrivo, sotto l’ispirazione, e ravvolge dentro sé il

segreto d’un’epoca musicale». E alla chiusa del saggio lo dedica Ignoto Numini, «al
Nume Ignoto». «Quel genio sorgerà. Maturi i tempi e i credenti che dovranno venerarne le creazioni: sorgerà senza fallo».
Mazzini immaginava che sarebbe stato Donizetti, già da lui ammirato per Anna
Bolena, Marino Faliero, Lucia di Lammermoor, L’elisir d’amore, a raccogliere il suo
alto invito. Invece sarà Giuseppe Verdi, che senza aver letto le parole del nostro
apostolo, diventerà proprio il compositore che incarna i suoi ideali. Le parole di
Mazzini sembrano proprio vaticinare l’irrompere del compositore sulle scene teatrali. Perché proprio di un’irruzione si trattò, di cui furono subito consapevoli i suoi
ascoltatori, da quel 1842 in poi. Nabucco segna l’avvento di un mondo espressivo
nuovo sulla scena lirica: quel mondo eroico atteso da Mazzini, che continuerà dopo
Nabucco, con i cori e i ritmi dei Lombardi alla prima crociata, di Attila, della Battaglia di Legnano. I ritmi scattanti di tanti pezzi dell’opera, a cominciare dal coro
Come notte a sol fulgente, rivelano un’energia che verrà presto ricondotta dai
patrioti alla loro aspirazione risorgimentale, e ad essa fatta servire. A rendere evidente questa carica galvanizzante della partitura concorre anche la strumentazione, con la prevalenza degli ottoni (trombe, tromboni, corni) e con la frequenza dei
passi di marcia.
Il coro evocato da Mazzini ha un’importanza nevralgica in queste opere: in Nabucco è il principale protagonista. Ma al tempo stesso Verdi esplora la psicologia dei
suoi personaggi, affidando ai solisti arie che caratterizzano il personaggio e ne mettono in risalto «i più impercettibili moti del cuore». I più studiati e sfumati sono, è
bene notarlo, i personaggi che rappresentano i dominatori, Nabucco ed Abigaille.
Le melodie si fanno più cantabili e varie, i ritmi più rilassati, e anche la strumentazione si fa più varia.
ED è SUBITO POLEmICA?
di Giovanni Mocchi
Don Giovanni, Così fan tutte, Nabucco. Ogni opera ci pone di fronte a questioni
scottanti, a dilemmi interpretativi e questo avviene certamente perché si tratta di
grandi opere. Nel Nabucco gli spaccati di vita messi in scena diventano incredibilmente attuali. Quelli sociali, il destino del popolo ebreo, il conflitto di potere, la
religione come suo strumento, il Va’, pensiero con il conseguente dibattito, tutt’altro che sopito, sul nostro Risorgimento. Ma anche quelli più intimi e personali,
l’amore, il tradimento, l’odio, la vendetta, il pentimento, il perdono.
Ci chiediamo legittimamente se i drammi dell’opera, che declinano quelli del mondo adulto, siano poi anche i problemi dei nostri alunni. Forse non avvertiamo che,
se non li discutono tra loro o con noi, se non prendono posizione, sicuramente ci
convivono quotidianamente. Il telegiornale, la cronaca rosa o nera, la vita familiare, a volte la propria o del compagno di classe, fanno affiorare una realtà conflittuale, caotica in cui - diversamente dall’opera - come dice il sociologo Ferrarotti,
tutto scorre così velocemente che non c’è spazio per la riflessione: dominano il
pensiero indifferente, l’identità debole e perfino il dramma che non viene neppure
avvertito come tale.
I temi del Nabucco non sono dunque così avulsi dall’esperienza delle nuove generazioni. Soltanto vengono presentati con un linguaggio, un ritmo, uno stile scenico
e musicale diverso. Proprio questa frattura, questa distanza di modalità espressive,
possono essere uno stimolo per un approccio alternativo. È necessario inizialmente
superare i nostri stereotipi musicali e multimediali che ostacolano l’accesso all’opera e al suo pathos musicale (può aiutare la versione attualizzata del Va’, pensiero di
Zucchero e Pavarotti, occorre tradurre il linguaggio ottocentesco di Solera, affrontare la trama che va dipanata e immediatamente attualizzata nei problemi che
pone. Insomma occorre fare una operazione di smontaggio e rimontaggio del complesso messaggio verdiano con un continuo atteggiamento di presa di posizione e
dibattito collettivo, che nel lessico pedagogico si chiama analisi, sintesi, maturazione del giudizio critico. Non è forse questo il nostro compito di educatori nei confronti dei futuri cittadini?
Purché si comunichi
Il modello di dibattito vincente nella comunicazione mediatica è la polemica, la presa di posizione in base a schieramenti preconcetti e contrapposti, la battuta d’effetto, se non addirittura l’offesa, la violenza verbale che a volte degenera nel mettersi le mani addosso (il tutto opportunamente soppesato con le quotazioni dell’audience). Più in piccolo, in classe a volte si assiste a conflittualità simili, per

incomprensioni, svantaggio sociale, esibizionismo, addirittura per noia. Intolleranze, aggressioni, bullismo: è un vocabolario in crescita costante. Nel piccolo palcoscenico degli schermi personalizzati vanno in scena gli eccessi dei nostri ragazzi,
flash di reality o fiction, nello stile di un dramma operistico compattato. L’esigenza
di esprimere qualcosa di eccessivo, emozionante, drammatico, che valga la pena di
essere raccontato e condiviso socialmente accomuna l’opera a Youtube. Ogni epoca, d’altronde, comunica con gli strumenti che riesce a mettere in cantiere. E allora
discutere del Nabucco può divenire una via d’accesso per confrontarsi anche sull’universo comunicativo giovanile e viceversa.
Ora, per non cadere nella trappola di imitare a scuola le formule comunicative a
maggior impatto sullo spettatore, che sono anche quelle meno formative (gossip,
scoop, strumentalizzazione politica e degli stili di vita) mi sembra utile riprendere
qualcuna delle interpretazioni che la nostra civiltà ha maturato negli ultimi secoli e
che regolano la condotta e la valutazione critica in ambito culturale.
Con gli occhi dello storico
Con quali chiavi di lettura affrontare le questioni poste dal Nabucco? È possibile farlo con gli strumenti dello storico, in una prospettiva politica, con valutazioni etiche,
in chiave estetica? Forse tutte cooperano alla comprensione dell’opera, ma occorre
capire quali siano gli sconfinamenti che gli studiosi hanno imparato ad evitare per
dare validità scientifica al loro operato. Lo storico, ad esempio, indaga la verità fattuale, ne seleziona segmenti che ritiene significativi, formula ipotesi interpretative,
ricerca fonti a sostegno e in contrasto con la propria tesi, sapendo anche che nessun
esito sarà definitivo, benché, con il proprio lavoro, spera di aver accresciuto la consapevolezza che l’umanità matura del proprio passato. Non si può invece permettere valutazioni di tipo etico o politico, perché sconfina in un campo che è di pertinenza dei giudizi valoriali, ovvero del pensiero politico, filosofico o religioso. Alcune diffuse idee sulla storia – magistra vitae, la storia è un progresso infinito – vanno ripensate con molta attenzione. Se veramente fosse così, perché sarebbero nati nel
Novecento i peggior imperialismi dell’Occidente? A differenza dell’animale che
impara a diretto contatto con la generazione precedente, noi uomini senza la stratificazione storico-culturale saremmo nulla: nella lingua, nei costumi, nelle pietre
come nell’arte, nei settori produttivi, nella scienza e nelle tecnologie sono ancorate
la nostra vita e la nostra possibilità di sopravvivenza. Viviamo in una interdipendenza che ci vincola all’acquisizione e trasmissione del sapere.
Sotto la lente di ingrandimento del lavoro storico Nabucco svela differenze e analogie con il personaggio di Nabucodonosor. Fate una indagine su Wikipedia, digitate <<Nabucodonosor>> e confrontate il risultato con la trama di Solera.
Così in cielo come in terra
Nella Bibbia invece si cambia completamente registro. Il Libro di Daniele «distingue
nettamente tra bene e male, tra Dio e i demoni, tra buoni e cattivi, promettendo
la vittoria finale dei primi e la condanna definitiva dei secondi» (cfr ‘libro di Daniele’
su Wikipedia).
È in atto una interpretazione etico-religiosa della storia, con una conseguente visione provvidenziale del destino dell’umanità. La politica nei millenni ha fatto spesso
sua questa chiave di lettura, legittimando il proprio potere per volontà divina. Lo
dichiarano Zaccaria e Nabucco. Ogni volta queste assolutizzazioni producono il
risvolto della medaglia: l’annientamento del male, del diverso ovvero del nemico.
Nei secoli più vicini a noi gli Stati etici hanno affermato la stessa supremazia, sostenuta da visioni del mondo univoche (dialettica storica marxista, evoluzionismo
positivistico, diritto imperialistico dei popoli superiori a dominare la storia). Alcuni
registi hanno voluto attualizzare il potere assoluto di Nabucco con citazioni riferite
ai totalitarismi (Marcia dei soldati babilonesi, in Nabucco, Arena di Verona, DVD
2007). È interessante riflettere sul fatto che veri, falsi o pretestuosi che fossero,
questi sistemi valoriali sono diventati realtà storiche. Noi uomini siamo produttori
di sogni, ma anche protagonisti della loro realizzazione. Il mondo che ci circonda è
quasi esclusivamente il risultato dei sogni concretizzati dei nostri antenati e il futuro lo sarà di quelli della nostra generazione.
In una visione politica dell’opera non può mancare una riflessione che si richiami ai
principi della democrazia. La pace, nel finale, deriva dalla subordinazione di Nabucco al dio ebraico, ovvero alla sua sottomissione religioso-culturale al ‘dio vincitore’.
Oggi come possono e devono affrontare i paesi democratici lo scontro, il confronto, la coabitazione tra popoli? Forse dobbiamo credere ad un sogno (I have a dream) e impegnarci a realizzarlo perché possa entrare nella nostra storia.

E i sogni e i valori risorgimentali che per tradizione sembrano strettamente legati
proprio a Nabucco? A 150 anni il dibattito sull’unificazione resta quanto mai attuale. Quanto vicino sembra il richiamo di Massimo d’Azeglio: «Gl’Italiani hanno voluto
far un’Italia nuova, e loro rimanere gl’Italiani vecchi di prima, colle dappocaggini e
le miserie morali che furono ab antico la loro rovina; […] pensano a riformare l’Italia, e nessuno s’accorge che per riuscirci bisogna, prima, che si riformino loro». (cfr.
Wikiquote Massimo D’Azeglio)
L’arte di Verdi
Al di sopra di ogni altra valutazione storico-etica-politica, spicca nel Nabucco l’arte
di Verdi che trasfigura un libretto ottocentesco in un’opera dal valore universale.
Un critico musicale tedesco diceva che l’Italia è il Paese in cui l’opera si fa canzone
(Volkslied) e la canzone opera, riferendosi alle arie più famose, ma anche alla grande canzone napoletana e ad alcune canzoni odierne. Ne è un esempio il duo Pavarotti-Dalla su Caruso(digita su Youtube ‘duetto Pavarotti - Dalla Caruso’)
Non è dunque così estraneo il melodismo verdiano alle orecchie dei ragazzi. Una
buona sensibilizzazione alla musica verdiana diventa prerequisito per accedere al
teatro. Non mancano occasioni per ascoltare le arie del Nabucco anche in versioni
curiose come l’esecuzione del Va’, pensiero con bicchieri di cristallo, o da un gruppo di ocarine o la sua esecuzione da parte di un coro di bambini. Digitando le rispettive parole chiave su Youtube troverete moltissimi video di questo tipo.
Sempre in internet si rintracciano la Sinfonia e perfino gran parte dell’opera.
Alcuni interrogativi ci riportano all’argomento specifico di questo intervento:
Il Nabucco è nato con lo scopo di favorire il Risorgimento?
Verdi, con quest’opera, vuole lasciare un messaggio morale o politico allo
spettatore?
Ti sembra che lo scopo dell’opera, nel suo finale, sia di propagandare la vittoria del dio degli Ebrei?
Un’opera ha il compito di lasciarci una morale?
I valori contenuti nella trama sono importanti per ottenere una grande opera
d’arte?
È più importante aprire il dibattito e creare interrogativi che giungere a risposte
definitive. Tutta l’estetica ne ha discusso da Aristotele in poi. Mi piace concludere
con una angolatura che fa riflettere. L’arte non ha bisogno di asservirsi alla religione, alla politica e neppure alla morale, può starne al di sopra. È la interpretazione
che ne hanno dato Kant e Croce ed è ciò che hanno saputo magistralmente fare i
grandi compositori.
TRACCIATI DIDATTICI
Le attività che possiamo proporre ai nostri alunni possono seguire tracciati diversi.
Vediamoli uno a uno. Ogni insegnante può decidere di scegliere quello o quelli che
gli sono più congegnali.
Primo tracciato: il libretto
L’opera può essere accostata dagli alunni partendo dal libretto scritto da Temistocle Solera. Non è propriamente quello che chiameremmo un testo cristallino.
L’educazione linguistica di quei tempi spingeva gli aspiranti scrittori ad assumere
toni aulici e roboanti. Per questa ragione il volumetto degli alunni affianca al testo
originale una sua parafrasi. In alternativa alla scontata ‘lettura&spiegazione’ possiamo proporre a gruppi diversi di alunni di scegliersi scene particolari dell’opera,
decifrarsele per proprio conto, e recitarle con la migliore espressività di cui sono
capaci. In questo lavoro di drammatizzazione, i ragazzi decideranno anche i gesti e
i movimenti nello spazio. Facciamo scegliere ai ragazzi le pagine strumentali di Verdi come commento alle nostre recite: usiamo le musiche come sottofondo, ma più
ancora come preludio, interludio, postludio rispetto ai testi.
Invece della lettura possiamo mettere in atto la tecnica del tableau vivant, per
l’una o l’altra scena. In ogni gruppo, e dopo un’intesa condivisa, uno degli alunni
prende il ruolo dello scultore: che dispone e modella i suoi compagni in una composizione statuaria che sintetizzi la scena. Anche in questo caso una componente
essenziale della performance è la musica che Verdi ha scritto per la scena realizzata
dai ragazzi.
Questa attività potrà servire anche per un confronto con le scelte della nostra regista: un compito supplementare per il giorno dello spettacolo sarà di prendere nota
delle differenze tra le soluzioni dei gruppi e quelle della regista.

Secondo tracciato: l’autore in scena
L’allestimento di Nabucco proposto da Opera domani prevede un preambolo recitato, immaginando l’entrata in scena dello stesso autore, Giuseppe Verdi, mentre
ricorda i dolorosi momenti che precedettero la composizione dell’opera, e fantasticando un suo incontro con Abigaille, l’eroina ‘negativa’ della storia.
Gli alunni possono rifare a modo loro una drammatizzazione di quegli episodi.
Tutti i protagonisti di quella vicenda sono altrettanti personaggi da distribuire fra
la scolaresca. Senza dimenticare di affidare mansioni di regista, scenografo, costumista, tecnico delle luci… Anche qui lo spettacolo non farà a meno della musica: le
pagine di Nabucco prima di tutto. Ma volendo si può anche attingere ad altre musiche di Verdi.
Terzo tracciato: ascolta le emozioni
Il carattere dei personaggi non emerge solo dalle parole che pronunciano, ma
anche dal ‘tono di voce’ con cui le pronunciano: cioè dalla musica che le riveste.
Per ogni personaggio scegliamo un’aria particolarmente significativa. Per esempio:
Abigaille: Prode guerrier (traccia 32) oppure Su me morente, esanime (traccia 40)
Zaccaria: Sperate o figli (traccia 30)
Nabucco: Chi mi toglie il regio scettro? (traccia 38)
Ismaele e Fenena: Fenena, o mia diletta (traccia 31)
Possiamo chiedere ai ragazzi stessi di individuare il carattere del personaggio, in
base alla musica. Oppure possiamo ricorrere a un gioco grafico: i bambini tracciano
tre volte il contorno del viso del personaggio. Si ascolta l’aria relativa. Nel primo
contorno i bambini tracceranno le linee del volto secondo lo stato d’animo che
riconoscono nel personaggio. Se lo stato d’animo cambia, lo indicheranno nei contorni successivi.
Quarto tracciato: gli strumenti dell’opera
Per gli alunni, gli strumenti musicali sono uno degli aspetti di maggior attrattiva
dell’ora di educazione musicale. La conoscenza del loro timbro e delle loro possibilità espressive non manca mai in un programma scolastico. Per far entrare gli alunni
ancora più vicino al mondo espressivo di Nabucco, facciamo un passo avanti: guidiamo gli alunni a capire come e perché Verdi usa gli strumenti per le diverse scene.
Ottoni e percussioni dominano la partitura. Ma ora ascoltiamo la scena in cui Zaccaria prega: Tu sul labbro de’ veggenti. La solitudine del sacerdote ebreo è evidenziata da Verdi con una scelta espressivamente opposta: un solo violoncello accompagna il canto!
Un compositore non sceglie a caso i suoi strumenti.
Quinto tracciato: scene e interludi
Scriviamo alla lavagna il titolo di diverse scene dell’opera. Facciamo ascoltare, in un
ordine diverso, le pagine strumentali registrate nel CD. Compito: abbinare ogni scena all’una o all’altra musica. Come abbinare? Liberamente, a seconda dell’atmosfera che ogni alunno intende creare intorno alla scena. Sappiamo che la musica ci fa
vedere (anzi sentire) una scena sotto una luce particolare. Basta cambiare la musica e cambia questa luce, cambia l’atmosfera, cambia il senso della scena.
Alla fine confrontiamo le scelte di tutti e discutiamole. Non ci sono abbinamenti
‘giusti’ o ‘sbagliati’ in questo gioco. Ognuno ha un suo significato, ed è perfettamente lecito. Naturalmente, esiste un abbinamento che è quello originale, che
faremo conoscere agli alunni.
Sesto tracciato: prima dell’opera… la sinfonia!
di Raffaele Sargenti
Nabucco di Giuseppe Verdi si apre, come spesso avviene nelle opere dell’Ottocento, con una Sinfonia. Nel corso della storia della musica questa forma, denominata
anche Ouverture o Preludio a seconda dei casi, ha assunto caratteristiche e funzioni diverse: nel Seicento per esempio, la ‘squillante’ Toccata che apre l’Orfeo di
Monteverdi ha la funzione di richiamare all’attenzione il pubblico di cortigiani e letterati, magari occupati in amabili conversazioni a palazzo; mentre l’Ouverture di
Lully, grazie al solenne Adagio in ritmo puntato col quale si apre, fornisce alla tragédie lirique, massimo genere operistico francese del tempo, la giusta cornice celebrativa richiesta dal Re Sole.
In epoca classica Mozart apre il suo Don Giovanni con i suoni minacciosi della statua funebre del Commendatore, così da caratterizzare subito il suo ‘dramma gioco
so’ in modo più profondo e misterioso, mentre l’Ouverture del Flauto magico fu
composta alla fine, e proprio per questo risente dell’atmosfera di tutta l’opera.
Verdi studiò a fondo Mozart e da lui apprese probabilmente l’arte di ripensare strumentalmente la vicenda dell’opera in chiave orchestrale, per questo nei brani
introduttivi di Rigoletto, Traviata, Forza del destino troviamo l’evocazione dell’atmosfera del dramma che segue, grazie anche alla citazione di alcuni motivi musicali
dell’opera. Wagner infine utilizza in modo sistematico ed incisivo la tecnica dei Leitmotive, ossia quei ‘motivi conduttori’ che, presenti nel Preludio, costituiscono la
vera materia costitutiva dei suoi drammi musicali.
La Sinfonia di Nabucco fu composta all’ultimo momento su suggerimento, sembra,
del cognato del compositore, Giovanni Barezzi, il quale lamentava la mancanza di
un brano che ambientasse l’ascoltatore nel «clima eroico e religioso della vicenda».4 Dapprima dubbioso, Verdi compose in pochissimo tempo un brano strumentale che racchiude sia nuovi motivi musicali, sia elaborazioni di alcuni temi che si
trovano nel corso dell’opera.
Prima di fornire alcuni spunti didattici per l’attività in classe, sarà opportuno individuare le sezioni in cui è divisa questa Sinfonia e rintracciare le scene dalle quali
sono stati presi i temi:
A – traccia 21
Il brano si apre con un Andante in cui gli ottoni (tromboni e cimbasso, ossia una
specie di tuba) eseguono una melodia di corale in piano maestoso, che chiameremo per comodità ‘tema del popolo ebreo’). Si tratta di una melodia originale, che
non ritroviamo nel corso dell’opera, e che esprime con semplicità di mezzi la tesi
centrale del Nabucco: la fermezza degli ebrei di fronte alla persecuzione.5 Seguono
due improvvise ‘esplosioni’ di tutta l’orchestra, poi torna la melodia di corale come
se nulla fosse successo, seguita da un passaggio cromatico degli archi, che in crescendo ci conduce all’Allegro seguente.
B – traccia 22
Archi, ottoni e tamburo militare introducono il ‘tema del maledetto’, intonato nella
quarta scena del II atto dal Coro di Leviti che inveiscono contro Ismaele, ritenuto
traditore per via del suo amore per Fenena. Il tema, in tonalità minore, si fa sempre
più minaccioso con l’intervento di tutta l’orchestra, poi si interrompe bruscamente
e lascia spazio ad un breve ritorno della melodia di corale.
C – traccia 23:
È la sezione centrale, vero ‘cuore’ della Sinfonia ed è ricalcata sul celebre Va’ pensiero, intonato dagli Ebrei sulle sponde dell’Eufrate nel III atto. Il tema è dapprima
esposto da oboe e clarinetto, sostenuti da timidi pizzicati degli archi, poi tutta l’orchestra ne sottolinea in fortissimo la parte centrale, quasi a contrapporre uno slancio di riscossa all’iniziale stato di malinconia per la patria perduta; infine la tromba
riprende la melodia principale mentre flauto, ottavino e clarinetto «cicalano come
fringuelli in terzine di semicrome».6
D – tracce 24-29
Torna il ‘tema del maledetto’ (traccia 24), che sfocia in tre episodi di carattere eroico: il primo (traccia 25) è preso dal Coro di sacerdoti assiri nel II atto, i quali incitano
Abigaille a conquistare il potere; il secondo (traccia 26) dalla stretta del finale del I
atto, in cui gli Ebrei scacciano Ismaele; il terzo (traccia 27) dal duetto del III atto tra
Nabucco e Abigaille, ove quest’ultima estorce con l’inganno il sigillo reale al sovrano ormai smarrito e dimesso. Infine, dopo una ripetizione del primo e del secondo
episodio (traccia 28), il ‘tema del maledetto’, stavolta in tonalità maggiore, viene
sviluppato nella stretta finale in un crescendo di rossiniana memoria (traccia 29),
nel quale l’orchestra sprigiona tutta la sua forza.
ATTIVITà IN CLASSE
DISCUSSIONE PRELIMINARE
Per introdurre l’ascolto e il lavoro su un Ouverture d’opera possiamo partire da
un’analogia con i titoli di testa di alcuni film, oppure dalle sigle dei cartoni animati.
A cosa servono? Che caratteristiche musicali hanno? Quali differenze riscontriamo? Successivamente possiamo prendere in esame opere di teatro musicale di
periodi diversi e vedere se esiste o meno un brano strumentale che precede l’opera vera e propria, evidenziando in entrambi i casi funzioni e caratteristiche della
musica7 (alcuni titoli utili, oltre a quelli citati in precedenza: Il barbiere di Siviglia di
Rossini, Peter Grimes di Britten, Wozzeck di Berg).

GIOCARE CON LA FORMA
Passiamo al Nabucco: dall’analisi fatta in precedenza possiamo intuire come Verdi
abbia scelto di costruire la Sinfonia introduttiva tramite l’accostamento di episodi
di carattere contrastante, così da calare lo spettatore nel clima di una vicenda ricca
di passioni diverse e opposte.
Con i materiali forniti da questo brano possiamo lavorare sull’individuazione di
contrasti e somiglianze, a prescindere dalle competenze specifiche degli alunni.
Ascoltiamo il brano dall’inizio: quando e quante volte compare il tema degli ottoni?
E il ‘tema del maledetto’? È sempre uguale o cambia qualcosa?
Ogni alunno poi tenterà di realizzare su carta, con matite o pennarelli a piacere una
semplice ‘partitura grafica’ della traccia 24 o della traccia 26; sarà interessante
vedere come viene interpretata graficamente la ripresa variata di un tema, oppure
lo scarto tra un pianissimo degli ottoni e un fortissimo orchestrale.
ASCOLTO E DRAMMATIZZAZIONE
Proponiamo agli alunni qualche verso poetico di senso compiuto da noi inventato
o estrapolato dal libretto, poi facciamo ascoltare i temi della Sinfonia, chiedendo di
abbinare questo o quel verso alla musica più appropriata secondo loro, motivando
la scelta. In questo modo avremo una risposta della lettura che il singolo bambino
ha sia della poesia che della musica. Ancora: cosa succede se recitiamo il verso
«Va’, pensiero, sull’ale dorate» sopra la musica della traccia 17? Di quali nuove sfumature di senso si carica il testo?8
Isoliamo i seguenti temi della Sinfonia e facciamoli ascoltare (senza accennare al
‘nome’ del tema), con la consegna «a cosa ti fa pensare?»:
il tema del popolo ebreo (traccia 21)
il tema del maledetto (traccia 22)
il Va’, pensiero (traccia 23)
il tema dei Sacerdoti assiri” (traccia 25)
Raccogliendo le risposte degli alunni otterremo una serie di nomi, sensazioni, qualità che possiamo riunire e sintetizzare in un personaggio inventato di sana pianta
dalla classe, oppure afferente alla vicenda dell’opera di Verdi. Possiamo chiedere
agli alunni quale di questi temi musicali potrebbero accompagnare ad esempio un
condottiero valoroso, un sacerdote in preghiera, una carica di cavalieri, una solenne cerimonia di incoronazione, un pericolo incombente, un canto d’amore, una
scena d’addio, ecc.
Successivamente, distribuiamo a singoli bambini o a gruppi i personaggi e le situazioni drammatiche che abbiamo inventato, in modo da drammatizzare l’intera Sinfonia in vista di una possibile recita di fine anno. I bambini possono entrare in scena
a turno in momenti diversi e recitare sopra la musica inventando un testo, a modo
di melologo, oppure interpretare la musica con gesti e coreografie.
SUONARE LA SINFONIA
La Sinfonia di Nabucco si presta a diversi giochi ritmici da eseguire con il proprio
corpo o gli strumenti sopra la musica. Prendiamo ad esempio il ‘tema del maledetto’, la prima volta che compare (traccia 21): possiamo estrapolare il ritmo sovrapponendo una frase da noi proposta o inventata dalla classe (fig. 1):
E lavorare su giochi di ripetizione, dinamica (alternanza piano/forte, crescendo e
diminuendo), ‘risposte’ tra gruppi diversi, anche sostituendo poco a poco la voce
con il battito di mani o semplici strumenti a percussione.

In seguito possiamo provare a recitare la frase insieme alla musica solo quando la
figura si presenta ritmicamente identica, restando in silenzio o eseguendo un gesto
per il tempo rimanente (fig. 2 solo rigo superiore):
Leggiamo dalle sue parole (a cui perdoneremo l’ingenua retorica che le anima)
come avvenne. Racconta Rinaldo Caddeo nel 1915:
Novaro si trovava una sera in casa di Lorenzo Valerio, dove conveniva
una eletta schiera di patrioti che facevano musica e politica insieme,
quando un amico giunto da Genova gli porse un foglietto dicendogli:
«Tò, te lo manda Goffredo». Il Novaro apre il foglio, legge, si commuove. Tutti gli si affollano intorno; i versi del Mameli vengono detti a voce
alta, e la stessa commozione si manifesta sul volto di tutti. «Io sentii,
disse il Novaro, dentro di me qualche cosa di straordinario, che non
saprei definire… So che piansi, che ero agitato e non potevo star fermo.
Mi posi al cembalo, coi versi di Goffredo sul leggio, e strimpellavo,
assassinavo colle dita convulse quel povero strumento, mettendo giù
frasi melodiche, l’una sull’altra, ma lungi le mille miglia dall’idea che
potessero adattarsi a quelle parole… Mi alzai, scontento di me, presi
congedo, corsi a casa. Là, senza pure levarmi il cappello, mi buttai al
pianoforte. Mi tornò alla memoria il motivo strimpellato in casa Valerio: lo scrissi su d’un foglio di carta, il primo che mi venne alle mani. Nella mia agitazione rovesciai la lucerna sul cembalo, e per conseguenza
anche sul povero foglio; fu questo l’originale dell’Inno Fratelli d’Italia.
Cantato pubblicamente a Genova in una festa popolare, la polizia,
conoscendo l’autore per un ardente mazziniano, lo proibì e non lo tollerò che dopo il marzo 1848.
Garibaldi stimava l’inno come il più trascinante inno guerresco dopo la Marsigliese
e lo preferiva all’inno del Mercantini [Mercantini aveva scritto le parole dell’Inno di
Garibaldi Si scopron le tombe…]; durante l’assedio di Roma e la ritirata meravigliosa, l’Eroe lo cantava e zufolava sempre, come del resto facevano tutti i suoi volontari. Il canto del magico inno che elettrizzò tante migliaia di guerrieri e volò come
superbo arcangelo sui campi di battaglia, viene ancora considerato in Austria come
reato politico, ciò che non impedisce agli italiani ancora irredenti di cantarlo, sfidando le imperiali regie prigioni.9
Settimo tracciato: a che servono gli inni nazionali?
E ancora: immaginiamo di essere un gruppo di soldati assiri in marcia che ogni tanto si fermano per scrutare il nemico in lontananza: seguiamo con i nostri passi la
pulsazione (anche marciando sul posto), prima in modo continuativo, poi interrompendo la marcia al segno dell’insegnante (fig. 2 completa).
Attività come questa possono essere naturalmente inserite nel corso della drammatizzazione della Sinfonia, in modo da ricreare in classe una forma di spettacolo
che sia frutto dell’integrazione tra arti e forme di espressione diverse, proprio
come lo è il teatro d’opera.
FRATELLI D’ITALIA
Il progetto Opera domani del 2011 intende anche contribuire alla celebrazione del
centocinquantenario dell’Unità d’Italia. Per questa ragione lo spettacolo si concluderà con il coro degli alunni che canteranno l’inno nazionale. Se il tema dell’unità nazionale viene proposto e vissuto come espressione dell’affratellamento e della solidarietà (e non come espressione di quell’ostilità che le parole di Mameli, scritte per così
dire sul campo di battaglia, pur dichiaravano) anche il canto dell’inno contribuisce ad
alimentare i valori positivi che nell’unità di un popolo trovano attuazione.
Prima di prendere in considerazione l’inno, togliamo un equivoco. Lo si chiama solitamente Inno di Mameli. Ma Goffredo Mameli ha scritto solo le parole. La musica
è di Michele Novaro. Perché allora quando la banda suona l’inno (e dunque nessuno canta le parole di Mameli), continuiamo a chiamarlo Inno di Mameli? Varrà la
pena, in un progetto che intende avvicinare i ragazzi alla musica dare… a Michele
quello che è di Michele. Abituiamoci a chiamarlo l’Inno di Novaro. Un po’ di sciovinismo musicale non guasta!
Dunque, questa musica fu composta il 24 novembre 1847 da Michele Novaro (il
titolo originale della poesia era II canto degli italiani).
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Mentre lavoriamo su Fratelli d’Italia possiamo proporre agli alunni una riflessione
e una ricerca sul significato e le funzioni di un inno nazionale. La ricerca può rivelare
interessanti sorprese, che lo rendono prezioso per il lavoro scolastico.
Ai ragazzi un inno è familiare se non altro in occasione delle premiazioni sportive,
come le Olimpiadi. A che servono dunque gli inni nazionali? Chiediamo agli alunni
e cominciamo a raccogliere le risposte. Servono a più fini:
a) Segnale: è la funzione più elementare: l’inno ‘segnala’, richiama la nazione. Vedi
l’uso che se ne fa nelle competizioni internazionali. L’inno diventa il simbolo di un
paese: è una sorta di bandiera sonora.
b) Evocazione: poiché richiama la nazione, è usato nelle cerimonie pubbliche, tutte
le volte che si vuole suggerire l’idea della nazione: nelle feste nazionali, quando si
ricevono autorità straniere, ecc.
c) Stimolo: una funzione ‘incitativa’, come quella delle marce: sollecitare il senso di
identità collettiva.
Se queste sono le sue funzioni esplicite, un inno è però in grado di rivelare realtà
‘nascoste’, che proprio per questo sono tanto più interessanti da scoprire. Per
esempio:
a) l’inno è in qualche modo specchio del popolo che lo adotta. Si confronti per
esempio l’esuberanza dei nostro inno con la solennità di quello inglese…
b) l’inno è legato al momento storico in cui è nato. Sarà una curiosità per i ragazzi
conoscere che il più antico oggi in uso è quello olandese: del XVI secolo a cui appartiene, mostra il caratteristico ‘slittamento’ dei ritmi. Così la Marsigliese è l’inno dei
giacobini, quello inglese del monarca settecentesco.
Ma la rivelazione di gran lunga più importante che un inno fornisce è un’altra ancora:
c) l’inno è un ‘modo di presentarsi’ di colui che lo ha assunto come proprio simbolo,
ossia l’autorità, il governante, il potere. La musica rivela ‘l’immagine’ che di sé l’autorità vuol dare al popolo. Tutto quello che facciamo ‘rivela’ qualcosa di noi: i vestiti che scegliamo, l’arredamento della casa, il modo di parlare… Allo stesso modo un
inno rivela qualcosa dei governanti. Scopriamolo partendo da un confronto.
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Ottavo tracciato: inni a confronto
Confrontiamo due inni conosciuti bene anche da noi, l’inno francese e quello inglese. Quest’ultimo appartiene alla prima metà del Settecento. Protagonista è il re, o
la regina: «Dio lo salvi dalle insidie, perché possa felicemente e gloriosamente
governare il paese». Il carattere solenne di questa musica è subito evidente. Immaginiamo il portamento del re, o della regina, al momento di apparire in pubblico
sulle note di quest’inno. Come sarà questo portamento…?
Il sovrano del XVIII secolo si considerava re ‘per grazia di Dio’. E per mostrare chiaramente ai suoi sudditi questo suo legame diretto con Dio, si circondava di simboli
di solennità e di sacralità. Anche la musica doveva essere adeguata.
Al contrario, la Marsigliese è l’inno repubblicano per eccellenza, quello nato intorno alla ghigliottina che decapitò Luigi XVI. Il re era diventato per i rivoluzionari francesi il simbolo di un governo nemico degli interessi del popolo. Parole e musica di
quest’inno sono state scritte dal patriota francese Rouget de Lisle, nel 1792, nell’infuriare della Rivoluzione francese. Abbandonata con la caduta di Napoleone nel
1815, la Marsigliese venne assunta definitivamente come inno nazionale francese
dopo il 1871.
Se caratteristica dell’inno inglese, tipicamente ‘monarchico’, è la solennità, la musica dell’inno francese ci parla dello spirito ‘repubblicano’ e battagliero dei governanti che la adoperarono.
Facciamo confrontare attentamente le due musiche: velocità, ritmi, misura, melodia. Le possiamo riassumere così:
CARATTERI mUSICALI
INNO INgLESE
INNO FRANCESE
Velocità
Andante
Allegro
Misura o metro
ternaria
quaternaria
Ritmi ricorrenti
a note uguali
cellula puntata, scattante
Intervallia
gradi vicini
a salti
Forma complessiva
a semifrasi che si
corrispondono in
modo equilibrato
composita, di tipo ‘epico’,
con la parte centrale in
modo minore, che prepara
la conclusione in maggiore
Differenze di ‘immagine’: maestosità, solennità, addirittura sacralità, l’inno inglese.
E non si proclamava, il monarca, re ‘per investitura divina’? D’altra parte, non è
ancor oggi il re inglese il capo della chiesa anglicana? All’opposto, azione, impeto,
aggressività, l’inno francese: dei rivoluzionari che rinnegavano ogni potere ‘dall’alto’. Inno monarchico, inno repubblicano, nel senso che agli occhi delle classi dirigenti dell’Europa di allora aveva la parola ‘repubblicano’, ossia ‘rivoluzionario’.
Nono tracciato: l’inno dei due Risorgimenti
Torniamo al nostro inno. A quale dei due inni precedenti assomiglia di più? A quello
francese evidentemente. I caratteri musicali elencati per la Marsigliese possono
tranquillamente essere ripresi anche per Fratelli d’Italia.
La musica di Novaro è sia pur ingenuamente irruente e baldanzosa, con quella
seconda parte che riprende sommessa, in modo minore, per tornare poi al maggiore; con quel ritmo più ostinato rispetto a quello della prima parte: come un incitare
a mettersi a testa bassa nell’azione… Un inno barricadiero, dunque. Così come era
barricadiera la Marsigliese. Il nostro inno non si avvicina certo ai solenni, ‘monarchici’ inni adottati dal regno britannico!
Casa Savoia non lo usò come proprio inno, proprio simbolo: come avrebbe potuto
una monarchia riconoscersi in quella musica ‘repubblicana’? Però lo favori, e lo
lasciò usare come rappresentativo dell’Italia. Per esempio fu proprio l’inno di
Novaro ad essere scelto da Verdi a raffigurare l’Italia nel suo Inno delle nazioni,
come vedremo più avanti.
Quella dei Savoia è una scelta molto significativa. Accettando quest’inno, il piemontese Vittorio Emanuele II mostrava di proporsi re a tutti gli italiani, non per
investitura divina, cioè per un ‘sacro’ diritto (che non avrebbe certo convinto i
patrioti di Bologna o di Palermo, di Firenze o di Roma) ma perché ‘chiamato proprio da loro’, a combattere con loro e per loro! Tanto è vero che quando un paese
straniero riceveva la visita del nostro re, non l’inno di Novaro era suonato dalla
banda, ma la musica in cui la monarchia sabauda riconosceva più autenticamente
se stessa: la Marcia reale.

Così si può capire come con la nascita della Repubblica italiana, nel 1947, la nuova
autorità - messo al bando l’inno del fascismo, Giovinezza, e messa in soffitta la Marcia reale - recuperasse l’inno di Novaro e Mameli, come simbolo di se stessa: un’autorità che nelle battaglie della Resistenza amava rivedere le stesse barricate risorgimentali fra le quali erano echeggiate le note di Michele Novaro e le parole di Goffredo Mameli. La Repubblica del 1947 mostrava di volersi idealmente allacciare ai
modelli del 1848 e del 1859.
Decimo tracciato: un concorso
Mameli scrisse sei strofe per il suo Canto degli Italiani. Sono tutte riprodotte nel
libretto degli alunni. Vogliamo aggiungere noi una settima strofa?
L’argomento è libero: può riferirsi a fatti importanti della nostra società, o a questioni più vicine alla realtà degli alunni. Può essere un argomento serio oppure
scherzoso. Un esempio di adattamento scherzoso ce lo offrono i Francesi, che proprio nell’Ottocento ne diedero una versione di argomento gastronomico. L’Allons
enfants de la Bastille diventa: «Allons enfants de la courtille,/ le jour de boir est
arrivé. / C’est pour vous que le boudin grille, / c’est pou vous qui’il est conservé»
(Avanti, figli della bettola, / il giorno di bere è arrivato. / È per voi che il manzo è
gratinato, / è per voi che è conservato). E così via.
Possiamo anche immaginare il nostro come l’inno della classe. Quello che resta fisso, e a cui i nostri piccoli poeti dovranno adeguarsi, è la musica: la sua melodia e il
suo schema ritmico.
Un’operazione come questa è sempre stata praticata nel corso della storia della
musica, dalle età più antiche a oggi. Nel Medioevo era chiamata contrafactum, nel
Rinascimento parodia o travestimento. Anche Arrigo Boito scrisse una strofa calzante con la musica di Novaro. La vedremo nelle prossime pagine.
La rivista mensile Amadeus propone alle scolaresche, per Opera domani, il concorso Settima strofa. La strofa che la scolaresca avrà inventato dovrà giungere alla
Redazione (Via Alberto Mario, 20 - 20149 Milano) a partire dal 17 marzo 2011: il
giorno in cui fu proclamato nel 1861 il Regno d’Italia.
Undicesimo tracciato: un inno per tre nazioni
Per l’Esposizione internazionale di Londra del 1862, gli organizzatori chiesero a Giuseppe Verdi di scrivere un inno che celebrasse la fratellanza tra i popoli. Verdi
accettò, e Arrigo Boito scrisse le parole. Facciamo ascoltare l’ultima parte. La versione ideale è quella che Arturo Toscanini diresse per la NBC di New York nel 1944,
rintracciabile su Youtube.
Canta il coro:
Signor, che sulla terra / rugiada spargi e fiori, / e nembi di fulgori / e balsami
d’amor, / fa’ che la pace torni / coi benedetti giorni, / ne dona santi e belli / secoli
di splendor. / E un mondo di fratelli / sarà la terra allor.
Ora il tenore:
Salve, Inghilterra, / regina del mar, / di libertà vessillo antico! / E Francia, tu che
spargesti / il generoso sangue / per una terra incatenata, salve! / E tu, patria, Italia
mia, / che il cielo vegli su te / fino a quel dì che grande, / libera ed una, tu risorga
al sole.
Ed ecco il tenore cantare l’inno di Novaro su un nuovo testo: la settima strofa!
Eccola:
Oh Italia, oh Italia, oh Patria mia tradita,
che il cielo benigno ti sia propizio ancora,
fino a quel dí che libera tu ancor risorga al sole!
Oh Italia, oh Italia, oh Patria mia!
Dopo averci fatto ascoltare gli inni in successione, Verdi fa una cosa significativa: ci
fa sentire simultaneamente prima l’inno inglese e quello francese; poi, addirittura,
tutti e tre gli inni. Una chiara estrinsecazione dello spirito di fratellanza. Facciamo
notare anche la scelta timbrica di Verdi per i tre motivi musicali: la serietà degli
archi per l’inno inglese, la spavalderia delle trombe per la Marsigliese; e per il
nostro, la voce del tenore!
Gli organizzatori inglesi rifiutarono il pezzo. Nella Gazzetta musicale di Parigi di quel
tempo se ne leggono le ragioni: «Pare che vicino al pacifico Dio salvi la regina siano
sembrate troppo rivoluzionarie le ispirazioni della Marsigliese e quelle garibaldine!». L’altra ragione per cui l’inno di Verdi fu rifiutato è legata verosimilmente alla
fatale storpiatura metrica a cui Verdi assoggettò l’inno inglese per poterlo sovrap
porre in contrappunto a quello francese: dalla misura metrica ternaria dilatato a
quella quaternaria.
Verdi avrebbe potuto fare anche il contrario: trasformare in misura ternaria la Marsigliese. Ma è dubbio che la giuria inglese si sarebbe lasciata commuovere dall’astuta variante!
Come sarebbe ‘suonata’ la Marsigliese, trasformata in misura ternaria? Perché non
provare noi questa trasformazione?
Le peripezie dell’Inno delle nazioni di Verdi non finiscono qui. Dopo l’8 settembre
1943 l’Italia si divide tra Repubblica Sociale Italiana alleata dei nazisti e Regno di
Savoia alleato agli anglo-americani.
Arturo Toscanini, in esilio a New York, vuole mandare il suo piccolo contributo di
musicista alla causa della civiltà. Il grande direttore d’orchestra presenta alla radio
americana l’inno verdiano: l’Italia non si presenta più come nemica di Francia e
Inghilterra, bensì sorella. Ma come fare per evocare i nuovi vincoli d’alleanza anche
con le altre due maggiori potenze in guerra con il nazismo, Stati Uniti e U.R.S.S.?
Toscanini ha un’idea semplice: fa aggiungere, in coda alla composizione verdiana,
l’inno sovietico prima (che allora era L’Internazionale) e l’inno americano poi.
Ancora una volta, la musica rivela qui i suoi più segreti poteri: il suo valore simbolico, la sua capacità di suggerire emozioni e di trasmettere messaggi. La stessa NBC
realizzarono un documentario sull’intera vicenda, dove vediamo lo stesso Toscanini, accanto ad altri famosi rifugiati, come Salvemini e Borgese. Dimenticato fino a
ieri, oggi grazie a Youtube possiamo finalmente vederlo.
Una puntualizzazione. Né la Marsigliese né Fratelli d’Italia erano inni ‘ufficiali’ delle
rispettive nazioni: la Marsigliese lo diventò nel 1871, il nostro addirittura nel 1947.
Ma entrambi erano sentiti allora come l’inno patriottico per eccellenza dei rispettivi popoli, per la storia a cui erano legati.
Dodicesimo tracciato: educazione alla cittadinanza
di Simonetta Del Nero
Partendo dal contenuto dell’opera ho ricavato alcune parole chiave: oppressione,
identità, emigrazione.
EMIGRAZIONE
A. Partire. I ragazzi di prima media hanno appena abbandonato la loro vecchia
scuola per una nuova: cosa si sono portati nello zaino? Amicizie, conoscenze, paure, esperienze importanti, delusioni, vittorie…
Facciamo scrivere sul ‘quaderno delle emozioni’ o sul quaderno di musica: quali
sono le cose più importanti della scuola primaria che li accompagnano in questo
viaggio? Quali li aiuteranno, quali è meglio abbandonare perché superate o inutili?
B. Emigrare. Cosa vuol dire emigrare? Quasi ogni ragazzo ha un parente che lavora
attualmente in Svizzera o che parecchi anni fa è emigrato in Belgio, in Svizzera, in
Australia, in Argentina o anche solo dalla Valtellina a Roma. Conduciamo un’indagine sulle motivazioni della loro partenza, se possibile attraverso interviste. Cosa è
interessante conoscere? Prepariamo delle domande sul tipo di vita che conducevano, su come si sono sentiti alla partenza e, a distanza di anni, su cosa hanno imparato di nuovo, presentando positività e negatività dell’esperienza.
Se nella nostra classe abbiamo ragazzi emigrati (e solo se hanno piacere di parlarne!) proviamo a proporre loro la stessa intervista ricordandoci però di un fatto
importante: che in questo caso la partenza è stata imposta dai genitori e spesso non
è stata né spiegata né preparata. Come è stata l’accoglienza (se c’è stata)? Cosa hanno sentito quando si sono trovati in un luogo nuovo, tra sconosciuti che parlavano
una lingua sconosciuta? Cosa hanno provato ad avere tutti gli occhi puntati su di
loro?
Jaouad ora prova a fare il prof e comunica nella propria lingua (arabo). I ragazzi sono
appena arrivati, lui parla e nessuno capisce, lui li sgrida perché non prendono il quaderno, solo i ragazzi di lingua araba eseguono; uno vuole andare in bagno, ma non
riesce a farsi capire. Si copiano dalla lavagna delle parole, e: «ma come mai scrive al
contrario, da destra a sinistra?»; «Ripetete la parola ad alta voce», ma la pronuncia
è sempre sbagliata… Ora come ci sentiamo? Frustrati, arrabbiati, incompresi, tristi.
Vogliamo andarcene, scappare, tornare a casa nostra… Ecco come si sentono i nostri
compagni ‘stranieri’.
Compito: Fingendo di dover partire dal vostro paese, scrivete ora un testo che
descriva i vostri sentimenti, le sensazioni, le cose che vi mancheranno e quelle delle
quali credete di non poter fare a meno. Alla fine confrontatelo con quello degli

ebrei, trovate somiglianze tra le vostre sensazioni e quelle di Va’, pensiero?
«Prof, ma davvero A fa tutta questa fatica? Come fa a stare tutto il giorno qui a scuola se non capisce nemmeno una parola di italiano?» Forse ora sarà più facile accogliere un ragazzo nuovo o diverso, o far capire ai nostri ragazzi cosa vuol dire essere
extracomunitario, ma anche diversamente abile. Se partiamo dalla nostra esperienza è molto più facile poi comprendere quella degli altri, provare empatia, andare
verso l’altro. Il progetto può continuare sviluppando i concetti di ‘esule’ e di ‘deportato’.
IDENTITà
Chi sono io? È vero che l’identità non è mai definita totalmente in nessun momento
della nostra vita, certo è sempre in fieri, in costruzione e cambiamento, ma mai
come ora si formano ‘io liquidi’ che portano disagio, insicurezza, instabilità. Bauman
asserisce che «in questo momento stiamo passando dalla fase solida a quella liquida
della modernità: i fluidi sono chiamati così perché non sono in grado di mantenere
la forma a lungo, e a meno di non venire versati in uno stretto contenitore, continuano a cambiare forma sotto l’influenza di ogni minima forza». Nelle società antiche e ancora oggi in alcune africane tribali si nasce già con un’identità prestabilita
dallo stato o gruppo etnico, dalla religione, dalla famiglia; le tappe di crescita sono
segnate da riti di iniziazione; a volte il lavoro e il matrimonio sono prestabiliti fin da
bambini, certamente tutto questo dà sicurezza, aiuta l’individuo a costruirsi
un’identità certa. A volte un’identità scomoda e pesante, magari da rifiutare o da
combattere, ma un’identità definita di cittadino, di credente, di genitore, di sacerdote, di griot o re. «Le identità ormai svolazzano liberamente e sta ai singoli individui afferrarle al volo usando le proprie capacità e i propri strumenti». (Z. Bauman)
Oggi all’adolescente si prospetta, in teoria, una grande libertà e possibilità di scelta
di scuole e di hobby che lo porteranno a vivere diversi stili di vita, di lavoro, di status
sociale o alla possibilità di aderire a diversi credo religioso; tutto questo può generare indecisione, confusione, paura, solitudine. «Sembra di vivere in un universo di
Escher, dove nessuno, in nessun punto, è in grado di distinguere una strada che porta in cima da una china discendente!» (Z. Bauman)
Il confronto quotidiano con altre nazionalità ha portato alcuni di noi alla consapevolezza del nostro essere cittadini del mondo e all’importanza di aprirsi alle differenze
e di accoglierle, ma per altri invece è stato fonte di paura e di stress. La grande sfida
insita in una prospettiva interculturale è quella di riuscire nel processo di interiorizzazione del rapporto identità-diversità, dal momento che «il rispetto delle differenze cresce parallelamente al riconoscimento della propria diversità».
Questo significa conservare le caratteristiche positive della propria identità pur
aprendosi all’altro, non cercare di costruirsi identità fittizie, chiuse e falsamente storiche, che ci danno sicurezza, ci fanno sentire forti e soprattutto nel giusto!
In questo momento di crisi (cambiamento) sono spariti anche i molti luoghi dove
potersi sentire appartenenti a un ‘noi’ e identificarsi con un gruppo. Il compito della
scuola dovrebbe essere quello di recuperare la funzione di luogo di appartenenza ed
educazione, luogo dove si vive insieme, condividendo progetti, idee, momenti di
scambio, di conoscenza, luogo protetto dove potersi esprimere, conoscere, riconoscere, costruire una identità, precaria certo, ma funzionale al momento.
Quali sono le caratteristiche di una identità? Cosa vuol dire morbegnese, lombardo,
italiano, europeo, cittadino del mondo? Essere Italiano vuol dire parlare italiano o
essere nato qui? E se uno viene adottato? E se la madre è tedesca e il padre è italiano? Basta abitare in Italia da… 20… 40 anni? Si deve essere di pelle bianca e avere i
capelli scuri? O preferire il burro all’olio?
In Italia convivono quasi due milioni di Italiani appartenenti a minoranze linguistiche
che vanno dal greco al catalano, dall’occitano all’ albanese. Italiani che, a volte, da
secoli mantengono tradizioni, lingua, religione, costumi stranieri.
Si può continuare il progetto cercando nella letteratura e nelle canzoni esempi di
partenze; si possono trovare e leggere lettere di emigranti, romanzi scritti da emigrati extraeuropei o deportati nei campi di concentramento. Tre piccoli esempi? Mi
ricordo montagne verdi, Addio ai monti di Lucia nei Promessi Sposi di Manzoni, La
guerra di Piero di De Andrè.
OPPRESSIONE
Sviluppiamo il tema partendo da un gioco: ognuno cammina cercando di trovare e
prendere un atteggiamento da oppressore, trovando soprattutto un gesto. Allo
stop ci si ferma immobili congelando il gesto. Ci si guarda attorno e poi si ricomincia
a camminare. Alla fine del brano e all’ultimo stop i partecipanti vengono invitati a
cercare i compagni che hanno preso una posizione simile, si formano dei gruppi

con atteggiamenti simili. Questi gruppi avranno il compito di scegliersi uno scultore
e di interpretare con i corpi, senza parlare, una statua che rappresenti una scena
d’oppressione e dare un titolo al prodotto.
Dopo quindici minuti si guardano i gruppi statuari, li si commenta, e ogni ragazzo
viene invitato a provare ogni ruolo all’interno della propria composizione per sentire cosa provano i diversi protagonisti della scena. Ora tornati tutti insieme si cerca
di scoprire i titoli di ogni statua e poi si cerca in ognuna di cambiare un particolare
alla volta, fino a che la statua si trasforma assumendo un atteggiamento positivo.
Alla fine troviamo del tempo per un feedback nel quale ci si possa confrontare sulla
sensazioni corporee ed emotive provate durante il lavoro: come ci si sente nelle
vesti di oppressore o di oppresso? Perché vi siete sentiti in quel modo?
Possiamo continuare con il gioco dello chef: la classe viene divisa in due gruppi,
ogni formazione ha un capo, le due squadre si fronteggiano con lo chef davanti.
Uno dei due capi esegue un movimento che viene subito ripetuto all’unisono dal
gruppo, a questo punto il capo dell’altro gruppo risponde con un gesto a sua volta
ripetuto dalla sua banda: possiamo dare vari compiti agli chef: è una lotta per il
potere, vi odiate, un gruppo rappresenta l’oppresso e l’altro l’oppressore, cercate
un finale positivo…
Durante il gioco i componenti di ogni gruppo proveranno a sentirsi uniti e vicini
contro un nemico comune, proveranno a muoversi all’unisono, si scontreranno
senza toccarsi, alla fine dovranno cercare un modo per integrarsi. È importante poi
riflettere sull’esperienza con domande guida: vi è piaciuto ripetere i gesti di un
capo, eravate d’accordo con lui, vi siete sentiti liberi di pensare con la vostra testa,
come vi siete sentiti, che sensazione si prova a opporsi a qualcuno e poi a trovare
un modo di unirsi? È possibile?
Siamo agli inizi di un progetto che potrebbe durare tutto l’anno, sviluppato in tutte
le discipline in modi diversi e con metodi diversi.
Per approfondire il tema del conflitto e dell’oppressione si può attingere al vasto
materiale del Teatro dell’Oppresso di Boal di cui questa pagina è solo un piccolo
esempio:
ZYGMUNT BAUMAN, Intervista sull’identità, Laterza, Bari-Roma 2003
AUGUSTO BOAL, Il poliziotto e la maschera, La Meridiana, Molfetta 1993
ID., L’arcobaleno del desiderio, La Meridiana, Molfetta 1994
MAURIZIO DISOTEO - MARIO PIATTI, Specchi sonori, identità e autobiografie musicali, FrancoAngeli, Milano 2002
AMIN MAALOUF, L’ identità, Bompiani, Milano 1998
PAOLO SENOR, La ribalta degli invisibili, Terre di Mezzo, Milano 2004
Tredicesimo tracciato: ascoltiamo con il corpo (per i piccoli)
di Simonetta Del Nero
LA LETTERA DI ABIGAILLE
Abigaille vede una lettera a terra e vuole prenderla, ma un venticello molto dispettoso la fa volare ogni volta che lei ai avvicina; alla fine la donna riesce a raccoglierla,
chiude la finestra e si siede per leggerla (basta legare un filo ad una busta e giocare:
un bambino tira il filo, l’altro impersona Abigaille.)
Con lo stesso brano con i bambini più piccoli possiamo giocare al gatto e al topino:
c’è un topolino che corre in cucina e non si accorge che un gatto lo segue e cerca
di catturarlo. Ovviamente il topo riuscirà a sfuggire e alla fine il gatto se ne andrà a
dormire nel suo cesto.
In classe abbiamo provato a scrivere una semplice partitura dopo aver provato a giocare seguendo il primo stimolo. Ecco il risultato, nella partitura trascritta da un bimbo.
Legenda
i pallini sono i passi di Abigaille
le linee ascendenti rappresentano la lettera che vola
parà significa fermi
tararari: lettera che vola
tararara: Abigaille cerca di prenderla, sempre più adirata
l’esplosione di note è il momento in cui la afferra
le ultime due righe di partitura: a solo improvvisato della principessa che si siede a leggere.
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ChI MI TOGLIE IL REGIO SCETTRO
Ascoltiamo l’aria di Nabucco, Chi mi toglie il regio scettro, e cerchiamo di capire
quali sentimenti agitano Nabucco. Rabbia, poi dolore o forse paura, e alla fine sembra che stia male…
Il brano dal punto si vista delle emozioni si potrebbe suddividere in cinque parti:
Chi mi toglie il regio scettro…
Oh mia figlia… fianco?
Ah fantasmi… si versò
Ah… lagrima spuntò
Chi mi regge?…Io manco!
Possiamo ascoltare l’aria più volte e poi discutere con i nostri alunni cercando di
interpretare con il movimento il tono di voce, ma anche l’orchestra che crea stati
d’animo diversi nell’ascoltatore. Oppure possiamo dire ai bambini che chi canta è
un allenatore di calcio (o un maestro, il papà…) e ascoltando far scrivere o raccontare cosa gli succede. Secondo Luca è un allenatore che è abituato a vincere, ma
che vede la sua squadra perdere e alla fine è molto triste perché si accorge che non
è stato un buon maestro per i suoi giocatori.
PENSANDO A NABUCCO
di Daniela Coelli
Come enunciato dalle note di regia, la messa in scena di Nabucco in un periodo
come quello che stiamo vivendo, nonostante siano passati 150 anni dall’Unità
d’Italia, diviene un accorato appello ad una tolleranza che sembra ormai parola
quasi cancellata dal nostro vocabolario. I bambini e i ragazzi, i ‘non contagiati’
dall’odio gratuito per chi viene da un altro paese, o ha usanze diverse dalle nostre,
o diversa religione, rappresentano quindi la voce incontaminata che può rendere
visibile a chi ha occhi e orecchi distorti dai luoghi comuni, la semplicità di un messaggio di fratellanza e rispetto dell’altro, che dovrebbe essere alla base di ogni civiltà. Così come fu un bambino, nella famosa fiaba I vestiti nuovi dell’imperatore,
l’unico a dire: «Il re è nudo!», anche in questo contesto sono le voci prive di scontati e superficiali giudizi aprioristici quelle che forse possono indurre gli adulti a
riflettere e togliersi inutili maschere di circostanza.
BABELE E I LINGUAGGI CONFUSI
Pensando a Nabucco, penso a Babilonia, alla sua torre, costruita dall’uomo per arrivare al cielo ed essere simile a Dio, e Nabucco ne è esempio lampante, e penso alla
reazione che ne è conseguita: «Confondiamo loro il linguaggio, in modo che più non
si intendano». Ecco, questa confusione, che altre ne ha generate, mi porta a riflettere sulla parola, sul non capirsi e sulla ricerca di una via comune che ci faccia intendere. Non a caso sono proprio i bambini, con la loro curiosità, fantasia e voglia di
comunicare con un linguaggio che vada oltre la parola codificata, un po’ come accade nel teatro o nelle varie forme d’arte, quelli che riescono ad abbattere barriere
che per noi ‘adulti stereotipati’ sono quasi insormontabili. Allora perché non giocare
proprio con questa diversità di suoni, di lingue, ed arrivare dal caos di Babele alla
comprensione tra i popoli, e poco importa che alla fine sia questa o quella lingua, o
una inventata, quella che ci avvicina, l’importante è giungere a un fine comune, in
cui la diversità diventa solo stimolo di conoscenza e accrescimento reciproco.
Prendiamo quindi una frase, scriviamola e impariamola in più lingue possibili, e
ripartiamola per ogni ragazzo o bambino che la ripeterà, e a canone si inseriranno
via via gli altri con la propria, fino ad assommarle tutte in una sorta di caos linguistico e poi, via via, scegliamo quella che resterà, e che verrà sostituita a quelle precedenti, sempre a canone, fino ad avere una sola voce corale e una sola frase
comune scaturita proprio dalle varianti antecedenti. Questo porterà anche a un
lavoro sul ritmo della parola, sul concetto di canone, sui piani e sui forti, sulla concentrazione e sulla duttilità.
L’ALTRO
E così come è importante la propria identità, lo è altrettanto quella dell’altro, e
dunque sarebbe bello e utile sapere come gli altri mi vedono, e come io vedo gli
altri: La descrizione di un compagno, fatta da un altro, senza metterne il nome, ma
cercando di descriverlo sia con un disegno che con delle frasi, e poi pescata a caso
tra le altre che verranno mischiate, potrà far vedere se ci si riconosce in quello che
gli altri vedono di noi e ci porterà a riflettere sui nostri pregi e difetti e, anche tra
qualche risata e qualche battibecco, forse aiutarci a crescere un po’!
I VIZI CAPITALI
Pensando a Nabucco, penso ai vizi capitali: Nabucco o la Superbia, Abigaille o l’Invidia, e anche l’Ira, visto che, come dice il nome stesso, ‘capitali’, uno fa capo all’altro… Come riconoscerli? Forse associarli a personaggi delle fiabe o dei cartoni animati può aiutare a definirli meglio… e allora ecco l’Invidia delle sorellastre di Cenerentola, o della perfida Grimilde di Biancaneve, o l’Ira della strega non invitata al
battesimo della Bella addormentata, o la Superbia dell’Imperatore, o la Gola di Poldo Sbaffini, o l’accidia di Paperino che dorme sull’amaca… e tanti altri ancora, da
trovare e interpretare, giocando con le voci da abbinare a ciascuno, gli atteggiamenti del corpo, e anche i colori… di che colore è l’avarizia?
BIBLIOgRAFIA
su Giuseppe Verdi:
JULIAN BUDDEN, Le opere di Verdi, vol. 1, EDT, Torino 1985
MARCELLO CONATI, Giuseppe Verdi. Guida alla vita e alle opere, ETS, Pisa 2003
MASSIMO MILA, Giuseppe Verdi, Laterza, Bari 1958
ALDO OBERDORFER, Giuseppe Verdi. Autobiografia dalle lettere, Rizzoli, Milano 2001
FRANK WALKER, L’uomo Verdi, Mursia, Milano 1978
sulla Diaspora:
RICCARDO CALIMANI, Storia dell’ebreo errante, Mondadori, Milano 1987
ID., Storia del pregiudizio contro gli Ebrei, Mondadori, Milano 2007
sulla storia del Risorgimento:
DANIS MACK SMITh, Storia d’Italia, vol. 1, Laterza, Bari 1965
ID., Il Risorgimento italiano. Storia e testi, Laterza, Roma-Bari 2010
MARIO MARTONE, Noi credevamo, Bompiani, Milano 2010
LUCIO VILLARI, Bella e perduta. L’Italia del Risorgimento, Laterza, Roma-Bari 2009
1
B. DICALE, Les chansons qui font l’histoire, Textuel, Paris, 2010.
SIMONE VEIL, Une jeunesse au temps de la Shoah, Stock, Paris, 2010, p.165.
3
Lo si può leggere per intero nell’edizione Guaraldi, Rimini-Firenze, 1977.
4
FRANCO ABBIATI, Giuseppe Verdi, vol. 1, Ricordi, Milano, p. 407.
5
JULIAN BUDDEN, Le opere di Verdi, vol. 1, EDT, Torino 1985, p. 101.
6
Ibid.
7
Cfr. AA. VV., Musica in scena, a cura di Carlo Delfrati, EDT, Torino 2003, p. 20.
8
Ibid., pp. 9-11 .
9
R. CADDEO, Inni di guerra e canti patriottici del popolo italiano, Ed. Risorgimento, Milano 1915, pp. 3738. Naturalmente queste parole sono state scritte quando Trento e Trieste (gli «italiani irredenti» di
cui parla Caddeo) facevano ancora parte dell’impero austriaco.
2
IDENTITà
Pensando a Nabucco, penso al concetto di identità, che all’esule viene tolta, e che
è la base su cui invece una persona, un popolo, ha la possibilità di crescere, confrontandosi e migliorandosi, le fondamenta necessarie per costruire una torre che
non crolli. Ecco quindi l’idea di farsi da sé una propria ‘Carta d’identità’, in cui ogni
bambino si disegna, si descrive, si racconta: perché mi chiamo così? Come mi vedo?
Da dove vengo? Sono tante e varie le voci da riempire per una propria Carta d’identità personalizzata!
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