1 Dalla biografia a cura di Bonghi sul sito http://www.classicitaliani.it

Dalla biografia a cura di Bonghi sul sito http://www.classicitaliani.it
Alla disarmonia con il padre, un uomo dalla corporatura robusta e dai modi sbrigativi e concreti,
corrisponderà nel suo animo una profonda venerazione per la madre, che gli detterà, dopo la morte
di lei, le commosse pagine della novella Colloquii con i personaggi (1915). L’amore per la cugina,
dapprima non ben visto, è improvvisamente preso sul serio dalla famiglia di lei che pretende, però,
che Luigi lasci gli studi e si dedichi al commercio dello zolfo per poter sposare subito Lina. Nel
1886, durante le vacanze, Luigi si reca nelle zolfare di Porto Empedocle e lavora con il padre alla
pesa dello zolfo; questa esperienza sarà per lui importantissima e gli fornirà spunti per novelle come
Il fumo, Ciàula scopre la Luna e per alcune pagine del romanzo I vecchi e i giovani
Alla fine del 1887 parte per Roma per frequentare l’Università della Sapienza dove si iscrive
al secondo anno della Facoltà di Lettere, ed ha per professori Nannarelli, Monaci, Occioni, Guidi,
Beloch, Dalla Vedova, Labriola, Piccolomini, Cugnoni, Lignana, Bonghi e De Ruggiero. A Roma
viene accolto dallo zio Rocco, di cui abbiamo parlato, che abitava al numero 456 di via del Corso;
ma dopo qualche mese si trasferisce in una pensioncina di via delle Colonnette, non molto distante
dall’abitazione dello zio. Roma lo affascina e ne scrive in modo entusiastico alla sorella Lina,
che in quegli anni viveva in Sardegna dopo essersi sposata con l’ingegner Calogero De Carlo e alla
madre in tono più pacato ma non meno deciso a stabilirvi per sempre la sua residenza. Vi frequenta
i molti teatri, soprattutto il Nazionale, il Valli e il Manzoni, sentendo un eccitamento che penetra nel
suo sangue per tutte le vene.
Ma prova anche un’amara disillusione, che si incarna proprio nella figura dello zio Rocco mitizzata
nella sua fanciullezza: quegli ideali risorgimentali che aveva vissuto da bambino nei racconti della
madre e dello zio, non esistono in quella Roma così diversa dai suoi sogni e dalle sue aspettative. Il
risultato è la prima raccolta di poesie, intitolata Mal giocondo e pubblicata a Palermo nel 1889 dalla
Libreria internazionale L. Pedone Lauriel, in cui sono raccolte poesie pubblicate già negli anni
1887/1888
Lo sfondo delle poesie è Roma, al cui contatto vacillano molti suoi ideali: fuori dall’ambiente,
tradizionalmente conservativo e tendenzialmente statico, sul piano morale, della sua infanzia
siciliana, si sfaldano fondamentali valori, e nasce la ribellione e la volontà di dire il disgusto di
quella società corrotta, vecchia nelle sue strutture e incerta anche nelle forze giovani. (Lucio
Lugnani, Pirandello. Letteratura e teatro, La nuova Italia, Firenze 1970, pag.16).
V
Il paese che un dí sognai, del mondo
inesperto e dei mali, su la terra
già lungo tempo lo cercai, fidente
nel vago imaginar che scorta m’era.
Molti paesi visitai deluso,
molti da lungi salutai fuggendo,
e su i lor tetti, declinante il giorno,
con la notte, la pace e il dolce inganno
sempre invocai dei sogni e il calmo oblio.
Ma per incerte vie, tra sassi e spine,
1
tacito andando nel desio pungente,
quanta parte di me viva lasciai!
Folle, e sperai; folle, ebbi fede. E solo
ai danni miei presiede ora crudele
la coscienza che mai, che mai dal suolo
in cui giaccio, menzogne pïetose,
amor di donna o carità d’amico,
a rïalzarmi non varran - piú mai.
Né a te, paese dei miei sogni novi,
ora piú credo; e tardi, ahimè, compresi
che vano era cercarti sotto il sole.
Se tristi grue pe ’l ciel fosco passare
vedea mesto, tra gli alberi battuti
da i primi venti d’autunno, in mente
io mi dicea: «Là giú, là giú, lontano,
nel bel paese dei miei sogni andranno,
ove eterna fiorisce primavera ».
E a lui credea n’andassero, portate
dal lungo vento, anche le foglie ai rami
strappate; a lui le nuvole, e le vaghe
da i petti umani illusïon fuggite...
Era follia, follia certo; ma dolce.
Il mio primo libro fu una raccolta di versi, Mal giocondo, pubblicato prima della mia
partenza per la Germania.
Lo noto perché han voluto dire che il mio umorismo è provenuto dal mio soggiorno in
Germania; e non è vero: in quella prima raccolta di versi più della metà sono del più schietto
umorismo, e allora io non sapevo neppure che cosa fosse l’umorismo
Il soggiorno romano viene bruscamente interrotto nel 1889; Pirandello ha un contrasto
piuttosto acceso con il professor Occioni di Lingua e Letteratura latina, e allora, per evitare una
probabile espulsione, su consiglio del professor di filologia romanza Ernesto Monaci, parte per la
Germania diretto all’Università di Bonn, con una lettera di presentazione del professore stesso per
Foerster. Qualche mese dopo (gennaio 1890) conosce conosce a un ballo mascherato Jenny SchulzLänder; così ne scrive alla sorella Lina:
«Ho indossato anch’io un domino e - inorridite - ho anch’io ballato, o per dir meglio saltato, e
meglio ancora, pestato i piedi al prossimo mascherato. Fui a dirittura forzato a farlo da una
mascherina azzurra da un cappellaccio di paglia spropositato - che mi si attaccò al braccio e non mi
2
lasciò più per tutta la sera. A mezzanotte, ora in cui è costume di tór via le maschere, fui
meravigliatissimo di riconoscere nella mia diabolica incognita, una delle bellezze più luminose che
io mi abbia mai visto».
La conoscenza di Jenny lo porta a lasciare via Neuthor e va a stare a pensione in casa della signora
Länder, vedova di un ufficiale morto nella guerra franco-prussiana del 1870, madre della ragazza al
n. 37 di Breite Strasse. Il suo secondo volume di poesie, dal titolo Pasqua di Gea, è dedicato
proprio a Jenny (Meine liebe, süsse Freundin), di cui si innamora e che rivestirà una parte
importante nella sua vita anche sul piano spirituale, in quanto gli rimarrà per sempre dentro
l’amarezza di un amore non realizzato, l’unico vero della sua giovinezza.
Appena dopo la discussione della sua tesi sui Suoni e sviluppi di suoni nella parlata del
circondario di Girgenti, appena ottenuta la laurea, volta le spalle a Bonn e alla Germania con una
impazienza e insofferenza che mai, a quanto pare aveva fino allora manifestato: “Non solo io non
ho in animo di fermarmi per sempre a Bonn; ma io non vorrò, una volta partito, neanco rivederla
più da lontano. Era di Roma che io ti parlavo; e là io conto di fermare la mia stanza per sempre... Io
voglio il Sole, io voglio la luce, e qui non si vedono mai né l’uno né l’altra; qui i giorni
s’estinguono come tramonti continui”: così scrive alla sorella (e la parola sole la mette con S
maiuscola). Più tardi nel 1904, in una poesia intitolata Vecchio avviso, esprimerà meno banale
insofferenza nei riguardi del mondo tedesco dirà di una sua inquietudine che è poi quella che per
mezzo secolo ha assillato l’Europa intera. E la descrizione di una scena allora non inconsueta in
Germania, il concerto domenicale di una banda militare: Questi versi, e più i tre che dicono di una
natura spaventata e annientata dal vento di guerra e di morte delle trombe, sono i più veri e i più
belli che Pirandello abbia scritto in quel periodo, e si levano come premonizione dolorosa all’alba di
un secolo che conoscerà quella insania non improvvisa ma lunga, duratura, filosoficamente
articolata. La filosofia detta della vita, i cui termini più facilmente di quanto si dovrebbe vengono
impiegati a definire il mondo pirandelliano, si avviava a diventare la filosofia della morte. A noi
qui, ora, basta sapere che Pirandello ne ha avuto il presentimento.
(L. Sciascia, da La corda pazza)
Il biennio tedesco era stato intenso fervido di lavoro: aveva letto i romantici tedeschi, tra cui
Tieck, Chamisso, Heine, e Goethe, iniziato la traduzione delle Elegie romane di Goethe (che
pubblicherà nel 1896), composto su imitazione delle Romane le Elegie boreali (che pubblicherà nel
1895 con il titolo di Elegie renane) e cominciato a meditare sull’umorismo attraverso lo studio
dell’opera di Cecco Angiolieri, sul quale scriverà due saggi, uno dal titolo Un preteso poeta
umorista del secolo XIII verrà pubblicato sul numero del 15 febbraio 1896 de La vita italiana e
contiene le prime annotazioni sul concetto di umorismo che è il vero fondamento della sua arte e
che sarà l’argomento di un apposito e importantissimo saggio, L’Umorismo del 1908, di cui
parleremo.
Nel 1892, l’anno delle prime novelle (La ricca e Creditor galante) dopo che aveva scritto
esclusivamente versi e drammi, a parte Capannetta, comincia a comporre il suo primo romanzo,
L’esclusa, il cui titolo fu più volte cambiato (L’infedele, Destinati, Marta Ajala, un nome che
rientrerà nel suo destino), fino ad assumere quello definitivo. Il romanzo, concluso nell’estate
dell’anno seguente a Monte Cave (poi Monte Cavo) sui colli Albani vicino Roma, che gli era caro
anche perché gli ricordava le contrade del Reno presso Bonn e la figura di Jenny Schulz che forse
presta un po’ del suo carattere dolce e nel contempo sicuro a Marta Ajala, resterà parecchi anni nel
cassetto, finché verrà pubblicato prima a puntate fra il giugno e l’agosto 1901 sul quotidiano
romano «La Tribuna» poi in volume nel 1903. Comincia a prendere vita quella folla di personaggi,
spesso dolenti, che cercano di avere anch’essi una loro dignità di vita.
Sul finire del 1893 sullo stradone che da Porto Empedocle sale verso Agrigento, conosce
Maria Antonietta, anche lei di Agrigento, dove era nata nel 1872, figlia di Rosalia Rinaldi e di
3
Calogero Portolano, socio del padre; è un incontro combinato dal padre stesso che spera in un
matrimonio tra i due giovani perché in questo modo avrebbe potuto risolvere parecchi
problemi economici riguardanti la cava di zolfo che in quegli anni, per una prolungata crisi
nel settore, destava non poche preoccupazioni. Fra i due giovani nasce istintivamente un’intesa
spontanea, un trepidante sentimento amoroso (Aguirre) che porta subito a un contratto di
matrimonio. Luigi parte per Roma da dove scrive quasi quotidianamente lettere alla bella sposa (13
lettere in venti giorni), dai grandi occhi ardenti e un po’ corrucciati, una donna timida e un po’
chiusa, di buona famiglia, che aveva fatto, probabilmente, i suoi studi presso le suore di San
Vincenzo dell’Educandato Schifano, dove il 2 luglio 1892 diventa «Figlia di Maria» ed educata da
un padre geloso e possessivo, temuto per il suo carattere difficile e tenuto in gran considerazione dai
suoi concittadini. Le lettere mettono al corrente la futura sposa sulla ricerca e sui preparativi della
casa e “parlano” del suo trasporto passionale per l’arte, per la scrittura e per la letteratura. E
naturalmente del suo amore per Antonietta, un amore che fa sparire anche i disturbi neurovegetativi
che negli ultimi anni hanno afflitto Luigi.
Il matrimonio viene celebrato ad Agrigento il 27 gennaio 1894; dopo una breve luna di miele
trascorsa al Kaos e un altrettanto breve viaggio di nozze, i due sposi raggiungono a Roma la casa
che Luigi aveva trovato e arredato in via Sistina all’angolo con via del Tritone; l’anno seguente
nasce il primo figlio, Stefano, che segna l’inizio della vita familiare di Luigi e di un periodo felice e
tranquillo della sua esistenza, mentre Antonietta cercava di far di tutto per essere “una moglie
esemplare”. Nel 1896 i due sposi cambiano casa e vanno a vivere in via Vittoria Colonna, nel
palazzo Odescalchi, che sarà tanto carico di vicende nella storia della vita di Pirandello, dove nasce
la secondogenita, Lietta, nel giugno del 1897. Sono anni sereni, allietati dalla buona salute e da due
figli che crescono bene senza causare problemi e da una certa tranquillità economica, aiutati anche
dalla presenza assidua e amichevole del dottor Capparoni, il medico di famiglia, che sapeva dare
all’occorrenza un consiglio buono a tutti, ad Antonietta su come rinforzare i capelli indeboliti dalle
maternità, a Luigi per i suoi disturbi neurovegetativi e a tutti e due su come allevare e curare i
disturbi dei bambini. Ma la vita a Roma, lontano da ogni presenza familiare, con il peso del ménage
familiare sulle sue spalle, senza consigli, non doveva essere comunque tanto facile per la giovane
Antonietta, che col matrimonio si sente gravare addosso il peso della famiglia senza nessuno vicino
che le possa dare un consiglio. Sta di fatto che di tanto in tanto comincia a manifestare sintomi di
insofferenza e momenti di nervosismo non sempre ben celati, soprattutto quando nel suo
appartamento restava sola con i bambini mentre il marito era via, in casa degli amici Màntica o Ugo
Fleres o al caffè “Aragno” di via Veneto.
In questi anni si avvia intanto anche la “carriera” di scrittore di Pirandello: nel 1896 completa il
romanzo Il turno, che verrà pubblicato a Catania nel 1902 dall’editore Niccolò Giannotta: il
romanzo rappresenta il predominio del caso sulle vicende umane, un caso, o destino che dir si
vuole, che rende imprevedibile ogni avvenimento anche, anzi soprattutto, quando gli uomini
credono fermamente di poter dominare, o perlomeno guidare, il corso dei fatti. Alla fine del 1897,
insieme con alcuni amici, fonda la rivista settimanale “Ariel”, che avrà vita breve (25 numeri fino al
5 giugno 1898), sul quale pubblica l’atto unico L’epilogo, che verrà poi intitolato La morsa, e
alcune novelle (La scelta, Se..., ecc.); nella primavera è chiamato ad occupare la cattedra di
Linguistica e Stilistica all’Istituto Superiore Femminile di Magistero.
Diventa più intensa la collaborazione a riviste e giornali, come La Critica; la Tavola rotonda,
su cui pubblica nel 1895 la prima parte dei Dialoghi tra il Gran Me e il piccolo me e il Marzocco,
sul quale escono nel 1900 alcune celebri novelle (Lumie di Sicilia, La paura del sonno). Nel 1901
pubblica la raccolta di poesie Zampogna e a puntate, come abbiamo visto, il romanzo L’esclusa su
La Tribuna; l’anno successivo raccoglie in volume alcune novelle che erano già uscite su riviste e
giornali e le pubblica col titolo Beffe della morte e della vita (una seconda serie uscirà l’anno
seguente) e pubblica il secondo romanzo (Il Turno), dedicato alla moglie Antonietta (la dedica:
Buona siesta, Nietta mia).
4
Nel 1903, anno particolarmente difficile e doloroso, arriva dalla Sicilia la tragica notizia
dell’allagamento della zolfara di Aragona, nella quale i Pirandello avevano investito i loro
averi, compresi quelli della dote della moglie di Luigi.
Il dissesto economico costringe Pirandello, dopo un pensiero al suicidio, a riconsiderare su una base
diversa il suo approccio con la letteratura, prima tanto disinteressato: ora, in qualunque modo, deve
diventare fonte di introiti economici per sostentare la famiglia, visto che il magro stipendio di
insegnante non poteva certo bastare al fabbisogno dei familiari e al mantenimento del suo decoro
Il fu Mattia Pascal, che viene pubblicato nei fascicoli di aprile, maggio e giugno del 1904 e
poi in volume: è il suo primo vero successo non solo in Italia ma anche all’estero, caso
singolare per un autore italiano. Nel 1910 con poche varianti viene pubblicato in una seconda
edizione nella collana “Biblioteca amena” da Treves e nel 1918 in una terza edizione con numerose
varianti; nel 1921 abbiamo l’edizione praticamente definitiva con la casa editrice Bemporad di
Firenze (dopo aver lasciato la Treves): è in questa quarta edizione, che lo leggiamo oggi, arricchita
da qualche variante e soprattutto dall’appendice Avvertenza sugli scrupoli della fantasia, che
accompagnerà sempre le successive edizioni.
Sono anni di intenso e quotidiano lavoro: nel 1908 pubblica un volume di saggi dal titolo
Arte e scienza e l’importantissimo saggio L’umorismo, che contiene una forte vena polemica con
parte della cultura ufficiale, e soprattutto con Benedetto Croce col quale si innesta una diatriba che
sarà lunga e spesso anche velenosa; l’anno seguente viene pubblicato a puntate la prima parte del
romanzo I vecchi e i giovani, che riportando gli avvenimenti del 1893-1894 ripercorre la storia
del fallimento e della repressione dei Fasci siciliani. Nel romanzo sono adombrate le figure del
padre Stefano (Stefano Auriti) e della madre Caterina (Caterina Laurentano), come lo
scrittore stesso scriverà ai genitori.
Sul finire del 1911 sarà addirittura lui a dover lasciare la casa maritale di Roma prendendo in affitto
due stanzette ammobiliate: è un momento di profondo sconforto che troviamo puntualmente nelle
sue lettere alla sorella Lina. Li divide soprattutto l’incomunicabilità, il muro invalicabile che
Antonietta erigerà tra sé e il marito, un po’ per trauma mentale e molto per assoluta diversità di
idee e di istinti nei riguardi del coniuge, visto come il titolare di una cultura che sradica (Claudio
Toscani: L.P., Il fu Mattia Pascal, a cura di Claudio Toscani, A. Mondadori, Milano 1991, p. XIII).
Unico conforto è l’arte, nella quale riesce a sublimare la triste tragedia quotidiana.
umorismo I due volumi, insieme a quelli già pubblicati di novelle, romanzi e poesie, serviranno per
la nomina a professore ordinario, che avviene con un decreto del 28 novembre 1908 col quale gli
viene affidata ufficialmente la cattedra di “Lingua italiana, stilistica e precettistica e studio dei
classici, compresi i greci e latini nelle migliori versioni” nel primo biennio dell’Istituto Superiore di
Magistero di Roma; ed è una nomina che risolve in parte i suoi problemi economici. Pur pesandogli
molto, come abbiamo visto, la professione di insegnante, anche se a quanto pare ebbe notevole
successo presso gli allievi per il senso del dovere e per il modo stesso con cui affrontava la storia
letteraria e l’analisi dei testi classici, Pirandello abbandonerà la cattedra solo nel 1922.
Proprio il 1910, il nove dicembre, segna l’ingresso ufficiale di Pirandello nel teatro, non più
come spettatore, ma come autore: al Teatro Metastasio di Roma la Compagnia del «Teatro
minimo», diretta dall’amico Nino Martoglio, attore e regista suo conterraneo, mette in scena due atti
unici, La morsa (che è un rifacimento de L’epilogo pubblicato su «Ariel» nel 1898) e Lumìe di
Sicilia ricavato forse proprio in quell’autunno dalla novella pubblicata sul Marzocco nel 1900.
Numerose sono le repliche: La morsa piace di più al pubblico, Lumìe di Sicilia alla critica. Nel
frattempo continua a scrivere e pubblicare novelle, che assumeranno il titolo generale di Novelle per
un anno.
5
L’anno dopo, contestualmente alla pubblicazione di straordinarie novelle, come La patente e
La tragedia di un personaggio (leggere per i Sei personaggi), presso l’editore Quattrini di Firenze
esce Suo marito, (che il Treves non poté pubblicare per sue ragioni particolari, e ne fu
dolentissimo, scrive nella Lettera autobiografica), romanzo pieno di spunti che saranno sviluppati
nel teatro. Nel 1913, il 20 giugno, abbiamo la seconda presenza di una sua opera in teatro: nella
Sala Umberto I di Roma la Compagnia del «Teatro per tutti» diretta da Lucio d’Ambra e Achille
Vitti (che erano stati i soci presentatori per la sua iscrizione alla Società Italiana degli Autori
avvenuta il primo gennaio 1911) rappresenta Il dovere del medico.
Fino al 1915 gli anni passano lenti e dolorosi per il continuo aggravarsi della malattia della
moglie. Il lavoro che lo assorbe maggiormente è quello di prosatore: Pubblica proprio in questo
ultimo anno, da giugno ad agosto, il romanzo Si gira... sulla Nuova Antologia, che uscirà in volume
nel 1916 e ristampato infine nel 1925 col titolo attuale di I quaderni di Serafino Gubbio operatore.
Il 1915 è uno degli anni più tristi per Pirandello e chiude un periodo della sua vita in cui
afferra per intero il significato del sentimento del dolore. Due soprattutto gli avvenimenti che lo
hanno caratterizzato:
•
•
il 24 maggio l’Italia entra in guerra e il figlio Stefano, pieno di ideali e tenace interventista
parte volontario ma ben presto (il 2 novembre) viene fatto prigioniero e rinchiuso prima nel
campo di raccolta di Mauthausen poi (dopo Caporetto) in quello di Plan in Boemia: una
prigionia durata praticamente tre anni (fino al novembre 1918), durante i quali c’è un
intenso scambio epistolare tra padre e figlio importante sia per i temi trattati che per i
sentimenti quotidiani che ci possono gettare un fascio di luce discreto e illuminante non solo
per quanto riguarda l’artista Pirandello e i primi anni del suo teatro, ma anche per l’uomo;
(leggere ultima parte di Colloqui coi personaggi I)
la morte della madre, avvenuta in settembre, una presenza sempre viva nella sua mente
anche quando era lontano e la consapevolezza di essere sempre vivo in lei e nel suo
pensiero, una presenza forte per per il suo carattere, quasi un riparo per resistere meglio agli
attacchi traditori dell’esistenza, lei che sapeva così bene usare la prudenza, che le
consigliava di evitare in ogni occasione di prendere di petto le situazioni e di prendere
decisioni definitive, e la prudenza non può essere unita che agli affetti più profondi. .
(Leggere parte evidenziata Colloquii coi personaggi – II)
Le condizioni di salute della moglie diventano molto difficili; dal 1916 non tornerà più
nemmeno a Girgenti e Lietta diventa il bersaglio del suo male. Lietta è remissiva, è rassegnata (la
sua abnegazione pare quasi incomprensibile in una ragazza della sua età), ma a un certo punto
compie un gesto inaspettato che rivela al padre la sua disperazione: tenta il suicidio (Aguirre), ma
il colpo di rivoltella non parte, perché la capsula non è esplosa. Presto ritorna una parvenza di
serenità, Lietta riacquista una certa forza d’animo che le consente di affrontare i duri momenti degli
accessi della malattia: c’è da pensare a Stefano, prigioniero al fronte, a reperire e confezionare
pacchi con indumenti, vettovaglie e sigarette.
Tutto il teatro pirandelliano
nell’ordine cronologico
delle prime rappresentazioni italiane
n.
titolo
fonte
stesura
prima
rappresentazione
1910
1
La morsa
nel
1897
nov. 1892
6
9 dicembre - Roma,
(epilogo in un
atto) - titolo
originario:
L’epilogo
("scene
drammatiche”)
2
Lumie di Sicilia
uscirà una
novella dal
titolo
“la
paura” sullo
stesso
soggetto
Teatro
Metastasio,
Compagnia del «Teatro
minimo» diretta da
Nino Martoglio
Lumie di
Sicilia
novella del
1900
1910?
9 dicembre - Roma,
Teatro
Metastasio,
Compagnia del «Teatro
minimo» diretta da
Nino Martoglio
1913
3
Il dovere
medico
del
«Il gancio»
1902, poi
intitolato «Il
dovere del
medico»
1911
20 giugno - Roma, Sala
Umberto I, Compagnia
del «Teatro per tutti”
diretta
da
Lucio
d’Ambra e Achille Vitti
1915
4
5
Se non così
(La ragione
degli altri)
Cecè
«Il
nido»
1895
-
fine 1895
19 aprile - Milano,
Teatro
Manzoni,
Compagnia
stabile
milanese diretta da
Marco
Praga
(prim’attrice
Irma
Gramatica)
luglio
1913
14 dicembre - Roma,
Teatro
Orfeo,
Compagnia del «Teatro
a sezioni” di Ignazio
Mascalchi e Arturo
Falconi
1916
6
7
Pensaci,
Giacomino!
in dialetto
siciliano
Pensaci,
Giacomino!
(1910)
feb.-mar.
1916
10 luglio - Roma,
Teatro Nazionale, Con
la compagnia di Angelo
Musco
Liolà
in dialetto
agrigentino
cap. IV de Il
fu
Mattia
Pascal
(1904) - La
mosca
(1904)
agosto settembre
1916
4 novembre - Roma,
Teatro
Argentina,
Compagnia di Angelo
Musco,
in
dialetto
siciliano
1917
8
Così è (se vi
pare)
«La signora
Frola e il
signor
Ponza suo
genero»
marzo
aprile
1917
7
18 giugno - Milano,
Teatro
Olimpia,
Compagnia di Virgilio
Talli con la Melato e
Betrone
(1917)
9
Il berretto
sonagli
a
«La verità»
1912
«Certi
obblighi»
(1912)
agosto
1916
27 giugno - Roma,
Teatro
Nazionale,
Compagnia di Angelo
Musco,
in
dialetto
siciliano col titolo ’A
birritta
cu’
i
cincianeddi
Prima
rappresentazione in
italiano: 15 dic.
1923,
Teatro
Morgana di Roma
con la Compagnia
di Gastone Monaldi
10
La giara
’A giarra
in agrigentino
La
giara
(1909)
ottobre?
1916
9 luglio - Roma, Teatro
Nazionale, Compagnia
di Angelo Musco in
dialetto siciliano col
titolo ’A giarra
11
Il
piacere
dell’onestà
«Tirocinio»
(1905
apr.-mag.
1917
27 novembre - Torino,
Teatro
Carignano,
Compagnia di Ruggero
Ruggeri
1918
12
13
Ma non è una
cosa seria
commedia in tre
atti
La signora
Speranza
(1902)
Non è una
cosa seria
(1910)
Il giuoco delle
parti
Quando s’è
capito
il
giuoco
(1913)
agosto?
1917 febbr.1918
22 novembre - Livorno,
Teatro
Rossini,
Compagnia di Emma
Gramatica,
con
la
Gramatica nella parte di
Gasparina,
Camillo
Pilotto in quella di
Memmo Speranza e
Aristide Arista in quella
di Barranco
luglio settembre
1918
6 dicembre - Roma,
Teatro
Quirino,
Compagnia di Ruggero
Ruggeri,
con
la
prim’attrice
Vera
Vergani
1919
14
L’innesto
commedia in tre
atti
15
La patente
prima in
siciliano
poi in italiano
-
sett. ott.
1917
29 gennaio - Milano,
Teatro
Manzoni,
Compagnia di Virginio
Talli
La patente
1911
dic. 1917?
in it.:
dic. 1917
gen. 1918
19 febbraio - Roma,
Teatro
Argentina,
Compagnia del «Teatro
Mediterraneo» diretta
8
da Nino Martoglio, in
dialetto siciliano col
titolo ’A patenti
- Torino 23 marzo
1918 al Teatro
Alfieri
con
la
compagnia
di
Angelo Musco
16
L’uomo,
la
bestia e la virtù
Richiamo
all’obbligo
(1906)
gen.-feb.
1919
2
maggio
Teatro
Compagnia
Gandusio
Milano,
Olimpia,
Antonio
1920
17
Tutto per bene
Tutto per
bene (1906)
1919
1920
2 marzo - Roma, Teatro
Quirino, Compagnia di
Ruggero Ruggeri
18
Come
prima,
meglio di prima
La veglia
1904
ottobre?
1919
24 marzo
Teatro
Compagnia
Celli-Paoli
La
Signora
Morli, uno e
due
Stefano
Giogli uno e
due (1909)
La morta e
la viva
(1910)
estate
autunno?
1920
12 novembre - Roma,
Teatro
Argentina,
Compagnia di Emma
Gramatica
19
Venezia,
Goldoni,
Ferrero-
1921
20
Sei personaggi
in cerca
d’autore
commedia da
fare
Personaggi
(1906)
La tragedia
di un
personaggio
(1911)
Colloqui coi
personaggi
(1915)
ottobre
1920 gennaio?
1921
10
maggio
Roma,
Teatro
Valle,
Compagnia
Dario
Niccodemi,
interpreti
Vera Vergani e Luigi
Almirante
1922
-
settembre
novembre
1921
24 febbraio - Milano,
Teatro
Manzoni,
Compagnia
Ruggero
Ruggeri
29 settembre - Roma,
Teatro
Argentina,
Compagnia Lamberto
Picasso
10 ottobre
Teatro
compagnia
21
Enrico IV
22
All’uscita
mistero profano
-
aprile
1916
23
L’imbecille
L’imbecille
(1912)
?
9
-
Roma,
Quirino,
Alfredo
Sainati
24
Vestire
ignudi
gli
aprile
maggio
1922
-
14 novembre - Roma,
Teatro
Quirino,
Compagnia
Maria
Melato e Annibale
Betrone
1923
25
26
27
L’uomo
dal
fiore in bocca
Caffè
notturno
(1918) - poi
intitolato La
morte
addosso
(1923)
?
21 febbraio - Roma,
Teatro
degli
Indipendenti,
Compagnia
degli
«Indipendenti” diretta
da
Anton
Giulio
Bragaglia
La vita che ti
diedi
La camera
in attesa (1916)
I pensionati
della
memoria
(1914)
gennaio
febbraio
1923
12 ottobre - Roma,
Teatro
Quirino,
Compagnia Alda Borelli
?
23 novembre - Roma,
Teatro
Nazionale,
Compagnia Raffaello e
Garibalda Niccòli (in
vernacolo
toscano,
riduzione di Ferdinando
Paolieri)
L’altro figlio
L’altro
figlio
(1905)
1924
28
Ciascuno a suo
modo
da
un
episodio del
romanzo Si
gira...
aprile maggio?
1923
22 maggio - Milano,
Teatro
dei
Filodrammatici,
Compagnia Niccodemi
(interpreti Vera Vergani
e Luigi Cimara
1925
-
La giara
29
Sagra
Signore
nave
La giara
del
della
Il Signore
della Nave
(1916)
trad. 1925
Roma, 30 marzo 1925
estate
1924
4 aprile - Roma, Teatro
Odescalchi, Compagnia
del «Teatro d’Arte»,
direzione
Luigi
Pirandello
1927
30
Diana e la Tuda
(La
trappola) in
«Corriere
della Sera»,
22 maggio
ott. 1925
ago. 1926
10
11 gennaio - Milano,
Teatro
Eden,
Compagnia Pirandello
(prima attrice Marta
Abba, già rappresentata
1912
31
32
L’amica
mogli
delle
Bellavita
nel ’26 in prima
assoluta a Zurigo)
L’amica
delle mogli
( 1894)
agosto
1926
28 aprile - Roma,
Teatro
Argentina,
Compagnia Pirandello
(prima attrice Marta
Abba
L’ombra del
rimorso
(1914)
1926
(prima del
17 ottobre
27 maggio - Milano,
Teatro
Eden,
Compagnia AlmiranteRossone-Tofano
1928
33
34
Scamandro
-
La
colonia
trama
nel
romanzo
Suo marito
nuova
-
19 febraio - Firenze,
Teatro dell’Accademia
dei
Fidenti,
interpretazione
del
Gruppo
Accademico,
musica di scena di
Fernando Liuzzi
mag. ’26
giu. ’28
24 marzo - Roma,
Teatro
Argentina,
Compagnia Pirandello
(interpreti Marta Abba e
Lamberto Picasso
1929
35
36
O di uno o di
nessuno
O di uno o
di nessuno
(1912
e
1925)
-
Lazzaro
aprile
maggio
1929
4 novembre - Torino,
Teatro
di
Torino,
Compagnia AlmiranteRossone-Tofano
febbraio
aprile?
1928
7 dicembre - Torino,
Teatro
di
Torino,
Compagnia
Marta
Abba;
prima
rappresentazione
assoluta il 9 luglio 1929
al Royal Theater di
Huddersfield
nella
traduzione inglese di
C.K. Scott Moncrieff
1930
37
Come
vuoi
tu
mi
38
Questa sera si
recita
a
soggetto
-
?
18 febbraio - Milano,
Teatro
dei
Filodrammatici,
Compagnia Marta Abba
Leonora
addio!
fine 1928
inizio
1929
14 aprile - Torino,
Teatro
di
Torino,
Compagnia
appositamente costituita
diretta da Guido Salvini
11
(prima rappresentazione
assoluta a Koenisberg il
25
gennaio
1930
tradotta in tedesco da
Harry Kahn col titolo
Heute Abend wird aus
dem Stegreif gespielt
1932
39
lug. ago.
1932
-
Trovarsi
4 novembre - Napoli,
Teatro dei Fiorentini,
Compagnia Marta Abba
1933
40
Quando si
qualcuno
è
settembre
ottobre
1932
-
7 Novembre – San
Remo,
Teatro
del
Casino
Municipale,
Compagnia Marta Abba
(prima rappresentazione
assoluta
al
Teatro
dell’Odéon di Buenos
Aires il 20 settembre
1933 con traduzione in
spagnolo di Homero
Guglielmini col titolo
Cuando se es alguien)
1934
41
La favola del
figlio cambiato
Il
figlio
cambiato
(1902)
estate
1930
estate
1932
24 marzo - Roma,
Teatro Reale
dell’Opera, musica di
Gian Francesco
Malipiero, interpreti
Florica Cristoforeanu e
Alessio De Paolis,
direttore d’orchestra
Gino Marinuzzi.
Prima rappresentazione
solo testo (senza
musica): 27 giugno
1949 a Bari al Teatro
Piccinni «Piccolo
Teatro della città di
Bari»
1935
42
Non si sa come
Nel gorgo
(1913)
Cinci
(1932)
La realtà
del sogno
(1914)
-
12
13 dicembre - Roma,
Teatro
Argentina,
Compagnia
Ruggero
Ruggeri
(fu
rappresentata per la
prima volta al Teatro
Nazionale di Praga il 19
dicembre 1934 con
traduzione
cèca
di
Venceslao Jiřina
1936
11
gennaio
Trasmissione
radiofonica,
Ente
Italiano
Audizioni
Radiofoniche
43
Sogno (ma forse
no)
dicembre
1928
gennaio
1929
-
- 10 dicembre 1937
- Genova, Giardino
d’Italia,
Filodrammatica del
Gruppo
Universitario
di
Genova
(prima
rappresentazione
assoluta al Teatro
Nacional di Lisboa
il 22 settembre
1931, su traduzione
portoghese
di
Caetano de Abreu
Beirão col titolo
Sonho (mas talvez
não)
1937
44
I giganti della
montagna
Lo stormo e
l’Angelo
Centuno
(1910)
estate
1933
5 giugno – Firenze,
Giardino di Boboli
(Prato della Meridiana),
Complesso
artistico
diretto
da
Renato
Simoni
(interpreti
principali:
Andreina
Pagnani
e
Memo
Benassi)
Comincia così una attiva collaborazione, destinata a durare negli anni, con Martoglio e
l’attore Angelo Musco. Con quest’ultimo spesso i rapporti saranno difficili, talvolta tempestosi,
come ai tempi della rappresentazione di Pensaci, Giacomino!, perchè Pirandello era preoccupato
soprattutto dal fatto che Musco, abbandonandosi alla sua irresistibile comicità spesso sfrenata e
volgare, trascinava il pubblico nel gioco della farsa, allontanandolo dalla comprensione vera del
dramma dei suoi personaggi. Ad un certo punto i rapporti erano diventati veramente tempestosi,
tanto che il Pirandello arrivò alla minaccia della rottura completa della loro collaborazione
spingendosi fino a ritirargli il permesso di rappresentare le sue opere, ritiro che restò in vigore per
qualche mese e che solo l’intervento di amici comuni evitò che diventasse definitivo; la
tempestosità di questa relazione rischierà di rompere perfino l’amicizia quasi fraterna che aveva per
Martoglio. Proprio questi episodi porteranno in seguito il Pirandello alla realizzazione di una
propria compagnia teatrale.
Più collaborativi e sereni saranno i rapporti con un altro degli attori importanti dell’epoca,
Ruggero Ruggeri, che porterà sulla scena opere importanti già dalla prima fase della produzione
teatrale pirandelliana, a partire dal 1917 con Il piacere dell’onestà (che verrà rappresentata a
Stoccolma nel 1934 in occasione dei festeggiamenti per la consegna a Pirandello del premio Nobel),
13
una commedia che fa leva soprattutto sul paradosso e sull’anormalità, ma già vi si avverte il
conflitto tra realtà e apparenza e tra la vita e le forme: un grande successo, ovunque viene
rappresentata, perché mette in risalto le capacità dell’attore principale della compagnia.
Sempre nel 1917 viene messa in scena a Milano, tratta dalla famosa novella La signora Frola
e il signor Ponza suo genero, Così è (se vi pare) (soffermarsi sul dramma teatrale) dalla
compagnia di Virgilio Talli con la Melato e Betrone, reputato da Martoglio il solo capocomico
capace di comprenderne l’alto significato: è un grande successo, come scrive lo stesso Pirandello
alla sorella Lina, non dico per gli applausi, ma per lo sconcerto e l’intontimento e l’esasperazione e
lo sgomento diabolicamente cagionati al pubblico. Pirandello la definisce una parabola ed ha per
tema la verità, da tutti affannosamente cercata sin dall’inizio, ma da nessuna nemmeno avvicinata: è
il dramma della inconoscibilità prima ancora che della follia: anzi, la follia è la manifestazione
esterna di questa inconoscibilità. Una grande Maria Melato (cui la dedicherà con le semplici parole:
«A Maria Melato per la sua passione d’arte, fatta d’amore, di dolore, di poesia» e che sarà interprete
di altri grandi drammi pirandelliani) impersona la parte della signora Ponza:
Il 1918 Sul finire dell’anno Ruggeri porta sulle scene a Roma Il giuoco delle parti, accolta
freddamente, riproponendola sia a Genova che a Torino e infine a Milano, dove fra gli spettatori si
scatena un’accesa battaglia anche di pugilato fra sostenitori e avversari.
Il giuoco delle parti ... degnamente concludeva tutta questa fase delle opere immaginate e
composte durante il conflitto. Di uno spirito di guerra, anche se questa non veniva mai nominata, si
può dire che era intrisa una commedia di infamie e inganni e ritorsioni affilate, coi suoi personaggi
mossi da intenti spietati, tesi com’erano a procurare la morte cruenta dell’antagonista, ma
menando le loro trame in una meccanica fatale e in una sorta di inconsapevolezza morale della
scelleraggine di quei fini e atti, similmente alla "innocenza" di soldati nel colpire i nemici, pur
prevedendo bene, ciascuno di loro, e anzi calcolando l’effetto letale delle azioni. (Queste erano in
parte considerazioni estemporanee di Stefano in una delle conversazioni familiari.) Non era
possibile trarsi fuori da quella partita per un uomo che si voleva estraneo al consorzio dei propri
simili e lo spregiava, e che si era oltretutto svuotato d’ogni passione e reso così anche
sentimentalmente invulnerabile? Non bastava, per sguizzarne via, limitarsi a fingere una
scrupolosa osservanza della mera formalità esteriore delle loro regole e dei ruoli sociali assegnati
a ciascuno? Il personaggio pareva credere che bastasse. Ma l’autore sembrava piuttosto incline a
diabolicamente divertirsi (e regalare al pubblico lo spasso) nel contemplare come un uomo siffatto,
e nel caso concreto Leone Gala, c’era chi si provava invece a costringerlo ad assimilarsi
all’esperienza delle moltitudini. In sostanza, di coloro, tutti, che accettavano il posto dato loro
nella società e vi si attenevano non solo formalmente ligi ma fino in fondo, taluno con convinta
rassegnazione e talaltro con gusto e animosità, anche se dovevano subirne, magari malvolentieri,
conseguenze spiacevoli, e tra queste in qualche caso toccava persino lo scherzo della morte.
Cosicché il conclusivo duello fuori scena, col rumore di ferri delle prove d’armi che l’avevano
preceduto e l’esibizione degli strumenti chirurgici da posto di medicazione d’immediata retrovia,
sotto la parvenza di irridere i tardivi cultori di un retaggio ottocentesco, suonava come richiamo
del conflitto feroce che non era un’esplosione momentanea di violenza con i reciproci mortali
inganni ma diventava modo connaturato e permanente della vita umana. (Andrea Pirandello, cit. p.
292)
Il giuoco delle parti (estraniarsi dalla vita vedi temi)- La commedia presenta un triangolo
amoroso: il marito Leone Gala, la moglie Silia che detesta il modo razionale di ragionare del marito
che «guarda e capisce tutto punto per punto, ogni mossa, ogni gesto, facendoti prevedere con lo
sguardo l’atto che or ora farai»; Guido Venanzi, l’amante della moglie, un personaggio debole che
subisce da entrambi. Silia è assillata dal pensiero di liberarsi del marito facendolo uccidere ed
14
elabora un piano: lo spinge a sfidare a duello un giovane e spensierato marchese, celebre
spadaccino, dal quale ritiene di essere stata offesa. Leone allora manda Venanzi a sfidarlo: come
marito ha fatto il suo dovere, ma il duello dovrà sostenerlo colui che gode di fatto le grazie di Silia e
vive con lei. Le condizioni dettate da Venanzi, credendo di porle per Leone e non per sè, sono dure:
sfida fino all’ultimo sangue. Alla fine Venanzi deve accettare la parte assegnatagli da destino nel
grande gioco della vita: l’esperto marchese lo uccide. Leone ha raggiunto il suo scopo, rovesciando
il desiderio della moglie e facendo ricadere su di lei l’angoscia per una morte imprevista che lascia
le cose come prima, anzi peggio di prima: ma per lui non è una vendetta che mette allegria.
E nel 1918 Pirandello trova anche il titolo generale per le sue opere teatrali: Maschere nude
Ai primi di gennaio del 1919 Antonietta viene portata nella casa di salute Villa
Giuseppina, sulla via Nomentana (la follia vedi temi): la sua vita non è certamente stata
fortunata, anche al di là del fallimento della solfatara che l’ha così scossa nell’intimo: non è riuscita
ad accettare l’idea di condividere il marito con l’arte e di allontanarsi da quel quieto vivere che
Girgenti le aveva riservato sin dall’infanzia, nella sicurezza di abitudini assimilate da bambina, di
un modo di pensare e di esistere in cui si sarebbe sentita protetta: sradicata a Roma le pesa il
fardello di prendere decisioni in prima persona, di accollarsi quelle responsabilità che nella casa
paterna qualche altro si era sempre assunto per lei, a cominciare dalle piccole cose quotidiane,
sostituendo il marito che era assente per lavoro. La follia di Antonietta diventa anche il rifugio per
sfuggire alla paura di essere incapace di far fronte a questo cumulo di occupazioni quotidiane che
rappresentano il fondo dell’assennatezza e della normalità di una donna, per lo meno all’inizio del
Novecento, in cui la normalità era l’obbedienza a regole precostituite e valide per l’intera
collettività.
In quell’anno 1919, il 2 maggio, dalla Compagnia di Antonio Gandusio viene rappresentata al
Teatro Olimpia di Milano L’uomo la bestia e la virtù
Nel 1920, lasciando la Treves, per le sue pubblicazioni si mette d’accordo con la società
editrice Bemporad di Firenze, un accordo che prevede anche la ristampa di tutto quanto aveva
pubblicato fino a quel momento. Tre le prime importanti di questo periodo:
Tutto per bene, scritta nel 1919; Come prima, meglio di prima, ricavata dalle novelle La veglia
pubblicata sul «Marzocco» del 2 maggio 1904 Vexilla Regis, nel 1897 sulla rivista L’Italia, e
rappresentata dalla Compagnia Ferrero-Celli-Paoli al teatro Goldoni di Venezia il 24 marzo; La
Signora Morli, uno e due è la terza ’prima’ del 1920, scritta in quello stesso anno forse proprio a
Francavilla a Mare, dove era andato insieme a Lietta, che vi trascorre la sua prima vera vacanza, e
lavora alla stesura dela discorso celebrativo per gli ottant’anni di Verga che terrà in settembre a
Catania. La commedia è tratta dalle novelle La morta e la viva (pubblicata sulla “Rassegna
contemporanea” nel novembre 1910) e Stefano Giogli uno e due (su «Il Marzocco» del 18 aprile
1909) e rappresentata per la prima volta a Roma al Teatro Argentina dalla Compagnia di Emma
Gramatica
Il 1921 è un anno importante per il teatro italiano: il 10 maggio viene messo in scena al
Teatro Valle di Roma dalla Compagnia di Dario Niccodemi Sei personaggi in cerca d’autore,
la prima commedia della trilogia del cosiddetto «Teatro nel Teatro» (le altre due saranno
Ciascuno a suo modo del 1924 e Questa sera si recita a soggetto del 1930). Alla fine del secondo
atto gli applausi sembrano assicurare il successo pieno anche se non esaltante; Le chiamate,
comunque, in scena tra primo e secondo atto sono una quindicina. Ma del terzo atto gli spettatori
non capiscono nulla o quasi, e alla fine si scatena una battaglia con fischi del pubblico e urla:
manicomio, manicomio!, e battimani dei sostenitori di Pirandello che, rannicchiato nel fondo di un
palco insieme alla figlia Lietta, assiste allo spettacolo ed è quasi costretto a fuggire da un’uscita
secondaria, accolto da fischi e lanci di monetine. Ben diverso fu l’esito dello seconda
rappresentazione, avvenuta a Milano al Teatro Manzoni il 27 settembre. Nell’occasione scrisse
15
Marco Praga: “Il pubblico del Manzoni ha accolto trionfalmente questa strana commedia ch’è,
indubbiamente, un’opera d’arte di una originalità rara”. Da allora il successo dell’opera fu
assicurato su tutti i palcoscenici del mondo.
Proprio in questo stesso mese di maggio Lietta si fidanza e a metà luglio si sposa nella basilica
costantiniana di S. Agnese (come era allora prescritto, il matrimonio avvenne in due giornate, prima
con rito civile e poi religioso, il 14 e 16 luglio). La partenza per il viaggio di nozze segnò il primo
vero allontanamento da casa e un distacco doloroso da suo padre.
Pirandello resta senza una presenza femminile in casa e la partenza di Lietta è un colpo
durissimo. Poco dopo Stefano sposa Olinda Labroca, fine musicista, sorella di Mario Labroca che
era stato suo compagno di studi al Convitto Nazionale; i due sposi vanno ad abitare in via Pietralata
e sarà Olinda a prendere le redini di casa Pirandello che dopo qualche mese viene allietata dalla
mascita della primogenita di Stefano, Maria Antonietta, lo stesso nome di sua madre, a
dimostrazione di un amore che le dolorose vicende trascorse e la crudele malattia non hanno
scalfito.
Fra l’ottobre e il novembre 1921 scrive l’Enrico IV, la cui trama di fondo, ma senza il finale,
aveva già anticipato in una lettera all’amico Ruggero Ruggeri, per il quale l’aveva pensata e scritta,
definendola una delle sue commedie più originali. All’inizio di febbraio la legge agli attori che la
metteranno in scena il 24 febbraio al Teatro Manzoni di Milano: è la Compagnia Nazionale diretta
da Virgilio Talli, nata dalla fusione della Compagnia di Ruggeri con quella di Alda Borelli. Enrico
IV è il primo e incontrastato trionfale successo di Luigi Pirandello, sia a Milano che a Roma
Ormai la fama dello scrittore varca i confini dell’Italia: i Sei personaggi in cerca d’autore
sono rappresentati in lingua inglese a Londra il 27 febbraio 1922 al Kingsway Theatre dalla Stage
Society, e G.B. Shaw, che assiste a una serata, la consiglia a Brock Pemberton che la metterà in
scena a New York al Fulton Theatre nel novembre dello stesso anno con ben 127 repliche.
Nel 1922, oltre all’Enrico IV, vengono rappresentati ancora tre drammi: il 29 settembre al
Teatro Argentina di Roma dalla Compagnia di Lamberto Picasso All’uscita, un atto unico apparso
sulla Nuova Antologia nel novembre 1916, che può essere considerato più di altri l’atto di nascita
ufficiale del teatro pirandelliano: è un dialogo di morti, insolito e assoluto che si richiama a una
totale umiltà e vuol essere l’esplicito messaggio del “mito di una realtà ridotta a pura parvenza”. Il
10 ottobre va in scena al Teatro Quirino di Roma, con la compagnia di Alfredo Sainati L’imbecille,
tratto dalla novella omonima pubblicata nel 1912 sul «Corriere della Sera», un dramma in cui
l’intensa angoscia della vita e della malattia sono mescolati con la satira politica, condotta con
piglio grottesco e triste ironia, che non nasconde una protesta contro certi costumi politici. Il 14
novembre va in scena, sempre al Teatro Quirino di Roma, Vestire gli ignudi, con la Compagnia di
Maria Melato e Annibale Betrone. Ancora un suicidio, determinato dalla falsità dei rapporti umani,
mancando i quali ciascuno di noi è nudo. Vestire gli ignudi - “Ognuno è un’anima nuda e sente la
necessità di rivestirsi di un abito di rispettabilità, di qualità apprezzate dagli altri, per dare un senso
alla propria vita e sentirsi concretamente qualcosa
Colla data del 1923, ma in effetti nel novembre dell’anno precedente, Adriano Tilgher
pubblica l’opera Studi sul teatro contemporaneo con la quale offre la prima interpretazione del
teatro pirandelliano, che qualche mese prima era stata anticipata in un pomeriggio mondano a
Roma. Il pomeriggio del 12 aprile 1922 la Roma intellettuale ed elegante affollava i locali dalla
Galleria Giacomini in piazza Madama. Si inauguravano le Stanze del Libro e, dopo i discorsi
ufficiali, Adriano Tilgher avrebbe parlato dell’arte di Luigi Pirandello. Tilgher parlò
dell’umorismo e del rapporto tra la filosofia e l’arte di Pirandello, chiarì come nella sua opera
16
fosse presente il «contrasto tra l’eterno fluire della vita e i singoli eventi in cui esso di volta in volta
si congella. Guai alle creature che per sé o per gli altri rimangono agganciate e fisse in un singolo
fatto della loro vita senza potersene staccare». È da queste idee, affermava Tilgher, che nascono i
Sei personaggi e l’Enrico IV.
Adriano Tilgher - L’antitesi è perciò la legge fondamentale di quest’arte. L’inversione dei
comuni ordinarii abituali rapporti della vita [ ... ]
Dualismo della Vita e della Forma o Costruzione; necessità per la Vita di calarsi in una
Forma ed impossibilità di esaurirvisi: ecco il motivo fondamentale che sottostà a tutta l’opera
di Pirandello e le dà una ferrea unità e organicità di visione.
Ciò basta da solo a far comprendere di quanta freschissima attualità sia l’opera di questo
nostro scrittore. Tutta la filosofia moderna da Kant in poi sorge sulla base di questa intuizione
profonda del dualismo tra la Vita, che è spontaneità assoluta, attività creatrice, slancio
perenne di libertà, creazione continua del nuovo e del diverso, e le Forme o Costruzioni o
schemi che tendono a rinserrarla in sé, schemi che la Vita, di volta in volta, urtandovi contro,
infrange dissolve fluidifica per passare più lontano, creatrice infaticata e perenne. Tutta la
storia della filosofia moderna non è che la storia dell’approfondirsi del conquistarsi del
chiarificarsi a se medesima di questa intuizione fondamentale. Agli occhi di un artista che di
questa intuizione viva - è il caso di Pirandello - la realtà appare nella sua stessa radice
profondamente drammatica, e l’essenza del dramma è nella lotta fra la primigenia nudità
della vita e gli abiti o maschere di cui gli uomini pretendono, e debbono necessariamente
pretendere, di rivestirla. La vita nuda, Maschere nude. I titoli stessi delle opere sono altamente
significativi.
Se in un primo momento l’analisi tilgheriana piacque al Pirandello, ben presto gi sarebbe però
sembrata troppo ristretta e limitativa sia perché troppo si rifaceva alla sua produzione fino al 1922
sia perché chiudeva la sua arte in un ambito dal quale sarebbe stato impossibile uscire. Qualche
anno dopo, nel 1927, arriveranno alla polemica e praticamente alla rottura perché Tilgher pensa, e a
molti lo fa pensare, di essere stato lo scopritore dell’arte pirandelliana e quasi l’artefice del suo
successo. Nel ’28 fra i due scende il silenzio, anche perché Pirandello sceglie un volontario
“espatrio”.
Fra gennaio e febbraio del 1923, tratta dalle novelle La camera in attesa (pubblicata nel 1916
sulla rivista «La lettura») e I pensionati della memoria (pubblicata sulla rivista «Aprutium» nel
1914) scrive La vita che ti diedi per Eleonora Duse, che nel 1921 era tornata alle scene: ma i mesi
passano senza che l’attrice dia una risposta. Intanto trae dalla novella La morte addosso, pubblicata
su «La Rassegna italiana» il 15 agosto 1918 col titolo Caffè notturno, l’atto unico, considerato
unanimemente fra le migliori opere pirandelliane, L’uomo dal fiore in bocca, che viene messo in
scena da Anton Giulio Bragaglia al Teatro degli Indipendenti di Roma dalla Compagnia degli
«Indipendenti” diretta da Anton Giulio Bragaglia il 21 febbraio.
Subito dopo, parte per Parigi (per la prima volta varca i confini dell’Italia per seguire il suo
teatro) dove il 5 aprile assiste alla prima dei Sei personaggi (Six personnages en quête
d’auteur), con la traduzione di Benjamin Crémieux, al Théatre de la Comédie des Champs
Élisées con la direzione di Georges Pitoëff (attore e regista).
A dicembre del 1923 si imbarca sulla nave «Duilio” a Napoli per New York, dove arriva il
20 e assisterà al Fulton Theatre (ribattezzato per l’occasione Pirandello’s Theatre) alle
rappresentazioni dei Sei personaggi e di Così è (se vi pare); il viaggio è fatto in compagnia
dell’attore Arnold Korpff che metterà in scena l’Enrico IV (The Living Mask). All’arrivo a New
17
York viene ricevuto “da un esercito di giornalisti americani e italiani e di fotografi” (lettera al figlio
Stefano). Festose sono le accoglienze degli italiani, e soprattutto della numerosa comunità siciliana:
sono due mesi esaltanti.
Al ritorno in Italia, in maggio (il 22 o il 23?) assiste al Teatro dei Filodrammatici di
Milano, con la Compagnia diretta da Dario Niccodemi e gli interpreti principali Luigi Cimara e
Vera Vergani alla prima di Ciascuno a suo modo, il secondo dei «drammi da fare» (della trilogia
del teatro nel teatro, una definizione che lo stesso autore adotterà dopo aver messo in scena il terzo
dramma, Questa sera si recita a soggetto nel 1930), che ripropone la storia della donna fatale,
presente nel romanzo Si gira... .
La prima di Ciascuno a suo modo fu preceduta già da polemiche, sollevate sollevate dal feroce
avversario di Pirandello, il critico Domenico Lanza, che aveva per le mani la recentissima
pubblicazione dell’opera (caso unico nella vita del Nostro Autore la pubblicazione dell’opera
prima della rappresentazione) aveva recensito il testo in maniera molto negativa con “quattro
colonne di vituperi” come scrisse lo stesso Pirandello in risposta sul Corriere della Sera,.
Grande perciò divenne l’attesa.
Questa è una parte del messaggio che Luigi Pirandello inviò a Mussolini nel settembre
1924, nel periodo della massima incertezza e della massima debolezza del regime che Mussolini da
poco ha cominciato a instaurare e a realizzare dal punto di vista istituzionale. Tre mesi prima (il 10
giugno), Giacomo Matteotti era stato rapito e poi, presumibilmente subito dopo, assassinato da un
gruppo di squadristi capitanati dal famigerato fascista fiorentino Amerigo Dumini (detto il
Panella).
Agli occhi di Pirandello certamente la classe politica italiana, che aveva retto le sorti del
Paese dal 1890 in poi, era responsabile di una Grande Guerra che aveva toccato nell’intimo
ogni persona, con morti, feriti e prigionieri, distruzioni e miseria nuova aggiunta alla miseria
vecchia, e si era dimostrata incapace di risolvere i problemi del paese e ancor peggio, di capire
i bisogni e i problemi del paese (pensiamo ad esempio a cosa pensavano i politici del “paese
reale”). L’adesione è innanzitutto un atto d’accusa contro quella classe politica che era partita
dallo scandalo della Banca Romana. Al contrario, il fascismo si poneva come l’unica
formazione in grado di rompere con il passato e di risolvere i problemi, e qualcosa in questa
direzione viene pur fatto, se pensiamo ad esempio all’istituzione della “Cassa mutua” e della
pensione di vecchiaia che pone la legislazione sociale italiana all’avanguardia fra le nazioni
civili e successivamente alla legge di riforma agraria. Ma nel contempo i mali morali del
fascismo cominciavano a diventare sempre più evidenti, e i quattro anni trascorsi fuori
dall’Italia dal ’28 al ’32 in “volontario esilio” gli faranno capire molte cose.
Ma quando capisce, e questo avviene già a partire dal ’27, che l’essenza morale del fascismo è
negativa almeno quanto quella della incapacità della vecchia classe politica dirigente, perché non
sconfessa la sua adesione? Pirandello di fronte alla vita è nudo come i suoi personaggi, e ciascuno
di noi può rivestirlo dei panni che ritiene più giusti: e per noi resta un mistero il suo atteggiamento
più intimo. Vien da dire: è difficile conoscerlo! Di fronte alla politica svolge il ruolo passivo
dell’osservatore, tanto che il regime non lo mostrerà mai come un fiore all’occhiello, ma in molte
occasioni, come nel 1929, gli mette i bastoni fra le ruote impedendo la rappresentazione di Questa
sera si recita a soggetto.
Alla fine del 1924 si costituisce a Roma davanti al notaio Metello Mencarelli il Teatro
d’Arte, da un’idea di Orio Vergani e Stefano Pirandello, fondato da un gruppo di undici
personaggi, tra cui figurano anche Massimo Bontempelli e Giuseppe Prezzolini, che per
questo verrà definito il «Gruppo degli Undici», che nel ’25 affiderà la direzione artistica sia
per la sua ormai grande esperienza che per la sua fama a Luigi Pirandello, che ottiene
sovvenzionamenti per i lavori di ristrutturazione del Teatro Odescalchi. Sovvenzionamenti
18
scarsi e che purtroppo arrivano a rilento (c’è perfino una contribuzione autorizzata da
Mussolini di 50.000 lire).
La direzione artistica della Compagnia del «Teatro d’Arte» costituisce un momento di
fondamentale importanza nello svolgimento della poetica teatrale di Pirandello, che non si
limita solo a dare delle indicazioni scenografiche contenute nelle didascalie delle opere, ma
mette in pratica le sue idee e le sue intuizioni sia sul piano della messa in scena che della
recitazione, idee che era venuto affinando assistendo ad alcune rappresentazioni a Parigi e a
Berlino, attraverso Antoine e Pitoëff da un lato e dall’altro alla scuola di recitazione russa, che
aveva in Stanislavskij la sua massima espressione. Guido Salvini ricorda che nei primi tempi
dell’attività del «Teatro d’Arte» Pirandello tenne ai suoi attori delle vere e proprie lezioni sui
sistemi di recitazione sperimentati dalla scuola di regìa russa, che ha come centro l’idea che
ogni attore deve calarsi nel personaggio, per sentirlo dentro fino a immedesimarsi. Pirandello
diceva « calarsi in un personaggio » quasi come in uno scafandro. Si trattava di un termine
che, tolto dalla sua genericità e reinserito nel contesto dell’insegnamento registico
pirandelliano, raccoglie alcuni importanti risultati dello studio di regole e caratteristiche della
regìa europea di quegli anni e si ricollega così, da un lato, al suggerimento della verità, della
spontaneità, della «obbedienza» naturalistica dell’attore che voleva Antoine Pitoëff e,
dall’altro, all’insegnamento della recitazione, secondo il mitico Stanislavskij, per il quale era
essenziale il momento della «identificazione» col personaggio, alla quale si doveva arrivare
con tutti i mezzi possibili, razionali e non, al fine di raggiungere quel «cerchio dell’attenzione»
nel quale coinvolgere gli spettatori, in cui nulla di estraneo deve interferire.
Il 4 aprile al Teatro Odescalchi ha luogo, alla presenza di Mussolini, l’inaugurazione del del
Teatro d’Arte con la rappresentazione dell’atto unico Sagra del Signore della nave, ricavato dalla
novella Il Signore della nave, pubblicato sulla rivista “Il Convegno” del 30 settembre 1924. La
Compagnia scrittura per un anno (dalla Quaresima del 1925 al Carnevale del 1926) la giovane
Marta Abba come prima attrice, che debutta con Nostra Dea di Massimo Bontempelli, una
«commedia moderna» nella quale l’autore afferma “una di quelle verità quotidiane, che ognuno ha
cento volte modo di osservare, e prima le esaspera fino a darle un sorprendente aspetto di
paradosso, poi grado a grado ne viene sviluppando le più impensate e divertenti conseguenze. I
quattro atti alternano continuamente i toni più diversi della comicità più piena e gioconda alla più
tagliente indagine dell’animo umano” (Dal programma di sala della serata).
1910
1
/
1917pan>
1918
2
/
1925span>
teatro
dell’uomo
teatro del
personaggio
Pirandello
al centro
della scena
19
realtà,
superstizione,
uomo,
religione
La
morsa;
Lumìe
di
Sicilia;
Il
dovere del
medico;
Se non così;
Cecè;
Pensaci,
Giacomino!;
Liolà;
La giara; La
patente;
L’imbecille;
Bellavita
realtà
e
apparenza,
forme di vita,
la vita della
forma
Così è, (se vi
pare);
Il
berretto
a
sonagli;
Il
piacere
dell’onestà;
Ma non è
una
cosa
seria;
Il
giuoco
delle parti;
l’innesto;
L’uomo la
bestia e la
virtù; Tutto
per
bene;
Come
prima,
meglio
di
prima;
La
signora
Morli una e
due;
1921
3
/
1930
1925
4
/
1931
trilogia
teatro
teatro
del
nel
teatro
della
donna
e
dell’amore
la donna
(Marta) al
centro
della scena
teatro dei miti
il mito:
come al di
là,
come
poesia,
come
eternità
1932
5
/
1936
teatro
come vita
vita come
teatro
personaggi vs
attori
attore vs
spettatore
personaggi vs
regista
Sei
personaggi
in
cerca
d’autore
Ciascuno a
suo modo
Questa sera
si recita a
soggetto
l’amore,
rapporto uomo
donna,
Marta e
Pirandello
Diana e la
Tuda; O di
uno o di
nessuno;
L’amica
delle mogli;
Come tu mi
vuoi;
Trovarsi;
Quando si è
qualcuno;
Non si sa
come
esistenza e
mito sociale
maternità e
mito religioso
poesia come
mito
La
nuova
colonia;
Lazzaro;
I
giganti
della
montagna
(La favola
del figlio
cambiato)
In una scena del suo ultimo dramma, Quando si è qualcuno, dove l’ispirazione
autobiografica sembra prevalere, Pirandello presenta un anziano poeta al quale la giovane
Veroccia rinfaccia il tempo in cui lei, innamoratissima, gli si era offerta tutta: «tutta - e tu lo
sai - tu che non hai voluto, vile... non hai avuto il coraggio di prendermi, di prenderti la vita
che io t’ho voluta dare - per te che soffrivi di non averne nessuna». È la fine del secondo atto e
il poeta, rimasto solo, si mette a parlare con tenerezza infinita a Veroccia, come se fosse
ancora presente: «... eri pronta a tutto... E ora mi rinfacci il male che non t’ho fatto... Tu non
l’hai compreso questo ritegno in me del pudore d’esser vecchio... e la vergogna dentro, la
20
vergogna allora, come d’una oscenità, di sentirsi, con quell’aspetto di vecchio, il cuore ancora
giovine e caldo». Il dramma sembra riflettere situazioni cui le lettere accennano: il non aver
voluto e non aver potuto realizzare un grande amore destinato ad ardere senza più spegnersi,
insoddisfatto, irraggiungibile, e quasi precipitato in un limbo penoso in seguito a un
misterioso episodio traumatico al quale lo scrittore allude come a un evento ben noto a Marta:
quella «atroce notte passata a Como» (lettera del 20 agosto 1926). Anni dopo (1929),
abbandonato da Marta a Berlino, Pirandello attribuirà la sua miseria a un «sentimento che
non c’è più» nel cuore dell’amata. Ma la speranza che quel sentimento possa rinascere non lo
lascerà fino all’ultimo giorno.
«Papà mio, forse non ti interessa sapere come sono andate e vanno le cose qui: te ne sei
allontanato anche materialmente e devi giudicare senza vedere e sapere, da quello che te ne arriva
lassù. Così non saprai mai come e perché e con che scopo io scrissi quella lettera. Io sapevo che mi
difendevo il mio Papà e non ho veduto altro: la maniera mi fu suggerita come la migliore, l’unica
forse. Papetto mio, tu sei l’unica persona che per qualche anno ha reso quasi felice questa mia vita
disgraziata. Ma del mio affetto a te ormai non t’importa e quindi non puoi trovarmi scuse. Sono
andata a cercarti a Milano per dirti quello che non so più scrivere, ma non m’è riuscito di sapere
dov’eri.»
Le parole di Lietta sono inutili, come inutile era stata la disperazione per la lontananza del
padre. Aveva letto e aveva sentito parlare con poco rispetto di lui: glielo avrà scritto con parole che
lo avranno ferito. Lietta avrà mancato di prudenza. Ma non è del tutto colpevole: quella lettera
l’hanno incitata a scriverla, soltanto lei può permetterselo, le hanno detto. »
Ai primi d’agosto del 1926 Pirandello torna a Roma per pochi giorni; i rapporti tra i figli
sono diventati burrascosi. Stefano e Fausto, che vedono Lietta vivere in grande agiatezza mentre
Manuel spesso ritarda il pagamento dei loro assegni vogliono chiarimenti: nel villino di via
Onofrio Panvinio urla e grida contrassegnano la tragedia di una famiglia disunita. Pirandello
si rende conto della tragica situazione finanziaria in cui versa; Lietta e Manuel, sono accusati di
sperpero e di appropriazione di somme di denaro e Manuel non ha la possibilità di difendersi e di
provare come tutte le sue azioni siano state rivolte a migliorare le condizioni finanziarie della
famiglia (la stessa costruzione del villino potrebbe confermare le sue parole, che con l’annesso
terreno ha un valore di circa un milione) facendo anche in modo che queste non risentissero delle
disperate condizioni in cui versava la compagnia, per le quali Pirandello versa grandi somme e il 4
ottobre 1925 (quasi un anno prima) era arrivato perfino ad inviare un telegramma a Mussolini
pregandolo di intervenire tempestivamente per evitare per sè e per la propria famiglia la bancarotta.
Manuel e Lietta sono costretti ad abbandonare la casa e restano privi di mezzi finanziari: Pirandello
aveva fatto perfino bloccare il loro conto corrente. Vengono ospitati dalla zia Lina a Viareggio
finché non raggranellano la somma per pagarsi il viaggio di ritorno in Cile che avverrà l’anno
seguente; i rapporti stessi fra i due coniugi diventano difficili, Lietta si sente sola e isolata dalla
famiglia e non può ricorrere a nessuno nei momenti più dolorosi.
Del doloroso episodio così scrive a Marta Abba il 5 agosto:
Cara Marta,
posso darti finalmente qualche notizia su quanto si prepara per il venturo anno comico. Ma
debbo dirti prima, che non ti ho scritto finora perché la mia casa, il giorno dopo il mio arrivo, è stata
purtroppo teatro di scene selvagge tra i miei figli e mio genero. Puoi immaginarti in quale stato
d’animo mi trovi. Sono andato giù in pochi giorni, più che in dieci anni. Ma ho ancora tanta forza in
me, da riavermi subito, appena passato questo momento di tempesta. Oggi alle 5 l’avvocato finirà
d’accertare come stanno le cose, e si deciderà la sistemazione e il modus vivendi di ciascuno. ...
21
Trascorreranno tre lunghi anni prima che possano essere in qualche modo ricuciti i rapporti
familiari, anni che non bastano comunque a far superare a Pirandello i suoi problemi finanziari, che,
ironia delle liti, solo con la vendita del villino di via Panvinio nel 1929 potranno essere appianati ma
le sue finanze non diventeranno mai floride viste le ingenti spese. Lietta ritornerà in Italia nel 1930.
Ma le parole di Pirandello saranno amare: così scrive a Marta l’11 maggio mentre si trova a Berlino
alle prese con la preparazione di Questa sera si recita a soggetto:
Ora sei a Roma, Marta mia. Speriamo che non abbia a prenderti dispiaceri, né col pubblico né con
la critica. Ma per quest’ultima ci ho i miei dubbi. Non so se vorrai vedere i miei figli, che ora sono
tutti e due a Roma. Regolati come Ti senti e come Ti pare, Marta mia, senza nessun riguardo per
me. Io non ho avuto altro da loro che amarezze senza fine, e ancora non mi lasciano in pace. È
arrivato l’altro jeri da quell’altra sciagurata che sta in America un telegramma a Roma così
concepito: “Pregovi mandarmi quindicimila posta aerea mio viaggio di ritorno, evitare conseguenze
irreparabili, avvisare papà”. Naturalmente, mi hanno subito avvisato. Scusami se Ti ho parlato di
questo. È per dirti qual è il mio animo verso i miei figli, perché Tu comprenda, che comunque Tu
pensi di regolarTi, essi sono una
Nel 1925 Marcel L’Herbier gira Il fu Mattia Pascal e chiama a interpretare la parte di
protagonista Ivan Mosjoukine, il grande attore russo che prima della Rivoluzione d’ottobre
aveva recitato in teatro la parte di Fedja Protasov de Il cadavere vivente di Tolstoj;
Mosjoukine in Francia era diventato nel periodo del cinema muto era diventato un divo:
«indimenticabile Mattia Pascal: - scrive Leonardo Sciascia in Pirandello dalla A alla Z, nonché tutti i lettori del romanzo che hanno visto il film, forse lo stesso Pirandello non riuscì
più a ricordare il suo personaggio se non con la figura, i movimenti e le espressioni di
Mosjoukine».
Tra il ’25 e il ’26, dopo una gestazione durata quindici anni, esce a puntate sulla Fiera
letteraria l’ultimo romanzo, Uno, nessuno e centomila
La disintegrazione dell’individuo in tante forme di esistere quante sono quelle che ci danno le
persone colle quali veniamo a contatto generano il problema della incomunicabilità e quindi di una
condizione esistenziale dominata dalla solitudine. Moscarda cerca di ribaltare questa situazione
generale, proponendosi come unico autore e generatore della propria forma di essere, distruggendo
subito negli altri le forme che questi si creano. Il suo modo di agire non può che essere considerato
folle dagli altri perché non allineato a nessuna delle forme che essi si sono create Alla fine a
Moscarda non resta che ritirarsi in un ospizio dopo essersi privato di tutto, per “rinascere attimo per
attimo”, come una sorta di rivincita dell’individuo sull’Enrico IV che resterà fisso nella sua follia
perché l’unica forma che gli altri gli hanno dato e che lo ha immobilizzato una volta per tutte
impedendogli di vivere.
Il 20 novembre 1926 viene rappresentata in prima mondiale allo Schauspielhaus di
Zurigo tradotta in tedesco da Hans Feist, Diana e la Tuda, la prima di una serie di drammi
che l’autore compone ispirati alla sua musa vivente, Marta Abba; l’opera ha una gestazione
abbastanza lunga: cominciata durante la tournée a Lipsia nell’estate del 1925, rappresenta il
contrasto tra movimento e immobilità, tra mutevolezza e forma. Diana e la Tuda è centrata
sul contrasto tra la vita in continua evoluzione e la forma dell’arte che la blocca immortalandola nell’espressione di un attimo fissa per sempre, mentre il vecchio Nono
Giuncano, che da anni ha distrutto tutte le sue opere, ammira nella giovane donna la forza
vitale, sacrificata alla forma immota e fredda dell’arte. L’opera verrà rappresentata in Italia
per la prima volta il 14 gennaio 1927 al Teatro Eden di Milano dalla Compagnia di Pirandello
con Marta Abba (leggere parti di Diana e la Tuda).
La Compagnia del Teatro d’Arte, che nel frattempo aveva cambiato nome diventando
“Compagnia del Teatro Argentina”, con attori protagonisti Lamberto Picasso e ovviamente
22
Marta Abba, alla fine di maggio del 1927 parte da Genova, imbarcata sulla motonave «Re
Vittorio», per una lunga tournée nell’America del Sud, toccando prima l’Argentina (debutta
il 15 giugno al Teatro Nacional di Buenos Aires dove resterà per un mese), poi l’Uruguay e il
Brasile fino al 15 settembre. Tornati in Italia, da Novembre riprendono le rappresentazioni in
alcune città italiane.
L’anno dopo, il 24 marzo, mette in scena al teatro Argentina di Roma, sempre con la sua
compagnia, il «mito» in tre atti La nuova colonia, che appariva come dramma scritto da Silvia
Roncella nel romanzo Suo marito, pubblicato da Pirandello nel 1911.
Nel gennaio 1928 finisce di comporre il dramma “onirico” Sogno (ma forse no), cominciato
nel dicembre dell’anno precedente e pubblicato sulla rivista «La lettura», il supplemento mensile
del «Corriere della Sera» nell’ottobre dello stesso anno. La sua prima rappresentazione avverrà a
Lisbona in traduzione portoghese Sonho (ma talvez nâo) il 22 settembre 1931 e in Italia dopo la
morte dello scrittore il 10 dicembre 1937 al Giardino d’Italia di Genova allestita dalla
Filodrammatica fascista del Gruppo Universitario locale.
Tra i mesi di febbraio e aprile del 1928 (secondo Alessandro D’Amico) scrive il secondo
“mito”, sulla sacralità dell’esistenza, Lazzaro.
In quello stesso 1928 il figlio Stefano si sposa con Pompilia D’Aprile, una modella di Anticoli
Corrado, dove, come abbiamo visto, aveva trascorso molte villeggiature estive, e nell’anno seguente
nascerà il loro primo figlio Pier Luigi.
Nell’agosto dello stesso anno la compagnia del Teatro d’Arte di Pirandello, oberata dalle
pesanti e irrisolte difficoltà economiche, si scioglie. È un momento di grande amarezza, nel
quale si rende conto di essere abbastanza isolato nel panorama del teatro italiano, gestito da
poche persone prive di scrupoli.
1928 Bisogna, bisogna andar via per qualche tempo dall’Italia, e non ritornarci se non in
condizioni di non aver più bisogno di nessuno, cioè da padroni. Qui è un dilaniarsi continuo, in
pubblico e in privato, perché nessuno arrivi a conseguire qualche cosa a cui tutti spudoratamente
aspirano. La politica entra da per tutto. La diffamazione, la calunnia, l’intrigo sono le armi di
cui tutti si servono. La vita in Italia s’è fatta irrespirabile. Fuori! fuori! lontano! lontano!
Pirandello si reca dunque in «volontario espatrio», partendo probabilmente il 9 ottobre
da Milano, a Berlino insieme con Marta accompagnata dalla sorella Cele; da metà dicembre
vanno ad abitare, sempre in camere contigue, al numero 9 di Hitzingstrasse fino a metà febbraio
1929, quando si trasferiscono all’Hôtel Herkuleshaus in Friedrich-Wilhelmstrasse che diventerà la
residenza abituale di Pirandello a Berlino.
A Berlino intreccia subito febbrili trattative con agenti tedeschi e americani per entrare
nel mondo del cinema, ma le parole sono molte e i fatti nessuno, mentre i mesi passano senza
che si approdi a qualche vero contratto. Frequenta molto i teatri, conosce gente nuova,
arricchisce le sue conoscenze di nuovi elementi, è interessato fortemente agli spettacoli dei
registi espressionisti come Max Reinhardt, Erwin Piscator e Jessner. E per la novità e
l’originalità delle soluzioni tecniche adottate lo affascina soprattutto Reinhardt, regista che
tra l’altro aveva messo in scena, i Sei personaggi nel ’24. Di questi registi non condivide, però,
l’autonomia spregiudicata dal testo scritto e dalle indicazioni dell’autore, arrivando a creare
una messa in scena che tendeva a ri-creare il testo al di là di una pur legittima interpretazione
registica.
Il 13 marzo 1929, dopo cinque mesi di quasi convivenza, Marta abbandona Pirandello a
Berlino e fa ritorno in Italia, dove cerca subito di reinserirsi nel mondo teatrale: ma le difficoltà
sono tante, anche perché i sei mesi trascorsi lontano l’hanno fatta praticamente uscire dal giro,
anche lei oggetto del boicottaggio che da molte parti viene effettuato nei confronti di Pirandello.
23
Il 22 marzo, Pirandello riceve da Mussolini il telegramma col quale gli annunzia la
nomina ad Accademico d’Italia: “Sono lieto di parteciparle che Sua Maestà il Re su mia proposta
ha nominato la S.V. Accademico d’Italia per la classe delle lettere” (Lettera a Marta Abba del
22/3/1929). Pirandello risponde: “Sopratutto orgoglioso Suo alto riconoscimento ringrazio
Eccellenza Vostra grande onore e torno a esprimerLe mia intera profonda devozione.”
Il 9 luglio 1929 viene rappresentato in prima assoluta il dramma Lazzaro al Royal Theater di
Huddersfield nella traduzione inglese di C.K. Scott Moncrieff e nello stesso anno in prima italiana a
Torino, al Teatro di Torino, dalla Compagnia Compagnia Marta Abba il 7 dicembre, destando molte
perplessità nella critica contemporanea
(ho dato a ’’Sara’’ la parte più importante di tutto il lavoro, l’ho posta in tutti e tre gli atti e al
centro dell’azione, sulla scena più grande e più bella col figlio, in preminenza sul figlio stesso)
facendo in modo che sia una voce coraggiosa su la vita e la morte, sul Dio dei vivi e il Dio dei
morti (proprio il Fascismo e il Vaticano) intesi soprattutto come unità politiche e umane radicate
nella vita quotidiana.
Lazzaro, comunque, non avrà il successo sperato né al Teatro Torino di Torino dove viene
rappresentata il 7 dicembre 1929 dalla Compagnia di Marta Abba con Marta nella parte di Sara, né
al Teatro Olimpia di Milano con la Melato nella parte di Sara, nonostante l’accorrere di Pirandello a
collaborare alla nuova messa in scena: l’insuccesso non è clamoroso ma è sicuramente penoso e la
critica sottolinea con forza gli aspetti più negativi dell’opera rimanendo perplessa per il modo con
cui l’ateo Pirandello tratta l’argomento.
Pirandello è disperato per il suo amore non corrisposto e in certi momenti gli balena nella
mente perfino l’idea del suicidio; i suoi giorni trascorrono in uno stato di depressione e prostrazione
psicologica sempre più grave gravi, dovute proprio al silenzio di Marta, che, presa anche com’è
dalle pesanti cure per la sua Compagnia, gli scrive troppo poco e definisce le esternazioni amorose e
le espressioni della dolorosa sofferenza del suo stato d’animo e del suo amore “totale”, rivolto
unicamente a lei escludendo ogni e qualsiasi altro affetto, come “parole inutili”. Ma il suo cuore ha
bisogno proprio di quelle “parole inutili”, nelle quali si trova veramente tutta la sua vita, come le
scrive l’8 maggio: E io avrei tanta sete di “parole inutili”! Ora che sono alla vigilia di una grande
fortuna, ora che forse la porta della ricchezza mi è aperta, vedo tutta la mia miseria. Non ho nulla!
Sono in una lontananza, in una solitudine, che fa spavento. E se grido quello che sento, tutto lo
spavento di questa lontananza e di questa solitudine, son “parole inutili! “. I-nu-ti-li: devo morire
in questa lontananza e in questa solitudine. La Gloria? la Ricchezza? Tu, primo che passi per la
via, le vuoi? te le do, te le do per nulla, te le do in cambio della ventura che a te, pover’uomo, può
toccare, ritornando a casa, di sentirti dire una “parola inutile”!
Il 1930 è indubbiamente caratterizzato dalla messa in scena del terzo «dramma da fare»
Questa sera si recita a soggetto, nato dalle considerazioni sul rapporto tra opera scritta e operazione
teatrale, tra rispetto del testo e libertà di reinterpretazione sia sul piano della recitazione che su
quello della messa in scena. L’opera viene rappresentata per la prima volta, e con grande successo,
a Königsberg alla fine di febbraio; e il successo è tale che la recita tiene il palcoscenico per
parecchie settimane. Ma quando viene rappresentata a Berlino il successivo 31 maggio al Lessing
Theatre con la cattiva regia di Gustav Hartung, al terzo atto alcuni spettatori, sobillati dal nemico
Feist e da un gruppo di accesi nazionalisti, insorgono trasformando il teatro in una vera e propria
bolgia.
Il fallimento di Questa sera si recita a soggetto al Lessing Theater segna una svolta nella sua
posizione riguardo all’esilio volontario in terra straniera, ritenendosi osteggiata dalla sua patria:
credeva di aver trovato una seconda patria, ma si ritrova con un pugno di mosche in mano.
24
Così ne scrive nella sua lettera a Marta Abba il giorno dopo:
Marta mia,
dunque, come Ti telegrafai, serata tempestosa. M’è parso di ritornare alla “prima” dei “Sei
personaggi” a Roma. Ma la tempesta di quella serata memorabile fu scatenata da nobili passioni, fu
l’urto violento dei giovani contro i vecchi; iersera invece fu l’osceno livore d’una masnada
d’invertiti che si scatenò aizzata dal Feist, dalla sua famigerata cugina, e da altri del gruppo
Reinhardt e da altri avversarii dell’Hartung e del Saltenburg. Questa oscena gente, ostensibilmente,
nel foyer del teatro, prima che cominciasse lo spettacolo, ha fatto la prova dei fischietti di cui s’era
armata venendo a teatro. Parecchi son corsi in palcoscenico a darne l’annunzio e il panico s’è
diffuso tra gli attori. Più di tutti se ne spaventò l’Andersen che faceva la parte di “Rico Verri”.
Eroica fu invece la Lennartz che difese e sostenne fino all’ultimo il lavoro, trascinando tutta la sala
ad una impetuosa e veemente reazione. Purtroppo il lavoro offriva il fianco ai nemici per la sua
pessima iscenatura. Te n’ho parlato jeri. Tutto lo spirito dell’opera era smarrito nell’incomprensione
assoluta dell’Hartung, tutto il brio perduto, ogni particolare slegato, guizzante di per sé
scompostamente, come un pezzo di serpe staccato. Chi conosceva la commedia per averla letta non
sapeva più riconoscerla alla rappresentazione. Ogni senso, ogni valore era scomparso. Tutto è
sembrato arbitrario; nessuno, anche per il panico degli attori, capiva più perché tutte quelle scene si
susseguivano senza nesso, pazzesche. Pareva un’orchestra in cui, cacciato via il direttore, ogni
strumento si fosse messo a sonare per conto suo. E i fischietti del pubblico sonavano dal canto loro,
guazzanti in una gioja che non Ti dico. Io, guardando dal palco, mi divertivo un mondo. Alla fine,
la reazione della maggior parte del pubblico (più dei tre quarti del teatro) prese il sopravvento, e
allora scoppiò un delirio d’applausi, un uragano d’ovazioni; ma solo per me, per me e per la
Lennartz che, come Ti dicevo, fu eroica, perché fu l’unica a non smarrirsi, e di questo il pubblico
volle rimeritarla. Le chiamate non potei contarle; non finivano più! I malintenzionati, fatto il guasto
che volevano, se n’erano andati; e allora si vide com’erano pochi, perché il teatro rimase pieno ed
erano tutti in piedi a gridare evviva e a rompersi le mani applaudendo.
Come puoi figurarti, non ho provato alcun compiacimento per tutta questa dimostrazione. Il
lavoro, per me, era stato ucciso dall’Hartung. Mancandomi il palcoscenico, ero disarmato e
sconfitto. Per me aveva vinto chi aveva fischiato; avrei fischiato anch’io, in luogo d’inchinarmi a
quegli applausi e a quelle ovazioni, che volevano farmi piacere e m’urtavano.
Vedi, Marta mia, che avevo tutta la ragione di sentirmi agitato. Ho presentito la tempesta. Ho
pensato anche al Feist; ero stato messo sull’avviso che qualche cosa si preparava contro di me e
contro il lavoro. Non ho voluto far nulla per impedirlo, per non scendere al livello di quella sporca
gente. Avrei voluto la sicurezza del palcoscenico; e questa mi mancava, per difendermi e andare
contro il pubblico, come sono sempre andato. Non mi restava altra arma che la serenità della mia
coscienza, e questa l’ho conservata intera, fino all’ultimo, fino a respingere, nel mio intimo,
sdegnosamente tutto quel trionfo finale, fatto alla mia persona e non all’opera mia orribilmente
ferita e mancata.
Questa è Berlino. M’è parso jer sera d’essere in Italia. Non so più ormai dove me ne debba
andare. Gli odii m’inseguono da per tutto. Forse è giusto così: che me ne vada dalla vita, così,
cacciato dall’odio dei vili trionfanti, dall’incomprensione degli stupidi che son la maggioranza; e in
punizione di tanti miei peccati che Tu, spirito veramente eletto, mi hai sempre rimproverati.
Berlino 2. VI. 1930: Di questo tanto livore contro me e l’arte mia la mia Marta non deve più
soffrire. Io Ti faccio, Marta mia, veramente male, non male alla Tua grandezza, ma male al
riconoscimento della tua grandezza. Io dovevo notare l’ingiustizia dell’appunto, ma io stesso ti dico
(e già ebbi a dirtelo un’altra volta) che - dato che io sono tanto odiato e inviso a tutti - non so perché
25
- è bene, è bene sì che d’ora in poi mi lasci da parte anche Tu. Per chi si ama come io Ti ama è una
gioia anche morire.
Ma sono anche giorni drammaticamente dolorosi, come ci attestano le lettere che scrive a Marta:
Non voglio affliggerti; ma d’altra parte, se non ho di vivo in me altro che questa disperazione senza
rimedio; e tutto il resto, le notizie che potrei darti, le cose che m’avvengono, i casi che mi càpitano,
non hanno più per me né senso né valore? La vita mi s’è come spenta, dopo quanto m’hai detto e
lasciato intendere chiaramente, e il vuoto più orrendo mi s’è fatto dentro e intorno. Non so quanto
potrò durare in questo stato. Sono come un morto che cammina che fa atti tanto per farli, che dice
parole tanto per dirle: senza vederne più né lo scopo né la ragione. Oggi o domani mi stancherò di
stare in piedi e stramazzerò a terra. Aspetto quest’estremo di stanchezza, se la disperazione, prima,
cogliendo qualche momento più atroce, non mi vincerà, armandomi la mano per farla finita.
In quei giorni viene proiettato il film La canzone dell’amore, del regista Gennaro Righelli, la
cui sceneggiatura è liberamente tratta dalla novella di Pirandello In silenzio, pubblicata per la
prima volta nel 1905 in «Novissima», Albo d’arte e lettere: è il primo film sonoro prodotto in
Italia col parlato in italiano e riscuote un certo successo inserendosi nel mercato
internazionale.
Ma è sempre al solito: le esigenze dell’arte e le ragioni dello spirito non son vedute, e son
sacrificate alle esteriori comodità della casa. Forse ha ragione chi vede soltanto queste, e noi siamo
due poveri pazzi. Io almeno, per conto mio, mi stimo tale: senza più casa, senza più nulla; ho dato a
tutti tutto quello che avevo; disposto a dare ancora e sempre tutto quello che ho, nessuno più [mi]
vuole, tutti, dovunque vada, mi fanno capire che sono di più, e che è bene che me ne vada e stia
lontano. Me ne andrò. Devo morir solo: voltare la faccia al muro e chiudere gli occhi per sempre, se
non voglio più vedermi e sentirmi attorno questa disperata solitudine e quest’orrendo abbandono.
Ma dove andare? Ricevo, da Torre, il biglietto che Ti accludo. Vado a Parigi perché, a restare in
Italia, sarebbe veramente troppo questo strazio d’esser privato dell’unica ragione di vita che ormai
mi resta, quella di almeno vederti e sentirti, separato non dalla distanza, ma da un’altra ben più
grave ragione, che mi sta facendo morire: il Tuo cessato sentimento per me. Perdonami, Marta mia,
questo sfogo che mi è venuto, senza volerlo. Se sapessi com’è gonfio d’amarezza il mio cuore, e in
quali condizioni di spirito mi trovo! Non posso più lavorare; non so più che fare! Non ne fo colpa a
nessuno; meno che mai a Te! È giusto, è giusto che Tu mi voglia lontano, perché è giusto veramente
che io muoia. Troppo ho tardato. E la vita, che non mi doveva riprendere, è ormai tempo che si
concluda così.
Il suo animo ci è rivelato da una delle rare lettere indirizzate quasi sempre ai tre figli
insieme: ecco una lettera del gennaio del 1931:
«Ah figli miei che vi siete messi ciascuno per sé nella sua vita, come avete voluto, o era destino
che fosse, come posso volervi più io e che altro volete ormai più da me? Io sono condannato a
questa atroce solitudine, e affogo in una tristezza senza più riparo né altro scampo, fuori che
nella morte. Voi non potete darmi ajuto, né io posso darvene, per il male che tutti staccandoci
per forza ci siamo fatti. Né a tornar col pensiero a quando si era tutti insieme, c’è da esser
lieti: quanto male anche allora, che ancora duole! Per un disperato è già qualche cosa non
aver da rimpiangere, ricordando. Disperato fisso, senza né su né giù di provvisorie altalene.»
Pirandello scrive ancora: Nulla ho più di quel che volevo; e così senza più nulla, seguito a vivere
per gli altri e non più per me (è una frase contenuta in un’altra lettera che cito più avanti). Possiamo
pensare che il desiderio di Luigi sarebbe stato di avere attorno a sé un più sereno mondo affettivo?
Possiamo spiegarci così, solo così, l’amarezza di quegli anni? Amarezza che si vede nei ritratti e
che si legge nelle sue lettere. La vita gli è rimasta deserta (un’atroce solitudine, ripete a
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Bontempelli). Non ha nulla di quel che voleva. E così, pur senza nulla, seguita a vivere, a vivere per
gli altri,
In gennaio viene allestita a New York con grande successo la prima di Come tu mi vuoi
(As you desire me) al Maxine Elliott Theatre di Broadway che sarà replicata per ben 142 volte. In
febbraio cede i diritti di Come tu mi vuoi per la versione cinematografica alla Metro-GoldwinMayer per la somma di quaranta mila dollari, allora enorme, con la quale Pirandello può cullare il
sogno americano di un arricchimento lauto e rapido vendendo i diritti delle sue opere alle case
cinematografiche. Soprattutto si aprono orizzonti nuovi di lancio della sua opera nel mondo in
traduzione inglese (È un’opera colossale di lanciamento in tutto il mondo. Quello che non è stato
mai fatto finora per me, sarà fatto: tutto il corpo delle novelle, dei romanzi, del teatro, tradotto in
tutte le lingue e diffuso da per tutto; sviluppati tutti i soggetti capaci di sfruttamento
cinematografico.). Da tutta Europa e dall’America numerose sono le richieste di rappresentazione
delle sue opere; perfino la Comédie Française si dimostra propensa ad aprirgli le porte, e sarebbe la
prima volta per uno scrittore non francese vivente dalla Rivoluzione in poi (prima c’era stato
Goldoni). La Società degli Autori Francesi lo elegge membro effettivo, un onore raramente
concesso; da Berlino gli arrivano attestati numerosi di stima quasi a dimenticare lo sgarbo della
terribile serata della prima rappresentazione di Questa sera si recita a soggetto. In marzo si incontra
ancora con Shubert, e questa volta, insieme alla vendita dei diritti de La nuova colonia, cerca di
intavolare una trattativa per una tournée americana di una Compagnia italiana con protagonista
ovviamente Marta Abba per interpretare soprattutto opere di Pirandello.
Per alcuni giorni Pirandello lascia Parigi per recarsi a Roma e nella sede dell’Accademia
d’Italia il 3 dicembre tiene una conferenza commemorativa su Giovanni Verga, che il giorno
dopo uscirà sulla rivista «Il Tevere». In essa distingue due categorie di scrittori: da un lato Dante
Machiavelli Ariosto Manzoni Leopardi Verga ai quali sempre si ritorna con studio e con amore,
scrittori costruttori “dallo stile di cose”; dall’altro Petrarca Guicciardini Tasso Monti D’Annunzio,
scrittori riadattatori “dallo stile di parole”: Dove non c’è la cosa, ma le parole che la dicono, dove
vogliamo esser noi per come la diciamo, c’è, non la creazione, ma la letteratura, e anche,
letterariamente, non l’arte ma l’avventura, una bella avventura, che si vuol vivere scrivendola, o
che si vuol vivere per scriverla. La conferenza desta clamore per il suo attacco a D’Annunzio che
era uno dei fiori all’occhiello del regime fascista e godeva di una grande popolarità non solo per le
sue opere (La figlia di Jorio rappresentata ripetutamente in quegli anni, era stata allestita con la
regia dello stesso Pirandello) ma anche per le sue azioni e le vicende della sua vita.
Il 13 marzo viene ricevuto dal Duce; così il giorno dopo descrive a Marta la sua visita:
Ho tardato un giorno a risponderti perché per jeri sera era fissato il mio colloquio col Duce, e,
scrivendoti, volevo informarTi dell’esito di esso. Magnifico. Sono stato accolto con la massima
cordialità, e trattenuto a parlare di tutto per circa un’ora. Appositamente il colloquio era segnato in
fondo alla nota della giornata, perché, essendo l’ultimo, potesse durare più a lungo di tutti gli altri.
“Oh Pirandello, finalmente vi si rivede! Godo di trovarvi più fresco e più giovine che mai!
Sedete.” Queste sono state le sue prime parole. Notai subito, fin dalla sua prima domanda: “Che
contate di fare?” che egli voleva veramente entrare a parlare con me di cose precise e interessanti, e
non tenere il discorso sulle generali, parlando del più e del meno, senza alcun vero interesse. E
allora presi a dirgli tutto quello che avevo in animo di dirgli - tutto - dall’a alla zeta - mi svuotai sentendo, man mano che parlavo, che tutto ciò che dicevo era giusto, col tono appropriato, altero e
sereno, ogni cosa guardata dall’alto, non dettata da un interesse particolare, da un risentimento
meschino. Tanto è vero, che mi lasciò parlare e parlare, senza interrompermi mai, se non con brevi
esclamazioni di consenso - “è vero” - “è così” - “senza dubbio” - gli occhi acuti e lucidissimi fissi
nei miei, e il bel sorriso intelligente sulle labbra, che dava a vedere il godimento di sentirmi parlare
così. Tu puoi bene immaginarti, Marta mia, tutte le cose che gli dissi, in un’ora di conversazione;
non tralasciai nulla, nulla. Sarebbe lungo esporti tutto per filo e per segno; te lo riferirò a voce al
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mio prossimo ritorno a Milano. Ti basti per ora sapere che a un certo punto, quando gli parlai del
mio progetto dei dieci teatri regionali presentato alla Società degli Autori perché gli fosse rimesso,
batté un pugno sul tavolo irosamente, esclamando: “Voi potete ben credere che codesto progetto
non mi è stato rimesso! Ne domanderò conto e ragione alla Società degli Autori.” E prese subito
l’appunto. Volle esposto da me particolareggiatamente il progetto col più vivo interesse, e alla fine
mi disse: “Credo veramente che sia la via più giusta per risolvere la questione del teatro in Italia.
Non dubitate, Pirandello, studierò questo vostro progetto e vi saprò dire quello che penso”. Queste
furono le sue ultime parole. Io sono uscito dal colloquio molto contento di lui e di me. E ne sarai
contenta anche Tu, Marta mia, quando Ti riferirò tutto a voce, punto per punto. [...] Sono pieno di
fede e di fervore. Spero veramente che questa mia venuta a Roma porterà frutti da far cambiare le
sorti del teatro italiano. Forse farò una scappata a Milano per intendermi con Te, e poi ritornerò qua
a Roma dove la mia presenza è utilissima in questo momento.
Il 1932 è anche l’anno del film, che ottenne un considerevole successo, As you desire me,
(Come tu mi vuoi) girato dalla Metro Goldwin Meyer con la regia di George Fitzmaurice con
un cast d’eccezione: Greta Garbo, Melvin Douglas ed Eric von Stroheim
L’ultima opera scritta all’estero, elaborata a partire dal 1930, è conclusa verso la fine di
maggio, è La favola del figlio cambiato, tre atti in cinque quadri o episodi, condotta avanti
come preparazione al mito de I giganti della montagna, ed è imperniata sul tema della
maternità, che per Pirandello assume un valore altamente sacro. L’opera diventa un libretto
per il Maestro G.F. Malipiero, al quale l’Autore dà ampia facoltà di ritoccare il testo secondo
le esigenze musicali e della sua ispirazione, facoltà di cui il musicista non si avvalse; verrà
pubblicata nel 1933 e rappresentata per la prima volta a Braunschweig l’anno dopo (1934).
La creazione di stadii (il gioco del calcio aveva ormai assunto un’importanza notevolissima e
proprio due anni dopo l’Italia diventerà per la prima volta Campione del Mondo vincendo la coppa
Rimet) e di cinematografi, la nuova arte che stava avendo un rapidissimo sviluppo tecnico.
Pirandello resta come interdetto di fronte alla nuova sconvolgente realtà. Viene assalito da un senso
di stanchezza, impazienza e delusione per mille impacci causati sia dai collaboratori che dalla
situazione di tensione politica in Italia e all’estero. Le prospettive d’immensi guadagni, che
apparivano sicuri pochi mesi prima, non si realizzano. Il lavoro per il teatro nazionale continua,
ma nel cuore di Pirandello a poco a poco il dubbio si sostituisce all’entusiasmo: il Maestro
incomincia a sospettare che, se il governo stanzierà capitali notevoli per il teatro, la solita
«mangiatoia» dei soliti profittatori verrà a distruggere la riforma stessa (Ortolani).
Il 1934 è un anno importante, che culmina con l’assegnazione del premio Nobel.
Il 13 gennaio c’è la prima mondiale de La favola del figlio cambiato al Landestheater di
Brunswick nella traduzione tedesca curata da Hans Redlich col titolo Die Legende vom
vertauschten Sohn, musicata dal Maestro G.F. Malipiero, musicista d’avanguardia interessato alla
musica atonale particolarmente apprezzata in Germania, al quale l’opera era stata offerta nel 1932.
L’opera viene riprenentata a Darmstadt il 3 marzo, ma non viene replicata per un divieto delle
autorità. Scrive Roberto Alonge:
La Favola contrappone … la felicità delle Terre del sole alle brume del regno del nord del
Principe, facilmente identificabile come area di lingua tedesca (i «marinaretti stranieri” del Principe
gridano infatti nel terzo quadro: «Trinchevàine! Trinchevàine! / Mit Froilàine! Mit Froilàine!»). Il
demente Figlio-di-re rispedito in patria come sovrano dell’imprecisato regno nordico poteva anche
essere letto come un’irriverente e delittuosa allusione a Hitler. Per non dire dell’azzeramento dei
valori della gerarchia, dell’autorità, della politica in genere, a favore di una irresponsabile
regressione nel rassicurante cosmo uterino. Ce n’era abbastanza per spiegare la caduta dell’opera.
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Arriva subito un ordine espresso di Mussolini che vieta le repliche dell’opera, interpretata
dal regime e da maligni articoli critici pubblicati sulla stampa già da molti giorni, come offensiva
per la religione e ancor più per la monarchia, che addolora profondamente Pirandello che ancora
una volta resta sorpreso di fronte alle decisioni della politica che sono dettate da uno spirito così
diverso dallo quello che anima la creazione di un’opera d’arte.
Sempre 1934 Convegno Volta di è nominato presidente
Come rappresentazione Pirandello dà la preferenza al dramma La figlia di Jorio di Gabriele
D’Annunzio, la cui scelta avrebbe rappresentato da un lato una sorta di riappacificazione fra i due
scrittori dopo il crudo discorso su Giovanni Verga di Pirandello con la distinzione fra scrittori di
parole (D’Annunzio) e scrittori di cose e di una rimozione dei risentimenti dei politici e degli
intellettuali che gli erano ostili per la sua polemica antidannunziana, e dall’altro un rimettere in
moto i rapporti con il fascismo turbati in qualche misura dalla rappresentazione de La favola del
figlio cambiato.
Il dramma, con scene e costumi del grande Giorgio De Chirico, fu rappresentato con la regia
dello stesso Pirandello al Teatro Argentina. Accanto a Marta Abba (ovviamente invitata a
rappresentare la parte di Mila di Codra) recitarono Ruggero Ruggeri (come trent’anni addietro in
occasione della Prima assoluta nella parte di Aligi), Giulio Donadio (Lazaro), Teresa Franchini
(Candia), Cele Abba, Elena Pantano, Franca Dominici (le tre sorelle), Achille Majeroni (un
mietitore) e Gina Graziosi (la vecchia delle erbe).
Il 13 dicembre al Teatro Argentina c’è la Prima italiana di Non si sa come con un grande
successo sottolineato dal pubblico con ovazioni all’autore che ormai appare vecchio e malato, come
annota anche Corrado Alvaro nella sua Prefazione alle Novelle per un anno a proposito degli ultimi
mesi della vita del Maestro. Ma il successo non soddisfa Pirandello:
È stato uno strazio da parte degli attori, a cominciare sopratutto da Ruggeri, che non ha inteso
minimamente né lo spirito né la situazione del protagonista; non ha mai vibrato, non ha mai detto
come doveva dire le sue parole. Prima di tutto, non le sapeva! Se il suggeritore non gliele soffiava,
non andava avanti! E gli altri, che cani, Marta mia! Sì, il successo ci fu, e grande; ma che vuoi che
m’importi del successo, se la mia opera mi è stata uccisa sotto gli occhi sulle tavole del
palcoscenico? Il pubblico è stato generoso, e mi ha voluto solo alla fine per farmi un’ovazione
interminabile, forse a compensarmi dello strazio che mi era stato inferto. Ci sono stato male due
giorni; la stanchezza, la macerazione, mi hanno prostrato, finito. Non Ti dico che cosa è stato per
me ricevere le congratulazioni di tutto un popolo dei varii Alfieri, Bodrero, Di Marzio e infiniti
altri, alla fine del secondo atto. Quando sono rincasato, avevo la febbre, che m’è durata tutto ieri.
Non ho potuto prendere un boccone e son rimasto tutto il giorno a letto. Ah, basta, basta col
teatro…
Non si sa come, che lo occupa per gran parte dell’estate e viene concluso ai primi di settembre.
Il dramma risulta una sapiente combinazione dei temi di ben tre novelle: Nel gorgo (1913), La
realtà del sogno (1914) e Cinci (1932)
Il 1936 si apre con l’accantonamento del “Progetto per il teatro Nazionale” da parte del
Governo, che intende “concentrare tutte le risorse nella costruzione di Cinecittà per produrre
film di propaganda per le masse e Pirandello non ne potrà più vederne la realizzazione.
Qualche riforma dovrebbe portare a una migliore situazione del Teatro in Italia, ma i risultati
sono piuttosto scarsi anche perché i sussidi governativi, distribuiti apparentemente a caso,
finiscono nelle tasche di capaci e incapaci e delle solite persone “profittatrici”, che sembrava
avessero perso peso politico nelle ultime stagioni
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Dal 15 al 18 luglio lo troviamo a Venezia per le rappresentazioni goldoniane allestite da Renato
Simoni, quindi torna a Roma passando per Milano dove fa visita ai genitori di Marta. Da Roma
riparte subito per Anticoli dal figlio Fausto, ma psicologicamente aumenta la stanchezza e la sua
irrequietezza: potrebbe essere un momento di serenità, “Ma - scrive il 27 luglio a Marta - il mio
animo è in continuo ribollimento, e la pace non è fatta per me. Bisogna che io vada fuggendo,
per non sentire questa mia atroce solitudine e il tormento non meno atroce di dover nascondere
la mia gioventù sotto questa apparenza di vecchio!”.
Pirandello si spegne di polmonite il 10 dicembre alle 8.55.
Tra le sue carte si scoprono le sue ultime volontà, scritte su un foglietto ingiallito:
“ MIE ULTIME VOLONTÀ DA RISPETTARE ”
I. Sia lasciata passare in silenzio la mia morte. Agli amici, ai nemici preghiera, non che di
parlarne sui giornali, ma di non farne pur cenno. Né annunzii né partecipazioni.
II. Morto, non mi si vesta. Mi s’avvolga, nudo, in un lenzuolo. E niente fiori sul letto e
nessun cero acceso.
III. Carro d’infima classe, quello dei poveri. Nudo. E nessuno m’accompagni, né parenti
né amici. Il carro, il cavallo, il cocchiere e basta.
IV. Bruciatemi. E il mio corpo, appena arso, sia lasciato disperdere; perché niente,
neppure la cenere, vorrei avanzasse di me. Ma se questo non si può fare sia l’urna cineraria
portata in Sicilia e murata in qualche rozza pietra nella campagna di Girgenti, dove nacqui.
“Arrivò il rappresentante del Governo - scrive Corrado Alvaro - e lesse sbalordito quel
mezzo foglio… Lesse e rilesse quel foglio, se lo copiò, e si domandava come avrebbe fatto a
presentarlo al Duce. Un grande uomo, un uomo celebre che va via in quel modo, chiudendosi
la porta alle spalle, senza un saluto, senza un pensiero, senza un omaggio sovratutto,
chiedendo di essere coperto appena di un lenzuolo ma da nessuna uniforme, da nessuna
camicia nera come era di rito, andare via come un povero, senza commemorazioni, senza
feste. Il rappresentante del Governo era un bravo tipo e umano, ma doveva risponderne al suo
capo, e il capo non poteva raggiungere un uomo nella morte; almeno la morte era cosa tutta
privata; la sola, allora. Disse: « Se n’è andato sbattendo la porta ». Di fronte alla perplessità di
quel funzionario, c’era da misurare una condizione umana, e veniva fatto di invidiare colui
che era dileguato a quel modo con la sua morte, rifiutando quegli onori per cui gli artisti
vanitosi si compiacciono di contemplarsi perfino nella morte, e senza paura delle vendette che
si potevano fare sulla sua memoria. E fu istruttivo, in quelle ventiquattr’ore, sapere che sul
tavolo del più potente tra i cittadini si battevano indignati i pugni, che ufficialmente era
negato allo scomparso un discorso maggiore di quello consentito a un fatto di cronaca, che
uno, autore di un racconto col titolo C’è qualcuno che ride, annunciava il nulla a tutta la gloria
e a tutta la potenza, ed era lui che rideva. Pirandello, nel punto supremo del suo destino
terreno, affermava di essere libero e solo. Affermò di essere libero soltanto nella morte.”
Il giorno dopo, i funerali: un carro senza accompagnamento si avvia verso il cimitero del
Verano, dove il 13 il suo corpo verrà cremato e le ceneri conservate per dieci anni, secondo le
norme vigenti. “Chi fu incaricato di andarle a rilevare nel deposito del Verano stentò alquanto a
ritrovarle” (Giudice, cit. p. 548). Era il 1946; scortate dall’on. Gaspare Ambrosini, deputato
all’Assemblea Costituente, che aveva ottenuto le debite autorizzazioni ministeriali, le ceneri
giungono ad Agrigento su una littorina appositamente allestita su preghiera dello stesso Ambrosini,
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dopo che i piloti dell’aereo, concesso dalle Forze armate americane si rifiutarono di prendere il
volo, simulando un’avaria, intimorite da una voce che si era sparsa rapidamente: che la volontà di
Pirandello di far spargere al vento le proprie ceneri dovesse realizzarsi proprio durante questo
volo e per cause accidentali. Le ceneri, conservate in un’anfora greca prediletta da Pirandello
stesso, furono conservate per 15 anni prima nel Museo Comunale e poi nella casetta del Kaos, che
con Decreto del Presidente della Repubblica dell’8 dicembre 1949 (n. 1170) era diventato
«Monumento nazionale». Infine sepolte in una roccia che si trova non lontano dalla casa,
ombreggiata dal famoso «pino di Pirandello»
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